Cristianesimo Il Cristianesimo nasce duemila anni fa nella terra di
Israele in seguito alla predicazione di un ebreo, Gesù di Nazareth. Gesù era un
predicatore itinerante che raccolse attorno a sé un movimento composto dai più
diversi strati della popolazione ebraica con un nucleo di discepoli più
ristretto. Gesù auspicava l'avvento del regno di Dio e cioè di un mondo in cui
si doveva realizzare la volontà di Dio, l'amore tra tutti gli uomini e il
rispetto della giustizia. In attesa di instaurare il suo regno, Dio concedeva il
perdono a tutti i peccatori che si convertivano e che a loro volta perdonavano a
coloro che avevano fatto loro del male. Nel giudizio universale finale Dio
avrebbe punito tutti i malvagi, ma soprattutto quelli che avevano oppresso i
poveri, commesso ingiustizie e perseguitato i giusti. Gesù ottenne successo tra
la popolazione ebraica del Terra di Isarele, ma fu fortemente osteggiato da
alcuni gruppi di potenti autorità religiose che lo denunciarono ingiustamente
presso i Romani che in quel tempo dominavano nella Terra di Israele. I Romani
arrestarono Gesù e lo misero a morte secondo il supplizio tipicamente romano
della crocifissione. Immediatamente dopo la morte di Gesù il gruppo dei più
fedeli discepoli di Gesù ebbe una serie di sconvolgenti apparizioni e credette
alla risurrezione di Gesù dando vita ad una attivissima predicazione che in
pochi decenni si irradiò in molte parti del mondo antico. Nonostante momenti di
persecuzione da parte della autorità politiche, il Cristianesimo si diffuse nei
secoli successivi fino ad ottenere un appoggio da parte dell'impero romano sotto
l'imperatore Costantino. Dalla metà del IV secolo alla metà del VI secolo si
attuò la progressiva cristianizzazione dell'impero romano. Nel VII secolo una
nuova religione, l'Islam, nata nella penisola arabica, si diffuse rapidamente in
territori che per secoli erano stati cristiani, come ad esempio tutta l'Africa
del Nord. Ma il Cristianesimo continuò la sua diffusione soprattutto in Europa,
ma anche in altre parti dell'Africa e dell'Asia. Attualmente non esiste una
sola forma di Cristianesimo. Pur essendo una religione unitaria, perché unita
dalla fede in Gesù Cristo, il Cristianesimo si presenta, infatti, suddiviso in
quattro grandi gruppi di chiese principali: le chiese ortodosse (tra le quali
si distinguono quelle storicamente riconducibili al patriarcato di
Costantinopoli e quelle riconducibili al Patriarcato di Mosca); la chiesa
cattolica (che nella sua origine dipende dalla chiesa di Roma e rappresenta il
Cristianesimo latino), le chiese orientali (come, ad esempio, la chiesa
apostolica armena che risale al III secolo e quella copta); le chiese
protestanti nate da una scissione all'interno della chiesa latina all'inizio del
XVI secolo. A partire dall'inizio del XVI secolo, grazie all'espansione delle
potenze europee in seguito allo sviluppo della moderna civiltà
tecnico-scientifica e industriale, le diverse forme di Cristianesimo si
diffusero in tutte parti del mondo. Nei primi decenni del secolo XX si è
diffuso, grazie al movimento ecumenico, nelle diverse chiese cristiane separate,
l'aspirazione alla riunificazione, che tuttavia incontra difficoltà gravissime,
poste le grandi differenze non solo dottrinali ed istituzionali, ma anche
culturali, tra le diverse chiese.
Testi sacri Il testo sacro del
Cristianesimo è la Bibbia cristiana composta di due parti: l'Antico e il Nuovo
Testamento. L'Antico Testamento è essenzialmente costituito dalle sacre
Scritture dell' Ebraismo , che tuttavia il Cristianesimo interpreta in modo
molto divergente rispetto all'interpretazione ebraica. Alcune chiese, come
quella cattolica e quelle ortodosse, ma non quelle protestanti, inseriscono
nell'Antico Testamento anche un certo numero di scritti religiosi ebraici che
tuttavia gli Ebrei non considerano rivelati da Dio. Il Nuovo Testamento è,
invece, composto da 27 opere tutte composte dai cristiani prevalentemente nel I
secolo e.v.. Fra esse sono fondamentali i quattro Vangeli: quello di Matteo, di
Marco, di Luca e di Giovanni.
Principi fondamentali Il Cristianesimo è
una religione monoteista, come l'Ebraismo da cui è sorto. I cristiani infatti
credono che esista un solo Dio. Egli è il creatore dell'universo (che perciò è
considerato una cosa buona) e tutto gli è sottomesso. Dio non solo domina il
creato, ma anche interviene nella storia e la guida orientandola verso un fine
futuro positivo. Dio fa conoscere la sua volontà mediante rivelazioni trasmesse
dai profeti i quali provvedono anche a scriverla in libri che costituiscono
appunto la Bibbia. Secondo il Cristianesimo, Dio, pur essendo uno solo, possiede
tuttavia una dinamica interna che si manifesta in tre persone divine che non
sono altro che l'unico Dio. È la dottrina della Trinità che ritiene che l'unico
Dio si manifesti nella persona del Padre, del Figlio e dello Spirito
santo. Di questa dottrina fa parte anche la credenza forse più caratteristica
del Cristianesimo, quella della doppia natura, umana e divina, di Cristo: Gesù,
pur essendo un uomo vero, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito
Santo, era anche veramente Dio. Per secoli i cristiani hanno discusso questa
dottrina e molte delle loro divergenze dottrinali possono essere ricondotte alle
difficoltà nel mettere d'accordo l'umanità di Gesù Cristo con la sua
divinità. La rivelazione di Dio ha un contenuto essenzialmente morale che si
riassume nei Dieci Comandamenti contenuti nell'Antico Testamento. L'adorazione
di un solo Dio e l'amore del prossimo sono spesso presentati come la sintesi
cristiana di questi precetti. Il Cristianesimo, tuttavia, non incita solo gli
uomini ad obbedire alla volontà di Dio spingendoli ad amare il prossimo con
tutte le proprie forze. Insiste anche sul principio secondo il quale bisogna
invocare da Dio la forza di compiere il bene. Solo la grazia di Dio rende l'uomo
capace di compiere veramente il bene. Ma, qual è il ruolo della volontà
dell'uomo e quale il ruolo della grazia di Dio? Su questo punto si sono accese
spesso divergenze profonde e anche aspre divisioni, come ad esempio nel XVI
secolo tra cattolici e protestanti. In genere tutte le forme di Cristianesimo
affermano la libertà dell'uomo e la capacità della sua volontà di compiere il
bene, ma non sono mancate concezioni pessimistiche sulla effettiva possibilità
degli uomini di dominare le inclinazioni malvagie della natura umana. Il
principio dell'unicità di Dio, della bontà della creazione e dell'amore verso
tutti gli uomini porta il Cristianesimo all'idea dell'uguaglianza tra tutti gli
uomini e tra i sessi, anche se le diverse forme di Cristianesimo nelle diverse
epoche hanno spesso accettato (come del resto le altre religioni monoteiste) le
disuguaglianze sociali, la stratificazione sociale e la subordinazione della
donna. Lo scopo della vita dell'uomo, secondo il Cristianesimo, è di
partecipare alla vita stessa di Dio. L'uomo non termina il suo destino con la
sua morte naturale; egli è destinato ad unirsi con Dio dopo la morte in una
condizione di felicità eterna. La possibilità di partecipare alla futura vita
divina è subordinata ad un giudizio di Dio che riassume tutta l'intera vita di
ogni uomo. Il Cristianesimo ha sempre sostenuto che accanto al premio della
felicità eterna sussiste anche la possibilità di una condanna eterna da parte di
Dio. GESU' STORICO Le nostre conoscenze riguardanti la storia della
Palestina al tempo di Gesù sono aumentate in questi ultimi cinquanta anni e
continuano ad aumentare in maniera tale che l’aggiornamento è possibile solo con
qualche sforzo. I motivi dell’aumento di conoscenza sono molteplici. In primo
luogo bisogna ricordare la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, i quali hanno
trascinato con sé, date le affinità evidenti, un grande interesse per i
cosiddetti “apocrifi dell’Antico Testamento”, che da tempo venivano pressoché
ignorati. Lo studio di questi ha dato vita a partire dagli anni 70 a numerose
edizioni-traduzioni. Ma mancano ancora commenti veramente approfonditi dedicati
alla maggior parte di questi. Resta difficile per ora capire per molti di essi
quale fosse l’ideologia soggiacente. Un altro elemento destinato a portare luce
sulle tendenze ideologiche che c’erano agli inizi dell’era cristiana è il targum
Neophiti che costituisce una pagina di teologia giudaica tutta da chiarire e
inserire nella storia del pensiero del tempo. Si scoprono sempre più i limiti
delle ricerche che si appoggiavano sulla mishnah. E’ ormai assodato che il
giudaismo del tempo di Gesù non era un monolito, ma era ricco di tendenze varie
e talora contrapposte. Così, Gesù non va guardato sullo sfondo del giudaismo, ma
su quello delle varie correnti del tempo. Qualcuno dice addirittura sullo sfondo
dei giudaismi. Frasi del tipo «Giacomo è più ebreo di Paolo» non hanno oggi
alcun senso e dovranno essere sostituite, eventualmente, da frasi come «Giacomo
è più vicino al farisaismo di Paolo». In ogni caso anche questa affermazione può
aver bisogno di essere modificata. In altri termini, l’uguaglianza “giudaismo -
farisaismo” non tiene più. Per orientare il lettore nel panorama delle
ideologie esistenti nella Palestina del tempo di Gesù, mi provo a stilare uno
schema dei principali punti di riferimento caratterizzanti ciascun gruppo.
Questo schema deve essere considerato un puro tentativo, perché non ho alcun
testo di questo tipo cui far riferimento. Informo che mi sono basato sulle opere
meglio conosciute, ma avverto che la singola citazione d’appoggio non è altro
che un passo che, pur essendo significativo, tuttavia trae la forza del
significato dalla struttura in cui si trova. Resta inoltre il fatto che ogni
opera ha caratteristiche proprie, per cui la categoria “corrente di pensiero” va
vista in maniera non troppo rigida. Schema delle ideologie dominanti al tempo
di Gesù a) Enochismo. L'enochismo è quella forma di religione giudaica
che a partire dall'epoca postesilica si sviluppò in maniera complessa fino al I
sec. d.C., scorrendo parallelamente al giudaismo che oggi ci appare come
ufficiale e che, più storicamente, possiamo etichettare come sadocita. Il nome
di enochismo deriva da quello del rivelatore della maggior parte delle opere che
vengono attribuite all’enochismo. Esso sembra combaciare in gran parte con
l'essenismo secondo le informazioni che abbiamo dalle fonti ebraiche di lingua
greca (Filone e Giuseppe Flavio). Opere sicuramente enochiche sono quelle in cui
il rivelatore è Enoc. Altre opere di ideologia simile a quella enochica, ma il
cui rivelatore non è Enoc, vengono inserite in quella teologia che una volta era
chiamata apocalittica oppure nel gruppo ancora più vasto e ideologicamente
indeterminato degli apocrifi1. L'enochismo si distingue dal giudaismo sadocita
per le seguenti caratteristiche che permangono durante tutta la sua
storia: 1) L’enochismo ignora la Legge mosaica2 (1H [LS] 89,27-38: episodio
del Sinai, Mosè si occupa solo del Tabernacolo; 2B 4,5). Alcune opere
fondamentalmente enochiche del II-I sec. a.C. (Giub; EE) riconoscono la Legge di
Mosè, ma subordinata alla Legge delle Tavole Celesti3 (1H [EE] 99,2), il cui
contenuto resta, comunque, in termini generici, come la condanna dei ricchi, dei
frodatori, degli idolatri 4(1H [EE] 94,6 - 103,5). Nei testi più recenti si
sviluppa l'idea dell'amore (2H/B 44,4; 50,5-6; 52,7-13; anche verso gli animali:
58, 6) come unico criterio etico5. 2) Il cosmo, nella fase più antica, è
concepito nel LV come disordine dovuto a ribellioni angeliche (1H [LV] 8 [a
livello storico], 18,15 [a livello cosmico], ma nell’introduzione, che è
posteriore, è ordine [1H 2,1]. Nel LA il cosmo è ordine. In seguito è ordine, ma
con forti presenze demoniache (Giub 5,11-12; 10,7-10) 3) L’enochismo
riconosce il tabernacolo e il Tempio di Salomone, ma non di quello sadocita (1H
[LS] 90,28; cfr. anche Giub 1,17; RT 29, 8-10). 4) Nelle opere enochiche non
c’è nessun accenno all'esistenza delle norme di purità (eccetto mangiare il
sangue: 1H [LV] 7,5; Giub 7,31; 1H [EE] 98,11 e il generico riferimento alle
offerte impure di [LS] 89,73). 5) L'impuro esiste realmente in natura come
conseguenza del peccato angelico. Questo rappresenta l'origine del male
permanente nella storia o attraverso l’impurità o attraverso l’opera diabolica
stessa (1H [LV] 10,8; 19,1; 10,7.8.22;12,4; cfr. il peccato delle sette stelle
in 1H [LV] 18,15; 21,3) ma è il senso generale del libro che porta in questa
direzione; chiarissimo il Truben 2,1-3. 15). 6) La storia (periodizzata in
eoni) è predeterminata, ma l'individuo è libero e responsabile (Giub: cfr. anche
le due tarde apocalissi non enochiche 2B 18,2; 54,15; 56,10-13; 4E 3,8; 7,72.
104. 127). 7) Esistenza dell'anima immortale e disincarnabile, destinata ad
essere giudicata da Dio dopo la morte (1H [LV] 9,3. 10 (Sincello); 22; Giub
23,31; 4E 7,32. 75-101; 2B 30, 1-2). 8) Esistenza di inferno e paradiso:
frequente soprattutto la menzione dell’inferno (1H [LV] 18,14; 19,1; 21,3;
22,10-11; 25; Giub 7,29; 22,22; 24,31; LS 83,2-7;88,1-3; 90,26-27; EE 99,11; LP
61,5; 62,15-16; 2B 59,10. 9) Nei testi più recenti la salvezza sembra legata
esclusivamente al pentimento, che può avvenire anche dopo la morte (LP 50; 63;
68,5; ApSof 10,11). 10) Il calendario usato è quello solare. 11) In quanto
al messianismo, esso è documentato chiaramente nell’enochismo a partire dal LP e
ha carattere superumano. Prima di LP sembra che più che di Messia si debba
parlare di rivelatore di salvezza, certamente sempre con caratteri
superumani. b) Qumranesimo. Il qumranesimo è una sorta di eresia enochica
sorta verso la metà del II sec. a.C., che si distingue per credere 1) nel
predeterminismo assoluto (quindi, anche individuale; Dio ha creato Satana per
odiare tutto ciò che egli compie: [1QS 4,1b]). 2) Il qumranesimo accetta
pienamente la Legge mosaica (1QS 5,8), che tende a unificare eliminando
differenze e contraddizioni (RT). 3) Accetta l'importanza della purità (peccato
e impurità coincidono e l'uomo è peccatore/impuro fin dall'utero: 1QH 4,29-30).
4) Sviluppa l'idea della giustificazione per mera grazia (1QS 11,3) e tende a
dare alla fede (emunah) in Dio dei contenuti ideologici precisi (pHab 8,3). 5) I
qumranici usano il calendario solare. 6) Non riconoscono il Tempio di
Gerusalemme. 7) Credono nell’esistenza dell’anima; l’anima degli adepti vive già
nell’eterno. c) Farisei. I farisei sono, insieme coi sadducei, gli eredi
del sadocitismo; al tempo di Gesù 1) hanno al centro della loro teologia il
valore della Legge (mosaica) sia scritta, sia orale. 2) Credono nella piena
libertà di scelta dell'uomo e quindi nella sua piena responsabilità. 3) Credono
nella resurrezione e/o immortalità dell'anima; 4) vedono probabilmente già al
tempo di Gesù il Giudizio dopo la morte come conto sugli atti di osservanza e di
trasgressione della Legge (Pirqe Avot 3,16). 5) Al tempo di Gesù usano anche nel
Tempio il calendario lunisolare ellenistico e laico (probabilmente solo dalla
seconda metà del I sec. a.C.). 6) Non è chiaro come interpretassero le norme di
purità. Già alla fine del I sec. doveva esistere la tendenza a considerarle
semplici comandamenti da osservare senza che l'impurità avesse una sua realtà.
In ogni caso al tempo di Gesù il problema della realtà dell'impuro, che cosa
fosse, era molto sentito probabilmente per il confronto col mondo ellenistico
occidentale. Come si vede il farisaismo si contrappone nettamente
all'enochismo (e ancor più al qumranesimo) su un punto fondamentale: il
rapporto fra l'opera di Dio e quella dell'uomo nella creazione della salvezza.
L'intervento di Dio è maggiore nelle opere a tendenza enochica (o essenica) che
in quelle a tendenza farisaica. Nel farisaismo l'uomo salva se stesso per mezzo
dell'osservanza dei comandamenti, perché gli atti di osservanza cancellano gli
atti di trasgressione e la giustizia (sedaqah) praticata (quello che noi
chiameremmo “le opere buone”) cancella le ingiustizie commesse (Sukkah 49b6).
Nell'enochismo le ingiustizie commesse possono solo essere perdonate per mera
bontà divina, purché il peccatore si penta. d) Sadducei Tralascio di
presentare i sadducei sia per la scarsezza di notizie sia perché al tempo di
Gesù erano ideologicamente isolati e, sempre ideologicamente, sotto il
predominio farisaico. Vale comunque la pena di ricordare che 1) non
riconoscevano la validità della legge orale e con molta probabilità limitavano
la scrittura alla sola Torah. 2) Non accettavano né l'esistenza dell'anima
immortale e destinata al Giudizio, né la resurrezione. 3) Circa la liturgia del
Tempio avevano una tradizione che discordava in parte da quella che usavano al
tempo di Gesù, la quale doveva essere di origine farisaica. Gli indizi esistono,
ma sono frammentari. Su almeno due punti tutte e tre le più vive tendenze
del tempo concordavano: uno è il convincimento che il peccato è ciò che provoca
la vendetta di Dio e, quindi, il malessere sociale; è ciò che impedisce la
salvezza sia in questo mondo, sia nell'altro. Date le conseguenze concrete che,
a torto o a ragione, si attribuivano al peccato, questo era un problema centrale
per gli ebrei del I sec. Ciò non toglie che la liberazione dal peccato sia vista
in termini diversi dalle tre sette sulla base dei principi generali professati
da ciascuna. L'altro punto è l'attesa del Messia. Va, però, sottolineato che
l'immagine del Messia poteva essere molto diversa da autore ad autore anche
all'interno dello stesso gruppo. In altri termini, sembra che la forma in cui si
sarebbe rivelato sarebbe stata chiarita solo al momento della sua
rivelazione. Gesù si muove e predica sullo sfondo di queste idee e non è
difficile, leggendo il Nuovo Testamento, cogliere accettazione di esse o
polemica contro di esse. Anche le innovazioni cristiane hanno sempre una radice
in problemi del tempo. Giovanni Battista Tutti i vangeli concordano
nell'indicare un rapporto fra Gesù e il Battista. Giova, dunque, cercare di
delineare la sua teologia. Giovanni vedeva chiaramente i mali della sua società,
che riteneva, come tutti, conseguenza del peccato. Guardando nel futuro, egli
vedeva la rovina imminente ed inevitabile, se non ci fosse stato un cambiamento
di rotta immediato. La scure era già posta alla radice; inutile appellarsi ai
meriti dei padri; la responsabilità era individuale.1 Se molti accorrevano a
lui, vuol dire che la sua fama era divulgata, ma vuol dire anche che
condividevano la sua diagnosi dei mali del tempo. Giovanni non predicava solo
la necessità della conversione (fino a questo punto probabilmente tutti erano
d'accordo), ma anche un battesimo di penitenza (báptisma metanoías), che doveva
seguire al pentimento. Il battesimo era un rito purificatorio, serviva, cioè,
per togliere dal peccatore un'impurità reale. Mi pare che l'unico modo per
capire il senso che Giovanni attribuiva al suo battesimo sia ammettere che per
Giovanni il peccato producesse un'impurità, secondo una teologia le cui radici
possono risalire fino a Isaia (cap. 6), ma che era particolarmente attiva presso
i qumranici. Deve essere chiarito che l'impurità non era un fatto puramente
rituale, come sembra indicare un’espressione che circola, “impurità rituale”:
sembra che riguardasse solo il culto e il Tempio. L’impurità era, invece, un
fatto reale che riguardava la vita quotidiana. Se un problema aperto c'era, esso
riguardava la natura dell'impurità e la sua relazione col peccato. Non tutti
accettavano che anche il peccato producesse impurità. In altri termini:
trasgredire una legge riguardante la relazione con le cose impure è un peccato,
ma non tutti accettavano che la trasgressione di un qualunque comandamento
producesse a sua volta un’impurità. Evidentemente Giovanni non accettava l'idea
qumranica che l'uomo nascesse già impuro, ma, in ogni caso, riteneva che il
peccato producesse un'impurità che doveva essere tolta. La sua via verso Dio era
fatta, pertanto, di purità: per evitare qualunque contaminazione, anche minima,
mangiava solo cibi, non solo di per sé puri, ma raccolti e preparati dalle sue
stesse mani: cavallette e miele selvatico. Si trattava, perciò, di cibi non
elaborati né raccolti da altri, che potevano anche essere in stato di impurità e
quindi corrompere la purità del cibo. L'avvicinamento a Dio non era impedito
solo dalla trasgressione, ma dallo stato di impurità conseguente. Anzi il vero
ostacolo permanente doveva essere proprio questo. L'ostacolo fondamentale verso
la salvezza era costituito per Giovanni dall'impurità conseguente sia al
contatto con cose impure, sia al peccato. Gesù e i contenuti della Legge.
Gesù, come è ben noto, si staccò da Giovanni e non ebbe timore né a
mescolarsi con la gente che poteva essere in stato di impurità, né a mangiare
cibi toccati da altri. Ciò non toglie che anche lui vedeva il peccato come il
grande problema da risolvere: era venuto apposta per i peccatori, non per i
giusti (Mc 2,16-17 e passi paralleli). Il peccato era, pertanto, anche per Gesù,
il grande nemico della salvezza. A questo proposito due sono le cose da cercare
di chiarire: 1) quali erano i contenuti della legge secondo Gesù; 2) quale lo
strumento di salvezza dal peccato. a. Gesù e le norme di purità. Un punto
che distingue nettamente Gesù dal suo contesto è il fatto che dette alla Legge
contenuti diversi da quelli mosaici della tradizione. Tocco qualche caso
chiarissimo, cominciando da quello delle norme di purità. Secondo Marco (cap.
7), Gesù abolì le norme di purità riguardanti i cibi (7, 19). Ma, se uno legge
il testo attentamente, si accorge che Gesù prese spunto da un problema
particolare, quello che riguarda gli alimenti, per arrivare a conclusioni che
vanno al di là della sfera alimentare, anche se non è chiaro di quanto. «Non
quello che entra dalla bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca
rende impuro l'uomo» (7, 12). La domanda posta dai farisei riguardava solo il
problema se era lecito o meno mangiare senza una certa abluzione prescritta
dalla tradizione. La risposta di Gesù va già oltre la domanda con le prime
parole: «Non quello che entra dalla bocca, rende impuro l'uomo». Essa, infatti,
riguarda non il modo di mangiare, ma gli alimenti stessi. Ma la seconda parte
(«quello che esce») abbraccia conseguenze più vaste ancora ed enuncia, in
qualche modo, un principio generale. La sola cosa che può contaminare l'uomo (e
qui 'contaminare' deve avere il significato che davano al concetto di impurità
enochici e qumranici, significato di depotenziamento spirituale più che fisico,
di impedimento ad avvicinarsi a Dio) è la trasgressione della Legge, ovviamente
quale era insegnata da Gesù. L'interpretazione dell'Evangelista «Con questo Gesù
intendeva dichiarare puri tutti gli alimenti» è riduttiva e mostra un certo
imbarazzo della prima tradizione cristiana, che era ebraica, di fronte
all'insegnamento di Gesù. In altri termini, con Gesù abbiamo
un’interpretazione del concetto di impurità come valenza estremamente negativa,
ma i contenuti dell'impurità sono detti diversi da quelli ritenuti tali dalla
tradizione sadocita. Bisogna, però, considerare che in questa tradizione la
trasgressione delle norme di purità era già un peccato; se Gesù disse «solo ciò
che esce dalla bocca può contaminare l'uomo» vuol dire che assumeva a contenuto
della Legge solo ciò che noi oggi chiamiamo etico, ma questo era un concetto che
gli ebrei del tempo non conoscevano, o, comunque, non avevano formalizzato. Dire
che nulla è impuro in natura può essere un principio valido e ben comprensibile
(cfr. già la Lettera di Aristea § 143; Rom 14, 14), ma se chi ascoltava scendeva
dal principio generale ai contenuti effettivi, si doveva trovare di fronte a
difficoltà insormontabili, perché per l'ebreo di allora tutto era legge allo
stesso modo. Dal discorso di Gesù risultano chiaramente abolite le norme di
purità riguardanti i cibi, ma risultano anche potenzialmente eliminate altre
leggi analoghe, la cui precisazione ci manca. E le norme di purità riguardavano
anche il culto, la sfera sessuale, i contatti coi pagani1. b. Gesù e il
ripudio Come è noto, Gesù negò la liceità del ripudio, nonostante che fosse
regolato dalla Legge mosaica, che egli sembra accettare come valore nelle linee
generali («Che cosa leggi nella Legge?»). Ciò che interessa è la spiegazione del
suo giudizio nel caso particolare. Nel caso del ripudio la Legge non vale,
perché «agli inizi non fu così». Dunque, la Legge mosaica ha valore storico, non
assoluto: il valore assoluto appartiene a ciò che fu agli inizi. In questo Gesù
si differenzia anche dal libro dei Giubilei, perché questo accettava la Legge
mosaica, quando non contraddiceva le Tavole Celesti. Gesù non conosce le Tavole
Celesti, ma risolve il problema in maniera storica, cosa che è molto moderna.
Ciò che è storico ha sempre un valore relativo. Gesù e il peccato I
contenuti della Legge non sono più quelli mosaici. L’insegnamento di Gesù
avvicina la morale mosaica a quella enochica, ma il punto di partenza, la base
del discorso di Gesù è la morale fondata sulla Legge di Mosè, alla quale, però,
è tolto il valore assoluto che aveva per i farisei. Ovviamente, il concetto di
peccato chiaramente resta, anzi è radicalizzato. Degno della Geenna non era solo
chi uccideva, ma anche chi offendeva il prossimo. Si può dire che la situazione
di Gerusalemme era per Gesù ancora più cupa che per il Battista. E in effetti
alla «scure posta alla radice» di Giovanni, Gesù affianca il suo pianto sulla
distruzione di Gerusalemme e del Tempio1. Gesù non pensava né che la sua
predicazione, né che la sua morte, della quale era cosciente, avrebbero portato
una soluzione al male del peccato. Gesù non pensò mai a una società senza
peccato. La sua missione, evidentemente, non era quella di creare una tal
società. Il perdono e l’amore cristiano sono strumenti umani che non realizzano
lo scopo ultimo, che rimane la sconfitta del peccato e del male. Gesù e
l’espiazione. Al tempo di Gesù l’idea che il peccato dovesse essere in
qualche modo espiato per essere perdonato da Dio è diffusa. Come al solito, non
si era d’accordo sui mezzi, o, per meglio dire, ce n’erano più d’uno e forse
erano accettati un po’ tutti. Nell’insieme si può notare che i qumranici avevano
sostituito interamente il culto del Tempio con la preghiera e l’espiazione era
opera dello spirito divino che operava in seno all’assemblea degli uomini della
setta1. Gli enochici non parlano normalmente del Tempio2, se non per dire che è
destinato alla distruzione; della sua funzione al loro tempo non parlano. I
farisei vedono l’espiazione per mezzo delle opere buone. Ciò non toglie che lo
yom kippurim fosse celebrato anche nel Tempio. L’idea che il peccato andasse
espiato era idea antica e risaliva almeno ad Ezechiele e sfociò nel rituale
della festa dell’espiazione, regolato definitivamente in epoca postesilica. Il
rituale è descritto in Lev 16. (cfr. anche Lev 23,27-32 e Num 29,7-11). Il
principio dell’espiazione è costituito dall’idea che il sangue espia. Si veda
Lev 17,11: «La vita (nefesh) degli esseri viventi (habbasar, “della carne”) è
nel sangue; Io l’ho dato a voi per fare l’espiazione sopra l’altare per le
vostre vite; perché il sangue espia per mezzo della vita (bannefesh)». In altri
termini: poiché il peccato merita la morte, l’offerta di una vita placa la
divinità che rinuncia così a richiedere la vita del peccatore. Questo è
irrazionale, ma è profondamente radicato nella coscienza ebraica a partire dal
primo postesilio. E’ solo tenendo presente questa concezione del sacrificio
espiatorio che si comprende il ragionamento dell’autore della Lettera agli Ebrei
nel cap. 9. L’allusione al rituale dello yom kippurim è chiarissima. Gesù lo
ripete e, se il suo gesto ha un valore superiore a quello del Sommo Sacerdote, è
per due motivi: il primo è la superiorità del sacerdozio del Cristo rispetto a
quello del Sommo Sacerdote, il secondo è la superiorità dello strumento, perché
al sangue delle vittime è sostituito il sangue stesso di Gesù. Il valore del
sangue come strumento di sacrificio, qualunque sia il fine del sacrificio, è
chiaro e si comprende bene solo nella luce delle idee di allora. Se questa è
interpretazione contemporanea e diffusa (cfr. anche Rom 3,25; 1 Giov 2,2; 4,10)
, ci si può però domandare se essa rappresenta o meno l’intenzione di Gesù.
Gesù e la sua passione. A me sembra certo che Gesù abbia voluto la sua
morte e la sua passione. Forse a «ha voluto» si può sostituire «non ha
rifiutato», ma non mi sembra che il senso cambi molto. E nella Passione e nella
morte violenta il sangue è elemento presente. Vedremo se per Gesù il sangue
aveva importanza. Tutti e quattro i vangeli concordano nell’orientare il
racconto sulla morte di Gesù. Mi pare, però, che l’attenzione non sia rivolta
soltanto alla morte, intesa come fine, sia pure violenta, ma piuttosto verso
tutte le sofferenze che essa comportò. Gesù piange e chiede al Padre che, se
quel calice poteva passare, che passasse. La coscienza di ciò che stava per
accadere rende più dolorosi gli ultimi giorni. Si insiste sulle torture nel
campo romano, sullo stato debilitato di Gesù che deve portare la sua croce fino
al luogo del supplizio, sulla sua disperazione: «Mio Dio, perché mi hai
abbandonato?». La tradizione cristiana, seguendo il senso dei Vangeli, quando
intendeva parlar della morte di Gesù, l’ha chiamata «Passione» e «Passione» non
è solo «morte». Tutto lascia pensare che il dolore1 e il sangue fossero sentiti
dalla tradizione cristiana e da Gesù stesso come parte indispensabile della sua
missione. Gesù e il Patto Il momento culminante dei rapporti fra Gesù e i
discepoli è la cena pasquale, nella quale Gesù spezzò e benedisse con loro il
pane e benedisse il calice con le conturbanti parole «Questo è il mio corpo» e
«Questo è il mio sangue». Gesù spiega anche il significato per cui versa il
sangue: la stipulazione del Patto. In Marco non si parla di «Patto Nuovo», ma
semplicemente di Patto, espressione che ha una forza che l’aggiunta di «Nuovo»
le toglie, anche se la rende più piana. In tutti e tre i sinottici segue
«versato per» seguito da «molti» in Marco e in Matteo, da un «voi» in Luca. La
passione è in funzione del Patto e il Patto è per una massa indeterminata in
Marco e Matteo, per i discepoli (presenti e futuri) in Luca. Il Patto è concetto
tipicamente ebraico, come è ebraica la necessità che il Patto sia stipulato
mediante il sangue. Il sangue torna ad essere essenziale nella vicenda di Gesù
anche sotto questo punto di vista. Così è ebraica la specificazione di Matteo
che il Patto di Gesù era in funzione della remissione dei peccati. Tutto lascia
pensare che il testo matteano eis afesin amartion sia un’aggiunta alle parole
effettivamente pronunciate da Gesù. L’interpretazione di Matteo è, in ogni caso,
in linea con la richiesta della gente, quale è chiaramente indicata da Marco per
coloro che andavano da Giovanni per ricevere il battesimo eis afesin amartion.
E’ chiaro comunque che il concetto di afesis amartion dal punto di vista
dell’ebreo del tempo aveva un valore molto più vasto che per noi, perché il
peccato era la radice di tutti i mali. In questo caso il pensiero di Matteo è
veramente più ebraico (non solo più farisaico) di quello degli altri
evangelisti. Giovanni insiste che il pane di Gesù era pane di vita: è
interpretazione che si incentra sul valore salvifico della Passione in funzione
della vita eterna. Anche questo è vero; ma resta che il Patto deve essere
qualcosa di più vasto ancora e che era necessario stipularlo per mezzo del
sangue. Per lo storico, che cerca di rappresentare il passato quanto più
possibile per mezzo delle categorie che produssero gli avvenimenti che narra,
Gesù fu cosciente della sua morte, che accettò pur potendola chiaramente
evitare, cioè la volle e la volle particolarmente dolorosa. Quale sia il
significato di tutto ciò per il cristiano di oggi, non è compito dello storico
stabilire, ma il fatto «morte di Gesù», interpretato come sacrificio in funzione
del (Nuovo) Patto, non deriva solo dall’interpretazione dei contemporanei, ma
dalla stessa intenzione di Gesù. Nulla vieta che questa si adeguasse alla
“pienezza dei tempi”, se non altro per essere capita nelle sue valenze generali
di salvezza (anche questo è concetto tipicamente ebraico), ma non è compito
dello storico andare al di là dei fatti e delle idee che li produssero. LO
STUDIO E LA CONOSCENZA DELLA BIBBIA OGGI Lo studio della Bibbia
nell'università e nella scuola, rispetto all'importanza che essa riveste per la
cultura e la storia dell'Occidente, è esiguo; persino tra gli stessi credenti,
spesso, la conoscenza biblica non è molto diffusa. Ugualmente, la divaricazione
e la separazione tra cultura religiosa e cultura laica ha fatto sì che nella
cultura comune contemporanea, a tutti i livelli, l'aspetto religioso risulti
alquanto marginale; la conseguenza immediata è il venir meno della conoscenza
dei fondamenti della religione cristiana, e in specie della Bibbia, che
precedentemente era invece patrimonio comune e alimento di tutta la produzione
culturale. LA PRESENZA DELLA BIBBIA NELL’UNIVERSITÀ ITALIANA
Nell’Università italiana non è molto lo spazio che viene attribuito allo
studio della Bibbia, come si deduce anche solo dal ridottissimo numero di
insegnamenti attivati nelle varie sedi per quanto riguarda l’Antico Testamento
(ossia Lingua e letteratura ebraica oppure Filologia biblica) e il Nuovo
Testamento (Filologia ed esegesi neotestamentaria). Di quest’ultima in tutta
Italia esistono attualmente solo quattro insegnamenti (a Torino, Catania,
Messina, Sassari), a parte quello dell’Università Cattolica di Milano, mentre in
altre due sedi (Bari, Padova) l’insegnamento è durato alcuni anni ed ora tace. A
Torino è stato attivato soltanto alcuni anni fa, e più per motivi burocratici
(necessità di differenziare i due preesistenti corsi di Letteratura cristiana
antica) che non per una volontà e una programmazione precise. Del resto
anche l’introduzione della Letteratura cristiana antica nell’Università
italiana, come cattedra ufficiale, è relativamente recente: risale a una
cinquantina di anni fa, nel 1948, e si è verificata a Torino, ad opera di
Michele Pellegrino. E’ significativo che Pellegrino fosse un sacerdote
(diventerà negli anni ‘60 arcivescovo di Torino e cardinale) e sacerdoti fossero
prima di lui i pionieri di questo insegnamento, Paolo Ubaldi e Sisto Colombo,
che incominciarono a tenere, sempre a Torino, corsi liberi di Letteratura
cristiana all’interno degli insegnamenti di Letteratura greca e Letteratura
latina, rispettivamente fin dal 1909 (Ubaldi) e dal 1925 (Colombo). Di fatto la
prima cattedra di Letteratura cristiana antica in Italia fu istituita
nell’Università cattolica di Milano, nel 1924, e fu Ubaldi il primo a
ricoprirla. Una proposta, avanzata dal Consiglio della Facoltà di Lettere di
Torino già nel 1913, di istituire una cattedra specifica di Letteratura
greco-cristiana, fu bocciata senza giustificazioni dal Consiglio Superiore della
Pubblica Istruzione: i tempi non erano maturi perché in un’Università di Stato
si insegnasse la letteratura cristiana1. In ogni caso, anche quando fu istituito
ufficialmente l’insegnamento, gli stessi promotori, tra cui il famoso storico
della letteratura latina, Augusto Rostagni, non erano affatto convinti che la
letteratura cristiana potesse stare sullo stesso piano delle altre letterature e
che i testi cristiani potessero essere studiati al di fuori dell’ottica storica
e teologica ... In Italia non è del tutto superata l’antica frattura tra il
mondo dell’Università di Stato e le discipline di carattere religioso, che si è
prodotta nel 1873, quando nelle Università di Stato fu abolito l’insegnamento
della teologia, che da quel momento divenne appannaggio esclusivo delle Scuole
teologiche e delle Università ecclesiastiche. Recentemente è stata salutata come
una novità rivoluzionaria l’iniziativa presa dalla Facoltà di Lettere
dell’Università del Friuli di aprire una convenzione con l’Istituto superiore di
scienze religiose del Nord-est, in base alla quale nel curriculum
storico-religioso dell’Università sarà possibile acquisire un terzo dei crediti
presso l’Istituto ecclesiastico, e, reciprocamente, l’Istituto riconoscerà la
laurea in lettere nel curriculum storico-religioso dell’Università come titolo
valido per essere ammessi al quarto anno di Magistero in scienze
religiose. ASSENZA DELLA BIBBIA NELLA SCUOLA Più di un secolo fa era lo
storico della letteratura Francesco De Sanctis ad affermare: «Mi meraviglio come
nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata
un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso, ch’è lo
stesso sentimento morale nel suo senso più elevato»1. E per parte sua spiegava
il grande effetto che provò lui e provarono i suoi allievi quando, volendo
trattare della lirica, affrontò da profano («Non avevo mai letto la Bibbia, e i
giovani neppure») anche la lirica ebraica (il libro di Giobbe, il cantico di
Mosè, i salmi, i profeti): «Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione
classica niente di comparabile a quella grandezza». Più recentemente (1989) il
semiologo Umberto Eco si è domandato sulle pagine di un periodico popolare:
«Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè?
Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche
perché senza Salomone non si capisce Dante)?»2. Qualche anno fa (1993) è stato
pubblicato un libro, risultato di un convegno precedente, a cura del Comitato
Bibbia Cultura Scuola, dal titolo emblematico: Bibbia: il libro assente (ed.
Marietti). Ha suscitato scalpore la dichiarazione del ministro
dell’istruzione, Tullio De Mauro, fatta in un’intervista al periodico Famiglia
cristiana e pubblicata il 10 settembre 2000. Egli manifesta il desiderio di
imporre la Bibbia come libro di testo nelle scuole e, all’obiezione
dell’intervistatore: «Ma come, lei, ministro ‘comunista’ ...», giustifica tale
proposta dicendo: «Dal punto di vista didattico la Bibbia è una bomba
conoscitiva. Non si capisce la nostra storia, né l’arte, senza Bibbia». Alla
successiva domanda: «Dovrebbe essere il libro di testo dell’ora di religione?»,
risponde: «E perché no? L’ho detto anche al cardinale Ruini e ai suoi
collaboratori esperti di problemi di scuola ... E il discorso è finito
sull’insegnamento delle religioni». Osserva inoltre che in base a una verifica
fatta dal ministero sull’ora di religione risulta che «quell’ora non è occupata
al meglio». Commentando la battuta del ministro, una studiosa ebrea, esperta
e divulgatrice di cultura ebraica, Elena Loewenthal (su La Stampa del 12
settembre 2000) ha di nuovo rilevato la contraddizione insita nel fatto che «il
corpus della letteratura biblica sta alla base della civiltà europea non meno
della cultura classica. Eppure la Bibbia è il libro assente per eccellenza nei
piani educativi nazionali». Giustamente poi ella nota che «il fatto che gli
studenti liceali abbiano tanta - e benedetta - dimestichezza con la levità dei
lirici e il carico esistenziale dei tragici greci, senza nulla sospettare del
fatto che nella lingua di aoristi e spiriti molesti s’esprimono anche gli abissi
apocalittici di Giovanni e il ritmo lento e primitivo dei Vangeli sinottici, ha
profonde radici storiche e culturali». E richiama il fatto che in Italia, a
differenza dell’Inghilterra e della Germania, è mancata una traduzione in lingua
corrente del testo sacro, al di fuori di quella di G. Diodati (1607), che era un
calvinista proveniente da una famiglia italiana esule a Ginevra: per questi
motivi la sua traduzione non ebbe vasta diffusione al di fuori dell’ambito
protestante e non contribuì a diffondere la lettura della Bibbia nella
popolazione. In Italia «nella formazione religiosa comune si è badato sempre più
al dogma che alla conoscenza, alla catechesi piuttosto che al racconto e alla
ricerca dentro il testo sacro». Solo le minoranze religiose, ebrei e
protestanti, posseggono una certa familiarità con la Parola sacra. SCARSA
FAMIGLIARITÀ DEI CATTOLICI CON LA BIBBIA I cattolici, anche quelli
praticanti, non possono vantare conoscenze davvero soddisfacenti per quanto
riguarda la Bibbia, sebbene siano stati fatti enormi progressi a partire dal
Concilio Vaticano II (30 anni fa circa). La riforma liturgica, se non altro, ha
introdotto letture bibliche durante la Messa che, seguendo cicli triennali,
consentono di accostarsi a numerosi testi dell’AT e del NT. E tuttavia si tratta
di letture frammentarie, non sempre seguite da un commento adeguato nelle
omelie, e che difficilmente vengono comprese e ricordate. Inoltre chiaramente il
commento è di tipo pastorale ed edificante. Un accostamento diretto e più
approfondito ai testi è affidato ad eventuali gruppi biblici, o ad ancora più
eventuali letture personali, e in questo caso crea difficoltà la mancanza di
strumenti critici e di metodo, e continua a prevalere l’attualizzazione («ciò
che il testo mi dice») rispetto all’analisi del significato che i testi
originariamente potevano avere. Tale situazione poco rosea è dovuta al fatto
che il clero non ha spinto, fino a tempi recenti, alla conoscenza della Bibbia
nei fedeli. Oggi è in corso un deciso cambiamento di rotta, come segnalano le
numerose iniziative degli organi ufficiali della Chiesa: l’istituzione, a
partire dal 1988, di un settore di Apostolato biblico a livello nazionale; la
promozione, a partire, dal 1993, di una collana apposita, Bibbia. Proposte
Metodi, presso la LDC, Leumann, Torino, destinata ad accogliere studi
pertinenti; un documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 su
L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa; la Nota pastorale della Commissione
episcopale per la dottrina della fede e la catechesi su La Bibbia nella vita
della Chiesa, nel 1995 (in occasione del trentennale della costituzione
conciliare Dei verbum dedicata appunto alla Bibbia); il Sinodo dei vescovi
italiani sulla Bibbia, tenuto nel 1997, dichiarato dal Giovanni Paolo II «anno
della Bibbia» (di questo sinodo sono usciti nel 1998, nella collana sopra
menzionata, gli Atti: La Bibbia nel Magistero dei Vescovi italiani). In tutti
questi documenti e iniziative è ben viva la consapevolezza del ritardo da
recuperare in vista della diffusione della conoscenza della Bibbia. La radice
storica risale alla questione della Riforma protestante e della polemica tra
cattolici e protestanti, che invece ponevano la Bibbia al centro della loro fede
in modo esclusivo, a scapito anche della tradizione, e incoraggiavano
l’accostamento diretto al testo con traduzioni. Il timore che letture bibliche a
ruota libera facessero incorrere i fedeli in fraintendimenti ed errori dogmatici
è prevalso a lungo nella chiesa cattolica: ancora nel ‘700 si ribadivano i
divieti di leggere individualmente la Bibbia e di tradurla in lingua moderna. Ma
anche la ricerca scientifica sui testi biblici fu vista per molti secoli con
diffidenza: solo con l’enciclica Divino afflante Spiritu del 1943 fu
ufficialmente approvata l’applicazione del metodo storico-critico alla Bibbia.
Il senso di tante cautele si può capire: la Bibbia è un testo sacro, è il
testo fondante della religione cristiana (l’AT lo è anche, e ancor prima, per la
religione ebraica), è considerata «parola di Dio», ispirata da Dio. In una
prospettiva religiosa, che le è propria, non si può abbandonarla all’arbitrio di
ciascuno. Si può notare che già all’interno dei libri biblici è presente la
preoccupazione di salvaguardare l’integrità del testo da possibili
manipolazioni: da un capo all’altro della Bibbia risuonano minacce in questo
senso: cfr. Deut 4,2: «Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne
toglierete nulla»; Apoc 22,18-19: «Dichiaro a chiunque ascolta le parole
profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualcosa, Dio gli farà cadere
addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di
questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città
santa, descritti in questo libro». E, per quanto riguarda le traduzioni, già la
traduzione latina di Gerolamo, quella che divenne la versione ufficiale della
Chiesa, la Vulgata, suscitò agli inizi perplessità e critiche da parte di
Agostino (possediamo un interessante carteggio tra i due a questo proposito), il
quale temeva che le variazioni apportate alla forma del testo, che era divenuta
familiare ai fedeli attraverso le versioni latine correnti, potesse provocare in
loro sconcerto e confusione. E oggi rimane aperta la discussione sulla
possibilità di una lettura davvero laica e aconfessionale della Bibbia. C’è chi
afferma che la Bibbia stessa esige una lettura in chiave di fede, e ne deduce
che perciò debba essere esclusa una lettura diversa; c’è chi invece ritiene che
possa anche essere studiata come qualsiasi altro libro, tenuto conto che è, sì,
parola di Dio, ma espressa attraverso le parole di uomini, con un linguaggio e
secondo schemi culturali propri del suo tempo. La risposta di fede è un’esigenza
degli autori biblici; ma una lettura condotta secondo metodi critici è un
potente strumento per penetrare a fondo nel messaggio del testo. Altrimenti il
rischio - oggi presente in molti gruppi e sètte - è quello di una lettura
«fondamentalista», ossia strettamente letterale, che è il peggiore di tutti,
anche in un’ottica di fede, come denuncia il recente documento della Pontificia
Commissione Biblica dedicato a L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa
(Città del Vaticano 1993, pp. 62-65). MARGINALITÀ DELLA BIBBIA NELLA CULTURA
CONTEMPORANEA Allargando ulteriormente lo sguardo, potremmo rilevare che la
divaricazione e la separazione tra cultura religiosa e cultura laica si
verificano anche nei campi dell’editoria (una stampa cattolica distinta), delle
librerie, ecc. Si direbbe che la religione sia concepita come una faccenda per
«addetti ai lavori», per una élite di appassionati e che la Bibbia e i testi
della tradizione cristiana siano cose «da preti» e basta. La conseguenza è
che nella cultura comune contemporanea, a tutti i livelli, l’aspetto religioso
risulta alquanto marginale, ed è venuta meno la conoscenza dei fondamenti della
religione cristiana, e in specie della Bibbia, che precedentemente era invece
patrimonio comune e alimento di tutta la produzione culturale, dalle arti
figurative (pittura, miniatura, scultura, ecc.) 1, alla letteratura, al teatro,
alla musica, ma anche alla filosofia, al diritto, ecc 2. C’è chi fa notare che
ignorare la Bibbia significa non rendersi conto dell’enorme debito che tutto il
pensiero del nostro mondo occidentale ha verso di essa; per citare solo alcuni
aspetti: la centralità della storia, l’idea di progresso, la secolarizzazione,
il pluralismo culturale, che ci appaiono caratteristici della modernità, hanno
radici nella Bibbia e nel cristianesimo, e non nel mondo classico. Il saggio
famoso di un critico nordamericano, Northrop Frye, intitolato Il grande codice
(trad. ital., Torino, Einaudi, 1986) ha sottolineato come siano di derivazione
biblica i modelli e gli archetipi del mondo di immagini, miti e metafore che è
l’essenza della letteratura anglosassone (ma non solo di quella letteratura). Un
interessante contributo di Fortunato Pasqualino, uscito nell’ottobre ‘98 sulla
rivista Studi cattolici, segnala come nelle opere di Verga si registri «un
numero di metafore e di modi di dire biblici maggiore» che in
Manzoni. Ignorare la Bibbia fa perdere perfino il senso di numerosi modi di
dire che ne derivano, come, «essere il beniamino», «folgorato sulla via di
Damasco», «vendersi per un piatto di lenticchie», «il vitello d’oro», «una
babele», «sepolcri imbiancati», ecc. Certamente il linguaggio delle generazioni
passate, soprattutto a livello popolare, ne era più fortemente impregnato di
quanto non avvenga oggi, grazie alla mediazione della liturgia ecclesiale (che
oggi è diventata evanescente rispetto all’influsso della televisione): di
recente un bel saggio di G. L. Beccaria ne ha illustrato la ricchezza e la
complessità3. Eppure non c’è dubbio che tracce del patrimonio biblico
sopravvivano ancora nella comunicazione corrente, come indicano espressioni
usuali nel linguaggio giornalistico (almeno dei giornalisti più acculturati) e
perfino certi vezzi di politici, che cercano di nobilitarsi con reminiscenze
bibliche. Anche qui, come già avveniva nei tempi passati, non di rado i
riferimenti si intrecciano alle deformazioni. Parafrasando un detto famoso di
Benedetto Croce («non possiamo non dirci cristiani»), potremmo dire: «non
possiamo non dirci eredi della Bibbia», ma siamo eredi che non conoscono, o
conoscono poco, la loro eredità e, per il fatto di non conoscerla abbastanza, la
stanno dilapidando. Perso il contatto con le fonti autentiche, che cosa
dànno al pubblico comune oggi i mezzi di comunicazione di massa, quando càpita
che inseriscano nel loro tritatutto anche materiale biblico? Attraverso i film e
gli sceneggiati televisivi, la cui fiumana non accenna ad esaurirsi (ne sono
continuamente programmati su Gesù), filtra un mondo biblico hollywoodiano e
mistificante, in cui i personaggi della storia sacra (Abramo, Salomone, Davide,
ecc.) sono raffigurati in modo non molto diverso dai vari Rambo, Indiana Jones,
e così via, in un enorme pastiche che tutto appiattisce, fatto per solleticare
curiosità superficiali e per soddisfare grossolanamente il gusto
dell’avventuroso e del fantastico. La pubblicità ricorre a episodi e frasi
bibliche facendo di Dio e di Gesù dei testimonial commerciali: estrema e
beffarda degenerazione di una familiarità perduta nella sua
serietà Introduzione Origine, significato e contenuto dei termini
Patrologia, Patristica e Letteratura cristiana antica, in rapporto con lo
sviluppo degli studi patristici. Chi si interessa degli scrittori cristiani,
ancor prima di entrare nel vivo della personalità, delle opere e dei generi
letterari, farebbe bene a prendere coscienza di alcune questioni di metodo che
toccano direttamente la manualistica sull’argomento. Non potrebbe, del resto,
non notare, anche ad un primo approccio, che in questo campo le trattazioni
portano titoli diversi, o di «Patrologia», o di «(Storia della) letteratura
cristiana antica», e incontrerebbe talora anche termini come «Patristica» o
«Letteratura patristica» per riferirsi alla medesima materia. «La Storia
della letteratura cristiana antica deriva dalla Patrologia», afferma Salvatore
D’Elia nella sua presentazione dell’edizione italiana della Letteratura latina
cristiana di Jacques Fontaine1, e, aggiunge, ha «conservato lungo i secoli i
ricordi delle sue origini»; ecco un primo punto da approfondire. La
questione terminologica ha una sua storia complessa e solo apparentemente di
secondario interesse: essa è intrecciata con la storia degli studi relativi agli
autori cristiani antichi ed esprime le variazioni di interesse e le polemiche
che l’hanno accompagnata. Se il termine «Letteratura cristiana antica» è il più
recente di tutti (il suo uso inizia nel XIX sec.) e i termini «Patrologia» e
«Patristica» incominciano a comparire a partire dal XVII sec., lo studio degli
scrittori cristiani antichi è invece molto anteriore, e si può far risalire
all’antichità stessa. L’antichità Si ripete oggi volentieri che già
nell’antichità si è manifestato nei riguardi degli scrittori cristiani, da parte
dei cristiani stessi, un duplice tipo di interesse, quello che porterà
successivamente alle definizioni di «Patrologia» e di
«Patristica». Primo Un fenomeno significativo è quello per cui, dal IV
sec., ma soprattutto dal V, in relazione con i dibattiti suscitati dalle
controversie dottrinali, si ricorre all’autorità di certe personalità cristiane,
che vengono chiamate «Padri», «santi Padri». Il termine «Padre» aveva già
assunto un’accezione particolare1. Originariamente (si trova già in Paolo, 1
Cor. 4,14-15) aveva indicato colui che genera nella fede, il predicatore del
messaggio (cfr. Ireneo, Adversus Haereses IV,41, 22; Clemente Alessandrino,
Stromata I,1,33). Ma già si tendeva ad attribuirlo sempre di più ai vescovi, in
quanto specificamente incaricati dell’insegnamento religioso. Policarpo, vescovo
di Smirne nella seconda metà del II sec., nel Martirio di Policarpo (12,24) è
detto «dottore dell’Asia, padre dei cristiani»; i corrispondenti di Cipriano,
vescovo di Cartagine verso la metà del III sec., indirizzano le lettere Cypriano
papae (o papati) (Epistulae XXX, XXXI, XXXVI5), ove papa è diminutivo di
pater. Verso il IV sec. l’uso del termine venne ulteriormente ristretto a
indicare, tra i vescovi, alcuni che si erano distinti nella testimonianza della
fede, i vescovi che partecipavano ai concili (a partire da quello di Nicea del
325). Basilio di Cesarea scrive a proposito della formula di fede stilata dai
vescovi riuniti a Nicea: «Noi non osiamo trasmettere i frutti del nostro
pensiero, per non rendere umane le parole della fede, ma quello che abbiamo
appreso dai santi Padri, questo annunciamo a coloro che ci interrogano»
(Epistula CXL,26). Il termine venne così a designare un gruppo di vescovi che
fanno testo in materia di fede. Tuttavia già Agostino protestava per questa
limitazione che rischiava di escludere dalle «autorità» un Gerolamo, che non era
vescovo (Contra Iulianum I,7,31 e 347) . Altri poi seguirono questa impostazione
e chiesero che il termine fosse applicato a chiunque all’interno del
cristianesimo avesse illustrato, approfondito, difeso il
cristianesimo. Spetta a Vincenzo di Lerino, nel V sec., di aver dato la
definizione classica dei Padri, definizione che resterà quella della Chiesa
romana. Nel suo Commonitorium del 434 dichiara: «Si devono riportare le opinioni
per lo meno dei Padri che, dopo una vita santa, un insegnamento saggio, un
costante attaccamento alla fede ed alla comunione cattolica, hanno meritato di
morire in Cristo secondo la fede, o di morire per Cristo secondo una sorte
beata. Bisogna tuttavia credere in loro, secondo questa norma: tutto ciò che
tutti quanti o la maggior parte chiaramente, frequentemente e con perseveranza,
con un solo e medesimo accordo, come un concilio di maestri perfettamente
unanimi avranno affermato, ricevuto, conservato e tramandato, lo si ritenga per
indubitato, certo e definito» (cap. 28)8. Traendo le conclusioni da tale
definizione, il Decreto detto di Gelasio, del VI sec., De libris recipiendis et
non recipiendis (in realtà Gelasio fu papa tra il 492 e il 496 e il Decreto gli
è falsamente attribuito), redige il primo elenco degli autori cristiani che
bisogna riconoscere come Padri e di quelli che non hanno diritto a questo
titolo: «[La Chiesa] decide che debbano essere letti gli scritti ed i trattati
di tutti i Padri ortodossi che mai si sono separati dalla santa Chiesa romana,
né si sono allontanati dalla sua fede e dalla sua predicazione, ma hanno
partecipato della sua comunione, per grazia di Dio, fino all’ultimo giorno della
loro vita» (IV,3)9. È sulla base di questi documenti che furono determinate
in seguito nel mondo cattolico le note caratteristiche per riconoscere un Padre
della Chiesa, e distinguerlo dallo «scrittore ecclesiastico»: dottrina
ortodossa, santità della vita, approvazione della Chiesa, antichità (cioè fino
al V sec.), a cui si aggiunse poi, per alcuni, l’eminente erudizione (doctrina
orthodoxa, sanctitas vitae, approbatio ecclesiae, antiquitas, eminens eruditio).
Quest’ultima caratterizza anche, e soprattutto, i «dottori della Chiesa», che
hanno in più l’espresso riconoscimento della Chiesa (expressa Ecclesiae
declaratio), e in meno l’antichità10. Su queste caratteristiche è nato un
dibattito ad opera dei protestanti, che hanno contestato il concetto di
ortodossia, elaborato posteriormente ai tempi dei Padri, e di approvazione della
Chiesa, anch’esso eterogeneo; tale dibattito ha influenzato gli studiosi di
patrologia nel senso di modificare la scelta degli autori considerati11. In
rapporto con la formazione del concetto di Padre della Chiesa troviamo dunque
nell’antichità un interesse per gli autori di tipo prevalentemente dottrinale,
dogmatico, che porta e rilevare le affermazioni convergenti su tale o tal altro
punto particolare. Siamo ai prodromi di quella che il luterano Johann Franz
Buddaeus nel 1700 chiamerà theologia patristica, da lui così definita: «Per
teologia patristica intendiamo l’insieme dei sacri dogmi tratti dal pensiero e
dalle sentenze dei Padri, dai quali si può comprendere come la verità della
religione cristiana si sia costantemente conservata nella Chiesa e propagata»
(Isagoge historico-theologica ad theologiam universalem, Leipzig, 1727, 1730, p.
535)12. E da questo modo di concepire lo studio dei Padri deriverà, pur
attraverso varie modificazioni, il concetto moderno di
«patristica». Secondo Accanto all’uso teologico, e in funzione teologica,
l’antichità ha conosciuto anche un interesse storico per gli autori, di cui
venivano fornite compilazioni di liste di nomi con le rispettive opere, in
ordine cronologico. Lo scopo finale era apologetico: dimostrare l’antichità e la
continuità della fede cristiana e l’alto livello culturale dei suoi
rappresentanti. Si può dire che lo studio storico dei Padri è una conseguenza
della loro utilizzazione teologica, tuttavia non è estraneo ad esso l’intento,
naturale in ogni società, di conservare il ricordo degli uomini illustri del
passato: per i cristiani, degli eroi della fede, martiri e monaci, e dei grandi
dottori13. Eusebio di Cesarea scrisse una Historia ecclesiastica (l’ultima
redazione arriva ai fatti del 324) con questo duplice fine; tuttavia i Padri, di
cui espone vita e opere e cita anche alcuni passi, non sono l’oggetto specifico
del lavoro, che è piuttosto l’intera vita della Chiesa. L’intenzione di
utilizzare gli autori in funzione «ortodossa» risulta dall’introduzione stessa
dell’opera, dove Eusebio espone l’intenzione di parlare di «coloro che, in ogni
generazione, furono con la parola o con gli scritti gli ambasciatori della
parola divina; chi, quanti e quando, per desiderio di novità spintisi fino ai
confini estremi dell’errore, si proclamarono introduttori di una scienza dal
falso nome» (I,1,1)14. L’opera è estremamente importante per le notizie e i
passi che riporta di autori e opere oggi perdute. Gerolamo a sua volta
compone nel 392 il De viris illustribus, ispirandosi all’omonima opera di
Svetonio e rifacendosi per molte notizie ad Eusebio, con uno scopo
dichiaratamente apologetico: “Sappiano Celso, Porfirio, Giuliano, questi cani
arrabbiati contro Cristo, così come i loro seguaci che pensano che la Chiesa non
ha mai avuto oratori, filosofi e colti dottori, sappiano quali uomini di valore
l’hanno fondata, edificata, illustrata, e cessino le loro accuse sommarie di
semplicità rozza rivolte alla nostra fede, e riconoscano piuttosto la loro
ignoranza» (Prologo, 14)15. Gerolamo tratta della vita e delle opere di 135
scrittori cristiani, a partire dal Nuovo Testamento fino a se stesso. Nonostante
lo scopo apologetico, la prospettiva è abbastanza aperta: sono inclusi anche
alcuni scrittori eretici o considerati tali (Taziano, Novaziano, Eunomio, etc.),
tre Giudei (Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, Giusto di Tiberiade) ed anche
un pagano, Seneca, in considerazione del presunto scambio epistolare con san
Paolo. L’opera viene talora indicata da Gerolamo stesso col titolo De
scriptoribus ecclesiasticis16, il che può indicare un ambito più vasto rispetto
a quello dei «Padri della Chiesa»17. Secondo il Benoît18, Gerolamo realizza
pienamente quella che, a partire dal sec. XVII, sulle tracce di Johannes
Gerhardt, autore di una Patrologia sive de primitivae Ecclesiae christianae
doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum, Ienae, 1653, 1668 , verrà
chiamata «patrologia», così definita poi da Joseph Fessler, autore di
Institutiones Patrologiae, quas ad frequentiorem, utiliorem et faciliorem SS.
Patrum lectionem promovendam concinnavit J. F., Oeniponte, 1850-1851 (poi
riedita e rielaborata da B. Jungmann, 1890-1896): «La patrologia è la scienza
che illustra tutto ciò che serve al retto uso dei santi Padri in teologia»19. Ma
l’opera di Gerolamo precorre per molti aspetti alcuni orientamenti moderni della
patrologia e della letteratura cristiana per il fatto che comprende gli scritti
del Nuovo Testamento ed autori eretici. Anzi, proprio a lui si richiameranno i
moderni patrologi per estendere l’ambito della loro trattazione rispetto ai
limiti precedenti. L’interesse per la «patrologia» si mantiene in tutta
l’antichità cristiana, con Gennadio di Marsiglia, autore di una continuazione
del De viris illustribus di Gerolamo dallo stesso titolo (467-480), e con i suoi
successori, che si limitano per lo più a compilare le opere dei precedenti con
scarse aggiunte, relative agli autori della loro patria: Isidoro di Siviglia, ad
esempio, autore pure di un De viris illustribus (tra il 615 e il 618), e il suo
allievo Ildefonso di Toledo, morto nel 667, autore di un’opera analoga. In
Oriente, il De viris illustribus di Gerolamo fu presto tradotto in greco,
probabilmente da un tale Sofronio contemporaneo di Gerolamo e traduttore già di
parecchi suoi scritti20. Questa traduzione fu utilizzata da un anonimo per una
revisione dell’Onomatologos di Esichio di Mileto (550 ca.), utilizzata a sua
volta da Fozio e Suida. Nel suo Myriobiblon o Bibliotheca, composto prima
dell’858, Fozio fornì una quantità enorme di informazioni su 280 opere pagane e
cristiane, senza un ordine preciso, ma con descrizioni particolareggiate e per
talune opere lunghi estratti seguiti da una critica letteraria, talora preceduti
da indicazioni biografiche. Il Lexikon composto verso l’anno 1000 da un certo
Suida (o Suda) di Costantinopoli è indispensabile allo storico della letteratura
cristiana primitiva, perché fornisce dati importanti su numerose opere
patristiche. Terzo Recentemente si è notato che già nell’antichità è
presente, inoltre, un interesse specifico per gli aspetti «letterari» delle
opere dei Padri21. Gli antichi scrittori cristiani manifestano una viva
coscienza dell’importanza delle scelte linguistiche e stilistiche e da questo
punto di vista giudicano e criticano gli esempi precedenti. Pensiamo a
Lattanzio, che nelle Divinae Institutiones (inizio del libro V) traccia una
serie di giudizi letterari sui suoi predecessori (Tertulliano, Minucio Felice,
Cipriano); pensiamo alle annotazioni estetiche di Gerolamo nel De viris
illustribus e, soprattutto, al De doctrina christiana di Agostino, con le sue
analisi dello stile di Paolo, di Cipriano e di Ambrogio22. La cosa è tanto
più notevole, in quanto è questo un interesse che successivamente faticherà ad
affermarsi. Il Medioevo Nel Medioevo continuano, e si sclerotizzano, i
filoni della «patristica» e della «patrologia» . Primo I lavori dei
teologi e degli esegeti cominciano ad essere un intreccio di estratti
patristici; tali le prime raccolte generali di Sententiae o di Flores, al punto
di confinare persino col plagio o col centone in trattati particolari come il De
Trinitate di Alcuino1. Nel ‘300 i Padri vengono utilizzati in modo sistematico,
ma non direttamente, bensì attraverso le Tabulae originalium, le Auctoritates o
i Libri Auctoritatum, che riportano brani scelti, classificati in ordine
alfabetico d’autore, e liste di citazioni disgiunte dai rispettivi contesti.
L’uso è quindi meccanico: importa solo l’interesse del singolo passo da
utilizzare come argomento autorevole, non contano né la personalità dell’autore,
né l’opera, né il contesto. Secondo Procede ininterrottamente la
tradizione patrologica con elenchi di nomi e opere che, per il periodo antico,
si rifanno a Gerolamo e a Gennadio, e vi aggiungono i teologi latini posteriori.
Si possono citare Sigeberto di Gembloux, morto verso il 1112, autore di un De
viris illustribus; Onorio di Augustodunum (Autun), autore di un De luminaribus
Ecclesiae (tra i 1122 e il 1125); l’Anonimus Mellicensis (di Melk), autore di un
De scriptoribus ecclesiasticis (del 1135 ca.) per arrivare infine, fuori dai
limiti del Medioevo, a Giovanni Tritemio, autore di un’opera dallo stesso titolo
(del 1494 ca.), molto ampia (964 scrittori esaminati), anche se per l’antichità
non dice niente di più di Gerolamo e Gennadio. Si può accennare ancora, per
la letteratura siriaca, al Catalogo degli autori ecclesiastici compilato verso
il 1317-18 da Ebed-jesu bar Berika, l’ultimo grande scrittore dei nestoriani.
Contiene informazioni molto utili sulla letteratura cristiana
primitiva. L’aspetto più importante dell’interesse che il Medioevo esprime
verso i Padri è l’opera di copiatura dei testi, che ha dei limiti (sono
trascurati o ignorati in Occidente gli scrittori anteniceni ed i greci) e
inoltre diminuisce nel ‘200 a vantaggio degli autori scolastici. Sono rare le
collezioni di testi, ma è rilevante quella degli apologisti curata da Areta di
Cesarea nel 914. L’umanesimo Con l’Umanesimo si riscopre l’antichità
classica come sorgente di ogni espressione culturale e nasce l’esigenza di una
migliore conoscenza e comprensione dei tesori della letteratura classica, latina
e greca, compresi i Padri. Questo nuovo slancio degli studi si esprime
nell’impegno di fornire edizioni complete dei testi, di cui prima esistevano
solo citazioni frammentarie. Erasmo e gli umanisti, aiutati da stampatori
come Gering, Giovanni Petit, Amerbach, Froben, diffondono le opere di Lattanzio,
Cipriano, Agostino, Gerolamo, Eusebio, Atanasio, Origene e Giovanni Crisostomo.
Queste edizioni tuttavia non danno prova di spirito critico, giacché si pubblica
indiscriminatamente tutto quanto capita tra le mani e affidandosi al codice
«migliore». Gli scrittori greci sono inizialmente pubblicati in traduzioni
latine curate per lo più dai medesimi umanisti. Verso la fine del ‘500 si
avverte la necessità di riunire le opere dei diversi Padri in grandi collezioni
unitarie. La prima è la Bibliotheca Sanctorum Patrum di Marguerin de la Bigne,
Paris 1575-1579, 8 voll., poi più volte ripubblicata ed arricchita: nel 1677
arriverà a 27 volumi: comprende autori fino al XVI secolo. La prospettiva
degli umanisti è essenzialmente storica, non teologica. Pertanto la patrologia,
pur senza rigettare l’argomento patristico, si sviluppa notevolmente e tende a
divenire disciplina autonoma1. Tuttavia bisogna tener conto di un fatto
importante che ha condizionato anche in seguito gli studi negli autori
cristiani. Quando nel ‘400 e ‘500 vengono fissati, sulla base dei modelli
classici, i canoni validi per ogni genere letterario, non vengono mai presi in
considerazione gli autori cristiani, proprio per il loro contenuto teologico e
per il pregiudizio umanistico che porta a considerare la forma espressiva di
questi autori inferiore, in quanto diversa, a quella dei classici. Si può
applicare agli autori cristiani antichi la denuncia che Giovanni Getto faceva a
proposito della letteratura religiosa italiana del ‘300 e del ‘400: «Nella
coscienza degli scrittori e dei critici italiani, per un pregiudizio di
carattere umanistico prima e ideologico poi, si mantenne a lungo una specie di
diffidenza e di fastidio nei riguardi della letteratura religiosa»; «La
ricchezza della loro [degli autori religiosi] personalità, e la loro stessa
originalità espressiva, doveva restare aliena all’intelligenza del gusto critico
di questi secoli di imperante classicismo [cioè del ‘400 e ‘500], in cui valgono
come canoni fondamentali di giudizio le idee di ordine e di armonia, di decoro e
di eleganza, di purezza e di bellezza ideale: moduli tutti che riuscivano in un
troppo stridente contrasto con la scrittura, per lo più incondita e
appassionata, degli autori devoti. Veniva per conseguenza respinta su un piano
estraneo alla letteratura la considerazione per questi classici della
spiritualità cristiana»2. Da questo punto di vista appare significativo il
giudizio del Bembo, che definiva «epistolacce» le lettere di Paolo, come riporta
P. De Labriolle, nella sua introduzione all’Histoire de la littérature latine
chrétienne3. Questi sottolinea come gli umanisti estendessero alle opere
cristiane primitive e anche alla Bibbia latina il loro disprezzo del latino
«scolastico» o «monastico» opponendo la loro rozzezza priva d’arte al fascino
divino delle opere classiche. In realtà essi appoggiavano i loro pregiudizi su
certe dichiarazioni più o meno sincere degli autori cristiani stessi che
professavano di volersi opporre alla cultura profana. Di fatto i loro testi
sembrarono aver importanza solo come documenti sul dogma, sulla liturgia, sulla
letteratura ecclesiastica etc., e i letterati li abbandonarono ai teologi, anche
per non dover immettersi in pericolose discussioni capaci di mettere in dubbio i
loro canoni. La trasformazione della lingua latina sotto l’influenza del
cristianesimo fu considerata una manifestazione deplorevole di decadenza. E tale
opinione si è perpetuata abbastanza durevolmente fino a tempi recenti. Tra i
Padri venivano presi in considerazione, a parte Agostino, quelli soprattutto
considerati più «uomini di lettere», quali Cipriano, Lattanzio, Gerolamo,
Orosio. Di fatto, i letterati abbandonarono in tal modo i testi cristiani nelle
mani dei teologi. La Riforma La Riforma luterana, invece, rinnova,
l’amore per i Padri a livello propriamente teologico. I riformatori, infatti,
come sottolinea il Benoît1, pur mettendo in primo piano l’autorità della Bibbia,
non rifiutavano la storia e il suo sviluppo, bensì facevano del principio
biblico un criterio di giudizio di essa: pertanto ai Padri, pur non essendo
considerati allo stesso livello della Bibbia, veniva attribuita un’autorità
proporzionale al loro accordo con la Scrittura. Lutero riteneva che nell’insieme
i Padri manifestassero la fede in Cristo della Chiesa antica. I Padri vengono
accettati non per la loro antichità o per la loro santità o per il
riconoscimento ecclesiale o per la loro unanimità di vedute, cioè in base ai
criteri cattolici di definizione di Padre, ma in virtù dell’omogeneità al
pensiero biblico. Questo criterio segna una svolta importante negli studi
patristici, perché rende impossibile una citazione meccanica e arbitraria dei
testi e implica un serio esame, un’analisi critica. Siamo però ancora sempre su
un piano teologico e contenutistico e l’analisi dei testi è funzionale alla
polemica nei riguardi della Chiesa cattolica, quindi è soggetta talora a
manipolazioni e forzature. È significativo che Lutero si interessi dei Padri
solo per dimostrare come ben presto essi si siano allontanati dal dettato
biblico cadendo nell’errore, e quindi li critichi volentieri. I suoi giudizi
sono spesso radicalmente negativi e mistificanti: «Origene è principe e re
dell’allegoria ed ha riempito tutta la Bibbia di simili spiegazioni, che sono di
scarso valore»2; «Gregorio di Nazianzo è una nullità, Gregorio è un monaco,
Cipriano un uomo pio. Tertulliano e Ilario non hanno fatto altro che raccontare
storielle»3. Dello stesso valore sono le valutazioni positive, in quanto
dipendono dalla corrispondenza delle opinioni di certi Padri con le sue (per
esempio, Lutero predilige Agostino). Per di più, questi giudizi sono trinciati
sulla base di una conoscenza scarsa degli autori. Con sfumature diverse, sono
però analoghe le posizioni degli altri riformatori (Melantone, Calvino,
Zwinglio), che utilizzano i Padri contro la Chiesa di Roma e a difesa della
Chiesa riformata, l’unica, secondo loro, che conservi la continuità con la
Chiesa antica, l’unica ancora fedele alla Bibbia4. A sua volta, la parte
avversa, cioè i teologi cattolici, usa i Padri con scopo opposto, ma secondo la
medesima impostazione: si prendono le affermazioni dei Padri per appoggiare
questo o quel dogma, questa o quella pratica. L’uso dei Padri resta un capitolo
dell’apologetica5. Così nel ‘500, insieme alla tradizione patrologica
specifica dell’Umanesimo, si prolunga e si sviluppa anche la tradizione
patristica, vale a dire l’utilizzazione teologica dei Padri in vista
dell’elaborazione dottrinale. Ma la controversia sui Padri spinge gli storici
protestanti e cattolici ad uno studio sempre più serio: già alla metà del ‘500
si trovano i primi importanti lavori consacrati ai dottori della Chiesa antica.
Sono però significativi i titoli: Catalogus testium veritatis qui ante nostram
aetatem pontifici Romano eiuscque erroribus reclamaverunt è intitolata una
raccolta di Placco Illirico del 1556, ripresa poi da Simone Goulard nel 1597. È
evidente che in questo tipo di lavori non emergono le personalità dei singoli
autori, ma i contenuti dottrinali e i problemi ecclesiali. Seicento e
Settecento Nel ‘600 e nel ‘700 i Padri restano le pezze d’appoggio delle
vecchie controversie, ma si approfondisce l’impegno culturale, soprattutto
nell’ambito delle edizioni dei testi, in cui si segnala l’opera dei Benedettini
di San Mauro (Saint Maur), i cosiddetti Maurini, tra cui l’iniziatore fu Luc
d’Achéry (morto nel 1687), e figure notevoli furono Jean Mabillon (morto nel
1707), Thierry Ruinart (morto nel 1709), René Lassuet (morto nel 1716), Charles
de la Rue (morto nel 1739), Bernard de Montfaucon (morto nel 1741), etc.
Importante fu anche il contributo dei Gesuiti (da Fronton du Duc, morto nel
1624, in poi) e dei Domenicani, fra cui spiccano i nomi di François Combéfis
(morto nel 1679) e di Michel Le Quien, e anche di molti laici (Étienne Baluze,
Scipione Maffei) e sacerdoti (Egidio Forcellini, etc.) . A differenza delle
edizioni umanistiche, queste edizioni mostrano già un notevole impegno critico e
alcune di esse sono ancora utilizzabili. Tra le raccolte di testi è
importante quella di Andrea Gallandi, Bibliotheca Veterum Patrum antiquorumque
scriptorum ecclesiasticorum, in 14 volumi, uscita a Venezia tra il 1765 e il
1788 (contiene testi fino al 1200). Proseguono anche le indagini storiche e
per la prima volta i Padri della Chiesa sono studiati come tali, se ne indaga la
biografia, l’opera letteraria, le fonti, la dottrina, con spirito erudito.
Nell’ambito cattolico abbiamo tutta una serie di trattati sugli «scrittori
ecclesiastici»: è questa l’indicazione che compare in tutti i titoli, da sola o
insieme a quella di «Padri»: cfr. Roberto Bellarmino (morto nel 1621), De
scriptoribus ecclesiasticis, Romae, 1613 (tratta degli autori fino al 1500);
Louis Ellies Du Pin (morto nel 1719), Nouvelle Bibliothèque des auteurs
ecclésiastiques, Paris 1686-1711, 47 voll. (fino ai tempi dell’autore); Nicolas
le Nourry (morto nel 1724), Apparatus ad Bibliothecam maximam veterum Patrum et
antiquorum scriptorum ecclesiasticorum, Paris, 1703-1715, 2 voll. (fino al IV
sec.); Rémi Ceillier (morto nel 1761), Histoire générale des auteurs sacrés et
ecclésiastiques, Paris, 1729-1763, 23 voll. (fino al 1248) ; Dominikus Schram,
(morto nel 1797), Analysis operum SS. Patrum et scriptorum ecclesiasticorum,
Vindobonae, 1780-1796, 18 voll. (fino ad Epifanio); Gottfried Lumper (morto nel
1800), Historia theologica-critica de vita, scriptis atque doctrina SS. Patrum
aliorumque scriptorum ecclesiasticorum trium primorum saeculorum, Vindobonae,
1783-1799, 13 voll. (fino al IV sec.). L’indicazione di «scrittori
ecclesiastici» manifesta una tendenza ad allargare l’interesse a una cerchia di
autori più vasta rispetto a quella dei Padri1. Accanto a queste opere
cattoliche ne troviamo alcune di teologi riformati con analoghi titoli: William
Cave (morto nel 1713), Scriptorum ecclesiasticorum historia letteraria a Christo
nato usque ad saeculum XIV, London, 1688; Casimir Oudin (morto nel 1717),
Commentarius de scriptoribus ecclesiasticis, Lipsiae, 1722, 3 voll. (fino al XV
sec.). Ma è significativo che gli studiosi luterani adottino per la prima volta
il termine «Patrologia», destinato ad avere molta fortuna nel XIX sec.: cfr.
Johann Gerhardt (morto nel 1637) Patrologia sive de primitivae Ecclesiae
christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum, Ienae, 1653,
1668; Johann Hulsemann (morto nel 1661), Patrologia, Lipsiae, 1670; Johann
Gottfried Olearius (morto nel 1721), Abacus patrologicus, Jenae, 1673. Questi
studiosi estendevano la patrologia fino al Medioevo e anche oltre (fino al
Bellarmino: Gerhardt; fino al XVI sec.: Olearius), in quanto il concetto di
«ecclesia primitiva» (cfr. Gerhardt) era riferito alla Chiesa ancora intatta
dalle presunte innovazioni tarde2. Pertanto il loro uso del termine «Padre» era
polemico rispetto a quello cattolico che lo restringeva all’antichità e solo ad
alcuni scrittori antichi, secondo i criteri stabiliti. Opere settecentesche
di carattere erudito ma ancora parzialmente valide sono: Le Nain de Tillemont,
Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastigue des six premiers siècles,
Paris, 1693-1712, 16 voll.; Johann Albert Fabricius, Bibliotheca Graeca sive
notitia scriptorum veterum Graecorum, Hamburgi, 1705-1728, 14 voll.; Carl T. G.
Schonemann, Bibliotheca historico-litteraria Patrum Latinorum a Tertulliano
usque ad Gregorium M. et Isidorum Hispalensem, Lipsiae, 1792-1794, 2 voll. (non
è uscito un 3° vol. preannunciato). Queste opere «rompono ormai in ogni senso
con i quadri tradizionali in cui è consacrata la figura del ‘Padre’ e fanno
sentire l’esigenza di una storiografia ecclesiastica nuova, liberata insieme
dalla schematica annalistica e capace di misurarsi sia con problemi e questioni
difficili sia con grandi personaggi del passato» Ottocento e Novecento
Con il rinnovato interesse per la storia e per il sentimento religioso,
tipico dell’inizio dell’ ‘800, gli studi sui testi di letteratura cristiana
conoscono un nuovo intenso sviluppo e anche un approfondimento critico e
metodologico. Innanzitutto, va segnalato il fenomeno dell’accrescimento
numerico del patrimonio letterario, che avviene attraverso la scoperta di
manoscritti inediti in antiche biblioteche. Se ne avvantaggiano soprattutto gli
autori anteniceni (si pensi ai Philosophoumena di Ippolito ritrovati in un
manoscritto del Monte Athos nel 1842 e pubblicati nel 1851, alla Didaché,
scoperta in un manoscritto di Gerusalemme nel 1813, alle Odi di Salomone
scoperte nel 1916-1920, all’Omelia sulla Passione probabilmente di Melitone di
Sardi nel 1936, fino alle otto omelie catechetiche di Giovanni Crisostomo
ritrovate nel 1955), gli scrittori gnostici e in genere eretici (a partire dalla
Pistis Sophia, trovata nel 1851, all’intera biblioteca gnostica scoperta a Nag
Hammadi in Egitto nel 1946, ai trattati di Priscilliano che conosciamo dal
1885), gli apocrifi dell’Antico e del Nuovo Testamento (frammenti del Vangelo e
dell’Apocalisse di Pietro, nel 1892; del Vangelo dei dodici apostoli, nel 1907;
del Vangelo degli Egiziani, nel 1897, etc.). Un apporto notevole viene dato dal
ritrovamento di antiche traduzioni orientali, sia di opere perdute
nell’originale (la Demonstratio apostolica di Ireneo è nota da una traduzione
armena scoperta nel 1907, il Commento a Giovanni di Teodoro di Mopsuestia da una
traduzione siriaca trovata nel 1897; dell’Apologia di Aristide si è trovata nel
1889 una traduzione in siriaco che ha permesso successivamente di riconoscere il
testo greco inglobato in un romanzo bizantino attribuito a Giovanni Damasceno),
sia di opere già note, di cui hanno permesso una migliore ricostituzione del
testo. Da questo punto di vista è stato importante ritrovare nuovi manoscritti e
frammenti papiracei: in alcuni casi i papiri hanno dato un contributo
determinante (ad esempio, per il testo della lettera di Policarpo). La scoperta
di vari papiri a Tura, in Egitto (1941), ha portato alla luce varie opere
inedite: commenti biblici di Didimo il Cieco, scritti di Origene (tra cui la
trascrizione stenografica di un Dibattito con Eraclide, due omelie sulla Pasqua,
frammenti di commenti biblici), etc. Dall’inizio dell’800 compaiono vaste
raccolte di scritti inediti, tra cui le Reliquiae sacrae di Martin Joseph Routh,
pubblicate a Oxford nel 1814-1818, in 4 voll., ripubblicate nel 1846-1848 in 5
voll., ma soprattutto le imponenti collezioni di Angelo Mai, a partire dal 1825,
ultima delle quali fu la Nova Patrum Bibliotheca, Roma 1854, 7 voll. più altri 3
voll. aggiunti da Giovanni Cozza Luzi nel 1871-1905; e quelle di Jean Baptiste
Pitra: Spicilegium Solesmense, Paris 1852-1858, 4 voll.; Analecta Spicilegio
Solesmensi parata, Paris 1876-1888, 9 voll. Una raccolta completa di tutti i
testi patristici editi fu la monumentale Patrologia che Jacques Paul Migne
pubblicò in poco più di una ventina di anni, servendosi della consulenza del
Pitra: la serie latina (che arriva fino al 1216), in 221 voll., fu pubblicata
nel 1844-1855, la serie greca (fino al 1438-1439), in 162 voll., nel
1857-1866. A partire dalla seconda metà del secolo - è del 1850 l’edizione
critica di Lucrezio del Lachmann, che segna in filologia una vera e propria
rivoluzione critica -, raffinate edizioni scientifiche mettono a disposizione
degli studiosi i nuovi testi da poco scoperti e le conclusioni di ricerche
filologiche accurate. Dal 1866 l’Accademia delle lettere di Vienna pubblica il
Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum (Corpus di Vienna), dal 1897
l’Accademia delle Scienze di Berlino pubblica i Griechische Christliche
Schriftsteller (Corpus di Berlino). Dal 1877, a Berlino, escono pure i
Monumenta Germaniae Historica, con la serie «Auctores Antiquissimi»; dal 1882, a
Lipsia i Texte und Untersuchungen, dal 1891 i Texts and Studies di
Cambridge. Nel ‘900 si segnalano le collane del Corpus Christianorum
(Turnhout, dal 1954) e delle Sources Chrétiennes (Paris, dal 1941).
Significative sono poi le nuove collane di testi della letteratura cristiana
orientale (la Patrologia orientalis, Paris 1903 ss.; il Corpus Scriptorum
Christianorum Orientalium, Louvain, 1903 ss.) che sottolineano la nascita di un
nuovo settore di studi alimentato particolarmente dalle nuove scoperte. Ma
numerose sono poi le iniziative editoriali, soprattutto in Germania e in
Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti, in Italia, in Belgio, in Francia, per
rendere accessibile anche ai non specialisti questo patrimonio letterario:
collane di traduzioni in lingue moderne, antologie e raccolte di testi, anche ad
uso didattico (cfr. i Kleine Texte di Hans Lietzmann, Berlin, 1902 ss.;
Florilegium Patristicum, Bonn, 1904 ss., etc.). Si noti che dalla fine dell’800
la patrologia entra a far parte delle materie di insegnamento delle Università
(nel 1879 a Lovanio), oltre che delle Facoltà teologiche e dei Seminari1. Nel
campo più propriamente scientifico si assiste, a partire dalla metà dell’ ‘800,
con accentuazione nel ‘900, a tutto un fiorire di studi, soprattutto di
carattere monografico, di riviste specialistiche, di dizionari ed enciclopedie.
De Ghellinck notava che dall’inizio del XX sec. si possono contare più di 30
collezioni, periodici e altro che pubblicano esclusivamente o prevalentemente
studi sulle opere e sulle dottrine dei Padri2. E il fenomeno è venuto sempre
progredendo, come dimostra anche il crescente sviluppo dei repertori
bibliografici. Sorgono grosse questioni relativamente all’identificazione di
alcuni scrittori, alla cronologia della loro vita e delle loro opere,
all’autenticità di certi scritti, alle fonti letterarie, ecc. In alcuni casi si
arriva a modificazioni profonde nella conoscenza di alcuni autori e di alcune
opere: si pensi ai casi dello pseudo-Areopagita, di Gregorio di Elvira, di
Teodoro di Mopsuestia, di Ippolito, di Pelagio, ecc. Importanti, per una
trasformazione dei modo di valutare i Padri, sono gli studi che iniziano alla
fine dell’ 800 e si intensificano nel ‘ 900, sulla lingua e lo stile dei
cristiani (nascono negli anni ‘30 dei centri di studi e delle scuole, come
l’Università di Washington, la scuola svedese e quella di Nimega), sul rapporto
tra mondo cristiano e culture contemporanee, sulla vita delle comunità cristiane
in tutti i suoi aspetti. Tutta una serie di scoperte archeologiche, accompagnate
da indagini critiche e filologiche, hanno contribuito ad illuminare il pensiero
dei gruppi cristiani e degli ambienti che li circondavano, e quindi a
comprendere meglio i testi cristiani: il ritrovamento di un deposito nestoriano,
iraniano, buddista, manicheo nelle grotte di Turfan nel Turkestan, agli inizi
del ‘900; quello della città e della sinagoga di Doura-Europos con resti
cristiani e giudaici negli anni ‘20; quella di una biblioteca manichea nel
Fayyum, in Egitto, negli anni ‘30; quello dei manoscritti della comunità essena
di Qumràn, sul Mar Morto, nel 1947. Nell’ ‘800 e nel ‘900 abbiamo delle
modificazioni metodologiche e una reinterpretazione dei concetti e dei termini
usati precedentemente per designare il campo di studi sugli autori cristiani
antichi. Nell’ambito della patristica si accantonano gli intenti apologetici
per occuparsi del dogma cristiano da un punto di vista intellettualistico e
metastorico, per cui la parte più propriamente storica, che prima rientrava in
essa, viene inserita in una nuova disciplina a cui si attribuisce la
denominazione di «storia dei dogmi», per sottolineare l’abbandono di ogni
protezionismo verso la teologia e di ogni a priori confessionale. In alcuni
storici protestanti la liberazione dai legami teologici arriva al punto di
rovesciare la situazione: da una patristica come scienza ausiliare della
teologia, con metodo ed oggetto mutuati dalla dogmatica, si passa ad una
patristica come sezione della storia. Questo nuovo orientamento coinvolge
soprattutto il mondo protestante, ma anche il cattolicesimo, pur restando
ancorato alla tradizione patristica con valore normativo, rinnova l’applicazione
del ricorso ai Padri3. Analogamente, nell’ambito della patrologia,
l’interesse verso i Padri acquista un valore autonomo e si dirige verso una
migliore definizione della personalità degli autori, delle loro fonti, del loro
pensiero, non più in funzione di un quadro teologico e dottrinale
prefissato. Molti lavori di sintesi dell’ ‘800, lavori che si occupano della
vita, degli scritti e della dottrina degli autori cristiani, portano il titolo
di «Patrologia»: cfr., tra i cattolici, Michael Permaneder, Bibliotheca
patristica. Tomo I: Patrologia generalis; Tomo II: Patrologia specialis, vol. I,
1-3, Landishuti, 1841-1844, 2 voll.; Joseph Fessler, Institutiones Patrologiae,
quas ad frequentiorem, utiliorem et faciliorem SS. Patrum lectionem promovendam
concinnavit Joseph Fessler, Oeniponte, 1850-1851, 2 voll., nuova ed. a cura di
B. Jungmann, 1890-1896; Otto Bardenhewer, Patrologie, Freiburg im Br., 1894, II
ediz. 1901 (trad. ital. a cura di A. Mercati, Patrologia, Roma, Desclée, 1903).
Ma molti preferiscono la denominazione di «Patrologia e patristica», per
l’esigenza di distinguere più chiaramente la trattazione della vita e degli
scritti, da assegnare alla patrologia, da quella della dottrina, che va
attribuita alla patristica: cfr., tra i cattolici, Franz Wenzel Goldwitzer,
Patrologie verbunden mit Patristik. Bearbeitet für Theologen, Nurnberg,
1833-1834, 2 voll; Joseph Nirschl, Lehrbuch der Patrologie und Patristik, Mainz,
1881-1885, 3 voll.; Joseph Rézbányay, Compendium Patrologiae et Patristicae una
cum selectis artibus ex operibus SS. Patrum classicis, Quinque Ecclesiis,
1894. Dalla metà del XIX secolo diventa abituale porre come oggetto della
patrologia gli scrittori ecclesiastici dell’antichità e si incominciano a
fissare dei limiti cronologici più precisi: Giovanni Damasceno (morto nel 749
ca.) per gli scrittori greci, Gregorio Magno (morto nel 604) per quelli
latini4. Ma ciò che è più significativo è il rifiuto che si manifesta ad un
certo punto di entrambi i termini, patristica e patrologia, per sostituirli col
termine “storia della letteratura cristiana”. Il primo ad adottare la nuova
denominazione fu Johann Adam Möhler5: questi, forse per l’origine luterana degli
altri termini, ma forse non solo per questo e certo in sintonia con un nuovo
orientamento che si affermerà, usava il titolo di Patrologie oder christiliche
Litterärgeschichte per la sua opera di cui uscì solo il vol. I (Die ersten drei
Jahrhunderte), a cura di Franz Xaver Reithmayr, Regensburg, 1840. Per Möhler la
patristica era “una scienza superflua” (p. 14). Analogo il titolo del manuale di
Johannes Baptist Alzog: Grundriss der Patrologie oder der alteren christlichen
Litterärgeschichte, Freiburg im Br., 1866 (comprende anche il periodo
carolingio). Tale denominazione vuole innanzitutto attirare l’attenzione
sulle esigenze storiche nella presentazione della materia, e poi vuole
sottolineare l’allargamento dell’interesse alla schiera degli «scrittori
ecclesiastici» non propriamente riconosciuti come «Padri», per mancanza o
insufficienza di una delle note caratteristiche attribuite a questi ultimi, e
allargamento dell’interesse anche ai gruppi di autori non ecclesiastici, ma a
contatto col cristianesimo, come gli eretici ed i dissidenti. La
denominazione è stata però adottata soprattutto per influenza, non tanto dei
teologi (a parte il caso Möhler), ma dei filologi e degli studiosi
dell’antichità in genere6, è stata presto recepita dai teologi, tuttavia, in
rapporto con l’esigenza di prendere in considerazione, anche per gli autori
cristiani, l’aspetto letterario. Friedrich Nitzsch, che era uno storico del
dogma, ha per primo sottolineato la preminenza del punto di vista letterario in
collegamento con l’indagine storica e ha indicato in un suo articolo
metodologico le ragioni dell’abbandono dei termine «patristica» per quello di
«letteratura cristiana antica»7. Gli studiosi protestanti della seconda metà
dell’800 in genere adottano il titolo di «storia della letteratura cristiana» e
si occupano quasi esclusivamente dei primi tre secoli, in quanto successivamente
il distacco dalla verità biblica si sarebbe fatto massiccio. Cfr. James
Donaldson, A Critical History of Christian Literature and Doctrine from the
Death of the Apostles to the Nicene Council, di cui sono usciti il vol. I: The
Apostolical Fathers, London, 1864, rist. 1874; i voll. II-III: The Apologists,
1866; Charles Thomas Cruttwell, A Literary History of Early Christianity,
including the Fathers and the Chief Heretical Writers of the Ante-Nicene Period,
London, 1893, 2 voll.; Gustav Krüger, Geschichte der altchristlichen Litteratur
in den ersten drei Jahrhunderten, Freiburg im Br., Leizpig, 1895. Chiaramente
Krüger afferma: «La storia della letteratura cristiana antica insegna a
conoscere e apprezzare i prodotti letterari dello spirito cristiano nell’ambito
del mondo antico da un punto di vista puramente letterario, senza tener conto
del loro significato ecclesiale o teologico, singolarmente e in rapporto con i
loro generi. Si distingue pertanto dalla patrologia, che opera con il concetto
di “Padre della Chiesa” preso dalla dogmatica e che in base alla scelta e alla
trattazione della materia si presenta come una disciplina cella teologia
cattolica»8. Ma fu soprattutto Adolf von Harnack che assunse e difese
sistematicamente l’idea di una «letteratura cristiana antica», in polemica con
la teologia tradizionale e in funzione di una conoscenza storica della Chiesa
antica. Egli scrisse una Geschichte der altchristlichen Litteratur bis Eusebius,
di cui uscirono due parti: Teil I: Die Überlieferung und der Bestand, bearbeitet
unter Mitwirkung von E. Preuschen, Leipzig, 1893; Teil II: Die chronologie.
Band. I: Die Chronologie der Litteratur bis Irenäus nebst einleitenden
Untersuchungen, 1897. Band II: Von Irenenäs bis Eusebius, 1904. Una terza parte,
che avrebbe dovuto occuparsi della «letteratura» vera e propria, non fu
pubblicata. Un compromesso fu tentato dal cattolico Otto Bardenhewer, che
adottò il titolo di «Storia della letteratura ecclesiastica antica» (Geschichte
der altkirchlichen Literatur) per la sua opera, di cui uscirono i primi due
volumi nel 1902 e nel 1903 a Freiburg im Br. (questi volumi furono riediti nel
1913 e 1914; un 3° vol. uscì nel 1912, rist. 1923; un 4° nel 1924; un 5° nel
1932). Con questo titolo l’autore voleva differenziare la nuova opera dalla sua
precedente Patrologia9, ma voleva anche contrapporla all’impostazione di Harnack
e di Krüger, e in genere dei protestanti moderni, per i quali solo a partire
dalla fine del II secolo sarebbe nata una Chiesa coi suoi dogmi, e perciò per
gli scrittori cristiani più antichi non si potrebbe parlare di «letteratura
ecclesiastica», ma si dovrebbe parlare di «letteratura cristiana»10. Ma il
nuovo titolo suscitò dissensi quasi generalizzati: protestanti (tra cui Harnack
e Krüger) e cattolici (tra cui Franz Xaver Funk) rimproveravano a Bardenhewer di
escludere dalla trattazione un certo numero di scritti connessi con la
letteratura cristiana, e di non essere coerente col titolo includendo scrittori
dissidenti o eretici (gnostici, ad esempio). In ogni caso i contrasti avevano
radici ideologiche profonde e riguardavano fondamentalmente le concezioni
relative alle origini del cristianesimo11. Lo ammetteva chiaramente lo stesso
Bardenhewer nella sua replica, premessa al secondo volume: qui egli rifiutava il
titolo di «letteratura cristiana» proprio per la sua neutralità e ambiguità da
un punto di vista dottrinale (anche gli gnostici si dicevano cristiani) e
dichiarava: «La patrologia tradizionale o, ciò che è lo stesso, la storia della
letteratura ecclesiastica antica si fonda sul presupposto che la Chiesa abbia
posseduto dall’inizio una precisa somma di verità di salvezza come eredità
lasciatale dal suo fondatore divino e che almeno durante l’antichità cristiana
l’abbia dimostrato in modo fedele e autentico»12. Il titolo di Bardenhewer
viene rifiutato e non ha séguito, continuano invece successivamente i filoni,
sia delle Patrologie, sia delle Storie della letteratura cristiana. Tra i
manuali di Patrologia abbiamo, in Germania: Gerard Rauschen, Grundriss der
Patrologie, Freiburg im Br., 1903 (trad. ital. della 3° ed. tedesca, Manuale di
Patrologia e delle sue relazioni con la storia dei dogmi, Firenze, Libreria
Editrice Fiorentina, 19124), poi rivisto e rielaborato nell’undicesima edizione
da Berthold Altaner col titolo Patrologie. Die Schriften der Kirchenväter und
ihr Lehrgehalt, 1931; il medesimo Altaner rifarà completamente il lavoro
pubblicando la sua Patrologie. Leben, Schriften und Lehre der Kirchenväter,
Freiburg im Br., 1938, riedita più volte, a partire dalla VI edizione (1960),
con la collaborazione di Alfred Stuiber, 8° ed. 1978 (7° ed. ital., Casale,
Marietti, 1977, rist. 1981); Heinrich Kihn, Patrologie, completata da Franz
Gillmann, Paderborn, 1904-1908, 2 voll.; Basilius Steidle, Patrologia seu
historia antiquae litteraturae ecclesiasticae, Freiburg im Br., 1937; Hans von
Campenhausen, Die Griechischen Kirchenväter, Stuttgart, 1955, 3° ed. 1961 (trad.
ital. Brescia, Paideia, 1967) ; Id., Lateinische Kirchenväter, Stuttgart, 1960
(trad. ital. Firenze, Sansoni, 1969); Hubertus R. Drobner, Lehrbuch der
Patrologie, Freiburg, Herder, 1994 (trad. ital. Casale Monferrato, Piemme, 1998)
In Francia: Joseph Tixeront, Précis de Patrologie, Paris 1918, più volte
riedito (ediz. ital. a cura di G. Calliari, Manuale di Patrologia, Torino,
Berruti, 1948-19503); Fulbert Cayré, Précis de Patrologie. Histoire et doctrine
des Pères et Docteurs de l’Église, Paris 1927-1930, 2 voll. (trad. ital.
Patrologia e storia della teologia, Roma, Società di S. Giovanni Evangelista,
1936-1938); Jacques Liebaert – Michel Spanneut, Les pères de l'Église, Paris,
Desclée, 1986-1990, 2 voll. (trad. ital. Introduzione generale allo studio dei
Padri della Chiesa, a cura di Antonio Zani, Brescia, Queriniana, 1998). In
Italia: Ubaldo Mannucci, Istituzioni di Patrologia, Roma, Ferrari, 1914, 6°
ediz. a cura di Antonio Casamassa, Roma, Ferrari, 1948-1950; Guido Bosio,
Introduzione ai Padri della Chiesa, Torino, SEI, 1990-1999, 6 voll.; Michekl
Spanneut – Antonio Zani – Jacques Liébaert, Introduzione generale allo studio
dei padri della Chiesa, Brescia, Queriniana, 1998. Negli Stati Uniti:
Johannes Quasten, Patrology, Utrecht-Antwerpen, Spectrum, 1950-1960, 3 voll.
(trad. ital. Torino, Marietti, 19804, 2 voll.); continuati in Italia
dall’Institutum Patristicum Augustinianum e a cura di Angelo di Bernardino, sono
apparsi un 3° vol. nel 1978, un 4° nel 1996 ed un 5° nel 2000. Tra le storie
della letteratura cristiana si possono citare, per la Francia: Paul Monceaux,
Histoire littéraire de L’Afrique chrétienne depuis les origines jusqu’à
l’invasion arabe, Paris 1901-1923, 7 voll. (fino al V sec.), rist. 1963; Id.,
Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris, 1924; Pierre Champagne de
Labriolle, Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris 1920 (2° ediz.
1924, 3° ed. a cura di Gustav Bardy, Paris, Les Belles Lettres, 1947); Aimé
Puech, Histoire de la littérature grecque chrétienne, Paris, Les Belles Lettres,
1928-1930; Id., Littérature latine chrétienne, Paris, 1929; Jules Chéruel, Brève
histoire de l’ancienne littérature chrétienne, Paris, Fayard, 1962 (trad. ital.
Storia della letteratura cristiana antica, Catania, Edizioni Paoline, 1963);
Jacques Fontaine, La littérature latine chrétienne, Paris, Presses
Universitaires de France, 1970 (trad. ital. La letteratura latina cristiana,
Bologna, Il Mulino, 1973). Per la Germania: Hermann Jordan, Geschichte der
altchristlichen Literatur, Leipzig, Quelle & Meyer, 1911; Martin Dibelius,
Geschichte der urchristlichen Literatur, Berlin, 1927 (rist. Aggiornata München,
Kaiser, 1975); Alfred Gudeman, Geschichte der altchristlichen lateinisch
Literatur vom 2. bis 6. Jahrhundert, Berlin, 1925 (trad. spagn. ampliata a cura
di Pascual Galindo Romeo, Historia de la antigua literatura latino-cristiana,
Barcelona, Labor, 1928). Per il mondo anglosassone: Adam Fyfe Findlay,
By-Ways in Early Christian Literature, Edinburgh, Clark, 1923; Edgar J.
Goodspeed, A History of Early Christian Literature, Chicago, University Press,
1942 (II ediz. Chicago, University Press, 1966). Per l’Italia: Umberto
Moricca, Storia della letteratura latina cristiana, Torino, SEI, 1925-1934, 3
voll.; Aurelio Giuseppe Amatucci, Storia della letteratura latina cristiana,
Bari, Laterza, 1929, II ediz. Torino, SEI, 1955; Luigi Salvatorelli. Storia
della letteratura cristiana dalle origini alla metà del VI secolo, Milano,
Vallardi, 1936; Michele Pellegrino, Letteratura greca cristiana, Roma, Studium,
1956, III ediz. 1978; Id., Letteratura latina cristiana, Roma, Studium, 1957,
III ediz. 1970; Salvatore Di Meglio, Storia della letteratura greca cristiana,
Napoli, Italgrafica, 1966, nuova ediz. col titolo Il messaggio cristiano
d’Oriente, Torino, Gribaudi, 1973; Manlio Simonetti, La letteratura cristiana
antica greca e latina, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1969, II edizione
1988; Salvatore d’Elia, Letteratura latina cristiana, Roma, Jouvence, 1982;
Claudio Moreschini - Enrico Norelli, Storia della letteratura cristiana antica
greca e latina, Brescia, Morcelliana, 1995, 2 voll.; Manlio Simonetti – Emanuela
Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, Casale Monferrato,
Piemme, 1999. Accanto a queste, vanno poi ricordate le sempre più numerose e
ricche storie delle letterature cristiane orientali, tra cui: Carl Brockelmann –
Franz Nikolaus Finck - Johannes Leipoldt - Enno Littmann, Geschichte der
christlichen Literaturen des Orients, Leipzig, Amelangs, 1907 (II ediz. 1909;
rist. anast. Leipzig, Zentralantiquariat der DDR, 1972); Anton Baumstark, Die
christlichen Literaturen des Orients, Leipzig, Göschen'sche Verlagshandlung,
1911; 2 voll.; John Mason Harden, An Introduction to Ethiopic Christian
Literature, London, Madras, 1926; Georg Graf, Geschichte der christlichen
arabischen Literatur, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1944-1953,
5 voll. (Studi e Testi 118, 133, 146, 147, 172); Michael Tarchnisvili - Julius
Assfalg, Geschichte der kirchlichen georgischen Literatur, Città del Vaticano,
Libreria Editrice Vaticana, 1955 (Studi e Testi 185), Ignazio Ortiz de Urbina,
Patrologia Syriaca, Romae, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, 19652,
etc. Patrologie e storie della letteratura cristiana A parte la
differenza di titolazione, Patrologie e Storie della letteratura cristiana
tendono ad avvicinarsi molto, sia per la materia sia per il metodo della
trattazione. Quanto alla materia, è ammissione comune di patrologi e di storici
della letteratura cristiana che essa sia la stessa1. Anzi, in conseguenze delle
polemiche e dei dibattiti dell’inizio del ‘900, le patrologie hanno allargato le
loro sfere di trattazione, oltre i limiti dei «Padri» veri e propri, inserendo
anche gli apocrifi, gli Atti dei martiri, allargando lo spazio della letteratura
eretica. E le stesse tendenze caratterizzano le storie letterarie2. Da questo
punto di vista si può dire che le patrologie si differenzino dalle storie
letterarie solo perché normalmente non comprendono gli scritti del Nuovo
Testamento (ma anche Bardenhewer li esclude, e Harnack li esclude dalla prima
parte, sulla tradizione e la consistenza, li include nella seconda, sulla
cronologia), e perché considerano gli scrittori non ecclesiastici marginalmente
in funzione della letteratura ecclesiastica. Tralasciano, talora, alcuni
autori. La differenza sostanziale dovrebbe consistere nella diversità di
scopi e di prospettive: anche questo è un principio più volte affermato. Altaner
afferma: “La Patrologia è una scienza teologica che abbraccia tutti gli
scrittori dell’antichità cristiana invocati dalla Chiesa cattolica a testimoni
della sua dottrina, applicando a questo studio i principi metodologici delle
scienze storiche […] Il concetto di ‘padri-testimoni’ ad essa inerente risulta
piuttosto dalla tradizione ecclesiastica, cioè da principi teologico-dogmatici,
che non da criteri propri della storia letteraria”3. A sua volta Bardenhewer
dichiara: “Nell’antica Patrologia emerge dappertutto il punto di vista teologico
ed ecclesiastico, nella moderna Storia della letteratura cristiana antica deve
essere, più o meno esclusivamente, il punto di vista letterario la guida e la
direttiva. In altre parole: là è il contenuto, qui la forma che diventa, fino a
un certo punto, il centro dominante di tutta l’esposizione”4. C’è dunque un
aspetto dogmatico che è peculiare della Patrologia e si esplica sia
nell’esposizione del pensiero dottrinale dei singoli autori (ad es., in Quasten,
Campenhausen), sia in paragrafi appositi dedicati alla storia delle dottrine (ad
es., in Cayré, Altaner). Quasten spiega di aver scelto i passi citati «anche per
mostrare lo sviluppo della teologia nei primi secoli e per illustrare
l’accostarsi dei Padri al deposito della fede» Interesse letterario per i
Padri Ma, se l’interesse letterario è estraneo alla Patrologia, non si può
dire che costituisca un elemento determinante neppure per la Storia della
letteratura cristiana1. Il disconoscimento dei Padri come scrittori è generale.
Altaner, pur riconoscendo che i Padri occupano anche un posto eminente nella
storia letteraria generale, e in particolare in quella greco-romana, afferma che
essi si proponevano non di essere dei letterati, ma dei propagatori della
dottrina e della morale cristiana; non si deve perciò cercare in loro la bella
forma. E questo è il punto di vista del patrologo2. Ma uno storico della
letteratura come Bardenhewer non si esprime diversamente. Pone una netta
differenza tra letteratura cristiana e letteratura in generale e nega agli
scritti dei Padri della Chiesa valore d’arte. «Questi autori non sono
‘scrittori’ o ‘letterati’ , ma uomini Chiesa e teologi». Essi hanno sempre
posposto la forma al contenuto: «proprio per questo non è la forma, ma il
contenuto la base primaria e fondamentale per lo svolgimento della storia di
questa letteratura»; in definitiva: «nella misura in cui si vuole veramente
scrivere storia e far derivare la norma direttiva dell’esposizione dalla materia
stessa, si è obbligati a dare la priorità al punto di vista
teolgico-ecclesiastico rispetto a quello letterario»3. In queste sue
affermazioni Bardenhewer poteva appoggiarsi a convinzioni che avevano
accompagnato il sorgere stesso dell’idea di una ‘letteratura cristiana’: non a
caso si rifaceva all’opinione del Nitzsch4 per il quale l’aspetto artistico era
escluso dalle opere dei Padri. In realtà una concezione strettamente
‘letteraria’ della letteratura cristiana era stata già espressa da Franz
Overbeck in un suo articolo rimasto emblematico5. Di lui Bardenhewer cita, come
obiettivo polemico, una affermazione, secondo la quale «ogni vera storia
letteraria è una storia delle forme»6. Però l’idea di letteratura sottostante a
questa posizione è di tipo classicistico, presuppone un riscontro con i valori
formali della letteratura classica e, nonché portare a una rivalutazione degli
autori cristiani, implica la negazione delle loro peculiarità cristiane. In
effetti, per Overbeck, solo a partire da Clemente Alessandrino, e solo
nell’ambito del mondo greco-romano, sarebbe cominciata una “letteratura
cristiana”, che però, in quanto letteratura “formalmente valida”, per ciò stesso
non sarebbe più, o comincerebbe a non essere più, “cristiana”7. La posizione
classicistica ha prodotto, nei riguardi degli autori cristiani, due risultati
opposti, anche se entrambi negativi: il rifiuto totale o l’assimilazione
deformante nell’ambito della letteratura classica. Come esempi di rifiuto
valgano quelli riportati da De Ghellinck8. Egli ricorda che i filologi
ottocenteschi non si interessavano dei testi cristiani se non dal punto di vista
critico: il famoso Lachmann non voleva vedere nelle lettere di Ignazio di
Antiochia altro che «una materia semplicemente stupida» (Lettera del 1846); il
Madvig confessava (nel 1875) di non aver mai toccato nessuno scrittore
ecclesiastico, greco o latino, tranne Giuseppe Flavio, e solo per trovarvi
indicazioni sui procedimenti della guerra antica. Un altro segno, rilevato
sia da De Ghellinck9 sia da De Labriolle10, è la difficoltà e il ritardo con cui
gli scrittori cristiani sono presi in considerazione dagli storici delle
letterature antiche. La sezione dello Handbuch der Altertumswissenschaft di Iwan
von Müller dedicata alla storia della letteratura greca ancora nella III ediz.
(1888), affidata a Wilhelm von Christ11, riserva un posto minimo, in appendice,
agli autori cristiani; nella IV ediz. (1904) il Christ vi premette
un’introduzione che ha un tono di scusa. Corrispondentemente, per la sezione
sulla storia della letteratura romana, quando Martin Schanz ritenne di dover
analizzare ampiamente anche il contenuto delle opere ecclesiastiche dei primi
secoli (1891) si attirò vive critiche per essere sconfinato in un dominio,
secondo i critici, riservato ad altri specialisti. D’altra parte, quando
l’accettazione avviene, è nel senso dell’integrazione nell’ambito della
letteratura classica. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf rimproverava Harnack per
aver voluto trattare dei cristiani in modo autonomo e contrapposto ai greci;
giudicava questo un atteggiamento da apologista12. Più in generale, parlava dei
“paraocchi” della storia della letteratura cristiana «incapace di percepire e
riconoscere l’unità della grande corrente intellettuale
dell’ellenismo»13. Nella Einleitung in die Altertumswissenschaft di Alfred
Gercke e Eduard Norden la parte sulla letteratura cristiana, greca e latina, fu
affidata a specialisti come Paul Wendland, prima, e Hans Lietzmann, poi14. Ed è
significativo che il Wendland impostasse la trattazione allo scopo di dimostrare
l’adozione progressiva delle forme letterarie greche da parte dei cristiani e la
continuazione dello spirito della cultura antica nel cristianesimo. È ancora
un’osservazione di De Ghellinck15, il quale, per conto suo, critica questa
posizione e si schiera piuttosto dalla parte di chi ritiene che l’interesse
principale della letteratura cristiana consista, non in meriti letterari, ma nei
materiali documentari, di dottrina e di azione pratica, che mette a
disposizione16. Così sintetizza la situazione tra la seconda metà dell’ ‘800
e il primi del ‘900 Salvatore D’Elia, nella presentazione dell’edizione italiana
della Letteratura latina cristiana di Jacques Fontaine: «Alcuni studiosi, come
Merckle, Jülicher e in parte De Ghellinck, si mostravano scettici sulla
possibilità di una storia letteraria, in quanto gli autori cristiani sarebbero
da ricondurre, tutt’al più, entro il solco delle storie del pensiero e non della
letteratura. Altri studiosi, come Overbeck, Jordan, Wilamowitz, davano invece
risalto prevalentemente alle forme letterarie. E, poiché erano ancora di
formazione sostanzialmente classicistica, tendevano soprattutto alla ricerca
degli echi e delle imitazioni degli autori classici negli autori cristiani, e
alla conseguente valutazione di questi in base al dosaggio degli elementi
classici ancora presenti […] Se gli studi di patristica restavano, almeno
allora, legati ad una valutazione contenutistica sostanzialmente metastorica,
gli studiosi di storia letteraria erano dunque succubi, da un lato, di una
posizione laicistica che intendeva distinguere nettamente il proprio orizzonte
da quello teologico-ecclesiastico, dall’altro di una posizione classicistica che
spingeva a recuperare, del patrimonio tardo-antico, solo quello che rientrasse
nei moduli del ‘classico’»17. Si può dire che queste posizioni siano state
veramente superate, in seguito? Anche se certe forme estreme di rifiuto
sembrano effettivamente scomparse, e il ‘900 ha conosciuto un recupero crescente
e una rivitalizzazione delle opere patristiche, questo è avvenuto ancora
piuttosto sul piano del contenuto e nell’ambito della storia (della storia della
religione, della storia della Chiesa, della storia della cultura, della storia
linguistica, sociale, economica, etc.), che non della letteratura vera e
propria. L’idea di una estraneità di queste opere alla letteratura è ancora
presente nelle affermazioni con cui Augusto Rostagni, nella sua Storia della
letteratura latina, esclude una trattazione sistematica della letteratura
cristiana: questa, «pur essendo in lingua latina, procede per vie divergenti,
cioè si appella ai valori ultraterreni della civitas Dei e tende a travolgere
l’antico»; inoltre, «in massima non era neppure tanto diretta a fini letterari
quanto determinata e dominata da interessi catechistici, teologici, dogmatici».
Egli la considera «qualificata per una sua autonoma trattazione», che però
concepisce come «di carattere inevitabilmente dogmatico e teologico ancor più
che letterario»18. Ma tale idea è fatta propria anche, spesso, da chi si
occupa specificamente di letteratura cristiana. Ancora nel 1969, Giuseppe
Lazzati, presentando la Letteratura cristiana antica di Manlio Simonetti
asseriva recisamente: «Nessuno vi cerchi quello che oggi più comunemente si
intende sotto il nome di letteratura”19. D’altra parte, chi parte da una
prospettiva sostanzialmente classicistica sposta o attenua questo tipo di
rifiuto, ma non lo elimina completamente. Tipico l’atteggiamento di Pierre de
Labriolle, che, pur riconoscendo pregi letterari e artistici agli autori
cristiani latini, li nega a quelli greci, a cui rimprovera debolezza estetica e
mancanza di ogni preoccupazione letteraria20. Non sarà per questo, tra l’altro,
che risultano più numerose le Letterature cristiane latine rispetto a quelle
greche, e specialmente in Italia, ove più a lungo si sono mantenuti certi canoni
classicistici, per il perdurante influsso dell’estetica
crociana? Frequentemente la discriminazione riguarda alcuni autori (quelli
della prima metà del II sec.), opere minori. Il Puech, che si ispira per
l’impostazione al De Labriolle, riconosce differenza di materia per la
letteratura cristiana greca rispetto a quella latina e ammette che le opere con
cui la prima incomincia sono innanzitutto strumento di propaganda o di
edificazione, anche se sarebbe esagerato dire che «non hanno alcun carattere
letterario». Solo a partire dalla seconda metà del II sec. le due letterature si
sviluppano parallelamente e compaiono veri scritti21. Luigi Alfonsi, dopo
aver escluso dall’ambito della letteratura vera e propria i Vangeli, le
traduzioni della Bibbia e di scritti religiosi, aggiunge: «né metteremmo nella
vera e propria letteratura cristiana […] certe epistole di Padri Apostolici che,
pur belle e pur non aliene da ricercatezze formali, vogliono però essere
piuttosto messaggi di fede e di cristiano, amoroso eroismo o concernono la
disciplina della Chiesa, ma non sono letteratura»22. Anche Michele
Pellegrino, in una recensione in cui discute la presa di posizione di Rostagni,
contesta il giudizio di una estraneità dei cristiani ai valori del mondo
classico, ma condivide l’idea di letteratura sottostante al giudizio. Pellegrino
vuole «dimostrare che non esiste fra cristianesimo e classicità quella frattura
che impedisca di scorgere negli autori cristiani gli eredi e continuatori d’una
tradizione letteraria». Di conseguenza, trova che «il Nuovo Testamento, i Padri
Apostolici, gli apocrifi biblici, hanno con l’ellenismo scarsi punti di contatto
che non bastano a definirli come ‘letteratura greca’». In generale è d’accordo
con Rostagni sul fatto che, quando prevale l’interesse teologico, non c’è opera
d’arte, non c’è letteratura. «Gli scrittori cristiani, in cui le preoccupazioni
apologetiche, teologiche, morali, pastorali hanno una parte decisiva, spesso non
s’innalzano all’opera d’arte; perciò in una storia della letteratura cristiana
ove non s’intenda raccogliere notizie su quanto fu scritto da cristiani ma
mettere in rilievo i valori d’arte cui la presentazione del messaggio cristiano
ha fatto luogo, sarà necessario eliminare, o toccare solo ci sfuggita, per
caratterizzare l’ambiente e le personalità, molte opere dei nostri scrittori,
impegnando invece l’attenzione su quelle in cui traluce un raggio di
bellezza»23. Su questo sfondo tanto più risaltano (dice il D’Elia: «È
difficile trovare altrove un’affermazione così perentoria»24) le considerazioni
del Fontaine nell’Introduzione alla sua Letteratura: «Documenti storici, fonti
teologiche, spesso anche testimonianze del cammino del pensiero filosofico, le
opere degli autori cristiani di lingua latina sono innanzitutto delle opere
letterarie, anche se anonime o difficilmente databili, anche se scritte da un
autodidatta in un latino difficilmente qualificabile (come alcune lettere di
confessori della fede conservate nell’epistolario di Cipriano). Ciascuna di esse
è, a questo titolo, un messaggio personale, rivolto con intenzioni precise ad un
pubblico o a un destinatario preciso. Lo scopo, di cui essa è così espressione,
non ha potuto manifestarsi in lingua latina senza un riferimento all’ideale più
o meno cosciente di una certa forma, per quanto modesta e implicita possa
essere»25. Del resto il D’Elia stesso compone poi una propria Letteratura
latina cristiana, che segna da questo punto di vista un arretramento su
posizioni più vecchie: parla della «non letterarietà degli atti dei martiri
Scillitani alle finalità e ai livelli della letteratura egemone»26 e stabilisce
che: «Gli inizi veri e propri di una letteratura latina cristiana si hanno solo
quando uomini di origine sociale non subalterna né periferica e di formazione
culturale non più preletteraria aderiscono numerosi al cristianesimo. E questo
si verifica verso la fine del II secolo e nel III». Titolo della disciplina
universitaria L’impostazione dei manuali di letteratura cristiana antica è
determinata tuttora dal binomio contenuto/forma, nel senso che si tende a fare
delle storie del pensiero cristiano e, quando si presta attenzione alle forme, è
per ricercare i rapporti con i classici. Questa impostazione si riflette su
varie questioni. Pensiamo alla questione del titolo, intorno al quale è
sorto, specialmente in Italia, a partire da Antonio Giuseppe Amatucci (1929), un
lungo dibattito sulla scelta tra “letteratura latina (o greca) cristiana” e
“letteratura cristiana latina (o greca)”1. Tale dibattito è nato appunto dal
contrasto tra chi intendeva porre l’accento sull’elemento «latino» o «greco»
piuttosto che su quello cristiano, o viceversa; tra chi, cioè, intendeva
considerare le opere degli scrittori cristiani come un capitolo della
letteratura classica o comunque in stretto rapporto di collegamento con essi e
chi preferiva considerarle per se stesse, nella loro autonomia, come iniziatrici
di una cultura nuova, sia pure espressa press’a poco con gli stessi mezzi
linguistici, e spesso con gli stessi procedimenti2. Riprendendo con un
significato nuovo una denominazione ottocentesca (cfr. Bähr, Lietzmann),
Salvatore Costanza ha proposto di usare l’indicazione “letteratura
romano-cristiana” per tener conto del fattore fondamentale dell’unità
politico-culturale dell’impero romano, a cui il cristianesimo ha contribuito in
modo rilevante, sul piano spirituale, ma anche letterario, soprattutto a partire
dal IV sec3. Anche con tale denominazione resta fondamentale, secondo Costanza,
come compito di tale letteratura, il confronto tra autori cristiani e autori
pagani per rilevare in essi la tradizione degli antichi generi letterari, dato
che i cristiani sono considerati «gli eredi dei grandi autori classici
dell’Ellade e di Roma»4. In tale dibattito è rimasta così in ombra quella
parte della letteratura cristiana, arricchita dalle recenti scoperte, che si è
espressa in altre lingue e in altri ambienti (cfr. letteratura cristiana armena,
siriaca, copta, georgiana, etc.)5. Il termine patristica è oggi talora
preferito a quello di Letteratura cristiana antica per vari motivi. Ad esempio,
per distinguere lo studio degli autori cristiani da quello del Nuovo Testamento,
che si tende a considerare a parte6. Il termine serve a indicare la disciplina
che si occupa dei Padri sia da un punto di vista teologico, sia storico, sia
filologico, ma con qualche sfumatura di polemica nei riguardi della Patrologia,
intesa come l’erede dell’antica “teologia patristica”, con interessi più
accentuatamente speculativi e dogmatici7. Di fatto, oggi non c’è quasi
differenza nell’uso comune tra “Patristica” e “Patrologia" Limiti cronologici
Significative le diverse motivazioni addotte per giustificare i limiti
cronologici scelti per la trattazione. Per gli inizi, c’è innanzitutto la
questione degli scritti neotestamentari. Molti manuali di letteratura cristiana,
oltre alle Patrologie, tendono ad escluderli. Le ragioni possono essere di
carattere pratico: lo sviluppo specifico degli studi biblici1, ma anche
teologico: il Nuovo Testamento è “parola di Dio”, la letteratura cristiana è
“parola di uomini”. Quest’ultima considerazione, se vale in particolare per i
Patrologi e per i protestanti, è stata importante anche per studiosi di
letteratura cristiana come Bardenhewer, che è cattolico2. Da un punto di vista
letterario, si è spesso accentuato il distacco tra il carattere semitico di
questi scritti e lo spirito classico che informerà la letteratura cristiana dei
secoli successivi. Per questo, si è talora riconosciuta la possibilità di una
trattazione comune di letteratura neotestamentaria e letteratura cristiana
antichissima (i Padri apostolici), anch’essa volentieri esclusa dalla
letteratura cristiana vera e propria3. Eppure, ragioni storiche e letterarie
imporrebbero di considerare in continuità Nuovo Testamento e opere cristiane.
Storicamente, dovrebbe prevalere l’idea che si tratta sempre di prodotti della
Chiesa nascente4. Letterariamente, è apparso chiaro a molti che proprio il
Nuovo Testamento è la fonte di ispirazione dei cristiani, non solo per il
contenuto, ma anche per la lingua e lo stile, e, se non si tiene conto di esso,
anche tutta la letteratura cristiana resta incomprensibile5. Del resto proprio
alcuni tra i promotori di una “Storia della letteratura cristiana”, Krüger,
Harnack, Jordan, avevano incluso la letteratura neotestamentaria. Per quanto
riguarda la fine, in generale questa è stata posta a metà circa dell’VIII
secolo, per l’Oriente, con la figura di Giovanni Damasceno (morto nel 749), e a
metà circa del VII secolo, per l’Occidente, con Gregorio Magno (morto nel 604) o
con Isidoro di Siviglia (morto nel 636). I termini sono scelti in funzione della
coincidenza della letteratura patristica con il perdurare della cultura
greco-romana. Si tratta, osserva De Ghellinck «di una questione di principio […]
legata strettamente alla definizione e stessa di patrologia o di storia della
letteratura cristiana antica, che assumerebbe volentieri come formula ‘la storia
degli scritti cristiani usciti dalla penna degli autori greco-romani’, formula
fatta per piacere alla filologia»6. È formula limitatrice, che non tiene conto,
ad esempio, degli scrittori cristiani di altre culture. Proprio la
considerazione del rapporto della letteratura cristiana con lo sviluppo delle
letterature greca e latina in generale ha portato altri (Schanz, von Christ,
Pellegrino, D’Elia) a limitare la trattazione fino all’avvento di Giustiniano
(527). Puech conclude col IV sec., in polemica con le Patrologie, che arrivano a
Giovanni Damasceno, proprio perché intende procedere nello spirito di confronto
tra letteratura profana e letteratura sacra e dopo quel termine non esiste più
questo confronto. Proposte di prorogare invece i termini (ad esempio, fino
all’843, festa dell’Ortodossia, secondo A. Ehrhard), sono talora dettate da
criteri dottrinali. Organizzazione della materia L’interesse letterario
per i Padri ha un preciso riscontro nell’organizzazione della materia. È un
fatto che l’impostazione di tipo classicistico porta a classificazioni in
periodi valutati più o meno positivamente secondo il minore o maggiore grado di
avvicinamento ai valori formali e culturali della classicità. E normalmente i
vari periodi sono inseriti in una linea di sviluppo parabolica, con un inizio,
un culmine e una fine. Si parla, perciò, di “origini” o “inizi” per il II ed il
III sec. (De Labriolle, Moricca, Pellegrino, Di Meglio), di “età dell’oro” (De
Labriolle, Moricca) o “periodo aureo” (Di Meglio) o “apogeo” (Pellegrino,
D’Elia) per il IV sec., di “decomposizione (dell’impero)” (De Labriolle) o
“tramonto della letteratura patristica” (Pellegrino) o “periodo della decadenza”
(Di Meglio) per il periodo successivo. Il nesso tra questa scala di valori e
il rapporto con la tradizione classica risulta esplicito nel Pellegrino. La
prima fase è rappresentata infatti da una letteratura “pressoché estranea
all’influsso della classicità”1, l’acme è segnata dal periodo “nel quale i
cristiani s’impegnano con più vivo fervore ad assimilare i valori della cultura
pagana che ritengono conciliabili col cristianesimo”2 e a “continuare una
tradizione letteraria che è considerata patrimonio comune di cultura”3, e la
fine viene fatta coincidere con “la scomparsa d’ogni centro vivo di cultura
pagana” e quindi dello sforzo di “porre in piena luce il problema dei rapporti
tra il mondo nuovo e l’antico cercando d’inverare nel cristianesimo i valori
della cultura classica”4. A parte queste grandi ripartizioni, ma anche senza
di esse, il criterio di sistemazione della materia è prevalentemente
contenutistico e analitico. Troviamo nelle Storie della letteratura cristiana,
non diversamente dalle Patrologie, per lo più esposizioni di carattere
biografico, questioni di attribuzione, di cronologia, indicazioni sul pensiero,
ecc. Il De Ghellinck5 segnalava che perfino nell’opera dello Schanz, un
modello nel suo genere, sono scarse o assenti le considerazioni di carattere
generale, le riflessioni sullo sviluppo delle forme e dei generi, sull’influenza
delle lettere profane, sulle caratteristiche della lingua e dello stile. Nel
Bardenhewer le parti generali sono troppo poco inserite all’interno
dell’esposizione particolare e non ne costituiscono pertanto un elemento
direttivo; le grandi divisioni geografiche appaiono rigide e troppo sommarie e
non corrispondo al movimento reale della vita letteraria e intellettuale. Rare
anche qui le panoramiche e le osservazioni sui generi, sui rapporti reciproci
tra gli scrittori. Lo stesso si potrebbe dire di Wilamowitz. Ci troviamo,
insomma, di fronte a una sorta di cataloghi o di inventari piuttosto che a
storie letterarie. È rimasto un tentativo isolato, che ha inoltre suscitato
più critiche che consensi, quello di Herman Jordan di presentare la letteratura
cristiana classificata secondo generi letterari: per la prosa: 1) i racconti e
gli storici; 2) la lettera; 3) le apocalissi; 4) i discorsi e la predicazione;
5) l’apologia; 6) il dialogo; 7) la polemica; 8) i trattati e le dissertazioni;
9) le prescrizioni ecclesiastiche; 10) i simboli e le regole di fede; 11) la
letteratura esegetica e critica; 12) le traduzioni e i florilegi; 13) le
sentenze; 14) le iscrizioni. Per la poesia: l’innologia religiosa e le altre
forme poetiche6. Anche oggi i due aspetti, interesse per i contenuti e
interesse per le forme, risultano più giustapposti che armonizzati, e i manuali
risentono della tensione non risolta tra le tendenze della patrologia e della
storia letteraria. A questo bisognerebbe poi aggiungere le difficoltà di
concepire e definire una “letteratura religiosa” come un tutto organico e
autonomo. GIUDAISMO INTRODUZIONE Fonti della storia del giudaismo del
tardo secondo Tempio che ci riguarda (dal I secolo a.C al I secolo d.C.; per
secondo Tempio si intende il tempio di Gerusalemme ricostruito nel VI sec. a.C.
dopo l’esilio babilonese), sono evidentemente gli scritti e i documenti
pervenutici, ed i monumenti superstiti. Grande importanza certamente rivestono
le testimonianze monumentali, tra le quali annoveriamo soprattutto le iscrizioni
e le rovine archeologiche. Utile anche lo studio delle monete. SCRITTI
STORICI Flavio Giuseppe Lo storico giudeo Giuseppe Flavio nacque intorno
al 37 da famiglia sacerdotale; fu per un certo periodo discepolo dei Farisei,
degli Esseni e dell’eremita Banno. All’età di ventisei anni fu inviato a Roma
come legato del Sinedrio, e al suo ritorno fu nominato governatore della Galilea
e comandante dell’esercito giudaico nella rivolta antiromana del 67. Sconfitto
nell’assedio della fortezza di Iotapata, dopo aver predetto il trono imperiale
all’allora generale Vespasiano, passò a servizio del nemico ed assunse il nome
della dinastia imperiale (Flavio). Le sue opere sono la Guerra giudaica (De
bello Iudaico), composta tra il 75 e il 79, le Antichità giudaiche (Antiquitates
iudaicae) scritte nel 93-94, il Contro Apione (Contra Apionem) del 97-98 e la
Vita del 95. I primi due lavori, in particolare, narrano la storia della
Palestina da Abramo fino alle rivolte giudaiche del I secolo d.C. Soprattutto
per il periodo che ci interessa, egli è solitamente degno di fede, anche perché
disponeva di buone fonti; una di esse è lo storico Nicola di Damasco, che operò
alla corte di Erode il Grande almeno dal 14 a.C. in poi. Giuseppe morì negli
anni tra il 98 e il 104. Filone d’Alessandria Nacque intorno al 25 a.C da
una ricchissima famiglia ebrea trapiantatasi in Alessandria; fu un filosofo di
grande erudizione, istruito tanto nelle tradizioni giudaiche quanto nella
letteratura e nella storia greca. Essendo suo principale interesse lo spiegare
allegoricamente la storia e le leggi dell’Antico Testamento, è scarno di notizie
storiche. Restano però due apologie in difesa dei Giudei di Alessandria che
illustrano l’impero di Tiberio e Caligola, il Contro Flacco (In Flaccum) e la
Legazione a Caio (Legatio ad Caium). Filone morì forse nel 25 d.C. Diversi
autori greci e latini ci offrono interessanti notizie per la storia della
Palestina: Strabone di Amasia (64 a.C.-19 d.C. circa) Tratta della
Palestina nella sua Geografia (XVI, 2, 25-48). Giuseppe Flavio ammette di avere
usato come fonte un suo scritto storico perduto. Plinio il Vecchio
(23-79) Forse prese parte alla guerra giudaica del 70, descrive la Palestina
aggiungendo alcune notizie storiche nella sua Naturalis historia (V,
13-17). Cornelio Tacito (54-119) Parla spesso dei Giudei, anche se non
sempre a proposito. Dei suoi Annali abbiamo solamente conservato quanto riguarda
gli anni 14-37 e 47-65, mentre le Storie trattano dell’epoca che va dal 69 sino
ai primi anni di Vespasiano. Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa) Nella
sua opera Vita dei dodici Cesari tratta di argomenti giudaici; egli si è molto
servito delle notizie di Flavio Giuseppe. Plutarco di Cheronea (47-125 circa)
Scrisse le Vite parallele, tra le quali quella di Antonio (inizio del II
secolo) è la più ricca di spunti giudaici. Dione Cassio (155-235
circa) Senatore governatore romano, scrisse una monumentale opera storica
pervenutaci parzialmente o in epitome. Di quanto è sopravvissuto, è utile al
nostro scopo soprattutto il cap. XXXVII, 15-18. Giulio Solino Nel IV
secolo compose un’opera geografica intitolata Raccolta di cose memorabili
(Collectanea rerum memorabilium). Giovanni Zonara A metà del secolo XII
scrisse una Epitome di storia, servendosi di fonti oggi perdute, tra cui Dione
Cassio. Altro Le scoperte archeologiche degli ultimi tempi ci hanno
fornito altro materiale importantissimo per la storia del periodo; ricordiamo ad
esempio i manoscritti di Qumran (dal III secolo a.C al I d.C.) e i documenti di
Murabba’at e di Nahal Hever, ascrivibili al periodo della rivolta di Bar Kochba
(132-135 d.C.). SCRITTI RELIGIOSI Anzitutto va menzionato il Nuovo
Testamento, collocabile cronologicamente nella seconda metà del secolo I, di cui
ci occuperemo in un capitolo specifico. Lo stesso valga per gli apocrifi del
Nuovo Testamento, che sono però assai parsimoniosi di elementi storici, e per i
manoscritti di Qumran. Gli apocrifi dell’Antico Testamento sono testi scritti
in ebraico o aramaico nell’epoca del secondo Tempio o subito dopo (fino circa al
100 d.C.), tramandatici in antiche traduzioni. Essi sono assai importanti
soprattutto per delineare la storia religiosa dell’epoca. Ricordiamo quelli che
servono meglio al nostro scopo: i Salmi di Salomone, diciotto carmi che alludono
alle imprese di Pompeo in Palestina; gli Oracoli sibillini, che contengono parti
giudaiche e parti cristiane; L’Assunzione o Testamento di Mosè, che allude ad
Erode il Grande e Archelao; il Testamento dei XII patriarchi, con richiami al
periodo del regno asmoneo, anch’esso con alcune interpolazioni
cristiane. Altra fonte scritta è la letteratura rabbinica, che contiene
alcune notizie relative al tardo Secondo Tempio, pur essendo di epoca
recenziore. Innanzitutto la Misnah, la Tosefta, i due Talmudim (quello
babilonese e quello palestinese), i Targumim palestinesi, i Midrashim
antichi. FONTI STORICHE - BIBLIOGRAFIA Giuseppe Flavio: G. RICCIOTTI,
Flavio Giuseppe. Lo storico giudeo-romano, Torino, 19492. L. MORALDI,
Antichità giudaiche, Torino, 1998. F. ANGIOLINI, Delle Antichità Giudaiche di
Giuseppe Flavio tradotte dal greco ed illustrate con note, Firenze, 1840-1844.
E. NODET, Les Antiquités Juives, Paris, 1990-1995. G. RICCIOTTI, La
Guerra Giudaica, Torino, 19492. G. VITUCCI, La Guerra giudaica, Milano,
1974. G. JOSSA, Autobiografia, Napoli, 1982. L. TROIANI, Commento storico
al “Contra Apionem” di Giuseppe, Pisa, 1977. F. CALABI, In difesa degli Ebrei
(Contro Apione), Venezia, 1993. Autori classici e frammenti storici: T.
REINACH, Textes d’auteurs grecs et romains relatifs au Judaïsme, Paris,
1859. M. STERN, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, Jerusalem
1974-1984. G. VERMES – M. D. GOODMAN, The Essens according to the Classical
Sources, Sheffield, 1989. W. G. KÜMMEL, Schriften aus hellenistisch-römischer
Zeit, Gütersloh, 1973 ss. L. TROIANI, Letteratura giudaica di lingua greca in
P. SACCHI, Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, 1997, vol. V. Scritti
apocrifi o pseudoepigrafici: L. ROST, Introduzione agli Apocrifi dell’Antico
Testamento, Torino, 1980. P. SACCHI, Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino,
5 voll., 1981-20001981 ss. A. DÍEZ MACHO, Los apócrifos del Antiguo
Testamento, Madrid, 1982-1986. H. S. D. SPARKS, The Apocriphal Old Textament,
Oxford, 1984. J. H. CHARLESWORTH, The Old Textament pseudepigrapha, Garden
City, 1983-1985. M. E. STONE, Jewish Writings of the Second Temple Period,
Assen, 1984. J. H. CHARLESWORTH, Gli pseudoepigrafi dell’Antico Testamento e
il Nuovo Testamento, Brescia, 1990. Scritti rabbinici: G. STEMBERGER,
Introduzione al Talmud e al Midrash, Roma, 1995. V. CASTIGLIONI, Mishnaiot,
Roma, 1962-19643. P. BLACKMAN, Mishnayoth, New York, 19642. J. NEUSNER,
The Misnah, a New Translation, New Haven, London, 1988. DEL VALLE RODRÍGUEZ,
La Misna, Madrid, 1981. J. NEUSNER, The Tosefta Translated from the Hebrew,
New York, 1977-1981. M. SCHWAB, Le Talmud de Jérusalem, Paris, 1871-1890
(ristampa 1960). I. EPSTEIN, The Babylonian Talmud, London 1946-1949
(ristampa 1960). R. LE DÉAUT, Targum du Pentateuque, Paris, 1978-1981. J.
NEUSNER, Sifre to Numbers, Atlanta, 1986; Sifre to Deuteronomy, Atlanta, 1987;
Sifra: an Analitical Translation, Atlanta, 1988. QUMRÀN E LE ORIGINI
CRISTIANE I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO (Qumràn) Storia e ritrovamenti della
comunità essena di Khirbet Qumràn Nel 1947 furono casualmente scoperte in
alcune grotte del deserto di Giuda, a Khirbet Qumràn, alcune giare contenenti
antichi manoscritti. Essi erano il prodotto di una comunità religiosa ebraica,
con ogni verosimiglianza quella degli Esseni, che abitò quella regione fino al
70 d.C. In questo lavoro si renderà conto della storia dei ritrovamenti
archeologici, della pubblicazione dei manoscritti e del loro contenuto, e dei
rapporti tra il cristianesimo nascente e l'ideologia di questa comunità.
Qumràn: ritrovamento e studio dei manoscritti La storia del fortuito
ritrovamento dei rotoli, gli scavi archeologici, i curatori delle pubblicazioni.
Cinquant'anni di studi e dibattiti su Qumràn. INTRODUZIONE Presso
l’angolo nord ovest del Mar Morto, l’altipiano del deserto di Giuda precipita a
strapiombo per circa 350 metri sotto il livello del Mediterraneo; la parete
rocciosa, di colore rossastro, è perforata da numerose caverne naturali. Era
nota da tempo l’esistenza in quel luogo di rovine, dette appunto “Rovine di
Qumràn” (Khirbet Qumràn); ma si ignorava quale tesoro archeologico potessero
nascondere. STORIA DEI RITROVAMENTI Nel 1947 un giovane pastore che si
trovava in quei luoghi, Muhammad ed Di’ib (= il Lupo), gettò per caso un sasso
nell’apertura di una roccia, e ne udì risuonare il rumore di cocci infranti;
ritornato sul posto il giorno dopo, spinto dalla curiosità, si introdusse
assieme ad un cugino nell’anfratto e trovò all’interno della caverna diverse
giare, una delle quali conteneva dei rotoli di cuoio manoscritto. Giare
ritrovate a Qumràn I rotoli, invece di essere consegnati alle autorità,
vennero portati ad un antiquario di Betlemme, Khalil Iskandar Shahin; egli, che
credette di riconoscere su di essi una scrittura siriaca, ne vendette una parte
al metropolita Athanasius Yeshua Samuel del monastero siro di S. Marco di
Gerusalemme, e una parte al prof. Eleazar Sukenik dell’Università Ebraica di
Gerusalemme. Quando quest’ultimo comprese quello che aveva di fronte, cercò di
acquistare anche la parte in possesso del metropolita, che però si rifiutò di
vendere i suoi manoscritti; si rese conto del loro valore dopo averli fatti
esaminare da due membri della American School of Oriental Research di
Gerusalemme, William Brownlee e John Trever, i quali poterono anche scattare le
prime fotografie. Nel frattempo, non mancarono le incursioni notturne nella
grotta per cercare altro materiale, ed il clima politico del neonato stato di
Israele complicava ogni trattativa; i rotoli erano divenuti una sorta di
materiale di contrabbando. Il primo comunicato pubblico che attestava il
ritrovamento risale all’11 aprile 1948, apparso il giorno dopo sul Times di
Londra, nel quale si parlava del rinvenimento di un rotolo di Isaia (poi
identificato con la sigla 1QIsaa , del 125-100 a.C.), di un Manuale di
Disciplina di una comunità ignota, forse di Esseni (quello che oggi è chiamato
Regola della Comunità, 1QS del 100-75 a.C.), di un commento al profeta Abacuc
(1QpAbac, metà del I sec. a.C.), e di un codice non ancora identificato perché
in pessimo stato di conservazione (identificato poi nell’Apocrifo della Genesi,
1QgenAp, I sec. a.C.- inizio I sec. d.C.). Il rotolo di Isaia, lungo più di
sette metri, è di oltre mille anni antecedente al manoscritto più antico fino ad
allora conosciuto; il mondo era venuto così a conoscenza di quella che è stata
definita come la “scoperta archeologica del secolo”. Si trattava di testi
probabilmente nascosti nelle grotte della comunità degli Esseni prima
dell'invasione romana del 70, poi mai più riportati alla luce. 1 giugno 1954.
Sul Wall Street Journal compare un'inserzione: si mettono in vendita alcuni
rotoli di Qumràn. La pubblicazione dei tre codici leggibili di proprietà del
metropolita avvenne tra il 1950 e il 1951, a cura dell’American School1. Nel
1954 uscì postuma la pubblicazione dei testi nelle mani del prof. Sukenik2. Nel
frattempo, a causa della difficile situazione palestinese (era stato appena
proclamato lo Stato di Israele ed era terminato il protettorato britannico), il
metropolita si era recato in America con i suoi manoscritti, cercando di
rivenderli: arrivò persino a offrire i rotoli tramite un’inserzione su un numero
dello Wall Street Journal (1 giugno 1954). Yigael Yadin, figlio di Sukenik,
tramite alcuni mediatori acquistò i rotoli per conto del neonato Stato di
Israele, che era già entrato in possesso degli altri; essi così furono tutti
depositati al museo di Gerusalemme, conosciuto come Museo Rockefeller, ove
tuttora si trovano. Yadin pubblicò nel 1956 il rotolo danneggiato dell’Apocrifo
della Genesi3. Conclusasi la guerra arabo-ebraica con l’istituzione in
Palestina dei due stati di Giordania e Israele, il territorio di Qumràn era
venuto a cadere nello stato giordano; nel gennaio 1949, quando la situazione
politica permise di riprendere le ricerche , venne ritrovata la grotta scoperta
dai pastori (da allora identificata come 1Q). Il Department of Antiquities of
Jordan tramite l’ispettore generale G. Lankester Harding, e l’École Biblique et
Archéologique Française di Gerusalemme (che allora si trovava nella parte
giordana di Gerusalemme) tramite il suo direttore, il domenicano padre Roland
Guérin de Vaux, si preoccuparono di effettuare la prima esplorazione sistematica
della grotta (dal 15 febbraio al 5 marzo 1949); furono asportate giare, vasi,
manufatti, stoffe e frammenti, pubblicati a cura del padre J. D. Barthélemy e di
padre J. T. Milik in quello che sarebbe stato il primo volume della collana
Discoveries in the Judaean Desert che la Oxford University Press dedicò ai
manoscritti4. I due beduini che per primi identificarono le grotte. Vi fu
una sorta di corsa al rotolo tra i beduini e gli archeologi Nel 1951, mentre
de Vaux e Harding conducevano un nuovo scavo sistematico del sito di Qumràn,
alcuni beduini della tribù Ta‘âmirah, che avevano compreso che era possibile
ricavare qualche guadagno dalla vendita di reperti archeologici, scoprirono un
altro lotto di oggetti provenienti da Wâdi Murabba‘ât, a 25 km a sud di
Gerusalemme, alcuni pertinenti al periodo della seconda rivolta giudaica
(132-135 d.C.). Gli stessi beduini nel febbraio del 1952 trovarono un’altra
grotta a Qumràn, con altri frammenti manoscritti (fu chiamata allora 2Q, e
conteneva oltre a testi piuttosto frammentari biblici ed apocrifi, un
interessante frammento ebraico del Siracide (2Q18= 2QSir). Iniziò così una sorta
di “corsa al rotolo”. A marzo gli archeologi trovarono la grotta 3, con 14
manoscritti e due rotoli di rame incisi a caratteri ebraici (3Q15), una lista di
tesori sepolti. I beduini da parte loro scoprirono la cosiddetta grotta 4, con
innumerevoli frammenti, quelli che daranno più problemi nella pubblicazione; il
giorno successivo arrivarono sul posto il de Vaux e Milik per raccogliere e
catalogare il materiale che i beduini non avevano toccato, ed il resto dovette
essere recuperato più avanti. Gli archeologi rinvennero poco più in là un’altra
grotta (5Q) con alcuni manoscritti tra i quali ricordo una descrizione della
Nuova Gerusalemme (5Q15 = 5QJN ar), i frammenti della Regola della comunità e
del Documento di Damasco. I beduini, da parte loro, riportarono alla luce la
cosiddetta grotta 6Q con frammenti di testi biblici e apocrifi, tra cui meritano
menzione quelli del libro enochico dei Giganti (6QEnGiants = pap6Q8) e il
Documento di Damasco (6Q15), l’Allegoria della vigna (6Q11) ed un calendario
(6Q17). Al 1952 risale anche la scoperta dei manoscritti del monastero bizantino
di Khirbet Mird. Più avanti saranno compiuti altri ritrovamenti nelle valli tra
En-gedi e Masada, e a Masada stessa (Vedi). Nel frattempo, i frammenti della
grotta 4Q, già rivenduti dai beduini, dovettero essere riacquistati: concorsero
alla spesa lo Stato di Giordania, l’università McGill di Montreal, le università
di Manchester e di Heideberg, il Mc Cormick Seminary di Chicago e la Biblioteca
Apostolica Vaticana. Eccetto qualche frammento, caduto nelle mani dei privati,
tutto confluì nel Museo di Gerusalemme assieme al materiale già collezionato. Lì
venne allestita una vasta sala dedicata alla conservazione e allo studio dei
testi, chiamata poi scrollery (dall’inglese scroll, rotolo). Nel 1955 vennero
ritrovate dagli archeologi le grotte da 7 a 10; la settima conteneva alcuni
frammenti di papiri greci, tra cui un frammento dell’Esodo 28, 4-7 (7Q1) e della
Lettera di Geremia 143 (7Q2). La grotta 8 conteneva pochi frammenti, la nona
grotta un solo frammento di papiro, la decima un coccio iscritto; nel 1956 i
beduini da parte loro trovarono la grotta 11Q, ricca di manoscritti ben
conservati, sul genere di quelli di 1Q. In essa, tra l’altro, il manoscritto
paleo-ebraico del Levitico (11QpaleoLev), i rotoli dei Salmi e dei Salmi
apocrifi (11QPsa; 11QPsApa), il Targum di Giobbe (11QTgJob), un antico esempio
di targum (11QMelch), (11Q ShirSabb) e infine il Rotolo del Tempio (11QT). Gli
scavi terminarono nel 1958: 800 circa sarebbero stati i manoscritti, di cui ci
restano almeno 15.000 frammenti. Circa 225 manoscritti contengono testi biblici,
mentre circa 300, per il loro pessimo stato di conservazione, con frammenti
minutissimi, sono praticamente inservibili. Di qui cominciava il duro lavoro
della ricomposizione e della interpretazione. I PRIMI 40 ANNI DI STUDI
Il secondo volume della serie Discoveries in the
Judaean Desert uscì a cura di P. Benoit, J. Milik e R. de Vaux nel 1961, in due
tomi, con i resti delle grotte di Murabba‘ât1; il terzo sotto la direzione di M.
Baillet, Milik e de Vaux, anch’esso in due tomi, uscì l’anno successivo, con
tutti i frammenti delle “grotte minori”, la 2, la 3 e dalla 5 alla 102. I rotoli
della grotta 11 furono pubblicati nel 19653. Per lo studio sui reperti del
Mar Morto ritrovati nella grotta 4Q, tra il 1953 e il 1954 fu creata una équipe
internazionale di studiosi, sotto la guida del de Vaux e di Harding: ne facevano
parte il sacerdote polacco Jòzef Milik ed il rev. Jean Starcky del Centre
National de la Recherche Scientifique di Parigi, mons. Patrick W. Skehan della
Catholic University di Washington, John Strugnell dello Jesus College di Oxford,
Frank M. Cross del Mc Cormick Seminary di Chicago, John M. Allegro assistente
alla Manchester University e Hunno Hunzinger dell’Università di Göttingen. I
membri dell’équipe erano tre cattolici, due protestanti, un anglicano ed un
agnostico. Gruppo internazionale degli editori dei mss. di 4Q: a sin.
Strugnell, di spalle Allegro, Hunzinger seduto, dietro Skehan, Milik di
profilo,Starcky dietro. Nel 1958 si aggiunse padre Maurice Baillet
dell’Institut Catholique di Tolosa il quale dopo qualche tempo sostituì
Hunzinger, che si ritirò e lasciò a quest’ultimo il proprio materiale. Ognuno
ricevette un lotto di manoscritti da ricomporre e pubblicare. Espressamente non
era stato inserito alcun studioso ebraico, per divieto del governo giordano.
Il noioso lavoro di ripulitura, classificazione e lettura dei frammenti ci
viene così descritto da Cross: Diversamente dai vari rotoli della prima e
dell’undicesima grotta, che si sono conservati in buone condizioni, i
manoscritti della grotta 4 sono in un avanzato stato di deterioramento. Molti
frammenti sono così fragili e friabili che si possono appena toccare con una
spazzola di pelo di cammello. Molti sono deformati, increspati o ristretti,
incrostati di sostanze chimiche sporche, anneriti dall’umidità e dal tempo.
Molto ardui sono i problemi che si devono affrontare per pulirli, spianarli,
identificarli e congiungerli assieme4. Un rotolo di Qumràn ancora chiuso.
Delicato fu il lavoro di pulizia, spianatura e recupero. Nel 1957 Milik
pubblicò un rapporto intermedio che informava sullo stato dei lavori, tradotto
in tre lingue5. Nel frattempo si iniziò a compilare una concordanza di tutte
le parole che si trovavano nei frammenti che ognuno stava esaminando, in modo da
permettere a tutti di sapere in quali altri testi poteva eventualmente ricorrere
una parola. Sino alla fine degli anni ’50, continuarono ad arrivare frammenti al
museo; nel 1960 cessarono i finanziamenti di J. D. Rockefeller, che aveva
sostenuto economicamente i lavori del gruppo: a quel punto più di 500 frammenti
erano stati identificati, e registrati nella concordanza, in attesa di essere
pubblicati. Nel 1967, con la guerra dei sei giorni, Israele conquistò la
parte giordana di Gerusalemme, ed anche il Museo archeologico; il de Vaux
ottenne di poter continuare ugualmente i lavori con la sua équipe, senza
modificazioni. Per vari motivi, il progetto di pubblicazione dei testi della
grotta 4Q andava un po’ a rilento: gli studiosi prepararono tra gli anni ’50 e
’60 alcune edizioni preliminari dei testi loro affidati, che comparvero in
riviste specializzate quali la Revue biblique, il Bulletin of the American
Schools of Oriental Research ed il Journal of Biblical Literature. Mancavano
però le edizioni definitive della collana di Oxford. Un’eccezione fu l’uscita
nel 1968 del quinto volume della collana Discoveries in the Judaean Desert a
cura di John Allegro, che pubblicava una trentina di frammenti6. Purtroppo, pur
essendosi guadagnato ampia stima per aver dato alle stampe questi testi con
largo anticipo rispetto agli altri membri dell’équipe, egli sacrificò la qualità
alla celerità, e il lavoro risultò infarcito di errori; il prof. Karlheinz
Müller dell’Università di Würzburg, lo commentò in questo modo: “Senz’altro la
peggiore e la più inaffidabile edizione di Qumràn che il lettore possa
aspettarsi dall’inizio dei ritrovamenti”7. Strugnell, per incarico
dell’équipe, preparò una recensione riparatoria (che purtroppo risultò lunga
quasi quanto il libro recensito) nella quale correggeva riga per riga il lavoro
di Allegro8; è possibile capire a questo punto come stessero nascendo alcune
tensioni all’interno del gruppo. I rapporti di Allegro con i suoi colleghi
andarono sempre più deteriorandosi, dopo il rilascio da parte sua di alcune
interviste e accuse su come il lavoro di pubblicazione stava procedendo; in
preda a problemi di salute psichica, già licenziato dall’Università di
Manchester per cui lavorava, abbandonò negli anni successivi lo studio dei
rotoli e si dedicò a studi di storia delle religioni, per i quali perse ogni
credito in ambito accademico. Le sue posizioni, assieme alle insinuazioni di
altri, furono abilmente sfruttate e riutilizzate negli anni successivi,
nell’ambito di una campagna di diffamazione dei membri dell’équipe che ancora
non si è sedata, e sulla quale avremo modo di soffermarci altrove. Il rev.
Jean Starcky, membro dell'equipe internazionale per lo studio dei rotoli di
Qumràn Roland De Vaux morì improvvisamente nel 1971, e venne sostituito dal
nuovo direttore dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme,
padre Pierre Benoit. Lo stesso anno, al di fuori della collana ufficiale, usciva
l’edizione della traduzione aramaica del libro di Giobbe, proveniente dalla
grotta 11Q9. Il volume successivo delle Discoveries apparve solo nel 1977, e
conteneva anche i testi sui quali de Vaux aveva lavorato prima della morte10. Ma
nel frattempo anche Milik aveva pubblicato al di fuori della collana delle
Discoveries un ampio commentario sui frammenti della 4Q riguardanti il libro di
Enoc11, e Yadin aveva fatto lo stesso con il grande Rotolo del Tempio,
recuperato dall’antiquario di Betlemme di cui avevamo parlato: lo aveva nascosto
sotto le mattonelle di casa12. Queste eccellenti opere segnarono un cambiamento
di rotta: gli studiosi non si accontentavano più di preparare semplici
trascrizioni e brevi trattazioni dei testi, ma preferivano scrivere commenti
ampli ed esaustivi. Questo ebbe inevitabilmente effetti disastrosi sulla già non
invidiabile celerità delle pubblicazioni. Ad esempio, il lavoro di Milik su Enoc
è accompagnato da una laborioso retroversione aramaica dall’etiopico, e da un
lunghissimo commentario. Certo se egli si fosse limitato alla trascrizione ed
alla traduzione, avrebbe impiegato molto meno tempo, senza sacrificare gli altri
lavori in attesa di essere intrapresi. La successiva edizione delle
Discoveries è del 1982, a cura di Baillet13. Nel 1985 uscirono, da studiosi non
facenti parte dell’équipe, la recensione paleo-ebraica del Levitico14 e gli inni
per l’Offerta del Sabato15, provenienti da 11Q. Alla morte di Patrick Skehan,
nel 1980, subentrò Eugen Ulrich della statunitense Notre Dame University, il
quale già aveva ricevuto alcuni testi di competenza di Cross. John Strugnell,
membro dell’équipe fin dall’inizio, divenne il nuovo direttore responsabile alla
morte di Benoit, nel 1987; erano passati ormai 40 anni dalla fortuita scoperta
della prima grotta. ULTIMI ANNI DI STUDI E QUESTIONI DIBATTUTE L’ingresso
di Strugnell come responsabile dell’équipe internazionale coincise con il
sorgere delle prime lamentele sulla lentezza dei lavori. Alcune insinuazioni
di Allegro erano state ignorate dal mondo accademico, ma c’era la sensazione che
i frammenti mancanti della grotta 4 non sarebbero comunque stati pubblicati in
breve tempo; Strugnell cercò di allargare il gruppo, fino ad arrivare a circa
venti persone, in modo da accelerare i lavori. Furono anche invitati per la
prima volta studiosi israeliani, quali Emanuel Tov e Elisha Qimron. C’erano
diverse motivazioni che avevano reso il lavoro così lento: della volontà di
pubblicare testi ampiamente commentati (a discapito della celerità) si è già
detto. Poi, la difficoltà di rimettere assieme e decifrare centinaia di
frammenti manoscritti, che spesso sono grandi come francobolli. Un esempio
di come la fretta sia cattiva consigliera, fu la lettura precipitosa del
cosiddetto frammento 4QTherapeia. Il frammento, contenente i resti di undici
linee, era stato affidato a Milik. Ma Allegro, ritenendolo un testo assai
importante, la cui divulgazione era stata mantenuta artificiosamente segreta, lo
pubblicò nel 1979 in appendice al suo volume sul mito cristiano1. Secondo la sua
lettura, si sarebbe trattato di annotazioni di un medico esseno, Ormiel, il
quale avrebbe prescritto ad un certo Caifas una cura a base di liquido seminale
di capretto. Questo confermava, secondo Allegro, l’ipotesi di un rituale di
iniziazione misterico-cristiana compiuto per mezzo dell’unzione con lo sperma,
rito al quale Gesù avrebbe sottoposto i suoi discepoli. Lo studio approfondito
del frammento, però, ha dimostrato che si trattava solamente di un esercizio di
scrittura di uno scriba su un rimasuglio di pelle; le parole vergate non erano
altro che nomi ebraici ricopiati in ordine alfabetico2. In secondo luogo, il
costume inveterato per cui un reperto archeologico è quasi una proprietà
personale di chi l’ha ritrovato, ed è difficile mettervi le mani senza
l’autorizzazione dello scopritore (in questo caso, dell’affidatario); d’altra
parte, in alcuni casi certi membri dell’équipe avevano maturato una tale
esperienza da sembrare quasi insostituibili. Milik, ad esempio, aveva una ottima
capacità da tutti riconosciuta nel ricomporre i frammenti, cosa di cui si sentì
la mancanza quando egli si ritirò dal gruppo. Milik mentre rimette assieme e
decifra frammenti grandi quanto un francobollo. Un lavoro lento e
paziente. Alcuni dei membri dell’équipe, inoltre, continuavano a detenere
regolari cattedre universitarie all’estero, e dedicavano solo i periodi di ferie
all’esame dei rotoli; taluni, piuttosto che perdere i frammenti loro assegnati,
li passavano a propri allievi, in modo che il lavoro restasse per così dire «in
famiglia»: è il caso del prof. Frank M. Cross, ad esempio. In ogni caso, non era
mai stato permesso a nessun esterno all’équipe di prendere parte alla
pubblicazione, senza l’autorizzazione di colui al quale erano stati assegnati.
Gran peso ebbero poi difficili situazioni umane: Milik abbandonò il
sacerdozio ed ebbe problemi d’alcool per un certo periodo, prima di riprendere
una vita regolare a Parigi. Strugnell cadde in una forte depressione, aggravata
dalla separazione dalla moglie: fu una decisione poco felice affidargli la
direzione dei lavori. Allegro, come già detto, aveva avuto problemi psichici che
peggiorarono con l’età. Dal 1985, dopo che per anni si era pazientemente
attesa la pubblicazione ufficiale, iniziarono le prime proteste. Il prof. Geza
Vermes definì la situazione “lo scandalo accademico par excellence del XX
secolo”3. Non è possibile non sottoscrivere tale affermazione; ma questa giusta
constatazione ha dato spesso vita a reazioni e illazioni prive di ogni senso
della misura. L’editore della rivista Biblical Archeological Review iniziò a
pubblicare articoli stigmatizzando la lentezza dei lavori4. Il prof. Robert
Eisenman. Il prof. Robert Eisenman della California State University ebbe un
ruolo predominante nel sollecitare il mondo accademico e le autorità israeliane,
proprietarie dei manoscritti, a trovare una soluzione. Purtroppo, se il lavoro
di Eisenman in questo senso fu encomiabile, lo furono meno i metodi con i quali
sfruttò la sua posizione per divulgare le sue strane interpretazioni sul
contenuto dei rotoli. Egli inoltre, servendosi di certa stampa scandalistica,
creò l’idea dell’esistenza di una sorta di monopolio culturale intorno ai
manoscritti, gestito dall’équipe internazionale, a formare un intaccabile
consensus, per nascondere all’umanità certi testi che avrebbero minato le basi
del cristianesimo. Egli fece trapelare persino l’accusa di un complotto del
Vaticano per occultare i rotoli. Di queste accuse, tratteremo nel capitolo
"Qumràn. Questioni scottanti". Le autorità israliane, sollecitate,
iniziarono ad intervenire: il direttore dell’Israel Antiquities Authority Amir
Drori creò nel 1990 un comitato per sollecitare il lavoro di edizione dei testi.
L’équipe da parte sua affiancò a Strugnell nella direzione dei lavori uno
studioso dell’Università Ebraica, Emanuel Tov, nella speranza che la sua
presenza accelerasse i lavori; questa mossa, in un momento di debolezza
personale, non poté certo piacere a Strugnell. Dopo una intervista rilasciata ad
un giornale, in cui avrebbe criticato lo stato di Israele e avrebbe definito
quella ebraica una “religione orribile originalmente razzista” (ma è difficile
capire come realmente andarono le cose; certo Strugnell al tempo era gravemente
malato)5, venne sostituito nella sua carica di direttore dei lavori, pur
restando membro del gruppo. I membri dell’équipe allora nominarono tre nuovi
responsabili: l’israeliano Emanuel Tov, già chiamato da Strugnell medesimo,
padre Émile Puech dell’École biblique ed Eugene Ulrich. Essi allargarono inoltre
il gruppo a 50 membri. Nello stesso anno usciva un nuovo volume delle
Discoveries6. Un passo inaspettato fu compiuto nel 1991 dal prof. Ben Zion
Wacholder dell’Hebrew Union College di Cincinnati; stanco della lunga attesa di
avere una edizione dei frammenti, che sembrava non apparire mai, tentò con
l’aiuto di Martin G. Abegg di ricostruirne il testo senza possederne né le
trascrizioni né le fotografie, ma utilizzando quella concordanza che gli
studiosi avevano creato nel corso dei loro studi. Tramite l’uso
dell’elaboratore, egli estrapolò tutte le frasi presenti nella concordanza, le
collocò in ordine e cercò di ricreare con esse il testo intero, ricostruendo il
contenuto dei frammenti inediti7. Tale operazione, complessivamente ben
riuscita, non era però priva di errori: la concordanza infatti non era più stata
aggiornata dagli anni ’60, e molte letture erano state migliorate. Inoltre ci si
poneva il problema se fosse legittimo stampare un’edizione servendosi di
trascrizioni ancora inedite frutto del lavoro di altri. Nel settembre dello
stesso anno, un’altra notizia inaspettata: il direttore William A. Moffet della
Huntington Library di San Marino in California annunciò di essere in possesso
delle fotografie dei frammenti della grotta 4Q, e che ne avrebbe lasciato libero
accesso a chiunque ne avesse fatto richiesta. Il governo israeliano, irritato da
questa iniziativa, prese le difese dei diritti dell’équipe, e fu sul punto di
intentare una azione legale; ma il tutto venne a cadere, per non aumentare il
disappunto di coloro che da tempo criticavano le lentezze dell’edizione.
Eisenman sfruttò subito tale situazione, e curò per la Biblical Archeological
Society una edizione in fac simile delle fotografie, alcune illeggibili, altre
invece utilizzabili8. L'editore negò che le foto provenissero dalla Huntington,
ma non ne fornì la fonte; per gli strascichi legali, il volume venne persino
ritirato per un certo periodo di tempo dal commercio. Grande scandalo provocò la
riproduzione di una trascrizione di una lettera trovata nella grotta 4 (4QMMT):
la trascrizione era opera di un membro dell’équipe, l’israeliano Elisha Qimron,
ed era stata stampata senza la sua autorizzazione, e senza neppure indicarne il
nome. Si trattava in parole povere di un furto di anni di lavoro altrui.
Occorre menzionare anche altri due libri, che hanno contribuito al crearsi
di una “leggenda nera” attorno all’équipe internazionale e ai suoi presunti
tentativi, appoggiati dal Vaticano, di occultare materiale “destabilizzante”. Il
primo è dovuto a due giornalisti inglesi, Michael Baigent e Richard Leigh9, con
l’aiuto di Eisenamn, ed è stato definito da uno degli editori dei manoscritti
“un penoso esempio di giornalismo giallo”10. Il secondo è la trascrizione e
traduzione di alcuni manoscritti dovuta a R. Eisenman e M. Wise, presentati
falsamente al pubblico come del tutto inediti e trattati in maniera assai
discutibile11. Anche di questi due libri, e delle reazioni che suscitarono, ci
occuperemo nel capitolo "Qumràn. Questioni scottanti". Tutto ciò perché ci si
renda conto del clima del periodo: non mancarono infatti le pubblicazioni
frettolose ed inaccurate dei testi, o lo sfruttamento del lavoro di altri in
barba ai diritti d’autore.
James J. Charlesworth Di fronte a questo
“assalto ai rotoli”, inutile ormai frenare le aspettative: la stessa Autorità
Israeliana per le Antichità, che sovrintendeva all’équipe internazionale, fece
curare nel 1993 da E. Tov un’ottima riproduzione in microfiches di tutti i testi
del deserto di Giuda12, ed un elenco di tutti i testi non pubblicati, con
l’indicazione degli editori previsti13. Nel frattempo, la velocità nella
pubblicazione ufficiale dei testi da parte dell’équipe era aumentata
considerevolmente: una concordanza fu preparata da James J. Charlesworth14, e
ben 21 volumi della serie Discoveries in the Judaean Desert sono apparsi solo
tra il 1992 ed il 2000, a firma di decine di studiosi diversi15. Dagli anni
’90, quindi, tutto il materiale conosciuto è disponibile per gli studiosi che
desiderino visionarlo, ed è possibile verificare sugli originali stessi il
valore delle ricostruzioni di Allegro, Eisenman, Baigent e Wise; tuttavia,
ancora continua al di fuori dei circoli accademici la tendenza a presentare al
pubblico l’esistenza di “congiure” o “complotti”, o di letture falsate dei
testi, spesso anche con il sostegno di giornalisti palesemente impreparati ma
ben disposti a pubblicizzare materiale “scottante”. Da questa vicenda, si
spera che in futuro, qualora avvenissero altre scoperte del genere, il lavoro di
edizione sia impostato in modo diverso, allo scopo di evitare fin dall’inizio il
sorgere di tensioni e interpretazioni fuorvianti. Di cosa parliamo In
questa sezione ci si propone di prendere in esame alcune pubblicazioni
“scandalistiche” che, trattando qualche argomento di cui si occupa il nostro
sito, affrontano il tema in modo parziale, metodologicamente superficiale o
storicamente errato. Particolare attenzione verrà dedicata al materiale presente
in rete, allo scopo di fornire al navigatore una sorta di piccola “guida”
all’uso ragionato delle fonti su internet; ritengo questa parte di una certa
importanza, mancando la rete di quel “filtro” di garanzia di serietà che nelle
pubblicazioni a stampa viene normalmente assicurata dai migliori editori. Il
lettore troverà anche un valido aiuto nei consigli preparati dal prof. Robert
Harris per la valutazione delle fonti in internet, consigli in una certa misura
validi anche per le pubblicazioni a stampa. Tutto il materiale è commentato
alla luce dei principi storici e critici che animano il nostro lavoro. La
recensione è opera dei curatori del sito, o può riprendere lavori già apparsi
altrove ad opera di altri studiosi qualificati. Difficile è l’analisi dei
testi presenti su internet, in quanto estremamente mutevoli; la possibilità di
modificare in ogni momento l’assetto ed il contenuto di un sito (cosa che non
avviene con la carta stampata) rende assai complicata la realizzazione di una
recensione. Per ovviare in parte a questo inconveniente, si è pensato di
riprodurre il testo preso in esame accanto alla sua recensione. Per ogni sito
esaminato verrà comunque introdotta la data in cui il testo è stato prelevato
dalla rete. Prima di addentrarci nei contributi della sezione, proponiamo due
piacevoli letture che con divertente ironia aiutano a cogliere lo spirito di
questo nostro lavoro: Appendice stravagante sulla letteratura
storico-religiosa in internet Scriveva diciassette secoli or sono Girolamo,
il «papà» di tutti i biblisti, all’amico Paolino da Nola: «I contadini, i
muratori, i fabbri, i lavoranti in metallo e in legno, i tessitori e i
gualchierai, e in genere quelli che forniscono articoli vari e cose di poco
valore, non possono diventare quel che desiderano senza un maestro. I medici
fanno i medici, i fabbri maneggiano gli attrezzi dei fabbri1. C’è solo una
scienza, quella delle Scritture, che tutti, senza distinzione, attribuiscono a
se stessi: Incolti e colti, senza distinzione, scriviamo poesie2. Questa
scienza è quello che la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito, il
cavillatore parolaio, e in genere tutti quanti si arrogano, fanno a brandelli,
insegnano prima di aver imparato […] e, come se fosse poco, con una certa
facilità di parola e anche con audacia spiegano agli altri quel ch'essi non
capiscono. Taccio dei miei colleghi, i quali, se per caso, dopo aver
coltivato le lettere profane, arrivano alle sacre Scritture […] adattano alla
propria opinione testimonianze incongruenti, come se fosse un magnifico e non un
pessimo sistema di parlare il distorcere frasi e piegare alla propria opinione
la Scrittura, benché questa vi si opponga […] Questi comportamenti sono
infantili e simili al gioco dei ciarlatani: insegnare ciò che ignori, anzi, per
dire una cosa che mi ripugna, non saper neppure di non sapere»3. Mezzo secolo
fa, citando questo passo, scherzosamente osservava il biblista Giuseppe
Ricciotti: «Era il meno che potesse scrivere un Girolamo. Passar l'intera
vita a studiare la Bibbia; logorarsi in viaggi, veglie, strapazzi, visitare
posti, consultare codici, ascoltare maestri, sempre coll’intento di approfondire
il senso ed aumentare la cognizione del gran libro: e poi trovare ad ogni angolo
di strada la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito e compagnia bella,
che in materie bibliche trinciano sentenze e risolvono questioni in quattro e
quattr'otto. Siamo giusti: era umiliante; e non c'era davvero bisogno quel suo
caratteristico spirito ringhioso per scrivere così e peggio. Indubbiamente
Girolamo era un santo»4. Credo che questo divertente quadretto possa essere
applicato paro paro alla situazione di alcuni studi storico religiosi inseriti
nella rete, che oggi ha preso il posto degli angoli delle strade.
Evidentemente, l’importanza che riveste il cristianesimo nella civiltà
occidentale è grande, ed altrettanto grande l’interesse per l’approfondimento di
queste tematiche. Ma per trattarne con serietà, occorrono adeguata preparazione,
studio e metodo, senza i quali ogni ricostruzione è inevitabilmente paragonabile
alle chiacchiere di strada che il povero Girolamo tanto biasimava Lettera ad
Anthropos È divertentissima, ma non priva di forti spunti di riflessione, la
pagina di Giuseppe Ricciotti (1890-1964) che andiamo a proporre, scritta nel
1932 mentre era insegnante di Storia religiosa dell’Oriente cristiano
all’Università di Roma. “LOCUTUS EST IN PARABOLIS” Di Giuseppe
Ricciotti. «Alcune decine d'anni fa verso il 1870, un celebre personaggio
scrisse ed inviò una lettera ad un privato qualunque, che noi chiameremo
convenzionalmente il signor Anthropos; la lettera era scritta in italiano, era
assai lunga, e trattava di argomenti contemporanei vari, alcuni dei quali assai
importanti. Data la celebrità del mittente, alcuni amici chiesero e ottennero
dal signor Anthropos il permesso di ricopiar la lettera. Di fatti, ne furono
eseguite sia semplici copie, sia traduzioni in varie lingue anche assai
differenti dell'italiano, ad esempio in arabo e in giapponese. E fu una fortuna,
giacché poco tempo dopo che il sig. Anthropos aveva ricevuto la lettera, avvenne
un incendio nel suo studio e il testo originale della lettera andò
distrutto. Rimasero però le copie e traduzioni, che s'andavano sempre più
moltiplicando col passare da amico ad amico. Sennonché questi testi ricopiati o
tradotti avevano tutti, chi più chi meno, gravi difetti: una copia era stata
fatta in gran fretta, e quindi conteneva sviste e lacune; un'altra era stata
fatta da un amico di vista debole e di mano malferma, e perciò mostrava qua e là
che si era scambiata una parola con un'altra somigliante, ed era poi riscritta
con una calligrafia così tremolante che, a leggerci sopra, questi scambi
potevano accrescersi in gran numero; una terza copia sarebbe stata ben fatta ma
disgraziatamente rimase lunghi anni negletta in un ripostiglio, ove fu macchiata
dalla pioggia, lacerata dai topi, e ridotta in uno stato per metà
inservibile. Le traduzioni avevano poi altri difetti. Quella in russo, ad
esempio, era stata fatta da un amico moscovita di passaggio in Italia, che però
aveva tradotto assai liberamente: di rado egli aveva seguito la parola, spesso
si era accontentato di una certa corrispondenza di concetti, e talvolta - non
contenendosi nel suo ufficio di traduttore - aveva inserito qua e là nel testo
russo piccole spiegazioni, brevi richiami, e anche qualche riflessione
personale. La traduzione inglese, al contrario, ci era proposta di esser
fedelissima, ma troppo spesso era riuscita sbagliata; ne era autore un rigido e
grave londinese che, conscio della sua debolezza in italiano, non si sentì
tranquillo se non quando si vide dietro il riparo di un autorevole vocabolario:
e così gli successe di tradurre il nome merluzzo, che capitava una volta nella
lettera, come se significasse piccolo merlo (l'autorevole vocabolario di cui si
serviva, era quello di J. E. Wessely, «19a ediz. interamente rifatta» da G.
Rigutini e G. Payn, Milano, Hoepli, 1902; ivi egli lesse a pag. 100, che
merluzzo significa young blackbird). La traduzione in arabo, invece, fu
fatta da un italiano, sì, ma che era alle sue prime anni con la lingua del
Corano e che fece quella traduzione giusto per esercitarsi: è facile immaginarsi
che cosa saltò fuori. E così, più o meno, per tutte le altre. Pochi anni fa,
il valore documentario di quella lettera crebbe a dismisura e se ne ricercò
dappertutto, in Italia e all'estero, il testo esatto per vedere con precisione
ciò che essa diceva. Naturalmente da principio ognuno che ne aveva una copia, o
una traduzione, ritenne di possedere il testo esatto; ma poi, confrontate le
varie copie e messe a riscontro con le diverse traduzioni si constatò che era
necessario ricostruire attraverso tutti questi documenti il testo genuino, per
quanto era possibile, apprestando un'edizione critica. E l'edizione critica fu
fatta, naturalmente in Germania, a cura di un certo professor Deutschmann; essa
risultò dalla collazione delle varie copie italiane, e insieme anche dal
confronto con le varie traduzioni esistenti: quelle lezioni che apparvero
raccomandate da un maggior numero di copie o di traduzioni furono accolte nel
testo, le altre furono relegate in nota. Così la lettera ad Anthropos fu
ricostruita, e se ne ebbe un testo complessivamente sicuro: sebbene qua e là
rimanessero ancora delle incertezze, delle piccole lacune, e altri insoluti
problemi di vario genere, che il prof. Deutschmann con i documenti a sua
disposizione non riuscì ad eliminare. La lettera, criticamente edita, fu
ricercatissima, fece il giro di tutto il mondo, e i dotti cominciarono subito a
pubblicarne commenti totali e dilucidazioni storiche parziali. Si ebbero dei
risultati molto interessanti. La lettera era d'un italiano a un italiano;
trattava di cose e fatti italiani d'attorno il 1870, allorché fu scritta la
lettera; usava anche spesso quella fraseologia familiare che noi italiani
impieghiamo in una conversazione amichevole. Perciò qualunque commento o
dilucidazione richiedeva evidentemente una buona conoscenza, non solo dei fatti
e delle cose italiane d’attorno il 1870, ma anche della terminologia politica e
della fraseologia familiare di quei tempi. Invece, che avvenne? Ecco qualche
esempio a caso. Un professore di una università del Giappone, trovando spesse
volte nominato nella lettera un certo Garibaldi, sostenne che questo personaggio
era un influentissimo cardinale: e non campò mica in aria la sua
identificazione, giacché lunghe ricerche da lui fatte nelle biblioteche
giapponesi lo autorizzarono ad affermare con ogni sicurezza che quel tal signor
Garibaldi vestiva di rosso, precisamente come i cardinali. Un altro
commentatore, appartenente a un istituto superiore del Siam, notò nella lettera,
ripetute più volte, le seguenti frasi: il Pio IX del 1848 e della Costituzione,
e altrove, il Pio IX del «Non possumus» e del 1870; dopo lunghi e pazienti studi
egli concluse che erano esistiti due personaggi storici chiamati Pio IX: uno,
papa legittimo, aveva regnato a Roma; l'altro era morto, poco dopo, come
antipapa a Gaeta, da dove era riuscito ad impadronirsi di Roma espellendone il
legittimo Pio IX ed occupandone il seggio. Un filologo australiano, invece
fece oggetto delle sue esperte ricerche alcune espressioni alquanto oscure che
aveva rinvenute qua e là nella lettera; riuscì, fra l'altro a fissare il
significato di una sibillina frase della lettera che diceva il conte Y ha le
mani in pasta ed è un vero accidente: la scoperta fu che quel personaggio doveva
essere un conte caduto in miseria, e perciò costretto a maneggiare la pasta
facendo il fornaio; inoltre, se egli era chiamato un vero accidente ciò
dimostrava che quel personaggio non aveva più nella vita politica italiana
alcuna «sostanziale» importanza, giacché il termine accidente significava – e
qui il dotto filologo australiano citava in prova una congerie di testi di S.
Tommaso e d'altri scrittori medievali - quod non pertinet ad substantiam (ciò
che non compete alla sostanza). Anche più erudito si mostrò il direttore di
un'accademia dell'Africa centrale, che in una conferenza tenuta sotto un bel
palmizio alla temperatura di 50 centigradi, ricorse ad argomenti sia storici che
filologici per stabilire con sicurezza a che cosa alludesse il termine
carbonari, che ricorreva più volte nella lettera. In primo luogo egli demolì in
maniera definitiva la opinione, comunemente seguita, d'un professore cinese,
secondo cui i carbonari sarebbero stati una specie di casta mandarinale,
contraddistinta da un lungo paudamento di seta nera brillante come carbone, da
cui il nome dei suoi membri. Niente affatto: l'accademico africano dimostrò
invece che il termine doveva aver conservato il suo significato etimologico
originario, e che si trattava di una vera corporazione di fabbricanti di
carbone; ricorrendo poi ad argomenti storico-geografici spiegò in maniera del
tutto convincente che la straordinaria potenza politica della corporazione era
dovuta al fatto che l'Italia, paese freddissimo, aveva un bisogno assoluto di
carbone, e perciò quei che lo producevano tenevano in mano le chiavi della vita
economica e sociale. Infine, un dotto monaco buddista, che nel suo nevoso
altipiano del Tibet si occupava molto di studi folkloristici, mise bene in
rilievo alcune curiose usanze italiane attestate dalla lettera, ad esempio
quella di lavarsi ogni giorno e perfino di stare delle ore intere, durante i
mesi di luglio e agosto, tuffati nelle onde sulla spiaggia del mare, e ne
concluse che gli italiani erano resistenti al freddo molto più che i Tibetani, i
quali facevano a meno di lavarsi e nei mesi di luglio e agosto preferivano stare
attorno e un buon fuoco; confrontò anche l'usanza delle donne italiane di avere
un solo marito con quella delle donne tibetane di averne fino a una dozzina, e
vi fece sopra alcune considerazioni demografiche. E qui, la storiella è
finita. Il lettore probabilmente dirà che è una favola di cattivo gusto. Il
gusto lo lascio giudicare a lui: a me preme far notare che non è punto una
favola; è invece una parabola, e una parabola tanto verosimile, che è veramente
avvenuta, benché sotto altro nome, in altre circostanze, e mutatis
mutandis. La lettera ad Anthropos rappresenta la Bibbia. Le vicende del resto
della lettera corrispondono, in sostanza, alle vicende del testo della Bibbia. I
commenti e le dilucidazioni che hanno dato della lettera i dotti, rassomigliano
in modo impressionante a molti - non tutti - commenti studi apparsi sulla Bibbia
nelle ultime decine d'anni; con la differenza che le ricostruzioni storiche
d'indole giapponese e siamese sono il campo preferito degli studiosi tedeschi e
di chi ne segue il metodo; invece, le dilucidazioni varie di tipo australiano,
africano e tibetano sono un campo assai più vasto, perché aperto a tutti gli
incompetenti presuntuosi: nel cui numero entrano non soltanto «la nonnetta
chiacchierona, il vecchio rimbambito», e compagnia bella, descrittaci da
Girolamo, ma molti e molti altri»
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