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STORIA DEL CRISTIANESIMO

LETTERATURA E STORIA DEL CRISTIANESIMO

Cristianesimo
Il Cristianesimo nasce duemila anni fa nella terra di Israele in seguito alla predicazione di un ebreo, Gesù di Nazareth. Gesù era un predicatore itinerante che raccolse attorno a sé un movimento composto dai più diversi strati della popolazione ebraica con un nucleo di discepoli più ristretto. Gesù auspicava l'avvento del regno di Dio e cioè di un mondo in cui si doveva realizzare la volontà di Dio, l'amore tra tutti gli uomini e il rispetto della giustizia. In attesa di instaurare il suo regno, Dio concedeva il perdono a tutti i peccatori che si convertivano e che a loro volta perdonavano a coloro che avevano fatto loro del male. Nel giudizio universale finale Dio avrebbe punito tutti i malvagi, ma soprattutto quelli che avevano oppresso i poveri, commesso ingiustizie e perseguitato i giusti. Gesù ottenne successo tra la popolazione ebraica del Terra di Isarele, ma fu fortemente osteggiato da alcuni gruppi di potenti autorità religiose che lo denunciarono ingiustamente presso i Romani che in quel tempo dominavano nella Terra di Israele. I Romani arrestarono Gesù e lo misero a morte secondo il supplizio tipicamente romano della crocifissione.
Immediatamente dopo la morte di Gesù il gruppo dei più fedeli discepoli di Gesù ebbe una serie di sconvolgenti apparizioni e credette alla risurrezione di Gesù dando vita ad una attivissima predicazione che in pochi decenni si irradiò in molte parti del mondo antico. Nonostante momenti di persecuzione da parte della autorità politiche, il Cristianesimo si diffuse nei secoli successivi fino ad ottenere un appoggio da parte dell'impero romano sotto l'imperatore Costantino. Dalla metà del IV secolo alla metà del VI secolo si attuò la progressiva cristianizzazione dell'impero romano.
Nel VII secolo una nuova religione, l'Islam, nata nella penisola arabica, si diffuse rapidamente in territori che per secoli erano stati cristiani, come ad esempio tutta l'Africa del Nord. Ma il Cristianesimo continuò la sua diffusione soprattutto in Europa, ma anche in altre parti dell'Africa e dell'Asia.
Attualmente non esiste una sola forma di Cristianesimo. Pur essendo una religione unitaria, perché unita dalla fede in Gesù Cristo, il Cristianesimo si presenta, infatti, suddiviso in quattro grandi gruppi di chiese principali:
le chiese ortodosse (tra le quali si distinguono quelle storicamente riconducibili al patriarcato di Costantinopoli e quelle riconducibili al Patriarcato di Mosca);
la chiesa cattolica (che nella sua origine dipende dalla chiesa di Roma e rappresenta il Cristianesimo latino),
le chiese orientali (come, ad esempio, la chiesa apostolica armena che risale al III secolo e quella copta);
le chiese protestanti nate da una scissione all'interno della chiesa latina all'inizio del XVI secolo.
A partire dall'inizio del XVI secolo, grazie all'espansione delle potenze europee in seguito allo sviluppo della moderna civiltà tecnico-scientifica e industriale, le diverse forme di Cristianesimo si diffusero in tutte parti del mondo. Nei primi decenni del secolo XX si è diffuso, grazie al movimento ecumenico, nelle diverse chiese cristiane separate, l'aspirazione alla riunificazione, che tuttavia incontra difficoltà gravissime, poste le grandi differenze non solo dottrinali ed istituzionali, ma anche culturali, tra le diverse chiese.

Testi sacri
Il testo sacro del Cristianesimo è la Bibbia cristiana composta di due parti: l'Antico e il Nuovo Testamento. L'Antico Testamento è essenzialmente costituito dalle sacre Scritture dell' Ebraismo , che tuttavia il Cristianesimo interpreta in modo molto divergente rispetto all'interpretazione ebraica. Alcune chiese, come quella cattolica e quelle ortodosse, ma non quelle protestanti, inseriscono nell'Antico Testamento anche un certo numero di scritti religiosi ebraici che tuttavia gli Ebrei non considerano rivelati da Dio. Il Nuovo Testamento è, invece, composto da 27 opere tutte composte dai cristiani prevalentemente nel I secolo e.v.. Fra esse sono fondamentali i quattro Vangeli: quello di Matteo, di Marco, di Luca e di Giovanni.

Principi fondamentali
Il Cristianesimo è una religione monoteista, come l'Ebraismo da cui è sorto. I cristiani infatti credono che esista un solo Dio. Egli è il creatore dell'universo (che perciò è considerato una cosa buona) e tutto gli è sottomesso. Dio non solo domina il creato, ma anche interviene nella storia e la guida orientandola verso un fine futuro positivo. Dio fa conoscere la sua volontà mediante rivelazioni trasmesse dai profeti i quali provvedono anche a scriverla in libri che costituiscono appunto la Bibbia. Secondo il Cristianesimo, Dio, pur essendo uno solo, possiede tuttavia una dinamica interna che si manifesta in tre persone divine che non sono altro che l'unico Dio. È la dottrina della Trinità che ritiene che l'unico Dio si manifesti nella persona del Padre, del Figlio e dello Spirito santo.
Di questa dottrina fa parte anche la credenza forse più caratteristica del Cristianesimo, quella della doppia natura, umana e divina, di Cristo: Gesù, pur essendo un uomo vero, nato dalla Vergine Maria per opera dello Spirito Santo, era anche veramente Dio. Per secoli i cristiani hanno discusso questa dottrina e molte delle loro divergenze dottrinali possono essere ricondotte alle difficoltà nel mettere d'accordo l'umanità di Gesù Cristo con la sua divinità.
La rivelazione di Dio ha un contenuto essenzialmente morale che si riassume nei Dieci Comandamenti contenuti nell'Antico Testamento. L'adorazione di un solo Dio e l'amore del prossimo sono spesso presentati come la sintesi cristiana di questi precetti. Il Cristianesimo, tuttavia, non incita solo gli uomini ad obbedire alla volontà di Dio spingendoli ad amare il prossimo con tutte le proprie forze. Insiste anche sul principio secondo il quale bisogna invocare da Dio la forza di compiere il bene. Solo la grazia di Dio rende l'uomo capace di compiere veramente il bene. Ma, qual è il ruolo della volontà dell'uomo e quale il ruolo della grazia di Dio? Su questo punto si sono accese spesso divergenze profonde e anche aspre divisioni, come ad esempio nel XVI secolo tra cattolici e protestanti. In genere tutte le forme di Cristianesimo affermano la libertà dell'uomo e la capacità della sua volontà di compiere il bene, ma non sono mancate concezioni pessimistiche sulla effettiva possibilità degli uomini di dominare le inclinazioni malvagie della natura umana.
Il principio dell'unicità di Dio, della bontà della creazione e dell'amore verso tutti gli uomini porta il Cristianesimo all'idea dell'uguaglianza tra tutti gli uomini e tra i sessi, anche se le diverse forme di Cristianesimo nelle diverse epoche hanno spesso accettato (come del resto le altre religioni monoteiste) le disuguaglianze sociali, la stratificazione sociale e la subordinazione della donna.
Lo scopo della vita dell'uomo, secondo il Cristianesimo, è di partecipare alla vita stessa di Dio. L'uomo non termina il suo destino con la sua morte naturale; egli è destinato ad unirsi con Dio dopo la morte in una condizione di felicità eterna. La possibilità di partecipare alla futura vita divina è subordinata ad un giudizio di Dio che riassume tutta l'intera vita di ogni uomo. Il Cristianesimo ha sempre sostenuto che accanto al premio della felicità eterna sussiste anche la possibilità di una condanna eterna da parte di Dio.
GESU' STORICO
Le nostre conoscenze riguardanti la storia della Palestina al tempo di Gesù sono aumentate in questi ultimi cinquanta anni e continuano ad aumentare in maniera tale che l’aggiornamento è possibile solo con qualche sforzo. I motivi dell’aumento di conoscenza sono molteplici. In primo luogo bisogna ricordare la scoperta dei manoscritti del Mar Morto, i quali hanno trascinato con sé, date le affinità evidenti, un grande interesse per i cosiddetti “apocrifi dell’Antico Testamento”, che da tempo venivano pressoché ignorati. Lo studio di questi ha dato vita a partire dagli anni 70 a numerose edizioni-traduzioni. Ma mancano ancora commenti veramente approfonditi dedicati alla maggior parte di questi. Resta difficile per ora capire per molti di essi quale fosse l’ideologia soggiacente. Un altro elemento destinato a portare luce sulle tendenze ideologiche che c’erano agli inizi dell’era cristiana è il targum Neophiti che costituisce una pagina di teologia giudaica tutta da chiarire e inserire nella storia del pensiero del tempo. Si scoprono sempre più i limiti delle ricerche che si appoggiavano sulla mishnah.
E’ ormai assodato che il giudaismo del tempo di Gesù non era un monolito, ma era ricco di tendenze varie e talora contrapposte. Così, Gesù non va guardato sullo sfondo del giudaismo, ma su quello delle varie correnti del tempo. Qualcuno dice addirittura sullo sfondo dei giudaismi. Frasi del tipo «Giacomo è più ebreo di Paolo» non hanno oggi alcun senso e dovranno essere sostituite, eventualmente, da frasi come «Giacomo è più vicino al farisaismo di Paolo». In ogni caso anche questa affermazione può aver bisogno di essere modificata. In altri termini, l’uguaglianza “giudaismo - farisaismo” non tiene più.
Per orientare il lettore nel panorama delle ideologie esistenti nella Palestina del tempo di Gesù, mi provo a stilare uno schema dei principali punti di riferimento caratterizzanti ciascun gruppo. Questo schema deve essere considerato un puro tentativo, perché non ho alcun testo di questo tipo cui far riferimento. Informo che mi sono basato sulle opere meglio conosciute, ma avverto che la singola citazione d’appoggio non è altro che un passo che, pur essendo significativo, tuttavia trae la forza del significato dalla struttura in cui si trova. Resta inoltre il fatto che ogni opera ha caratteristiche proprie, per cui la categoria “corrente di pensiero” va vista in maniera non troppo rigida.
Schema delle ideologie dominanti al tempo di Gesù
a) Enochismo.
L'enochismo è quella forma di religione giudaica che a partire dall'epoca postesilica si sviluppò in maniera complessa fino al I sec. d.C., scorrendo parallelamente al giudaismo che oggi ci appare come ufficiale e che, più storicamente, possiamo etichettare come sadocita. Il nome di enochismo deriva da quello del rivelatore della maggior parte delle opere che vengono attribuite all’enochismo. Esso sembra combaciare in gran parte con l'essenismo secondo le informazioni che abbiamo dalle fonti ebraiche di lingua greca (Filone e Giuseppe Flavio). Opere sicuramente enochiche sono quelle in cui il rivelatore è Enoc. Altre opere di ideologia simile a quella enochica, ma il cui rivelatore non è Enoc, vengono inserite in quella teologia che una volta era chiamata apocalittica oppure nel gruppo ancora più vasto e ideologicamente indeterminato degli apocrifi1. L'enochismo si distingue dal giudaismo sadocita per le seguenti caratteristiche che permangono durante tutta la sua storia:
1) L’enochismo ignora la Legge mosaica2 (1H [LS] 89,27-38: episodio del Sinai, Mosè si occupa solo del Tabernacolo; 2B 4,5). Alcune opere fondamentalmente enochiche del II-I sec. a.C. (Giub; EE) riconoscono la Legge di Mosè, ma subordinata alla Legge delle Tavole Celesti3 (1H [EE] 99,2), il cui contenuto resta, comunque, in termini generici, come la condanna dei ricchi, dei frodatori, degli idolatri 4(1H [EE] 94,6 - 103,5). Nei testi più recenti si sviluppa l'idea dell'amore (2H/B 44,4; 50,5-6; 52,7-13; anche verso gli animali: 58, 6) come unico criterio etico5.
2) Il cosmo, nella fase più antica, è concepito nel LV come disordine dovuto a ribellioni angeliche (1H [LV] 8 [a livello storico], 18,15 [a livello cosmico], ma nell’introduzione, che è posteriore, è ordine [1H 2,1]. Nel LA il cosmo è ordine. In seguito è ordine, ma con forti presenze demoniache (Giub 5,11-12; 10,7-10)
3) L’enochismo riconosce il tabernacolo e il Tempio di Salomone, ma non di quello sadocita (1H [LS] 90,28; cfr. anche Giub 1,17; RT 29, 8-10).
4) Nelle opere enochiche non c’è nessun accenno all'esistenza delle norme di purità (eccetto mangiare il sangue: 1H [LV] 7,5; Giub 7,31; 1H [EE] 98,11 e il generico riferimento alle offerte impure di [LS] 89,73).
5) L'impuro esiste realmente in natura come conseguenza del peccato angelico. Questo rappresenta l'origine del male permanente nella storia o attraverso l’impurità o attraverso l’opera diabolica stessa (1H [LV] 10,8; 19,1; 10,7.8.22;12,4; cfr. il peccato delle sette stelle in 1H [LV] 18,15; 21,3) ma è il senso generale del libro che porta in questa direzione; chiarissimo il Truben 2,1-3. 15).
6) La storia (periodizzata in eoni) è predeterminata, ma l'individuo è libero e responsabile (Giub: cfr. anche le due tarde apocalissi non enochiche 2B 18,2; 54,15; 56,10-13; 4E 3,8; 7,72. 104. 127).
7) Esistenza dell'anima immortale e disincarnabile, destinata ad essere giudicata da Dio dopo la morte (1H [LV] 9,3. 10 (Sincello); 22; Giub 23,31; 4E 7,32. 75-101; 2B 30, 1-2).
8) Esistenza di inferno e paradiso: frequente soprattutto la menzione dell’inferno (1H [LV] 18,14; 19,1; 21,3; 22,10-11; 25; Giub 7,29; 22,22; 24,31; LS 83,2-7;88,1-3; 90,26-27; EE 99,11; LP 61,5; 62,15-16; 2B 59,10.
9) Nei testi più recenti la salvezza sembra legata esclusivamente al pentimento, che può avvenire anche dopo la morte (LP 50; 63; 68,5; ApSof 10,11).
10) Il calendario usato è quello solare.
11) In quanto al messianismo, esso è documentato chiaramente nell’enochismo a partire dal LP e ha carattere superumano. Prima di LP sembra che più che di Messia si debba parlare di rivelatore di salvezza, certamente sempre con caratteri superumani.
b) Qumranesimo.
Il qumranesimo è una sorta di eresia enochica sorta verso la metà del II sec. a.C., che si distingue per credere 1) nel predeterminismo assoluto (quindi, anche individuale; Dio ha creato Satana per odiare tutto ciò che egli compie: [1QS 4,1b]). 2) Il qumranesimo accetta pienamente la Legge mosaica (1QS 5,8), che tende a unificare eliminando differenze e contraddizioni (RT). 3) Accetta l'importanza della purità (peccato e impurità coincidono e l'uomo è peccatore/impuro fin dall'utero: 1QH 4,29-30). 4) Sviluppa l'idea della giustificazione per mera grazia (1QS 11,3) e tende a dare alla fede (emunah) in Dio dei contenuti ideologici precisi (pHab 8,3). 5) I qumranici usano il calendario solare. 6) Non riconoscono il Tempio di Gerusalemme. 7) Credono nell’esistenza dell’anima; l’anima degli adepti vive già nell’eterno.
c) Farisei.
I farisei sono, insieme coi sadducei, gli eredi del sadociti­smo; al tempo di Gesù 1) hanno al centro della loro teologia il valore della Legge (mosaica) sia scritta, sia orale. 2) Credono nella piena libertà di scelta dell'uomo e quindi nella sua piena responsabilità. 3) Credono nella resurrezione e/o immortalità dell'anima; 4) vedono probabilmente già al tempo di Gesù il Giudizio dopo la morte come conto sugli atti di osservanza e di trasgressione della Legge (Pirqe Avot 3,16). 5) Al tempo di Gesù usano anche nel Tempio il calendario lunisolare ellenistico e laico (probabilmente solo dalla seconda metà del I sec. a.C.). 6) Non è chiaro come interpretassero le norme di purità. Già alla fine del I sec. doveva esistere la tendenza a considerarle semplici comandamenti da osservare senza che l'impurità avesse una sua realtà. In ogni caso al tempo di Gesù il problema della realtà dell'impuro, che cosa fosse, era molto sentito probabilmente per il confronto col mondo ellenistico occidentale.
Come si vede il farisaismo si contrappone nettamente all'e­nochismo (e ancor più al qumranesimo) su un punto fondamentale: il rapporto fra l'opera di Dio e quella dell'uomo nella creazione della salvezza. L'intervento di Dio è maggiore nelle opere a tendenza enochica (o essenica) che in quelle a tendenza farisaica. Nel farisaismo l'uomo salva se stesso per mezzo dell'osservanza dei comandamenti, perché gli atti di osservanza cancellano gli atti di trasgressione e la giustizia (sedaqah) praticata (quello che noi chiameremmo “le opere buone”) cancella le ingiustizie commesse (Sukkah 49b6). Nell'enochismo le ingiustizie commesse possono solo essere perdonate per mera bontà divina, purché il peccatore si penta.
d) Sadducei
Tralascio di presentare i sadducei sia per la scarsezza di notizie sia perché al tempo di Gesù erano ideologicamente isolati e, sempre ideologicamente, sotto il predominio farisaico. Vale comunque la pena di ricordare che 1) non riconoscevano la validità della legge orale e con molta probabilità limitavano la scrittura alla sola Torah. 2) Non accettavano né l'esistenza dell'anima immortale e destinata al Giudizio, né la resurrezione. 3) Circa la liturgia del Tempio avevano una tradizione che discordava in parte da quella che usavano al tempo di Gesù, la quale doveva essere di origine farisaica. Gli indizi esistono, ma sono frammentari.
Su almeno due punti tutte e tre le più vive tendenze del tempo concordavano: uno è il convincimento che il peccato è ciò che provoca la vendetta di Dio e, quindi, il malessere sociale; è ciò che impedisce la salvezza sia in questo mondo, sia nell'altro. Date le conseguenze concrete che, a torto o a ragione, si attribuivano al peccato, questo era un problema centrale per gli ebrei del I sec. Ciò non toglie che la liberazione dal peccato sia vista in termini diversi dalle tre sette sulla base dei principi generali professati da ciascuna. L'altro punto è l'attesa del Messia. Va, però, sottolineato che l'immagine del Messia poteva essere molto diversa da autore ad autore anche all'interno dello stesso gruppo. In altri termini, sembra che la forma in cui si sarebbe rivelato sarebbe stata chiarita solo al momento della sua rivelazione.
Gesù si muove e predica sullo sfondo di queste idee e non è difficile, leggendo il Nuovo Testamento, cogliere accettazione di esse o polemica contro di esse. Anche le innovazioni cristiane hanno sempre una radice in problemi del tempo.
Giovanni Battista
Tutti i vangeli concordano nell'indicare un rapporto fra Gesù e il Battista. Giova, dunque, cercare di delineare la sua teologia. Giovanni vedeva chiaramente i mali della sua società, che riteneva, come tutti, conseguenza del peccato. Guardando nel futuro, egli vedeva la rovina imminente ed inevitabile, se non ci fosse stato un cambiamento di rotta immediato. La scure era già posta alla radice; inutile appellarsi ai meriti dei padri; la responsabilità era individuale.1 Se molti accorrevano a lui, vuol dire che la sua fama era divulgata, ma vuol dire anche che condividevano la sua diagnosi dei mali del tempo.
Giovanni non predicava solo la necessità della conversione (fino a questo punto probabilmente tutti erano d'accordo), ma anche un battesimo di penitenza (báptisma metanoías), che doveva seguire al penti­mento. Il battesimo era un rito purificatorio, serviva, cioè, per togliere dal peccatore un'impurità reale. Mi pare che l'unico modo per capire il senso che Giovanni attribuiva al suo battesimo sia ammettere che per Giovanni il peccato producesse un'impurità, secondo una teologia le cui radici possono risalire fino a Isaia (cap. 6), ma che era particolarmente attiva presso i qumranici.
Deve essere chiarito che l'impurità non era un fatto puramente rituale, come sembra indicare un’espressione che circola, “impurità rituale”: sembra che riguardasse solo il culto e il Tempio. L’impurità era, invece, un fatto reale che riguardava la vita quotidiana. Se un problema aperto c'era, esso riguardava la natura dell'impurità e la sua relazione col peccato. Non tutti accettavano che anche il peccato producesse impurità. In altri termini: trasgredire una legge riguardante la relazione con le cose impure è un peccato, ma non tutti accettavano che la trasgressione di un qualunque comandamento producesse a sua volta un’impurità. Evidentemente Giovanni non accettava l'idea qumranica che l'uomo nascesse già impuro, ma, in ogni caso, riteneva che il peccato producesse un'impurità che doveva essere tolta. La sua via verso Dio era fatta, pertanto, di purità: per evitare qualunque contaminazione, anche minima, mangiava solo cibi, non solo di per sé puri, ma raccolti e preparati dalle sue stesse mani: cavallette e miele selvatico. Si trattava, perciò, di cibi non elaborati né raccolti da altri, che potevano anche essere in stato di impurità e quindi corrompere la purità del cibo.
L'avvicinamento a Dio non era impedito solo dalla trasgres­sione, ma dallo stato di impurità conseguente. Anzi il vero ostacolo permanente doveva essere proprio questo. L'ostacolo fondamentale verso la salvezza era costituito per Giovanni dall'impurità conseguente sia al contatto con cose impure, sia al peccato.
Gesù e i contenuti della Legge.
Gesù, come è ben noto, si staccò da Giovanni e non ebbe timore né a mescolarsi con la gente che poteva essere in stato di impurità, né a mangiare cibi toccati da altri. Ciò non toglie che anche lui vedeva il peccato come il grande problema da risolvere: era venuto apposta per i peccatori, non per i giusti (Mc 2,16-17 e passi paralleli). Il peccato era, pertanto, anche per Gesù, il grande nemico della salvezza. A questo proposito due sono le cose da cercare di chiarire: 1) quali erano i contenuti della legge secondo Gesù; 2) quale lo strumento di salvezza dal peccato.
a. Gesù e le norme di purità.
Un punto che distingue nettamente Gesù dal suo contesto è il fatto che dette alla Legge contenuti diversi da quelli mosaici della tradizione. Tocco qualche caso chiarissimo, cominciando da quello delle norme di purità. Secondo Marco (cap. 7), Gesù abolì le norme di purità riguardanti i cibi (7, 19). Ma, se uno legge il testo attentamente, si accorge che Gesù prese spunto da un problema particolare, quello che riguarda gli alimenti, per arrivare a conclusioni che vanno al di là della sfera alimentare, anche se non è chiaro di quanto.
«Non quello che entra dalla bocca rende impuro l'uomo, ma quello che esce dalla bocca rende impuro l'uomo» (7, 12). La domanda posta dai farisei riguardava solo il problema se era lecito o meno mangiare senza una certa abluzione prescritta dalla tradizione. La risposta di Gesù va già oltre la domanda con le prime parole: «Non quello che entra dalla bocca, rende impuro l'uomo». Essa, infatti, riguarda non il modo di mangiare, ma gli alimenti stessi. Ma la seconda parte («quello che esce») abbraccia conseguenze più vaste ancora ed enuncia, in qualche modo, un principio generale. La sola cosa che può contaminare l'uomo (e qui 'contaminare' deve avere il significato che davano al concetto di impurità enochici e qumranici, signifi­cato di depotenziamento spirituale più che fisico, di impedimento ad avvicinarsi a Dio) è la trasgressione della Legge, ovviamente quale era insegnata da Gesù. L'interpretazione dell'Evangelista «Con questo Gesù intendeva dichiarare puri tutti gli alimenti» è riduttiva e mostra un certo imbarazzo della prima tradizione cristiana, che era ebraica, di fronte all'insegnamento di Gesù.
In altri termini, con Gesù abbiamo un’interpretazione del concetto di impurità come valenza estremamente negativa, ma i contenuti del­l'impurità sono detti diversi da quelli ritenuti tali dalla tradizione sadocita. Bisogna, però, considerare che in questa tradizione la trasgressione delle norme di purità era già un peccato; se Gesù disse «solo ciò che esce dalla bocca può contaminare l'uomo» vuol dire che assumeva a contenuto della Legge solo ciò che noi oggi chiamiamo etico, ma questo era un concetto che gli ebrei del tempo non conoscevano, o, comunque, non avevano formalizzato. Dire che nulla è impuro in natura può essere un principio valido e ben comprensibile (cfr. già la Lettera di Aristea § 143; Rom 14, 14), ma se chi ascoltava scendeva dal principio generale ai contenuti effettivi, si doveva trovare di fronte a difficoltà insormontabili, perché per l'ebreo di allora tutto era legge allo stesso modo. Dal discorso di Gesù risultano chiaramente abolite le norme di purità riguardanti i cibi, ma risultano anche potenzialmente eliminate altre leggi analoghe, la cui precisazione ci manca. E le norme di purità riguardavano anche il culto, la sfera sessuale, i contatti coi pagani1.
b. Gesù e il ripudio
Come è noto, Gesù negò la liceità del ripudio, nonostante che fosse regolato dalla Legge mosaica, che egli sembra accettare come valore nelle linee generali («Che cosa leggi nella Legge?»). Ciò che interessa è la spiegazione del suo giudizio nel caso particolare. Nel caso del ripudio la Legge non vale, perché «agli inizi non fu così». Dunque, la Legge mosaica ha valore storico, non assoluto: il valore assoluto appartiene a ciò che fu agli inizi. In questo Gesù si differenzia anche dal libro dei Giubilei, perché questo accettava la Legge mosaica, quando non contraddiceva le Tavole Celesti. Gesù non conosce le Tavole Celesti, ma risolve il problema in maniera storica, cosa che è molto moderna. Ciò che è storico ha sempre un valore relativo.
Gesù e il peccato
I contenuti della Legge non sono più quelli mosaici. L’insegnamento di Gesù avvicina la morale mosaica a quella enochica, ma il punto di partenza, la base del discorso di Gesù è la morale fondata sulla Legge di Mosè, alla quale, però, è tolto il valore assoluto che aveva per i farisei. Ovviamente, il concetto di peccato chiaramente resta, anzi è radicalizzato. Degno della Geenna non era solo chi uccideva, ma anche chi offendeva il prossimo. Si può dire che la situazione di Gerusalemme era per Gesù ancora più cupa che per il Battista. E in effetti alla «scure posta alla radice» di Giovanni, Gesù affianca il suo pianto sulla distruzione di Gerusalemme e del Tempio1. Gesù non pensava né che la sua predicazione, né che la sua morte, della quale era cosciente, avrebbero portato una soluzione al male del peccato. Gesù non pensò mai a una società senza peccato. La sua missione, evidentemente, non era quella di creare una tal società. Il perdono e l’amore cristiano sono strumenti umani che non realizzano lo scopo ultimo, che rimane la sconfitta del peccato e del male.
Gesù e l’espiazione.
Al tempo di Gesù l’idea che il peccato dovesse essere in qualche modo espiato per essere perdonato da Dio è diffusa. Come al solito, non si era d’accordo sui mezzi, o, per meglio dire, ce n’erano più d’uno e forse erano accettati un po’ tutti. Nell’insieme si può notare che i qumranici avevano sostituito interamente il culto del Tempio con la preghiera e l’espiazione era opera dello spirito divino che operava in seno all’assemblea degli uomini della setta1. Gli enochici non parlano normalmente del Tempio2, se non per dire che è destinato alla distruzione; della sua funzione al loro tempo non parlano. I farisei vedono l’espiazione per mezzo delle opere buone. Ciò non toglie che lo yom kippurim fosse celebrato anche nel Tempio.
L’idea che il peccato andasse espiato era idea antica e risaliva almeno ad Ezechiele e sfociò nel rituale della festa dell’espiazione, regolato definitivamente in epoca postesilica. Il rituale è descritto in Lev 16. (cfr. anche Lev 23,27-32 e Num 29,7-11). Il principio dell’espiazione è costituito dall’idea che il sangue espia. Si veda Lev 17,11: «La vita (nefesh) degli esseri viventi (habbasar, “della carne”) è nel sangue; Io l’ho dato a voi per fare l’espiazione sopra l’altare per le vostre vite; perché il sangue espia per mezzo della vita (bannefesh)». In altri termini: poiché il peccato merita la morte, l’offerta di una vita placa la divinità che rinuncia così a richiedere la vita del peccatore. Questo è irrazionale, ma è profondamente radicato nella coscienza ebraica a partire dal primo postesilio. E’ solo tenendo presente questa concezione del sacrificio espiatorio che si comprende il ragionamento dell’autore della Lettera agli Ebrei nel cap. 9. L’allusione al rituale dello yom kippurim è chiarissima. Gesù lo ripete e, se il suo gesto ha un valore superiore a quello del Sommo Sacerdote, è per due motivi: il primo è la superiorità del sacerdozio del Cristo rispetto a quello del Sommo Sacerdote, il secondo è la superiorità dello strumento, perché al sangue delle vittime è sostituito il sangue stesso di Gesù. Il valore del sangue come strumento di sacrificio, qualunque sia il fine del sacrificio, è chiaro e si comprende bene solo nella luce delle idee di allora. Se questa è interpretazione contemporanea e diffusa (cfr. anche Rom 3,25; 1 Giov 2,2; 4,10) , ci si può però domandare se essa rappresenta o meno l’intenzione di Gesù.
Gesù e la sua passione.
A me sembra certo che Gesù abbia voluto la sua morte e la sua passione. Forse a «ha voluto» si può sostituire «non ha rifiutato», ma non mi sembra che il senso cambi molto. E nella Passione e nella morte violenta il sangue è elemento presente. Vedremo se per Gesù il sangue aveva importanza. Tutti e quattro i vangeli concordano nell’orientare il racconto sulla morte di Gesù. Mi pare, però, che l’attenzione non sia rivolta soltanto alla morte, intesa come fine, sia pure violenta, ma piuttosto verso tutte le sofferenze che essa comportò. Gesù piange e chiede al Padre che, se quel calice poteva passare, che passasse. La coscienza di ciò che stava per accadere rende più dolorosi gli ultimi giorni. Si insiste sulle torture nel campo romano, sullo stato debilitato di Gesù che deve portare la sua croce fino al luogo del supplizio, sulla sua disperazione: «Mio Dio, perché mi hai abbandonato?». La tradizione cristiana, seguendo il senso dei Vangeli, quando intendeva parlar della morte di Gesù, l’ha chiamata «Passione» e «Passione» non è solo «morte». Tutto lascia pensare che il dolore1 e il sangue fossero sentiti dalla tradizione cristiana e da Gesù stesso come parte indispensabile della sua missione.
Gesù e il Patto
Il momento culminante dei rapporti fra Gesù e i discepoli è la cena pasquale, nella quale Gesù spezzò e benedisse con loro il pane e benedisse il calice con le conturbanti parole «Questo è il mio corpo» e «Questo è il mio sangue». Gesù spiega anche il significato per cui versa il sangue: la stipulazione del Patto. In Marco non si parla di «Patto Nuovo», ma semplicemente di Patto, espressione che ha una forza che l’aggiunta di «Nuovo» le toglie, anche se la rende più piana. In tutti e tre i sinottici segue «versato per» seguito da «molti» in Marco e in Matteo, da un «voi» in Luca. La passione è in funzione del Patto e il Patto è per una massa indeterminata in Marco e Matteo, per i discepoli (presenti e futuri) in Luca. Il Patto è concetto tipicamente ebraico, come è ebraica la necessità che il Patto sia stipulato mediante il sangue. Il sangue torna ad essere essenziale nella vicenda di Gesù anche sotto questo punto di vista. Così è ebraica la specificazione di Matteo che il Patto di Gesù era in funzione della remissione dei peccati. Tutto lascia pensare che il testo matteano eis afesin amartion sia un’aggiunta alle parole effettivamente pronunciate da Gesù. L’interpretazione di Matteo è, in ogni caso, in linea con la richiesta della gente, quale è chiaramente indicata da Marco per coloro che andavano da Giovanni per ricevere il battesimo eis afesin amartion. E’ chiaro comunque che il concetto di afesis amartion dal punto di vista dell’ebreo del tempo aveva un valore molto più vasto che per noi, perché il peccato era la radice di tutti i mali. In questo caso il pensiero di Matteo è veramente più ebraico (non solo più farisaico) di quello degli altri evangelisti. Giovanni insiste che il pane di Gesù era pane di vita: è interpretazione che si incentra sul valore salvifico della Passione in funzione della vita eterna. Anche questo è vero; ma resta che il Patto deve essere qualcosa di più vasto ancora e che era necessario stipularlo per mezzo del sangue.
Per lo storico, che cerca di rappresentare il passato quanto più possibile per mezzo delle categorie che produssero gli avvenimenti che narra, Gesù fu cosciente della sua morte, che accettò pur potendola chiaramente evitare, cioè la volle e la volle particolarmente dolorosa. Quale sia il significato di tutto ciò per il cristiano di oggi, non è compito dello storico stabilire, ma il fatto «morte di Gesù», interpretato come sacrificio in funzione del (Nuovo) Patto, non deriva solo dall’interpretazione dei contemporanei, ma dalla stessa intenzione di Gesù. Nulla vieta che questa si adeguasse alla “pienezza dei tempi”, se non altro per essere capita nelle sue valenze generali di salvezza (anche questo è concetto tipicamente ebraico), ma non è compito dello storico andare al di là dei fatti e delle idee che li produssero.
LO STUDIO E LA CONOSCENZA DELLA BIBBIA OGGI
Lo studio della Bibbia nell'università e nella scuola, rispetto all'importanza che essa riveste per la cultura e la storia dell'Occidente, è esiguo; persino tra gli stessi credenti, spesso, la conoscenza biblica non è molto diffusa. Ugualmente, la divaricazione e la separazione tra cultura religiosa e cultura laica ha fatto sì che nella cultura comune contemporanea, a tutti i livelli, l'aspetto religioso risulti alquanto marginale; la conseguenza immediata è il venir meno della conoscenza dei fondamenti della religione cristiana, e in specie della Bibbia, che precedentemente era invece patrimonio comune e alimento di tutta la produzione culturale.
LA PRESENZA DELLA BIBBIA NELL’UNIVERSITÀ ITALIANA
Nell’Università italiana non è molto lo spazio che viene attribuito allo studio della Bibbia, come si deduce anche solo dal ridottissimo numero di insegnamenti attivati nelle varie sedi per quanto riguarda l’Antico Testamento (ossia Lingua e letteratura ebraica oppure Filologia biblica) e il Nuovo Testamento (Filologia ed esegesi neotestamentaria). Di quest’ultima in tutta Italia esistono attualmente solo quattro insegnamenti (a Torino, Catania, Messina, Sassari), a parte quello dell’Università Cattolica di Milano, mentre in altre due sedi (Bari, Padova) l’insegnamento è durato alcuni anni ed ora tace. A Torino è stato attivato soltanto alcuni anni fa, e più per motivi burocratici (necessità di differenziare i due preesistenti corsi di Letteratura cristiana antica) che non per una volontà e una programmazione precise.
Del resto anche l’introduzione della Letteratura cristiana antica nell’Università italiana, come cattedra ufficiale, è relativamente recente: risale a una cinquantina di anni fa, nel 1948, e si è verificata a Torino, ad opera di Michele Pellegrino. E’ significativo che Pellegrino fosse un sacerdote (diventerà negli anni ‘60 arcivescovo di Torino e cardinale) e sacerdoti fossero prima di lui i pionieri di questo insegnamento, Paolo Ubaldi e Sisto Colombo, che incominciarono a tenere, sempre a Torino, corsi liberi di Letteratura cristiana all’interno degli insegnamenti di Letteratura greca e Letteratura latina, rispettivamente fin dal 1909 (Ubaldi) e dal 1925 (Colombo). Di fatto la prima cattedra di Letteratura cristiana antica in Italia fu istituita nell’Università cattolica di Milano, nel 1924, e fu Ubaldi il primo a ricoprirla. Una proposta, avanzata dal Consiglio della Facoltà di Lettere di Torino già nel 1913, di istituire una cattedra specifica di Letteratura greco-cristiana, fu bocciata senza giustificazioni dal Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione: i tempi non erano maturi perché in un’Università di Stato si insegnasse la letteratura cristiana1. In ogni caso, anche quando fu istituito ufficialmente l’insegnamento, gli stessi promotori, tra cui il famoso storico della letteratura latina, Augusto Rostagni, non erano affatto convinti che la letteratura cristiana potesse stare sullo stesso piano delle altre letterature e che i testi cristiani potessero essere studiati al di fuori dell’ottica storica e teologica ...
In Italia non è del tutto superata l’antica frattura tra il mondo dell’Università di Stato e le discipline di carattere religioso, che si è prodotta nel 1873, quando nelle Università di Stato fu abolito l’insegnamento della teologia, che da quel momento divenne appannaggio esclusivo delle Scuole teologiche e delle Università ecclesiastiche. Recentemente è stata salutata come una novità rivoluzionaria l’iniziativa presa dalla Facoltà di Lettere dell’Università del Friuli di aprire una convenzione con l’Istituto superiore di scienze religiose del Nord-est, in base alla quale nel curriculum storico-religioso dell’Università sarà possibile acquisire un terzo dei crediti presso l’Istituto ecclesiastico, e, reciprocamente, l’Istituto riconoscerà la laurea in lettere nel curriculum storico-religioso dell’Università come titolo valido per essere ammessi al quarto anno di Magistero in scienze religiose.
ASSENZA DELLA BIBBIA NELLA SCUOLA
Più di un secolo fa era lo storico della letteratura Francesco De Sanctis ad affermare: «Mi meraviglio come nelle nostre scuole, dove si fanno leggere tante cose frivole, non sia penetrata un’antologia biblica, attissima a tener vivo il sentimento religioso, ch’è lo stesso sentimento morale nel suo senso più elevato»1. E per parte sua spiegava il grande effetto che provò lui e provarono i suoi allievi quando, volendo trattare della lirica, affrontò da profano («Non avevo mai letto la Bibbia, e i giovani neppure») anche la lirica ebraica (il libro di Giobbe, il cantico di Mosè, i salmi, i profeti): «Rimasi atterrito. Non trovavo nella mia erudizione classica niente di comparabile a quella grandezza». Più recentemente (1989) il semiologo Umberto Eco si è domandato sulle pagine di un periodico popolare: «Perché i ragazzi debbono sapere tutto degli dei di Omero e pochissimo di Mosè? Perché debbono conoscere la Divina Commedia e non il Cantico dei Cantici (anche perché senza Salomone non si capisce Dante)?»2. Qualche anno fa (1993) è stato pubblicato un libro, risultato di un convegno precedente, a cura del Comitato Bibbia Cultura Scuola, dal titolo emblematico: Bibbia: il libro assente (ed. Marietti).
Ha suscitato scalpore la dichiarazione del ministro dell’istruzione, Tullio De Mauro, fatta in un’intervista al periodico Famiglia cristiana e pubblicata il 10 settembre 2000. Egli manifesta il desiderio di imporre la Bibbia come libro di testo nelle scuole e, all’obiezione dell’intervistatore: «Ma come, lei, ministro ‘comunista’ ...», giustifica tale proposta dicendo: «Dal punto di vista didattico la Bibbia è una bomba conoscitiva. Non si capisce la nostra storia, né l’arte, senza Bibbia». Alla successiva domanda: «Dovrebbe essere il libro di testo dell’ora di religione?», risponde: «E perché no? L’ho detto anche al cardinale Ruini e ai suoi collaboratori esperti di problemi di scuola ... E il discorso è finito sull’insegnamento delle religioni». Osserva inoltre che in base a una verifica fatta dal ministero sull’ora di religione risulta che «quell’ora non è occupata al meglio».
Commentando la battuta del ministro, una studiosa ebrea, esperta e divulgatrice di cultura ebraica, Elena Loewenthal (su La Stampa del 12 settembre 2000) ha di nuovo rilevato la contraddizione insita nel fatto che «il corpus della letteratura biblica sta alla base della civiltà europea non meno della cultura classica. Eppure la Bibbia è il libro assente per eccellenza nei piani educativi nazionali». Giustamente poi ella nota che «il fatto che gli studenti liceali abbiano tanta - e benedetta - dimestichezza con la levità dei lirici e il carico esistenziale dei tragici greci, senza nulla sospettare del fatto che nella lingua di aoristi e spiriti molesti s’esprimono anche gli abissi apocalittici di Giovanni e il ritmo lento e primitivo dei Vangeli sinottici, ha profonde radici storiche e culturali». E richiama il fatto che in Italia, a differenza dell’Inghilterra e della Germania, è mancata una traduzione in lingua corrente del testo sacro, al di fuori di quella di G. Diodati (1607), che era un calvinista proveniente da una famiglia italiana esule a Ginevra: per questi motivi la sua traduzione non ebbe vasta diffusione al di fuori dell’ambito protestante e non contribuì a diffondere la lettura della Bibbia nella popolazione. In Italia «nella formazione religiosa comune si è badato sempre più al dogma che alla conoscenza, alla catechesi piuttosto che al racconto e alla ricerca dentro il testo sacro». Solo le minoranze religiose, ebrei e protestanti, posseggono una certa familiarità con la Parola sacra.
SCARSA FAMIGLIARITÀ DEI CATTOLICI CON LA BIBBIA
I cattolici, anche quelli praticanti, non possono vantare conoscenze davvero soddisfacenti per quanto riguarda la Bibbia, sebbene siano stati fatti enormi progressi a partire dal Concilio Vaticano II (30 anni fa circa). La riforma liturgica, se non altro, ha introdotto letture bibliche durante la Messa che, seguendo cicli triennali, consentono di accostarsi a numerosi testi dell’AT e del NT. E tuttavia si tratta di letture frammentarie, non sempre seguite da un commento adeguato nelle omelie, e che difficilmente vengono comprese e ricordate. Inoltre chiaramente il commento è di tipo pastorale ed edificante. Un accostamento diretto e più approfondito ai testi è affidato ad eventuali gruppi biblici, o ad ancora più eventuali letture personali, e in questo caso crea difficoltà la mancanza di strumenti critici e di metodo, e continua a prevalere l’attualizzazione («ciò che il testo mi dice») rispetto all’analisi del significato che i testi originariamente potevano avere.
Tale situazione poco rosea è dovuta al fatto che il clero non ha spinto, fino a tempi recenti, alla conoscenza della Bibbia nei fedeli. Oggi è in corso un deciso cambiamento di rotta, come segnalano le numerose iniziative degli organi ufficiali della Chiesa: l’istituzione, a partire dal 1988, di un settore di Apostolato biblico a livello nazionale; la promozione, a partire, dal 1993, di una collana apposita, Bibbia. Proposte Metodi, presso la LDC, Leumann, Torino, destinata ad accogliere studi pertinenti; un documento della Pontificia Commissione Biblica del 1993 su L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa; la Nota pastorale della Commissione episcopale per la dottrina della fede e la catechesi su La Bibbia nella vita della Chiesa, nel 1995 (in occasione del trentennale della costituzione conciliare Dei verbum dedicata appunto alla Bibbia); il Sinodo dei vescovi italiani sulla Bibbia, tenuto nel 1997, dichiarato dal Giovanni Paolo II «anno della Bibbia» (di questo sinodo sono usciti nel 1998, nella collana sopra menzionata, gli Atti: La Bibbia nel Magistero dei Vescovi italiani). In tutti questi documenti e iniziative è ben viva la consapevolezza del ritardo da recuperare in vista della diffusione della conoscenza della Bibbia.
La radice storica risale alla questione della Riforma protestante e della polemica tra cattolici e protestanti, che invece ponevano la Bibbia al centro della loro fede in modo esclusivo, a scapito anche della tradizione, e incoraggiavano l’accostamento diretto al testo con traduzioni. Il timore che letture bibliche a ruota libera facessero incorrere i fedeli in fraintendimenti ed errori dogmatici è prevalso a lungo nella chiesa cattolica: ancora nel ‘700 si ribadivano i divieti di leggere individualmente la Bibbia e di tradurla in lingua moderna. Ma anche la ricerca scientifica sui testi biblici fu vista per molti secoli con diffidenza: solo con l’enciclica Divino afflante Spiritu del 1943 fu ufficialmente approvata l’applicazione del metodo storico-critico alla Bibbia.
Il senso di tante cautele si può capire: la Bibbia è un testo sacro, è il testo fondante della religione cristiana (l’AT lo è anche, e ancor prima, per la religione ebraica), è considerata «parola di Dio», ispirata da Dio. In una prospettiva religiosa, che le è propria, non si può abbandonarla all’arbitrio di ciascuno. Si può notare che già all’interno dei libri biblici è presente la preoccupazione di salvaguardare l’integrità del testo da possibili manipolazioni: da un capo all’altro della Bibbia risuonano minacce in questo senso: cfr. Deut 4,2: «Non aggiungerete nulla a ciò che io vi comando e non ne toglierete nulla»; Apoc 22,18-19: «Dichiaro a chiunque ascolta le parole profetiche di questo libro: a chi vi aggiungerà qualcosa, Dio gli farà cadere addosso i flagelli descritti in questo libro; e chi toglierà qualche parola di questo libro profetico, Dio lo priverà dell’albero della vita e della città santa, descritti in questo libro». E, per quanto riguarda le traduzioni, già la traduzione latina di Gerolamo, quella che divenne la versione ufficiale della Chiesa, la Vulgata, suscitò agli inizi perplessità e critiche da parte di Agostino (possediamo un interessante carteggio tra i due a questo proposito), il quale temeva che le variazioni apportate alla forma del testo, che era divenuta familiare ai fedeli attraverso le versioni latine correnti, potesse provocare in loro sconcerto e confusione.
E oggi rimane aperta la discussione sulla possibilità di una lettura davvero laica e aconfessionale della Bibbia. C’è chi afferma che la Bibbia stessa esige una lettura in chiave di fede, e ne deduce che perciò debba essere esclusa una lettura diversa; c’è chi invece ritiene che possa anche essere studiata come qualsiasi altro libro, tenuto conto che è, sì, parola di Dio, ma espressa attraverso le parole di uomini, con un linguaggio e secondo schemi culturali propri del suo tempo. La risposta di fede è un’esigenza degli autori biblici; ma una lettura condotta secondo metodi critici è un potente strumento per penetrare a fondo nel messaggio del testo. Altrimenti il rischio - oggi presente in molti gruppi e sètte - è quello di una lettura «fondamentalista», ossia strettamente letterale, che è il peggiore di tutti, anche in un’ottica di fede, come denuncia il recente documento della Pontificia Commissione Biblica dedicato a L’interpretazione della Bibbia nella Chiesa (Città del Vaticano 1993, pp. 62-65).
MARGINALITÀ DELLA BIBBIA NELLA CULTURA CONTEMPORANEA
Allargando ulteriormente lo sguardo, potremmo rilevare che la divaricazione e la separazione tra cultura religiosa e cultura laica si verificano anche nei campi dell’editoria (una stampa cattolica distinta), delle librerie, ecc. Si direbbe che la religione sia concepita come una faccenda per «addetti ai lavori», per una élite di appassionati e che la Bibbia e i testi della tradizione cristiana siano cose «da preti» e basta.
La conseguenza è che nella cultura comune contemporanea, a tutti i livelli, l’aspetto religioso risulta alquanto marginale, ed è venuta meno la conoscenza dei fondamenti della religione cristiana, e in specie della Bibbia, che precedentemente era invece patrimonio comune e alimento di tutta la produzione culturale, dalle arti figurative (pittura, miniatura, scultura, ecc.) 1, alla letteratura, al teatro, alla musica, ma anche alla filosofia, al diritto, ecc 2. C’è chi fa notare che ignorare la Bibbia significa non rendersi conto dell’enorme debito che tutto il pensiero del nostro mondo occidentale ha verso di essa; per citare solo alcuni aspetti: la centralità della storia, l’idea di progresso, la secolarizzazione, il pluralismo culturale, che ci appaiono caratteristici della modernità, hanno radici nella Bibbia e nel cristianesimo, e non nel mondo classico. Il saggio famoso di un critico nordamericano, Northrop Frye, intitolato Il grande codice (trad. ital., Torino, Einaudi, 1986) ha sottolineato come siano di derivazione biblica i modelli e gli archetipi del mondo di immagini, miti e metafore che è l’essenza della letteratura anglosassone (ma non solo di quella letteratura). Un interessante contributo di Fortunato Pasqualino, uscito nell’ottobre ‘98 sulla rivista Studi cattolici, segnala come nelle opere di Verga si registri «un numero di metafore e di modi di dire biblici maggiore» che in Manzoni.
Ignorare la Bibbia fa perdere perfino il senso di numerosi modi di dire che ne derivano, come, «essere il beniamino», «folgorato sulla via di Damasco», «vendersi per un piatto di lenticchie», «il vitello d’oro», «una babele», «sepolcri imbiancati», ecc. Certamente il linguaggio delle generazioni passate, soprattutto a livello popolare, ne era più fortemente impregnato di quanto non avvenga oggi, grazie alla mediazione della liturgia ecclesiale (che oggi è diventata evanescente rispetto all’influsso della televisione): di recente un bel saggio di G. L. Beccaria ne ha illustrato la ricchezza e la complessità3. Eppure non c’è dubbio che tracce del patrimonio biblico sopravvivano ancora nella comunicazione corrente, come indicano espressioni usuali nel linguaggio giornalistico (almeno dei giornalisti più acculturati) e perfino certi vezzi di politici, che cercano di nobilitarsi con reminiscenze bibliche. Anche qui, come già avveniva nei tempi passati, non di rado i riferimenti si intrecciano alle deformazioni. Parafrasando un detto famoso di Benedetto Croce («non possiamo non dirci cristiani»), potremmo dire: «non possiamo non dirci eredi della Bibbia», ma siamo eredi che non conoscono, o conoscono poco, la loro eredità e, per il fatto di non conoscerla abbastanza, la stanno dilapidando.
Perso il contatto con le fonti autentiche, che cosa dànno al pubblico comune oggi i mezzi di comunicazione di massa, quando càpita che inseriscano nel loro tritatutto anche materiale biblico? Attraverso i film e gli sceneggiati televisivi, la cui fiumana non accenna ad esaurirsi (ne sono continuamente programmati su Gesù), filtra un mondo biblico hollywoodiano e mistificante, in cui i personaggi della storia sacra (Abramo, Salomone, Davide, ecc.) sono raffigurati in modo non molto diverso dai vari Rambo, Indiana Jones, e così via, in un enorme pastiche che tutto appiattisce, fatto per solleticare curiosità superficiali e per soddisfare grossolanamente il gusto dell’avventuroso e del fantastico. La pubblicità ricorre a episodi e frasi bibliche facendo di Dio e di Gesù dei testimonial commerciali: estrema e beffarda degenerazione di una familiarità perduta nella sua serietà
Introduzione
Origine, significato e contenuto dei termini Patrologia, Patristica e Letteratura cristiana antica, in rapporto con lo sviluppo degli studi patristici.
Chi si interessa degli scrittori cristiani, ancor prima di entrare nel vivo della personalità, delle opere e dei generi letterari, farebbe bene a prendere coscienza di alcune questioni di metodo che toccano direttamente la manualistica sull’argomento. Non potrebbe, del resto, non notare, anche ad un primo approccio, che in questo campo le trattazioni portano titoli diversi, o di «Patrologia», o di «(Storia della) letteratura cristiana antica», e incontrerebbe talora anche termini come «Patristica» o «Letteratura patristica» per riferirsi alla medesima materia.
«La Storia della letteratura cristiana antica deriva dalla Patrologia», afferma Salvatore D’Elia nella sua presentazione dell’edizione italiana della Letteratura latina cristiana di Jacques Fontaine1, e, aggiunge, ha «conservato lungo i secoli i ricordi delle sue origini»; ecco un primo punto da approfondire.
La questione terminologica ha una sua storia complessa e solo apparentemente di secondario interesse: essa è intrecciata con la storia degli studi relativi agli autori cristiani antichi ed esprime le variazioni di interesse e le polemiche che l’hanno accompagnata. Se il termine «Letteratura cristiana antica» è il più recente di tutti (il suo uso inizia nel XIX sec.) e i termini «Patrologia» e «Patristica» incominciano a comparire a partire dal XVII sec., lo studio degli scrittori cristiani antichi è invece molto anteriore, e si può far risalire all’antichità stessa.
L’antichità
Si ripete oggi volentieri che già nell’antichità si è manifestato nei riguardi degli scrittori cristiani, da parte dei cristiani stessi, un duplice tipo di interesse, quello che porterà successivamente alle definizioni di «Patrologia» e di «Patristica».
Primo
Un fenomeno significativo è quello per cui, dal IV sec., ma soprattutto dal V, in relazione con i dibattiti suscitati dalle controversie dottrinali, si ricorre all’autorità di certe personalità cristiane, che vengono chiamate «Padri», «santi Padri». Il termine «Padre» aveva già assunto un’accezione particolare1. Originariamente (si trova già in Paolo, 1 Cor. 4,14-15) aveva indicato colui che genera nella fede, il predicatore del messaggio (cfr. Ireneo, Adversus Haereses IV,41, 22; Clemente Alessandrino, Stromata I,1,33). Ma già si tendeva ad attribuirlo sempre di più ai vescovi, in quanto specificamente incaricati dell’insegnamento religioso. Policarpo, vescovo di Smirne nella seconda metà del II sec., nel Martirio di Policarpo (12,24) è detto «dottore dell’Asia, padre dei cristiani»; i corrispondenti di Cipriano, vescovo di Cartagine verso la metà del III sec., indirizzano le lettere Cypriano papae (o papati) (Epistulae XXX, XXXI, XXXVI5), ove papa è diminutivo di pater.
Verso il IV sec. l’uso del termine venne ulteriormente ristretto a indicare, tra i vescovi, alcuni che si erano distinti nella testimonianza della fede, i vescovi che partecipavano ai concili (a partire da quello di Nicea del 325). Basilio di Cesarea scrive a proposito della formula di fede stilata dai vescovi riuniti a Nicea: «Noi non osiamo trasmettere i frutti del nostro pensiero, per non rendere umane le parole della fede, ma quello che abbiamo appreso dai santi Padri, questo annunciamo a coloro che ci interrogano» (Epistula CXL,26). Il termine venne così a designare un gruppo di vescovi che fanno testo in materia di fede. Tuttavia già Agostino protestava per questa limitazione che rischiava di escludere dalle «autorità» un Gerolamo, che non era vescovo (Contra Iulianum I,7,31 e 347) . Altri poi seguirono questa impostazione e chiesero che il termine fosse applicato a chiunque all’interno del cristianesimo avesse illustrato, approfondito, difeso il cristianesimo.
Spetta a Vincenzo di Lerino, nel V sec., di aver dato la definizione classica dei Padri, definizione che resterà quella della Chiesa romana. Nel suo Commonitorium del 434 dichiara: «Si devono riportare le opinioni per lo meno dei Padri che, dopo una vita santa, un insegnamento saggio, un costante attaccamento alla fede ed alla comunione cattolica, hanno meritato di morire in Cristo secondo la fede, o di morire per Cristo secondo una sorte beata. Bisogna tuttavia credere in loro, secondo questa norma: tutto ciò che tutti quanti o la maggior parte chiaramente, frequentemente e con perseveranza, con un solo e medesimo accordo, come un concilio di maestri perfettamente unanimi avranno affermato, ricevuto, conservato e tramandato, lo si ritenga per indubitato, certo e definito» (cap. 28)8.
Traendo le conclusioni da tale definizione, il Decreto detto di Gelasio, del VI sec., De libris recipiendis et non recipiendis (in realtà Gelasio fu papa tra il 492 e il 496 e il Decreto gli è falsamente attribuito), redige il primo elenco degli autori cristiani che bisogna riconoscere come Padri e di quelli che non hanno diritto a questo titolo: «[La Chiesa] decide che debbano essere letti gli scritti ed i trattati di tutti i Padri ortodossi che mai si sono separati dalla santa Chiesa romana, né si sono allontanati dalla sua fede e dalla sua predicazione, ma hanno partecipato della sua comunione, per grazia di Dio, fino all’ultimo giorno della loro vita» (IV,3)9.
È sulla base di questi documenti che furono determinate in seguito nel mondo cattolico le note caratteristiche per riconoscere un Padre della Chiesa, e distinguerlo dallo «scrittore ecclesiastico»: dottrina ortodossa, santità della vita, approvazione della Chiesa, antichità (cioè fino al V sec.), a cui si aggiunse poi, per alcuni, l’eminente erudizione (doctrina orthodoxa, sanctitas vitae, approbatio ecclesiae, antiquitas, eminens eruditio). Quest’ultima caratterizza anche, e soprattutto, i «dottori della Chiesa», che hanno in più l’espresso riconoscimento della Chiesa (expressa Ecclesiae declaratio), e in meno l’antichità10. Su queste caratteristiche è nato un dibattito ad opera dei protestanti, che hanno contestato il concetto di ortodossia, elaborato posteriormente ai tempi dei Padri, e di approvazione della Chiesa, anch’esso eterogeneo; tale dibattito ha influenzato gli studiosi di patrologia nel senso di modificare la scelta degli autori considerati11.
In rapporto con la formazione del concetto di Padre della Chiesa troviamo dunque nell’antichità un interesse per gli autori di tipo prevalentemente dottrinale, dogmatico, che porta e rilevare le affermazioni convergenti su tale o tal altro punto particolare. Siamo ai prodromi di quella che il luterano Johann Franz Buddaeus nel 1700 chiamerà theologia patristica, da lui così definita: «Per teologia patristica intendiamo l’insieme dei sacri dogmi tratti dal pensiero e dalle sentenze dei Padri, dai quali si può comprendere come la verità della religione cristiana si sia costantemente conservata nella Chiesa e propagata» (Isagoge historico-theologica ad theologiam universalem, Leipzig, 1727, 1730, p. 535)12. E da questo modo di concepire lo studio dei Padri deriverà, pur attraverso varie modificazioni, il concetto moderno di «patristica».
Secondo
Accanto all’uso teologico, e in funzione teologica, l’antichità ha conosciuto anche un interesse storico per gli autori, di cui venivano fornite compilazioni di liste di nomi con le rispettive opere, in ordine cronologico. Lo scopo finale era apologetico: dimostrare l’antichità e la continuità della fede cristiana e l’alto livello culturale dei suoi rappresentanti. Si può dire che lo studio storico dei Padri è una conseguenza della loro utilizzazione teologica, tuttavia non è estraneo ad esso l’intento, naturale in ogni società, di conservare il ricordo degli uomini illustri del passato: per i cristiani, degli eroi della fede, martiri e monaci, e dei grandi dottori13.
Eusebio di Cesarea scrisse una Historia ecclesiastica (l’ultima redazione arriva ai fatti del 324) con questo duplice fine; tuttavia i Padri, di cui espone vita e opere e cita anche alcuni passi, non sono l’oggetto specifico del lavoro, che è piuttosto l’intera vita della Chiesa. L’intenzione di utilizzare gli autori in funzione «ortodossa» risulta dall’introduzione stessa dell’opera, dove Eusebio espone l’intenzione di parlare di «coloro che, in ogni generazione, furono con la parola o con gli scritti gli ambasciatori della parola divina; chi, quanti e quando, per desiderio di novità spintisi fino ai confini estremi dell’errore, si proclamarono introduttori di una scienza dal falso nome» (I,1,1)14. L’opera è estremamente importante per le notizie e i passi che riporta di autori e opere oggi perdute.
Gerolamo a sua volta compone nel 392 il De viris illustribus, ispirandosi all’omonima opera di Svetonio e rifacendosi per molte notizie ad Eusebio, con uno scopo dichiaratamente apologetico: “Sappiano Celso, Porfirio, Giuliano, questi cani arrabbiati contro Cristo, così come i loro seguaci che pensano che la Chiesa non ha mai avuto oratori, filosofi e colti dottori, sappiano quali uomini di valore l’hanno fondata, edificata, illustrata, e cessino le loro accuse sommarie di semplicità rozza rivolte alla nostra fede, e riconoscano piuttosto la loro ignoranza» (Prologo, 14)15. Gerolamo tratta della vita e delle opere di 135 scrittori cristiani, a partire dal Nuovo Testamento fino a se stesso. Nonostante lo scopo apologetico, la prospettiva è abbastanza aperta: sono inclusi anche alcuni scrittori eretici o considerati tali (Taziano, Novaziano, Eunomio, etc.), tre Giudei (Filone Alessandrino, Giuseppe Flavio, Giusto di Tiberiade) ed anche un pagano, Seneca, in considerazione del presunto scambio epistolare con san Paolo. L’opera viene talora indicata da Gerolamo stesso col titolo De scriptoribus ecclesiasticis16, il che può indicare un ambito più vasto rispetto a quello dei «Padri della Chiesa»17. Secondo il Benoît18, Gerolamo realizza pienamente quella che, a partire dal sec. XVII, sulle tracce di Johannes Gerhardt, autore di una Patrologia sive de primitivae Ecclesiae christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum, Ienae, 1653, 1668 , verrà chiamata «patrologia», così definita poi da Joseph Fessler, autore di Institutiones Patrologiae, quas ad frequentiorem, utiliorem et faciliorem SS. Patrum lectionem promovendam concinnavit J. F., Oeniponte, 1850-1851 (poi riedita e rielaborata da B. Jungmann, 1890-1896): «La patrologia è la scienza che illustra tutto ciò che serve al retto uso dei santi Padri in teologia»19. Ma l’opera di Gerolamo precorre per molti aspetti alcuni orientamenti moderni della patrologia e della letteratura cristiana per il fatto che comprende gli scritti del Nuovo Testamento ed autori eretici. Anzi, proprio a lui si richiameranno i moderni patrologi per estendere l’ambito della loro trattazione rispetto ai limiti precedenti.
L’interesse per la «patrologia» si mantiene in tutta l’antichità cristiana, con Gennadio di Marsiglia, autore di una continuazione del De viris illustribus di Gerolamo dallo stesso titolo (467-480), e con i suoi successori, che si limitano per lo più a compilare le opere dei precedenti con scarse aggiunte, relative agli autori della loro patria: Isidoro di Siviglia, ad esempio, autore pure di un De viris illustribus (tra il 615 e il 618), e il suo allievo Ildefonso di Toledo, morto nel 667, autore di un’opera analoga.
In Oriente, il De viris illustribus di Gerolamo fu presto tradotto in greco, probabilmente da un tale Sofronio contemporaneo di Gerolamo e traduttore già di parecchi suoi scritti20. Questa traduzione fu utilizzata da un anonimo per una revisione dell’Onomatologos di Esichio di Mileto (550 ca.), utilizzata a sua volta da Fozio e Suida. Nel suo Myriobiblon o Bibliotheca, composto prima dell’858, Fozio fornì una quantità enorme di informazioni su 280 opere pagane e cristiane, senza un ordine preciso, ma con descrizioni particolareggiate e per talune opere lunghi estratti seguiti da una critica letteraria, talora preceduti da indicazioni biografiche. Il Lexikon composto verso l’anno 1000 da un certo Suida (o Suda) di Costantinopoli è indispensabile allo storico della letteratura cristiana primitiva, perché fornisce dati importanti su numerose opere patristiche.
Terzo
Recentemente si è notato che già nell’antichità è presente, inoltre, un interesse specifico per gli aspetti «letterari» delle opere dei Padri21. Gli antichi scrittori cristiani manifestano una viva coscienza dell’importanza delle scelte linguistiche e stilistiche e da questo punto di vista giudicano e criticano gli esempi precedenti. Pensiamo a Lattanzio, che nelle Divinae Institutiones (inizio del libro V) traccia una serie di giudizi letterari sui suoi predecessori (Tertulliano, Minucio Felice, Cipriano); pensiamo alle annotazioni estetiche di Gerolamo nel De viris illustribus e, soprattutto, al De doctrina christiana di Agostino, con le sue analisi dello stile di Paolo, di Cipriano e di Ambrogio22.
La cosa è tanto più notevole, in quanto è questo un interesse che successivamente faticherà ad affermarsi.
Il Medioevo
Nel Medioevo continuano, e si sclerotizzano, i filoni della «patristica» e della «patrologia» .
Primo
I lavori dei teologi e degli esegeti cominciano ad essere un intreccio di estratti patristici; tali le prime raccolte generali di Sententiae o di Flores, al punto di confinare persino col plagio o col centone in trattati particolari come il De Trinitate di Alcuino1. Nel ‘300 i Padri vengono utilizzati in modo sistematico, ma non direttamente, bensì attraverso le Tabulae originalium, le Auctoritates o i Libri Auctoritatum, che riportano brani scelti, classificati in ordine alfabetico d’autore, e liste di citazioni disgiunte dai rispettivi contesti. L’uso è quindi meccanico: importa solo l’interesse del singolo passo da utilizzare come argomento autorevole, non contano né la personalità dell’autore, né l’opera, né il contesto.
Secondo
Procede ininterrottamente la tradizione patrologica con elenchi di nomi e opere che, per il periodo antico, si rifanno a Gerolamo e a Gennadio, e vi aggiungono i teologi latini posteriori. Si possono citare Sigeberto di Gembloux, morto verso il 1112, autore di un De viris illustribus; Onorio di Augustodunum (Autun), autore di un De luminaribus Ecclesiae (tra i 1122 e il 1125); l’Anonimus Mellicensis (di Melk), autore di un De scriptoribus ecclesiasticis (del 1135 ca.) per arrivare infine, fuori dai limiti del Medioevo, a Giovanni Tritemio, autore di un’opera dallo stesso titolo (del 1494 ca.), molto ampia (964 scrittori esaminati), anche se per l’antichità non dice niente di più di Gerolamo e Gennadio.
Si può accennare ancora, per la letteratura siriaca, al Catalogo degli autori ecclesiastici compilato verso il 1317-18 da Ebed-jesu bar Berika, l’ultimo grande scrittore dei nestoriani. Contiene informazioni molto utili sulla letteratura cristiana primitiva.
L’aspetto più importante dell’interesse che il Medioevo esprime verso i Padri è l’opera di copiatura dei testi, che ha dei limiti (sono trascurati o ignorati in Occidente gli scrittori anteniceni ed i greci) e inoltre diminuisce nel ‘200 a vantaggio degli autori scolastici. Sono rare le collezioni di testi, ma è rilevante quella degli apologisti curata da Areta di Cesarea nel 914.
L’umanesimo
Con l’Umanesimo si riscopre l’antichità classica come sorgente di ogni espressione culturale e nasce l’esigenza di una migliore conoscenza e comprensione dei tesori della letteratura classica, latina e greca, compresi i Padri. Questo nuovo slancio degli studi si esprime nell’impegno di fornire edizioni complete dei testi, di cui prima esistevano solo citazioni frammentarie.
Erasmo e gli umanisti, aiutati da stampatori come Gering, Giovanni Petit, Amerbach, Froben, diffondono le opere di Lattanzio, Cipriano, Agostino, Gerolamo, Eusebio, Atanasio, Origene e Giovanni Crisostomo. Queste edizioni tuttavia non danno prova di spirito critico, giacché si pubblica indiscriminatamente tutto quanto capita tra le mani e affidandosi al codice «migliore». Gli scrittori greci sono inizialmente pubblicati in traduzioni latine curate per lo più dai medesimi umanisti.
Verso la fine del ‘500 si avverte la necessità di riunire le opere dei diversi Padri in grandi collezioni unitarie. La prima è la Bibliotheca Sanctorum Patrum di Marguerin de la Bigne, Paris 1575-1579, 8 voll., poi più volte ripubblicata ed arricchita: nel 1677 arriverà a 27 volumi: comprende autori fino al XVI secolo.
La prospettiva degli umanisti è essenzialmente storica, non teologica. Pertanto la patrologia, pur senza rigettare l’argomento patristico, si sviluppa notevolmente e tende a divenire disciplina autonoma1.
Tuttavia bisogna tener conto di un fatto importante che ha condizionato anche in seguito gli studi negli autori cristiani. Quando nel ‘400 e ‘500 vengono fissati, sulla base dei modelli classici, i canoni validi per ogni genere letterario, non vengono mai presi in considerazione gli autori cristiani, proprio per il loro contenuto teologico e per il pregiudizio umanistico che porta a considerare la forma espressiva di questi autori inferiore, in quanto diversa, a quella dei classici.
Si può applicare agli autori cristiani antichi la denuncia che Giovanni Getto faceva a proposito della letteratura religiosa italiana del ‘300 e del ‘400: «Nella coscienza degli scrittori e dei critici italiani, per un pregiudizio di carattere umanistico prima e ideologico poi, si mantenne a lungo una specie di diffidenza e di fastidio nei riguardi della letteratura religiosa»; «La ricchezza della loro [degli autori religiosi] personalità, e la loro stessa originalità espressiva, doveva restare aliena all’intelligenza del gusto critico di questi secoli di imperante classicismo [cioè del ‘400 e ‘500], in cui valgono come canoni fondamentali di giudizio le idee di ordine e di armonia, di decoro e di eleganza, di purezza e di bellezza ideale: moduli tutti che riuscivano in un troppo stridente contrasto con la scrittura, per lo più incondita e appassionata, degli autori devoti. Veniva per conseguenza respinta su un piano estraneo alla letteratura la considerazione per questi classici della spiritualità cristiana»2.
Da questo punto di vista appare significativo il giudizio del Bembo, che definiva «epistolacce» le lettere di Paolo, come riporta P. De Labriolle, nella sua introduzione all’Histoire de la littérature latine chrétienne3. Questi sottolinea come gli umanisti estendessero alle opere cristiane primitive e anche alla Bibbia latina il loro disprezzo del latino «scolastico» o «monastico» opponendo la loro rozzezza priva d’arte al fascino divino delle opere classiche. In realtà essi appoggiavano i loro pregiudizi su certe dichiarazioni più o meno sincere degli autori cristiani stessi che professavano di volersi opporre alla cultura profana. Di fatto i loro testi sembrarono aver importanza solo come documenti sul dogma, sulla liturgia, sulla letteratura ecclesiastica etc., e i letterati li abbandonarono ai teologi, anche per non dover immettersi in pericolose discussioni capaci di mettere in dubbio i loro canoni.
La trasformazione della lingua latina sotto l’influenza del cristianesimo fu considerata una manifestazione deplorevole di decadenza. E tale opinione si è perpetuata abbastanza durevolmente fino a tempi recenti.
Tra i Padri venivano presi in considerazione, a parte Agostino, quelli soprattutto considerati più «uomini di lettere», quali Cipriano, Lattanzio, Gerolamo, Orosio. Di fatto, i letterati abbandonarono in tal modo i testi cristiani nelle mani dei teologi.
La Riforma
La Riforma luterana, invece, rinnova, l’amore per i Padri a livello propriamente teologico. I riformatori, infatti, come sottolinea il Benoît1, pur mettendo in primo piano l’autorità della Bibbia, non rifiutavano la storia e il suo sviluppo, bensì facevano del principio biblico un criterio di giudizio di essa: pertanto ai Padri, pur non essendo considerati allo stesso livello della Bibbia, veniva attribuita un’autorità proporzionale al loro accordo con la Scrittura. Lutero riteneva che nell’insieme i Padri manifestassero la fede in Cristo della Chiesa antica.
I Padri vengono accettati non per la loro antichità o per la loro santità o per il riconoscimento ecclesiale o per la loro unanimità di vedute, cioè in base ai criteri cattolici di definizione di Padre, ma in virtù dell’omogeneità al pensiero biblico. Questo criterio segna una svolta importante negli studi patristici, perché rende impossibile una citazione meccanica e arbitraria dei testi e implica un serio esame, un’analisi critica. Siamo però ancora sempre su un piano teologico e contenutistico e l’analisi dei testi è funzionale alla polemica nei riguardi della Chiesa cattolica, quindi è soggetta talora a manipolazioni e forzature.
È significativo che Lutero si interessi dei Padri solo per dimostrare come ben presto essi si siano allontanati dal dettato biblico cadendo nell’errore, e quindi li critichi volentieri. I suoi giudizi sono spesso radicalmente negativi e mistificanti: «Origene è principe e re dell’allegoria ed ha riempito tutta la Bibbia di simili spiegazioni, che sono di scarso valore»2; «Gregorio di Nazianzo è una nullità, Gregorio è un monaco, Cipriano un uomo pio. Tertulliano e Ilario non hanno fatto altro che raccontare storielle»3. Dello stesso valore sono le valutazioni positive, in quanto dipendono dalla corrispondenza delle opinioni di certi Padri con le sue (per esempio, Lutero predilige Agostino). Per di più, questi giudizi sono trinciati sulla base di una conoscenza scarsa degli autori.
Con sfumature diverse, sono però analoghe le posizioni degli altri riformatori (Melantone, Calvino, Zwinglio), che utilizzano i Padri contro la Chiesa di Roma e a difesa della Chiesa riformata, l’unica, secondo loro, che conservi la continuità con la Chiesa antica, l’unica ancora fedele alla Bibbia4.
A sua volta, la parte avversa, cioè i teologi cattolici, usa i Padri con scopo opposto, ma secondo la medesima impostazione: si prendono le affermazioni dei Padri per appoggiare questo o quel dogma, questa o quella pratica. L’uso dei Padri resta un capitolo dell’apologetica5.
Così nel ‘500, insieme alla tradizione patrologica specifica dell’Umanesimo, si prolunga e si sviluppa anche la tradizione patristica, vale a dire l’utilizzazione teologica dei Padri in vista dell’elaborazione dottrinale.
Ma la controversia sui Padri spinge gli storici protestanti e cattolici ad uno studio sempre più serio: già alla metà del ‘500 si trovano i primi importanti lavori consacrati ai dottori della Chiesa antica. Sono però significativi i titoli: Catalogus testium veritatis qui ante nostram aetatem pontifici Romano eiuscque erroribus reclamaverunt è intitolata una raccolta di Placco Illirico del 1556, ripresa poi da Simone Goulard nel 1597. È evidente che in questo tipo di lavori non emergono le personalità dei singoli autori, ma i contenuti dottrinali e i problemi ecclesiali.
Seicento e Settecento
Nel ‘600 e nel ‘700 i Padri restano le pezze d’appoggio delle vecchie controversie, ma si approfondisce l’impegno culturale, soprattutto nell’ambito delle edizioni dei testi, in cui si segnala l’opera dei Benedettini di San Mauro (Saint Maur), i cosiddetti Maurini, tra cui l’iniziatore fu Luc d’Achéry (morto nel 1687), e figure notevoli furono Jean Mabillon (morto nel 1707), Thierry Ruinart (morto nel 1709), René Lassuet (morto nel 1716), Charles de la Rue (morto nel 1739), Bernard de Montfaucon (morto nel 1741), etc. Importante fu anche il contributo dei Gesuiti (da Fronton du Duc, morto nel 1624, in poi) e dei Domenicani, fra cui spiccano i nomi di François Combéfis (morto nel 1679) e di Michel Le Quien, e anche di molti laici (Étienne Baluze, Scipione Maffei) e sacerdoti (Egidio Forcellini, etc.) . A differenza delle edizioni umanistiche, queste edizioni mostrano già un notevole impegno critico e alcune di esse sono ancora utilizzabili.
Tra le raccolte di testi è importante quella di Andrea Gallandi, Bibliotheca Veterum Patrum antiquorumque scriptorum ecclesiasticorum, in 14 volumi, uscita a Venezia tra il 1765 e il 1788 (contiene testi fino al 1200).
Proseguono anche le indagini storiche e per la prima volta i Padri della Chiesa sono studiati come tali, se ne indaga la biografia, l’opera letteraria, le fonti, la dottrina, con spirito erudito. Nell’ambito cattolico abbiamo tutta una serie di trattati sugli «scrittori ecclesiastici»: è questa l’indicazione che compare in tutti i titoli, da sola o insieme a quella di «Padri»: cfr. Roberto Bellarmino (morto nel 1621), De scriptoribus ecclesiasticis, Romae, 1613 (tratta degli autori fino al 1500); Louis Ellies Du Pin (morto nel 1719), Nouvelle Bibliothèque des auteurs ecclésiastiques, Paris 1686-1711, 47 voll. (fino ai tempi dell’autore); Nicolas le Nourry (morto nel 1724), Apparatus ad Bibliothecam maximam veterum Patrum et antiquorum scriptorum ecclesiasticorum, Paris, 1703-1715, 2 voll. (fino al IV sec.); Rémi Ceillier (morto nel 1761), Histoire générale des auteurs sacrés et ecclésiastiques, Paris, 1729-1763, 23 voll. (fino al 1248) ; Dominikus Schram, (morto nel 1797), Analysis operum SS. Patrum et scriptorum ecclesiasticorum, Vindobonae, 1780-1796, 18 voll. (fino ad Epifanio); Gottfried Lumper (morto nel 1800), Historia theologica-critica de vita, scriptis atque doctrina SS. Patrum aliorumque scriptorum ecclesiasticorum trium primorum saeculorum, Vindobonae, 1783-1799, 13 voll. (fino al IV sec.). L’indicazione di «scrittori ecclesiastici» manifesta una tendenza ad allargare l’interesse a una cerchia di autori più vasta rispetto a quella dei Padri1.
Accanto a queste opere cattoliche ne troviamo alcune di teologi riformati con analoghi titoli: William Cave (morto nel 1713), Scriptorum ecclesiasticorum historia letteraria a Christo nato usque ad saeculum XIV, London, 1688; Casimir Oudin (morto nel 1717), Commentarius de scriptoribus ecclesiasticis, Lipsiae, 1722, 3 voll. (fino al XV sec.). Ma è significativo che gli studiosi luterani adottino per la prima volta il termine «Patrologia», destinato ad avere molta fortuna nel XIX sec.: cfr. Johann Gerhardt (morto nel 1637) Patrologia sive de primitivae Ecclesiae christianae doctorum vita ac lucubrationibus opusculum posthumum, Ienae, 1653, 1668; Johann Hulsemann (morto nel 1661), Patrologia, Lipsiae, 1670; Johann Gottfried Olearius (morto nel 1721), Abacus patrologicus, Jenae, 1673. Questi studiosi estendevano la patrologia fino al Medioevo e anche oltre (fino al Bellarmino: Gerhardt; fino al XVI sec.: Olearius), in quanto il concetto di «ecclesia primitiva» (cfr. Gerhardt) era riferito alla Chiesa ancora intatta dalle presunte innovazioni tarde2. Pertanto il loro uso del termine «Padre» era polemico rispetto a quello cattolico che lo restringeva all’antichità e solo ad alcuni scrittori antichi, secondo i criteri stabiliti.
Opere settecentesche di carattere erudito ma ancora parzialmente valide sono: Le Nain de Tillemont, Mémoires pour servir à l’histoire ecclésiastigue des six premiers siècles, Paris, 1693-1712, 16 voll.; Johann Albert Fabricius, Bibliotheca Graeca sive notitia scriptorum veterum Graecorum, Hamburgi, 1705-1728, 14 voll.; Carl T. G. Schonemann, Bibliotheca historico-litteraria Patrum Latinorum a Tertulliano usque ad Gregorium M. et Isidorum Hispalensem, Lipsiae, 1792-1794, 2 voll. (non è uscito un 3° vol. preannunciato). Queste opere «rompono ormai in ogni senso con i quadri tradizionali in cui è consacrata la figura del ‘Padre’ e fanno sentire l’esigenza di una storiografia ecclesiastica nuova, liberata insieme dalla schematica annalistica e capace di misurarsi sia con problemi e questioni difficili sia con grandi personaggi del passato»
Ottocento e Novecento
Con il rinnovato interesse per la storia e per il sentimento religioso, tipico dell’inizio dell’ ‘800, gli studi sui testi di letteratura cristiana conoscono un nuovo intenso sviluppo e anche un approfondimento critico e metodologico.
Innanzitutto, va segnalato il fenomeno dell’accrescimento numerico del patrimonio letterario, che avviene attraverso la scoperta di manoscritti inediti in antiche biblioteche. Se ne avvantaggiano soprattutto gli autori anteniceni (si pensi ai Philosophoumena di Ippolito ritrovati in un manoscritto del Monte Athos nel 1842 e pubblicati nel 1851, alla Didaché, scoperta in un manoscritto di Gerusalemme nel 1813, alle Odi di Salomone scoperte nel 1916-1920, all’Omelia sulla Passione probabilmente di Melitone di Sardi nel 1936, fino alle otto omelie catechetiche di Giovanni Crisostomo ritrovate nel 1955), gli scrittori gnostici e in genere eretici (a partire dalla Pistis Sophia, trovata nel 1851, all’intera biblioteca gnostica scoperta a Nag Hammadi in Egitto nel 1946, ai trattati di Priscilliano che conosciamo dal 1885), gli apocrifi dell’Antico e del Nuovo Testamento (frammenti del Vangelo e dell’Apocalisse di Pietro, nel 1892; del Vangelo dei dodici apostoli, nel 1907; del Vangelo degli Egiziani, nel 1897, etc.). Un apporto notevole viene dato dal ritrovamento di antiche traduzioni orientali, sia di opere perdute nell’originale (la Demonstratio apostolica di Ireneo è nota da una traduzione armena scoperta nel 1907, il Commento a Giovanni di Teodoro di Mopsuestia da una traduzione siriaca trovata nel 1897; dell’Apologia di Aristide si è trovata nel 1889 una traduzione in siriaco che ha permesso successivamente di riconoscere il testo greco inglobato in un romanzo bizantino attribuito a Giovanni Damasceno), sia di opere già note, di cui hanno permesso una migliore ricostituzione del testo. Da questo punto di vista è stato importante ritrovare nuovi manoscritti e frammenti papiracei: in alcuni casi i papiri hanno dato un contributo determinante (ad esempio, per il testo della lettera di Policarpo). La scoperta di vari papiri a Tura, in Egitto (1941), ha portato alla luce varie opere inedite: commenti biblici di Didimo il Cieco, scritti di Origene (tra cui la trascrizione stenografica di un Dibattito con Eraclide, due omelie sulla Pasqua, frammenti di commenti biblici), etc.
Dall’inizio dell’800 compaiono vaste raccolte di scritti inediti, tra cui le Reliquiae sacrae di Martin Joseph Routh, pubblicate a Oxford nel 1814-1818, in 4 voll., ripubblicate nel 1846-1848 in 5 voll., ma soprattutto le imponenti collezioni di Angelo Mai, a partire dal 1825, ultima delle quali fu la Nova Patrum Bibliotheca, Roma 1854, 7 voll. più altri 3 voll. aggiunti da Giovanni Cozza Luzi nel 1871-1905; e quelle di Jean Baptiste Pitra: Spicilegium Solesmense, Paris 1852-1858, 4 voll.; Analecta Spicilegio Solesmensi parata, Paris 1876-1888, 9 voll.
Una raccolta completa di tutti i testi patristici editi fu la monumentale Patrologia che Jacques Paul Migne pubblicò in poco più di una ventina di anni, servendosi della consulenza del Pitra: la serie latina (che arriva fino al 1216), in 221 voll., fu pubblicata nel 1844-1855, la serie greca (fino al 1438-1439), in 162 voll., nel 1857-1866.
A partire dalla seconda metà del secolo - è del 1850 l’edizione critica di Lucrezio del Lachmann, che segna in filologia una vera e propria rivoluzione critica -, raffinate edizioni scientifiche mettono a disposizione degli studiosi i nuovi testi da poco scoperti e le conclusioni di ricerche filologiche accurate. Dal 1866 l’Accademia delle lettere di Vienna pubblica il Corpus Scriptorum ecclesiasticorum latinorum (Corpus di Vienna), dal 1897 l’Accademia delle Scienze di Berlino pubblica i Griechische Christliche Schriftsteller (Corpus di Berlino).
Dal 1877, a Berlino, escono pure i Monumenta Germaniae Historica, con la serie «Auctores Antiquissimi»; dal 1882, a Lipsia i Texte und Untersuchungen, dal 1891 i Texts and Studies di Cambridge.
Nel ‘900 si segnalano le collane del Corpus Christianorum (Turnhout, dal 1954) e delle Sources Chrétiennes (Paris, dal 1941). Significative sono poi le nuove collane di testi della letteratura cristiana orientale (la Patrologia orientalis, Paris 1903 ss.; il Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium, Louvain, 1903 ss.) che sottolineano la nascita di un nuovo settore di studi alimentato particolarmente dalle nuove scoperte.
Ma numerose sono poi le iniziative editoriali, soprattutto in Germania e in Inghilterra, ma anche negli Stati Uniti, in Italia, in Belgio, in Francia, per rendere accessibile anche ai non specialisti questo patrimonio letterario: collane di traduzioni in lingue moderne, antologie e raccolte di testi, anche ad uso didattico (cfr. i Kleine Texte di Hans Lietzmann, Berlin, 1902 ss.; Florilegium Patristicum, Bonn, 1904 ss., etc.). Si noti che dalla fine dell’800 la patrologia entra a far parte delle materie di insegnamento delle Università (nel 1879 a Lovanio), oltre che delle Facoltà teologiche e dei Seminari1.
Nel campo più propriamente scientifico si assiste, a partire dalla metà dell’ ‘800, con accentuazione nel ‘900, a tutto un fiorire di studi, soprattutto di carattere monografico, di riviste specialistiche, di dizionari ed enciclopedie. De Ghellinck notava che dall’inizio del XX sec. si possono contare più di 30 collezioni, periodici e altro che pubblicano esclusivamente o prevalentemente studi sulle opere e sulle dottrine dei Padri2. E il fenomeno è venuto sempre progredendo, come dimostra anche il crescente sviluppo dei repertori bibliografici.
Sorgono grosse questioni relativamente all’identificazione di alcuni scrittori, alla cronologia della loro vita e delle loro opere, all’autenticità di certi scritti, alle fonti letterarie, ecc. In alcuni casi si arriva a modificazioni profonde nella conoscenza di alcuni autori e di alcune opere: si pensi ai casi dello pseudo-Areopagita, di Gregorio di Elvira, di Teodoro di Mopsuestia, di Ippolito, di Pelagio, ecc.
Importanti, per una trasformazione dei modo di valutare i Padri, sono gli studi che iniziano alla fine dell’ 800 e si intensificano nel ‘ 900, sulla lingua e lo stile dei cristiani (nascono negli anni ‘30 dei centri di studi e delle scuole, come l’Università di Washington, la scuola svedese e quella di Nimega), sul rapporto tra mondo cristiano e culture contemporanee, sulla vita delle comunità cristiane in tutti i suoi aspetti. Tutta una serie di scoperte archeologiche, accompagnate da indagini critiche e filologiche, hanno contribuito ad illuminare il pensiero dei gruppi cristiani e degli ambienti che li circondavano, e quindi a comprendere meglio i testi cristiani: il ritrovamento di un deposito nestoriano, iraniano, buddista, manicheo nelle grotte di Turfan nel Turkestan, agli inizi del ‘900; quello della città e della sinagoga di Doura-Europos con resti cristiani e giudaici negli anni ‘20; quella di una biblioteca manichea nel Fayyum, in Egitto, negli anni ‘30; quello dei manoscritti della comunità essena di Qumràn, sul Mar Morto, nel 1947.
Nell’ ‘800 e nel ‘900 abbiamo delle modificazioni metodologiche e una reinterpretazione dei concetti e dei termini usati precedentemente per designare il campo di studi sugli autori cristiani antichi.
Nell’ambito della patristica si accantonano gli intenti apologetici per occuparsi del dogma cristiano da un punto di vista intellettualistico e metastorico, per cui la parte più propriamente storica, che prima rientrava in essa, viene inserita in una nuova disciplina a cui si attribuisce la denominazione di «storia dei dogmi», per sottolineare l’abbandono di ogni protezionismo verso la teologia e di ogni a priori confessionale. In alcuni storici protestanti la liberazione dai legami teologici arriva al punto di rovesciare la situazione: da una patristica come scienza ausiliare della teologia, con metodo ed oggetto mutuati dalla dogmatica, si passa ad una patristica come sezione della storia. Questo nuovo orientamento coinvolge soprattutto il mondo protestante, ma anche il cattolicesimo, pur restando ancorato alla tradizione patristica con valore normativo, rinnova l’applicazione del ricorso ai Padri3.
Analogamente, nell’ambito della patrologia, l’interesse verso i Padri acquista un valore autonomo e si dirige verso una migliore definizione della personalità degli autori, delle loro fonti, del loro pensiero, non più in funzione di un quadro teologico e dottrinale prefissato.
Molti lavori di sintesi dell’ ‘800, lavori che si occupano della vita, degli scritti e della dottrina degli autori cristiani, portano il titolo di «Patrologia»: cfr., tra i cattolici, Michael Permaneder, Bibliotheca patristica. Tomo I: Patrologia generalis; Tomo II: Patrologia specialis, vol. I, 1-3, Landishuti, 1841-1844, 2 voll.; Joseph Fessler, Institutiones Patrologiae, quas ad frequentiorem, utiliorem et faciliorem SS. Patrum lectionem promovendam concinnavit Joseph Fessler, Oeniponte, 1850-1851, 2 voll., nuova ed. a cura di B. Jungmann, 1890-1896; Otto Bardenhewer, Patrologie, Freiburg im Br., 1894, II ediz. 1901 (trad. ital. a cura di A. Mercati, Patrologia, Roma, Desclée, 1903).
Ma molti preferiscono la denominazione di «Patrologia e patristica», per l’esigenza di distinguere più chiaramente la trattazione della vita e degli scritti, da assegnare alla patrologia, da quella della dottrina, che va attribuita alla patristica: cfr., tra i cattolici, Franz Wenzel Goldwitzer, Patrologie verbunden mit Patristik. Bearbeitet für Theologen, Nurnberg, 1833-1834, 2 voll; Joseph Nirschl, Lehrbuch der Patrologie und Patristik, Mainz, 1881-1885, 3 voll.; Joseph Rézbányay, Compendium Patrologiae et Patristicae una cum selectis artibus ex operibus SS. Patrum classicis, Quinque Ecclesiis, 1894.
Dalla metà del XIX secolo diventa abituale porre come oggetto della patrologia gli scrittori ecclesiastici dell’antichità e si incominciano a fissare dei limiti cronologici più precisi: Giovanni Damasceno (morto nel 749 ca.) per gli scrittori greci, Gregorio Magno (morto nel 604) per quelli latini4.
Ma ciò che è più significativo è il rifiuto che si manifesta ad un certo punto di entrambi i termini, patristica e patrologia, per sostituirli col termine “storia della letteratura cristiana”. Il primo ad adottare la nuova denominazione fu Johann Adam Möhler5: questi, forse per l’origine luterana degli altri termini, ma forse non solo per questo e certo in sintonia con un nuovo orientamento che si affermerà, usava il titolo di Patrologie oder christiliche Litterärgeschichte per la sua opera di cui uscì solo il vol. I (Die ersten drei Jahrhunderte), a cura di Franz Xaver Reithmayr, Regensburg, 1840. Per Möhler la patristica era “una scienza superflua” (p. 14). Analogo il titolo del manuale di Johannes Baptist Alzog: Grundriss der Patrologie oder der alteren christlichen Litterärgeschichte, Freiburg im Br., 1866 (comprende anche il periodo carolingio).
Tale denominazione vuole innanzitutto attirare l’attenzione sulle esigenze storiche nella presentazione della materia, e poi vuole sottolineare l’allargamento dell’interesse alla schiera degli «scrittori ecclesiastici» non propriamente riconosciuti come «Padri», per mancanza o insufficienza di una delle note caratteristiche attribuite a questi ultimi, e allargamento dell’interesse anche ai gruppi di autori non ecclesiastici, ma a contatto col cristianesimo, come gli eretici ed i dissidenti.
La denominazione è stata però adottata soprattutto per influenza, non tanto dei teologi (a parte il caso Möhler), ma dei filologi e degli studiosi dell’antichità in genere6, è stata presto recepita dai teologi, tuttavia, in rapporto con l’esigenza di prendere in considerazione, anche per gli autori cristiani, l’aspetto letterario.
Friedrich Nitzsch, che era uno storico del dogma, ha per primo sottolineato la preminenza del punto di vista letterario in collegamento con l’indagine storica e ha indicato in un suo articolo metodologico le ragioni dell’abbandono dei termine «patristica» per quello di «letteratura cristiana antica»7.
Gli studiosi protestanti della seconda metà dell’800 in genere adottano il titolo di «storia della letteratura cristiana» e si occupano quasi esclusivamente dei primi tre secoli, in quanto successivamente il distacco dalla verità biblica si sarebbe fatto massiccio. Cfr. James Donaldson, A Critical History of Christian Literature and Doctrine from the Death of the Apostles to the Nicene Council, di cui sono usciti il vol. I: The Apostolical Fathers, London, 1864, rist. 1874; i voll. II-III: The Apologists, 1866; Charles Thomas Cruttwell, A Literary History of Early Christianity, including the Fathers and the Chief Heretical Writers of the Ante-Nicene Period, London, 1893, 2 voll.; Gustav Krüger, Geschichte der altchristlichen Litteratur in den ersten drei Jahrhunderten, Freiburg im Br., Leizpig, 1895.
Chiaramente Krüger afferma: «La storia della letteratura cristiana antica insegna a conoscere e apprezzare i prodotti letterari dello spirito cristiano nell’ambito del mondo antico da un punto di vista puramente letterario, senza tener conto del loro significato ecclesiale o teologico, singolarmente e in rapporto con i loro generi. Si distingue pertanto dalla patrologia, che opera con il concetto di “Padre della Chiesa” preso dalla dogmatica e che in base alla scelta e alla trattazione della materia si presenta come una disciplina cella teologia cattolica»8.
Ma fu soprattutto Adolf von Harnack che assunse e difese sistematicamente l’idea di una «letteratura cristiana antica», in polemica con la teologia tradizionale e in funzione di una conoscenza storica della Chiesa antica. Egli scrisse una Geschichte der altchristlichen Litteratur bis Eusebius, di cui uscirono due parti: Teil I: Die Überlieferung und der Bestand, bearbeitet unter Mitwirkung von E. Preuschen, Leipzig, 1893; Teil II: Die chronologie. Band. I: Die Chronologie der Litteratur bis Irenäus nebst einleitenden Untersuchungen, 1897. Band II: Von Irenenäs bis Eusebius, 1904. Una terza parte, che avrebbe dovuto occuparsi della «letteratura» vera e propria, non fu pubblicata.
Un compromesso fu tentato dal cattolico Otto Bardenhewer, che adottò il titolo di «Storia della letteratura ecclesiastica antica» (Geschichte der altkirchlichen Literatur) per la sua opera, di cui uscirono i primi due volumi nel 1902 e nel 1903 a Freiburg im Br. (questi volumi furono riediti nel 1913 e 1914; un 3° vol. uscì nel 1912, rist. 1923; un 4° nel 1924; un 5° nel 1932). Con questo titolo l’autore voleva differenziare la nuova opera dalla sua precedente Patrologia9, ma voleva anche contrapporla all’impostazione di Harnack e di Krüger, e in genere dei protestanti moderni, per i quali solo a partire dalla fine del II secolo sarebbe nata una Chiesa coi suoi dogmi, e perciò per gli scrittori cristiani più antichi non si potrebbe parlare di «letteratura ecclesiastica», ma si dovrebbe parlare di «letteratura cristiana»10.
Ma il nuovo titolo suscitò dissensi quasi generalizzati: protestanti (tra cui Harnack e Krüger) e cattolici (tra cui Franz Xaver Funk) rimproveravano a Bardenhewer di escludere dalla trattazione un certo numero di scritti connessi con la letteratura cristiana, e di non essere coerente col titolo includendo scrittori dissidenti o eretici (gnostici, ad esempio). In ogni caso i contrasti avevano radici ideologiche profonde e riguardavano fondamentalmente le concezioni relative alle origini del cristianesimo11. Lo ammetteva chiaramente lo stesso Bardenhewer nella sua replica, premessa al secondo volume: qui egli rifiutava il titolo di «letteratura cristiana» proprio per la sua neutralità e ambiguità da un punto di vista dottrinale (anche gli gnostici si dicevano cristiani) e dichiarava: «La patrologia tradizionale o, ciò che è lo stesso, la storia della letteratura ecclesiastica antica si fonda sul presupposto che la Chiesa abbia posseduto dall’inizio una precisa somma di verità di salvezza come eredità lasciatale dal suo fondatore divino e che almeno durante l’antichità cristiana l’abbia dimostrato in modo fedele e autentico»12.
Il titolo di Bardenhewer viene rifiutato e non ha séguito, continuano invece successivamente i filoni, sia delle Patrologie, sia delle Storie della letteratura cristiana.
Tra i manuali di Patrologia abbiamo, in Germania: Gerard Rauschen, Grundriss der Patrologie, Freiburg im Br., 1903 (trad. ital. della 3° ed. tedesca, Manuale di Patrologia e delle sue relazioni con la storia dei dogmi, Firenze, Libreria Editrice Fiorentina, 19124), poi rivisto e rielaborato nell’undicesima edizione da Berthold Altaner col titolo Patrologie. Die Schriften der Kirchenväter und ihr Lehrgehalt, 1931; il medesimo Altaner rifarà completamente il lavoro pubblicando la sua Patrologie. Leben, Schriften und Lehre der Kirchenväter, Freiburg im Br., 1938, riedita più volte, a partire dalla VI edizione (1960), con la collaborazione di Alfred Stuiber, 8° ed. 1978 (7° ed. ital., Casale, Marietti, 1977, rist. 1981); Heinrich Kihn, Patrologie, completata da Franz Gillmann, Paderborn, 1904-1908, 2 voll.; Basilius Steidle, Patrologia seu historia antiquae litteraturae ecclesiasticae, Freiburg im Br., 1937; Hans von Campenhausen, Die Griechischen Kirchenväter, Stuttgart, 1955, 3° ed. 1961 (trad. ital. Brescia, Paideia, 1967) ; Id., Lateinische Kirchenväter, Stuttgart, 1960 (trad. ital. Firenze, Sansoni, 1969); Hubertus R. Drobner, Lehrbuch der Patrologie, Freiburg, Herder, 1994 (trad. ital. Casale Monferrato, Piemme, 1998)
In Francia: Joseph Tixeront, Précis de Patrologie, Paris 1918, più volte riedito (ediz. ital. a cura di G. Calliari, Manuale di Patrologia, Torino, Berruti, 1948-19503); Fulbert Cayré, Précis de Patrologie. Histoire et doctrine des Pères et Docteurs de l’Église, Paris 1927-1930, 2 voll. (trad. ital. Patrologia e storia della teologia, Roma, Società di S. Giovanni Evangelista, 1936-1938); Jacques Liebaert – Michel Spanneut, Les pères de l'Église, Paris, Desclée, 1986-1990, 2 voll. (trad. ital. Introduzione generale allo studio dei Padri della Chiesa, a cura di Antonio Zani, Brescia, Queriniana, 1998).
In Italia: Ubaldo Mannucci, Istituzioni di Patrologia, Roma, Ferrari, 1914, 6° ediz. a cura di Antonio Casamassa, Roma, Ferrari, 1948-1950; Guido Bosio, Introduzione ai Padri della Chiesa, Torino, SEI, 1990-1999, 6 voll.; Michekl Spanneut – Antonio Zani – Jacques Liébaert, Introduzione generale allo studio dei padri della Chiesa, Brescia, Queriniana, 1998.
Negli Stati Uniti: Johannes Quasten, Patrology, Utrecht-Antwerpen, Spectrum, 1950-1960, 3 voll. (trad. ital. Torino, Marietti, 19804, 2 voll.); continuati in Italia dall’Institutum Patristicum Augustinianum e a cura di Angelo di Bernardino, sono apparsi un 3° vol. nel 1978, un 4° nel 1996 ed un 5° nel 2000.
Tra le storie della letteratura cristiana si possono citare, per la Francia: Paul Monceaux, Histoire littéraire de L’Afrique chrétienne depuis les origines jusqu’à l’invasion arabe, Paris 1901-1923, 7 voll. (fino al V sec.), rist. 1963; Id., Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris, 1924; Pierre Champagne de Labriolle, Histoire de la littérature latine chrétienne, Paris 1920 (2° ediz. 1924, 3° ed. a cura di Gustav Bardy, Paris, Les Belles Lettres, 1947); Aimé Puech, Histoire de la littérature grecque chrétienne, Paris, Les Belles Lettres, 1928-1930; Id., Littérature latine chrétienne, Paris, 1929; Jules Chéruel, Brève histoire de l’ancienne littérature chrétienne, Paris, Fayard, 1962 (trad. ital. Storia della letteratura cristiana antica, Catania, Edizioni Paoline, 1963); Jacques Fontaine, La littérature latine chrétienne, Paris, Presses Universitaires de France, 1970 (trad. ital. La letteratura latina cristiana, Bologna, Il Mulino, 1973).
Per la Germania: Hermann Jordan, Geschichte der altchristlichen Literatur, Leipzig, Quelle & Meyer, 1911; Martin Dibelius, Geschichte der urchristlichen Literatur, Berlin, 1927 (rist. Aggiornata München, Kaiser, 1975); Alfred Gudeman, Geschichte der altchristlichen lateinisch Literatur vom 2. bis 6. Jahrhundert, Berlin, 1925 (trad. spagn. ampliata a cura di Pascual Galindo Romeo, Historia de la antigua literatura latino-cristiana, Barcelona, Labor, 1928).
Per il mondo anglosassone: Adam Fyfe Findlay, By-Ways in Early Christian Literature, Edinburgh, Clark, 1923; Edgar J. Goodspeed, A History of Early Christian Literature, Chicago, University Press, 1942 (II ediz. Chicago, University Press, 1966).
Per l’Italia: Umberto Moricca, Storia della letteratura latina cristiana, Torino, SEI, 1925-1934, 3 voll.; Aurelio Giuseppe Amatucci, Storia della letteratura latina cristiana, Bari, Laterza, 1929, II ediz. Torino, SEI, 1955; Luigi Salvatorelli. Storia della letteratura cristiana dalle origini alla metà del VI secolo, Milano, Vallardi, 1936; Michele Pellegrino, Letteratura greca cristiana, Roma, Studium, 1956, III ediz. 1978; Id., Letteratura latina cristiana, Roma, Studium, 1957, III ediz. 1970; Salvatore Di Meglio, Storia della letteratura greca cristiana, Napoli, Italgrafica, 1966, nuova ediz. col titolo Il messaggio cristiano d’Oriente, Torino, Gribaudi, 1973; Manlio Simonetti, La letteratura cristiana antica greca e latina, Firenze-Milano, Sansoni-Accademia, 1969, II edizione 1988; Salvatore d’Elia, Letteratura latina cristiana, Roma, Jouvence, 1982; Claudio Moreschini - Enrico Norelli, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina, Brescia, Morcelliana, 1995, 2 voll.; Manlio Simonetti – Emanuela Prinzivalli, Storia della letteratura cristiana antica, Casale Monferrato, Piemme, 1999.
Accanto a queste, vanno poi ricordate le sempre più numerose e ricche storie delle letterature cristiane orientali, tra cui: Carl Brockelmann – Franz Nikolaus Finck - Johannes Leipoldt - Enno Littmann, Geschichte der christlichen Literaturen des Orients, Leipzig, Amelangs, 1907 (II ediz. 1909; rist. anast. Leipzig, Zentralantiquariat der DDR, 1972); Anton Baumstark, Die christlichen Literaturen des Orients, Leipzig, Göschen'sche Verlagshandlung, 1911; 2 voll.; John Mason Harden, An Introduction to Ethiopic Christian Literature, London, Madras, 1926; Georg Graf, Geschichte der christlichen arabischen Literatur, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1944-1953, 5 voll. (Studi e Testi 118, 133, 146, 147, 172); Michael Tarchnisvili - Julius Assfalg, Geschichte der kirchlichen georgischen Literatur, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 1955 (Studi e Testi 185), Ignazio Ortiz de Urbina, Patrologia Syriaca, Romae, Pontificium Institutum Orientalium Studiorum, 19652, etc.
Patrologie e storie della letteratura cristiana
A parte la differenza di titolazione, Patrologie e Storie della letteratura cristiana tendono ad avvicinarsi molto, sia per la materia sia per il metodo della trattazione. Quanto alla materia, è ammissione comune di patrologi e di storici della letteratura cristiana che essa sia la stessa1. Anzi, in conseguenze delle polemiche e dei dibattiti dell’inizio del ‘900, le patrologie hanno allargato le loro sfere di trattazione, oltre i limiti dei «Padri» veri e propri, inserendo anche gli apocrifi, gli Atti dei martiri, allargando lo spazio della letteratura eretica. E le stesse tendenze caratterizzano le storie letterarie2. Da questo punto di vista si può dire che le patrologie si differenzino dalle storie letterarie solo perché normalmente non comprendono gli scritti del Nuovo Testamento (ma anche Bardenhewer li esclude, e Harnack li esclude dalla prima parte, sulla tradizione e la consistenza, li include nella seconda, sulla cronologia), e perché considerano gli scrittori non ecclesiastici marginalmente in funzione della letteratura ecclesiastica. Tralasciano, talora, alcuni autori.
La differenza sostanziale dovrebbe consistere nella diversità di scopi e di prospettive: anche questo è un principio più volte affermato. Altaner afferma: “La Patrologia è una scienza teologica che abbraccia tutti gli scrittori dell’antichità cristiana invocati dalla Chiesa cattolica a testimoni della sua dottrina, applicando a questo studio i principi metodologici delle scienze storiche […] Il concetto di ‘padri-testimoni’ ad essa inerente risulta piuttosto dalla tradizione ecclesiastica, cioè da principi teologico-dogmatici, che non da criteri propri della storia letteraria”3. A sua volta Bardenhewer dichiara: “Nell’antica Patrologia emerge dappertutto il punto di vista teologico ed ecclesiastico, nella moderna Storia della letteratura cristiana antica deve essere, più o meno esclusivamente, il punto di vista letterario la guida e la direttiva. In altre parole: là è il contenuto, qui la forma che diventa, fino a un certo punto, il centro dominante di tutta l’esposizione”4.
C’è dunque un aspetto dogmatico che è peculiare della Patrologia e si esplica sia nell’esposizione del pensiero dottrinale dei singoli autori (ad es., in Quasten, Campenhausen), sia in paragrafi appositi dedicati alla storia delle dottrine (ad es., in Cayré, Altaner). Quasten spiega di aver scelto i passi citati «anche per mostrare lo sviluppo della teologia nei primi secoli e per illustrare l’accostarsi dei Padri al deposito della fede»
Interesse letterario per i Padri
Ma, se l’interesse letterario è estraneo alla Patrologia, non si può dire che costituisca un elemento determinante neppure per la Storia della letteratura cristiana1. Il disconoscimento dei Padri come scrittori è generale. Altaner, pur riconoscendo che i Padri occupano anche un posto eminente nella storia letteraria generale, e in particolare in quella greco-romana, afferma che essi si proponevano non di essere dei letterati, ma dei propagatori della dottrina e della morale cristiana; non si deve perciò cercare in loro la bella forma. E questo è il punto di vista del patrologo2. Ma uno storico della letteratura come Bardenhewer non si esprime diversamente. Pone una netta differenza tra letteratura cristiana e letteratura in generale e nega agli scritti dei Padri della Chiesa valore d’arte. «Questi autori non sono ‘scrittori’ o ‘letterati’ , ma uomini Chiesa e teologi». Essi hanno sempre posposto la forma al contenuto: «proprio per questo non è la forma, ma il contenuto la base primaria e fondamentale per lo svolgimento della storia di questa letteratura»; in definitiva: «nella misura in cui si vuole veramente scrivere storia e far derivare la norma direttiva dell’esposizione dalla materia stessa, si è obbligati a dare la priorità al punto di vista teolgico-ecclesiastico rispetto a quello letterario»3.
In queste sue affermazioni Bardenhewer poteva appoggiarsi a convinzioni che avevano accompagnato il sorgere stesso dell’idea di una ‘letteratura cristiana’: non a caso si rifaceva all’opinione del Nitzsch4 per il quale l’aspetto artistico era escluso dalle opere dei Padri.
In realtà una concezione strettamente ‘letteraria’ della letteratura cristiana era stata già espressa da Franz Overbeck in un suo articolo rimasto emblematico5. Di lui Bardenhewer cita, come obiettivo polemico, una affermazione, secondo la quale «ogni vera storia letteraria è una storia delle forme»6. Però l’idea di letteratura sottostante a questa posizione è di tipo classicistico, presuppone un riscontro con i valori formali della letteratura classica e, nonché portare a una rivalutazione degli autori cristiani, implica la negazione delle loro peculiarità cristiane. In effetti, per Overbeck, solo a partire da Clemente Alessandrino, e solo nell’ambito del mondo greco-romano, sarebbe cominciata una “letteratura cristiana”, che però, in quanto letteratura “formalmente valida”, per ciò stesso non sarebbe più, o comincerebbe a non essere più, “cristiana”7.
La posizione classicistica ha prodotto, nei riguardi degli autori cristiani, due risultati opposti, anche se entrambi negativi: il rifiuto totale o l’assimilazione deformante nell’ambito della letteratura classica.
Come esempi di rifiuto valgano quelli riportati da De Ghellinck8. Egli ricorda che i filologi ottocenteschi non si interessavano dei testi cristiani se non dal punto di vista critico: il famoso Lachmann non voleva vedere nelle lettere di Ignazio di Antiochia altro che «una materia semplicemente stupida» (Lettera del 1846); il Madvig confessava (nel 1875) di non aver mai toccato nessuno scrittore ecclesiastico, greco o latino, tranne Giuseppe Flavio, e solo per trovarvi indicazioni sui procedimenti della guerra antica.
Un altro segno, rilevato sia da De Ghellinck9 sia da De Labriolle10, è la difficoltà e il ritardo con cui gli scrittori cristiani sono presi in considerazione dagli storici delle letterature antiche. La sezione dello Handbuch der Altertumswissenschaft di Iwan von Müller dedicata alla storia della letteratura greca ancora nella III ediz. (1888), affidata a Wilhelm von Christ11, riserva un posto minimo, in appendice, agli autori cristiani; nella IV ediz. (1904) il Christ vi premette un’introduzione che ha un tono di scusa. Corrispondentemente, per la sezione sulla storia della letteratura romana, quando Martin Schanz ritenne di dover analizzare ampiamente anche il contenuto delle opere ecclesiastiche dei primi secoli (1891) si attirò vive critiche per essere sconfinato in un dominio, secondo i critici, riservato ad altri specialisti.
D’altra parte, quando l’accettazione avviene, è nel senso dell’integrazione nell’ambito della letteratura classica. Ulrich von Wilamowitz-Moellendorf rimproverava Harnack per aver voluto trattare dei cristiani in modo autonomo e contrapposto ai greci; giudicava questo un atteggiamento da apologista12. Più in generale, parlava dei “paraocchi” della storia della letteratura cristiana «incapace di percepire e riconoscere l’unità della grande corrente intellettuale dell’ellenismo»13.
Nella Einleitung in die Altertumswissenschaft di Alfred Gercke e Eduard Norden la parte sulla letteratura cristiana, greca e latina, fu affidata a specialisti come Paul Wendland, prima, e Hans Lietzmann, poi14. Ed è significativo che il Wendland impostasse la trattazione allo scopo di dimostrare l’adozione progressiva delle forme letterarie greche da parte dei cristiani e la continuazione dello spirito della cultura antica nel cristianesimo. È ancora un’osservazione di De Ghellinck15, il quale, per conto suo, critica questa posizione e si schiera piuttosto dalla parte di chi ritiene che l’interesse principale della letteratura cristiana consista, non in meriti letterari, ma nei materiali documentari, di dottrina e di azione pratica, che mette a disposizione16.
Così sintetizza la situazione tra la seconda metà dell’ ‘800 e il primi del ‘900 Salvatore D’Elia, nella presentazione dell’edizione italiana della Letteratura latina cristiana di Jacques Fontaine: «Alcuni studiosi, come Merckle, Jülicher e in parte De Ghellinck, si mostravano scettici sulla possibilità di una storia letteraria, in quanto gli autori cristiani sarebbero da ricondurre, tutt’al più, entro il solco delle storie del pensiero e non della letteratura. Altri studiosi, come Overbeck, Jordan, Wilamowitz, davano invece risalto prevalentemente alle forme letterarie. E, poiché erano ancora di formazione sostanzialmente classicistica, tendevano soprattutto alla ricerca degli echi e delle imitazioni degli autori classici negli autori cristiani, e alla conseguente valutazione di questi in base al dosaggio degli elementi classici ancora presenti […] Se gli studi di patristica restavano, almeno allora, legati ad una valutazione contenutistica sostanzialmente metastorica, gli studiosi di storia letteraria erano dunque succubi, da un lato, di una posizione laicistica che intendeva distinguere nettamente il proprio orizzonte da quello teologico-ecclesiastico, dall’altro di una posizione classicistica che spingeva a recuperare, del patrimonio tardo-antico, solo quello che rientrasse nei moduli del ‘classico’»17.
Si può dire che queste posizioni siano state veramente superate, in seguito?
Anche se certe forme estreme di rifiuto sembrano effettivamente scomparse, e il ‘900 ha conosciuto un recupero crescente e una rivitalizzazione delle opere patristiche, questo è avvenuto ancora piuttosto sul piano del contenuto e nell’ambito della storia (della storia della religione, della storia della Chiesa, della storia della cultura, della storia linguistica, sociale, economica, etc.), che non della letteratura vera e propria.
L’idea di una estraneità di queste opere alla letteratura è ancora presente nelle affermazioni con cui Augusto Rostagni, nella sua Storia della letteratura latina, esclude una trattazione sistematica della letteratura cristiana: questa, «pur essendo in lingua latina, procede per vie divergenti, cioè si appella ai valori ultraterreni della civitas Dei e tende a travolgere l’antico»; inoltre, «in massima non era neppure tanto diretta a fini letterari quanto determinata e dominata da interessi catechistici, teologici, dogmatici». Egli la considera «qualificata per una sua autonoma trattazione», che però concepisce come «di carattere inevitabilmente dogmatico e teologico ancor più che letterario»18.
Ma tale idea è fatta propria anche, spesso, da chi si occupa specificamente di letteratura cristiana. Ancora nel 1969, Giuseppe Lazzati, presentando la Letteratura cristiana antica di Manlio Simonetti asseriva recisamente: «Nessuno vi cerchi quello che oggi più comunemente si intende sotto il nome di letteratura”19.
D’altra parte, chi parte da una prospettiva sostanzialmente classicistica sposta o attenua questo tipo di rifiuto, ma non lo elimina completamente. Tipico l’atteggiamento di Pierre de Labriolle, che, pur riconoscendo pregi letterari e artistici agli autori cristiani latini, li nega a quelli greci, a cui rimprovera debolezza estetica e mancanza di ogni preoccupazione letteraria20. Non sarà per questo, tra l’altro, che risultano più numerose le Letterature cristiane latine rispetto a quelle greche, e specialmente in Italia, ove più a lungo si sono mantenuti certi canoni classicistici, per il perdurante influsso dell’estetica crociana?
Frequentemente la discriminazione riguarda alcuni autori (quelli della prima metà del II sec.), opere minori. Il Puech, che si ispira per l’impostazione al De Labriolle, riconosce differenza di materia per la letteratura cristiana greca rispetto a quella latina e ammette che le opere con cui la prima incomincia sono innanzitutto strumento di propaganda o di edificazione, anche se sarebbe esagerato dire che «non hanno alcun carattere letterario». Solo a partire dalla seconda metà del II sec. le due letterature si sviluppano parallelamente e compaiono veri scritti21.
Luigi Alfonsi, dopo aver escluso dall’ambito della letteratura vera e propria i Vangeli, le traduzioni della Bibbia e di scritti religiosi, aggiunge: «né metteremmo nella vera e propria letteratura cristiana […] certe epistole di Padri Apostolici che, pur belle e pur non aliene da ricercatezze formali, vogliono però essere piuttosto messaggi di fede e di cristiano, amoroso eroismo o concernono la disciplina della Chiesa, ma non sono letteratura»22.
Anche Michele Pellegrino, in una recensione in cui discute la presa di posizione di Rostagni, contesta il giudizio di una estraneità dei cristiani ai valori del mondo classico, ma condivide l’idea di letteratura sottostante al giudizio. Pellegrino vuole «dimostrare che non esiste fra cristianesimo e classicità quella frattura che impedisca di scorgere negli autori cristiani gli eredi e continuatori d’una tradizione letteraria». Di conseguenza, trova che «il Nuovo Testamento, i Padri Apostolici, gli apocrifi biblici, hanno con l’ellenismo scarsi punti di contatto che non bastano a definirli come ‘letteratura greca’». In generale è d’accordo con Rostagni sul fatto che, quando prevale l’interesse teologico, non c’è opera d’arte, non c’è letteratura. «Gli scrittori cristiani, in cui le preoccupazioni apologetiche, teologiche, morali, pastorali hanno una parte decisiva, spesso non s’innalzano all’opera d’arte; perciò in una storia della letteratura cristiana ove non s’intenda raccogliere notizie su quanto fu scritto da cristiani ma mettere in rilievo i valori d’arte cui la presentazione del messaggio cristiano ha fatto luogo, sarà necessario eliminare, o toccare solo ci sfuggita, per caratterizzare l’ambiente e le personalità, molte opere dei nostri scrittori, impegnando invece l’attenzione su quelle in cui traluce un raggio di bellezza»23.
Su questo sfondo tanto più risaltano (dice il D’Elia: «È difficile trovare altrove un’affermazione così perentoria»24) le considerazioni del Fontaine nell’Introduzione alla sua Letteratura: «Documenti storici, fonti teologiche, spesso anche testimonianze del cammino del pensiero filosofico, le opere degli autori cristiani di lingua latina sono innanzitutto delle opere letterarie, anche se anonime o difficilmente databili, anche se scritte da un autodidatta in un latino difficilmente qualificabile (come alcune lettere di confessori della fede conservate nell’epistolario di Cipriano). Ciascuna di esse è, a questo titolo, un messaggio personale, rivolto con intenzioni precise ad un pubblico o a un destinatario preciso. Lo scopo, di cui essa è così espressione, non ha potuto manifestarsi in lingua latina senza un riferimento all’ideale più o meno cosciente di una certa forma, per quanto modesta e implicita possa essere»25.
Del resto il D’Elia stesso compone poi una propria Letteratura latina cristiana, che segna da questo punto di vista un arretramento su posizioni più vecchie: parla della «non letterarietà degli atti dei martiri Scillitani alle finalità e ai livelli della letteratura egemone»26 e stabilisce che: «Gli inizi veri e propri di una letteratura latina cristiana si hanno solo quando uomini di origine sociale non subalterna né periferica e di formazione culturale non più preletteraria aderiscono numerosi al cristianesimo. E questo si verifica verso la fine del II secolo e nel III».
Titolo della disciplina universitaria
L’impostazione dei manuali di letteratura cristiana antica è determinata tuttora dal binomio contenuto/forma, nel senso che si tende a fare delle storie del pensiero cristiano e, quando si presta attenzione alle forme, è per ricercare i rapporti con i classici. Questa impostazione si riflette su varie questioni.
Pensiamo alla questione del titolo, intorno al quale è sorto, specialmente in Italia, a partire da Antonio Giuseppe Amatucci (1929), un lungo dibattito sulla scelta tra “letteratura latina (o greca) cristiana” e “letteratura cristiana latina (o greca)”1.
Tale dibattito è nato appunto dal contrasto tra chi intendeva porre l’accento sull’elemento «latino» o «greco» piuttosto che su quello cristiano, o viceversa; tra chi, cioè, intendeva considerare le opere degli scrittori cristiani come un capitolo della letteratura classica o comunque in stretto rapporto di collegamento con essi e chi preferiva considerarle per se stesse, nella loro autonomia, come iniziatrici di una cultura nuova, sia pure espressa press’a poco con gli stessi mezzi linguistici, e spesso con gli stessi procedimenti2.
Riprendendo con un significato nuovo una denominazione ottocentesca (cfr. Bähr, Lietzmann), Salvatore Costanza ha proposto di usare l’indicazione “letteratura romano-cristiana” per tener conto del fattore fondamentale dell’unità politico-culturale dell’impero romano, a cui il cristianesimo ha contribuito in modo rilevante, sul piano spirituale, ma anche letterario, soprattutto a partire dal IV sec3. Anche con tale denominazione resta fondamentale, secondo Costanza, come compito di tale letteratura, il confronto tra autori cristiani e autori pagani per rilevare in essi la tradizione degli antichi generi letterari, dato che i cristiani sono considerati «gli eredi dei grandi autori classici dell’Ellade e di Roma»4.
In tale dibattito è rimasta così in ombra quella parte della letteratura cristiana, arricchita dalle recenti scoperte, che si è espressa in altre lingue e in altri ambienti (cfr. letteratura cristiana armena, siriaca, copta, georgiana, etc.)5.
Il termine patristica è oggi talora preferito a quello di Letteratura cristiana antica per vari motivi. Ad esempio, per distinguere lo studio degli autori cristiani da quello del Nuovo Testamento, che si tende a considerare a parte6. Il termine serve a indicare la disciplina che si occupa dei Padri sia da un punto di vista teologico, sia storico, sia filologico, ma con qualche sfumatura di polemica nei riguardi della Patrologia, intesa come l’erede dell’antica “teologia patristica”, con interessi più accentuatamente speculativi e dogmatici7. Di fatto, oggi non c’è quasi differenza nell’uso comune tra “Patristica” e “Patrologia"
Limiti cronologici
Significative le diverse motivazioni addotte per giustificare i limiti cronologici scelti per la trattazione.
Per gli inizi, c’è innanzitutto la questione degli scritti neotestamentari. Molti manuali di letteratura cristiana, oltre alle Patrologie, tendono ad escluderli. Le ragioni possono essere di carattere pratico: lo sviluppo specifico degli studi biblici1, ma anche teologico: il Nuovo Testamento è “parola di Dio”, la letteratura cristiana è “parola di uomini”. Quest’ultima considerazione, se vale in particolare per i Patrologi e per i protestanti, è stata importante anche per studiosi di letteratura cristiana come Bardenhewer, che è cattolico2. Da un punto di vista letterario, si è spesso accentuato il distacco tra il carattere semitico di questi scritti e lo spirito classico che informerà la letteratura cristiana dei secoli successivi. Per questo, si è talora riconosciuta la possibilità di una trattazione comune di letteratura neotestamentaria e letteratura cristiana antichissima (i Padri apostolici), anch’essa volentieri esclusa dalla letteratura cristiana vera e propria3.
Eppure, ragioni storiche e letterarie imporrebbero di considerare in continuità Nuovo Testamento e opere cristiane. Storicamente, dovrebbe prevalere l’idea che si tratta sempre di prodotti della Chiesa nascente4.
Letterariamente, è apparso chiaro a molti che proprio il Nuovo Testamento è la fonte di ispirazione dei cristiani, non solo per il contenuto, ma anche per la lingua e lo stile, e, se non si tiene conto di esso, anche tutta la letteratura cristiana resta incomprensibile5. Del resto proprio alcuni tra i promotori di una “Storia della letteratura cristiana”, Krüger, Harnack, Jordan, avevano incluso la letteratura neotestamentaria.
Per quanto riguarda la fine, in generale questa è stata posta a metà circa dell’VIII secolo, per l’Oriente, con la figura di Giovanni Damasceno (morto nel 749), e a metà circa del VII secolo, per l’Occidente, con Gregorio Magno (morto nel 604) o con Isidoro di Siviglia (morto nel 636). I termini sono scelti in funzione della coincidenza della letteratura patristica con il perdurare della cultura greco-romana. Si tratta, osserva De Ghellinck «di una questione di principio […] legata strettamente alla definizione e stessa di patrologia o di storia della letteratura cristiana antica, che assumerebbe volentieri come formula ‘la storia degli scritti cristiani usciti dalla penna degli autori greco-romani’, formula fatta per piacere alla filologia»6. È formula limitatrice, che non tiene conto, ad esempio, degli scrittori cristiani di altre culture.
Proprio la considerazione del rapporto della letteratura cristiana con lo sviluppo delle letterature greca e latina in generale ha portato altri (Schanz, von Christ, Pellegrino, D’Elia) a limitare la trattazione fino all’avvento di Giustiniano (527). Puech conclude col IV sec., in polemica con le Patrologie, che arrivano a Giovanni Damasceno, proprio perché intende procedere nello spirito di confronto tra letteratura profana e letteratura sacra e dopo quel termine non esiste più questo confronto.
Proposte di prorogare invece i termini (ad esempio, fino all’843, festa dell’Ortodossia, secondo A. Ehrhard), sono talora dettate da criteri dottrinali.
Organizzazione della materia
L’interesse letterario per i Padri ha un preciso riscontro nell’organizzazione della materia. È un fatto che l’impostazione di tipo classicistico porta a classificazioni in periodi valutati più o meno positivamente secondo il minore o maggiore grado di avvicinamento ai valori formali e culturali della classicità. E normalmente i vari periodi sono inseriti in una linea di sviluppo parabolica, con un inizio, un culmine e una fine. Si parla, perciò, di “origini” o “inizi” per il II ed il III sec. (De Labriolle, Moricca, Pellegrino, Di Meglio), di “età dell’oro” (De Labriolle, Moricca) o “periodo aureo” (Di Meglio) o “apogeo” (Pellegrino, D’Elia) per il IV sec., di “decomposizione (dell’impero)” (De Labriolle) o “tramonto della letteratura patristica” (Pellegrino) o “periodo della decadenza” (Di Meglio) per il periodo successivo.
Il nesso tra questa scala di valori e il rapporto con la tradizione classica risulta esplicito nel Pellegrino. La prima fase è rappresentata infatti da una letteratura “pressoché estranea all’influsso della classicità”1, l’acme è segnata dal periodo “nel quale i cristiani s’impegnano con più vivo fervore ad assimilare i valori della cultura pagana che ritengono conciliabili col cristianesimo”2 e a “continuare una tradizione letteraria che è considerata patrimonio comune di cultura”3, e la fine viene fatta coincidere con “la scomparsa d’ogni centro vivo di cultura pagana” e quindi dello sforzo di “porre in piena luce il problema dei rapporti tra il mondo nuovo e l’antico cercando d’inverare nel cristianesimo i valori della cultura classica”4.
A parte queste grandi ripartizioni, ma anche senza di esse, il criterio di sistemazione della materia è prevalentemente contenutistico e analitico. Troviamo nelle Storie della letteratura cristiana, non diversamente dalle Patrologie, per lo più esposizioni di carattere biografico, questioni di attribuzione, di cronologia, indicazioni sul pensiero, ecc.
Il De Ghellinck5 segnalava che perfino nell’opera dello Schanz, un modello nel suo genere, sono scarse o assenti le considerazioni di carattere generale, le riflessioni sullo sviluppo delle forme e dei generi, sull’influenza delle lettere profane, sulle caratteristiche della lingua e dello stile. Nel Bardenhewer le parti generali sono troppo poco inserite all’interno dell’esposizione particolare e non ne costituiscono pertanto un elemento direttivo; le grandi divisioni geografiche appaiono rigide e troppo sommarie e non corrispondo al movimento reale della vita letteraria e intellettuale. Rare anche qui le panoramiche e le osservazioni sui generi, sui rapporti reciproci tra gli scrittori. Lo stesso si potrebbe dire di Wilamowitz. Ci troviamo, insomma, di fronte a una sorta di cataloghi o di inventari piuttosto che a storie letterarie.
È rimasto un tentativo isolato, che ha inoltre suscitato più critiche che consensi, quello di Herman Jordan di presentare la letteratura cristiana classificata secondo generi letterari: per la prosa: 1) i racconti e gli storici; 2) la lettera; 3) le apocalissi; 4) i discorsi e la predicazione; 5) l’apologia; 6) il dialogo; 7) la polemica; 8) i trattati e le dissertazioni; 9) le prescrizioni ecclesiastiche; 10) i simboli e le regole di fede; 11) la letteratura esegetica e critica; 12) le traduzioni e i florilegi; 13) le sentenze; 14) le iscrizioni. Per la poesia: l’innologia religiosa e le altre forme poetiche6.
Anche oggi i due aspetti, interesse per i contenuti e interesse per le forme, risultano più giustapposti che armonizzati, e i manuali risentono della tensione non risolta tra le tendenze della patrologia e della storia letteraria. A questo bisognerebbe poi aggiungere le difficoltà di concepire e definire una “letteratura religiosa” come un tutto organico e autonomo.
GIUDAISMO
INTRODUZIONE
Fonti della storia del giudaismo del tardo secondo Tempio che ci riguarda (dal I secolo a.C al I secolo d.C.; per secondo Tempio si intende il tempio di Gerusalemme ricostruito nel VI sec. a.C. dopo l’esilio babilonese), sono evidentemente gli scritti e i documenti pervenutici, ed i monumenti superstiti. Grande importanza certamente rivestono le testimonianze monumentali, tra le quali annoveriamo soprattutto le iscrizioni e le rovine archeologiche. Utile anche lo studio delle monete.
SCRITTI STORICI
Flavio Giuseppe
Lo storico giudeo Giuseppe Flavio nacque intorno al 37 da famiglia sacerdotale; fu per un certo periodo discepolo dei Farisei, degli Esseni e dell’eremita Banno. All’età di ventisei anni fu inviato a Roma come legato del Sinedrio, e al suo ritorno fu nominato governatore della Galilea e comandante dell’esercito giudaico nella rivolta antiromana del 67. Sconfitto nell’assedio della fortezza di Iotapata, dopo aver predetto il trono imperiale all’allora generale Vespasiano, passò a servizio del nemico ed assunse il nome della dinastia imperiale (Flavio). Le sue opere sono la Guerra giudaica (De bello Iudaico), composta tra il 75 e il 79, le Antichità giudaiche (Antiquitates iudaicae) scritte nel 93-94, il Contro Apione (Contra Apionem) del 97-98 e la Vita del 95. I primi due lavori, in particolare, narrano la storia della Palestina da Abramo fino alle rivolte giudaiche del I secolo d.C. Soprattutto per il periodo che ci interessa, egli è solitamente degno di fede, anche perché disponeva di buone fonti; una di esse è lo storico Nicola di Damasco, che operò alla corte di Erode il Grande almeno dal 14 a.C. in poi. Giuseppe morì negli anni tra il 98 e il 104.
Filone d’Alessandria
Nacque intorno al 25 a.C da una ricchissima famiglia ebrea trapiantatasi in Alessandria; fu un filosofo di grande erudizione, istruito tanto nelle tradizioni giudaiche quanto nella letteratura e nella storia greca. Essendo suo principale interesse lo spiegare allegoricamente la storia e le leggi dell’Antico Testamento, è scarno di notizie storiche. Restano però due apologie in difesa dei Giudei di Alessandria che illustrano l’impero di Tiberio e Caligola, il Contro Flacco (In Flaccum) e la Legazione a Caio (Legatio ad Caium). Filone morì forse nel 25 d.C.
Diversi autori greci e latini ci offrono interessanti notizie per la storia della Palestina:
Strabone di Amasia (64 a.C.-19 d.C. circa)
Tratta della Palestina nella sua Geografia (XVI, 2, 25-48). Giuseppe Flavio ammette di avere usato come fonte un suo scritto storico perduto.
Plinio il Vecchio (23-79)
Forse prese parte alla guerra giudaica del 70, descrive la Palestina aggiungendo alcune notizie storiche nella sua Naturalis historia (V, 13-17).
Cornelio Tacito (54-119)
Parla spesso dei Giudei, anche se non sempre a proposito. Dei suoi Annali abbiamo solamente conservato quanto riguarda gli anni 14-37 e 47-65, mentre le Storie trattano dell’epoca che va dal 69 sino ai primi anni di Vespasiano.
Gaio Svetonio Tranquillo (70-126 circa)
Nella sua opera Vita dei dodici Cesari tratta di argomenti giudaici; egli si è molto servito delle notizie di Flavio Giuseppe.
Plutarco di Cheronea (47-125 circa)
Scrisse le Vite parallele, tra le quali quella di Antonio (inizio del II secolo) è la più ricca di spunti giudaici.
Dione Cassio (155-235 circa)
Senatore governatore romano, scrisse una monumentale opera storica pervenutaci parzialmente o in epitome. Di quanto è sopravvissuto, è utile al nostro scopo soprattutto il cap. XXXVII, 15-18.
Giulio Solino
Nel IV secolo compose un’opera geografica intitolata Raccolta di cose memorabili (Collectanea rerum memorabilium).
Giovanni Zonara
A metà del secolo XII scrisse una Epitome di storia, servendosi di fonti oggi perdute, tra cui Dione Cassio.
Altro
Le scoperte archeologiche degli ultimi tempi ci hanno fornito altro materiale importantissimo per la storia del periodo; ricordiamo ad esempio i manoscritti di Qumran (dal III secolo a.C al I d.C.) e i documenti di Murabba’at e di Nahal Hever, ascrivibili al periodo della rivolta di Bar Kochba (132-135 d.C.).
SCRITTI RELIGIOSI
Anzitutto va menzionato il Nuovo Testamento, collocabile cronologicamente nella seconda metà del secolo I, di cui ci occuperemo in un capitolo specifico.
Lo stesso valga per gli apocrifi del Nuovo Testamento, che sono però assai parsimoniosi di elementi storici, e per i manoscritti di Qumran.
Gli apocrifi dell’Antico Testamento sono testi scritti in ebraico o aramaico nell’epoca del secondo Tempio o subito dopo (fino circa al 100 d.C.), tramandatici in antiche traduzioni. Essi sono assai importanti soprattutto per delineare la storia religiosa dell’epoca. Ricordiamo quelli che servono meglio al nostro scopo: i Salmi di Salomone, diciotto carmi che alludono alle imprese di Pompeo in Palestina; gli Oracoli sibillini, che contengono parti giudaiche e parti cristiane; L’Assunzione o Testamento di Mosè, che allude ad Erode il Grande e Archelao; il Testamento dei XII patriarchi, con richiami al periodo del regno asmoneo, anch’esso con alcune interpolazioni cristiane.
Altra fonte scritta è la letteratura rabbinica, che contiene alcune notizie relative al tardo Secondo Tempio, pur essendo di epoca recenziore. Innanzitutto la Misnah, la Tosefta, i due Talmudim (quello babilonese e quello palestinese), i Targumim palestinesi, i Midrashim antichi.
FONTI STORICHE - BIBLIOGRAFIA
Giuseppe Flavio:
G. RICCIOTTI, Flavio Giuseppe. Lo storico giudeo-romano, Torino, 19492.
L. MORALDI, Antichità giudaiche, Torino, 1998.
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G. RICCIOTTI, La Guerra Giudaica, Torino, 19492.
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L. TROIANI, Commento storico al “Contra Apionem” di Giuseppe, Pisa, 1977.
F. CALABI, In difesa degli Ebrei (Contro Apione), Venezia, 1993.
Autori classici e frammenti storici:
T. REINACH, Textes d’auteurs grecs et romains relatifs au Judaïsme, Paris, 1859.
M. STERN, Greek and Latin Authors on Jews and Judaism, Jerusalem 1974-1984.
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W. G. KÜMMEL, Schriften aus hellenistisch-römischer Zeit, Gütersloh, 1973 ss.
L. TROIANI, Letteratura giudaica di lingua greca in P. SACCHI, Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, 1997, vol. V.
Scritti apocrifi o pseudoepigrafici:
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P. SACCHI, Apocrifi dell’Antico Testamento, Torino, 5 voll., 1981-20001981 ss.
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J. H. CHARLESWORTH, Gli pseudoepigrafi dell’Antico Testamento e il Nuovo Testamento, Brescia, 1990.
Scritti rabbinici:
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J. NEUSNER, Sifre to Numbers, Atlanta, 1986; Sifre to Deuteronomy, Atlanta, 1987; Sifra: an Analitical Translation, Atlanta, 1988.
QUMRÀN E LE ORIGINI CRISTIANE
I MANOSCRITTI DEL MAR MORTO (Qumràn)
Storia e ritrovamenti della comunità essena di Khirbet Qumràn
Nel 1947 furono casualmente scoperte in alcune grotte del deserto di Giuda, a Khirbet Qumràn, alcune giare contenenti antichi manoscritti. Essi erano il prodotto di una comunità religiosa ebraica, con ogni verosimiglianza quella degli Esseni, che abitò quella regione fino al 70 d.C. In questo lavoro si renderà conto della storia dei ritrovamenti archeologici, della pubblicazione dei manoscritti e del loro contenuto, e dei rapporti tra il cristianesimo nascente e l'ideologia di questa comunità.
Qumràn:
ritrovamento e studio dei manoscritti
La storia del fortuito ritrovamento dei rotoli, gli scavi archeologici, i curatori delle pubblicazioni. Cinquant'anni di studi e dibattiti su Qumràn.
INTRODUZIONE
Presso l’angolo nord ovest del Mar Morto, l’altipiano del deserto di Giuda precipita a strapiombo per circa 350 metri sotto il livello del Mediterraneo; la parete rocciosa, di colore rossastro, è perforata da numerose caverne naturali. Era nota da tempo l’esistenza in quel luogo di rovine, dette appunto “Rovine di Qumràn” (Khirbet Qumràn); ma si ignorava quale tesoro archeologico potessero nascondere.
STORIA DEI RITROVAMENTI
Nel 1947 un giovane pastore che si trovava in quei luoghi, Muhammad ed Di’ib (= il Lupo), gettò per caso un sasso nell’apertura di una roccia, e ne udì risuonare il rumore di cocci infranti; ritornato sul posto il giorno dopo, spinto dalla curiosità, si introdusse assieme ad un cugino nell’anfratto e trovò all’interno della caverna diverse giare, una delle quali conteneva dei rotoli di cuoio manoscritto.
Giare ritrovate a Qumràn
I rotoli, invece di essere consegnati alle autorità, vennero portati ad un antiquario di Betlemme, Khalil Iskandar Shahin; egli, che credette di riconoscere su di essi una scrittura siriaca, ne vendette una parte al metropolita Athanasius Yeshua Samuel del monastero siro di S. Marco di Gerusalemme, e una parte al prof. Eleazar Sukenik dell’Università Ebraica di Gerusalemme. Quando quest’ultimo comprese quello che aveva di fronte, cercò di acquistare anche la parte in possesso del metropolita, che però si rifiutò di vendere i suoi manoscritti; si rese conto del loro valore dopo averli fatti esaminare da due membri della American School of Oriental Research di Gerusalemme, William Brownlee e John Trever, i quali poterono anche scattare le prime fotografie. Nel frattempo, non mancarono le incursioni notturne nella grotta per cercare altro materiale, ed il clima politico del neonato stato di Israele complicava ogni trattativa; i rotoli erano divenuti una sorta di materiale di contrabbando.
Il primo comunicato pubblico che attestava il ritrovamento risale all’11 aprile 1948, apparso il giorno dopo sul Times di Londra, nel quale si parlava del rinvenimento di un rotolo di Isaia (poi identificato con la sigla 1QIsaa , del 125-100 a.C.), di un Manuale di Disciplina di una comunità ignota, forse di Esseni (quello che oggi è chiamato Regola della Comunità, 1QS del 100-75 a.C.), di un commento al profeta Abacuc (1QpAbac, metà del I sec. a.C.), e di un codice non ancora identificato perché in pessimo stato di conservazione (identificato poi nell’Apocrifo della Genesi, 1QgenAp, I sec. a.C.- inizio I sec. d.C.). Il rotolo di Isaia, lungo più di sette metri, è di oltre mille anni antecedente al manoscritto più antico fino ad allora conosciuto; il mondo era venuto così a conoscenza di quella che è stata definita come la “scoperta archeologica del secolo”. Si trattava di testi probabilmente nascosti nelle grotte della comunità degli Esseni prima dell'invasione romana del 70, poi mai più riportati alla luce. 1 giugno 1954.
Sul Wall Street Journal compare un'inserzione: si mettono in vendita alcuni rotoli di Qumràn.
La pubblicazione dei tre codici leggibili di proprietà del metropolita avvenne tra il 1950 e il 1951, a cura dell’American School1. Nel 1954 uscì postuma la pubblicazione dei testi nelle mani del prof. Sukenik2. Nel frattempo, a causa della difficile situazione palestinese (era stato appena proclamato lo Stato di Israele ed era terminato il protettorato britannico), il metropolita si era recato in America con i suoi manoscritti, cercando di rivenderli: arrivò persino a offrire i rotoli tramite un’inserzione su un numero dello Wall Street Journal (1 giugno 1954). Yigael Yadin, figlio di Sukenik, tramite alcuni mediatori acquistò i rotoli per conto del neonato Stato di Israele, che era già entrato in possesso degli altri; essi così furono tutti depositati al museo di Gerusalemme, conosciuto come Museo Rockefeller, ove tuttora si trovano. Yadin pubblicò nel 1956 il rotolo danneggiato dell’Apocrifo della Genesi3.
Conclusasi la guerra arabo-ebraica con l’istituzione in Palestina dei due stati di Giordania e Israele, il territorio di Qumràn era venuto a cadere nello stato giordano; nel gennaio 1949, quando la situazione politica permise di riprendere le ricerche , venne ritrovata la grotta scoperta dai pastori (da allora identificata come 1Q). Il Department of Antiquities of Jordan tramite l’ispettore generale G. Lankester Harding, e l’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme (che allora si trovava nella parte giordana di Gerusalemme) tramite il suo direttore, il domenicano padre Roland Guérin de Vaux, si preoccuparono di effettuare la prima esplorazione sistematica della grotta (dal 15 febbraio al 5 marzo 1949); furono asportate giare, vasi, manufatti, stoffe e frammenti, pubblicati a cura del padre J. D. Barthélemy e di padre J. T. Milik in quello che sarebbe stato il primo volume della collana Discoveries in the Judaean Desert che la Oxford University Press dedicò ai manoscritti4.
I due beduini che per primi identificarono le grotte. Vi fu una sorta di corsa al rotolo tra i beduini e gli archeologi
Nel 1951, mentre de Vaux e Harding conducevano un nuovo scavo sistematico del sito di Qumràn, alcuni beduini della tribù Ta‘âmirah, che avevano compreso che era possibile ricavare qualche guadagno dalla vendita di reperti archeologici, scoprirono un altro lotto di oggetti provenienti da Wâdi Murabba‘ât, a 25 km a sud di Gerusalemme, alcuni pertinenti al periodo della seconda rivolta giudaica (132-135 d.C.). Gli stessi beduini nel febbraio del 1952 trovarono un’altra grotta a Qumràn, con altri frammenti manoscritti (fu chiamata allora 2Q, e conteneva oltre a testi piuttosto frammentari biblici ed apocrifi, un interessante frammento ebraico del Siracide (2Q18= 2QSir). Iniziò così una sorta di “corsa al rotolo”. A marzo gli archeologi trovarono la grotta 3, con 14 manoscritti e due rotoli di rame incisi a caratteri ebraici (3Q15), una lista di tesori sepolti. I beduini da parte loro scoprirono la cosiddetta grotta 4, con innumerevoli frammenti, quelli che daranno più problemi nella pubblicazione; il giorno successivo arrivarono sul posto il de Vaux e Milik per raccogliere e catalogare il materiale che i beduini non avevano toccato, ed il resto dovette essere recuperato più avanti. Gli archeologi rinvennero poco più in là un’altra grotta (5Q) con alcuni manoscritti tra i quali ricordo una descrizione della Nuova Gerusalemme (5Q15 = 5QJN ar), i frammenti della Regola della comunità e del Documento di Damasco. I beduini, da parte loro, riportarono alla luce la cosiddetta grotta 6Q con frammenti di testi biblici e apocrifi, tra cui meritano menzione quelli del libro enochico dei Giganti (6QEnGiants = pap6Q8) e il Documento di Damasco (6Q15), l’Allegoria della vigna (6Q11) ed un calendario (6Q17). Al 1952 risale anche la scoperta dei manoscritti del monastero bizantino di Khirbet Mird. Più avanti saranno compiuti altri ritrovamenti nelle valli tra En-gedi e Masada, e a Masada stessa (Vedi).
Nel frattempo, i frammenti della grotta 4Q, già rivenduti dai beduini, dovettero essere riacquistati: concorsero alla spesa lo Stato di Giordania, l’università McGill di Montreal, le università di Manchester e di Heideberg, il Mc Cormick Seminary di Chicago e la Biblioteca Apostolica Vaticana. Eccetto qualche frammento, caduto nelle mani dei privati, tutto confluì nel Museo di Gerusalemme assieme al materiale già collezionato. Lì venne allestita una vasta sala dedicata alla conservazione e allo studio dei testi, chiamata poi scrollery (dall’inglese scroll, rotolo).
Nel 1955 vennero ritrovate dagli archeologi le grotte da 7 a 10; la settima conteneva alcuni frammenti di papiri greci, tra cui un frammento dell’Esodo 28, 4-7 (7Q1) e della Lettera di Geremia 143 (7Q2). La grotta 8 conteneva pochi frammenti, la nona grotta un solo frammento di papiro, la decima un coccio iscritto; nel 1956 i beduini da parte loro trovarono la grotta 11Q, ricca di manoscritti ben conservati, sul genere di quelli di 1Q. In essa, tra l’altro, il manoscritto paleo-ebraico del Levitico (11QpaleoLev), i rotoli dei Salmi e dei Salmi apocrifi (11QPsa; 11QPsApa), il Targum di Giobbe (11QTgJob), un antico esempio di targum (11QMelch), (11Q ShirSabb) e infine il Rotolo del Tempio (11QT). Gli scavi terminarono nel 1958: 800 circa sarebbero stati i manoscritti, di cui ci restano almeno 15.000 frammenti. Circa 225 manoscritti contengono testi biblici, mentre circa 300, per il loro pessimo stato di conservazione, con frammenti minutissimi, sono praticamente inservibili. Di qui cominciava il duro lavoro della ricomposizione e della interpretazione.
I PRIMI 40 ANNI DI STUDI






Il secondo volume della serie Discoveries in the Judaean Desert uscì a cura di P. Benoit, J. Milik e R. de Vaux nel 1961, in due tomi, con i resti delle grotte di Murabba‘ât1; il terzo sotto la direzione di M. Baillet, Milik e de Vaux, anch’esso in due tomi, uscì l’anno successivo, con tutti i frammenti delle “grotte minori”, la 2, la 3 e dalla 5 alla 102. I rotoli della grotta 11 furono pubblicati nel 19653.
Per lo studio sui reperti del Mar Morto ritrovati nella grotta 4Q, tra il 1953 e il 1954 fu creata una équipe internazionale di studiosi, sotto la guida del de Vaux e di Harding: ne facevano parte il sacerdote polacco Jòzef Milik ed il rev. Jean Starcky del Centre National de la Recherche Scientifique di Parigi, mons. Patrick W. Skehan della Catholic University di Washington, John Strugnell dello Jesus College di Oxford, Frank M. Cross del Mc Cormick Seminary di Chicago, John M. Allegro assistente alla Manchester University e Hunno Hunzinger dell’Università di Göttingen. I membri dell’équipe erano tre cattolici, due protestanti, un anglicano ed un agnostico.
Gruppo internazionale degli editori dei mss. di 4Q: a sin. Strugnell, di spalle Allegro, Hunzinger seduto, dietro Skehan, Milik di profilo,Starcky dietro.
Nel 1958 si aggiunse padre Maurice Baillet dell’Institut Catholique di Tolosa il quale dopo qualche tempo sostituì Hunzinger, che si ritirò e lasciò a quest’ultimo il proprio materiale. Ognuno ricevette un lotto di manoscritti da ricomporre e pubblicare. Espressamente non era stato inserito alcun studioso ebraico, per divieto del governo giordano.
Il noioso lavoro di ripulitura, classificazione e lettura dei frammenti ci viene così descritto da Cross:
Diversamente dai vari rotoli della prima e dell’undicesima grotta, che si sono conservati in buone condizioni, i manoscritti della grotta 4 sono in un avanzato stato di deterioramento. Molti frammenti sono così fragili e friabili che si possono appena toccare con una spazzola di pelo di cammello. Molti sono deformati, increspati o ristretti, incrostati di sostanze chimiche sporche, anneriti dall’umidità e dal tempo. Molto ardui sono i problemi che si devono affrontare per pulirli, spianarli, identificarli e congiungerli assieme4.
Un rotolo di Qumràn ancora chiuso. Delicato fu il lavoro di pulizia, spianatura e recupero.
Nel 1957 Milik pubblicò un rapporto intermedio che informava sullo stato dei lavori, tradotto in tre lingue5.
Nel frattempo si iniziò a compilare una concordanza di tutte le parole che si trovavano nei frammenti che ognuno stava esaminando, in modo da permettere a tutti di sapere in quali altri testi poteva eventualmente ricorrere una parola. Sino alla fine degli anni ’50, continuarono ad arrivare frammenti al museo; nel 1960 cessarono i finanziamenti di J. D. Rockefeller, che aveva sostenuto economicamente i lavori del gruppo: a quel punto più di 500 frammenti erano stati identificati, e registrati nella concordanza, in attesa di essere pubblicati.
Nel 1967, con la guerra dei sei giorni, Israele conquistò la parte giordana di Gerusalemme, ed anche il Museo archeologico; il de Vaux ottenne di poter continuare ugualmente i lavori con la sua équipe, senza modificazioni.
Per vari motivi, il progetto di pubblicazione dei testi della grotta 4Q andava un po’ a rilento: gli studiosi prepararono tra gli anni ’50 e ’60 alcune edizioni preliminari dei testi loro affidati, che comparvero in riviste specializzate quali la Revue biblique, il Bulletin of the American Schools of Oriental Research ed il Journal of Biblical Literature. Mancavano però le edizioni definitive della collana di Oxford.
Un’eccezione fu l’uscita nel 1968 del quinto volume della collana Discoveries in the Judaean Desert a cura di John Allegro, che pubblicava una trentina di frammenti6. Purtroppo, pur essendosi guadagnato ampia stima per aver dato alle stampe questi testi con largo anticipo rispetto agli altri membri dell’équipe, egli sacrificò la qualità alla celerità, e il lavoro risultò infarcito di errori; il prof. Karlheinz Müller dell’Università di Würzburg, lo commentò in questo modo: “Senz’altro la peggiore e la più inaffidabile edizione di Qumràn che il lettore possa aspettarsi dall’inizio dei ritrovamenti”7.
Strugnell, per incarico dell’équipe, preparò una recensione riparatoria (che purtroppo risultò lunga quasi quanto il libro recensito) nella quale correggeva riga per riga il lavoro di Allegro8; è possibile capire a questo punto come stessero nascendo alcune tensioni all’interno del gruppo. I rapporti di Allegro con i suoi colleghi andarono sempre più deteriorandosi, dopo il rilascio da parte sua di alcune interviste e accuse su come il lavoro di pubblicazione stava procedendo; in preda a problemi di salute psichica, già licenziato dall’Università di Manchester per cui lavorava, abbandonò negli anni successivi lo studio dei rotoli e si dedicò a studi di storia delle religioni, per i quali perse ogni credito in ambito accademico. Le sue posizioni, assieme alle insinuazioni di altri, furono abilmente sfruttate e riutilizzate negli anni successivi, nell’ambito di una campagna di diffamazione dei membri dell’équipe che ancora non si è sedata, e sulla quale avremo modo di soffermarci altrove.
 Il rev. Jean Starcky, membro dell'equipe internazionale per lo studio dei rotoli di Qumràn
Roland De Vaux morì improvvisamente nel 1971, e venne sostituito dal nuovo direttore dell’École Biblique et Archéologique Française di Gerusalemme, padre Pierre Benoit. Lo stesso anno, al di fuori della collana ufficiale, usciva l’edizione della traduzione aramaica del libro di Giobbe, proveniente dalla grotta 11Q9. Il volume successivo delle Discoveries apparve solo nel 1977, e conteneva anche i testi sui quali de Vaux aveva lavorato prima della morte10. Ma nel frattempo anche Milik aveva pubblicato al di fuori della collana delle Discoveries un ampio commentario sui frammenti della 4Q riguardanti il libro di Enoc11, e Yadin aveva fatto lo stesso con il grande Rotolo del Tempio, recuperato dall’antiquario di Betlemme di cui avevamo parlato: lo aveva nascosto sotto le mattonelle di casa12. Queste eccellenti opere segnarono un cambiamento di rotta: gli studiosi non si accontentavano più di preparare semplici trascrizioni e brevi trattazioni dei testi, ma preferivano scrivere commenti ampli ed esaustivi. Questo ebbe inevitabilmente effetti disastrosi sulla già non invidiabile celerità delle pubblicazioni. Ad esempio, il lavoro di Milik su Enoc è accompagnato da una laborioso retroversione aramaica dall’etiopico, e da un lunghissimo commentario. Certo se egli si fosse limitato alla trascrizione ed alla traduzione, avrebbe impiegato molto meno tempo, senza sacrificare gli altri lavori in attesa di essere intrapresi.
La successiva edizione delle Discoveries è del 1982, a cura di Baillet13. Nel 1985 uscirono, da studiosi non facenti parte dell’équipe, la recensione paleo-ebraica del Levitico14 e gli inni per l’Offerta del Sabato15, provenienti da 11Q.
Alla morte di Patrick Skehan, nel 1980, subentrò Eugen Ulrich della statunitense Notre Dame University, il quale già aveva ricevuto alcuni testi di competenza di Cross. John Strugnell, membro dell’équipe fin dall’inizio, divenne il nuovo direttore responsabile alla morte di Benoit, nel 1987; erano passati ormai 40 anni dalla fortuita scoperta della prima grotta.
ULTIMI ANNI DI STUDI E QUESTIONI DIBATTUTE
L’ingresso di Strugnell come responsabile dell’équipe internazionale coincise con il sorgere delle prime lamentele sulla lentezza dei lavori.
Alcune insinuazioni di Allegro erano state ignorate dal mondo accademico, ma c’era la sensazione che i frammenti mancanti della grotta 4 non sarebbero comunque stati pubblicati in breve tempo; Strugnell cercò di allargare il gruppo, fino ad arrivare a circa venti persone, in modo da accelerare i lavori. Furono anche invitati per la prima volta studiosi israeliani, quali Emanuel Tov e Elisha Qimron.
C’erano diverse motivazioni che avevano reso il lavoro così lento: della volontà di pubblicare testi ampiamente commentati (a discapito della celerità) si è già detto. Poi, la difficoltà di rimettere assieme e decifrare centinaia di frammenti manoscritti, che spesso sono grandi come francobolli.
Un esempio di come la fretta sia cattiva consigliera, fu la lettura precipitosa del cosiddetto frammento 4QTherapeia. Il frammento, contenente i resti di undici linee, era stato affidato a Milik. Ma Allegro, ritenendolo un testo assai importante, la cui divulgazione era stata mantenuta artificiosamente segreta, lo pubblicò nel 1979 in appendice al suo volume sul mito cristiano1. Secondo la sua lettura, si sarebbe trattato di annotazioni di un medico esseno, Ormiel, il quale avrebbe prescritto ad un certo Caifas una cura a base di liquido seminale di capretto. Questo confermava, secondo Allegro, l’ipotesi di un rituale di iniziazione misterico-cristiana compiuto per mezzo dell’unzione con lo sperma, rito al quale Gesù avrebbe sottoposto i suoi discepoli. Lo studio approfondito del frammento, però, ha dimostrato che si trattava solamente di un esercizio di scrittura di uno scriba su un rimasuglio di pelle; le parole vergate non erano altro che nomi ebraici ricopiati in ordine alfabetico2.
In secondo luogo, il costume inveterato per cui un reperto archeologico è quasi una proprietà personale di chi l’ha ritrovato, ed è difficile mettervi le mani senza l’autorizzazione dello scopritore (in questo caso, dell’affidatario); d’altra parte, in alcuni casi certi membri dell’équipe avevano maturato una tale esperienza da sembrare quasi insostituibili. Milik, ad esempio, aveva una ottima capacità da tutti riconosciuta nel ricomporre i frammenti, cosa di cui si sentì la mancanza quando egli si ritirò dal gruppo.
Milik mentre rimette assieme e decifra frammenti grandi quanto un francobollo.
Un lavoro lento e paziente.
Alcuni dei membri dell’équipe, inoltre, continuavano a detenere regolari cattedre universitarie all’estero, e dedicavano solo i periodi di ferie all’esame dei rotoli; taluni, piuttosto che perdere i frammenti loro assegnati, li passavano a propri allievi, in modo che il lavoro restasse per così dire «in famiglia»: è il caso del prof. Frank M. Cross, ad esempio. In ogni caso, non era mai stato permesso a nessun esterno all’équipe di prendere parte alla pubblicazione, senza l’autorizzazione di colui al quale erano stati assegnati.
Gran peso ebbero poi difficili situazioni umane: Milik abbandonò il sacerdozio ed ebbe problemi d’alcool per un certo periodo, prima di riprendere una vita regolare a Parigi. Strugnell cadde in una forte depressione, aggravata dalla separazione dalla moglie: fu una decisione poco felice affidargli la direzione dei lavori. Allegro, come già detto, aveva avuto problemi psichici che peggiorarono con l’età.
Dal 1985, dopo che per anni si era pazientemente attesa la pubblicazione ufficiale, iniziarono le prime proteste. Il prof. Geza Vermes definì la situazione “lo scandalo accademico par excellence del XX secolo”3. Non è possibile non sottoscrivere tale affermazione; ma questa giusta constatazione ha dato spesso vita a reazioni e illazioni prive di ogni senso della misura.
L’editore della rivista Biblical Archeological Review iniziò a pubblicare articoli stigmatizzando la lentezza dei lavori4.
Il prof. Robert Eisenman.
Il prof. Robert Eisenman della California State University ebbe un ruolo predominante nel sollecitare il mondo accademico e le autorità israeliane, proprietarie dei manoscritti, a trovare una soluzione. Purtroppo, se il lavoro di Eisenman in questo senso fu encomiabile, lo furono meno i metodi con i quali sfruttò la sua posizione per divulgare le sue strane interpretazioni sul contenuto dei rotoli. Egli inoltre, servendosi di certa stampa scandalistica, creò l’idea dell’esistenza di una sorta di monopolio culturale intorno ai manoscritti, gestito dall’équipe internazionale, a formare un intaccabile consensus, per nascondere all’umanità certi testi che avrebbero minato le basi del cristianesimo. Egli fece trapelare persino l’accusa di un complotto del Vaticano per occultare i rotoli. Di queste accuse, tratteremo nel capitolo "Qumràn. Questioni scottanti".
Le autorità israliane, sollecitate, iniziarono ad intervenire: il direttore dell’Israel Antiquities Authority Amir Drori creò nel 1990 un comitato per sollecitare il lavoro di edizione dei testi. L’équipe da parte sua affiancò a Strugnell nella direzione dei lavori uno studioso dell’Università Ebraica, Emanuel Tov, nella speranza che la sua presenza accelerasse i lavori; questa mossa, in un momento di debolezza personale, non poté certo piacere a Strugnell. Dopo una intervista rilasciata ad un giornale, in cui avrebbe criticato lo stato di Israele e avrebbe definito quella ebraica una “religione orribile originalmente razzista” (ma è difficile capire come realmente andarono le cose; certo Strugnell al tempo era gravemente malato)5, venne sostituito nella sua carica di direttore dei lavori, pur restando membro del gruppo. I membri dell’équipe allora nominarono tre nuovi responsabili: l’israeliano Emanuel Tov, già chiamato da Strugnell medesimo, padre Émile Puech dell’École biblique ed Eugene Ulrich. Essi allargarono inoltre il gruppo a 50 membri. Nello stesso anno usciva un nuovo volume delle Discoveries6.
Un passo inaspettato fu compiuto nel 1991 dal prof. Ben Zion Wacholder dell’Hebrew Union College di Cincinnati; stanco della lunga attesa di avere una edizione dei frammenti, che sembrava non apparire mai, tentò con l’aiuto di Martin G. Abegg di ricostruirne il testo senza possederne né le trascrizioni né le fotografie, ma utilizzando quella concordanza che gli studiosi avevano creato nel corso dei loro studi. Tramite l’uso dell’elaboratore, egli estrapolò tutte le frasi presenti nella concordanza, le collocò in ordine e cercò di ricreare con esse il testo intero, ricostruendo il contenuto dei frammenti inediti7. Tale operazione, complessivamente ben riuscita, non era però priva di errori: la concordanza infatti non era più stata aggiornata dagli anni ’60, e molte letture erano state migliorate. Inoltre ci si poneva il problema se fosse legittimo stampare un’edizione servendosi di trascrizioni ancora inedite frutto del lavoro di altri.
Nel settembre dello stesso anno, un’altra notizia inaspettata: il direttore William A. Moffet della Huntington Library di San Marino in California annunciò di essere in possesso delle fotografie dei frammenti della grotta 4Q, e che ne avrebbe lasciato libero accesso a chiunque ne avesse fatto richiesta. Il governo israeliano, irritato da questa iniziativa, prese le difese dei diritti dell’équipe, e fu sul punto di intentare una azione legale; ma il tutto venne a cadere, per non aumentare il disappunto di coloro che da tempo criticavano le lentezze dell’edizione. Eisenman sfruttò subito tale situazione, e curò per la Biblical Archeological Society una edizione in fac simile delle fotografie, alcune illeggibili, altre invece utilizzabili8. L'editore negò che le foto provenissero dalla Huntington, ma non ne fornì la fonte; per gli strascichi legali, il volume venne persino ritirato per un certo periodo di tempo dal commercio. Grande scandalo provocò la riproduzione di una trascrizione di una lettera trovata nella grotta 4 (4QMMT): la trascrizione era opera di un membro dell’équipe, l’israeliano Elisha Qimron, ed era stata stampata senza la sua autorizzazione, e senza neppure indicarne il nome. Si trattava in parole povere di un furto di anni di lavoro altrui.
Occorre menzionare anche altri due libri, che hanno contribuito al crearsi di una “leggenda nera” attorno all’équipe internazionale e ai suoi presunti tentativi, appoggiati dal Vaticano, di occultare materiale “destabilizzante”. Il primo è dovuto a due giornalisti inglesi, Michael Baigent e Richard Leigh9, con l’aiuto di Eisenamn, ed è stato definito da uno degli editori dei manoscritti “un penoso esempio di giornalismo giallo”10. Il secondo è la trascrizione e traduzione di alcuni manoscritti dovuta a R. Eisenman e M. Wise, presentati falsamente al pubblico come del tutto inediti e trattati in maniera assai discutibile11. Anche di questi due libri, e delle reazioni che suscitarono, ci occuperemo nel capitolo "Qumràn. Questioni scottanti".
Tutto ciò perché ci si renda conto del clima del periodo: non mancarono infatti le pubblicazioni frettolose ed inaccurate dei testi, o lo sfruttamento del lavoro di altri in barba ai diritti d’autore.

James J. Charlesworth
Di fronte a questo “assalto ai rotoli”, inutile ormai frenare le aspettative: la stessa Autorità Israeliana per le Antichità, che sovrintendeva all’équipe internazionale, fece curare nel 1993 da E. Tov un’ottima riproduzione in microfiches di tutti i testi del deserto di Giuda12, ed un elenco di tutti i testi non pubblicati, con l’indicazione degli editori previsti13. Nel frattempo, la velocità nella pubblicazione ufficiale dei testi da parte dell’équipe era aumentata considerevolmente: una concordanza fu preparata da James J. Charlesworth14, e ben 21 volumi della serie Discoveries in the Judaean Desert sono apparsi solo tra il 1992 ed il 2000, a firma di decine di studiosi diversi15.
Dagli anni ’90, quindi, tutto il materiale conosciuto è disponibile per gli studiosi che desiderino visionarlo, ed è possibile verificare sugli originali stessi il valore delle ricostruzioni di Allegro, Eisenman, Baigent e Wise; tuttavia, ancora continua al di fuori dei circoli accademici la tendenza a presentare al pubblico l’esistenza di “congiure” o “complotti”, o di letture falsate dei testi, spesso anche con il sostegno di giornalisti palesemente impreparati ma ben disposti a pubblicizzare materiale “scottante”.
Da questa vicenda, si spera che in futuro, qualora avvenissero altre scoperte del genere, il lavoro di edizione sia impostato in modo diverso, allo scopo di evitare fin dall’inizio il sorgere di tensioni e interpretazioni fuorvianti.
Di cosa parliamo
In questa sezione ci si propone di prendere in esame alcune pubblicazioni “scandalistiche” che, trattando qualche argomento di cui si occupa il nostro sito, affrontano il tema in modo parziale, metodologicamente superficiale o storicamente errato. Particolare attenzione verrà dedicata al materiale presente in rete, allo scopo di fornire al navigatore una sorta di piccola “guida” all’uso ragionato delle fonti su internet; ritengo questa parte di una certa importanza, mancando la rete di quel “filtro” di garanzia di serietà che nelle pubblicazioni a stampa viene normalmente assicurata dai migliori editori. Il lettore troverà anche un valido aiuto nei consigli preparati dal prof. Robert Harris per la valutazione delle fonti in internet, consigli in una certa misura validi anche per le pubblicazioni a stampa.
Tutto il materiale è commentato alla luce dei principi storici e critici che animano il nostro lavoro. La recensione è opera dei curatori del sito, o può riprendere lavori già apparsi altrove ad opera di altri studiosi qualificati.
Difficile è l’analisi dei testi presenti su internet, in quanto estremamente mutevoli; la possibilità di modificare in ogni momento l’assetto ed il contenuto di un sito (cosa che non avviene con la carta stampata) rende assai complicata la realizzazione di una recensione. Per ovviare in parte a questo inconveniente, si è pensato di riprodurre il testo preso in esame accanto alla sua recensione. Per ogni sito esaminato verrà comunque introdotta la data in cui il testo è stato prelevato dalla rete.
Prima di addentrarci nei contributi della sezione, proponiamo due piacevoli letture che con divertente ironia aiutano a cogliere lo spirito di questo nostro lavoro:
Appendice stravagante sulla letteratura storico-religiosa in internet
Scriveva diciassette secoli or sono Girolamo, il «papà» di tutti i biblisti, all’amico Paolino da Nola:
«I contadini, i muratori, i fabbri, i lavoranti in metallo e in legno, i tessitori e i gualchierai, e in genere quelli che forniscono articoli vari e cose di poco valore, non possono diventare quel che desiderano senza un maestro.
I medici fanno i medici, i fabbri maneggiano gli attrezzi dei fabbri1.
C’è solo una scienza, quella delle Scritture, che tutti, senza distinzione, attribuiscono a se stessi:
Incolti e colti, senza distinzione, scriviamo poesie2.
Questa scienza è quello che la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito, il cavillatore parolaio, e in genere tutti quanti si arrogano, fanno a brandelli, insegnano prima di aver imparato […] e, come se fosse poco, con una certa facilità di parola e anche con audacia spiegano agli altri quel ch'essi non capiscono.
Taccio dei miei colleghi, i quali, se per caso, dopo aver coltivato le lettere profane, arrivano alle sacre Scritture […] adattano alla propria opinione testimonianze incongruenti, come se fosse un magnifico e non un pessimo sistema di parlare il distorcere frasi e piegare alla propria opinione la Scrittura, benché questa vi si opponga […] Questi comportamenti sono infantili e simili al gioco dei ciarlatani: insegnare ciò che ignori, anzi, per dire una cosa che mi ripugna, non saper neppure di non sapere»3.
Mezzo secolo fa, citando questo passo, scherzosamente osservava il biblista Giuseppe Ricciotti:
«Era il meno che potesse scrivere un Girolamo. Passar l'intera vita a studiare la Bibbia; logorarsi in viaggi, veglie, strapazzi, visitare posti, consultare codici, ascoltare maestri, sempre coll’intento di approfondire il senso ed aumentare la cognizione del gran libro: e poi trovare ad ogni angolo di strada la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito e compagnia bella, che in materie bibliche trinciano sentenze e risolvono questioni in quattro e quattr'otto. Siamo giusti: era umiliante; e non c'era davvero bisogno quel suo caratteristico spirito ringhioso per scrivere così e peggio. Indubbiamente Girolamo era un santo»4.
Credo che questo divertente quadretto possa essere applicato paro paro alla situazione di alcuni studi storico religiosi inseriti nella rete, che oggi ha preso il posto degli angoli delle strade.
Evidentemente, l’importanza che riveste il cristianesimo nella civiltà occidentale è grande, ed altrettanto grande l’interesse per l’approfondimento di queste tematiche. Ma per trattarne con serietà, occorrono adeguata preparazione, studio e metodo, senza i quali ogni ricostruzione è inevitabilmente paragonabile alle chiacchiere di strada che il povero Girolamo tanto biasimava
Lettera ad Anthropos
È divertentissima, ma non priva di forti spunti di riflessione, la pagina di Giuseppe Ricciotti (1890-1964) che andiamo a proporre, scritta nel 1932 mentre era insegnante di Storia religiosa dell’Oriente cristiano all’Università di Roma.
“LOCUTUS EST IN PARABOLIS”
Di Giuseppe Ricciotti.
«Alcune decine d'anni fa verso il 1870, un celebre personaggio scrisse ed inviò una lettera ad un privato qualunque, che noi chiameremo convenzionalmente il signor Anthropos; la lettera era scritta in italiano, era assai lunga, e trattava di argomenti contemporanei vari, alcuni dei quali assai importanti. Data la celebrità del mittente, alcuni amici chiesero e ottennero dal signor Anthropos il permesso di ricopiar la lettera. Di fatti, ne furono eseguite sia semplici copie, sia traduzioni in varie lingue anche assai differenti dell'italiano, ad esempio in arabo e in giapponese. E fu una fortuna, giacché poco tempo dopo che il sig. Anthropos aveva ricevuto la lettera, avvenne un incendio nel suo studio e il testo originale della lettera andò distrutto.
Rimasero però le copie e traduzioni, che s'andavano sempre più moltiplicando col passare da amico ad amico. Sennonché questi testi ricopiati o tradotti avevano tutti, chi più chi meno, gravi difetti: una copia era stata fatta in gran fretta, e quindi conteneva sviste e lacune; un'altra era stata fatta da un amico di vista debole e di mano malferma, e perciò mostrava qua e là che si era scambiata una parola con un'altra somigliante, ed era poi riscritta con una calligrafia così tremolante che, a leggerci sopra, questi scambi potevano accrescersi in gran numero; una terza copia sarebbe stata ben fatta ma disgraziatamente rimase lunghi anni negletta in un ripostiglio, ove fu macchiata dalla pioggia, lacerata dai topi, e ridotta in uno stato per metà inservibile.
Le traduzioni avevano poi altri difetti. Quella in russo, ad esempio, era stata fatta da un amico moscovita di passaggio in Italia, che però aveva tradotto assai liberamente: di rado egli aveva seguito la parola, spesso si era accontentato di una certa corrispondenza di concetti, e talvolta - non contenendosi nel suo ufficio di traduttore - aveva inserito qua e là nel testo russo piccole spiegazioni, brevi richiami, e anche qualche riflessione personale.
La traduzione inglese, al contrario, ci era proposta di esser fedelissima, ma troppo spesso era riuscita sbagliata; ne era autore un rigido e grave londinese che, conscio della sua debolezza in italiano, non si sentì tranquillo se non quando si vide dietro il riparo di un autorevole vocabolario: e così gli successe di tradurre il nome merluzzo, che capitava una volta nella lettera, come se significasse piccolo merlo (l'autorevole vocabolario di cui si serviva, era quello di J. E. Wessely, «19a ediz. interamente rifatta» da G. Rigutini e G. Payn, Milano, Hoepli, 1902; ivi egli lesse a pag. 100, che merluzzo significa young blackbird).
La traduzione in arabo, invece, fu fatta da un italiano, sì, ma che era alle sue prime anni con la lingua del Corano e che fece quella traduzione giusto per esercitarsi: è facile immaginarsi che cosa saltò fuori. E così, più o meno, per tutte le altre.
Pochi anni fa, il valore documentario di quella lettera crebbe a dismisura e se ne ricercò dappertutto, in Italia e all'estero, il testo esatto per vedere con precisione ciò che essa diceva. Naturalmente da principio ognuno che ne aveva una copia, o una traduzione, ritenne di possedere il testo esatto; ma poi, confrontate le varie copie e messe a riscontro con le diverse traduzioni si constatò che era necessario ricostruire attraverso tutti questi documenti il testo genuino, per quanto era possibile, apprestando un'edizione critica. E l'edizione critica fu fatta, naturalmente in Germania, a cura di un certo professor Deutschmann; essa risultò dalla collazione delle varie copie italiane, e insieme anche dal confronto con le varie traduzioni esistenti: quelle lezioni che apparvero raccomandate da un maggior numero di copie o di traduzioni furono accolte nel testo, le altre furono relegate in nota. Così la lettera ad Anthropos fu ricostruita, e se ne ebbe un testo complessivamente sicuro: sebbene qua e là rimanessero ancora delle incertezze, delle piccole lacune, e altri insoluti problemi di vario genere, che il prof. Deutschmann con i documenti a sua disposizione non riuscì ad eliminare.
La lettera, criticamente edita, fu ricercatissima, fece il giro di tutto il mondo, e i dotti cominciarono subito a pubblicarne commenti totali e dilucidazioni storiche parziali. Si ebbero dei risultati molto interessanti. La lettera era d'un italiano a un italiano; trattava di cose e fatti italiani d'attorno il 1870, allorché fu scritta la lettera; usava anche spesso quella fraseologia familiare che noi italiani impieghiamo in una conversazione amichevole. Perciò qualunque commento o dilucidazione richiedeva evidentemente una buona conoscenza, non solo dei fatti e delle cose italiane d’attorno il 1870, ma anche della terminologia politica e della fraseologia familiare di quei tempi.
Invece, che avvenne? Ecco qualche esempio a caso.
Un professore di una università del Giappone, trovando spesse volte nominato nella lettera un certo Garibaldi, sostenne che questo personaggio era un influentissimo cardinale: e non campò mica in aria la sua identificazione, giacché lunghe ricerche da lui fatte nelle biblioteche giapponesi lo autorizzarono ad affermare con ogni sicurezza che quel tal signor Garibaldi vestiva di rosso, precisamente come i cardinali.
Un altro commentatore, appartenente a un istituto superiore del Siam, notò nella lettera, ripetute più volte, le seguenti frasi: il Pio IX del 1848 e della Costituzione, e altrove, il Pio IX del «Non possumus» e del 1870; dopo lunghi e pazienti studi egli concluse che erano esistiti due personaggi storici chiamati Pio IX: uno, papa legittimo, aveva regnato a Roma; l'altro era morto, poco dopo, come antipapa a Gaeta, da dove era riuscito ad impadronirsi di Roma espellendone il legittimo Pio IX ed occupandone il seggio.
Un filologo australiano, invece fece oggetto delle sue esperte ricerche alcune espressioni alquanto oscure che aveva rinvenute qua e là nella lettera; riuscì, fra l'altro a fissare il significato di una sibillina frase della lettera che diceva il conte Y ha le mani in pasta ed è un vero accidente: la scoperta fu che quel personaggio doveva essere un conte caduto in miseria, e perciò costretto a maneggiare la pasta facendo il fornaio; inoltre, se egli era chiamato un vero accidente ciò dimostrava che quel personaggio non aveva più nella vita politica italiana alcuna «sostanziale» importanza, giacché il termine accidente significava – e qui il dotto filologo australiano citava in prova una congerie di testi di S. Tommaso e d'altri scrittori medievali - quod non pertinet ad substantiam (ciò che non compete alla sostanza).
Anche più erudito si mostrò il direttore di un'accademia dell'Africa centrale, che in una conferenza tenuta sotto un bel palmizio alla temperatura di 50 centigradi, ricorse ad argomenti sia storici che filologici per stabilire con sicurezza a che cosa alludesse il termine carbonari, che ricorreva più volte nella lettera. In primo luogo egli demolì in maniera definitiva la opinione, comunemente seguita, d'un professore cinese, secondo cui i carbonari sarebbero stati una specie di casta mandarinale, contraddistinta da un lungo paudamento di seta nera brillante come carbone, da cui il nome dei suoi membri. Niente affatto: l'accademico africano dimostrò invece che il termine doveva aver conservato il suo significato etimologico originario, e che si trattava di una vera corporazione di fabbricanti di carbone; ricorrendo poi ad argomenti storico-geografici spiegò in maniera del tutto convincente che la straordinaria potenza politica della corporazione era dovuta al fatto che l'Italia, paese freddissimo, aveva un bisogno assoluto di carbone, e perciò quei che lo producevano tenevano in mano le chiavi della vita economica e sociale.
Infine, un dotto monaco buddista, che nel suo nevoso altipiano del Tibet si occupava molto di studi folkloristici, mise bene in rilievo alcune curiose usanze italiane attestate dalla lettera, ad esempio quella di lavarsi ogni giorno e perfino di stare delle ore intere, durante i mesi di luglio e agosto, tuffati nelle onde sulla spiaggia del mare, e ne concluse che gli italiani erano resistenti al freddo molto più che i Tibetani, i quali facevano a meno di lavarsi e nei mesi di luglio e agosto preferivano stare attorno e un buon fuoco; confrontò anche l'usanza delle donne italiane di avere un solo marito con quella delle donne tibetane di averne fino a una dozzina, e vi fece sopra alcune considerazioni demografiche.
E qui, la storiella è finita.
Il lettore probabilmente dirà che è una favola di cattivo gusto. Il gusto lo lascio giudicare a lui: a me preme far notare che non è punto una favola; è invece una parabola, e una parabola tanto verosimile, che è veramente avvenuta, benché sotto altro nome, in altre circostanze, e mutatis mutandis.
La lettera ad Anthropos rappresenta la Bibbia. Le vicende del resto della lettera corrispondono, in sostanza, alle vicende del testo della Bibbia. I commenti e le dilucidazioni che hanno dato della lettera i dotti, rassomigliano in modo impressionante a molti - non tutti - commenti studi apparsi sulla Bibbia nelle ultime decine d'anni; con la differenza che le ricostruzioni storiche d'indole giapponese e siamese sono il campo preferito degli studiosi tedeschi e di chi ne segue il metodo; invece, le dilucidazioni varie di tipo australiano, africano e tibetano sono un campo assai più vasto, perché aperto a tutti gli incompetenti presuntuosi: nel cui numero entrano non soltanto «la nonnetta chiacchierona, il vecchio rimbambito», e compagnia bella, descrittaci da Girolamo, ma molti e molti altri»