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GALILEO GALILEI
Testi tratti dal sito: www.eresie.it di Douglas Swannie

GALILEO GALILEI - STORIA DELLE ERESIE

Valentini (o Valentino) da Modena, Filippo (m. ca. 1560)



L'umanista Filippo Valentini (o Valentino) nacque a Modena, nipote del
preposito (prevosto) Bonifacio Valentini, tacciato, a sua volta, di
luteranesimo.
V. partecipò attivamente al movimento di Riforma a Modena, entrando a far
parte dell'Accademia modenese, fondata dal medico Giovanni Grillenzoni,
allievo di Pietro Pomponazzi, che riuniva i principali notabili della città,
come, ad esempio, Ludovico Castelvetro, eminente studioso di Dante e
Petrarca, ed il professore universitario Francesco Porto (1511-1581), per
discutere di teologia, ma anche per studiare e commentare le Sacre
Scritture, utilizzando direttamente le fonti originarie, un modus operandi
caro alla Riforma. In particolare V. si distinse per aver letto e commentato
in pubblico il Vangelo di San Matteo, suscitando le ire dei domenicani.
Tale fu la popolarità raggiunta dall'Accademia che il cardinale di Modena,
Giovanni Morone, coadiuvato dal cardinale Gasparo Contarini, costrinse nel
settembre 1542 gli aderenti a firmare un formulario di fede, gli Articuli
orthodoxae professionis, che Castelvetro si rassegnò a sottoscrivere: non
così per il Porto e il V., che preferirono allontanarsi dalla città.
Dopo il suo rientro, V. continuò imperterrito nel professare la sua fede
luterana a tal punto che una breve papale di Paolo III (1534-1549) del
maggio 1545, indirizzata al Duca Ercole II d'Este (1543-1559), sollecitò
l'arresto dell'umanista modenese.
V. ritenne più prudente ritirarsi nella sua tenuta di campagna, ma nel 1548
accettò il titolo di podestà di Trento offertogli dal principe cardinale
Cristoforo Madruzzo (1512-1578, principe di Trento: 1539-1567).
Successivamente rientrò a Modena, dopo aver pagato una cauzione.
Tuttavia V. venne nuovamente indagato nel 1550 e dovette accettare di
abiurare, anche se solamente in sede extragiudiziale, davanti al nuovo
vescovo di Modena, il moderato domenicano cardinale Egidio Foscarari
(1512-1564, vescovo di Modena: 1550-1558 e 1560-1564). Il nome di V. fu
comunque fatto ancora, l'anno successivo, tra coloro che erano rimasti
favorevolmente impressi dalla predicazione eterodossa di Giovanni Francesco
da Bagnacavallo.
Ma oramai i processi contro gli eretici a Modena erano iniziati, e,
nonostante la benigna tolleranza del cardinale Foscarari, nell'estate 1556
V., lo zio Bonifacio, Ludovico Castelvetro ed il libraio Antonio Gadaldino
furono convocati a Roma da parte del tribunale dell'Inquisizione di Papa
Paolo IV (1555-1559).
Nonostante un lungo tergiversare, nel maggio 1557 Gadaldino fu imprigionato,
processato e dovette abiurare nell'ottobre 1559; Bonifacio Valentini si
presentò spontaneamente, fu processato e anch'egli dovette abiurare (non gli
venne neppure risparmiata l'onta di dover portare l'abitello); perfino lo
stesso cardinale Foscarari fu sospettato di eresia da parte
dell'Inquisizione nel 1558 e fu imprigionato su ordine di Paolo IV. Benché
non si poté provare la sua eterodossia, solamente con il papa successivo,
Pio IV (1559-1565), Foscarari fu assolto e poté ritornare al suo precedente
incarico.
A Castelvetro e V. non rimase che la fuga dalla città: soprattutto
quest'ultimo, attivamente ricercato in quanto relapso (avendo già abiurato),
era in serio pericolo di essere giustiziato, se fosse caduto nelle mani
dell'Inquisizione.
Egli decise quindi la via dell'esilio in Valtellina, ma, prima di fuggire,
scrisse una lettera al Duca Ercole II d'Este (1543-1559) per comunicargli la
decisione di andare in esilio e per rimproverargli il fatto di permettere
all'Inquisizione di stracciare i suoi subditi et svergognarli. Questo
ricordava un manoscritto del 1542, in cui V. profeticamente indicava la
difesa dei propri cittadini come compito principale del signore locale.
Tuttavia, considerando che dal 1554 Ercole teneva segregata nel palazzo
ducale (agli arresti domiciliari, si direbbe oggigiorno) la moglie, di fede
riformata, Renata d'Este, non si fatica a credere che l'appello di V. sia
caduto nel vuoto.
Nel 1557, dunque, V. andò in esilio in Valtellina (ai tempi parte del
territorio elvetico del Cantone Grigioni, a maggioranza protestante),
stabilendosi dapprima a Chiavenna e poi a Piuro (dove si sposò), ma non
riuscì mai ad inserirsi nella comunità riformata locale, perché, nel
frattempo, aveva sviluppato idee troppo radicali, di ispirazione ariana e
anabattista.
Censurato a riguardo a Chiavenna, egli visse in solitudine gli ultimi anni
della sua vita, morendo, presumibilmente, verso il 1560.


Gaiano di Alessandria (VI secolo) e gaianiti



G., attivo in Alessandria d'Egitto intorno al 530/540, fu un seguace di
Giuliano di Alicarnasso, fondatore della corrente degli aftartodocetisti o
fantasiasti o incorrutticoli, una variante del monofisismo.
Essi, in contrasto con la corrente dei severiani o fartatolatri o
corrutticoli, fondata da Severo di Antiochia, affermavano che Cristo aveva
una natura umana incorruttibile, e cioè che Cristo non era soggetto ai
normali desideri di fame, sete, stanchezza, ecc. ma che si era sottoposto
volontariamente ad essi per amore nostro.
I seguaci di G. furono detti gaianiti e si opposero sempre strenuamente ai
severiani di Alessandria, che facevano capo a Teodosio, patriarca della
città.


Gaismair (o Gasmair), Michael (1490-1532)



Michael Gaismair, figlio di un imprenditore minerario e nato nel 1490 a
Vipiteno (Sterzing), nella frazione di Ceves (Tschöfs), in Alto Adige, era
il segretario del potente vescovo di Bressanone (Brixen).
Nel 1525 G. venne a contatto, rimanendone influenzato, con le idee
anabattiste di  Felix Mantz e Jorg Blaurock, che operavano in Val d'Isarco e
nei Grigioni (in Svizzera), e poco dopo, in Maggio, fu raggiunto dalle
notizie della Guerra dei Contadini in Germania, capitanate da un altro
riformatore rivoluzionario, incline al credo anabattista, Thomas Müntzer.
Poco dopo lo stesso Tirolo (dominio degli Asburgo) divenne una polveriera di
sommosse popolari, soprattutto nella Valle Passiria e in Val d'Isarco.
Queste rivolte contadine furono capitanate da un certo Peter Passler e da G.
stesso: vennero occupate e saccheggiate Bressanone e Novacella. I rivoltosi,
rinforzati dai minatori locali e dai superstiti della rivolta di Müntzer,
resistettero ai contrattacchi dell'esercito asburgico.
G. sognava di poter fondare una repubblica democratica nella zona e per
questo aveva già scritto il futuro assetto nel suo Ordinamento regionale del
Tirolo, dove egli prevedeva l'abolizione della Chiesa cattolica e dei suoi
riti, sostituiti da una fede, basata su un contatto diretto con Dio,
attraverso l'interpretazione personale delle Sacre Scritture.
G. inoltre immaginava utopisticamente l'eliminazione dei titoli nobiliari,
la nazionalizzazione delle terre e delle miniere, l'abbattimento delle mura
delle città, l'istituzione di scuole, ospedali, ricoveri per anziani etc.
Per superare le divergenze i capi della rivolta furono invitati alla dieta
regionale di Innsbruck (Giugno 1525) dal principe ereditario Ferdinando
d'Asburgo (n. 1503, imperatore 1558-1564). Vi si recò anche G., ma in Agosto
fu imprigionato a tradimento: dopo due mesi egli riuscì ad evadere,
recandosi in Svizzera (Canton Grigioni) dove, nella primavera 1526, continuò
la lotta con 700 armati ed emanò il suo Ordinamento regionale.
Il Bauernführer (capo dei contadini), come venne chiamato G., si rivolse
quindi al Doge di Venezia Andrea Gritti (1523-1538) per convincerlo a
sostenere militarmente la rivolta in Tirolo, ma non riuscì nel suo intento.
Il 15 Aprile 1532, mente era appunto nel territorio della Repubblica
veneziana, a Padova, G. cadde in una imboscata e fu ucciso da sicari,
probabilmente su ordine di Ferdinando d'Asburgo.
Il movimento di G. era quindi finito, ma non la turbolenza religiosa del
Tirolo, che, negli stessi anni, vide lo sviluppo della predicazione
anabattista con Jakob Hutter.


Galateo, Girolamo (1490-1541)



Girolamo Galateo nacque a Venezia nel 1490 e si formò culturalmente a
Padova, dove entrò nell'ordine dei francescani e divenne docente di
teologia.
Intorno al 1528 egli fu denunciato per aver predicato commentando, alla
maniera luterana, le Sacre Scritture attingendo direttamente dalla fonte
originaria. Fu prosciolto dall'accusa e rimesso in libertà, ma purtroppo
finì nel mirino di uno dei più fieri oppositori della Riforma protestante:
l'ex vescovo di Chieti (1504-1524), il noto Giovanni Pietro Carafa [il
futuro Papa Paolo IV (1555-1559)] e fondatore dell'ordine dei Teatini.
Carafa denunciò il G., facendolo nuovamente arrestare, processare e
condannare a morte il 16 gennaio 1531. Il caso venne poi riassunto in un
memoriale inviato a Papa Clemente VII (1523-1534) nell'ottobre 1532, dal
titolo De lutheranorum haeresi reprimenda et Ecclesia reformanda. Tuttavia
la sentenza portò ad un contrasto con la Repubblica di Venezia, che optò per
la carcerazione e che, nel 1538, dopo sette anni di detenzione, sentenziò
per l'ex francescano gli arresti domiciliari presso il nobile veneziano
Antonio Paolucci, dietro una cauzione di mille ducati.
Gli fu permesso di scrivere una sua autodifesa, da inviare al senato
veneziano, per negare la sua appartenenza al luteranesimo, ma lo scritto,
denominato Apologia e pubblicato nel 1541 a Bologna, risultò un'abile e
moderata difesa del luteranesimo (alla Melantone, tanto per intenderci, come
nel punto concernente la sola fide, dove G., come il riformatore tedesco,
pensava che le opere buone erano comunque utili), sebbene opportunamente
travestita da agostinismo con qualche excursus negli scritti di altri Padri
della Chiesa, come Sant'Ambrogio e di San Giovanni Crisostomo.
Richiesto di emendare qualche punto della sua Apologia, G. rifiutò e per
questo fu nuovamente imprigionato e morì in carcere il 7 gennaio 1541.


Galeota, Mario (ca.1499-1585)



Il cavaliere Mario Galeota nacque a Napoli nel 1499 circa da una nobile
famiglia: il padre Giovanni Bernardino era signore di Monasterace, in
Calabria. Da giovane G. seguì studi di ingegneria militare, di matematica e
di letteratura.
Dal 1537 egli iniziò a frequentare i circoli evangelici di Juan de Valdés,
diventandone uno dei discepoli più fedeli, assieme a Giulia Gonzaga, Pietro
Carnesecchi e Marcantonio Flaminio ed organizzando la traduzione in
italiano, la copia e la stampa dei suoi scritti, come il noto Alphabeto
christiano, nella sua casa di Napoli, e quindi nella sua tenuta di
Monasterace. Compì inoltre un viaggio nel 1538 a Firenze per diffondere le
opere di Valdés presso i circoli riformati della città
Fu per questo inquisito nel 1548 e processato per ben tre volte: nel 1552,
1555 e 1565-66.
Nel 1555 era prigioniero nelle carceri dell'Inquisizione a Roma nel stesso
periodo in cui furono internati anche Bartolomeo Spadafora, il cardinale di
Modena, Giovanni Morone, Andrea Ghetti da Volterra, e l'ex vescovo
valdesiano di Cheronissa Giovanni Francesco Verdura.
Nel 1559, in seguito ai moti popolari del 18 e 19 agosto, scatenatisi alla
morte di Papa Paolo IV (1555-1559), Spadafora e Ghetti riuscirono a fuggire
dalla galera, ma G. non tentò la fuga e questo fatto fu considerato
un'attenuante nel suo ultimo processo del 1565-66, quando decise di
abiurare.
Fu quindi condannato, il 12 giugno 1567, a soli cinque anni di carcere
(bisogna considerare che, solo tre mesi più tardi, il suo amico Pietro
Carnesecchi sarebbe stato decapitato e bruciato sul rogo), ma già nel 1571
G. era libero di ritornare a Napoli.
Deluso per il fallimento dell'esperienza valdesiana, G. non si occupò più di
questioni religiose e morì a Napoli nel 1585.


Galilei, Galileo (1564-1642)



I primi anni
Il famoso scienziato Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564,
Galileo Galileiprimogenito dei sette figli di Vincenzo Galilei (ca. 1525-1591), un nobile
caduto in miseria, di origine fiorentina, che si era guadagnato una certa
notorietà come liutista, teorico della musica e matematico, e di Giulia
Ammannati (1538-1620). Nonostante che il giovane G. si interessasse ben
presto alla matematica e alla meccanica, il padre decise, nel 1581, di
iscriverlo alla facoltà di medicina dell'università di Pisa, che il figlio
frequentò per quattro anni senza però ottenere alcun titolo accademico.
I primi studi fisici e matematici
G. proseguì invece privatamente nei suoi studi preferiti con il matematico
della corte medicea Ostilio Ricci (1540-1603), che convinse Vincenzo Galilei di permettere al figlio di abbandonare medicina per intraprendere gli studi, per l'appunto, di matematica, nella quale il giovane ottenne brillanti risultati.

Infatti, come racconta un noto aneddoto, nel 1583 osservando le
oscillazioni di una lampada nella cattedrale di Pisa, G. formulò la sua
teoria sull'isocronismo delle oscillazioni della pendola.
Nel contempo egli fu influenzato dal pensiero del suo professore Francesco
Buonamici (ca. 1530-1603), che gli instillò la convinzione che solo
l'esperienza fisica poteva stabilire la verità o la falsità delle tesi
formulate in maniera teorica. Nel 1586 G. realizzò una stadera idrostatica
per la determinazione del peso specifico (gli studi vennero pubblicati nel
trattato La bilancetta) e nel 1588 un trattato sulla gravità nei solidi gli
permise di occupare una cattedra di matematica all'università di Pisa dal
1589, ma poco dopo entrò in conflitto con gli studiosi aristotelici
dell'università, quando dimostrò, pare dall'alto della torre di Pisa, la
falsità della teoria che la velocità di caduta di un solido fosse
proporzionale al proprio peso, dimostrando invece che dipendeva dalla
diversa resistenza all'attrito dell'aria.
Le polemiche che ne seguirono convinsero G. di trasferirsi dapprima a
Firenze, e poi, grazie all'interessamento di amici nel Senato di Venezia, a
Padova, dove fu nominato nel 1592 cattedratico di matematica, posto che
mantenne fino al 1610. Il periodo di G. a Padova fu inoltre allietato dalla
nascita, tra il 1600 ed il 1606, dei suoi tre figli, Virginia, Livia e
Vincenzo, avuti dalla sua compagna, la veneziana Marina Gamba.


Gli studi astronomici
Nell'estate 1609, G. mise a punto un telescopio (seguito nel periodo 1619-24
dal microscopio o occhialini, come li chiamava lui), che tuttavia non fu
inventato, come spesso si crede, dal matematico pisano, bensì  dal
fabbricante di occhiali olandese Hans Lippershay, o Lipperhey (m. 1619), che
ne aveva depositato il brevetto il 2 ottobre 1608. Comunque, con questo
strumento G. iniziò una serie di osservazioni astronomiche che lo resero
celebre. Vide infatti che la Luna non era affatto una sfera perfettamente
liscia, ma della stessa natura della Terra, che la Via Lattea non era altro
che un ammasso di stelle, che Giove aveva un sistema di satelliti, da lui
denominati "stelle medicee" in onore di Cosimo II de' Medici (1609-1621). In
seguito egli scoprì gli anelli di Saturno, le fasi di Venere e le macchie
solari.
Tutte queste scoperte, riassunte nel Sidereus Nuncius del 1610 e
nell'Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari del 1612, misero in
crisi la tesi aristotelica della fissità della Terra e dell'unicità del
centro dei movimenti cosmici e rafforzarono la convinzione di G. nella bontà
della criticata teoria eliocentrica di Niccolò Copernico (1473-1543).
Nonostante ciò, G. fu ammirato, anche dalla stessa Chiesa, per le sue
scoperte e nel 1610 accettò la cattedra di matematica all'università di
Pisa.


Le accuse
Eppure una parte del mondo accademica aristotelico e del clero mal
sopportavano i suoi enunciati e lanciarono una campagna di pesanti accuse
contro il pisano. Iniziò il filosofo anti-copernicano Ludovico delle Colombe
(1565-ca. 1616), al quale seguì nel 1612 il predicatore domenicano Niccolò
Lorini, che accusò G. di eresia, e l'anno dopo, un altro domenicano Tommaso
Caccini (1574-1648) si recò perfino a Roma per esporre all'Inquisizione le
sue accuse contro G.
Quest'ultimo incominciò a preoccuparsi di questa situazione e scrisse, tra
il 1613 ed il 1615, quattro lettere (le cosiddette "lettere copernicane")
rispettivamente una all'amico Benedetto Castelli (1578-1643), due a
monsignor Pietro Dini (futuro arcivescovo di Fermo: 1621-1625) e una alla
granduchessa madre Cristina di Lorena (1565-1636), in cui egli si difese,
affermando l'autonomia della scienza dalla metafisica, e ribadendo che
alcuni punti delle Sacre Scritture erano stati scritti in forma volutamente
allegorica per i lettori culturalmente più semplici e che il testo non
sempre doveva essere preso alla lettera, in particolare per quanto
concerneva la natura.
Nonostante le argomentazioni di queste lettere e benché il Duca di
Acquasparta, Federico Cesi (1585-1630), fondatore dell'Accademia dei Lincei
nel 1603, lo mettesse in guardia di non esporsi troppo, nel febbraio 1616 G.
fu convocato a Roma per ordine del Papa Paolo V (1605-1621) ed il cardinale
gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621) (persecutore di Giordano Bruno e di
Tommaso Campanella) lo ammonì ufficialmente, attraverso un decreto del
Tribunale dell'Inquisizione, a non difendere l'astronomia copernicana in
quanto contraria alle dottrine della Chiesa: G. dovette obtorto collo
adeguarsi alle direttive papali.


Nuove accuse ed il processo
Tuttavia sette anni dopo, nel 1623, approfittando di una situazione
all'apparenza meno repressiva [nel 1621 era morto Bellarmino ed era salito
al potere nel 1623 il nuovo papa, amico di G. e senz'altro di visioni più
ampie di Paolo V, Urbano VIII (1623-1644)], G. scrisse Il saggiatore,
dedicandolo proprio al nuovo pontefice. Il libro, prendendo spunto da una
polemica con il matematico e architetto gesuita Orazio Grassi (1583-1654)
circa la natura delle comete, riportava invece la sua teoria della
conoscenza, dove, tra l'altro, venne ribadita la superiorità della natura ed
il rifiuto metodologico a riferirsi ad autorità precostituite o a sacri
testi, una vera stoccata polemica non tanto contro Aristotele, quanto contro
la scuola aristotelica dell'epoca e contro i gesuiti.
Poiché l'accoglienza del libro sembrò positiva, G. osò spingersi oltre,
arrivando a pubblicare nel febbraio 1632 il suo capolavoro, il Dialogo sopra
i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano: il dialogo,
articolato in quattro giornate, riportava le discussioni in tema di
astronomia, moto dei corpi e fenomeno delle maree, di tre studiosi,
l'aristotelico e tolemaico (quindi per G. altamente criticabile) Simplicio,
il giovane acuto e imparziale Sagredo e il copernicano Salviati (nel quale
si può identificare lo stesso G.). Tuttavia nelle conclusioni del libro G.
riportò, per bocca di Simplicio, il pensiero di Urbano VIII, secondo il
quale Dio, nella sua onnipotenza, può fare sì che i fenomeni osservati
convalidano (o meno) una teoria, e che quindi l'osservazioni degli eventi
non può condurre per forza di cose alla verità.
La reazione del papa stesso non si fece attendere: non potendo essere
attaccato per il contenuto del libro, regolarmente accettato dalla censura
ecclesiastica, nell'ottobre 1632 G. fu convocato a Roma da parte del Santo
Uffizio con l'accusa di non aver rispettato l'ordine di Bellarmino del 1616
di non difendere la teoria copernicana.
G. fu quindi processato e, sotto la minaccia della tortura, dovette abiurare
il 22 giugno 1633 in Santa Maria della Minerva. Secondo la leggenda, G.,
alzatosi in piedi dopo l'abiura, pronunciò a bassa voce la frase E pur si
muove, con riferimento al moto della Terra.


Il confino e la morte
Lo scienziato fu condannato al carcere perpetuo e venne trasferito dapprima
a Siena, sotto la custodia dell'amico e protettore arcivescovo Ascanio
Piccolomini (1597-1671), ma, pochi mesi più tardi, gli fu permesso di
trasferirsi nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, dove visse fino
alla sua morte.
Riuscì ancora a far pubblicare nel 1638 a Leida, in Olanda, i suoi Discorsi
e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze, attinenti alla
meccanica e i movimenti locali, e a ospitare alcuni allievi, come il suo più
fedele allievo Vincenzo Viviani (1622-1703), autore della Vita di Galileo,
ed Evangelista Torricelli (1608-1647), l'inventore del barometro, ma gli
ultimi anni furono resi dolorosi sia dalla morte nel 1634 della figlia
Virginia (1600-1634), diventata una religiosa carmelitana con il nome di
suor Maria Celeste e unico suo conforto durante il processo e nel periodo
immediatamente successivo, che dalla cecità progressiva, divenuta totale da
partire dal 1638.
G. morì ad Arcetri l'8 gennaio 1642.


Gallicanesimo (dal XVII secolo)



Per Gallicanesimo si intende quel complesso di dottrine, che asserivano
l'autonomia, più o meno estesa, della Chiesa francese dall'autorità del
Papato. Il G. si opponeva all'ultramontanismo, che favoriva la
centralizzazione dell'autorità della Curia papale.


Origini del Gallicanesimo
Il G. ha radici lontane: già nel IX secolo i papi, trovandosi
nell'impossibilità di ricondurre all'obbedienza quei nobili locali che si
erano impossessati di sedi vescovili in Francia, diedero un'autorità
spirituale ai re della dinastia carolingia, e i loro successori non
mancarono di esercitarla.
All'inizio del XIV secolo, le lotte fra Filippo il Bello e Papa Bonifacio
VIII (1294-1303) portarono drammaticamente alla luce lo scontro fra questi
due centri di potere. In questo contesto si inserì l'esilio del papato ad
Avignone (1309-1377) e le contestazioni del potere ecclesiastico di Papa
Giovanni XXII da parte dai pensatori Guglielmo di Ockham, Jean de Jandun e
Marsilio da Padova. Il lavoro principale di Marsilio, Defensor Pacis, fece
da riferimento alla successiva diatriba, che vide contrapposti i re di
Francia e l'università della Sorbona da una parte e il Papa [soprattutto
l'antipapa Benedetto XIII (1394-1423)] dall'altra, e sfociò nella Sanzione
Pragmatica di Bourges del 1438, voluta dal re Carlo VII (1422-1461) e che
proibì al papa di nominare suoi candidati per i benefici vacanti sul
territorio francese. La situazione migliorò con il Concordato di Bologna
(1516) tra il re di Francia, Francesco I (1515-1547), e Papa Leone X
(1513-1521): al re fu permesso di nominare vescovi ed altri ecclesiastici
francesi, che dovevano però essere confermati dal papa.
Alla fine del XVI secolo si affacciarono sulla scena il teologo zwingliano
Thomas Erastus, che nel 1589 pubblicò La nullità delle censure della Chiesa,
e l'avvocato calvinista, poi convertito al cattolicesimo, Pierre Pithou
(1539-1596), il quale nel 1594 pubblicò il caposaldo, contenenti 83 articoli
ben codificati, dei testi gallicani, Les libertés de l'église gallicane (Le
libertà della chiesa gallicana).


Il Gallicanesimo durante il regno di Luigi XIV di Francia
Ma fu soprattutto con il regno di Luigi XIV (1643-1715) che il g. divenne
sempre forte, dapprima con la dichiarazione dell'università della Sorbona
contro l'infallibilità del Papa e contro ogni possibile autorità gerarchica
di quest'ultimo sui re di Francia, poi con la crisi del 1682, scoppiata tra
Luigi XIV e Papa Innocenzo XI (1676-1689) e sfociata nei quattro articoli
gallicani approvati da un'assemblea del clero francese e che stabilivano:
1. Il Papa non aveva autorità sul potere temporale e il Re non era soggetto
alla Chiesa in materia di cose     civili.
2. Il Concilio Generale aveva autorità sul Papa.
3. Le antiche libertà della Chiesa francese erano inviolabili.
4. Il giudizio del Papa non era inconfutabile.
Nonostante le proteste di Innocenzo e del successore Alessandro VIII
(1689-1691), la polemica rientrò, almeno formalmente, con Innocenzo XII
(1691-1700), al quale lo stesso Luigi XIV scrisse per comunicare che era
stato impedita l'esecuzione pratica dell'editto del 1682.
Ciononostante lo spirito gallicano rimase vivo nel clero francese e
ricomparve in occasione della bolla Unigenitus del 1713. Questa bolla era
stata emanata da Papa Clemente XI (1700-1721) come condanna delle Reflexions
morales, un testo giansenista di Pasquier Quesnel, ma con una insolita
durezza, essa condannava frasi perfettamente ortodosse contenute nel testo.
Questo fatto provocò una momentanea scissione nella Chiesa Cattolica
francese quando il cardinale Louis Antoine De Noailles, arcivescovo di
Parigi (1651-1729), e otto (in seguito diciotto) altri vescovi, appoggiati
dalle facoltà di Parigi, Reims e Nantes, oltre a circa 3000 ecclesiastici,
non accettarono affatto i contenuti della bolla e si appellarono al sinodo
generale francese.
La reazione di Clemente XI fu durissima con l'emissione della bolla
Pastoralis officii (1718), che condannò l'appello e scomunicò gli
appellanti. Tuttavia i dissidenti rimasero sulle loro posizioni ed anche il
ritorno di De Noailles all'ortodossia nel 1728 non riportò la situazione
alla normalità: il parlamento francese continuò ancora per molto tempo a
rifiutare la bolla Unigenitus.


Il Gallicanesimo in altre nazioni
Nella metà del XVIII secolo, il g. iniziò ad attecchire in Olanda, in
Germania, dove prese il nome di febronianismo dallo pseudonimo (Febronio) di
Johann Nikolaus Hontheim, e perfino in Italia con il sinodo di Pistoia del
1786, presieduto dal vescovo Scipione de' Ricci, che tentò inutilmente una
riforma della Chiesa con l'introduzione di elementi gallicani, di una
maggiore moralizzazione del clero e, curiosamente, con l'abolizione del
latino nei riti: De' Ricci fu deposto nel 1790 e le conclusioni del sinodo
condannate dalla bolla Auctorem fidei del 1794, emessa da Papa Pio VI
(1775-1799).
Il g. tramontò definitivamente con il Concordato del 1801 tra Napoleone
Bonaparte (come imperatore: 1804-1814) e Papa Pio VII (1800-1823).


Gentile, Giovanni Valentino (1520-1566)



Giovanni Valentino Gentile, umanista e maestro di scuola calabrese, nacque
nel 1522 a Scigliano, vicino a Cosenza. Da giovane fu influenzato dalle
dottrine anabattiste di Giorgio Siculo, basate sul battesimo degli adulti e
sul valore puramente simbolico (negando la transustanziazione) della
Comunione.
Inoltre G. prese parte a Napoli ai circoli valdesiani (ispirati cioè al
pensiero di Juan de Valdès) e fece parte dell'Accademia Cosentina, poi
denominata Telesiana in onore di Bernardino Telesio.
Nel 1546 partecipò ai Collegia Vicentina a Vicenza, allineandosi alle idee
antitrinitarie (esiste un solo Dio; Gesù era un uomo ispirato da Dio) di
Lelio Sozzini.
Perseguitato dal Consiglio dei Dieci, fuggì nel 1557 con Apollonio Merenda
in Svizzera a Ginevra. Qui, nel 1558, si rese protagonista, assieme a
Giovanni Paolo Alciati della Motta e a Giorgio Biandrata, di una forte
polemica contro Calvino. Infatti il 18 maggio 1558 quest'ultimo aveva
chiesto a tutti gli italiani esuli a Ginevra di firmare un documento di fede
trinitaria, che G., in un primo momento, si rifiutò di firmare, ma poi
sottoscrisse probabilmente senza convinzione.
Infatti il G., assieme al Biandrata, aveva sposato la causa triteista,
basata sulla separazione delle tre persone Divine: Padre, Figlio e Spirito
Santo in tre Dei distinti. Di questi, però, solo il Padre era veramente
fonte di divinità, mentre gli altri due erano subordinati.
Queste idee furono successivamente assorbite dal filone unitariano dei
Sozzini, che propugnava l'esistenza di un solo Dio, affermando la natura
umana di Gesù e quella di potere santo per lo Spirito Santo.
Come era prevedibile, un mese dopo la firma del documento di Calvino, G. fu
denunciato, assieme a Nicola Gallo, e processato per eresia e bestemmia
direttamente da Calvino in persona. Indubbiamente gli andò meglio del povero
Michele Serveto, arso sul rogo: benché in un primo momento G. fosse stato
condannato alla decapitazione, l'esecuzione venne sospesa ed egli venne
condannato a girare, preceduto dagli araldi con le trombe, per la città in
camicia, a capo scoperto e a piedi nudi, per chiedere scusa pubblicamente
alle autorità. Oltre a ciò, dovette lui stesso dare alle fiamme i propri
scritti.
A quel punto il G., povero in canna, pensò ad un nuovo trasferimento
dapprima a Farges (nel Pays de Gex bernese), da Matteo Gribaldi Mofa, poi a
Lione, dove cercò di pubblicare il suo libretto Antidota, di forte sapore
antitrinitariano. Recatosi da Gribaldi, che stava insegnando a Grenoble, G.
fu nuovamente fatto arrestato dal balivo di Gex, ma, in attesa di essere
processato, si mise ulteriormente nei guai per aver pubblicato una
professione di fede antitrinitariana con dedica allo stesso balivo di Gex
(cosa che fece imbestialire quest'ultimo!).
Riuscì faticosamente a farsi scagionare, dimostrando che i suoi attacchi
erano diretti solamente contro Calvino e contro l'interpretazione della
Trinità che il riformatore ginevrino dava, ma fu per questo pesantemente
attaccato da Calvino stesso nel suo Impietas Valentini Gentilis del 1561.
Emigrò quindi, assieme ad Alciati della Motta, nel 1562 in Polonia, a
Pinczòw, al seguito del Biandrata e vi rimase fino al 1566, quando si fecero
sentire gli effetti dell'Editto di Parczòw del 1564, emanato dal re polacco
Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (1548-1572) e fortemente voluto dal
nunzio di Cracovia, cardinale Giovanni Francesco Commendone (1523-1584).
L'editto ordinava infatti l'espulsione immediata per tutti gli stranieri non
di fede cattolica.
A questo punto, il G. si recò, assieme a Bernardino Ochino e ad Alciati, ad
Austerlitz (in Moravia) presso Nicola Paruta. Ma anche questo gruppo ebbe
vita breve per la morte dell'Ochino nel 1565.
Il G. ritornò quindi in Svizzera, a Berna, confidando nel fatto che
l'ambiente fosse cambiato: erano infatti morti sia nemici, come Calvino nel
1564, che amici, come Gribaldi di peste nel 1565.
Tuttavia G. non riuscì a stare tranquillo, mettendosi ben presto nei guai
per aver provocatoriamente sfidato i teologi protestanti di Francia e Savoia
ad un dibattito pubblico sulla Trinità di Dio: la fazione perdente, secondo
lui, avrebbe dovuto essere condannata a morte! Fu invece arrestato,
sospettato di essere un anabattista (accusa molto grave in quel momento) ed
incarcerato a Berna nel 1566. Sia Theodore de Béze, e Johann Heinrich
Bullinger, che gli altri riformatori svizzeri consigliarono alle autorità
bernesi la massima severità contro questo impenitente antitrinitario
italiano, e, nonostante che Simone Simoni, visitandolo in carcere, lo avesse
esortato alla prudenza nella sua polemica nel confronti del calvinismo,
evidentemente G. non seguì questo consiglio: infatti il 10 settembre 1566 fu
giustiziato mediante decapitazione. Ma anche durante il percorso per il
patibolo, egli proseguì nella sua polemica, accusando i suoi carcerieri di
essere sabelliani.


Garatto (vescovo cataro) (XII secolo)



Vescovo della chiesa catara di Concorezzo, i cui membri vennero definiti
Garattisti, per l'appunto, da Garatto stesso.
Egli fu eletto al posto di Giovanni Giudeo e era candidato a diventare
l'unico prelato cataro italiano, ma non poté diventarlo perché venne
accusato di indegnità per colpa di una donna.
Rimase comunque vescovo fino al 1190, quando gli successe il suo "figlio
maggiore" Nazario.



Gaismair (o Gasmair), Michael (1490-1532)



Michael Gaismair, figlio di un imprenditore minerario e nato nel 1490 a
Vipiteno (Sterzing), nella frazione di Ceves (Tschöfs), in Alto Adige, era
il segretario del potente vescovo di Bressanone (Brixen).
Nel 1525 G. venne a contatto, rimanendone influenzato, con le idee
anabattiste di  Felix Mantz e Jorg Blaurock, che operavano in Val d'Isarco e
nei Grigioni (in Svizzera), e poco dopo, in Maggio, fu raggiunto dalle
notizie della Guerra dei Contadini in Germania, capitanate da un altro
riformatore rivoluzionario, incline al credo anabattista, Thomas Müntzer.
Poco dopo lo stesso Tirolo (dominio degli Asburgo) divenne una polveriera di
sommosse popolari, soprattutto nella Valle Passiria e in Val d'Isarco.
Queste rivolte contadine furono capitanate da un certo Peter Passler e da G.
stesso: vennero occupate e saccheggiate Bressanone e Novacella. I rivoltosi,
rinforzati dai minatori locali e dai superstiti della rivolta di Müntzer,
resistettero ai contrattacchi dell'esercito asburgico.
G. sognava di poter fondare una repubblica democratica nella zona e per
questo aveva già scritto il futuro assetto nel suo Ordinamento regionale del
Tirolo, dove egli prevedeva l'abolizione della Chiesa cattolica e dei suoi
riti, sostituiti da una fede, basata su un contatto diretto con Dio,
attraverso l'interpretazione personale delle Sacre Scritture.
G. inoltre immaginava utopisticamente l'eliminazione dei titoli nobiliari,
la nazionalizzazione delle terre e delle miniere, l'abbattimento delle mura
delle città, l'istituzione di scuole, ospedali, ricoveri per anziani etc.
Per superare le divergenze i capi della rivolta furono invitati alla dieta
regionale di Innsbruck (Giugno 1525) dal principe ereditario Ferdinando
d'Asburgo (n. 1503, imperatore 1558-1564). Vi si recò anche G., ma in Agosto
fu imprigionato a tradimento: dopo due mesi egli riuscì ad evadere,
recandosi in Svizzera (Canton Grigioni) dove, nella primavera 1526, continuò
la lotta con 700 armati ed emanò il suo Ordinamento regionale.
Il Bauernführer (capo dei contadini), come venne chiamato G., si rivolse
quindi al Doge di Venezia Andrea Gritti (1523-1538) per convincerlo a
sostenere militarmente la rivolta in Tirolo, ma non riuscì nel suo intento.
Il 15 Aprile 1532, mente era appunto nel territorio della Repubblica
veneziana, a Padova, G. cadde in una imboscata e fu ucciso da sicari,
probabilmente su ordine di Ferdinando d'Asburgo.
Il movimento di G. era quindi finito, ma non la turbolenza religiosa del
Tirolo, che, negli stessi anni, vide lo sviluppo della predicazione
anabattista con Jakob Hutter.


Gaufredi, Raymond (m. 1310)



Raymond Gaufredi (o Gaufridi o Ganfredi), nato in Provenza, fu Generale
dell'ordine francescano tra il 1289 ed il 1295 e cercò di favorire la
corrente degli spirituali, che osservavano alla lettera la Regola ed il
Testamento del Santo, desiderando mantenerne l'originale stile di vita.
G. pensò persino di riformare le regole dell'ordine al Capitolo Generale di
Parigi del 1292, ma fu preso in contropiede da una offerta di Papa Bonifacio
VIII (1294-1303) di ricoprire il posto di Vescovo di Padova. Avendo
rifiutato, fu costretto a dare le dimissioni dal Papa stesso, ma in seguito
egli iniziò una nuova attività come uno dei capi degli spirituali in
Provenza.
Nel 1310 venne convocato dal Papa Clemente V (1305-1314) ad Avignone, in
seguito all'intercessione del teologo spagnolo Arnaldo di Villanova (o di
Villanueva) presso il re di Napoli Roberto d'Angiò (1309-1343) e presso lo
stesso Clemente V, per cercare una intermediazione tra spirituali e
conventuali.
All'incontro, oltre a G., furono convocati il generale dell'ordine,
Gundisalvo di Valleboa e i capi spirituali Guy de Mirepoix, Bartolomeo
Sicardi e Ubertino da Casale.
L'incontro sortì qualche concessione agli spirituali, prontamente revocata
alla salita sul soglio pontificio di Papa Giovanni XXII (1316-1334), mortale
nemico degli spirituali.
Ma G. non poté vedere la lotta del suo movimento con Giovanni perché morì
repentinamente, come Guy de Mirepoix e Bartolomeo Sicardi, forse tutti e tre
avvelenati, proprio nel 1310 nei giorni dell'incontro con Clemente V.


Gaunilone (XI secolo)



Gaunilone era un monaco benedettino dell'abbazia di Marmoutier, vicino a
Tours, nella valle della Loira in Francia.
Nel 1070 egli aveva scritto il trattato Liber pro insipiente (libro in
difesa dello sciocco), contestando le prove dell'esistenza di Dio, prodotte
da San Anselmo d'Aosta, arcivescovo di Canterbury (1033-1109).
Quest'ultimo, nel suo Proslogion, affermava che gli uomini concepiscono Dio
come l'essere di cui non si può pensare nulla di maggiore e che, nel
pensarLo, Egli già esiste nella mente, e quindi anche nella realtà.
G., prendendo ad esempio uno sciocco che non credeva in Dio, sostenne che
non si poteva dedurre l'esistenza effettiva di un'isola semplicemente dal
concetto di una isola perfetta, quindi non si poteva dedurre l'esistenza di
Dio meramente dal Suo concetto.
La contestazione della prova ontologica di Anselmo da parte di G. incontrò
l'approvazione, due secoli dopo, di San Tommaso d'Aquino (1221-1274), che,
nella sua Summa theologiae, elaborò la teoria delle cinque dimostrazioni
dell'esistenza di Dio a posteriori.


Martinengo, famiglia (XVI secolo)



Prolifica e ramificata famiglia di nobili bresciani del XVI secolo aderenti
alla Riforma e protettori di pensatori ortodossi perseguitati, come Publio
Francesco Spinola che fu ospite della famiglia stessa nel 1560.
Di questa famiglia si ricordano:


1) Martinengo, Ulisse (ca. 1545-1570)
Il conte Ulisse Martinengo, nato a Brescia nel 1545 circa, quartogenito di
Alessandro Martinengo da Barco, signore di Urago (anch'egli interessato alle
dottrine protestanti), e di Laura Gavardo, era scappato per motivi di fede a
Ginevra, dove si era formato sotto la guida di Théodore di Bèze.
Successivamente frequentò la chiesa italiana di Anversa, in Belgio, finché
non emigrò in Valtellina con la madre vedova, Laura Gavardo, che aveva nel
frattempo aderito anch'essa al calvinismo.
In Valtellina, U. abitò in vari luoghi: a Chiavenna, Piuro, Sondrio, ma
soprattutto a Morbegno, dove divenne pastore protestante a fino alla sua
morte, sopravvenuta nel 1570: al suo posto subentrò Scipione Calandrini.


2) Martinengo, Massimiliano Celso (1515-1557)
Probabilmente il più famoso aderente bresciano alla Riforma fu il conte
Massimiliano Celso Martinengo (da alcune fonti erroneamente citato come
fratello di Ulisse), nato appunto a Brescia nel 1515 e diventato un canonico
regolare lateranense, con il nome di Don Celso, presso la chiesa di
Sant'Afra a Brescia.
Nel 1541 M. fu chiamato dal confratello Pier Martire Vermigli a Lucca per
insegnare greco al convento di San Frediano: i suoi colleghi furono Paolo
Lasize, insegnante di latino ed Emmanuele Tremellio (ca.1510-1580),
insegnante di ebraico. Poco dopo, essi furono raggiunti da Girolamo Zanchi,
che era stato nominato predicatore dell'ordine dei Canonici Regolari
Lateranensi: Zanchi, docente di teologia, diventò amico di M. e di Celio
Secondo Curione, precettore della famiglia lucchese Arnolfini.
Sia M. che Zanchi furono convertiti da Vermigli alla religione evangelica,
ma nel 1542 Vermigli fuggì a Ginevra per sottrarsi alle spire
dell'Inquisizione.
Partito il suo referente, M. fu nominato priore di San Frediano, dove rimase
per quasi dieci anni, riuscendo a mantenere un prudente atteggiamento
nicodemitico, fino al 1551, quando, accusato da Girolamo Muzio (1490-1576)
di aver predicato la giustificazione sola fide, decise anch'egli di seguire
le orme dell'antico maestro, prendendo cioè la via dell'esilio con
l'intenzione di recarsi in Inghilterra.
Dapprima si recò a Tirano, in Valtellina, dove però dovette assistere
impotente all'espulsione degli evangelici. In seguito M. andò a Ginevra: qui
si sposò con l'inglese Jane Stafford e accettò l'offerta di Calvino e di
Galeazzo Caracciolo di diventare il pastore della Chiesa degli Italiani in
esilio, punto di riferimento per i riformati italiani in fuga, come l'amico
Zanchi, che lo raggiunse nell'ottobre dello stesso 1551, o Ludovico Manna,
che fu suo catechista dal 1552.
A Ginevra M. rimase fino alla sua morte nel 1557, in seguito alla quale
venne sostituito da Lattanzio Ragnoni (1509-1559).
Dal punto di vista dogmatico, benché avesse avuto delle iniziali simpatie
per le idee anabattiste e antitrinitarie soprattutto durante il suo breve
periodo nella Valtellina, a Ginevra si conformò al credo riformista.
Tuttavia proprio quelle sue prime conoscenze gli permisero di inquadrare
personaggi, come Giorgio Biandrata e Lelio Sozzini, denunciando prontamente
le loro idee potenzialmente pericolose al suo protettore, il riformatore di
Zurigo Heinrich Bullinger.


3) Martinengo Cesaresco, Fortunato (attivo 1532-1547)
Il conte Fortunato Martinengo Cesaresco, che sposò nel 1542 la contessa
Livia d'Arco, fece parte del gruppo degli erasminiani, raccoltisi intorno ad
Aonio Paleario a Padova nel periodo 1532-1536.
Ebbe l'occasione inoltre di conoscere famosi riformati, come Pier Paolo
Vergerio in occasione di una visita nel dicembre 1545 a Brescia del vescovo
di Capodistria, che F. ospitò a casa sua, e Giulia Gonzaga nel 1547.
Di Fortunato è celebre un presunto ritratto eseguito da Moretto da Brescia
(ca. 1498-1554) nel 1542 e conservato alla National Gallery di Londra.


4) Martinengo, Lucillo (condannato 1569)
Il sacerdote benedettino Lucillo Martinengo, fratello (anche se le fonti di
araldica non confermano tale parentela) dei conti Claudio e Camillo
Martinengo, fu inquisito a Brescia nel 1568 come sospetto aderente alla
setta di Giorgio Siculo. Benché il tribunale dell'Inquisizione di Ferrara lo
condannasse per eresia, non poté comunque arrestarlo, perché Brescia era
sotto il governo della Repubblica di Venezia, che non ammetteva estradizioni
per simili motivi. Del caso si interessò perfino l'arcivescovo di Milano,
San Carlo Borromeo (1538-1584), che escogitò vari stratagemmi per assicurare
il prete eretico alla giustizia ecclesiastica.
Infine L. fu arrestato e processato nel convento di San Procolo a Bologna,
sebbene grazie all'influenza della propria famiglia e alle generose cauzioni
da essa versate, ottenne un trattamento di favore.
La sentenza fu quella del carcere perpetuo da scontare nel convento
benedettino di Cesena, ma dai documenti appare che già nel 1571 gli era
stata attenuata la pena.


Gentile, Giovanni Valentino (1520-1566)



Giovanni Valentino Gentile, umanista e maestro di scuola calabrese, nacque
nel 1522 a Scigliano, vicino a Cosenza. Da giovane fu influenzato dalle
dottrine anabattiste di Giorgio Siculo, basate sul battesimo degli adulti e
sul valore puramente simbolico (negando la transustanziazione) della
Comunione.
Inoltre G. prese parte a Napoli ai circoli valdesiani (ispirati cioè al
pensiero di Juan de Valdès) e fece parte dell'Accademia Cosentina, poi
denominata Telesiana in onore di Bernardino Telesio.
Nel 1546 partecipò ai Collegia Vicentina a Vicenza, allineandosi alle idee
antitrinitarie (esiste un solo Dio; Gesù era un uomo ispirato da Dio) di
Lelio Sozzini.
Perseguitato dal Consiglio dei Dieci, fuggì nel 1557 con Apollonio Merenda
in Svizzera a Ginevra. Qui, nel 1558, si rese protagonista, assieme a
Giovanni Paolo Alciati della Motta e a Giorgio Biandrata, di una forte
polemica contro Calvino. Infatti il 18 maggio 1558 quest'ultimo aveva
chiesto a tutti gli italiani esuli a Ginevra di firmare un documento di fede
trinitaria, che G., in un primo momento, si rifiutò di firmare, ma poi
sottoscrisse probabilmente senza convinzione.
Infatti il G., assieme al Biandrata, aveva sposato la causa triteista,
basata sulla separazione delle tre persone Divine: Padre, Figlio e Spirito
Santo in tre Dei distinti. Di questi, però, solo il Padre era veramente
fonte di divinità, mentre gli altri due erano subordinati.
Queste idee furono successivamente assorbite dal filone unitariano dei
Sozzini, che propugnava l'esistenza di un solo Dio, affermando la natura
umana di Gesù e quella di potere santo per lo Spirito Santo.
Come era prevedibile, un mese dopo la firma del documento di Calvino, G. fu
denunciato, assieme a Nicola Gallo, e processato per eresia e bestemmia
direttamente da Calvino in persona. Indubbiamente gli andò meglio del povero
Michele Serveto, arso sul rogo: benché in un primo momento G. fosse stato
condannato alla decapitazione, l'esecuzione venne sospesa ed egli venne
condannato a girare, preceduto dagli araldi con le trombe, per la città in
camicia, a capo scoperto e a piedi nudi, per chiedere scusa pubblicamente
alle autorità. Oltre a ciò, dovette lui stesso dare alle fiamme i propri
scritti.
A quel punto il G., povero in canna, pensò ad un nuovo trasferimento
dapprima a Farges (nel Pays de Gex bernese), da Matteo Gribaldi Mofa, poi a
Lione, dove cercò di pubblicare il suo libretto Antidota, di forte sapore
antitrinitariano. Recatosi da Gribaldi, che stava insegnando a Grenoble, G.
fu nuovamente fatto arrestato dal balivo di Gex, ma, in attesa di essere
processato, si mise ulteriormente nei guai per aver pubblicato una
professione di fede antitrinitariana con dedica allo stesso balivo di Gex
(cosa che fece imbestialire quest'ultimo!).
Riuscì faticosamente a farsi scagionare, dimostrando che i suoi attacchi
erano diretti solamente contro Calvino e contro l'interpretazione della
Trinità che il riformatore ginevrino dava, ma fu per questo pesantemente
attaccato da Calvino stesso nel suo Impietas Valentini Gentilis del 1561.
Emigrò quindi, assieme ad Alciati della Motta, nel 1562 in Polonia, a
Pinczòw, al seguito del Biandrata e vi rimase fino al 1566, quando si fecero
sentire gli effetti dell'Editto di Parczòw del 1564, emanato dal re polacco
Sigismondo II Iagellone, detto Augusto (1548-1572) e fortemente voluto dal
nunzio di Cracovia, cardinale Giovanni Francesco Commendone (1523-1584).
L'editto ordinava infatti l'espulsione immediata per tutti gli stranieri non
di fede cattolica.
A questo punto, il G. si recò, assieme a Bernardino Ochino e ad Alciati, ad
Austerlitz (in Moravia) presso Nicola Paruta. Ma anche questo gruppo ebbe
vita breve per la morte dell'Ochino nel 1565.
Il G. ritornò quindi in Svizzera, a Berna, confidando nel fatto che
l'ambiente fosse cambiato: erano infatti morti sia nemici, come Calvino nel
1564, che amici, come Gribaldi di peste nel 1565.
Tuttavia G. non riuscì a stare tranquillo, mettendosi ben presto nei guai
per aver provocatoriamente sfidato i teologi protestanti di Francia e Savoia
ad un dibattito pubblico sulla Trinità di Dio: la fazione perdente, secondo
lui, avrebbe dovuto essere condannata a morte! Fu invece arrestato,
sospettato di essere un anabattista (accusa molto grave in quel momento) ed
incarcerato a Berna nel 1566. Sia Theodore de Béze, e Johann Heinrich
Bullinger, che gli altri riformatori svizzeri consigliarono alle autorità
bernesi la massima severità contro questo impenitente antitrinitario
italiano, e, nonostante che Simone Simoni, visitandolo in carcere, lo avesse
esortato alla prudenza nella sua polemica nel confronti del calvinismo,
evidentemente G. non seguì questo consiglio: infatti il 10 settembre 1566 fu
giustiziato mediante decapitazione. Ma anche durante il percorso per il
patibolo, egli proseguì nella sua polemica, accusando i suoi carcerieri di
essere sabelliani.


Templari (Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone) (1118-1311)



Le origini
Alla fine della prima Crociata conclusosi con la conquista di Gerusalemme il
15 Luglio 1099, molti crociati considerarono esaurito il proprio compito e
quindi ritornarono in patria, lasciando però la difesa delle precarie
conquiste ad un esiguo contingente militare, letteralmente circondato dai
mussulmani.
Fu così che nel 1118, durante il regno di Baldovino II di Gerusalemme
(1118-1131), un cavaliere di Troyes, nella regione francese dello Champagne,
Ugo di Payens (o Payns o Paganis) (m. 1136) e otto suoi compagni, fecero
voto di difendere i viaggi dei pellegrini nel pericoloso tratto tra il porto
di Jaffa e la città di Gerusalemme, obbligandosi anche alla regola di
povertà, castità e obbedienza, un primo caso quindi di veri monaci
guerrieri.
Si potrebbe obbiettare che nove cavalieri erano un po' pochi per difendere
il percorso tra Jaffa e Gerusalemme, ma bisogna considerare che ciascun
cavaliere aveva comunque un discreto seguito di "fratelli attendenti" o
"sergenti", ossia di cavalleria leggera.
Furono immediatamente e con gratitudine accettati da re Baldovino e dal
Patriarca Stefano de la Feré e alloggiati presso la moschea di al-Aqsa, dove
una volta sorgeva il tempio di re Salomone, e per i loro voti pronunciati e
questa ubicazione furono denominati Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio
di Salomone o più semplicemente Templari.
Nel 1128, al concilio di Troyes, voluto da Papa Onorio II (1124-1130), i T.
furono riconosciuti come ordine e San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) ne
giustificò l'uso delle armi e ne compilò la Regola, come quella dei
Benedettini, riformata dai Cistercensi. Similmente a questi ultimi, i T.
portarono un mantello bianco, al quale nel 1147 fu autorizzata da Papa
Eugenio III (1145-1153) l'aggiunta di una croce rossa.
I T. incontrarono immediatamente i favori sia dei Papi, ai quali giurarono
sempre eterna obbedienza, che dei regnanti dell'epoca e, grazie alla
concessione di privilegi, lasciti e donazioni, il tutto esentasse,
diventarono ben presto potentissimi e influenti.
Essi svilupparono una organizzazione ben strutturata, comandata da un
Maestro dell'Ordine e divisa in provincie territoriali e molti valenti
cavalieri dell'aristocrazia europea fecero a gara per entrare nei loro
ranghi.
Svilupparono infine il primo sistema bancario del Medioevo e garantirono per
l'emissione delle prime lettere di credito.


La difesa della Terrasanta
I T. si distinsero nelle varie battaglie che vennero combattute contro i
mussulmani negli anni successivi alla fondazione del loro ordine e spesso i
Maestri dell'Ordine cadevano combattendo, come Bernardo di Tremelay
all'assedio di Ascalona nel 1153.
Il formidabile avversario, che essi si trovarono a fronteggiare, era il
famoso sultano d'Egitto Salah Al-Din (Saladino) (sultano:1176-1193), il
quale in pochi anni riuscì a mettere in ginocchio i regni cristiani in
Terrasanta, approfittando anche degli intrighi e congiure tra le file degli
occidentali, dai quali non erano esenti neanche i T. stessi.
Questi, con il Maestro Gerard di Rideford in testa, vanificarono gli sforzi
di Raimondo III, conte di Tripoli, di ottenere un patto di convivenza con
gli arabi. L'esito fu disastroso: nella battaglia del Monte Hattin del 1187
(seguita dalla caduta di Gerusalemme), l'esercito cristiano fu pesantemente
sconfitto e tutti i T. presenti furono massacrati, eccetto Gerard, che si
dice avesse abiurato, diventando mussulmano.
I T. allora cambiarono tattica: presiediarono i punti nevralgici
asserragliandosi nelle loro grandiose fortezze, come il Krak dei Cavalieri e
uscendone per compiere veloci sortite, ma purtroppo anche azioni di vero e
proprio taglieggiamento delle carovane di pasaggio.
Negli anni successivi, dal 1189 al 1228, furono organizzate altre 3 crociate
(III, IV, V), ma, nonostante tutti gli sforzi, nel 1244 il regno di
Gerusalemme diventò definitivamente mussulmano. Nello stesso 1244, i T., con
il Maestro Armand di Périgord, pur alleandosi  momentaneamente con gli
odiati rivali dell'Ordine degli Ospitalieri e perfino con il sultano di
Damasco, non riuscirono ad evitare la sconfitta ad opera dei Mongoli nella
battaglia di Gaza , dove lasciarono sul campo 312 cavalieri, compreso il
Maestro stesso.
Le due ultime disastrose Crociate (VI e VII), organizzate da re (San) Luigi
IX di Francia (1226-1270) accelerarono la caduta dell'ultimo baluardo
cristiano in Terrasanta di San Giovanni d'Acri nel 1291. Molti T. furono
uccisi durante l'assedio, compreso il Maestro Guglielmo di Beaujeu, e i
superstiti riuscirono a fuggire a Cipro.


Il declino
Persa la Terrasanta, contrariamente agli altri ordini cavallereschi, i quali
si posero un altro obiettivo geografico per la difesa della Cristianità (i
Teutonici a Nord-Est e gli Ospitalieri di San Giovanni a Rodi), i Templari
superstiti rimasero militarmente "disoccupati", se si esclude la Spagna dove
combatterono contro i Saraceni.
E sì vero che i T. difesero Cipro, ma il processo in Francia fece sì che a
questa difesa venne data bassa priorità, ed infatti già nel 1310 essi
abbandonarono l'isola in seguito alla riconquista del potere da parte del re
Enrico II di Cipro e Gerusalemme, spalleggiato dagli Ospitalieri.
In Europa incominciò a diffondersi l'idea che era stata colpa dei T. la
perdita della Terrasanta e quindi che era inutile mantenere in vita
l'Ordine, idea corroborata oltretutto dal fatto che la potenza dei T. , veri
e propri banchieri mercantili, nella finanza e nella diplomazia incominciava
a dare fastidio a molti.
Inoltre la fedeltà esclusivamente verso il Papa fu invisa dal clero
secolare, particolarmente dai vescovi, che mal sopportavano la loro totale
autonomia di azione sul territorio.
Comunque il destino dei t. fu segnato dalle lotte tra il Papa Bonifacio VIII
(1294-1303) ed il re di Francia Filippo IV, detto il Bello (1285-1314),
scomunicato da Bonifacio nel 1302 per una diatriba sui limiti dei poteri
della Chiesa e dello Stato.
Era un momento negativo per Filippo, che, oltretutto, era stato sconfitto
dai Fiamminghi a Courtrai nel 1302 ed era sull'orlo della bancarotta, dal
quale si poté risollevare solo attingendo a pesanti prestiti da parte dei T.
e fu proprio allora che Filippo concepì il suo piano: indebolire il papato
ed incamerare i beni dei T.
Per la prima parte del suo piano, fece sequestrare e maltrattare Bonifacio
nel suo palazzo di Anagni (il cosiddetto "schiaffo di Anagni") da parte
della sua anima nera, Guglielmo di Nogaret. Benché Bonifacio venisse
liberato dal popolo indignato, morì per lo choc riportato qualche settimana
dopo.
Il nuovo Papa, Benedetto XI (1303-1304) non durò molto: morì infatti il 7
Luglio 1304 per una indigestione di fichi...avvelenati con polvere di
diamante da Guglielmo di Nogaret.
Della morte fu ingiustamente incolpato il francescano Bernard Délicieux, che
aveva incautamente scritto al medico del Papa, Arnaldo di Villanova, che
dalle profezie di Gioacchino da Fiore si poteva desumere la morte del papa
per il 1304.
In realtà il regista dell'assassinio fu il solito Filippo il Bello, a cui
era rimasta "indigesta" una bolla papale con una sua condanna come mandante
per il famoso episodio dello "schiaffo di Anagni".
Finalmente un anno dopo Filippo riuscì a far eleggere il "suo" Papa,
Clemente V (1305-1314), un uomo debole e influenzabile, e a far trasferire
la sede papale sotto la sua "protezione" ad Avignone.
Con Clemente, Filippo giocò pesante minacciando di allestire un processo per
giudicare postumo Bonifacio, accusato di eresia e magia nera. Pare che, pur
di salvare l'onore della Chiesa, Clemente acconsentì a procedere contro i
Templari, l'altra spina nel fianco di Filippo.


La fine
Il 13 Ottobre 1307 (un venerdì 13!), tutti i T. sul territorio francese,
compreso il Maestro Giacomo di Molay (1243-1314), furono arrestati su ordine
di Filippo. L'accusa fu di eresia, basata sulle farneticanti dichiarazioni
di un tale Esquieu de Floryan, testimone diretto di una "confessione" di un
T. espulso dall'ordine e suo compagno di cella nel carcere di Béziers.
Quest'ultimo aveva narrato di un cerimoniale basato sul rinnegamento di
Cristo, di sputi sulla Croce, di sodomia e baci osceni, di riti magici e
tanto bastò a Guglielmo di Nogaret per imbastire un clamoroso processo a
carico del più potente Ordine religioso dell'epoca.
Iniziarono i primi interrogatori con ampio utilizzo della tortura,
nonostante i deboli tentativi di protesta da parte di Clemente V: tuttavia
Giacomo di Molay si rivelò un osso molto più duro del previsto, fermo nella
difesa dell'ortodossia dell'Ordine.
Nel 1310 le prime vittime: 54 T. ritrattarono le confessioni estorte con la
tortura, vennero quindi considerati relapsi e immediatamente bruciati sul
rogo.
Nel 1311 venne indetto il Concilio di Vienne (nel Delfinato) per dirimere la
questione, ma durante il suo svolgimento, Clemente, che non si decideva mai
a prendere posizione tra il parere dei vescovi favorevoli a mantenere
l'Ordine e quello del re favorevole ad una pesante condanna dell'Ordine,
decise nel 1312 per una sentenza (bolla Vox in excelso) degna di Ponzio
Pilato. Fu infatti ratificata la soppressione (ma non la condanna)
dell'Ordine con passaggio dei beni dei T. agli Ospitalieri, che dovettero
sganciare ben 1 milione di lire tornesi a Filippo per venirne in possesso.
Tuttavia, a carico dei principali responsabili, la commissione cardinalizia
(tutti fidati alleati di Filippo) emise il 18 Marzo 1314 un verdetto di
condanna al carcere a vita, previa confessione pubblica.
La sentenza fu letta a Giacomo di Molay e al gran precettore di Normandia,
Geoffroy di Charnay, oltre ad altri due T. di prestigio, ma, a sorpresa, sia
Giacomo che Geoffroy presero la parola per ritrattare le loro confessioni
ottenute con le solite torture.
Filippo allora, senza consultare il Papa, convocò quel giorno stesso il
consiglio di stato, dove venne pronunciata l'immediata sentenza di morte per
i due capi T.: essi morirono sul rogo la sera del 18 su una isoletta sulla
Senna, alle spalle di Notre Dame.
Una leggenda vuole che Giacomo predisse la morte sia di Clemente che di
Filippo prima della fine dell'anno ed effettivamente i due morirono
rispettivamente nell'Aprile e nel Novembre del 1314, tuttavia è facile
creare la leggenda di una profezia dopo che il fatto predetto è già
accaduto!
Negli altri paesi europei non si procedette con lo zelo dei francesi, e
spesso i re (per esempio Eduardo II d'Inghilterra), solo dopo richiami
ripetuti del Papa ai loro doveri, imbastirono dei processi molto formali
contro i T., che furono di sovente assolti.
In Spagna e in Portogallo, per esempio, essi confluirono in due ordini
religiosi: l'Ordine dei Cavalieri di Santiago (San Giacomo) e l'Ordine dei
Cavalieri di Cristo.


Le accuse
Come si diceva, le accuse furono varie e diedero a tutta una serie di
interpretazioni esoteriche nei secoli successivi:
I baci sulla bocca, sul ventre, sull'ano e sulla spina dorsale avrebbero
potuto far parte di un rito iniziatico di origine orientale, che ricordava
la rivitalizzazione dei chakra, punti energetici seconda la dottrina indiana
dei Tantra.
L'adorazione della testa (o immagine) di un uomo barbuto, noto come
Bafometto (forse una storpiatura del nome di Maometto) si riferirebbe al
culto di San Giovanni, vero Messia secondo alcuni gnostici, come i Mandei.
Secondo altri si tratterebbe del Mandylion, l'immagine di Gesù rimasta
impressa sul velo della Santa Veronica (personaggio rappresentato nella
sesta stazione della Via Crucis, ma mai citato da nessuno dei Vangeli)
oppure la Sindone stessa, trovata dai T. e trasferita da essi in Europa
occidentale.
Lo sputare sul crocefisso confermerebbe che i T. erano venuti a sapere che
durante la crocifissione, Gesù era stato sostituito da qualcun altro, idea
docetista già espressa dal maestro gnostico Basilide.
L'accusa di magia era collegata al fatto che i T. avessero praticato
l'alchimia e seguito le dottrine della Cabala giudaica: questa ipotesi fu
proposta dal cabalista del `500, Cornelius Agrippa di Nettesheim.


Le leggende
Mai come nel caso dei T., dopo la loro scomparsa, si poté dare libero sfogo
a tutta una serie di leggende, fatti curiosi o speculazioni (più o meno
fantasiose), che riporto sommariamente.
Si disse:
Che la flotta T., di stanza a La Rochelle, fosse sfuggita alla cattura,
partendo, appena in tempo, per fare rotta sulla Scozia (o addirittura in
America, secondo un altro autore), dove i T. avrebbero aiutato il re Robert
I Bruce (1306-1329) a sconfiggere gli inglesi nella battaglia di Bannockburn
del 1314.
Che, successivamente, per sfuggire all'Inquisizione, sempre i T. "scozzesi"
avrebbero deciso di darsi una struttura di società segreta, la quale sarebbe
stata progenitrice (addirittura senza soluzione di continuità!) del
Rosacrocianesimo del XVII secolo o della Massoneria del XVIII secolo.
Che per uno T. "scozzese" morto in battaglia in Lituania, Guglielmo di Saint
Clair (diventato poi Sinclair), il suo omonimo discendente Sir William
Sinclair avrebbe costruito (ufficialmente per la propria famiglia) una
cappella commemorativa a Rosslyn (vicino ad Edimburgo) nel 1446, piena di
riferimenti esoterici massonici (ante litteram) e con un fregio che richiama
la pannocchia del mais, allora sconosciuta in Europa, ma non in America
(vedi punto 1).
Che i T. avessero scavato nel sottosuolo del Tempio di Salomone, riportando
alla luce misteriosi e compromettenti documenti sulle verità nascoste del
Vangelo o addirittura avessero trovato l'Arca dell'Alleanza o perlomeno che
sapessero la sua esatta ubicazione (Axum in Etiopia).
Che avessero sponsorizzato la costruzione delle ardite cattedrali gotiche,
come quella di Chartres, riempendole di simbologie mistiche, legate a culti
segreti, come la venerazione di Maria Maddalena, "sposa" di Gesù ecc.
Che avessero favorito la diffusione dei tarocchi, le carte da gioco,
nascondendo nei loro complessi disegni un'intera sapienza iniziatica, da
loro appresa in Terrasanta.
Che avessero fatto alleanze nascoste con i catari, perseguitati nello stesso
periodo e che ambedue i gruppi conoscessero certi segreti, come la località
della tomba di Gesù in Francia, il segreto del Graal ecc.


Comunque, ogni ulteriore approfondimento su questi argomenti esula dagli
scopi di questa opera ed è sufficiente navigare in Internet per trovarvi
ampio materiale.


Gerardo di Borgo San Donnino (m. 1276)



Fra Gerardo di Borgo San Donnino, francescano siciliano, completò i suoi
studi di grammatica a Parigi, dove nel 1248, secondo Salimbene da Parma, si
fece una certa notorietà cercando di far desistere (inutilmente) il re Luigi
IX (1226-1270) dall'organizzare la sesta crociata, conclusasi con la
sconfitta di Mansura (in Egitto) del 1249 e la conseguente cattura del re
francese da parte dell'esercito mussulmano.
G. aveva ben presto sposato le tesi di Gioacchino da Fiore, sulle opere del
quale egli scrisse a Parigi, intorno al 1250, un trattato dal titolo
Introductorium in Evangelium Aeternum, nel quale identificava l'ordine dei
francescani con l'ordine dei giusti.
Questo testo fu esaminato da una commissione di cardinali, convocata nel
1254 da Papa Alessandro IV (1254-1261), preoccupato del diffondersi delle
idee gioachimite presso i frati francescani.
Erano infatti passati quasi 40 anni dalla condanna delle idee di Gioacchino
da Fiore nel Concilio Lateranense del 1215 e, nonostante ciò, esse godevano
ancora di grande popolarità: perfino il ministro generale dell'ordine
francescano, Giovanni da Parma, era un fervente seguace delle teorie del
grande mistico calabrese e per questo motivo egli venne destituito e
condannato al confino nell'eremo di Greccio.
Il destino di Fra Gerardo non fu certo migliore: nel 1255 il suo libro fu
condannato ad essere distrutto ed il suo autore, non volendo riconoscersi
colpevole, fu a sua volta condannato al carcere a vita, dove rimase fino
alla sua morte nel 1276.
Alla sua morte gli fu perfino negata la sepoltura religiosa.
In seguito alla vicenda del trattato di G., l'ordine francescano promulgò un
decreto che proibiva la pubblicazione di qualsiasi libro senza una speciale
autorizzazione scritta dei propri superiori: questo ordine creò notevoli
difficoltà ad un altro pensatore francescano del momento: Ruggero Bacone.


Gerardo di Monforte (XI secolo)



Gerardo era il capo di una comunità di eretici, che, nei primi anni del XI
secolo operava dal castello di Monforte (nelle Langhe, in provincia di
Cuneo), sotto la protezione della stessa Contessa di Monforte.
Nel 1026 ca., Ariberto di Intimiano (ca. 967-1045), arcivescovo di Milano e
Alrico, vescovo di Asti, furono informati su questa setta, che, secondo la
tesi di qualche autore, rappresentava una minaccia in una zona militarmente
controllata dal sistema di alleanze del potente arcivescovo di Milano, a sua
volta fautore del partito filo-imperiale.
Comunque, fossero motivi politici o religiosi, Ariberto fece assediare,
espugnare e distruggere il castello di Monforte e trascinare gli eretici a
Milano per essere giudicati.
G. fu interrogato e diede ampi particolari sugli usi della setta, la quale
pare fosse guidata da un gruppo di maggiorenti con funzione di sacerdoti e
dedita all'interpretazione spirituale ed allegorica della Bibbia ed ad una
vita spartana, caratterizzata dal rifiuto della proprietà, del matrimonio e
della sessualità e dalla dieta vegetariana. Essi, inoltre, rigettavano i
sacramenti cattolici e bramavano, secondo G., il martirium, una morte tra le
sofferenze, unica maniera per evitare gli eterni tormenti.
Questo odio della vita ricordava la filosofia dei catari con due secoli di
anticipo.
G. e i suoi discepoli accettarono quindi la condanna al rogo, dove furono
bruciati nel 1028 a Milano. Secondo alcuni autori, l'episodio fece vivissima
impressione sui milanesi, che chiamarono Monforte il luogo dell'esecuzione,
nome con il quale è tuttora conosciuta questa zona di Milano.
Nuovamente, come nell'episodio di Leutard di Châlons-sur-Marne, in questa
eresia si potevano notare delle infiltrazioni di dottrine bogomile.


Lando, Ortensio (fra Geremia da Milano) (ca.1512-dopo 1555)



La vita
Il predicatore, scrittore e traduttore Ortensio Lando nacque a Milano nel
1512 circa e, dopo essersi dedicato a studi letterari e umanistici, entrò
nell'ordine agostiniano, cambiando il proprio nome in fra Geremia da Milano.
Dal 1531 al 1533 L. fece parte del convento di San Giacomo Maggiore a
Bologna, dove poté, assieme ai concittadini milanesi Giulio Della Rovere e
Ambrogio Cavalli, all'umanista abruzzese Giovanni Angelo Odoni e allo
studente di diritto Fileno Lunardi (che alcuni identificano con Camillo
Renato), approfondire i suoi studi sul pensiero di Erasmo da Rotterdam.
Vero spirito inquieto, che per tutta la sua vita errò da un convento
all'altro (Milano, Napoli, Bologna), nel maggio 1534 L. fu invitato a Lucca,
nella villa di Forci, dall'influente mercante Vincenzo Buonvisi, conosciuto
a Lione. A Forci il predicatore milanese conobbe (e descrisse nelle sue
Forcianae Quaestiones del 1535) la crema dell'oligarchia lucchese, come gli
Arnolfini, i Guidiccioni, i Guinigi, e ritrovò il confratello Giulio Della
Rovere. Anche a Forci si discuteva entusiasticamente del pensiero di Erasmo,
il cui trattato Ciceronianus era stato approfondito nel Cicero relegatus et
Cicero revocatus, la prima opera di L., dove egli scrisse delle due anime,
erasminiana e ciceroniana, che si dibattevano in lui.
In seguito, L. maturò la decisione di abbandonare la tonaca, in particolare
dopo che aveva aderito intorno al 1550 alla dottrina luterana della
giustificazione per fede. Dovette quindi riparare all'estero, per sfuggire
alle persecuzioni, e qui condusse una vita irrequieta e vagabonda tra
Francia, Germania, e Svizzera, rientrando ogni tanto in Italia, per esempio
a Venezia.
Dopo il 1555 si perdono le sue tracce.


Le opere
L., definito un "poligrafico", o più crudamente un grafomane, da Manfred
Welti, fu infatti uno scrittore molto prolifico: a parte i già citati Cicero
relegatus et Cicero revocatus e Forcianae Quaestiones, egli pubblicò una
trentina di testi, fra cui il dialogo In desiderii Erasmi funus, pungente
attacco contro quei riformatori che avevano tradito lo spirito erasmiano, il
Commentario delle più notabili e mostruose cose d'Italia, descrizione di un
singolare viaggio intrapreso da un cittadino di Utopia attraverso la
penisola, i trenta Paradossi pubblicate nel 1544 dove dissertò sulla
povertà, l'ignoranza, la guerra, la prigionia e la morte ed infine molti
testi contenenti aforismi di stile molto dissacrante.
Infine L. curò la prima traduzione italiana dell'Utopia del grande filosofo
inglese Tommaso Moro (Thomas More) (1478-1535).


Turrettini, famiglia (XVI e XVII secolo)



Famiglia di riformatori esuli lucchesi (per la particolare situazione di
Lucca nel XVI secolo, vedi Burlamacchi) del XVI e XVII secolo, di cui si
ricordano:


1) Turrettini, Francesco (1547-1628)
Figlio del gonfaloniere (capo magistrato) Regolo, Francesco Turrettini, nato
a Lucca il 5 maggio 1547, fu il primo della famiglia a convertirsi alla
Riforma. In seguito a questa decisione, F. si trasferì all'estero, a Lione,
Ginevra (dal 1574 al 1579, e dove lo raggiunse la notizia della sua condanna
come eretico e relativa confisca dei suoi beni, pronunciata a Lucca il 28
febbraio 1578), Anversa (dal 1579 al 1585), Francoforte, Basilea e Zurigo
(dove si rifece una fortuna nel commercio della seta e sposò nel 1587
Camilla Burlamacchi, figlia di Michele), per stabilirsi definitivamente a
Ginevra nel 1592. Nel 1627 venne accettato come cittadino di Ginevra ed
eletto come membro dei Duecento e del Consiglio dei Quaranta. Assieme a
Pompeo Diodati, Orazio Micheli (n. 1553), Fabrizio Burlamacchi e Cesare
Balbani, F. creò il cartello dei commercianti di seta ginevrini, denominato
La Grande Boutique.
Morì nel 1628, alla vigilia di una grave crisi economica, che segnò il
declino dell'industria della seta, quindi la fortuna dei Turrettini, che
comunque sfornò da quel momento non più capaci mercanti, bensì ottimi
teologi riformati.


2) Turrettini, Bénédict (1588-1631)
Figlio primogenito di Francesco, Bénédict (Benedetto) Turrettini, nato a
Zurigo l'8 novembre 1588, era un apprezzato pastore riformato e dal 1612
professore di teologia. Nel 1620 fu delegato a partecipare al sinodo di
Ales, dove sostenne le ragioni di Franz Gomar contro Jacob Arminio e dove
furono introdotte in Francia le decisioni del sinodo di Dordrecht (tuttavia
negli ultimi anni della sua vita eglifu abbastanza tollerante verso gli
arminiani). Ebbe sei figli, di cui il terzogenito fu Francesco (o François).
Morì a Ginevra il 4 marzo 1631.


3) Turrettini, Francesco (o François) (1623-1687)
Il più famoso della famiglia Turrettini, Francesco (o François), terzogenito
di Bénédict, nacque il 17 ottobre 1623 a Ginevra, dove studiò all'accademia
sotto la direzione di Giovanni Diodati, Friedrich Spanheim (1600-1649),
Alexandre Morus (1578-1651) e Theodore Tronchin (1582-1657).
In seguito viaggiò per motivi di studio a Utrecht, Parigi [dove ebbe come
maestri Pierre Gassendi (1592-1655) e David Blondel], Saumur, Montaubon e
Nimes. A Saumur egli fu coinvolto in una disputa teologica con il teologo
Moise Amyraut, fautore dell'universalismo ipotetico o condizionale (la
volontà, cioè, di Dio di salvare tutti a condizione che essi avessero
creduto) contrapposto al concetto calvinista ortodosso della predestinazione
degli eletti.
F. ritornò nel 1648 a Ginevra e fu nominato pastore della locale comunità
italiana, mentre nel 1650 egli rifiutò la nomina alla cattedra di filosofia
dell'accademia di Ginevra, e nel 1652 si recò a Leida come pastore della
città, dopo la morte di Aaron Morus (1624-1652).
Richiamato indietro a Ginevra a furor di popolo nel 1653 fu nominato
successore (nel 1657) di Theodore Tronchin come professore di teologia
all'accademia, dove, nella sua attività educatrice, osservò una rigorosa
ortodossia riformata, lottando contro divagazioni arministe o sociniane.
F. fu incaricato diverse volte di svolgere missioni all'estero a favore
della repubblica di Ginevra, come nel 1661-62 quando, per cercare fondi
necessari alla fortificazione delle mura della città svizzera, si recò
presso gli Stati Generali in Olanda. Qui fu invitato a stabilirsi, ma
rifiutò per ritornare a svolgere un'attività di intermediazione a Ginevra,
dove l'arminista Louis Trochin (1629-1705) (il figlio di Theodore) stava
contestando la crescente intransigenza della Venerabile Compagnia dei
Pastori.
Nel 1669 F. si sposò con Isabelle de Masse e dal matrimonio nacquero 4
figli, di cui sopravvisse solo l'ultimo, Jean Alphonse.
Nel 1675 F. fu autore, assieme a Johann Heinrich Heidegger (1633-1698) di
Zurigo, Lukas Gernler (1625-1676) di Basilea ed ad altri riformatori, della
Formula consensus Ecclesiarum Helveticarum Reformatarum, la confessione di
fede calvinista, risposta ortodossa all'amyraldismo e che, dal 1679, i
pastori e i professori dell'accademia ginevrina dovevano obbligatoriamente
sottoscrivere.
Gli ultimi anni della sua vita furono amareggiati dalle notizie delle
persecuzioni dei valdesi da parte dei Duchi di Savoia [Vittorio Amedeo II di
Savoia (1675-1732) emise nel 1686 un editto, che stabiliva l'espulsione o la
conversione forzata dei protestanti piemontesi] e degli ugonotti in Francia,
dopo la revoca nel 1685 dell'editto di Nantes.
F. morì a Ginevra il 28 settembre 1687.
La sua attività letteraria comprende la monumentale opera principale
Institutio Theologiae Elencticae (1679-82), diversi sermoni (1674), i studi
sulla Giustificazione di Cristo (1666), il trattato I papisti e le
rivendicazioni dei riformati (1664).


4) Turrettini, Jean Alphonse (1671-1737)
L'unico figlio sopravvissuto di François, Jean Alphonse nacque a Ginevra il
13 agosto 1671 e studiò con il teologo arminista Louis Trochin, il filosofo
cartesiano Jean Robert Chouet (1642-1731) e gli storici Friedrich Spanheim e
Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704).
Conclusi brillantemente i suoi studi nel 1691, egli fece un viaggio di studi
in Olanda, in Inghilterra a Cambridge, conoscendo, fra gli altri, Isaac
Newton (1642-1727), e in Francia, dove venne influenzato dalle idee di
Nicholas Malebranche (1638-1715).
Ritornato a Ginevra per motivi di salute, nel 1693, all'età di 22 anni entrò
a far parte della Venerabile Compagnia dei Pastori e nel 1697 accettò
l'offerta di un professorato di Storia Ecclesiastica e successivamente, nel
1705, quella di docente di Teologia.
Il suo nome fu legato al periodo di liberalizzazione della disciplina
ecclesiastica calvinista (fu uno dei principali artefici nell'abolizione nel
1706 del Consensus Helveticus, tanto voluto da suo padre), all'apertura
dell'accademia ginevrina a materie non ecclesiastiche, come la matematica, e
alle variazioni introdotte nella liturgia rigidamente riferita agli
insegnamenti di Calvino. Fu uno dei più grandi pensatori irenici calvinisti
dell'epoca e i suoi sforzi, che ricordavano un po' quelli del teologo
luterano Georg Callisen (Calixtus), per una riunificazione con le altre
anime del protestantesimo (luteranesimo e anglicanesimo) interessarono
personaggi come il re di Prussia, Federico I (1701-1713), il filosofo
Gottfried Wilhelm Leibniz (1646-1716) e l'arcivescovo anglicano di
Canterbury William Wake (1657-1737).
Nella sua opera più famosa, la Nubes testium pro moderato et pacifico de
rebus theologicis judicio, et instituenda inter Protestantes concordia del
1719, egli cercò di distinguere fra dottrine fondamentali e sostanziali e
insegnamenti protestanti non essenziali: solo i primi, punti fondamentali
della fede, erano veramente necessari, per il resto era possibile trovare un
accordo a patto che si ricorresse di più alla tolleranza ed al dialogo con
le altre confessioni.
J. morì a Ginevra il 1 maggio 1737.


De Ries, Hans (1553-1638) e waterlanders



I waterlanders
Dopo la morte nel 1561 del leader anabattista Menno Simons, i suoi seguaci
furono denominati mennoniti: quasi immediatamente iniziarono le secessioni
interne al movimento: la prima e più importante fu quella dei waterlanders
(il Waterland era la regione costiera nell'Olanda settentrionale), che
parteciparono attivamente alla guerra di liberazione dell'Olanda contro gli
spagnoli, sia consegnando a Guglielmo d'Orange una forte somma nel 1572, sia
inviando volontari a combattere a fianco dei calvinisti, cosa ancora più
straordinaria, vista la tipica vocazione non violenta dell'anabattismo.
In seguito, il governo olandese li trattò tutto sommato abbastanza bene,
affrancando i loro templi e orfanotrofi dal pagamento delle tasse,
permettendo loro di fare semplici dichiarazioni al posto dei giuramenti nei
tribunali e esentandoli dalla leva militare dietro pagamento di una somma
concordata.


Hans De Ries
Hans De Ries, medico anabattista residente in Alkmaar, nacque nel 1553 e fu,
come si è detto, il capo spirituale dei mennoniti olandesi per 54 anni, dal
1577 al 1638, anno della sua morte, ma anche colui che salvò il movimento
mennonita portandola a dottrine più ortodosse.
Nonostante l'impegno di sostegno a Guglielmo d'Orange per la lotta di
liberazione, i mennoniti waterlanders erano rimasti profondamente pacifici e
questo loro spirito fu ribadito il 22 settembre 1577 nella Confessione di
fede di Waterland, primo atto ufficiale della guida spirituale di R. stesso,
in cui si condannò la guerra e la violenza, oltre a sottolineare i soliti
punti cardini dell'anabattismo: battesimo solo degli adulti, negazione del
peccato originale, condanna del giuramento, obbedienza condizionata alle
autorità locali.
Nel 1581 R. convocò il primo sinodo dei waterlanders, con la partecipazione
di 12 congregazioni e dove venne adottata un primo codice di disciplina.
Nel 1615, dopo notevoli discussioni e polemiche interne, la corrente
waterlander fu ampliata dopo l'ammissione del gruppo separatista inglese di
John Smyth, il fondatore dei battisti inglesi.
Per facilitare la comprensione dei concetti anabattisti da parte dei nuovi
confratelli, R. scrisse, assieme a Lubbert Gerritsz (1560-1612), nel 1608,
un'altra confessione di fede in 38 articoli, denominata Confessione di Hans
de Ries (Belijdenis van Hans de Ries) o Confessione di Waterland
(Waterlandsche Belijdenis), ampliandolo nel 1610 con due articoli
aggiuntivi.
Gli stessi due autori, otto anni dopo, nel 1618, pubblicarono a Hoorn la
Breve Confessione di Fede (Corte Belijdenisse des Gheloofs) in 40 articoli e
l'attività instancabile di scrittore di R. portò nel 1626 alla pubblicazione
della Apologia.
R. non intervenne solo sulla dottrina anabattista, ma anche sulla sua
ritualistica: un suo intervento, per esempio, riguardò la preghiera
silenziosa: infatti inizialmente i mennoniti in Olanda pregavano in silenzio
in ginocchio, sia durante le funzioni pubbliche che a casa propria: questa
usanza è ancora in vigore presso gli Amish ed alcuni gruppi in Stati Uniti.
R. introdusse l'usanza delle preghiere dette ad alta voce durante le
funzioni e senza inginocchiarsi, sebbene questa novità, all'onor del vero,
portò una certa discordia tra i fedeli.
R. morì nel 1638.


Kuhlmann, Quirinus (1651-1689) e Gesueliti



Premessa
Alla morte di Jacob Boehme, i suoi seguaci, detti behmenisti, si diffusero
ovviamente in Germania, dove l'eredità spirituale di Boehme fu raccolta da
Abraham von Franckenberg (1593-1652) e dal discepolo di questi, il luterano
Johannes Schleffer (1624-1677), convinto quest'ultimo che il misticismo di
Boehme potesse abbattere le barriere esistenti tra le varie confessioni
religiose. Perseguitato dalle autorità luterane, Schleffer negli ultimi anni
si convertì al Cattolicesimo e scrisse alcune opere con lo pseudonimo di
Angelo Silesio.
Il discepolo più noto di Schleffer fu Quirinus Kuhlmann.


La vita
Il poeta mistico Quirinus Kuhlmann nacque a Breslavia il 25 febbraio 1651 da
una famiglia luterana. Dopo aver studiato presso il locale ginnasio, K.
scrisse tra il 1668 ed il 1670 svariati libri di poesie.
Nel 1670 K. fu inviato a Jena per studiare giurisprudenza all'università, e
qui ricevette attestati di stima nei suoi confronti, anche per la sua
originalissima maniera di concepire la poesia: infatti la sua Himmlische
Liebes-küsse (Baci d'amore divino) del 1671 fu una forma eccentrica di
sonetto, ottenuto utilizzando un automa meccanico, in cui le parole
intercambiabili tra loro generavano una serie di combinazioni esprimibile da
un numero a 117 cifre!
Nonostante la fama, K. decise di abbandonare l'ateneo tedesco per recarsi
nel 1673 in Olanda all'università di Leida. Qui conobbe Schleffer, che lo
introdusse alle opere di Boehme e questo fu l'ispirazione per uno dei suoi
lavori più famosi, il Neubegeisterten Böhme (i nuovi entusiasti di Boehme),
che lo rese popolare nell'ambiente dei mistici cristiani.
Nello stesso periodo, K. scrisse un'apologia dei Rosacroce, affermando che i
contenuti della Fama Fraternitas (il testo base rosacrociano) erano in
accordo con la Bibbia, e che la Sesta Era, ancora da venire, sarebbe stato
chiamata l'Era Rosacrociana. K. desiderava accelerare l'avvento di questa
nuova era e per questo fondò una confraternita denominata dei Gesueliti.
Tra il 1674 ed il 1677 K. visse, in giro per l'Europa, ad Amsterdam,
Groningen, Lubecca, Amburgo, in Inghilterra ed in Francia. Fermamente
convinto, come il suo maestro, che l'insegnamento potesse unire le
confessioni religiose, K. si recò in Medio Oriente per cercare di convertire
alla Cristianità, ovviamente senza successo, il Sultano turco [probabilmente
Maometto IV (1648-1687), o suo fratello Solimano III (1687-1691)].
Ma il passo fatale lo fece poco dopo in Russia: K. fu invitato a Mosca
nell'aprile 1689 dai circoli behmenisti, fondati dal mercante tedesco Konrad
Nordemann (m. 1689) e dal pittore Otto Henin (m. 1689). Qui K. non fece
troppo mistero sui suoi sogni millenaristici (la Russia doveva essere il
luogo dove realizzare l'Era Rosacrociana) e inviò diversi petizione al
reggente e futuro zar Pietro I, detto il Grande [come reggente di Ivan V:
1682-1696, come zar (poi imperatore): 1696-1725].
Ma le idee millenaristiche di K. e soci richiamarono l'attenzione del
pastore protestante di Mosca Meinecke, che li denunciò alle autorità. Si può
legittimamente supporre che dette idee non piacessero neppure al Patriarca
di Mosca Yakimovich (1674-1690) e alle autorità ecclesiastiche ortodosse,
già alle prese a reprimere tentativi di scissioni interne (nel 1682
l'arciprete dissidente Avvakum era stato bruciato sul rogo).
Quindi nello stesso 1689, K., Nordemann e Henin furono catturati a Mosca e
processati. Henin non resistette alle torture in carcere e si suicidò,
mentre K. e Nordemann furono condannati a morte per eresia. La sentenza fu
eseguita il 4 ottobre 1689: i due furono rinchiusi in una gabbia di legno
assieme a tutti gli scritti di K., considerati eretici, e bruciati vivi sul
rogo.


Curiosità
L'episodio della condanna ed esecuzione di K. fu descritto anche nel romanzo
Pietro I dello scrittore russo Aleksei Nikolaevic Tolstoy (1887-1945).


Ghetti da Volterra, Andrea  (m. 1578)



Predicatore agostiniano, come Agostino Mainardi, Ambrogio Cavalli, Giulio
Della Rovere, Giuliano Brigantino, Andrea Ghetti da Volterra si mise in luce
per le sue idee luterane a Trento nel 1542 e a Mantova nel 1543.
Nel 1544 egli predicò presso la corte di Renata di Francia a Ferrara e
pubblicò un discorso, che gli costò la denuncia all'Inquisizione.
Fu assolto, ma le sue prediche nel periodo 1546-49 a Trento [dove poté agire
indisturbato sotto la protezione del vescovo Cristoforo Madruzzo
(1512-1578)], Mantova, Napoli, Venezia, Ferrara (nuovamente nel 1547),
Firenze e Genova lo portarono ad un nuovo processo, da cui se la cavò con
un'abiura, ma soprattutto grazie alla protezione del cardinale Girolamo
Seripando (1493-1563).
Nel 1548 G., come decano della facoltà di Teologia a Firenze, intervenne per
salvare dall'arresto il confratello predicatore Alessio Casani (1491-1570),
accusato di luteranesimo.
Nel 1553 lo troviamo ancora da Renata di Francia e poco dopo per la terza
volta il Sant'Uffizio romano lo fece arrestare e rinchiudere nel carcere di
Ripetta nel 1555.
In questo carcere rimase quattro anni dividendo la cella con Bartolomeo
Spadafora e Giovanni Francesco Verdura, ex vescovo valdesiano di Cheronissa.
G. riuscì a fuggire dalla galera solo nel 1559, in seguito ai moti popolari
del 18 e 19 agosto, scatenatisi alla morte del papa Paolo IV (1555-1559), il
noto Gian Pietro Carafa, il più violento oppositore ad ogni dialogo con il
protestantesimo.
Comunque nel 1560 il G. fu assolto e nel 1563 fu perfino autorizzato da Papa
Pio IV (1559-1565) a partecipare ad alcune sessioni finali del Concilio di
Trento (1545-1563).
G. morì nel 1578.


Giacobiti (XVII secolo) o Congregazione Jacob-Lathrop-Jessey



La setta dei giacobiti, da non confondere con la Chiesa dei Giacobiti
fondata da Giacomo Baradeo nel VI secolo, e neanche con il movimento
politico (1688-1760) che voleva riportare in Scozia i discendenti di Giacomo
VII di Scozia e II d'Inghilterra (1686-1688), fu invece un movimento
religioso protestante inglese del XVII secolo fondato da Henry Jacob nel
1605.


Henry Jacob (1563-1624)
Nato nel 1563, Henry Jacob studiò ad Oxford, alla St, Mary's Hall, ottenendo
il baccalaureato nel 1583 e la laurea nel 1586. Egli fu in seguito ordinato
sacerdote anglicano e divenne maestro del coro al collegio Corpus Christi, a
Cambridge.
Essendo caduto sotto l'influenza dei brownisti nel 1590, J. venne
perseguitato per le sue idee e esiliato in Olanda dal 1593 al 1597. In
seguito egli si impegnò per una riforma interna della Chiesa Anglicana,
entrando in polemica con Francis Johnson (1562-1618) (un seguace del
congregazionalista Henry Barrow), che J. visitò in prigione per cercare di
convincerlo dell'errore nel separarsi dalla Chiesa Anglicana. Gli scritti di
J., assieme a quelli del puritano Thomas Cartwright, furono la base delle
richieste formulate dai puritani nella Millenary Petition (petizione
millenaria) del 1603, inoltrata al nuovo re d'Inghilterra Giacomo I (già
Giacomo VI di Scozia)(1603-1625), che indisse una conferenza a Hampton Court
nel 1604.
Tuttavia ben poche concessioni vennero fatte ai puritani e Giacomo I, che
era profondamente convinto che la tesi di fondo della petizione puritana
fosse di eliminare i vescovi con l'intento successivo di eliminare il re
stesso, ovviamente appoggiò apertamente la posizione dei vescovi anglicani
con la famosa frase No bishop, no king [nessun vescovo (equivale a) nessun
re]. L'unica concessione, degna di nota, fu l'autorizzazione alla
pubblicazione di una versione della Bibbia, compilata da un panel di teologi
e studiosi e denominata Authorised Version (versione autorizzata) o King
James Bible (Bibbia di Re Giacomo).
J., intervenne nella riforma con il suo trattato Reasons taken out of Gods
Word and the best humane Testimonies proving a necessitie of reforming our
Church in England (Ragioni tratte dalla Parola di Dio e dalle migliori
testimonianze umane per provare la necessità di riformare la nostra chiesa
in Inghilterra), che gli costò 8 mesi di carcere e il successivo esilio in
Olanda nel 1605.
Qui egli fondò una suo congregazione, di ispirazione calvinista, a
Middleburg, nella regione dello Zeeland e fino al 1616 aiutò diverse altre
congregazioni ad avviarsi ed ebbe contatti con il separatista John Robinson,
il futuro capo del viaggio dei Padri Pellegrini, che aveva fondato una sua
chiesa a Leida. J. convinse in seguito Robinson a modificare le sue idee
separatiste.
Nel 1616 J. ritornò in Inghilterra, dove fondò una congregazione separatista
a Southwark (un sobborgo di Londra), ma non troppo scissa dalla Chiesa di
Inghilterra: J. infatti non rifiutò l'autorità ecclesiastica, ma obiettò che
potevano coesistere altre chiese all'infuori del controllo della Chiesa
Anglicana. La congregazione di J. fu quindi denominata semi-separatista e
poté godere di una notevole popolarità a causa della tolleranza e apertura
praticata dal suo pastore verso teologi della Chiesa Anglicana, liberi
pensatori, dissidenti vari e per questo egli fu quasi bollato come traditore
dalle altre congregazioni separatiste, che nulla volevano avere a che fare
con la corrotta Chiesa ufficiale.
Nel 1622 J. decise di lasciare la sua congregazione per emigrare nelle
colonie americane, dove fondò una congregazione a Jacobopolis, in Virginia.
Rientrato in Inghilterra nel 1624, J. vi morì nello stesso anno.


John Lathrop (1584-1632)
Poiché la regola della congregazione di Jacob era che essa venisse gestita
da un sacerdote ordinato, e non da predicatori laici come le altre comunità
separatiste, la chiesa di Southwark rimase, dal 1622 al 1624, senza guida
fino all'insediamento di John Lathrop (o Lothropp).
Questi era un prete, nato ad Etton, nella contea del Humberside, e laureato
a Cambridge, trasferitosi nel 1624 a Londra, dopo aver abbandonato la sua
parrocchia di Egerton, nel Kent.
A Londra L. divenne pastore della congregazione di Southwark fino al 1632,
anno in cui le spie del vescovo di Londra Wlliam Laud (1573-1645) scoprirono
la chiesa di L. ed arrestarono i suoi membri: L. stesso passò due anni in
carcere e fu multato.
Al suo rilascio nel 1634, L. seguì l'esempio di Jacob e si trasferì nelle
colonie americane, fondando una chiesa puritana a Scituate, nella colonia di
Plymouth nel 1635. In seguito egli fu anche ministro del culto a Barnstable,
nel Massachusetts, dove morì nel 1653.


Henry Jessey (ca. 1603-1664)
Nuovamente, dal 1634, la congregazione di Jacob-Lathrop era senza guida e in
tale stato rimase fino al 1637, anno in cui si insediò Henry Jessey.
Quest'ultimo, nato nello Yorkshire nel 1603 (secondo altri fonti nel 1601),
aveva studiato a Cambridge, al St. John's College, ottenendo il
baccalaureato nel 1623 e diventando sacerdote nel 1624. Fu dapprima un
valente studioso di ebraico e tesi rabbinici, poi vicario a Aughton, nella
Yorkshire fino al 1634, quando il vicariato gli venne tolto.
J. si trasferì allora a Londra nel 1635 e, come detto, nel 1637 divenne
pastore della congregazione di Southwark. La comunità si ingrandì a tal
punto, che nel 1640 con un mutuo accordo, si decise di dividerla in due: una
parte rimase con J. e l'altra si trasferì in Fleet Street, a Londra, sotto
la guida di Praise-God Barebone (ca. 1596-1680), diventato poi famoso come
politico per aver guidato la brevissima parentesi del Parlamento Barebone,
sciolto per ordine di Oliver Cromwell (1599-1658) nel dicembre 1653.
Nel frattempo, la congregazione rimasta con J. sviluppò una teologia molto
più radicale con tendenze battiste (dal 1645 venne regolarmente praticato il
battesimo degli adulti) rispetto a quella dei suoi predecessori e lo stesso
J. si accostò alle idee sabbatariane, e frequentò ambienti vicini ai
battisti e ai quinto-monarchisti. Nel 1641 J. fu arrestato su mandato del
sindaco di Londra, ma successivamente liberato per ordine del parlamento.
Poco dopo egli entrò in polemica con un membro della comunità, di nome
William Kiffin (1616-1701), il quale si separò creando una congregazione
anch'essa con orientamenti battisti: fu la prima delle comunità firmatarie
della Prima Confessione di Fede del 1643, il documento originario dei
battisti particolari, dai quali discendono le chiese battiste attualmente
esistenti, molto diffuse soprattutto in Stati Uniti.
Nel 1652 egli fu scelto come uno dei nove esperti, che dovevano lavorare su
una nuova traduzione della Bibbia e impiegò i proventi ottenuti da questo
lavoro per aiutare le famiglie ebree povere di Londra, confidando di poterle
in seguito convertire al Cristianesimo.
Ma, dal 1653 J. fu identificato con il crescente movimento dei
quinto-monarchisti, soprattutto grazie all'amicizia con il loro capo, il
commerciante in botti, Thomas Venner (m. 1661). Questi, alla morte del
fondatore Thomas Harrison (1610-1660), divenne il capo supremo del movimento
e organizzò una disperata insurrezione nel gennaio 1661 contro il re Carlo
II (1649-1685). Come era prevedibile, il colpo fallì e Venner e gli altri
capi della rivolta furono decapitati.
Le successive repressioni stroncarono definitivamente il movimento
quinto-monarchista, oltre a perseguitare anche altre sette, a causa delle
loro dottrine simili, come i quaccheri, i sabbatariani e i giacobiti stessi.
J. fu infatti imprigionato in questo periodo, fino alla sua liberazione nel
1663. In seguito egli si recò in Olanda per fare nuovamente ritorno in
Inghilterra nell'agosto 1664.
Qui si ammalò e morì il 4 settembre 1664: un indice della sua notevole
popolarità fu la partecipazione ai suoi funerali di ben 4/5.000 persone.


Giacomo Baradeo (ca. 490- 578)



Baradeo, vescovo siriano monofisita, nacque a Tella nel 490 ca..
Il suo cognome o meglio soprannome derivò dalla latinizzazione Baradæus del
nome Burde'ana, da barda'than, la coperta per cavallo, che B. portava
abitualmente per coprirsi.
Egli iniziò la sua carriera religiosa come monaco nel monastero di Pesìltâ e
fu discepolo di Severo di Antiochia.
Alla metà del VI secolo, il monofisismo era sul punto di sparire: Severo era
stato deposto nel 518 ed era morto nel 538 ed i due imperatori Giustino I
(518-527) e Giustiniano (527-565) avevano perseguitato sistematicamente il
monofisismo.
B., l'eroe del monofisismo siriano, fu nominato vescovo di Edessa nel 542 da
parte dal vescovo monofisita Teodosio di Alessandria, con la protezione
dell'imperatrice Teodora, moglie di Giustiniano. Immediatamente, come già
precedentemente il vescovo di Tella, Bar Qursos, B. si mise ad ordinare
quanti più sacerdoti e diaconi monofisiti possibili (si parla di 100.000) e
perfino 27 vescovi, nonostante fu attivamente, ma inutilmente, ricercato dai
soldati dell'imperatore, per 30 anni in tutto il Medio Oriente, dall'Egitto
alla Mesopotamia, per essere arrestato .
I prelati, da lui ordinati, crearono la struttura portante della Chiesa
Nazionale Siriana o Chiesa Siriana Occidentale, di cui Baradeo fu il vero
fondatore, in onore del quale essa fu chiamata Chiesa Giacobita.
B. morì nel 578.


Templari (Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio di Salomone) (1118-1311)



Le origini
Alla fine della prima Crociata conclusosi con la conquista di Gerusalemme il
15 Luglio 1099, molti crociati considerarono esaurito il proprio compito e
quindi ritornarono in patria, lasciando però la difesa delle precarie
conquiste ad un esiguo contingente militare, letteralmente circondato dai
mussulmani.
Fu così che nel 1118, durante il regno di Baldovino II di Gerusalemme
(1118-1131), un cavaliere di Troyes, nella regione francese dello Champagne,
Ugo di Payens (o Payns o Paganis) (m. 1136) e otto suoi compagni, fecero
voto di difendere i viaggi dei pellegrini nel pericoloso tratto tra il porto
di Jaffa e la città di Gerusalemme, obbligandosi anche alla regola di
povertà, castità e obbedienza, un primo caso quindi di veri monaci
guerrieri.
Si potrebbe obbiettare che nove cavalieri erano un po' pochi per difendere
il percorso tra Jaffa e Gerusalemme, ma bisogna considerare che ciascun
cavaliere aveva comunque un discreto seguito di "fratelli attendenti" o
"sergenti", ossia di cavalleria leggera.
Furono immediatamente e con gratitudine accettati da re Baldovino e dal
Patriarca Stefano de la Feré e alloggiati presso la moschea di al-Aqsa, dove
una volta sorgeva il tempio di re Salomone, e per i loro voti pronunciati e
questa ubicazione furono denominati Poveri cavalieri di Cristo e del Tempio
di Salomone o più semplicemente Templari.
Nel 1128, al concilio di Troyes, voluto da Papa Onorio II (1124-1130), i T.
furono riconosciuti come ordine e San Bernardo di Chiaravalle (1090-1153) ne
giustificò l'uso delle armi e ne compilò la Regola, come quella dei
Benedettini, riformata dai Cistercensi. Similmente a questi ultimi, i T.
portarono un mantello bianco, al quale nel 1147 fu autorizzata da Papa
Eugenio III (1145-1153) l'aggiunta di una croce rossa.
I T. incontrarono immediatamente i favori sia dei Papi, ai quali giurarono
sempre eterna obbedienza, che dei regnanti dell'epoca e, grazie alla
concessione di privilegi, lasciti e donazioni, il tutto esentasse,
diventarono ben presto potentissimi e influenti.
Essi svilupparono una organizzazione ben strutturata, comandata da un
Maestro dell'Ordine e divisa in provincie territoriali e molti valenti
cavalieri dell'aristocrazia europea fecero a gara per entrare nei loro
ranghi.
Svilupparono infine il primo sistema bancario del Medioevo e garantirono per
l'emissione delle prime lettere di credito.


La difesa della Terrasanta
I T. si distinsero nelle varie battaglie che vennero combattute contro i
mussulmani negli anni successivi alla fondazione del loro ordine e spesso i
Maestri dell'Ordine cadevano combattendo, come Bernardo di Tremelay
all'assedio di Ascalona nel 1153.
Il formidabile avversario, che essi si trovarono a fronteggiare, era il
famoso sultano d'Egitto Salah Al-Din (Saladino) (sultano:1176-1193), il
quale in pochi anni riuscì a mettere in ginocchio i regni cristiani in
Terrasanta, approfittando anche degli intrighi e congiure tra le file degli
occidentali, dai quali non erano esenti neanche i T. stessi.
Questi, con il Maestro Gerard di Rideford in testa, vanificarono gli sforzi
di Raimondo III, conte di Tripoli, di ottenere un patto di convivenza con
gli arabi. L'esito fu disastroso: nella battaglia del Monte Hattin del 1187
(seguita dalla caduta di Gerusalemme), l'esercito cristiano fu pesantemente
sconfitto e tutti i T. presenti furono massacrati, eccetto Gerard, che si
dice avesse abiurato, diventando mussulmano.
I T. allora cambiarono tattica: presiediarono i punti nevralgici
asserragliandosi nelle loro grandiose fortezze, come il Krak dei Cavalieri e
uscendone per compiere veloci sortite, ma purtroppo anche azioni di vero e
proprio taglieggiamento delle carovane di pasaggio.
Negli anni successivi, dal 1189 al 1228, furono organizzate altre 3 crociate
(III, IV, V), ma, nonostante tutti gli sforzi, nel 1244 il regno di
Gerusalemme diventò definitivamente mussulmano. Nello stesso 1244, i T., con
il Maestro Armand di Périgord, pur alleandosi  momentaneamente con gli
odiati rivali dell'Ordine degli Ospitalieri e perfino con il sultano di
Damasco, non riuscirono ad evitare la sconfitta ad opera dei Mongoli nella
battaglia di Gaza , dove lasciarono sul campo 312 cavalieri, compreso il
Maestro stesso.
Le due ultime disastrose Crociate (VI e VII), organizzate da re (San) Luigi
IX di Francia (1226-1270) accelerarono la caduta dell'ultimo baluardo
cristiano in Terrasanta di San Giovanni d'Acri nel 1291. Molti T. furono
uccisi durante l'assedio, compreso il Maestro Guglielmo di Beaujeu, e i
superstiti riuscirono a fuggire a Cipro.


Il declino
Persa la Terrasanta, contrariamente agli altri ordini cavallereschi, i quali
si posero un altro obiettivo geografico per la difesa della Cristianità (i
Teutonici a Nord-Est e gli Ospitalieri di San Giovanni a Rodi), i Templari
superstiti rimasero militarmente "disoccupati", se si esclude la Spagna dove
combatterono contro i Saraceni.
E sì vero che i T. difesero Cipro, ma il processo in Francia fece sì che a
questa difesa venne data bassa priorità, ed infatti già nel 1310 essi
abbandonarono l'isola in seguito alla riconquista del potere da parte del re
Enrico II di Cipro e Gerusalemme, spalleggiato dagli Ospitalieri.
In Europa incominciò a diffondersi l'idea che era stata colpa dei T. la
perdita della Terrasanta e quindi che era inutile mantenere in vita
l'Ordine, idea corroborata oltretutto dal fatto che la potenza dei T. , veri
e propri banchieri mercantili, nella finanza e nella diplomazia incominciava
a dare fastidio a molti.
Inoltre la fedeltà esclusivamente verso il Papa fu invisa dal clero
secolare, particolarmente dai vescovi, che mal sopportavano la loro totale
autonomia di azione sul territorio.
Comunque il destino dei t. fu segnato dalle lotte tra il Papa Bonifacio VIII
(1294-1303) ed il re di Francia Filippo IV, detto il Bello (1285-1314),
scomunicato da Bonifacio nel 1302 per una diatriba sui limiti dei poteri
della Chiesa e dello Stato.
Era un momento negativo per Filippo, che, oltretutto, era stato sconfitto
dai Fiamminghi a Courtrai nel 1302 ed era sull'orlo della bancarotta, dal
quale si poté risollevare solo attingendo a pesanti prestiti da parte dei T.
e fu proprio allora che Filippo concepì il suo piano: indebolire il papato
ed incamerare i beni dei T.
Per la prima parte del suo piano, fece sequestrare e maltrattare Bonifacio
nel suo palazzo di Anagni (il cosiddetto "schiaffo di Anagni") da parte
della sua anima nera, Guglielmo di Nogaret. Benché Bonifacio venisse
liberato dal popolo indignato, morì per lo choc riportato qualche settimana
dopo.
Il nuovo Papa, Benedetto XI (1303-1304) non durò molto: morì infatti il 7
Luglio 1304 per una indigestione di fichi...avvelenati con polvere di
diamante da Guglielmo di Nogaret.
Della morte fu ingiustamente incolpato il francescano Bernard Délicieux, che
aveva incautamente scritto al medico del Papa, Arnaldo di Villanova, che
dalle profezie di Gioacchino da Fiore si poteva desumere la morte del papa
per il 1304.
In realtà il regista dell'assassinio fu il solito Filippo il Bello, a cui
era rimasta "indigesta" una bolla papale con una sua condanna come mandante
per il famoso episodio dello "schiaffo di Anagni".
Finalmente un anno dopo Filippo riuscì a far eleggere il "suo" Papa,
Clemente V (1305-1314), un uomo debole e influenzabile, e a far trasferire
la sede papale sotto la sua "protezione" ad Avignone.
Con Clemente, Filippo giocò pesante minacciando di allestire un processo per
giudicare postumo Bonifacio, accusato di eresia e magia nera. Pare che, pur
di salvare l'onore della Chiesa, Clemente acconsentì a procedere contro i
Templari, l'altra spina nel fianco di Filippo.


La fine
Il 13 Ottobre 1307 (un venerdì 13!), tutti i T. sul territorio francese,
compreso il Maestro Giacomo di Molay (1243-1314), furono arrestati su ordine
di Filippo. L'accusa fu di eresia, basata sulle farneticanti dichiarazioni
di un tale Esquieu de Floryan, testimone diretto di una "confessione" di un
T. espulso dall'ordine e suo compagno di cella nel carcere di Béziers.
Quest'ultimo aveva narrato di un cerimoniale basato sul rinnegamento di
Cristo, di sputi sulla Croce, di sodomia e baci osceni, di riti magici e
tanto bastò a Guglielmo di Nogaret per imbastire un clamoroso processo a
carico del più potente Ordine religioso dell'epoca.
Iniziarono i primi interrogatori con ampio utilizzo della tortura,
nonostante i deboli tentativi di protesta da parte di Clemente V: tuttavia
Giacomo di Molay si rivelò un osso molto più duro del previsto, fermo nella
difesa dell'ortodossia dell'Ordine.
Nel 1310 le prime vittime: 54 T. ritrattarono le confessioni estorte con la
tortura, vennero quindi considerati relapsi e immediatamente bruciati sul
rogo.
Nel 1311 venne indetto il Concilio di Vienne (nel Delfinato) per dirimere la
questione, ma durante il suo svolgimento, Clemente, che non si decideva mai
a prendere posizione tra il parere dei vescovi favorevoli a mantenere
l'Ordine e quello del re favorevole ad una pesante condanna dell'Ordine,
decise nel 1312 per una sentenza (bolla Vox in excelso) degna di Ponzio
Pilato. Fu infatti ratificata la soppressione (ma non la condanna)
dell'Ordine con passaggio dei beni dei T. agli Ospitalieri, che dovettero
sganciare ben 1 milione di lire tornesi a Filippo per venirne in possesso.
Tuttavia, a carico dei principali responsabili, la commissione cardinalizia
(tutti fidati alleati di Filippo) emise il 18 Marzo 1314 un verdetto di
condanna al carcere a vita, previa confessione pubblica.
La sentenza fu letta a Giacomo di Molay e al gran precettore di Normandia,
Geoffroy di Charnay, oltre ad altri due T. di prestigio, ma, a sorpresa, sia
Giacomo che Geoffroy presero la parola per ritrattare le loro confessioni
ottenute con le solite torture.
Filippo allora, senza consultare il Papa, convocò quel giorno stesso il
consiglio di stato, dove venne pronunciata l'immediata sentenza di morte per
i due capi T.: essi morirono sul rogo la sera del 18 su una isoletta sulla
Senna, alle spalle di Notre Dame.
Una leggenda vuole che Giacomo predisse la morte sia di Clemente che di
Filippo prima della fine dell'anno ed effettivamente i due morirono
rispettivamente nell'Aprile e nel Novembre del 1314, tuttavia è facile
creare la leggenda di una profezia dopo che il fatto predetto è già
accaduto!
Negli altri paesi europei non si procedette con lo zelo dei francesi, e
spesso i re (per esempio Eduardo II d'Inghilterra), solo dopo richiami
ripetuti del Papa ai loro doveri, imbastirono dei processi molto formali
contro i T., che furono di sovente assolti.
In Spagna e in Portogallo, per esempio, essi confluirono in due ordini
religiosi: l'Ordine dei Cavalieri di Santiago (San Giacomo) e l'Ordine dei
Cavalieri di Cristo.


Le accuse
Come si diceva, le accuse furono varie e diedero a tutta una serie di
interpretazioni esoteriche nei secoli successivi:
I baci sulla bocca, sul ventre, sull'ano e sulla spina dorsale avrebbero
potuto far parte di un rito iniziatico di origine orientale, che ricordava
la rivitalizzazione dei chakra, punti energetici seconda la dottrina indiana
dei Tantra.
L'adorazione della testa (o immagine) di un uomo barbuto, noto come
Bafometto (forse una storpiatura del nome di Maometto) si riferirebbe al
culto di San Giovanni, vero Messia secondo alcuni gnostici, come i Mandei.
Secondo altri si tratterebbe del Mandylion, l'immagine di Gesù rimasta
impressa sul velo della Santa Veronica (personaggio rappresentato nella
sesta stazione della Via Crucis, ma mai citato da nessuno dei Vangeli)
oppure la Sindone stessa, trovata dai T. e trasferita da essi in Europa
occidentale.
Lo sputare sul crocefisso confermerebbe che i T. erano venuti a sapere che
durante la crocifissione, Gesù era stato sostituito da qualcun altro, idea
docetista già espressa dal maestro gnostico Basilide.
L'accusa di magia era collegata al fatto che i T. avessero praticato
l'alchimia e seguito le dottrine della Cabala giudaica: questa ipotesi fu
proposta dal cabalista del `500, Cornelius Agrippa di Nettesheim.


Le leggende
Mai come nel caso dei T., dopo la loro scomparsa, si poté dare libero sfogo
a tutta una serie di leggende, fatti curiosi o speculazioni (più o meno
fantasiose), che riporto sommariamente.
Si disse:
Che la flotta T., di stanza a La Rochelle, fosse sfuggita alla cattura,
partendo, appena in tempo, per fare rotta sulla Scozia (o addirittura in
America, secondo un altro autore), dove i T. avrebbero aiutato il re Robert
I Bruce (1306-1329) a sconfiggere gli inglesi nella battaglia di Bannockburn
del 1314.
Che, successivamente, per sfuggire all'Inquisizione, sempre i T. "scozzesi"
avrebbero deciso di darsi una struttura di società segreta, la quale sarebbe
stata progenitrice (addirittura senza soluzione di continuità!) del
Rosacrocianesimo del XVII secolo o della Massoneria del XVIII secolo.
Che per uno T. "scozzese" morto in battaglia in Lituania, Guglielmo di Saint
Clair (diventato poi Sinclair), il suo omonimo discendente Sir William
Sinclair avrebbe costruito (ufficialmente per la propria famiglia) una
cappella commemorativa a Rosslyn (vicino ad Edimburgo) nel 1446, piena di
riferimenti esoterici massonici (ante litteram) e con un fregio che richiama
la pannocchia del mais, allora sconosciuta in Europa, ma non in America
(vedi punto 1).
Che i T. avessero scavato nel sottosuolo del Tempio di Salomone, riportando
alla luce misteriosi e compromettenti documenti sulle verità nascoste del
Vangelo o addirittura avessero trovato l'Arca dell'Alleanza o perlomeno che
sapessero la sua esatta ubicazione (Axum in Etiopia).
Che avessero sponsorizzato la costruzione delle ardite cattedrali gotiche,
come quella di Chartres, riempendole di simbologie mistiche, legate a culti
segreti, come la venerazione di Maria Maddalena, "sposa" di Gesù ecc.
Che avessero favorito la diffusione dei tarocchi, le carte da gioco,
nascondendo nei loro complessi disegni un'intera sapienza iniziatica, da
loro appresa in Terrasanta.
Che avessero fatto alleanze nascoste con i catari, perseguitati nello stesso
periodo e che ambedue i gruppi conoscessero certi segreti, come la località
della tomba di Gesù in Francia, il segreto del Graal ecc.


Comunque, ogni ulteriore approfondimento su questi argomenti esula dagli
scopi di questa opera ed è sufficiente navigare in Internet per trovarvi
ampio materiale.


Giannone, Pietro (1676-1748)



Lo storico e filosofo Pietro Giannone, nato da una famiglia di avvocati ad
Ischitella, in provincia di Foggia, il 7 maggio 1676, studiò dapprima sotto
lo zio materno, il giurista Gaetano Argento (1661-1730), ed in seguito,
all'età di 18 anni, si trasferì a Napoli, dove si laureò in giurisprudenza.
Nella capitale campana egli entrò in contatto con l'entourage filosofico
napoletano, il cui riferimento era all'epoca Giambattista Vico (1668-1744).
Qui egli si interessò alle idee di Cartesio (1596-1650) e di Nicholas
Malebranche (1638-1715).
Oltre agli interessi filosofici, G. si dedicò intensamente agli studi
storici e soprattutto alla sua opera storica principale, la cui stesura durò
20 anni, Dell'istoria civile del regno di Napoli, pubblicato in quattro
volumi nel 1723 ed altamente apprezzato in Inghilterra, Francia e Germania,
dove il libro fu tradotto e ripetutamente pubblicato. In questo lavoro G.
descrisse la situazione morale e giuridica del regno napoletano, attribuendo
i suoi mali e malesseri all'influenza negativa e alle interferenze della
Chiesa, in particolare della Curia romana.
La reazione ecclesiastica fu immediata e durissima: il libro fu iscritto
all'Index librorum prohibitorum e l'autore fu scomunicato: G. dovette
lasciare Napoli, in mezzo ad una folla ostile e vociferante, e riparare a
Vienna, dove entrò nei favori dell'imperatore Carlo VI (1711-1740) e di
altri importanti personaggi della corte imperiale, i quali si diedero da
fare per procurargli una pensione cosicché egli potesse proseguire senza
problemi nei suoi studi storici e filosofici.
Fu perfino riammesso alla Chiesa cattolica da parte dell'arcivescovo di
Napoli, in visita a Vienna, ma nel 1734, in occasione dell'elezione di Carlo
VII di Borbone a re di Napoli (1734-1759), si cercò di indurlo a rientrare a
Napoli togliendogli la pensione. Egli infatti tentò il ritorno in patria, ma
l'ostilità della Chiesa lo costrinse a riparare a Venezia. Qui G. fu accolto
positivamente e gli furono perfino offerti una cattedra alla facoltà di
giurisprudenza dell'università di Padova e il posto di consulente in legge
della Serenissima Repubblica: tuttavia ambedue furono da lui rifiutati. Poco
dopo, il governo veneziano, sospettando che le sue idee sul diritto
marittimo non fossero in linea con la politica estera della Repubblica, lo
fece controllare da vicino da una rete di spie. G. cercò di ringraziarsi il
governo con il trattato Lettera intorno al dominio del mare Adriatico, ma il
23 settembre 1735 fu espulso.
Vagò allora, sotto mentite spoglie, tra Ferrara, Modena, Milano e Torino,
finché, tre mesi dopo, arrivò a Ginevra, ospite di un libraio della città. E
qui compose il suo principale lavoro filosofico, con un forte connotato
anticlericale, il Triregno, ossia del regno, della terra e del papa (inedito
fino al 1895), una filosofia della religione, fondamento del regno terreno
degli antichi, base del regno celeste del Cristianesimo, per essere poi
rovinata dal regno papale.
Ma, il 1 aprile 1736, giorno di Pasqua, G. ebbe la fatale idea di accettare
l'invito a partecipare alla messa di Pasqua in un villaggio cattolico della
Savoia: era una trappola. Fu infatti catturato da emissari del governo
Sabaudo e internato, nell'ordine, nei castelli di Miolans, di Ceva, ed
infine di Torino, dove rimase in prigione per i rimanenti 12 anni della sua
vita.
Nella fortezza di Torino G. non perse comunque lo spirito polemico
anticlericale, scrivendo un trattato in difesa degli interessi del regno
sabaudo contro gli intrighi papali, tuttavia nel 1738 fu costretto a firmare
un atto d'abiura delle sue idee più estremiste. Questo gesto però non gli
fece guadagnare la libertà ed egli morì il 7 marzo 1748, all'età di 72 anni,
sempre nella fortezza-carcere di Torino.
La maggior parte dei suoi lavori inediti, come l'Autobiografia, I discorsi
storici e politici sopra gli Annali di Tito Livio, l'Apologia de' teologi
scolastici, l'Istoria del pontificato di Gregorio Magno, l'Ape ingegnosa, fu
pubblicata postuma.


Jansen (Giansenio), Cornelius (o Cornelis) Otto (1585-1638) e giansenismo



La vita
Il famoso teologo olandese Cornelius Otto Jansen (nome umanistico:
Giansenio) nacque il 28 ottobre 1585 ad Ackoy, vicino a Utrecht, in Olanda.
Dal 1602 studiò all'università di Lovanio (Louvain), dove conobbe e diventò
amico di Jean Du Vergier de Hauranne, futuro abate di Saint Cyran. Dopo il
baccalaureato in filosofia, J. si trasferì dapprima a Parigi per studiare
greco antico ed in seguito a Bayonne, presso la casa di Du Vergier, per
insegnare nel collegio della locale cattedrale, dove l'amico era diventato
canonico. Per circa 12 anni J. e Du Vergier studiarono approfonditamente gli
scritti dei Padri della Chiesa, e in particolare Sant'Agostino (354-430).
Nel 1617 J. ritornò a Lovanio per occuparsi del collegio di Santa Pulcheria
e nel 1619,  diventato dottore in teologia, iniziò ad insegnare
all'università.
Dal 1618 J., come già detto appassionato e profondo conoscitore delle opere
di Sant'Agostino, iniziò a scrivere il suo più famoso trattato,
l'Augustinus, inserendosi nella polemica sul concetto di grazia, iniziato
circa 50 anni prima da Michel de Bay, docente anche lui, nel secolo
precedente, dell'università di Lovanio.
Nel 1630 J. fu ufficialmente nominato regio professore di Sacre Scritture
all'università di Lovanio, da dove si impegnò a difesa delle idee di René
Descartes, detto Cartesio (1596-1650) in una polemica con il teologo
calvinista Gisbertus Voetius, mentre nel 1635 egli ottenne l'incarico di
rettore della stessa università.
Mentre stava ancora lavorando sulla sua opera, fu proclamato nel 1636
vescovo cattolico di Ypres, in Belgio. Due anni dopo, il 6 maggio 1638,
avvenne la sua morte per peste sempre a Ypres.
L'Augustinus fu pubblicata solo nel 1640 e questa uscita tardiva risparmiò
l'autore dal putiferio di polemiche e condanne che si scatenarono contro la
sua dottrina.


La dottrina del giansenismo
Come precedentemente il baianismo (la dottrina teorizzata da de Bay), anche
il giansenismo desiderava proseguire nell'arduo compito di mantenersi
equidistante sia dalle tendenze controriformiste di ispirazione gesuita e
molinista [dal teologo Luis de Molina (1535-1600)], che dalle tentazioni
riformiste di tipo protestante.
J. riprese alcuni concetti espressi (e condannati dalla Chiesa) dal de Bay:
come per il suo predecessore, per J. pensava che l'uomo fosse
irrimediabilmente corrotto e indotto al male dalla concupiscenza, trasmessa
in maniera ereditaria anche ai bambini innocenti, e, nonostante il libero
arbitrio, l'uomo non era capace altro che di peccare: quindi, senza la
grazia divina, per l'uomo era impossibile obbedire ai voleri divini.
All'atto della creazione, Dio aveva dotato l'uomo, cioè Adamo, di una grazia
"sufficiente", ma l'uomo l'aveva persa per sempre a causa del peccato
originale. In seguito Dio aveva deciso di donare, con una scelta che non
poteva, e non può, essere compreso da parte dell'uomo, la grazia "efficace"
(a vincere il peccato) solo ai predestinati, giustificati per fede, ma
anche, contrariamente al credo protestante, grazie alle opere buone.
Per quanto concerne il rapporto tra questa grazia divina e libero arbitrio
dell'uomo, il giansenismo cercò di assumere una posizione equidistante tra
il molinismo, che privilegiava una grazia assoggettata alla volontà umana, e
il protestantesimo, che riteneva la volontà umana uno strumento nelle mani
di Dio. Per il giansenismo, invece, la grazia e la volontà dell'uomo giusto
si compenetravano in maniera tale che la volontà diventava parte della
divinità stessa.
La teologia, sostanzialmente pessimista, del giansenismo si rifletté
soprattutto nella sua moralità, piuttosto severa e rigorosa, in contrasto
con il cosiddetto lassismo dei gesuiti.


Il giansenismo
Il giansenismo va comunque visto come un fenomeno di dissidenza interna nel
Cattolicesimo senza pretese di secessionismo (escluso il caso della Chiesa
di Utrecht) ed ebbe un grande sviluppo soprattutto in Francia, per merito di
Du Vergier de Hauranne, il quale, diventato abate di Saint Cyran, propagò il
pensiero giansenista presso i propri discepoli, incluse le suore del
convento cistercense di Port-Royal (27 km. ovest a Parigi, vicino a
Versailles) e le loro badesse Jacqueline Arnauld (detta Madre Angélique) e
la sorella Agnès. Sempre dalla famiglia Arnaud venne il miglior teologo del
movimento, Antoine, successore di Du Vergier e artefice della diffusione
delle dottrine gianseniste presso l'alta borghesia francese dell'epoca. Il
convento di Port-Royal divenne il centro di riferimento del giansenismo in
Francia e si trasferì nel 1626 a Parigi.
Tra gli altri personaggi dell'epoca influenzati dal giansenismo, possiamo
annoverare il teologo Pierre Nicole, lo scrittore Pasquier Quesnel, ma
soprattutto il famoso filosofo e matematico Blaise Pascal.
Dopo ripetuti anatemi papali [decreto del Santo Uffizio del 1641, bolla In e
minenti di Urbano VIII (1623-1644) del 1642, bolla Cum occasione di
Innocenzo X (1644-1655) del 1653, bolle Ad sanctam beati Petri sedem del
1656 e Regiminis Apostolici del 1664 di Alessandro VII (1655-1667)] e
continui attacchi da parte dei gesuiti, il giansenismo giunse, nel 1668, ad
una temporanea tregua con i cattolici denominata Pace della Chiesa, ma, in
seguito alla ripresa delle attività gianseniste nel 1679, il movimento fu
perseguitato con sempre più accanimento.
Nel 1665 fu chiusa la sede parigina del convento di Port-Royal e nel 1704 fu
soppresso il convento originario, denominato Port-Royal-des-Champs (nel 1710
gli edifici furono rasi al suolo e i cadaveri addirittura esumati dal
cimitero) e le suore furono disperse tra i conventi della zona.
Poco dopo divampò la polemica in seguito alla pubblicazione delle Réflexions
morales (riflessioni morali) un Nuovo Testamento in francese con commento
giansenista di Pasquier Quesnel, già imprigionato a Bruxelles per questo
testo nel 1703.
Papa Clemente XI (1700-1721), a riguardo, intervenne con l'ennesima condanna
mediante la bolla Unigenitus del 1713, di una insolita durezza e che
condannava perfino frasi perfettamente ortodosse contenute nel testo. Questo
fatto provocò una momentanea scissione nella Chiesa Cattolica francese
quando il cardinale Louis Antoine De Noailles, arcivescovo di Parigi
(1651-1729), e otto (in seguito diciotto) altri vescovi, appoggiati dalle
facoltà di Parigi, Reims e Nantes, oltre a circa 3.000 ecclesiastici, non
accettarono affatto i contenuti della bolla e si appellarono al sinodo
generale francese. La reazione di Clemente XI fu durissima con l'emissione
della bolla Pastoralis officii (1718), che condannava l'appello e
scomunicava gli appellanti. Tuttavia i dissidenti rimasero sulle loro
posizioni ed anche il ritorno di De Noailles all'ortodossia nel 1728 non
riportò la situazione alla normalità: il parlamento francese continuò ancora
per molto tempo a rifiutare la bolla Unigenitus.
Ma questo episodio più che una difesa del giansenismo pareva invece
inserirsi nei frequenti fenomeni di gallicanesimo e non poté certo frenare
il graduale declino del giansenismo in Francia, che ebbe un ultimo colpo di
coda con l'apparizione dei convulsionari.
Costoro, fanatici giansenisti, apparvero in seguito alla morte (nel 1727)
del diacono François Paris (Francesco di Parigi), la cui tomba nel cimitero
di Saint Médard era diventato meta di pellegrinaggi e presso la quale si
raccontava avvenissero dei miracoli. Il cimitero fu chiuso per ordine della
corte di giustizia il 27 gennaio 1732, ma i convulsionari proseguirono con
le loro manifestazioni di fanatismo in case private, dove giovani fanciulle
invasate venivano sottoposte ad atroci prove: erano sospese sopra fuochi
accesi, mangiavano escrementi, grandi pietre appoggiate sopra i loro corpi
venivano rotte a colpi di mazza; il tutto apparentemente senza danno fisico
grazie all'incrollabile fede giansenista.
Tuttavia, già nella seconda metà del XVIII secolo il giansenismo era stato
notevolmente ridimensionato in Francia, dove comunque sopravvisse, a
sorpresa, alla Rivoluzione stessa: l'atto finale con il quale si estinse il
movimento in Francia fu il ritorno al Cattolicesimo dell'ultima
congregazione religiosa, le Sorelle di Santa Marta, nel 1847.


Il giansenismo negli altri paesi europei
Ebbe invece sorte migliore in altri paesi europei: soprattutto in Olanda, ma
anche negli stati italiani, come il Ducato di Parma, il Regno delle Due
Sicilie, e, più importante, nel Granducato di Toscana, del Granduca Pietro
Leopoldo I (1765-1790), dove il giansenismo ebbe la possibilità di
influenzare alcuni punti delle conclusioni del famoso sinodo di Pistoia del
1786, voluto dal vescovo Scipione de' Ricci per proporre una moderata
riforma della Chiesa Cattolica, ma che venne condannato senza pietà dalla
bolla Auctorem fidei di Papa Pio VI (1775-1799) del 1794.
Come detto, però, fu soprattutto in Olanda dove il giansenismo venne
ampiamente tollerato, soprattutto sotto i vicari generali, arcivescovi
Johann Van Neercassel (arcivescovo: 1663-1686, m. 1686) e Petrus Codde
(arcivescovo: 1686-1704, m. 1710), che accolsero i fuggitivi dalla Francia,
come Arnauld, Nicole e Quesnel.
Codde fu deposto nel 1704 per ordine del Papa Clemente XI, ma la nomina del
successore, Gerard Potkamp, fu rifiutata da parte del clero olandese,
provocando nel 1713 una scissione dalla Chiesa Cattolica con la fondazione
della Chiesa cattolica romana del clero antico episcopale o Chiesa
(giansenista) olandese di Utrecht, prima di una serie di chiese cosiddette
"vecchio-cattoliche", rinforzata nel 1724 dall'ordinazione del primo vescovo
giansenista di Utrecht, Cornelius Steenhoven (m.1725). L'ordinazione, almeno
formalmente, fu regolare in quanto eseguita da Monsignor Varlet, vescovo
missionario cattolico di Babilonia. Nel 1742 e 1757, alla diocesi originaria
di Utrecht si affiancarono le diocesi di Haarlem e Deventer, tutte e tre
operanti oggigiorno.
La Chiesa di Utrecht è diventata la capostipite delle chiese nazionali
vecchio-cattoliche, sorte in particolare dopo il Primo Concilio Vaticano del
1869-70 e federate come Unione di Utrecht e riunite definitivamente nella
Convenzione di Utrecht del 1952.

Giberti, Gian Matteo, cardinale, e vescovo di Verona (1495-1543)



Gian Matteo Giberti, figlio naturale del capitano della marina genovese,
Francesco Giberti, nacque a Palermo nel 1495 e nel 1513 entrò al seguito del
cardinale Giulio de' Medici, il futuro papa Clemente VII (1523-1534),
diventando in breve tempo un tale esperto in greco e latino da essere
ammesso come membro di rilievo dell'Accademia Romana.
Sotto la protezione della potente famiglia Medici, G. fece una rapida
carriera, diventando segretario personale dello stesso cardinale Giulio de'
Medici e svolgendo attività diplomatica nel 1521 presso l'imperatore Carlo V
(1519-1556), per conto di un altro ecclesiastico della famiglia Medici, il
papa Leone X (1513-1521), cugino di Giulio.
Nel 1521 G. divenne sacerdote e fu anche membro dell'ordine dei teatini,
fondato da San Caietano (1480-1547) e dal cardinale Gian Pietro Carafa [il
futuro papa Paolo IV (1555-1559)].
All'elezione del suo protettore Giulio de' Medici a papa nel 1523, G. fu
immediatamente nominato datario (il prelato che ha l'incarico nella Curia
Romana di occuparsi delle concessioni dei benefici) e nell'anno successivo,
su richiesta del doge di Venezia Andrea Gritti (1523-1538), divenne vescovo
di Verona.
Tuttavia egli continuò a risiedere a Roma fino al 1528, dove svolse
un'intensa attività diplomatica: sua fu l'idea della Lega anti-imperiale tra
Francia, Venezia, Milano e Papato, detta di Cognac, del 1526. Dopo il Sacco
di Roma del 6 maggio 1527, G. scampò la morte per un pelo: messo in prigione
dalle truppe imperiali, riuscì a fuggire avventurosamente nel 1528 a Verona,
dove visse fino alla sua morte, sebbene venisse chiamato diverse volte a
Roma da Papa Paolo III (1534-1549) per occuparsi dei preparativi per il
Concilio di Trento (1545-1563).
A Verona, G. diede luogo ad una vigorosa riforma della diocesi, il cui clero
era in uno stato disastroso: forte dei suoi appoggi in alto loco a Roma, G.
emanò nuove costituzioni diocesane (le cosiddette Costitutiones Gibertinae),
riformò i monasteri, migliorò la preparazione dei sacerdoti, pubblicò un
catechismo per fanciulli, installò una stamperia nel palazzo vescovile per
pubblicare i classici della Patristica, si circondò di validissimi
collaboratori. Questa azione di riforma, ammirata anche da San Carlo
Borromeo (1538-1584), richiamò a Verona diversi intellettuali evangelisti,
come il predicatore reatino Tullio Crispoldi, l'autore del Dialogus (il
catechismo per minori sopracitato) o Marcantonio Flaminio, che visse a
Verona per 10 anni.
Dal punto di vista dottrinale, G. fu un erasminiano ed un evangelista
spirituale: cercò di lavorare ad una riforma della Chiesa cattolica dal suo
interno, che sperò potesse affermarsi in Italia attraverso la repubblica di
Venezia, ed quindi non sorprende che fosse coerentemente severo nell'opporsi
alle infiltrazioni del luteranesimo della sua diocesi. Ebbe anche la
possibilità di leggere nel 1542 il Beneficio di Christo di Benedetto
Fontanini, ma, dopo un'impressione favorevole iniziale, lo fece ripubblicare
opportunamente censurato.
Tuttavia l'amicizia con il vicario generale dei Cappuccini Bernardino
Ochino, nonostante la deplorazione pubblica del G. per la scelta dell'amico
di convertirsi nel 1542 al luteranesimo, e il favore concesso a personaggi,
come Tullio Crispoldi o l'ebraista fiammingo Jan van Kampen (nome umanistico
Campensis) (m. 1538), autore di alcune lezioni ai collaboratori del vescovo
di Verona sulle lettere di San Paolo, dove van Kampen insistette sui
concetti di giustificazione per fede e predestinazione, misero G. al centro
di un'inchiesta dell'Inquisizione per eresia: solo la sua morte, avvenuta il
30 dicembre 1543, poté sottrarlo da questa situazione.


Massacro delle colonie valdesi in Italia meridionale (1561-1563)



Uno degli episodi più truculenti della storia della Riforma in Italia nel
XVI secolo fu il massacro delle colonie valdesi in Calabria e la conversione
forzata al Cattolicesimo di quelle in Puglia. Si trattava di colonie antiche
ben stabilite sul territorio fin dal XIII/XIV secolo e provenienti dalle
valli piemontesi.


Calabria
In Calabria si considera tradizionalmente come prima colonia valdese quella
di Montalto Uffugo (in provincia di Cosenza), di cui si hanno notizie dal
1386, in seguito i valdesi si installarono a San Sisto, a Guardia Piemontese
(ai tempi La Guardia o Guardia dei Valdi), e nei paesini dei dintorni.
Mantennero, come si direbbe oggigiorno, un basso profilo, non facendo
proselitismo, commentando la Bibbia solo in case private, ricevendo visite
molto discrete dei barba (i ministri di culto) e perfino partecipando ai
riti esteriori delle chiese cattoliche locali. I feudatari del luogo li
impiegavano come contadini e artigiani della lana e della pelle e li
apprezzavano per la loro operosità e mitezza.
Tuttavia le cose cambiarono nel XVI secolo con l'avvento della Riforma: già
dal 1532, ai tempi del sinodo di Chanforan (in valle d'Angrogna), queste
colonie valdesi cominciarono a manifestare un vivo interesse nella Riforma
calvinista, ma fu solo dal 1556 che i valdesi di Calabria vollero aderire
alla Riforma, in seguito alle prediche di Gilles de Gilles (che
profeticamente li aveva esortati ad emigrare per la loro stessa incolumità),
ma soprattutto quando, nel 1559, Giacomo Bonello (m. 1560) e Gian Luigi
Pascale (m. 1560), con l'aiuto del barba locale Stefano Negrin (m. 1561),
iniziarono una coraggiosa azione di evangelizzazione.
Purtroppo per loro il papa Paolo IV (1555-1559), l'ex inquisitore Giovanni
Paolo Carafa, e l'Inquisitore Generale Michele Ghisleri [il futuro papa Pio
V (1566-1572)] erano rigorosissimi contro ogni forma di eresia e di dissenso
religioso: in particolare una bolla papale emanata nello stesso 1559, che
non concedeva l'assoluzione a chi era a conoscenza di attività ereticali e
non li aveva prontamente denunciati, tolse ai valdesi calabri l'appoggio, o
perlomeno, la neutralità dei signori locali.
In particolare la minaccia di detta bolla fece rompere gli indugi al
feudatario Salvatore Spinelli, che ordinò l'arresto di Gian Luigi Pascale a
Fuscaldo il 2 maggio 1559: per questa azione Spinelli ottenne in seguito il
titolo di marchese.
Pascale fu condotto a Cosenza, da qui a piedi a Napoli, ed infine a Roma per
cercare inutilmente di farlo abiurare, ma anche un estremo tentativo di suo
fratello Bartolomeo, cattolico, fu vano: Pascale fu impiccato e poi bruciato
a Ponte Sant'Angelo il 16 settembre 1560.
La stessa tremenda sorte era capitata al confratello Giacomo Bonello, che,
dopo un primo arresto a Battipaglia, ne aveva subito un secondo decisivo a
Messina. Dopo un breve processo, Bonello fu arso vivo in Piazza
dell'Ucciardone a Palermo il 18 febbraio 1560.
Senza il conforto dei loro pastori, i valdesi calabri caddero preda degli
inquisitori domenicani Valerio Malvicino e Alfonso Urbino, che, dopo aver
condotto un'inchiesta nelle colonie di Montalto, San Sisto e Guardia,
vennero alla conclusione che erano tutti eretici e che quindi dovevano o
abiurare o morire.
Ma anche quelli che abiuravano erano costretti a sopportare un severo e
umiliante regime di controllo: non potevano parlare in occitano o sposarsi
tra loro, dovevano andare a messa tutti i giorni, osservare l'obbligo del
digiuno settimanale e indossare l'infamante abitello degli eretici. I
valdesi reagirono con la fuga nei boschi circostanti, ma questo diede il
pretesto a Don Parafan de Ribera, Duca di Alcalà e viceré di Napoli (viceré:
1559-1572) di organizzare, nel giugno 1561, una colossale caccia all'uomo,
usando cani mastini, assoldando veri pendagli da forca come soldati e
mettendo taglie sulle teste dei valdesi fuggiti.
Fu la "San Bartolomeo italiana" (secondo le parole dello storico Salvatore
Caponetto): 60 persone furono ucciso a San Sisto ed il paese, che contava
6000 abitanti, distrutto, mentre a Montalto, l'11 giugno 1561, fu
atrocemente tagliata la gola, uno dopo l'altro, a 88 valdesi, che furono
lasciati dissanguare come agnelli sgozzati: i loro cadaveri furono poi
impalati, come monito, sulla strada per Cosenza.
Ma la strage più impressionante avvenne a Guardia Piemontese: dal 3 giugno
1561 (per circa undici giorni) si calcola che 2000 persone furono
barbaramente trucidate e che un altro centinaio di valdesi furono uccisi
nelle campagne circostanti. Il sangue di quei poveri innocenti colò lungo i
vicoli fino alla porta principale del paese e alla piazza antistante,
denominate, in seguito, "Porta del sangue" e "Piazza della strage". Altri
1600 coloni furono fatti prigionieri, tra cui 700 provenienti da Guardia
stessa: il barba Stefano Negrin morì nel carcere di Cosenza, o per le
torture subite o di fame.
Alcuni valdesi riuscirono a fuggire in Sicilia, ma qui furono coinvolti in
processi tra il 1569 ed il 1582 e giustiziati.
Solo pochi riuscirono a raggiungere un rifugio sicuro a Ginevra e a rifarsi
una vita.


Puglia
In Puglia alcune colonie franco-provenzali (presumibilmente valdesi) si
erano insediate intorno al 1440 nella zona della Capitanata, tra Foggia e
Benevento, nei comuni di Montaguto, La Motta, Celle San Vito, Faeto, ed in
seguito (nel 1517) a Volturara, chiamate dal feudatario locale. Qui
adottarono per prudenza un atteggiamento fortemente nicodemitica,
frequentando le funzioni religiose cattoliche, ma nel 1561, durante la
campagna militare conclusosi con la tremenda strage dei loro confratelli
calabri, venne scoperto il legame religioso che li univa a quest'ultimi.
Dopo un primo intervento in zona dell'inquisitore domenicano Valerio
Malvicino, fresco dell'esperienza calabrese, che fece arrestare parecchi
valdesi ed internarli nelle carceri romane (molti di loro morirono per le
torture inflitte), nel 1563 l'Inquisizione romana decise di optare per una
linea più morbida, mandando in zona i gesuiti, al comando di padre
Cristoforo Rodriguez.
Quest'ultimo, spesso in forte contrasto con l'Inquisitore Generale Michele
Ghisleri, decise di cercare di convincere i valdesi ad abiurare senza
minacce o torture, ma solamente interrogandoli anche più volte di seguito,
finché 1500 coloni accettarono di farsi convertire: un peso determinante
comunque lo ebbe la decisione di Rodriguez di far liberare i valdesi
prigionieri nelle carceri romane e di rimandarli a casa.
Inoltre, nel novembre 1565, egli ottenne il permesso di far levare
l'abitello a coloro che avevano abiurato, pur con l'obbligo di indossarlo in
chiesa , mentre l'obbligo del digiuno settimanale diveniva mensile.
Tuttavia, solo nel 1592 vennero abrogate molte restrizioni, come l'obbligo
di portare l'abitello in chiesa e dei matrimoni solo con persone di lingua
italiana.
Pur scomparendo la differenza religiosa grazie alle massicce conversioni,
rimase comunque l'orgoglio di usare la lingua franco-provenzale, abitudine
tramandata fino ai giorni nostri e che fa dei paesi di Faeto e Celle San
Vito (come, del resto, anche di Guardia Piemontese in Calabria per quanto
riguarda la lingua occitana) un'isola etnica, protetta dall'apposita legge
italiana 482/1999 sulle minoranze linguistiche.