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GIORDANO BRUNO
Testo tratto dal sito: www.eresie.it di Douglas Swannie

BRUNO GIORDANO - STORIA DELLE ERESIE

Paruta, Niccolò (m. ca. 1581)



Niccolò Paruta, medico veneziano, era figlio dell'agiato patrizio Gian
Giacomo e diventò anabattista, partecipando nel 1546 ai Collegia Vicentina,
primo incontro di anabattisti e antitrinitariani veneti.
In seguito, nel 1560 circa, egli abbandonò Venezia, a causa delle sue
convinzioni riformatrici, per rifugiarsi con Andrea da Ponte (1508-1585,
fratello del futuro doge Niccolò da Ponte), a Ginevra. Qui, turbato dalle
polemiche tra Calvino e gli antitrinitariani italiani, scaturite
dall'esecuzione di Miguel Serveto, decise di emigrare in Moravia, ad
Austerlitz, nel 1561.
Nella città morava, P. fondò dei seminaria veritatis, cioè delle comunità di
antitrinitariani italiani, rinforzate con l'arrivo di personaggi famosi come
Giovanni Paolo Alciati della Motta, Giovanni Valentino Gentile e Bernardino
Ochino, cacciati dalla Polonia in seguito all'editto di Parczòw del 1564,
che aveva ordinato l'espulsione di tutti gli stranieri non cattolici. In
particolare Ochino trascorse gli ultimi giorni della propria esistenza, come
ospite in casa del P., nel febbraio 1565.
P. inoltre conobbe e ospitò altri riformati, come Marcantonio Varotta (nel
1566) e Niccolò Buccella, con il quale egli mantenne rapporti duraturi di
amicizia.
Nel 1571-72 P. si trasferì a Cracovia, e nel 1573 in Transilvania, presso il
Collegio unitariano di Kolozsvàr, dove ebbe contatti con Ferenc Dàvid,
Giacomo Paleologo e Giorgio Biandrata, nella cui casa a Nagyenyed, P. morì,
probabilmente nel 1581.
Anche in esilio P., una persona molto dotta, mantenne un buon grado di
agiatezza, potendosi procurare diversi volumi tali da formare una ricca
biblioteca. Inoltre egli scrisse molte opere (la maggior parte andate
perdute), tra cui un catechismo e i suoi due lavori principali, De uno vero
Deo Iehova disputationes e le 11 Theses de trino et uno Deo, queste ultime
stampate a cura di Symon Budny nel 1575.
Dal punto di vista dottrinale, P. si allineò ad un antitrinitarismo di tipo
samosateno (da Paolo di Samosata, fondatore dell'adozionismo), quindi
non-adorante della figura di Cristo ed in contrapposizione con la linea dei
sociniani. Nella sua Theses, P. dimostrò come il dogma trinitario non fosse
mai citato nelle Sacre Scritture e che Gesù fosse un uomo in carne e ossa
della stirpe di Davide, un profeta, nato da Maria, che Dio aveva dichiarato
Cristo e suo figlio unigenito.


Dàvid, Ferenc (1510-1579) e Chiesa Unitariana di Transilvania



La gioventù
Ferenc Dàvid nacque nel 1510 circa a Kolozsvár (in romeno Cluj e in tedesco
Klausenburg), l'allora capitale ufficiosa del principato di Transilvania, da
una famiglia borghese probabilmente di origine sassone. 35 anni più tardi,
proprio in Kolozsvár fu pubblicata per la prima volta la traduzione completa
della Bibbia in ungherese a cura di Gaspar Heltai (m.1574), punto
fondamentale per lo sviluppo della Riforma nel paese.
Il giovane D. studiò alla scuola dei frati francescani di Kolozsvár, ed in
seguito si recò alla scuola della cattedrale di Gyulafehérvár (Alba Julia),
dove fu particolarmente brillante negli studi e dove fu impiegato al
servizio della chiesa per un breve periodo.
Egli finì i suoi studi in università estere, prima a Wittenberg poi a Padova
e finalmente nel 1551 rientrò in Ungheria per trovare una situazione
politica molto seria.


Situazione politica dell'Ungheria nel XVI secolo
Infatti, dopo la disfatta degli ungheresi contro i turchi a Mohacs nel 1526,
il paese magiaro era stato spartito nel 1533 in tre zone: la parte
principale all'impero ottomano, una striscia a nord-ovest agli Asburgo e la
parte orientale alla Transilvania del voivoda (poi principe) Giovanni I
Zapolya (1529-1540), che si era proclamato re d'Ungheria nonostante
l'opposizione degli Asburgo. A Giovanni I era succeduto il figlio minorenne
Giovanni II Sigismondo Zapolya (1541-1571, eccetto il periodo 1551-1556
quando il trono venne reclamato da Ferdinando d'Asburgo), ma, a causa della
sua giovanissima età, il suo regno venne governato fino al 1559 dalla
reggente, la madre Isabella (figlia di Sigismondo I Iagellone di Polonia e
di Bona Sforza) e la sua corte era posta a Gyulafehérvár.


Dàvid luterano
Tornando a D., dapprima egli si stabilì nel nord dell'Ungheria
(corrispondente all'attuale Slovacchia) diventando rettore della scuola
cattolica di Besztercze e successivamente parroco in una cittadina della
zona, ma verso il 1554, D. si accostò alle dottrine luterane e fu nominato
pastore nella sua città natale, Kolozsvár, e solo l'anno dopo, grazie alla
sua notevole popolarità, diventò rettore della scuola luterana nel 1555 e
pastore capo nell'anno successivo.
Nel 1557 arrivò al vertice della sua carriera luterana, quando fu
considerato capo della Riforma in Transilvania e sovrintendente dei luterani
ungheresi.
Egli incontrò in vari dibattiti pubblici il modalista Francesco Stancaro ed
esponenti del calvinismo locale, da cui ne uscì vincitore, ma fu un momento
di riflessione sulle proprie convinzioni religiose.


Dàvid calvinista
Infatti poco dopo entrò in crisi dopo aver riflettuto sulla visione
calvinista della Cena del Signore e fu convertito nel 1559 alla fede
riformata da Peter Juhász (nome umanistico Melius)(ca. 1536-1572) . Fu per
questo espulso dalla Chiesa luterana nel 1560, sebbene cercò di evitare,
purtroppo inutilmente, la spaccatura tra le due principali anime della
Riforma ungherese, il che avvenne irreparabilmente nel 1564.
Sempre nel 1564 D. fu eletto vescovo della Chiesa Riformata di Transilvania,
una delle poche chiese calviniste con un sistema episcopale, e divenne
cappellano personale del re Giovanni II Sigismondo.


Dàvid antitrinitriano
Nel frattempo, nel 1562, era giunto a Gyulafehérvár (Alba Julia),
proveniente dalla Polonia, il medico italiano e dissidente religioso Giorgio
Biandrata, che divenne amico di D. e gli fece leggere una copia della famosa
Christianismi restitutio (La restaurazione del Cristianesimo) di Miguel
Serveto, introducendolo all'antitrinitarismo o unitarismo.
La conversione di D. alla nuova fede fu evidente nel 1566, quando egli fece
rimuovere un professore della scuola di Kolozsvár per aver osato insegnare
la dottrina della Trinità: ma il docente licenziato, assieme al calvinista
Melius, chiese ed ottenne dal re la convocazione di un sinodo nazionale a
Gyulafehérvár, che si svolse nello stesso 1566 per essere poi aggiornato in
una nuova sede, a Torda (sempre in Transilvania).
Il sinodo risultò poi un trionfo per gli unitariani: D. e Biandrata poterono
battere così la concorrenza di Melius, che si consolò con la conferma, al
sinodo di Debrecen, della ortodossia calvinista nella rimanente parte
dell'Ungheria.
Nel frattempo Biandrata fece pubblicare il libro di D. De vera et falsa
unius Dei, Filii et Spiritus Sanctii cognitione (Della falsa e vera
conoscenza dell'unità di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo), nel quale il
riformatore transilvano ridicolizzava la dottrina della Trinità e perorava
la causa della tolleranza religiosa per tutte le fedi.
Questo discorso venne poi ripreso durante la Dieta di Torda nel gennaio
1568, dove  Giovanni II Sigismondo riconobbe la piena libertà a tutte le
confessioni religiose: fu la prima dichiarazione, al mondo, di tolleranza
religiosa mai pronunciata da un regnante.
Oltre a questo, il re aderì apertamente all'unitarismo con molti nobili
della corte e D. divenne il capo della Chiesa Unitariana di Transilvania.
Nel 1570 D. entrò in contatto, e ne fu influenzato, con lo studioso
italo-greco Giacomo Paleologo e il suo discepolo locale, il rettore del
ginnasio di Kolozsvár, János Sommer (1540-1574). Paleologo polemizzava con
un altro famoso antitrinitariano, Fausto Sozzini, a riguardo della figura di
Gesù Cristo, che, per il Sozzini, era un vero uomo crocefisso, il cui
compito era di rivelare Dio agli uomini, permettendo loro di raggiungere
così la salvezza, seguendo il Suo esempio. Il Paleologo, invece, negava il
ruolo di guida del Cristo, per i fedeli verso la salvezza, e rifiutava,
conseguentemente, ogni forma di adorazione di Gesù Cristo. Per questo, il
Paleologo e i suoi seguaci, tra cui si associò anche D., vennero denominati
antitrinitariani non-adoranti in contrapposizione al pensiero sociniano di
tipo adorante. Alla corrente non-adorante aderì anche l'ex vescovo cattolico
e ambasciatore (di madre italiana) Andrea Dudith-Sbardellati.
Purtroppo il momento magico per D. finì solo tre anni dopo, nel 1571 con la
morte a soli 31 anni di Giovanni II Sigismondo e la salita al trono del
cattolico Stefano I Báthory (1571-1586), divenuto in seguito anche re di
Polonia dal 1576 al 1586.
Stefano I Báthory tolse a D. l'incarico di cappellano personale del re e gli
impedì di pubblicare altri scritti: fu un momento molto amaro per D., che
oltretutto, pochi anni dopo, entrò in conflitto sia con Sozzini, che con
l'ex amico Biandrata, per la sopramenzionata polemica tra adoranti e
non-adoranti.
Dopo essere stato accusato di blasfemia da parte di Biandrata nell'aprile
1579, fu fatto arrestare in giugno e imprigionare nella fortezza di Déva
dove, a causa del clima rigido e del fisico debilitato, D.  morì il 15
novembre dello stesso anno.
La Chiesa Unitariana di Transilvania, fondata da D., pur attraverso mille
traversie, spietate persecuzioni da parte degli Asburgo cattolici e
spedizioni punitive da parte di fanatici rumeni ortodossi, esiste ancora
oggi formata da 125 chiese, sebbene divisa dal 1918 in un troncone ungherese
(di circa 70/80.000 fedeli) ed uno rumeno.


Davide di Dinant (ca. 1160 - ca. 1215)



La vita
Davide di Dinant, filosofo e naturalista fiammingo del XII secolo, nacque
probabilmente intorno al 1160, a Dinant nell'odierno Belgio oppure a Dinan
in Bretagna.
D. insegnò filosofia all'università di Parigi, dove fu influenzato dagli
insegnamenti di Platone e Aristotele. Di quest'ultimo, D. ebbe l'opportunità
di leggere le idee rielaborate da commentatori arabi, come Avicebron
(1020-1069 ca.), autore della Fons Vitæ, e solo in quegli anni disponibili
ritradotti in latino.
Nel 1210 il libro Quatermuli (quaderni di appunti) di D., confutato
successivamente da San Alberto Magno (1205-1280) e San Tommaso d'Aquino
(1221-1274), fu condannato dalla Chiesa ad essere distrutto sul rogo,
condanna confermata nel 1215 dal legato pontificio Cardinale Robert Courçon
(m. 1218).  D. stesso dovette fuggire dalla Francia per sottrarsi alla
cattura e morì dopo il 1215.
La sua opera principale fu chiamata anche De tomis id est de divisionibus e
di essa ci sono giunti alcuni frammenti. La condanna degli scritti di D.
coinvolse anche quelli di Aristotele e per un certo periodo, fu bandito lo
studio del suo pensiero.


La dottrina
Come il suo collega Amalrico di Béne, D. insegnava un credo di tipo
panteistico e neoplatonico, che prendeva ispirazione direttamente da
Giovanni Scoto Eriugena: in particolare che Dio era compreso in tutte le
cose, Egli era, cioè, la materia prima comune a tutti gli esseri corporei ed
incorporei, l'essenza di tutto ciò che esisteva, e quindi della realtà, che
veniva diviso in tre categorie, materia (il corpo), intelletto (l'anima) e
spirito.
Dio dunque, secondo D., era l'elemento, invariabile e senza forma, alla base
di tutto: le differenze visive delle cose tra di loro diverse erano
solamente apparenze superficiali.


Morone, Giovanni, cardinale di Modena (1509-1580)



I primi anni
Giovanni Girolamo Morone nacque il 25 gennaio 1509 a Milano da una nobile ed
illustre famiglia: il padre Conte Gerolamo Morone (1470-1529) era stato Gran
Cancelliere sotto i duchi Massimiliano (1512-1515) e Francesco II
(1522-1535) Sforza, ma, a causa di una congiura fallita contro gli spagnoli
nel 1525, era caduto in disgrazia presso l'imperatore Carlo V (1516-1556) ed
era stato imprigionato e in seguito aveva dovuto recarsi in esilio a Modena,
dove il giovane M. era stato educato.
L'adolescente M. aveva studiato con profitto giurisprudenza a Padova e nel
1529, all'età di soli 20 anni, era stato nominato vescovo di Modena, in
cambio di un importante servigio reso dal padre al papa Clemente VII
(1523-1534). Tuttavia la nomina venne violentemente contestata dal cardinale
Ippolito d'Este (1509-1572), a cui pare la sede fosse stata promessa: con
l'ausilio del fratello, il duca di Ferrara, Alfonso I d'Este (duca:
1505-1534) Ippolito si impossessò con la forza della sede vescovile e non lo
cedette al M. fino al 1532 e solo dietro un vitalizio annuale di 400 ducati.


M. in Germania
Nel frattempo M. venne utilizzato da Papa Paolo III (1534-1549) in delicate
missioni all'estero, soprattutto in Germania: dal 1536 fu nunzio presso
Ferdinando I, re dei Romani ed in seguito imperatore (1556-1564), e legato
pontificio alle Diete di Hagenau del 1540, Ratisbona del 1541 e Spira nel
1542.
Fu in questo periodo che M. imparò a conoscere da vicino il luteranesimo ed
a rendersi conto che le colpe della scissione non erano proprie tutte da
addossare ai protestanti. Infatti, quando il 17 giugno 1537, il cardinale
Jacopo Sadoleto scrisse a Melantone, convinto della possibilità di dialogo
tra le chiese cristiane e desideroso di allacciare un rapporto con il più
disponibile tra i riformatori luterani al dialogo con i cattolici, l'unico a
prendere le difese del criticatissimo Sadoleto fu M., che gli scrisse una
lettera di solidarietà.


M. ed il Concilio di Trento
Il 1 novembre 1542 M. (creato cardinale il 2 giugno dello stesso anno),
assieme ai cardinali Reginald Pole e Pietro Paolo Parisio, vescovo di Nusco
(m.1545), fu incaricato da Paolo III di aprire ufficialmente i lavori del
Concilio di Trento (lavori ufficiali: 1545-1563), ma questo primo tentativo
di iniziare il tanto atteso concilio fu un vero fallimento. Comparvero
pochissimi delegati e i lavori furono sospesi il 6 luglio 1543.
All'apertura ufficiale dei lavori conciliari nel dicembre 1545, M. non
partecipò in quanto era stato, nel frattempo, nominato legato pontificio a
Bologna. Successivamente egli venne incaricato dal papa Giulio III
(1550-1555) di organizzare il rientro dei lavori del concilio nella sede
originaria di Trento, dopo il momentaneo trasferimento degli stessi proprio
a Bologna.


M. a Modena
Per quanto riguarda la sua sede vescovile di Modena, egli vi rientrò nel
1542 e in settembre, avendo ricevuto allarmanti relazioni dal suo vicario
Domenico Sigibaldi, obbligò i partecipanti dell'Accademia Grillenzoni a
sottoscrivere un formulario di fede cattolica, redatto dal cardinale Gasparo
Contarini, gli Articuli orthodoxae professionis, per allontanare il sospetto
di un livello di eresia locale talmente diffusa e incontrollabile da
richiedere un successivo intervento dell'Inquisizione. Degli intellettuali
riformati coinvolti, Ludovico Castelvetro si rassegnò a sottoscrivere il
formulario, invece Filippo Valentini ed il professore universitario
Francesco Porto (1511-1581) si rifiutarono, preferendo allontanarsi dalla
città.
Eppure, d'altra parte, con la nota tecnica di un colpo al cerchio e uno alla
botte, M. invitò nella propria diocesi predicatori eterodossi, come il
domenicano Bernardo de' Bartoli nel 1543 o il minorita Bartolomeo Golfi
Della Pergola, che predicò a Modena durante la quaresima del 1544.
Evidentemente l'interesse di M. per la Riforma - lesse con grande interesse
Il Beneficio di Christo di Benedetto Fontanini e gli scritti di Marcantonio
Flaminio - era comunque permeato da un solido nicodemismo: fu, in questo
senso, criticato nella Tragedia intitolata Libero arbitrio di Francesco
Negri da Bassano. Eppure la prudenza non fu sufficiente a M. per evitare una
prima inchiesta aperta nel 1552 da parte del Grande Inquisitore Gian Pietro
Carafa.
Nel 1550 M. rinunciò alla sede di Modena a favore del valdesiano Egidio
Foscherari in cambio di una rendita annuale, ma cinque anni più tardi Giulio
III decise di nominarlo vescovo di Novara (comunque alla morte di Foscherari
nel 1564 M. fu nuovamente proclamato vescovo di Modena).


Il processo
Nel 1555 M. venne inviato come legato pontificio alla Dieta di Augusta, ma
l'improvvisa morte di Giulio III e l'elezione del fanatico Carafa, con il
titolo di Papa Paolo IV (1555-1559), lo obbligò ad un rientro in Italia,
seguito dallo stato di messa in accusa da parte di Paolo IV per eresia.
Era l'inizio del regolamento di conti di Paolo IV nei confronti dei
cosiddetti "spirituali", che tra il 1557 ed il 1558 portò in carcere, tra
gli altri, M., l'arcivescovo di Otranto Pietro Antonio di Capua, il vescovo
di Cheronissa Giovanni Francesco Verdura, il sopramenzionato Egidio
Foscherari, il cavaliere Mario Galeota ed il nobile Bartolomeo Spadafora:
Reginald Pole si salvò solo per l'intercessione della regina cattolica
d'Inghilterra, Maria Tudor (1553-1558).
M. subì un processo inquisitoriale per sue idee sospette sulla
giustificazione per fede e sulla venerazione dei santi e delle reliquie e
incarcerato il 31 maggio 1557 a Castel Sant'Angelo. Per la verità, le accuse
contro di lui decaddero poco dopo, ma l'orgoglioso cardinale pretese le
scuse ufficiali del papa, che non arrivarono, e quindi egli poté essere
liberato solo dopo la morte di Paolo IV il 18 agosto 1559.


Gli ultimi anni
Il nuovo papa, Pio IV (1559-1565) lo scagionò completamente dalle accuse nel
1560 e nel 1563 lo invitò a presiedere ai lavori conciliari a Trento.
Nel 1566 egli fu uno dei principali candidati al seggio papale, ma gli fu
preferito Michele Ghisleri (un altro inquisitore!), che assunse il nome di
Pio V (1566-1572) e che doveva tutta la sua carriera a Paolo IV: arrivato al
potere, nel 1568 Pio V iniziò a far raccogliere da parte dell'Inquisitore
domenicano Camillo Campeggi (diventato poi vescovo di Nepi e Sutri) una
serie di documentazione atta ad incastrare definitivamente M. e gli altri
spirituali, ma, benché l'Inquisizione procedesse con estrema severità contro
alcuni spirituali (un esempio per tutti il rogo di Pietro Carnesecchi), non
si giunse ad un nuovo processo contro M. probabilmente per la morte di Pio V
nel 1572.
Finalmente la situazione per M. ritornò normale sotto il successore Gregorio
XIII (1572-1585): M. svolse missioni all'estero, ricoprendo incarichi
ufficiali, ad esempio legato pontificio alla Dieta di Ratisbona nel 1576 e
cardinale protettore d'Inghilterra nel biennio 1578-79.
Infine, poco prima della sua morte, avvenuta il 1 dicembre 1580, M. fu
nominato cardinale vescovo di Ostia.


De Dominis, Marco Antonio, arcivescovo di Spalato (ca. 1560-1624)



D. scienziato
L'ecclesiastico e scienziato dalmata Marco Antonio De Dominis nacque nel
1560 circa (altre fonti citano il 1566) sull'isola di Arbe, in Dalmazia, da
una nobile e agiata (il padre era un avvocato) famiglia veneziana.
Venne educato dai Gesuiti nel collegio illirico di Loreto e all'università
di Padova, ma le fonti discordano sul fatto che fosse poi entrato
successivamente nell'ordine: secondo alcuni ne fu dissuaso dal cardinale
Ippolito Aldobrandini, il futuro Papa Clemente VIII (1592-1605). Dopo aver
completato i suoi studi a Verona, D. divenne nel 1588 professore di
matematica a Padova e nel 1590 professore di retorica, logica e filosofia a
Brescia, ma fu soprattutto il periodo padovano a potargli notorietà per i
suoi studi nel campo dell'ottica, sulla teoria del telescopio e sul fenomeno
dell'arcobaleno. Il suo trattato in merito Tractatus de radiis visus et
lucis in vitris, perspetives et iride, pubblicato nel 1611, fu citato, molti
anni dopo, da Isacco Newton (1642-1727) nel suo lavoro Optics.


D. arcivescovo di Spalato
Nel 1596, grazie all'influenza dell'imperatore Rodolfo II (1578-1612), D. fu
nominato vescovo di Segna (Zengg), e, nel 1600, di Modrus (ambedue in
Dalmazia), ma soli due anni dopo, nel novembre 1602, fu trasferito a Spalato
per diventare, dopo 200 anni di dominio veneziano, il primo arcivescovo di
Spalato nato in Dalmazia, oltre che Primate della Dalmazia e Croazia.
Dopo un iniziale periodo positivo del suo mandato, D. entrò in conflitto con
i suoi sottoposti, come il vescovo di Traù (Trogir), ma soprattutto si mise
nei guai, prendendo le parti di Venezia nel 1606 durante la polemica in atto
tra la Serenissima e il Papa Paolo V (1605-1621), che voleva anteporre la
sua autorità alle leggi veneziane. Il conflitto era stato scatenato dal
famoso fra' Paolo Sarpi (1552-1623), che aveva perfino meditato di far
passare la città alla Riforma. Infatti, in seguito all'interdetto lanciato
sulla città da parte del papa Paolo V il 17 luglio 1606, Sarpi aveva
studiato questa clamorosa possibilità, tuttavia non se ne fece niente perché
le vere motivazioni di Sarpi erano più politiche (contro lo strapotere del
papato di Roma) che dottrinali (a favore della Riforma).
D. non solo, come si è già detto, prese le parti di Venezia, ma divenne
amico ed ebbe una fitta corrispondenza con il Sarpi, e inoltre attraverso i
propri studi di diritto canonico, storia della Chiesa e teologia dogmatica,
si rese man mano conto, come lui stesso raccontò nel suo Consilium
profectionis, che il sistema papale era ben lontano dall'ideale di una vera
Chiesa Cattolica.


Esilio in Svizzera e Inghilterra
Da queste sue convinzioni derivò la decisione, dopo un'inutile visita a Roma
per vedere il papa Paolo V, di rassegnare dal ruolo di arcivescovo di
Spalato nel settembre 1616 e di riparare inizialmente in Svizzera,
nonostante un perentorio invito a presentarsi a Roma per spiegare la propria
posizione soprattutto dopo che iniziarono a girare le voci che D. stava
scrivendo un testo fortemente antipapale. Questa spiegazione la fornì invece
al governo veneziano in una lettera, in cui scrisse che voleva dire sì solo
la verità, ma che temeva la rappresaglia dell'Inquisizione.
Quindi, dopo aver avuto assicurazioni da parte dell'ambasciatore inglese a
Venezia, Sir Henry Wotton, su una sicura e positiva accoglienza in
Inghilterra, D. decise dalla Svizzera di recarsi nel Regno Unito, passando
da Heidelberg, dove scrisse il libello antipapale Scogli del naufragio
Christiano, e da Rotterdam, e giungendo infine a Londra il 26 dicembre 1616.
Qui, raggiunto nel frattempo dalla notizia di essere stato scomunicato dalla
Chiesa Cattolica, egli venne accolto a braccia aperte dal re Giacomo I
d'Inghilterra (precedentemente Giacomo VI di Scozia dal 1567) (1603-1625),
che lo fece acquartierare presso l'arcivescovo abate di Canterbury,
garantendogli la terza posizione ecclesiastica più importante dopo gli
arcivescovi di Canterbury e York e obbligando gli altri vescovi a pagargli
una pensione.


De republica ecclesiastica contra Primatum Papae
A Londra D. pubblicò in rapida successione altri due violenti attacchi
contro il  potere papale, a parte il già citato Scogli del naufragio
Christiano (1618), e cioè il Papatus Romanus (1617), ma soprattutto il suo
lavoro principale, l'utopico De republica ecclesiastica contra Primatum
Papae (1617-1620).
Questo testo era stato influenzato dalle idee dello spiritualista e
apologista Richard Hooker (1554-1600), autore del ponderoso Treatise on the
laws of ecclesiastical polity (trattato sulle leggi del governo
ecclesiastico) a difesa della scelta episcopale nella struttura della Chiesa
d'Inghilterra.
Nel suo testo D. scrisse che la Chiesa Cattolica (repubblica e non più
monarchia pontificia) avrebbe dovuto essere organizzata su una base federale
e non più centralizzata, sebbene sempre con un papa come capo simbolico, o
sovrintendente generale, di una Chiesa Universale. D. ipotizzò inoltre la
composizione di questa Chiesa Universale, nel quale far convivere, assieme a
quella cattolica, tante confessioni cristiane, come quelle anglicane,
calviniste, luterane, zwingliane, greco-ortodosse e perfino la Chiesa
d'Etiopia. Accettò la dottrina protestante dei soli due sacramenti, il
Battesimo e l'Eucaristia, sebbene nella sua ipotetica Chiesa federale stava
ai vescovi, ai patriarchi o ai primati la responsabilità di dare le
disposizioni finali in materia dottrinale, quand'anche fosse stato di
accettare tutti e sette i sacramenti.


Studi scientifici in Inghilterra
Nel 1617, anno della sua massima popolarità, D., che già svolgeva
un'apprezzata attività di professore a Oxford e Cambridge, assistette alla
consacrazione di George Montaigne come vescovo di Lincoln e fu nominato da
Giacomo I Decano di Windsor. Inoltre i suoi studi sui fenomeni ottici, già
iniziati a Padova, e sulla teoria delle maree (fu il primo ad ipotizzare una
forza attrattiva tra la Terra e la Luna), lo resero molto popolare e i suoi
scritti furono tradotti dal latino in varie lingue (inglese, francese,
tedesco e polacco). Nel 1618 fu nominato Maestro della Cappella di Savoy a
Londra e infine nel 1619 egli pubblicò a Londra il manoscritto di Paolo
Sarpi, Historia del Concilio Tridentino, con una introduzione antipapale di
D. e una lettera dedicatoria a Giacomo I: tuttavia in questa occasione
rivelò uno dei suoi peggiori vizi, l'avarizia. Infatti si rifiutò di dare a
Sarpi un solo soldo di quelli ricevuti dal re inglese come compenso per la
pubblicazione del testo del frate veneziano!


Ritorno al cattolicesimo
Questo e altri suoi difetti fecero sì che, dopo cinque anni di permanenza in
Inghilterra, i suoi rapporti con la Chiesa anglicana e con il re Giacomo I
fossero notevolmente raffreddati. Dopo l'annuncio del possibile matrimonio
del principe Carlo (poi re Carlo I: 1625-1649) con una principessa spagnola
cattolica e l'elezione del suo parente Alessandro Ludovisi a Papa Gregorio
XV (1621-1623) nel 1621, D. espresse il desiderio di ritornare in seno alla
Chiesa Cattolica nel gennaio 1622. La reazione del re inglese fu giustamente
irata per il clamoroso voltafaccia, ma alla fine, nonostante che fosse già
stato imbastito un processo a carico dell'ex arcivescovo dalmata, solo
grazie all'intervento dell'ambasciatore di Spagna gli fu permesso di
partire, sebbene le casse con il suo denaro furono sequestrate e restituite
solo dopo un penoso e pietoso appello personale al sovrano inglese.
Una volta fuori dall'Inghilterra, i suoi attacchi contro la Chiesa anglicana
furono altrettanto violenti come i precedenti contro la Chiesa Cattolica e
nel lavoro Sui reditus ex Anglii consilium del 1623, egli si rimangiò tutto
quello che aveva scritto nel  Consilium profectionis, dichiarando di aver
deliberatamente mentito nelle sua accusa contro il papato.
Dopo un soggiorno di sei mesi a Bruxelles, egli si recò a Roma, dove visse
con una lauta pensione garantita dal papa. Tuttavia Gregorio XV morì
inopinatamente nel luglio 1623, la pensione cessò durante la sede vacante e
non fu più erogata sotto il successivo papa, Urbano VIII (1623-1644) e il
noto attaccamento ai soldi di D. non gli fece tenere a freno la lingua.
L'Inquisizione ne approfittò per riesumare il suo vecchio caso e farlo
imprigionare a Castel Sant'Angelo con la gravissima accusa di essere un
eretico relapso: avendo già abiurato, egli era in serio pericolo di essere
giustiziato sul rogo.
Ma D, si ammalò gravemente in carcere e morì a Castel Sant'Angelo l'8
settembre 1624, mentre stava preparando la sua linea difensiva e prima che
il processo finisse comunque con la sua condanna al rogo, a causa di
compromettenti incartamenti trovati dopo la sua morte: i giudici dovettero
accontentarsi di bruciare il suo cadavere e i suoi manoscritti il 21
dicembre dello stesso anno a Campo dei Fiori.


Dee, John (1527-1608)



La vita
Il matematico, mago e astrologo inglese John Dee nacque il 13 luglio 1527 a
Londra, figlio unico di Roland Dee (m. 1555), un ricco mercante in tessuti
di origine gallese e sarto alla corte di Enrico VIII d'Inghilterra
(1509-1547), e di sua moglie Jane Wild.
Dal 1537 il giovane D. fu mandato a studiare alla Chantry School di
Chelmsford, nella contea dell'Essex, poi entrò, nel 1542, nella St. John's
College, a Cambridge, dove studiò matematica e astronomia, ottenendo il suo
baccalaureato nel 1546, anno in cui fu nominato membro della Trinity
College, a Cambridge, fondata da Enrico VIII.
Nel 1547 D. decise di recarsi in Olanda per motivi di studio: ritornato dopo
un anno ottenne il laurea in arti liberali, ma dopo poco dovette riparare
all'estero sotto l'accusa di congiura.
Ritornò quindi nuovamente nei Paesi Bassi, a Lovanio e Bruxelles, e in
Francia, a Riems, abitandovi tra il 1548 ed il 1551 e studiando con famosi
studiosi locali, come il cartografo Gerardo Mercatore (1512-1594) e il
matematico Pedro Nunez (Nonius) (1492-1577).
D. rientrò in Inghilterra nel 1551 e ottenne una rendita di 100 corone dal
re Edoardo VI (1547-1553) e la posizione di rettore di Upton-upon-Severn.
Tuttavia, dopo la salita al trono della regina Maria Tudor, detta la
Sanguinaria (1553-1558), D. fu, nel 1555, accusato di stregoneria, ed in
particolare di aver attentato alla vita della regina per mezzo di sortilegi
maligni e calcoli matematici (pare che la futura regina Elisabetta gli
avesse chiesto di calcolare la data della morte della sorellastra!) e fu
quindi imprigionato a Hampton Court.
Dopo la sua liberazione, le sue fortune iniziarono a migliorare con l'ascesa
sul trono d'Inghilterra proprio di Elisabetta I (1558-1603), in particolare
quando il favorito della regina, Lord Robert Dudley (1532-1588), chiese a D.
di scegliere una data propizia per l'incoronazione della sovrana, che in
questa occasione prese alcune lezioni di astrologia dal mago, rimanendone
molto impressionata.
Nei successivi cinque anni D. si dedicò ai suoi studi di astrologia,
astronomia, alchimia, matematica, occultismo e magia bianca, e ad ampliare
la sua ricca biblioteca, ma nonostante i favori di Elisabetta I, egli non
riuscì ad ottenere una totale tranquillità economica, quindi, per tagliare
le spese, andò ad abitare da sua madre a Mortlake, nella contea del Surrey.
In questa casa (che ereditò nel 1580) egli pose la sua biblioteca di 4.000
volumi e 700 manoscritti, oltre a rari e strani oggetti, alcuni dei quali
andarono distrutti a causa di successive incursioni e devastazioni
(soprattutto durante i suoi frequenti viaggi all'estero) da parte di
teppisti superstiziosi, i quali lo ritenevano amico del Diavolo.
Tra il 1564 e il 1571 egli fece diversi viaggi in Europa [tra l'altro regalò
una copia della sua Monas hieroglyphica al neo-eletto imperatore
Massimiliano II (1564-1578)], mentre in patria, nello stesso periodo, fu
impiegato per istruire gli equipaggi delle navi della Compagnia di
Navigazione anglo-russa Muscovy, fondata dal celebre esploratore Sebastiano
Caboto (1474-1557). Nel 1577 egli pubblicò il trattato Perfect Arte of
Navigation (L'arte perfetta della navigazione), in realtà un testo di
propaganda per la creazione di un impero britannico, mentre l'anno dopo
(1578), dopo due matrimoni senza eredi, si sposò con Jane Fromands, da cui
ebbe otto figli.
Dal 1581 egli iniziò ad indagare sempre di più il mondo del soprannaturale,
soprattutto degli angeli, dapprima con esperimenti di cristallomanzia, una
tecnica divinatoria usando sfere di cristallo o bacinelle d'acqua, e
successivamente con ben più inquietanti sedute di divinazione, mediante
rievocazione di morti (necromanzia), con l'aiuto di Edward Kelly
(1555-1593), un medium, sensitivo e alchimista, comunque un vero truffatore,
a cui, per punizione, erano state tagliate le orecchie, e che D. conobbe nel
1582. Tuttavia non tutti gli autori concordano sul fatto che D. abbia mai
partecipato agli esperimenti di necromanzia organizzati da Kelly.
I due, con le proprie famiglie, viaggiarono tra il 1583 ed il 1589 in
Polonia, dove furono ospitati e sponsorizzati dal conte palatino di Siradz,
Albert Laski, nipote del famoso riformatore Jan Laski.
A Cracovia nel 1585 D. incontrò e fece amicizia con il pensatore utopistico
Francesco Pucci, che accompagnò D. e Kelly  i due nel loro viaggio a Praga
per andare a visitare l'imperatore Rodolfo II (1578-1612). Qui il loquace e
polemico Pucci abbandonò la compagnia dei due maghi (con sollievo di D., che
lo considerava pericolosamente chiacchierone e utopico: aveva perfino
cercato di convincere D. ad andare a Roma per presentare al papa i suoi
esperimenti di necromanzia!). A Praga i due furono ricevuti da Rodolfo II,
al quale, si dice, D. abbia venduto il misterioso (e tuttora non decifrato)
manoscritto Voynich.
Sempre a Praga l'alchimista ebreo Jacob Eliezer, noto come il Rabbi Nero,
donò a D. un libro di magia nera e necromanzia denominato Necronomicon, ma
il mago fu fortemente impressionato dalla lettura e dallo studio del testo.
Poco dopo D. e Kelly litigarono e si separarono in seguito alla disinvolta
(e indecente) proposta di Kelly di mettere le mogli in comune (sic!): D.,
ammalato e a corto di quattrini, decise di rientrare a Mortlake nel 1589,
per amaramente constatare che la sua biblioteca, in sua assenza, era stata
saccheggiata dai teppisti.
Kelly andò incontro ad un ben più tragico destino: spacciandosi come lo
scopritore della Pietra Filosofale e dell'Elisir di Lunga Vita, fu
eventualmente arrestato come eretico e stregone, dapprima a Praga poi nella
Germania meridionale, dove, nel corso di un tentativo di evasione nel 1593,
cadde rompendosi due coste e ambedue le gambe e riportando ferite così gravi
che ne morì poco dopo.
Per D. il rovescio economico creato dal furto dei libri ed oggetti nella sua
biblioteca fu molto grave e per anni egli si dibatté in condizioni molto
disagiate finché la regina Elisabetta, nel 1596, non lo nominò dapprima
cancelliere della Cattedrale di San Paolo a Londra, poi sovrintendente del
Christ College di Manchester, dove egli si trasferì con la sua famiglia:
purtroppo nella città inglese scoppiò nel 1605 un'epidemia di peste, che
uccise sua moglie e diversi suoi figli.
Precedentemente egli aveva lavorato sulla traduzione in inglese del
famigerato Necronomicon, che però non venne mai stampato e probabilmente
contribuì alle accuse di stregoneria, contro le quali egli dovette
difendersi negli ultimi anni della sua vita.
D. morì poverissimo a Mortlake il 26 marzo 1609.


Le opere
Come già detto, la vastità degli studi di D. sulla astrologia, astronomia,
alchimia, matematica e magia bianca, è veramente notevole. Le opere più
importanti sono:
Monas hieroglyphica (1564), un testo di ermetismo, cabala ed alchimia.
Propaedeumata Aphoristica (1568), una miscela di concetti di fisica,
matematica, astrologia e magia.
Parallacticae commentationis praxosque (1573), un trattato di metodi
trigonometrici per calcolare le distanze delle stelle.
Perfect arte of navigation (1577), un libro di propaganda per la creazione
di un impero britannico.
Inoltre l'esperienza fatta nelle comunicazioni con gli angeli di D. e Kelly
venne riassunta nel libro A true and faithful relation of what passed
between Dr. Dee and some spirits (Una vera e fedele relazione delle
comunicazioni tra il Dr. Dee e alcuni spiriti), scritto da Méric Casaubon
(1599-1671), figlio del più noto Isaac, basandosi sulle annotazioni
originali del mago inglese, rinvenute dopo la sua morte.



Rioli, Giorgio (Siculo, Giorgio) (ca. 1517-1551) e i georgiani



La vita
Né con la Chiesa Cattolica, né con i Protestanti: Giorgio Rioli  iniziò
questa sua scomoda avventura di dissidente isolato, nascendo nel 1517 circa
a San Pietro Clarenza, sulle pendici dell'Etna, in provincia di Catania.
Della prima parte della vita di quest'uomo, più universalmente noto come
Giorgio Siculo (che, contrariamente alle convinzioni di alcuni autori, non
ha nulla a che fare con il corregionale Camillo Renato), non si conosce
praticamente nulla fino alla sua ammissione nel monastero benedettino di San
Niccolò l'Arena di Catania il 24 febbraio 1534, dove conobbe e diventò amico
del confratello Benedetto Fontanini da Mantova, l'autore dell'arcinoto
Beneficio di Christo, residente nel monastero di Catania tra il 1537 ed il
1543.
R. fu un uomo indubbiamente carismatico, ma di scarsa cultura: scriveva in
dialetto siciliano e, per poter rendere i propri testi più leggibili,
necessitò spesso di traduzioni in italiano o in latino fornite da parte dei
confratelli, o il sopramenzionato Benedetto Fontanini o Luciano degli
Ottoni, abate di Santa Maria di Pomposa e uno dei suoi più convinti seguaci.
Alla fine del 1546 egli cercò di intervenire nei lavori del Concilio di
Trento (1545-1563), inviando il suo De iustificatione ad Ottoni, poi
cercando di farsi ricevere direttamente dal cardinale Reginald Pole, per
presentare le sue dottrine profetiche ed apocalittiche.
Poco dopo, nel 1548 esplose il caso di Francesco Spiera, l'avvocato di
Cittadella, che aveva dovuto abiurare dal suo credo luterano, ma che, in
seguito, ne era morto per il rimorso. R., dopo il tentativo di intervento al
concilio di Trento, era comunque rimasto in zona, e più precisamente a Riva
di Trento, dove dedicò ai fedeli della cittadina una predica quaresimale sul
caso Spiera, da cui venne tratta la sua opera più nota, l'Epistola di
Georgio Siculo (.).
Ma, solo qualche mese dopo, nel settembre 1550, mentre stava predicando
contro i luterani a Ferrara, fu arrestato con l'accusa di eresia. Da una
parte non poteva certo contare sull'appoggio dei evangelisti e riformatori,
i quali, come Giulio Della Rovere o Celio Secondo Curione o perfino lo
stesso Calvino, lo avevano (o lo avrebbero) attaccato duramente nei loro
scritti, dall'altra il cardinale Ercole Gonzaga (1505-1563) aveva coinvolto
il cugino duca Ercole II d'Este (1534-1559) per poter punire esemplarmente
il monaco benedettino e reprimere il più possibile la setta dei seguaci del
"Don Georgio impio heretico", come R. stesso venne definito da un
inquisitore. Perfino l'Inquisizione romana si interessò a lui e ne chiese
inutilmente l'estradizione, ma il duca di Ferrara si assicurò che il
processo si svolgesse sotto la sua giurisdizione.
Durante il processo R. dichiarò la sua decisione di abiurare, e quindi fu
ordinato che dovesse farlo pubblicamente il 30 marzo 1551 nella chiesa di
San Domenico a Ferrara, davanti all'Inquisitore fra' Michele Ghisleri da
Alessandria (il futuro Pio V: papa dal 1566 al 1572) e ad Ercole II d'Este,
ma sorprendentemente, considerando che egli era stato uno strenuo difensore
dell'atteggiamento nicodemitico, R. si rifiutò.
A quel punto, il suo destino era segnato: riportato in carcere, R. vi fu
strangolato due mesi dopo, la sera del 23 maggio 1551.


Le opere
Detto del De iustificatione del 1546, il libro di R. che ebbe la maggior
diffusione, ma che sollevò anche un grande scalpore, fu l'Epistola di
Georgio Siculo servo fidele di Iesu Christo alli cittadini di Riva di Trento
contra il mendatio di Francesco Spiera et falsa dottrina de' protestanti,
stampata nel 1550 a Bologna. Benché all'apparenza sembri un testo cattolico
tutto proteso contro la dottrina calvinista della predestinazione e di
quella luterana della giustificazione per sola fede, il testo anelava
invece, similmente alla "terza via cristiana", e cioè al pensiero
anabattista e antitrinitario (quest'ultimo secondo la dottrina di Miguel
Serveto), alla palingenesi o apocatàstasi, la salvezza per tutta l'umanità,
grazie all'opera redentrice del Vangelo trasmesso da Cristo morto in croce e
per mezzo della Grazia di Dio.
Poco dopo, nello stesso anno, comparve il suo Espositione.nel nono decimo et
undecimo capo della Epistola di San Paolo alli Romani, con un suo commento
sulla lettera paolina più discussa dai luterani.
Gli altri suoi pensieri, noti in forma orale durante la sua vita, furono
pubblicati postumi in un libro, latinizzato da Luciano degli Ottoni, con il
titolo di Libro maggiore o Libro grande o Libro della verità christiana et
dottrina apostolica.


La dottrina
Profetico, mistico e apocalittico, R. raccontava ai suoi seguaci che Cristo
gli era apparso in persona per comunicargli che tutti i sacramenti erano
completamente inutili (anche il Battesimo, ed in questo si differenziava
dagli anabattisti) e che l'unica cosa che poteva rimettere i peccati era la
fede nel Signore.
R. inoltre negava l'autorità papale, la gerarchia ecclesiastica, il culto
della Vergine e dei santi, il valore meritorio delle opere, la messa, le
indulgenze, la presenza reale nell'Eucaristia, ma esaltava la ragione e la
dignità della natura umana.
Indipendente e critico delle correnti principali del protestantesimo, R.
favoriva una religiosità semplificata e spirituale: per lui, era preferibile
mantenere una certa indifferenza di fronte alle professioni di fede e anzi
perfino accettare esteriormente una confessione religiosa, soprattutto
quella cattolica, anche se non vi si credeva. Da qui le pesanti accuse di
nicodemismo lanciate da Calvino.


I seguaci
Le idee di R. ebbero un certo seguito negli anni successivi ed influenzarono
diversi dissidenti e seguaci, denominati georgiani, come:
Il già citato Luciano degli Ottoni, che dovette dimettersi dall'incarico di
abate di Pomposa e fu processato nel 1552, ma che morì alla fine dello
stesso anno.
Il medico e poeta di Argenta Francesco Severi, che fu decapitato e arso a
Ferrara nel 1570,
Il prete e letterato ferrarese Nascimbene Nascimbeni (m. dopo 1578), che
abiurò per opportunità nel 1551 e nel 1560, ma che nel 1570 si presentò
spontaneamente agli Inquisitori, permettendo di riaprire il procedimento
decisivo a carico dei seguaci di S.  oramai vent'anni dopo la morte del loro
capostipite.
Francesco Pucci, curiosamente considerato l'erede del pensiero di R., pur
non avendolo mai conosciuto.


La vita
Il grande giurista e filosofo Ugo Grozio (forma italianizzata di Huig De
Groot) nacque il 10 aprile 1583 a Delft, in Olanda, da Jan De Groot, sindaco
di Delft e curatore dell'università di Leida, discendente da una famiglia
nobile di lontane origini francesi.
Bambino prodigio, già all'età di 8 anni G. componeva versi in latino e, a 11
anni, iniziò a frequentare l'università di Leida, dove si laureò a soli 15
anni, nel 1598. Nello stesso anno egli accompagnò l'Avvocato Generale dello
Stato Jan Van Oldenbarnevelt in missione diplomatica in Francia, dove fu
benevolmente accolto dal re Enrico IV (1589-1610) come il miracolo d'Olanda.
Nel 1599, rientrato in Olanda, G. iniziò a lavorare come avvocato all'Aia
per la Compagnia Olandese delle Indie Orientali, voluta da Van
Oldenbarnevelt, ma questa attività non gli impedì di scrivere e pubblicare
nel 1610 la storia delle origini della repubblica olandese con il titolo di
De Antiquitate Reipublicae Batavicae.
Tuttavia, dall'anno successivo, 1604, G. iniziò a scrivere i trattati su
temi legali, che lo resero famoso: il primo trattato fu De jure praedae (La
legge della preda), di cui un capitolo, noto come Mare Liberum, disquisiva
sull'infondatezza della pretesa di alcune nazioni, come il Portogallo, di
considerare l'oceano come proprietà privata e quindi sulla legittimità
dell'episodio, accaduto in quegli anni, della cattura di un galeone
portoghese da parte del capitano olandese Heemskirk, comandante di una delle
navi della Compagnia Olandese delle Indie Orientali.
Nel 1607 G. fu nominato Avvocato del Fisco Olandese, che comprendeva i ruoli
di Procuratore Generale, Pubblico Ministero e Sceriffo. Questo fu seguito,
nel 1608, dal suo matrimonio con Marie van Reigersberch (o Reigersberg), una
19enne proveniente da una ottima famiglia dello Zeeland e dalla quale G.
ebbe tre figli.
Infine nel 1613 egli fu nominato rappresentante della città di Rotterdam
presso gli Stati Generali Olandesi, ma la sua buona stella iniziò a
declinare quando decise di aderire al movimento degli arminiani, fondato da
Jacob Arminius qualche anno prima. Ciò lo portò in conflitto con la fazione
calvinista osservante, capeggiata dal teologo Franz Gomar e sostenuta, per
motivi di potere politico, dallo stadtholder (governatore) Maurizio di
Orange-Nassau (1567-1625).
Quest'ultimo aveva deciso di farla finita con il suo ex mentore, ma ora suo
avversario politico, Jan Van Oldenbarnevelt e con il movimento degli
arminani, dopo che essi avevano presentato, sotto la guida dei capi Simon
Bischop (nome umanistico: Episcopius) (1583-1643) e Jan Uytenbogaert
(1577-1644) e su consiglio di Van Oldenbarnevelt stesso, le loro idee con
forte spirito polemico (per questo erano stati ribattezzati rimostranti)
agli Stati Generali Olandesi nel 1610.
Nel 1618, Maurizio fece convocare il concilio di Dort (Dordrecht) (novembre
1618- maggio 1619), dove l'armianismo fu condannato senza appello,
nonostante l'autorevole supporto di Van Oldenbarnevelt e di G. Il 29 agosto
1618 avvenne la resa dei conti: con un colpo di stato Maurizio fece
arrestare e processare l'anziano Van Oldenbarnevelt per alto tradimento: fu
decapitato il 13 maggio 1619.
Anche G. fu arrestato e condannato, assieme al rappresentante di Leida
Rombout Hoogerbeets, al carcere a vita nel castello di Loevestein. Tuttavia,
il 22 marzo 1621, la moglie riuscì ad organizzare la sua rocambolesca fuga
dalla fortezza: approfittando che una cassa di libri non veniva mai aperta e
controllata, Marie riuscì a nascondervi dentro il marito e a farlo portare
fuori dal castello dai suoi stessi carcerieri!
Una volta libero, G. fuggì dapprima ad Anversa, poi a Parigi, dove,
nonostante una ricca rendita concessa dal re Luigi XIII (1610-1643) (in
realtà mai pagata), egli si trovò in forti difficoltà economiche.
Ciononostante fu proprio qui dove, dal 1623, G. scrisse la sua opera
principale, il De jure belli et pacis (La legge della guerra e della pace),
pubblicata nel 1625 e che, nonostante un debito di idee nei confronti di
precedenti studiosi di legge, come l'italiano Alberico Gentili (1552-1608),
a cui G. si ispirò, fece guadagnare al suo autore il titolo di Padre del
Diritto Internazionale moderno.
Nel 1631, forse pensando ad un suo perdono anche in considerazione della
morte del suo persecutore Maurizio di Orange-Nassau, avvenuta nel 1625, G.
ritornò in patria. Per qualche mese lavorò facendo il suo vecchio mestiere
di avvocato e gli fu perfino offerto il posto di Governatore Generale in
Asia della Compagnia Olandese delle Indie Orientali, ma ben presto i suoi
nemici piazzarono sulla sua testa una taglia di 2.000 guilders : G. decise
quindi nell'aprile 1632 di abbandonare per sempre la sua patria per recarsi
in Germania.
Dopo una permanenza ad Amburgo di tre anni, G. si recò a Stoccolma e qui fu
nominato nel 1634 dalla regina Cristina (1632-1654) ambasciatore di Svezia
presso la corte francese di Luigi XIII, dove però fu preso in antipatia dal
famoso e potente cardinale Richelieu (1585-1642), nonostante i suoi buoni
uffici nell'organizzare le prime trattative per la fine della guerra dei
Trent'anni (1618-1648).
Nel 1644 G. fu richiamato in Svezia dalla regina Cristina e nel marzo 1645
prese definitivo congedo dalla corte svedese, imbarcandosi con la famiglia
su una nave, che però fece naufragio vicino a Danzica. Il 13 agosto la nave
riprese il mare con rotta per Lubecca, otto giorni più tardi dovette però
rifugiarsi a Rostock, in Germania, a causa di violenti tempeste. Qui G. si
ammalò gravemente e morì il 28 (o 29) agosto 1645.
Le sue ultime (e amare) parole furono: Pur capendo molte cose, non ne ho
portato a termine nessuna.
Le opere
Come detto l'opera più famosa di G. fu il De jure belli et pacis (La legge
della guerra e della pace), dove G. espresse il parere che il principio del
diritto pubblico dovesse essere ricercato nelle Leggi della Natura (dottrina
chiamata giusnaturalismo), che le nazioni, per essere riconosciute
legittime, avrebbero dovuto rispettare. Inoltre per G. il potere dello stato
doveva essere sancito mediante un patto che vincolasse tutti, governanti e
governati, e che fosse illegale infrangere.
Oltre a lettere, traduzione di classici latini, ecc., le altre opere di G.,
degne di nota, sono:
Il già citato De jure praedae (La legge della preda),
La storia dell'Olanda (di De Antiquitate Reipublicae Batavicae),
Trattati religiosi come Bewys van den Waren Godtdienst (una prova della vera
religione),e
De veritate religionis Christianae (la verità della religione cristiana)
dove entrò in profonda polemica contro Gomar, invocando la tolleranza ed il
liberismo,
Il tomo fondamentale per la legge olandese (fino al 1809): Inleiding tot de
Hollandsche Rechtsgeleertheyd (introduzione alla giurisprudenza in Olanda).


Labadie (o de Labadie), Jean (1610-1674) e labadisti



Il teologo e mistico francese Jean Labadie, precursore dei movimenti
quietista e pietista, nacque nel 1610 a Bourg-en-Guyenne, nella regione del
Bordeaux, e proprio nel capoluogo omonimo studiò, dal 1625, presso il
collegio dei gesuiti, entrando successivamente nella Compagnia di Gesù.
Nel 1635 L. venne ordinato prete e per quattro anni si dedicò alla
predicazione e all'insegnamento, ma, spirito inquieto sempre più portato al
misticismo, decise nel 1639 di uscire dall'ordine per occuparsi solo delle
sue attività sacerdotali. Nel 1649 entrò nel convento carmelitano, appena
fondato nel 1641, di La Graville, vicino a Bernos, in Francia, ma l'impatto
delle sue idee mistiche e delle frequenti penitenze a cui si sottoponeva fu
elevatissimo sui confratelli. La tempestiva decisione del vescovo locale fu
quindi di espellere L. dal convento e, non riuscendo più a ricuperare la
situazione, di chiudere la comunità stessa.
L'anno successivo (1650) L. si convertì al calvinismo, ma portò con sé la
propria ansia interiore: rifugiatosi a Ginevra, tentò di fondare una
comunità mistica di adepti che si ritenevano predestinati alla salvezza e
che rifiutavano sacramenti, pratiche religiose, dogmi e gerarchia
ecclesiastica.
Ovviamente egli incontrò sempre la resistenza e l'ostilità della chiesa
ufficiale, sia cattolica che riformata. Dopo Ginevra, L. emigrò a
Middleburg, in Olanda, per fondare una propria comunità, la quale scisse
ogni legame con la Chiesa Riformata d'Olanda e organizzò la propria
esistenza in una sorta di comunismo cristiano.
Tuttavia le posizioni ferocemente adogmatiche di L., riassunte nel suo
Manuale di pietà, gli costarono l'espulsione dall'Olanda; venne allora
accolto in una comunità di lingua francese ad Altona, nella regione tedesca
dell'Holstein, dove morì nel 1674.
Dopo la sua morte, le congregazioni dei suoi seguaci, denominati labadisti,
continuarono il suo esperimento comunitario ancora per circa 60 anni, finché
nel 1732 vennero riassorbite dal movimento del conte pietista Nikolaus
Ludwig Graf von Zizendorf, fondatore della Herrnhuter Brüdergemeine
(comunità dei fratelli a Herrnhut).


Bruno, Giordano (1548-1600)



La gioventù
Il famoso filosofo Giordano Bruno (il nome di battesimo era Filippo, ma lo
cambiò in Giordano quando entrò nell'ordine dei domenicani) nacque nel
gennaio (o febbraio) 1548 a Nola, in provincia di Napoli, dal gentiluomo
(dedito alla carriera militare) Giovanni Bruno e da Fraulissa (o Fraulisa)
Savolino, modesta proprietaria terrena. A Nola B. frequentò il ginnasio
locale e nel 1560 si trasferì allo Studio, un liceo di Napoli, dove studiò
lettere, logica, dialettica e filosofia aristotelica [quest'ultima sotto
l'agostiniano Fra Teofilo da Vairano (m. 1578)].Giordano Bruno
Nel 1565 B. entrò come novizio nel convento domenicano di San Domenico
Maggiore, dove il 16 giugno 1566 prese i voti, diventando professo. Come già
detto, in questa occasione egli prese il nome di fra Giordano.
A San Domenico B. si fece notare per le sue capacità mnemoniche, tant'è che
nel 1568-69 venne invitato a Roma da Papa Pio V (1566-1572), al quale dedicò
la sua prima opera (andata perduta) L'arca di Noé. Nel periodo 1568-72 egli
proseguì i suoi studi di logica e filosofia e nel 1572 venne ordinato
sacerdote. Nello stesso anno si iscrisse al corso di Teologia presso lo
Studio, dal quale uscì laureato nel luglio 1575.
In questo periodo B. coltivò la lettura di autori alquanto off-limits per un
convento, come Raimondo Lullo (1235-1315), testi di cabala, neoplatonici
come Plotino (205-270), Porfirio (ca. 233-305), Giamblico (ca. 245-ca. 325)
e Proclo (ca. 410-485) fino a Nicola Cusano (1401-1464), del quale B.
apprezzò il tentativo di conciliare tradizione magica neoplatonica e
Cristianesimo, e al grande Erasmo da Rotterdam, con il quale condivise la
critica alla Chiesa cattolica.


B. abbandona la tonaca
All'inizio del 1576 la crisi: trascinato in un violento battibecco con un
confratello, B. venne accusato di arianesimo e di antitrinitarismo, ma egli
non attese il processo a suo carico, preferendo invece fuggire a Roma,
presso il convento di Santa Maria sopra Minerva, dove però, alla fine del
marzo 1576, si mise ancora nei guai, essendo stato accusato di aver
provocato la morte di un frate domenicano, testimone nel suo processo
napoletano. B. allora prese la decisione di gettare la tonaca e dirigersi
verso il nord Italia, a Genova, Noli, Savona, Torino e Venezia, dove venne
pubblicato un'altra sua opera perduta, il trattato astrologico De' segni de'
tempi. Nella vicina Padova si rivestì con la tonaca (probabilmente per puri
motivi di opportunità), recandosi a Brescia, Bergamo, Milano, ed infine a
Chambery, nella Savoia, dove svernò nel 1578-79 per poi proseguire per
Ginevra nella primavera 1579.


B. a Ginevra
Nella città svizzera, B. venne subito avvicinato dal marchese di Vico,
Galeazzo Caracciolo, capo della comunità degli esuli religiosi italiani, che
cercò di convincere B. a convertirsi alla religione calvinista, al cui credo
pare che B. aderisse per un certo periodo. Tuttavia il soggiorno ginevrino
venne guastato da un clamoroso incidente di percorso con il professore di
filosofia dell'Accademia Antoine De la Faye (1540-1615), alle cui lezioni il
filosofo nolano aveva assistito. In uno scritto polemico, B., vero esperto
del pensiero aristotelico, contestò ben 20 errori commessi in una sola
lezione da De la Faye, vera e propria imprudenza perché quest'ultimo, molto
immanicato politicamente presso l'establishment calvinista, fece arrestare
B. e il nostro poté cavarsela, il 27 agosto 1579, solo con un penoso atto di
pentimento pubblico, seguito dalla distruzione pubblica, a cura dello suo
stesso autore, dello scritto polemico. Scontata l'umiliante pena, B. lasciò
immediatamente Ginevra per Tolosa, in Francia, dopo aver transitato da
Lione.


B. in Francia
A Tolosa B. rimase per circa venti mesi, divenendo lettore pubblico di
filosofia e scrivendo un commento al Tractatus de sphaera mundi
dell'astronomo agostiniano Johannes de Sacrobosco (1195-1256), ma fu
costretto nel 1581 a lasciare Tolosa a causa della guerra civile tra
cattolici e ugonotti e, mediante un viaggio avventuroso e pieno di pericoli,
si recò a Parigi. Qui egli tenne un ciclo di trenta lezioni alla Sorbona
sugli attributi divini secondo Tommaso d'Aquino (1221-1274), che suscitarono
l'ammirazione del re francese Enrico III (1574-1589), al quale B. dedicò il
suo De umbris idearum, un testo di arte mnemotecnica, ispirata alle dottrine
del francescano Raimondo Lullo (1235-1315). Il periodo molto favorevole per
B. gli permise di poter scrivere e pubblicare diversi altri trattati di
mnemotecnica, come Cantus circaeus e De compendiosa architectura et
complemento artis Lullii, oltre alla commedia in lingua italiana Il
candelaio.


B. in Inghilterra
Nell'aprile 1583, al seguito dell'ambasciatore Michel di Castelnau
(1520-1592), signore di Mauvissière, B. si recò in Inghilterra, a Londra,
dove, secondo lo storico John Bossy, svolse attività di spionaggio, sotto lo
pseudonimo di Henry Fagot, al servizio di Sir Francis Walshingham (m.1590)
proprio contro l'ambasciatore francese.
Comunque, a parte questo episodio alquanto oscuro, in Inghilterra B. conobbe
diversi personaggi famosi dell'epoca, come la stessa regina Elisabetta I
(1558-1603), John Dee, il nobile polacco Albert Laski (m. 1605), nipote del
riformatore Jan Laski, e il poeta Sir Philip Sidney (1554-1586), del quale
divenne amico, dedicandogli la sua famosa opera Spaccio della bestia
trionfante.
Pubblicò inoltre altre opere fondamentali come Ars reminiscendi, Explicatio
tringinta sigillorum, Sigillus sigillorum, De la causa, principio et uno, De
infinito, universo et mondi, La cabala del cavallo pegaseo con l'aggiunta
dell'asino cillenico e Degli eroici furori (anche quest'ultima dedicata a
Sidney). B. si recò anche ad Oxford, dove però si scontrò con il teologo
inglese, e futuro vescovo di Oxford, John Underhill (ca. 1545-1592) in un
dibattito sulla filosofia aristotelica, degenerata ben presto in una rissa
verbale. Nonostante l'incidente egli venne accettato come docente di
filosofia, tuttavia non era destino egli rimanesse per troppo nella città
universitaria: infatti alla terza sua lezione imperniata sulle teorie
copernicane, venne tacciato di plagio nei confronti di Marsilio Ficino
(1433-1499) e invitato ad andarsene.
Il filosofo nolano, offesissimo, lasciò Oxford per tornare a Londra, ma
anche qui fu protagonista di un ennesimo episodio di scontro con i
cattedratici inglesi. Infatti, durante una cena presso il nobile Sir Fulke
Greville (1554-1628), il 15 febbraio 1584 (Mercoledì delle ceneri), egli
entrò in polemica sulle sue idee sull'universo con due professori di Oxford,
tali Torquato e Nundinio [pseudonimi probabilmente del medico George Turner
(1565-1610) e del sopramenzionato John Underhill], A dir la verità, furono
proprio questi ultimi a provocare la rissa: il tutto venne descritto in uno
dei suoi più famosi libri La Cena delle ceneri, fortemente caustico nei
confronti della realtà inglese del momento. La pubblicazione dell'opera
provocò una tale reazione a catena (compresa la devastazione dell'ambasciata
francese) da costringere B. a ritornare in Francia nell'ottobre 1585.


B. nuovamente in Francia
Ma in Francia la situazione politica era cambiata: la tensione tra cattolici
e ugonotti era alle stelle e i Duchi cattolici di Guisa guidavano la Santa
Unione, o Lega, opponendosi al re Enrico III, che aveva nominato suo erede
al trono, nel 1584, il cognato protestante Enrico di Borbone. Da lì a poco
il confronto sarebbe sfociato in tragedia con la fuga del re da Parigi nel
maggio 1588, l'assassinio, su ordine del re, dei Duchi di Guisa nel dicembre
1588, e la morte del sovrano stesso, ucciso a sua volta dal pugnale di un
fanatico domenicano, Jacques Clément, nell'agosto 1589.
B. rimase in Francia solo nove mesi, ma in questo periodo il suo spirito
indomitamente polemico gli procurò altri guai in almeno due occasioni:
quando insultò un protetto dei cattolici Guisa, il matematico salernitano
Fabrizio Mordente, inventore del compasso differenziale, al quale dedicò il
sarcastico dialogo Idiota triumphans seu de Mordentio inter geometras deo
[il litigio era nato da una presentazione non molto lusinghiera di B.
(Dialogi duo de Fabricii mordentis salernitani prope divina adinventione ad
perfectam cosmimetria praxim) sull'invenzione del Mordente], e quando
pubblicò l'opuscolo anti-aristotelico Centum et viginti articuli de natura
ed mundo adversos peripateticos, suscitando la reazione risentita dei
cattedratici francesi del Collège de Cambrai, anche se la paternità
dell'opera fu prudentemente occultata come farina del sacco del suo
principale allievo, Jean Hennequin.


B. in Germania e in Boemia
Nuova emigrazione dell'inquieto filosofo, questa volta in Germania, nel
giugno 1586: dopo una veloce passata a Marburg (dove ebbe tempo di litigare
con il rettore dell'università, Petrus Nigidius!), B. arrivò a Wittenberg
nell'agosto 1586 e qui egli insegnò filosofia all'università per due anni e
poté pubblicare diverse opere, come De lampada combinatoria lulliana, De
progressu et lampada venatoria logicorum, Artificium perorandi,
Animadvertiones circa lampadem lullianam e Lampas tringinta statuarum.
Ma nel 1588 egli decise di lasciare Wittenberg per le mutate condizioni
religiose: infatti al luterano Augusto I, principe elettore di Sassonia
(1541-1586), era succeduto il figlio Cristiano I (1586-1591), che aveva
nominato suo cancelliere Nicholas Crell (o Krell), il cui pensiero religioso
era allineato con la dottrina dei filippisti, seguaci di Philipp Melantone,
cioè una forma di cripto-calvinismo con simpatie verso alcuni punti della
dottrina di Giovanni Calvino.
Grazie al suo potere, Crell favorì la promozione di calvinisti a posizioni
di rilievo e prestigio: la perdita dei riferimenti luterani accelerò la
decisione del nolano di abbandonare Wittenberg, dopo una dotta orazione
d'addio (Oratio valedictoria) pronunciato l'8 marzo 1588 davanti ai
professori e studenti della locale università.
Si recò allora a Praga, dove fece pubblicare i suoi Articuli centum et
sexaginta adversus huius tempestatis mathematicos atque philosophos,
dedicati all'imperatore Rodolfo II (1576-1612). Questi donò a B. una borsa
di 300 talleri, ma non un incarico all'università al quale il filosofo
ambiva, ragione per cui B. decise di emigrare nuovamente, questa volta ad
Helmstadt, nel ducato del Braunschweig (Brunswick), dove poté insegnare, dal
gennaio 1589, come libero docente all'Accademia Giulia, fondata dal duca
Julius von Braunschweig-Wolfenbuttel (1568-1589), alla morte del quale B.
scrisse la Oratio consolatoria. Almeno formalmente egli aderì, in questo
periodo, al luteranesimo, ma ciò non impedì al sovrintendente della locale
Chiesa luterana Gilbert Voët (da non confondere con il teologo olandese
calvinista Gisbert Voët) di scomunicarlo, ufficialmente per filo-calvinismo,
ma più probabilmente per espressioni ingiuriose che B. aveva pronunciato
contro il pastore stesso.
La scomunica luterana (quindi, dopo quella cattolica e calvinista, anche
l'ultima delle tre maggiori confessioni cristiane occidentali lo aveva
scomunicato!) non impedì a B. di continuare a vivere a Helmstadt, anche per
la benevolenza del nuovo duca Heinrich Julius (1589-1613), fino alla
primavera 1590 e di concepire qui i suoi trattati sulla magia, come De
magia, Theses de magia, De rerum principiis et elementis et causis, Medicina
lulliana e De magia mathematica.
Il 2 giugno 1590 B. giunse a Francoforte, ma la richiesta di un permesso di
soggiorno venne respinta dal senato della città, e quindi il filosofo
alloggiò provvisoriamente presso un convento di carmelitani. Riuscì comunque
a pubblicare la sua importante trilogia di trattati filosofici in latino (De
triplice minimo et mensura, De monade, numero et figura e De innumerabilis,
immenso et infigurabili seu de universo et mundis), dedicati al duca
Heinrich Julius, e, dopo aver passato l'inverno a Zurigo come docente
privato di filosofia, rientrò a Francoforte nella primavera 1591 per curare
la pubblicazione del De imaginum, signorum et idearum compositione, una
rivisitazione dei suoi testi sulla mnemotecnica. Nella città tedesca egli fu
raggiunto dalla lettera del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, che lo
invitava a recarsi a Venezia per insegnare l'arte della memoria. B. accettò
e nell'agosto 1591 partì alla volta dell'Italia.


B. ritorna in Italia
Perché il più volte scomunicato B. abbia accettato di rientrare in Italia è
stato oggetto di approfondite analisi di critici e storici e varie sono le
ipotesi formulate:
A livello europeo, B. era oramai isolato ed era stato scomunicato
ripetutamente, mentre, d'altra parte, Venezia era nota per una certa
autonomia ed indipendenza decisionale nei confronti del potere papale.
Il Mocenigo aveva offerto denaro e ospitalità per poter ricevere lezioni
sull'arte mnemotecnica (anche se il suo principale intendimento era di
essere iniziato alle arti occulte) e gli estimatori generosi di B. non erano
poi così numerosi.
Nella vicina Padova era vacante la prestigiosa cattedra di matematica e le
esperienze di Oxford, Praga e Francoforte avevano mostrato a B. come era
difficile vivere senza una rendita fissa.
Ma alcuni autori ipotizzano che B. si sentisse addirittura investito di una
missione: realizzare praticamente la nuova visione dell'uomo in senso
panteistico e magico e finalmente mondato dal dogmatismo e dall'intolleranza
della Chiesa.
Comunque nell'agosto 1591 B. giunse a Venezia, e dopo tre mesi si recò a
Padova, dove cercò inutilmente di ottenere la cattedra di matematica e dove,
con l'aiuto del suo discepolo Jerome Besler (1566-1632), scrisse il De
vinculis in genere e Lampas triginta statuarum.
Ritornato a Venezia, B. snobbò e trascurò il lavoro di precettore del
Mocenigo, un nobile sì ma di scarsa cultura, che, come già detto, era
probabilmente più interessato alle arti occulte, che a quelle mnemotecniche.
Deluso e sentendosi truffato, Mocenigo, dopo aver raccolto delle
informazioni sul suo conto presso un corrispondente a Francoforte, fece
arrestare B. la notte del 22 maggio 1592 e lo consegnò all'Inquisizione con
l'accusa di eresia e blasfemia.
Nei due mesi successivi B. venne sottoposto a 7 interrogatori (o costituti),
al termine dei quali B. chiese di abiurare e di essere perdonato e i giudici
veneziani sembravano perfino favorevoli a questa soluzione.


B. a Roma: il processo e la morte
Tuttavia il Santo Uffizio romano chiese a gran voce, il 12 settembre, la sua
estradizione: questo primo tentativo fu respinto dai giudici veneziani, ma
nulla essi poterono contro una seconda richiesta, motivata dal fatto che B.
comunque non era cittadino veneziano. Il 27 febbraio 1593 B. fu dunque
trasferito a Roma ed incarcerato nel palazzo del Santo Uffizio. I successivi
7 anni si trascinarono in interminabili interrogatori (e probabili torture,
soprattutto dal 1597) da parte di una Congregazione composta da sette
cardinali e otto teologi, che dovettero anche studiare le sue innumerevoli
opere.
Nel 1597, anno del rogo di Francesco Pucci e della condanna di Tommaso
Campanella, detenuti nella stessa prigione di B., nel processo di
quest'ultimo subentrò il cardinale gesuita Roberto Bellarmino (1542-1621)
(futuro persecutore di Galileo Galilei e del Campanella), il quale nel 1599
enucleò le seguenti otto proposizioni di B. ritenute eretiche dalla Chiesa:
1) L'anima mundi e la materia prima sono i due principi eterni delle cose,
2) Da una causa infinita deve derivare un infinito effetto,
3) Non esiste l'anima individuale,
4) Nulla si crea e nulla si distrugge,
5) La Terra si muove,
6) Gli astri sono angeli ed esseri animati,
7) La Terra è dotata di un'anima sensitiva e razionale,
8) L'anima non è la forma del corpo dell'uomo.
Dal 18 gennaio 1599 tra B. e gli inquisitori iniziò una complessa partita di
scacchi, basata su accuse, ripensamenti, colpi di scena e quant'altro.
Inizialmente gli venne richiesto ufficialmente di abiurare: egli cercò
dapprima di prendere tempo, e perfino cedette in febbraio per poi inviare un
memoriale difensivo in aprile. Si pensò di utilizzare nuovamente la tortura,
quando, il 10 settembre, egli dichiarò di volersi sottomettere alla Chiesa,
salvo poi rimettere in discussione solo una settimana dopo. Ma la situazione
precipitò dopo la denuncia di un anonimo che il principale bersaglio della
sua opera Lo spaccio de la bestia trionfante fosse il papa.
L'irrigidimento di ambedue le posizioni portarono infine alla inevitabile
condanna a morte di B. l'8 febbraio 1600 ed in quella occasione egli
pronunciò la famosa frase: Forse con maggiore timore pronunciate contro di
me la sentenza, di quanto ne provi io nel riceverla.
La mattina del 17 febbraio 1600 egli venne condotto a Campo dei Fiori, dove
venne spogliato dei vestiti, fu issato sul rogo, gli fu impedito di parlare
con una mordacchia in legno e infine fu bruciato vivo, in quanto impenitente
(quelli che si pentivano venivano strozzati prima del rogo).
300 anni dopo, il 9 giugno 1899, nonostante fortissime resistenze
cattoliche, venne inaugurato il monumento a lui dedicato in Campo dei Fiori:
fu un'occasione di riunione delle anime anticlericali dell'Italia umbertina,
massoni, repubblicani, radicali, positivisti, tutti debitori di questo
martire del libero pensiero filosofico e scientifico.


Il pensiero
Il complesso pensiero di B. è stato per molti anni circoscritto all'ambito
ermetico, un po' equivocando sul termine di "mago" e molto grazie ai lavori
della studiosa inglese Francis Yates. Riscoperto recentemente, il pensiero
di B. è una miscela di filosofia antiaristotelica, magia naturale (la magia
divina, in contrasto con la magia diabolica), religione naturale,
mnemotecnica e panpsichismo (il mondo è vivo e sensibile, come anche per
Bernardino Telesio e Tommaso Campanella).
L'universo aristotelico finito e diviso in sfere celesti stava stretto a B.,
che contrapponeva un universo infinito e unico. Secondo B., la natura
animata del mondo (anima mundi), secondo un concetto tipicamente
neoplatonico, presenta due aspetti: la forma e la materia. La forma è
l'anima universale e la sua principale facoltà, l'intelletto, muove la
materia (materia prima) dall'interno.
E' quindi logico che egli si appassionasse alle teorie astronomiche di
Niccolò Copernico (1473-1543), sebbene non fosse tanto la loro portata
scientifica che lo interessava, bensì le speculazioni filosofiche che ne
potevano derivare: l'infinito superava perfino il concetto copernicano di
eliocentrismo e univa tutto, anche gli opposti, che, nell'unità
dell'infinito, coincidevano l'uno nell'altro, un concetto caro ad un autore
molto amato da B., cioè Nicola Cusano.
L'attacco ai metodi lenti e metodici della scolastica aristotelica  B. lo
portò sviluppando l'arte della mnemotecnica, un tecnica rapida e quasi
"magica" per impossessarsi del sapere. E questo sapere se ne impossessa
l'eroico e furioso ricercatore della verità, che ubbidisce solamente
all'istinto della razionalità nella sua cerca della vera conoscenza, cioè il
concetto del principio unico, da cui generano tutte le specie e tutti i
numeri. Quindi la religione propugnata da B. è una religione razionale o
naturale, privo di quel dogmatismo, intransigenza, ignoranza, ipocrisia,
fede cieca ed inconsapevole, tipici delle confessioni cristiane dell'epoca,
che l'avevano perseguitato per tutta la sua vita e che, alla fine, l'avevano
portato sul rogo.


Paleario, Aonio (1503-1570)



I primi anni
Il famoso umanista di estrazione erasminiana, Aonio Paleario (o Paleari),
nome umanistico di Antonio della Paglia (o Pagliara), nacque a Veroli, in
provincia di Frosinone, nel 1503, dall'agiato artigiano salernitano Matteo
della Pagliara e da Clara Jannarilli.
Da giovane P. compì studi classici con il notaio Giovanni Martelli,
iscrivendosi successivamente, grazie alla protezione del vescovo di Veroli,
Ennio Filonardi (1466-1549), ai corsi di filosofia e di lettere antiche ed
eloquenza all'università di Roma, ma non poté completare gli studi, perché
abbandonò, nel 1529, la città pontificia, devastata dal sacco del 1527 ad
opera dei Lanzichenecchi.
Vagò allora attraverso l'Italia, fermandosi a Perugia e qui rincontrò il suo
protettore Filonardi, che, quando era stato nunzio apostolico a Costanza,
aveva conosciuto Erasmo da Rotterdam, idolo letterario e riferimento
religioso per P.  In seguito, nel 1534, P. avrebbe scritto una lettera al
grande umanista olandese per chiedergli di convincere i teologi tedeschi
riformatori a presenziare al concilio (in realtà il famoso Concilio di
Trento, dopo ripetuti rinvii, iniziò i propri lavori solamente nel 1545),
convocato, appena dopo la sua elezione, da Papa Paolo III (1534-1549).


P. a Padova
Nel periodo 1530-31 P. si recò a Siena, e infine a Padova, dove visse dal
1531 al 1536 (eccetto un periodo a Bologna nel 1533) e completò gli studi,
laureandosi ed entrando nell'ambiente letterario, che gravitava attorno al
Cardinale Pietro Bembo.
Qui P. completò la stesura del suo primo lavoro di successo: il poema
filosofico, di ispirazione neoplatonica, De animorum immortalitate, dedicato
all'imperatore Ferdinando d'Asburgo e accompagnato da una lettera per Pier
Paolo Vergerio, ambasciatore pontificio presso l'imperatore. L'opera,
tuttavia, non aggiunse niente di nuovo al dibattito accademico, accesosi
dopo la condanna del noto trattato di Pietro Pomponazzi, il Tractus de
immortalitate animae, dove l'umanista mantovano aveva negato l'immortalità
dell'anima.


P. tra gli evangelici toscani
Nel 1537 P. si stabilì a Colle Val d'Elsa (provincia di Siena), si sposò con
Marietta Guidotti, da cui ebbe cinque figli, e insegnò come tutore privato.
Nella cittadina senese P. creò un cerchio di allievi, con i quali si
discuteva su scottanti argomenti dottrinali, al centro del dibattito fra
Chiesa cattolica e Riforma, come il culto dei Santi, l'autorità della Chiesa
di Roma, l'esistenza del purgatorio, il contrasto fra Sacre Scritture e
Tradizione storica. Inoltre egli ebbe l'occasione, in questo periodo, di
conoscere l'intellighenzia evangelica fiorentina, tra cui il letterato Pier
Vettori (1499-1585), Bartolomeo Panchiatichi, Pier Francesco Riccio, Pietro
Carnesecchi e Marcantonio Flaminio, e di quest'ultimo diventò fedele amico.
Oltre a ciò, Siena era terra di origine di uno dei più famosi riformatori
italiani, il vicario generale dell'ordine dei cappuccini, Bernardino Ochino,
per cui fu purtroppo scontato, in seguito ad una campagna di propaganda
denigratoria contro di lui, che P. venisse accusato di eresia nel giugno
1542 (pochi mesi prima della fuga di Ochino in Svizzera) davanti
all'arcivescovo di Siena, Francesco Bandini Piccolomini (arcivescovo:
1529-1588). Tuttavia uscì indenne dal procedimento a suo carico (fu assolto
per insufficienza di prove), sia per l'intervento a lui favorevole del
cardinale Jacopo Sadoleto, sia perché lo stesso arcivescovo Piccolomini non
infierì, essendo segretamente favorevole alla riforma moderata della Chiesa,
propugnata da Sadoleto e dal cardinale Gaspare Contarini.
In seguito a questa vicenda e alla sopramenzionata fuga dell'Ochino, P.
scrisse l'orazione Pro se ipso (composta nel 1543, ma pubblicata solo nel
1552), un'appassionante difesa della libertà di coscienza, di cultura e di
discussione e della possibilità di poter attingere direttamente alle Sacre
Scritture. Nel 1544 egli scese ancora più nettamente nel campo della
Riforma, scrivendo una lettera (Servus Jesu Christi.) a Lutero, Melantone,
Bucero e Calvino, di contenuti simili a quella scritta dieci anni prima a
Erasmo da Rotterdam, esortandoli, inoltre, di mettere da parte le divergenze
teologiche, ma rimase profondamente deluso dall'apertura del Concilio di
Trento il 13 dicembre 1545 senza la partecipazione dei teologi protestanti.


P. a Lucca
Comunque nel luglio 1546 P. decise di trasferirsi a Lucca, approfittando
dell'ambiente più favorevole ai riformatori. Qui, per intercessione di Pier
Vettori e sotto la protezione della potente famiglia Buonvisi, gli fu
affidato un incarico ufficiale di professore di letteratura alla Scuola
superiore di Lucca (un simile ruolo gli era stato precluso a Siena per la
sua fama di eretico) e diventò anche precettore della famiglia Calandrini.
Il periodo lucchese fu tra i più sereni e fecondi per il filosofo di Veroli,
che scrisse varie orazioni ed ebbe contatti epistolari con riformatori
italiani, come, ad esempio, Celio Secondo Curione.
Nella primavera 1555, P. tornò a Colle Val d'Elsa, proprio poco dopo la
caduta della repubblica di Siena, conquistata da Cosimo I de' Medici (duca
di Firenze: 1537-1569 e granduca di Toscana: 1569-1574). Qui scrisse un
trattato in italiano, in due parti: Del governo della città (andata perduta)
e Dell'economia o vero del governo della casa: un inno alla religiosità
erasminiana e valdesiana, vissuta nell'intimo della famiglia.


P. a Milano
Tuttavia la visione della campagna devastata dalla guerra e l'esilio
all'estero di tanti amici lucchesi riformati, a causa della repressione
messa in atto da Papa Paolo IV (1555-1559), lo convinse ad emigrare a Milano
nel 1556 per coprire la cattedra di studi umanitari.
Nonostante che, anche qui a Milano, P. venisse inquisito per eresia nel
febbraio 1560 (fu comunque assolto), nella città lombarda egli conobbe
letterati, come il poeta Publio Francesco Spinola e finì la sua opera
principale, intrisa di polemica antipapale e anticlericale, la Actio in
Pontifices Romanos, inviandola in Svizzera, presso il riformatore di Basilea
Theodore Zwinger (1533-1588), per essere conservata. L'opera venne
pubblicata, postuma, nel 1600 ad Heidelberg, in Germania.
Nel 1567 P. entrò nuovamente nel mirino dell'Inquisizione di Milano per le
sue opere letterarie (soprattutto Pro se ipso): sebbene riuscisse a far
sospendere, per motivi di salute, un ordine di estradizione verso Roma,
emesso il 9 agosto, e tentasse di chiedere una mediazione, fallita, da parte
dell'imperatore Massimiliano II (1564-1578), fu infine costretto a recarsi a
Roma nell'agosto 1568 per presentarsi davanti all'Inquisizione romana, in
una città cupa, dominata dal rigore fanatico imposto da Papa Pio V
(1566-1572).


La fine
Rinchiuso (letteralmente a marcire) nel carcere di Tor di Nona per ben due
anni, si comportò coraggiosamente: non abiurò, si rifiutò di indossare
l'infamante abitello (l'abito giallo degli eretici), anzi accusò, lui
stesso, il papato e Pio V in persona, che presiedeva il tribunale. Il
processo, ovviamente, si concluse, il 4 ottobre 1569, con la sua condanna
come eretico impenitente.
Il 30 giugno 1570 fu fatto l'ultimo tentativo, non riuscito, di farlo
abiurare: tre giorni dopo, il 3 luglio 1570, l'anziano umanista fu impiccato
e arso sul rogo nella piazzetta a Ponte Sant'Angelo, nello stesso posto
dove, tre anni prima, il 21 settembre 1567, era stato bruciato Pietro
Carnesecchi.


Curiosità
A P. sono stati attribuiti i seguenti versi satirici (e purtroppo per lui
profetici), indice dei momenti di terrore, derivati dalla severa azione
anti-eretica di Pio V:
Quasi che fosse inverno,
brucia cristiani Pio siccome legna
per avvezzarsi al fuoco dell'inferno.


Della Pergola, Bartolomeo Golfi (attivo a Modena nel 1544)



Bartolomeo Golfi Della Pergola fu un predicatore itinerante (come, per
esempio, anche il carmelitano Giambattista Pallavicino) dell'ordine dei
francescani minoriti, che diventò particolarmente popolare negli anni '40
del XVI secolo.
Convinto valdesiano, D. aveva anche letto l'arcinoto Beneficio di Christo,
del benedettino Benedetto Fontanini da Mantova, e questa lettura rinforzò le
sue convinzioni, simili a quelle luterane, sulla giustificazione per fede,
sulla grazia, sulla predestinazione e sul libero arbitrio.
D. predicò a Bergamo, su invito del vescovo Vettore Soranzo, ma soprattutto
a Modena durante la quaresima del 1544, inviato dal cardinale Giovanni
Morone, il quale già l'anno prima aveva invitato il predicatore domenicano
eterodosso Bernardo de' Bartoli.
La predica di D. raccolse uno straordinario successo presso diversi strati
della popolazione modenese, sia fra i nobili che fra le persone più umili,
permettendo lo sviluppo di una forte comunità luterana, ulteriormente
consolidata dalla guida, negli immediati mesi successivi, del confratello di
D., Bartolomeo Fonzio.
Tuttavia tanto successo non poté passare inosservato da parte delle autorità
ecclesiastiche, che, su indicazione di alcuni domenicani e perfino pressati
dall'Inquisizione romana, imposero a D. una completa ritrattazione pubblica.
Questa venne svolta dal medesimo pulpito nel giugno dello stesso anno ed
alla presenza di centinaia di persone, tutte attente a cogliere qualsivoglia
sfumatura non canonica delle sue parole.



Della Porta, Giambattista (o Giovambattista)(1535-1615)



La vita
Il famoso umanista e scienziato Giambattista della Porta nacque a Vico
Equense (vicino a Napoli) il 15 (o 1) Novembre 1535 (secondo altre fonti nel
1538) terzogenito di una agiata famiglia di lontane origini nobili.
Il padre Leonardo (o Nardo) di Antonio, grazie ad un prestito di tre navi a
Carlo I d'Asburgo e d'Austria (1516-1556), sarebbe poi entrato al servizio
dell'imperatore nel 1541, mentre la madre apparteneva alla nobile famiglia
dei Spadafora ed era sorella di Adriano Guglielmo Spadafora, sovrintendente
degli Archivi reali di Napoli.
P. non frequentò mai l'università: la sua educazione fu affidata dal padre
allo zio materno e all'entourage culturale che frequentava la casa paterna,
dal filosofo e medico di corte Antonio Pisano al grecista e naturalista
calabro Domenico Pizzimenti. E' probabile che egli abbia anche frequentato
le lezioni del medico e astrologo Girolamo Cardano (1501-1576).
P. viaggiò molto in Italia, Francia e Spagna e, grazie alle ricchezze della
famiglia, non ebbe mai necessità di dover lavorare per vivere, ma poté
dedicarsi totalmente ai suoi studi. P. fu infatti uno studioso estremamente
eclettico: i suoi interessi comprendevano la crittografia, la meccanica
idraulica, l'ottica (egli affermò di aver costruito il telescopio prima di
Galilei) e la camera oscura (che perfezionò), gli studi matematici sulla
quadratura del cerchio, la filosofia occulta e la demonologia, l'astrologia,
la botanica e l'agraria, l'alchimia e la distillazione, il magnetismo, la
meteorologia e la fisiognomonia (l'arte di dedurre i caratteri morali delle
persone dai caratteri somatici), ma P. non disdegnava neppure di comporre
commedie di successo.
Fondò anche una Accademia dei Segreti (o Accademia secretorum naturae), che
si riuniva nella sua casa di Napoli per disquisire sui segreti della natura
e sulle cause dei fenomeni naturali, ma nel 1578 questa sua attività entrò
nel mirino dell'Inquisizione napoletana, che lo incarcerò e lo processò,
intimandogli di chiudere la sua accademia.
P. allora si recò nel 1579 P. a Roma al seguito del cardinale Luigi d'Este
(m. 1587), al cui servizio rimase durante i trasferimenti di questi a
Venezia [dove mise a punto degli strumenti ottici per il cardinale e dove
conobbe il celebre fra' Paolo Sarpi (1552-1623)] e a Ferrara, alla corte del
duca Alfonso II d'Este (1559-1597). Durante il periodo al servizio del
cardinale, P. compose anche diverse commedie e conobbe famosi letterati come
Torquato Tasso (1544-1595) e Battista Guarini (1538-1612).
Fece ritorno a Napoli nel 1581, rimanendo sempre comunque sotto la
protezione del cardinale, sempre molto interessato ai suoi studi
sull'alchimia.
La suddetta protezione e l'adesione, come laico, all'ordine dei Gesuiti nel
1585 lo mise abbastanza al sicuro dagli strali dell'Inquisizione.
Tuttavia, dopo la pubblicazione nel 1586 della De humana physiognomonia e
nel 1588 della Physionomonica [come arte divinatoria, la fisiognomia era
stata proibita in specifiche bolle papali di Sisto V (1585-1590) nel 1585 e
1586] e la morte del suo potente mecenate, l'Inquisizione gli proibì nel
1592 la pubblicazione di qualsiasi lavoro filosofico scientifico (erano
escluse le commedie e le opere letterarie), senza aver ricevuto il consenso
del Sant'Uffizio stesso. Questo ordine rimase in vigore fino al 1598.
Nel 1589 P. conobbe il giovane domenicano Tommaso Campanella, il quale
studiò sotto la sua guida e ne rimase profondamente influenzato, ma di
questa amicizia P. non fece mai particolare vanto, a causa del fatto che
Campanella, che proprio in quello stesso anno aveva pubblicato la sua
Philosophia sensibus demonstrata (un'apologia di Bernardino Telesio), era
già abbastanza compromesso con l'Inquisizione. Similmente nulla viene
riportato su un più che probabile incontro tra P. e Giordano Bruno, i cui
studi e pensieri filosofici (sulla magia naturale e la mnemonica) erano
alquanto simili a quelli del proprio corregionale.
Finalmente, nel 1604, P. trovò un nuovo protettore nel giovane nobile
(futuro Duca di Acquasparta dal 1610) Federico Cesi (1585-1630), al quale
dedicò diversi dei suoi lavori. Cesi lo aiutò ad entrare, nel 1610,
nell'Accademia dei Lincei (da Cesi stesso fondata nel 1603), dove P. rimase
fino alla morte. Da parte sua, P. contribuì, assieme allo scrittore
Giovambattista Basile (1575-1642), alla fondazione dell'Accademia letteraria
degli Oziosi a Napoli nel 1611.
Nello stesso periodo P. fu contattato, attraverso il cappellano di corte,
dall'imperatore Rodolfo II (1578-1612), vivamente interessato ai suoi studi
di alchimia e che lo invitò a corte a Praga. L'anziano P. declinò l'invito,
ma dedicò all'illustre ammiratore la sua Taumatologia (trattato sui
prodigi).
P. morì a Napoli il 4 Febbraio 1615.


Le opere
Tra le sue innumerevoli opere si ricordano:
Magia naturalis, sive de miraculis rerum naturalium (1558). P. iniziò a
scrivere, all'età di quindici anni, la sua opera più famosa, un ponderoso
trattato (in quattro volumi) sulla natura (l'operare della natura venne
definito, per l'appunto, magia naturale in contrapposizione a quella
demonologica) e sul magnetismo. Fu ripubblicata nel 1589 in ben venti
volumi.
De furtivis literarum notis, vulgo de ziferis (1563) sulla crittografia.
Ars reminiscendi (1566-1602) sulle tecniche mnemoniche.
Villae (1583-92), un'enciclopedia agricola.
De humana physiognomonia (1586), il più importante testo di fisiognomica
dell'epoca, dove si ipotizzò la corrispondenza tra carattere ed aspetto
esterno del corpo.
Physionomonica (1588)
De refractione, optices parte (1593) studi sull'ottica.
De spiritalibus (1601-06) sull'effetto calorifico della luce e dove venne
descritta una macchina a vapore con secoli di anticipo.
De distillatione (1609) sulla distillazione e chimica.
De aeris transmutationaibus (1610)
De telescopio, manoscritto scoperto solo nel 1940 e pubblicato nel 1962.


Tra le commedie si ricordano:
Olimpia (1586-89)
La fantesca (1592)
La trappolaria (1596)
I due fratelli rivali (1601)
La Cintia (1601)
La sorella (1604)
La turca (1606)
La carbonaria (1606)
L'astrologo (1606)
Il moro (1607)


Della Rovere, Giulio (Giulio da Milano) (1504-1581)



Famoso predicatore agostiniano passato poi alla Riforma, Giulio (il vero
nome di battesimo era Giuseppe: lo cambiò in Giulio quando entrò nell'ordine
agostiniano) Della Rovere nacque nel 1504 a Milano da una stimata famiglia e
studiò a Padova, dove conobbe Ambrogio Cavalli, che frequentò anche a
Bologna.
Tra il 1520 ed il 1522 D. entrò nell'ordine degli agostiniani eremitani e a
Bologna fece parte del convento agostiniano di San Giacomo Maggiore, dove
poté approfondire i suoi studi del pensiero di Erasmo da Rotterdam, assieme
ai concittadini milanesi Ortensio Lando e Ambrogio Cavalli, all'umanista
abruzzese Giovanni Angelo Odoni e allo studente di diritto Fileno Lunardi
(che alcuni identificano con Camillo Renato).
In seguito, tra il 1533 ed il 1535, conobbe a Pavia Agostino Mainardi, un
incontro decisivo per la scelta di fede in senso riformista, che si notò
sempre di più nelle sue prediche.
Nel 1538 venne messo sotto inchiesta e nel 1540, per contrasti con il padre
generale dell'ordine, egli si dimise dagli incarichi ufficiali dell'ordine
agostiniano assieme a Cavalli, priore del suo stesso convento.
Infine, in seguito alle sue prediche a Trieste e a Venezia, nella chiesa di
San Cassan, per la Quaresima del 1541, venne arrestato a Venezia stessa.
Questo arresto portò inoltre alla perquisizione della biblioteca privata di
D. e dell'amico Celio Secondo Curione (che viveva in casa di D.) e la
confisca di scritti proibiti di Erasmo da Rotterdam e del riformatore
svizzero Johann Heinrich Bullinger.
Nonostante le vibrate proteste di Bernardino Ochino e la tentata
intercessione di alcuni nobili della repubblica veneta (per citarne alcuni:
Agostino Barbarigo, Girolamo Corner, Alessandro Gritti), egli venne accusato
di mantenere rapporti con altri dissidenti religiosi in Italia e all'estero.
D. poté quindi scampare all'esecuzione capitale solo mediante l'abiura, ma,
in seguito, riuscì a fuggire dal carcere nel febbraio 1543, riparando in
Svizzera, dove fu segnalato, il 23 aprile 1543, dal predicatore di Ulm,
Martin Frecht (1494-1556) al sindaco di San Gallo, l'umanista Joachim von
Watt, detto Vadiano (1484-1551).
Qui diventò pastore zwingliano nel 1546 a Vicosoprano e nel 1547 a
Poschiavo, nel cantone Grigioni (il cui territorio comprendeva, dal 1512,
anche la Valtellina), dove rimase fino alla sua morte e dove scrisse nel
1549 (pretendendo di averla pubblicata a Trento, un evidente simbolo contro
il Concilio, che si tenne dal 1545 al 1563) la popolare Esortazione alli
dispersi per l'Italia, titolo poi modificato in Esortazione al martirio (la
seconda edizione fu del 1552), testo in cui spingeva i potenziali martiri
della fede riformata ad affrontare la morte e in cui polemizzò violentemente
con Giorgio Siculo (alias Giorgio Rioli) e con i suoi seguaci, da D. stesso
definiti, per la prima volta, "georgiani". La polemica riguardò in
particolare la propensione al nicodemismo di questo curioso e misterioso
personaggio.
Dal suo esilio ben organizzato nei Grigioni, D. poté propagandare i propri
scritti evangelici e le proprie prediche attraverso i buoni uffici dello
stampatore Dolfino Landolfi di Poschiavo, che si recava spesso in Italia per
acquistare la carta da stampa.
Allacciò contatti epistolari con la duchessa di Ferrara Renata d'Este (alla
quale fu dedicata un'Epistola contenuta nell'edizione del 1552
dell'Esortazione), nota protettrice di riformati e riuscì perfino a
visitarla clandestinamente, durante la Quaresima del 1550, quando poté
tenere una quindicina di predica al ristretto gruppo di protestanti, che
gravitavano intorno alla duchessa.
Nel 1549 D. conobbe a Poschiavo Pier Paolo Vergerio, da cui venne fortemente
influenzato e che accolse con entusiasmo, quando l'ex vescovo di Capodistria
si recò in esilio in Svizzera, mentre nel 1554 scrisse a Bullinger per
informarlo e metterlo in guardia contro le tendenze antitrinitariane di
Lelio Sozzini.
Della Rovere morì nel 1581.


Della Sega (o Sega), Francesco (1528-1565)



Francesco Della Sega (o Sega), soprannominato Fraosto, nacque a Rovigo nel
1528 (altre fonti citano il 1532) da una famiglia benestante e ricevette
anche una buona educazione, frequentando la facoltà di legge all'università
di Padova. Nel suo memoriale per l'Inquisizione, raccontò che a Padova venne
convertito in seguito all'anabattismo da un calzolaio e ribattezzato a
Porcia, in provincia di Pordenone.
Lasciò gli studi per fare il mestiere di sarto e questa decisione, oltre a
quella religiosa, fece sì che il padre lo scacciasse di casa. In seguito
partecipò, nel 1546, ai Collegia Vicentina, primo incontro di anabattisti e
antitrinitariani veneti.
Nel 1557, in seguito ai processi nel Veneto contro gli anabattisti
(scaturiti dalle confessioni di Pietro Manelfi) D. fuggì con Giulio
Gherlandi e Niccolò Buccella in Moravia, entrando in una comunità hutterita
a Pausram, vicino all'odierna cittadina di Strachotin.
Nel 1561 fu eletto ministro di culto hutterita e nell'anno successivo
ritornò a Rovigo per ritirare la sua eredità e per fare proselitismo, ma il
27 agosto 1562 fu catturato a Capodistria, insieme a Antonio Rizzetto e al
Buccella, mentre stava facendo ritorno in Moravia, e fu rinchiuso nel
carcere veneziano di San Giovanni Battista in Bragora.
Subì un lungo processo, ma riuscì nel frattempo ad inviare diverse lettere
ai suoi confratelli in Moravia.
Scrisse ai giudici durante il suo processo un memoriale, dal titolo Lettera
alli magnifici e clarissimi signori e iudici sopra le cose della fede e
conscienza, e fu anche torturato per farlo abiurare, ed in seguito
condannato alla pena capitale.
All'inizio del febbraio 1565 egli fu visitato dal capitano del carcere,
Chiaromonte, che cercò di fare un ultimo tentativo per indurlo ad abiurare:
un suo momentaneo tentennamento di fronte agli inquisitori, al contrario del
confratello Rizzetto, gli permise una sospensione temporanea dell'esecuzione
capitale, ma, ritornando poi nella convinzione della propria fede, D. fu
giustiziato per annegamento nel Canale dell'Orfano (nella laguna veneta) il
26 febbraio 1565.


Riccio (o Del Riccio), Pier Francesco (1501-1564)



Pier Francesco Riccio (o Del Riccio) nacque a Prato nel 1501 (altri fonti
citano il 1490 come data di nascita) da Nese di Clemente Riccio.
R. fu un sacerdote probo e onesto e legò la sua fortuna a quella del duca
Cosimo I de' Medici (1537-1574), del quale fu dal 1524 precettore, sia in
patria che in esilio, e poi maggiordomo, cioè segretario personale, fino al
1553. Ebbe una notevole influenza nelle committenze della corte medicea,
come, per esempio, nella creazione della manifattura di arazzi.
Uomo di discreta cultura con una buona conoscenza di greco e latino [sebbene
il noto orafo e scultore Benvenuto Cellini (1500-1571), nella sua
autobiografia, lo citi ingiuriosamente con epiteti come bestia e asino], fu
un valdesiano e un ammiratore di Martin Lutero, ed era in possesso di un
manoscritto (oggi unico superstite) del famoso Beneficio di Christo di
Benedetto Fontanini da Mantova, prima della sua stampa nel 1543.
Si impegnò a favore di intellettuali perseguitati per motivi religiosi o
politici, come Aonio Paleario nel 1541 o Benedetto Varchi, di cui favorì il
rientro a Firenze nel 1543 e ci sono prove che si mantenesse in contatto
epistolare con un libraio di Venezia, probabilmente Antonio Brucioli, per
fornirsi delle opere dei riformatori tedeschi, come Lutero o Melantone.
Nel febbraio 1550 entrò a far parte del Capitolo della cattedrale di Santo
Stefano di Prato e qui chiamò a predicare l'agostiniano Alessio Casani
(1491-1570), già accusato di luteranesimo nel 1548, quando fu salvato
dall'intervento del decano della facoltà di Teologia a Firenze, Andrea
Ghetti da Volterra.
Purtroppo, nel 1553 R. fu colpito da una grave malattia e dovette essere
relegato a Borgo San Lorenzo, poiché apparentemente era uscito di senno,
anche se si ipotizza che si trattasse di una malattia diplomatica, suggerita
da Cosimo I in persona, per evitargli un processo per eresia, come sarebbe
successo qualche anno dopo agli amici Pietro Carnesecchi e Aonio Paleario,
bruciati sul rogo a Roma.
Dopo la sua guarigione, R. morì a Firenze, nel 1564.


Denck, Hans (ca.1500-1527)



La vita
Il mistico anabattista Hans Denck nacque a Habach, a sud di Monaco di
Baviera, nel 1500 circa (secondo altri autori nel 1495) da una famiglia
agiata e colta. Egli studiò all'università di Ingolstadt dal 1517 con il
noto teologo Johann Eck (1486-1543), ottenendo il baccalaureato in Arti nel
1519 e dimostrandosi molto versato in latino, greco ed ebraico.
Successivamente si recò a Basilea, dove conobbe sia Erasmo da Rotterdam che
Ecolampadio: seguì le lezioni di entrambi, ma non ne venne particolarmente
influenzato. Si appassionò invece di letture mistiche, come gli scritti di
Johannes Tauler o, soprattutto, la Theologia Germanica, un popolare trattato
mistico del 14° secolo, scritto a quanto sembra da un sacerdote dell'ordine
teutonico, che consigliava la povertà di spirito e l'abbandono di se stessi
a Dio come mezzo per poter partecipare alla Sua natura divina, attraverso il
Suo amore.
Nel 1524 D. divenne, ancora piuttosto giovane, il rettore della Scuola di
San Sebaldo a Norimberga, su segnalazione di Ecolampadio, e si sposò nello
stesso anno.
L'ambiente culturale di Norimberga, crocevia di pensatori eterodossi come
Andreas Bodenstein (Carlostadio) e Thomas Müntzer, indubbiamente influenzò
D., che conobbe personalmente Müntzer quando questi si recò a Norimberga,
per far pubblicare da uno stampatore (probabilmente il futuro anabattista
Hans Hut) due opuscoli: Hochverursachte Schutzrede wider das geistlose
sanftlebende Fleisch in Wittenberg (Apologia ben fondata e risposta alla
carne senza spirito che vive mollemente in Wittenberg), uno dei suoi più
violenti opuscoli contro Lutero (che chiamava Dottor bugiardo e il Drago), e
Ausgedrückte Entblössung das falschen Glaubens (L'esplicita messa a nudo
della falsa fede).
Norimberga era anche una città senza una ben definita collocazione
religiosa: benché formalmente cattolica, aveva forti componenti luterane, ma
anche attivi gruppi anabattisti, che mettevano in discussione i sacramenti
del Battesimo e della Comunione.
Un'inchiesta delle autorità locali, e voluta dal riformatore Andreas
Hosemann (Osiander), su questi gruppi, portò al coinvolgimento di D., tirato
in causa dal pittore Sebald Behaim.
D. fu obbligato ad una confessione di fede, che tuttavia Osiander e gli
altri predicatori trovarono molto ambigua, e conseguentemente, il 25 Gennaio
1525, egli fu espulso dalla città con moglie e figli, con l'accusa di eresia
e con il giuramento di non farvi mai più ritorno.
Dopo un periodo di incertezza, D. si recò a San Gallo, in Svizzera, dove
fece un'ottima impressione sull'umanista Joachim von Watt, detto Vadiano
(1484-1551), cognato del fondatore dell'anabattismo svizzero, Conrad Grebel.
Nel Settembre 1525 D. si trasferì ad Ausgburg (Augusta) dove trovò impiego
come insegnante privato di latino e greco.
Come precedentemente Norimberga, anche Augusta era una città al centro di
aspri conflitti dottrinali, in questo caso, tra luterani e zwingliani,
impegnati nella diatriba sulla Cena del Signore. Inoltre, tra queste due
grosse formazioni, si barcamenavano diversi piccoli gruppi, dai mistici
Sebastian Franck e Caspar von Schwenckfeld agli anabattisti, rinforzati
dall'arrivo, nell'Aprile 1526, di Balthasar Hübmaier, che aveva da poco
lasciato Zurigo e che ad Augusta fondò una comunità anabattista.
Hübmaier convertì e battezzò D., il quale divenne il nuovo capo del gruppo
anabattista, dopo la partenza in Luglio di Hübmaier per la Moravia, e lo
fece crescere fino impressionante numero di ben 1100 persone, attirando
altri noti anabattisti come, ad esempio Hans Hut, ribattezzato da D. il 26
Maggio.
Nel periodo ad Augusta, D. pubblicò diversi lavori, tra cui un trattato sul
libero arbitrio dal titolo Was geredet sei, dass die Schrift sagt Gott thue
und mache Guts und Böses (Come si intende quello che la Scrittura dice, che
Dio faccia il bene ed il male), Vom Gesetz Gottes (La legge di Dio) contro
il pericolo di un rispetto troppo rigoroso delle Scritture, concetto ripreso
in Wer die warhait warlich lieb hat (Colui che veramente ama la verità). In
quest'ultima opera egli ribadì che l'unica Parola autorevole non era quella
riportata nelle Scritture, ma quella interiore infusa dallo Spirito Santo.
Nel Novembre 1526 D. si recò a Strasburgo, sotto il controllo del partito
riformista di Wolfgang Capito (1478-1541) e di Martin Butzer (Bucero), il
quale già lo conosceva per la fama che lo aveva preceduto e quindi lo invitò
immediatamente ad una disputa pubblica per chiarire il proprio pensiero.
D. ritenne più prudente non insistere sulle questioni divergenti, ma
sottolineò i punti in comune, tuttavia non convinse Bucero (che lo chiamò il
Papa degli anabattisti), il quale riuscì a farlo espellere il 25 Dicembre
1526.
D. riprese il suo pellegrinare ed attraverso le cittadine di Bergzabern e
Landau, giunse a Worms, nella Renania-Palatinato: qui D. rinvigorì
l'attività della locale comunità anabattista e pubblicò il suo lavoro più
importante, Von der wahren Liebe (Il vero amore). In quest'opera D. ribadì
che, se l'uomo accettava l'amore di Dio attraverso Gesù Cristo, egli non
aveva bisogno di riti e istituzioni religiose. Il battesimo era, a sua
volta, il patto che univa il fedele a Dio, ma anche ai membri della famiglia
di Dio, i fratelli del patto (Bundesgenossen).
Nel Luglio 1527, il consiglio cittadino di Worms espulse i principali leader
anabattisti della città, incluso D., che si recò ad Augusta per partecipare
in Agosto al "Sinodo dei martiri", dove si riunirono quasi tutti i capi
anabattisti dell'epoca e dove, con la mediazione di D. stesso, furono
fissati i punti di un grandioso programma missionario. Il programma fu però
stroncato sul nascere dalla reazione cattolica e luterana ed il titolo di
"Sinodo dei martiri" derivò tristemente dalla morte violenta che colpì quasi
tutti gli anabattisti presenti.
D. lasciò Augusta e soggiornò brevemente ad Ulm e a Norimberga, nonostante
il divieto di ritorno in quest'ultima città. Alla fine di Settembre, stanco
e malato e disilluso sulle sorti del movimento, si recò a Basilea: qui ebbe
il permesso di restare in città dal suo vecchio amico Ecolampadio tuttavia
previa presentazione di suo scritto che dichiarasse la mancanza di contrasto
tra la propria fede e quella della comunità di Basilea.
Poco dopo, il 15 Novembre 1527 D. morì di peste a soli 27 anni (circa).


Il pensiero
Il pensiero di D. fu sì anabattista, ma della corrente spiritualista: per
questo negli ultimi giorni della sua vita egli si dichiarò disilluso
dell'evoluzione, in senso militante, del movimento stesso.
Il concetto di sola fide, di luterana memoria, per D., aveva un significato
ben diverso da quello dato dal riformatore di Eisleben: non era quella
trasmessa dai genitori e dalla società, ma era la grazia che proviene dalla
rivelazione di Dio, attraverso lo Spirito Santo.
Un altro punto sul quale D. espresse la sua convinzione fu il libero
arbitrio: egli si oppose alla predestinazione, quasi come Dio avesse reso
ciechi i miscredenti.
Inoltre D. si poteva definire origenista, in quanto credeva, come il grande
Origene, nella salvezza di tutti o meglio nel desiderio di Dio che ciò
avvenisse grazie al Suo amore universale che includeva tutti gli uomini.
Tutti potevano salvarsi, ma Dio non avrebbe forzato nessuno ad accettare il
Suo perdono.
Il parere di D. sulle Scritture era noto: la Parola scritta non era la
Verità, ma solo una testimonianza di essa: " Chiunque tiene in maggiore
considerazione la testimonianza della Verità stessa inverte l'ordine
(d'importanza), ed il tutto è un abominio agli occhi di Dio" (dal trattato
"Come si intende quello che la Scrittura dice, che Dio faccia il bene ed il
male").


Gallicanesimo (dal XVII secolo)



Per Gallicanesimo si intende quel complesso di dottrine, che asserivano
l'autonomia, più o meno estesa, della Chiesa francese dall'autorità del
Papato. Il G. si opponeva all'ultramontanismo, che favoriva la
centralizzazione dell'autorità della Curia papale.


Origini del Gallicanesimo
Il G. ha radici lontane: già nel IX secolo i papi, trovandosi
nell'impossibilità di ricondurre all'obbedienza quei nobili locali che si
erano impossessati di sedi vescovili in Francia, diedero un'autorità
spirituale ai re della dinastia carolingia, e i loro successori non
mancarono di esercitarla.
All'inizio del XIV secolo, le lotte fra Filippo il Bello e Papa Bonifacio
VIII (1294-1303) portarono drammaticamente alla luce lo scontro fra questi
due centri di potere. In questo contesto si inserì l'esilio del papato ad
Avignone (1309-1377) e le contestazioni del potere ecclesiastico di Papa
Giovanni XXII da parte dai pensatori Guglielmo di Ockham, Jean de Jandun e
Marsilio da Padova. Il lavoro principale di Marsilio, Defensor Pacis, fece
da riferimento alla successiva diatriba, che vide contrapposti i re di
Francia e l'università della Sorbona da una parte e il Papa [soprattutto
l'antipapa Benedetto XIII (1394-1423)] dall'altra, e sfociò nella Sanzione
Pragmatica di Bourges del 1438, voluta dal re Carlo VII (1422-1461) e che
proibì al papa di nominare suoi candidati per i benefici vacanti sul
territorio francese. La situazione migliorò con il Concordato di Bologna
(1516) tra il re di Francia, Francesco I (1515-1547), e Papa Leone X
(1513-1521): al re fu permesso di nominare vescovi ed altri ecclesiastici
francesi, che dovevano però essere confermati dal papa.
Alla fine del XVI secolo si affacciarono sulla scena il teologo zwingliano
Thomas Erastus, che nel 1589 pubblicò La nullità delle censure della Chiesa,
e l'avvocato calvinista, poi convertito al cattolicesimo, Pierre Pithou
(1539-1596), il quale nel 1594 pubblicò il caposaldo, contenenti 83 articoli
ben codificati, dei testi gallicani, Les libertés de l'église gallicane (Le
libertà della chiesa gallicana).


Il Gallicanesimo durante il regno di Luigi XIV di Francia
Ma fu soprattutto con il regno di Luigi XIV (1643-1715) che il g. divenne
sempre forte, dapprima con la dichiarazione dell'università della Sorbona
contro l'infallibilità del Papa e contro ogni possibile autorità gerarchica
di quest'ultimo sui re di Francia, poi con la crisi del 1682, scoppiata tra
Luigi XIV e Papa Innocenzo XI (1676-1689) e sfociata nei quattro articoli
gallicani approvati da un'assemblea del clero francese e che stabilivano:
1. Il Papa non aveva autorità sul potere temporale e il Re non era soggetto
alla Chiesa in materia di cose     civili.
2. Il Concilio Generale aveva autorità sul Papa.
3. Le antiche libertà della Chiesa francese erano inviolabili.
4. Il giudizio del Papa non era inconfutabile.
Nonostante le proteste di Innocenzo e del successore Alessandro VIII
(1689-1691), la polemica rientrò, almeno formalmente, con Innocenzo XII
(1691-1700), al quale lo stesso Luigi XIV scrisse per comunicare che era
stato impedita l'esecuzione pratica dell'editto del 1682.
Ciononostante lo spirito gallicano rimase vivo nel clero francese e
ricomparve in occasione della bolla Unigenitus del 1713. Questa bolla era
stata emanata da Papa Clemente XI (1700-1721) come condanna delle Reflexions
morales, un testo giansenista di Pasquier Quesnel, ma con una insolita
durezza, essa condannava frasi perfettamente ortodosse contenute nel testo.
Questo fatto provocò una momentanea scissione nella Chiesa Cattolica
francese quando il cardinale Louis Antoine De Noailles, arcivescovo di
Parigi (1651-1729), e otto (in seguito diciotto) altri vescovi, appoggiati
dalle facoltà di Parigi, Reims e Nantes, oltre a circa 3000 ecclesiastici,
non accettarono affatto i contenuti della bolla e si appellarono al sinodo
generale francese.
La reazione di Clemente XI fu durissima con l'emissione della bolla
Pastoralis officii (1718), che condannò l'appello e scomunicò gli
appellanti. Tuttavia i dissidenti rimasero sulle loro posizioni ed anche il
ritorno di De Noailles all'ortodossia nel 1728 non riportò la situazione
alla normalità: il parlamento francese continuò ancora per molto tempo a
rifiutare la bolla Unigenitus.


Il Gallicanesimo in altre nazioni
Nella metà del XVIII secolo, il g. iniziò ad attecchire in Olanda, in
Germania, dove prese il nome di febronianismo dallo pseudonimo (Febronio) di
Johann Nikolaus Hontheim, e perfino in Italia con il sinodo di Pistoia del
1786, presieduto dal vescovo Scipione de' Ricci, che tentò inutilmente una
riforma della Chiesa con l'introduzione di elementi gallicani, di una
maggiore moralizzazione del clero e, curiosamente, con l'abolizione del
latino nei riti: De' Ricci fu deposto nel 1790 e le conclusioni del sinodo
condannate dalla bolla Auctorem fidei del 1794, emessa da Papa Pio VI
(1775-1799).
Il g. tramontò definitivamente con il Concordato del 1801 tra Napoleone
Bonaparte (come imperatore: 1804-1814) e Papa Pio VII (1800-1823).


Di Capua, (o De Capua) Pietro Antonio (o Pietrantonio o Piero Antonio),
arcivescovo di Otranto (m.1579)



Introduzione
Pietro Antonio Di Capua fu un'esponente di una delle più illustri famiglie
feudali del regno di Napoli, i Di (o De) Capua appunto, che in cinquecento
anni di vita hanno dato alla storia 2 cardinali, 4 arcivescovi, diversi
magistrati, un viceré, e numerosi e valenti uomini d'armi.


D. valdesiano
Nominato nel 1536, ancora giovane, arcivescovo d'Otranto, D. si accostò ai
circoli evangelici, che gravitavano a Napoli intorno alla figura di Juan de
Valdés, di cui egli condivise le dottrine e di cui fu a lungo discepolo.
Dopo la morte del maestro spagnolo, assistito sul letto di morte proprio da
D., quest'ultimo entrò a far parte del gruppo degli spirituali legati al
cardinale inglese Reginald Pole e fu in contatto con alti prelati
progressisti come Vittore Soranzo e Giovanni Morone e famosi personaggi come
Pietro Carnesecchi.
Inoltre introdusse negli ambienti valdesiani l'umanista Michele Bruto e
protesse il predicatore ortodosso Fra Angelo da Messina (Ludovico Manna),
raccomandatogli da Carnesecchi, e che fu da lui impiegato come lettore della
Sacra Scrittura nel duomo di Otranto, tuttavia, in seguito, dovette
licenziarlo per aver espresso idee un po' troppo radicali.
Infatti col passare degli anni i componenti del gruppo evangelico di Valdés
e Pole vennero sempre più stretti nella morsa dell'Inquisizione e neanche il
giovane arcivescovo d'Otranto, nonostante l'appoggio di influenti famiglie
aristocratiche, poté sfuggire a questa persecuzione.
All'inizio degli anni '50, a causa delle sue idee religiose, la nomina a D.
a cardinale fu più volte rinviata da parte del papa Giulio III (1550-1555),
pressato dagli alti vertici del Sant'Uffizio che ne chiedevano la messa in
stato d'accusa e l'abiura, e, sebbene nel 1554 lo stesso Giulio III
dichiarasse che D. era caduto nell'eresia "per piacerli troppo l'ingegno
suo, per confidarsi troppo nella sua prudentia, per la conversione del
Valdesio et altri eretici et per credersi di acquistare nome di dotto con
interpretare al riverscio le Scritture", solo grazie le potenti protezioni
da parte degli Asburgo e dei Gonzaga, con i quali D. era imparentato (era
cognato di don Ferrante Gonzaga), il papa impose comunque all'Inquisizione
di astenersi da ogni ulteriore procedimento contro l'arcivescovo di Otranto.
Ma D. rimase sempre al centro di indagini dell'Inquisizione ed in seguito
all'elezione di Papa Paolo IV (1555-1559), fu arrestato a Roma nel 1558, e
l'unica cosa che lo salvò da un successivo processo per eresia fu la fuga
nel regno di Napoli.


Ritorno al cattolicesimo
Solo durante il papato di Pio V (1566-1572), si concluse, in tutta
segretezza, la partita con un benevolo procedimento extragiudiziale, che
favorì il ritorno dell'arcivescovo d'Otranto nel grembo della Chiesa
Cattolica.
Nel settembre 1567, a conferma di questa sua ormai completa adesione
all'ortodossia, egli si fece notare per aver inserito alcune norme di
riforma [scaturite dal Concilio di Trento (1545-1563)] a proposito dei
sacramenti del battesimo, della cresima e della estrema unzione, negli
ordinamenti del suo sinodo provinciale con la precisa intenzione di ridurre
all'obbedienza i sacerdoti delle minoranze greche del Salento, che
adottavano riti ortodossi, prevedendo la loro possibile estromissione dal
corpo capitolare delle proprie rispettive parrocchie, nel caso che avessero
perseverato ne "l'antica consuetudine conservata presso di loro" di
perpetuare "l'antico errore . della Chiesa Costantinopolitana".
D. morì nel 1579.


De Ries, Hans (1553-1638) e waterlanders



I waterlanders
Dopo la morte nel 1561 del leader anabattista Menno Simons, i suoi seguaci
furono denominati mennoniti: quasi immediatamente iniziarono le secessioni
interne al movimento: la prima e più importante fu quella dei waterlanders
(il Waterland era la regione costiera nell'Olanda settentrionale), che
parteciparono attivamente alla guerra di liberazione dell'Olanda contro gli
spagnoli, sia consegnando a Guglielmo d'Orange una forte somma nel 1572, sia
inviando volontari a combattere a fianco dei calvinisti, cosa ancora più
straordinaria, vista la tipica vocazione non violenta dell'anabattismo.
In seguito, il governo olandese li trattò tutto sommato abbastanza bene,
affrancando i loro templi e orfanotrofi dal pagamento delle tasse,
permettendo loro di fare semplici dichiarazioni al posto dei giuramenti nei
tribunali e esentandoli dalla leva militare dietro pagamento di una somma
concordata.


Hans De Ries
Hans De Ries, medico anabattista residente in Alkmaar, nacque nel 1553 e fu,
come si è detto, il capo spirituale dei mennoniti olandesi per 54 anni, dal
1577 al 1638, anno della sua morte, ma anche colui che salvò il movimento
mennonita portandola a dottrine più ortodosse.
Nonostante l'impegno di sostegno a Guglielmo d'Orange per la lotta di
liberazione, i mennoniti waterlanders erano rimasti profondamente pacifici e
questo loro spirito fu ribadito il 22 settembre 1577 nella Confessione di
fede di Waterland, primo atto ufficiale della guida spirituale di R. stesso,
in cui si condannò la guerra e la violenza, oltre a sottolineare i soliti
punti cardini dell'anabattismo: battesimo solo degli adulti, negazione del
peccato originale, condanna del giuramento, obbedienza condizionata alle
autorità locali.
Nel 1581 R. convocò il primo sinodo dei waterlanders, con la partecipazione
di 12 congregazioni e dove venne adottata un primo codice di disciplina.
Nel 1615, dopo notevoli discussioni e polemiche interne, la corrente
waterlander fu ampliata dopo l'ammissione del gruppo separatista inglese di
John Smyth, il fondatore dei battisti inglesi.
Per facilitare la comprensione dei concetti anabattisti da parte dei nuovi
confratelli, R. scrisse, assieme a Lubbert Gerritsz (1560-1612), nel 1608,
un'altra confessione di fede in 38 articoli, denominata Confessione di Hans
de Ries (Belijdenis van Hans de Ries) o Confessione di Waterland
(Waterlandsche Belijdenis), ampliandolo nel 1610 con due articoli
aggiuntivi.
Gli stessi due autori, otto anni dopo, nel 1618, pubblicarono a Hoorn la
Breve Confessione di Fede (Corte Belijdenisse des Gheloofs) in 40 articoli e
l'attività instancabile di scrittore di R. portò nel 1626 alla pubblicazione
della Apologia.
R. non intervenne solo sulla dottrina anabattista, ma anche sulla sua
ritualistica: un suo intervento, per esempio, riguardò la preghiera
silenziosa: infatti inizialmente i mennoniti in Olanda pregavano in silenzio
in ginocchio, sia durante le funzioni pubbliche che a casa propria: questa
usanza è ancora in vigore presso gli Amish ed alcuni gruppi in Stati Uniti.
R. introdusse l'usanza delle preghiere dette ad alta voce durante le
funzioni e senza inginocchiarsi, sebbene questa novità, all'onor del vero,
portò una certa discordia tra i fedeli.
R. morì nel 1638.


Desiderio (vescovo cataro) (XIII secolo)



"Figlio maggiore" di Nazario e suo successore nel 1235 come vescovo cataro
della chiesa di Concorezzo.
Rifiutò il dualismo moderato di Nazario e respinse il libro sacro (secretum)
dei catari, l'Interrogatio Johannis, un testo apocrifo di origine bogomila,
che si ispirava alla Genesi e agli apocrifi della Bibbia e che fu portato da
fedeli provenienti dalla Bulgaria.
D. operò un certo sincretismo con la Chiesa Cattolica, accettando il
concetto di un Cristo, consustanziale con il Padre, che si fece uomo, morì e
successivamente risorse.
D. accettò inoltre il sacramento del matrimonio (cosa normalmente rifiutata
radicalmente dai catari).
Di Capua, (o De Capua) Pietro Antonio (o Pietrantonio o Piero Antonio),
arcivescovo di Otranto (m.1579)



Introduzione
Pietro Antonio Di Capua fu un'esponente di una delle più illustri famiglie
feudali del regno di Napoli, i Di (o De) Capua appunto, che in cinquecento
anni di vita hanno dato alla storia 2 cardinali, 4 arcivescovi, diversi
magistrati, un viceré, e numerosi e valenti uomini d'armi.


D. valdesiano
Nominato nel 1536, ancora giovane, arcivescovo d'Otranto, D. si accostò ai
circoli evangelici, che gravitavano a Napoli intorno alla figura di Juan de
Valdés, di cui egli condivise le dottrine e di cui fu a lungo discepolo.
Dopo la morte del maestro spagnolo, assistito sul letto di morte proprio da
D., quest'ultimo entrò a far parte del gruppo degli spirituali legati al
cardinale inglese Reginald Pole e fu in contatto con alti prelati
progressisti come Vittore Soranzo e Giovanni Morone e famosi personaggi come
Pietro Carnesecchi.
Inoltre introdusse negli ambienti valdesiani l'umanista Michele Bruto e
protesse il predicatore ortodosso Fra Angelo da Messina (Ludovico Manna),
raccomandatogli da Carnesecchi, e che fu da lui impiegato come lettore della
Sacra Scrittura nel duomo di Otranto, tuttavia, in seguito, dovette
licenziarlo per aver espresso idee un po' troppo radicali.
Infatti col passare degli anni i componenti del gruppo evangelico di Valdés
e Pole vennero sempre più stretti nella morsa dell'Inquisizione e neanche il
giovane arcivescovo d'Otranto, nonostante l'appoggio di influenti famiglie
aristocratiche, poté sfuggire a questa persecuzione.
All'inizio degli anni '50, a causa delle sue idee religiose, la nomina a D.
a cardinale fu più volte rinviata da parte del papa Giulio III (1550-1555),
pressato dagli alti vertici del Sant'Uffizio che ne chiedevano la messa in
stato d'accusa e l'abiura, e, sebbene nel 1554 lo stesso Giulio III
dichiarasse che D. era caduto nell'eresia "per piacerli troppo l'ingegno
suo, per confidarsi troppo nella sua prudentia, per la conversione del
Valdesio et altri eretici et per credersi di acquistare nome di dotto con
interpretare al riverscio le Scritture", solo grazie le potenti protezioni
da parte degli Asburgo e dei Gonzaga, con i quali D. era imparentato (era
cognato di don Ferrante Gonzaga), il papa impose comunque all'Inquisizione
di astenersi da ogni ulteriore procedimento contro l'arcivescovo di Otranto.
Ma D. rimase sempre al centro di indagini dell'Inquisizione ed in seguito
all'elezione di Papa Paolo IV (1555-1559), fu arrestato a Roma nel 1558, e
l'unica cosa che lo salvò da un successivo processo per eresia fu la fuga
nel regno di Napoli.


Ritorno al cattolicesimo
Solo durante il papato di Pio V (1566-1572), si concluse, in tutta
segretezza, la partita con un benevolo procedimento extragiudiziale, che
favorì il ritorno dell'arcivescovo d'Otranto nel grembo della Chiesa
Cattolica.
Nel settembre 1567, a conferma di questa sua ormai completa adesione
all'ortodossia, egli si fece notare per aver inserito alcune norme di
riforma [scaturite dal Concilio di Trento (1545-1563)] a proposito dei
sacramenti del battesimo, della cresima e della estrema unzione, negli
ordinamenti del suo sinodo provinciale con la precisa intenzione di ridurre
all'obbedienza i sacerdoti delle minoranze greche del Salento, che
adottavano riti ortodossi, prevedendo la loro possibile estromissione dal
corpo capitolare delle proprie rispettive parrocchie, nel caso che avessero
perseverato ne "l'antica consuetudine conservata presso di loro" di
perpetuare "l'antico errore . della Chiesa Costantinopolitana".
D. morì nel 1579.


Winstanley, Gerrard (ca. 1609-ca. 1660) e i diggers (1648-50)



I diggers (scavatori o zappatori) furono un movimento popolare sviluppato in
Inghilterra nel periodo 1648-50 a causa delle estreme condizioni di povertà
della gente comune.
Il fenomeno nacque, secondo alcuni autori, con l'ausilio di aderenti al
gruppo di levellers, con la ricoltivazione da parte della povera popolazione
locale di terreno pubblico abbandonato, dapprima nella contea del
Buckinghamshire nell'inverno 1648, ed in seguito, nell'aprile 1649, nella
contea del Surrey, intorno all'area di St. George's Hill e Cobham Heath. Qui
si distinse il reverendo Wiiliam Everard (ca. 1575-1650) che con i suoi
seguaci disboscarono e coltivarono terreni oramai lasciati andare.


Gerrard Winstanley
Tuttavia chi strutturò e teorizzò il movimento dei d. fu Gerrard Winstanley.
Egli era nato da una nobile e facoltosa famiglia del Lancaster nel 1609 ca.,
aveva lavorato anche come mercante, ma in seguito aveva perso ogni suo avere
durante la guerra civile (1642-46) e si era ridotto a fare il guardiano di
mandrie a Cobham, nel Surrey. Qui, nel 1648, Winstanley iniziò a scrivere
trattati religiosi e sociali, di cui il più importante fu The new law of
Righteousness (la nuova legge della giustizia), del 1649, dove egli
teorizzava una nuova società democratica senza classi sociali come
alternativa all'attuale basata sul privilegio e la ricchezza e rigettava il
concetto della proprietà privata della terra, che doveva ritornare, con
mezzi pacifici, al popolo. Altri lavori, scritti nello stesso anno con vari
co-autori, furono A Declaration from the Poor Oppressed People of England
Directed to all that Call Themselves or are Called Lords of Manors (Una
dichiarazione dei poveri ed oppressi dell'Inghilterra a coloro che si
chiamano o vengono chiamati Signori delle proprietà terriere) e TheTrue
Levellers Standard Advanced (Il vero standard avanzato dei livellatori).
Ovviamente queste argomentazioni erano particolarmente sgradite ai
proprietari terrieri della zona, che dapprima protestarono con le autorità,
poi affidarono a teppisti prezzolati il compito di organizzare spedizioni
punitive. Nonostante ciò, Winstanley continuò a pubblicare atri trattati e a
recarsi, spesso con Everard, dal Generale Lord Fairfax (1601-1671) per
giustificare e spiegare le motivazioni del movimento.
Ma gli attacchi contro le comunità di d. non cessarono, sia come atti
vandalici, che sotto forma di omelie ostili da parte dei parroci locali,
che, infine, come interventi dei giudici, i quali spesso condannavano per
introduzione abusiva in proprietà private i d. a pesanti multe e severe pene
detentive.
E così via con questo braccio di ferro, il quale non poté ovviamente durare
molto per la disparità delle forze in campo: nell'estate 1650, nonostante
l'appassionante difesa di Winstanley, i d. gettarono la spugna, abbandonando
alla chetichella l'area del Surrey da loro coltivata.
Senza appoggi politici, il movimento dei d., con il suo messaggio radicale
per una società più democratica, scomparve abbastanza rapidamente,
osteggiato come era ovviamente dalle classi più abbienti.
Di Winstanley, dopo il 1652 si persero le tracce: si suppone che sia andato
avanti ad abitare nella stessa zona fino a circa il 1660, data intorno al
quale è probabile che sia morto.


Davide di Dinant (ca. 1160 - ca. 1215)



La vita
Davide di Dinant, filosofo e naturalista fiammingo del XII secolo, nacque
probabilmente intorno al 1160, a Dinant nell'odierno Belgio oppure a Dinan
in Bretagna.
D. insegnò filosofia all'università di Parigi, dove fu influenzato dagli
insegnamenti di Platone e Aristotele. Di quest'ultimo, D. ebbe l'opportunità
di leggere le idee rielaborate da commentatori arabi, come Avicebron
(1020-1069 ca.), autore della Fons Vitæ, e solo in quegli anni disponibili
ritradotti in latino.
Nel 1210 il libro Quatermuli (quaderni di appunti) di D., confutato
successivamente da San Alberto Magno (1205-1280) e San Tommaso d'Aquino
(1221-1274), fu condannato dalla Chiesa ad essere distrutto sul rogo,
condanna confermata nel 1215 dal legato pontificio Cardinale Robert Courçon
(m. 1218).  D. stesso dovette fuggire dalla Francia per sottrarsi alla
cattura e morì dopo il 1215.
La sua opera principale fu chiamata anche De tomis id est de divisionibus e
di essa ci sono giunti alcuni frammenti. La condanna degli scritti di D.
coinvolse anche quelli di Aristotele e per un certo periodo, fu bandito lo
studio del suo pensiero.


La dottrina
Come il suo collega Amalrico di Béne, D. insegnava un credo di tipo
panteistico e neoplatonico, che prendeva ispirazione direttamente da
Giovanni Scoto Eriugena: in particolare che Dio era compreso in tutte le
cose, Egli era, cioè, la materia prima comune a tutti gli esseri corporei ed
incorporei, l'essenza di tutto ciò che esisteva, e quindi della realtà, che
veniva diviso in tre categorie, materia (il corpo), intelletto (l'anima) e
spirito.
Dio dunque, secondo D., era l'elemento, invariabile e senza forma, alla base
di tutto: le differenze visive delle cose tra di loro diverse erano
solamente apparenze superficiali.


Diodati, famiglia (XVI e XVII secolo)



Famiglia di riformatori esuli lucchesi (per la particolare situazione di
Lucca nel XVI secolo, vedi Burlamacchi) del XVI e XVII secolo, di cui si
ricordano:


1) Diodati, Pompeo (1542-1602)
Figlio di Niccolò (di Alessandro) Diodati (1511-1544), discepolo di Pier
Martire Vermigli e primo a convertirsi alla Riforma, e della moglie Zabetta
Arnolfini, Pompeo si accostò alle idee riformiste durante un viaggio in
Piemonte e a Lione. Nel 1563 si recò a Venezia, nel 1564 nuovamente a Lione,
e nel 1565 a Ginevra, ma tornato infine in patria, dovette fuggire poiché
era stato denunciato all'Inquisizione.
Nel 1566 andò quindi definitivamente in esilio, a Lione, e qui venne
raggiunto dalla madre e dalla futura moglie Laura Calandrini. Nel 1567 egli
riparò con la propria famiglia e con quelle di Michele Burlamacchi e di
Benedetto Calandrini presso la duchessa Renata d'Este, grande protettrice
della causa calvinista.
Dopo varie vicissitudini in Francia, culminate con la strage degli Ugonotti,
perpetrata la notte di San Bartolomeo (23 Agosto) del 1572, P., assieme a
Michele Burlamacchi, decise nel 1575 di recarsi a vivere a Ginevra. Qui
riprese l'attività di mercante nel commercio della seta, mettendosi in
società con Carlo Diodati, padre di Giovanni (vedi sotto) e con Francesco
Turrettini, e ricoprì importanti incarichi cittadini.
Morì nella città svizzera nel 1602.


2) Diodati, Carlo (1541-1625)
Il padre di Carlo era Michele Diodati, per tre volte gonfaloniere della
città e consigliere della Repubblica: nel 1541, durante un incontro a Lucca
dell'imperatore Carlo V (1519-1556) con Papa Paolo III (1534-1549), la
moglie di Michele, Anna Buonvisi (figlia di Martino, anche lui gonfaloniere
e inoltre ambasciatore della repubblica presso l'imperatore), diede alla
luce un bambino. L'imperatore in persona si offrì di fare da padrino
chiedendo che il neonato fosse battezzato con il suo nome (Carlo) e il papa
si offrì di celebrare il battesimo!
Tuttavia la situazione cambiò radicalmente nel 1558, quando Michele, caduto
in disgrazia per l'accusa di eresia, fu incarcerato nelle prigioni
dell'Inquisizione di Roma per diversi mesi.
Carlo venne a contatto con la Riforma durante i suoi viaggi di lavoro a
Lione e fu bandito da Lucca il 3 marzo 1568 come eretico: si trasferì a
Ginevra, dove nel 1572 gli fu riconosciuta la cittadinanza della città e
dove nel 1573 entrò nel Consiglio dei 200. Morì nel 1625.


3) Diodati, Giovanni (1576-1649)
Il più illustre rappresentante della famiglia fu senz'altro Giovanni, il
notissimo teologo calvinista.
Giovanni nacque a Ginevra il 3 Giugno 1576 da Carlo Diodati e dalla sua
seconda moglie, Maria Mei, e fu battezzato dal pastore Nicola Balbani.
Egli studiò teologia con Theodore di Béze, successore di Calvino, presso
l'Accademia di Ginevra, dove divenne dottore a soli 19 anni e
successivamente approfondì la conoscenza della lingua ebraica ed aramaica
all'università tedesca di Herborn, ottenendo la cattedra di ebraico a
Ginevra a 20 anni, nel 1596.
Nel 1600 G. sposò Maddalena, figlia di un altro noto esiliato religioso:
Michele Burlamacchi. Dal suo matrimonio nacquero 4 figli.
Diventò molto noto per aver pubblicato a sue spese, nel 1607 a Ginevra, la
prima edizione (la seconda, più ampia, è del 1641) della Bibbia, cioè i
libri del Vecchio e del Nuovo Testamento nuovamente translati in Lingua
italiana da Giovanni Diodati di nation lucchese, una traduzione quindi in
italiano, ma direttamente dagli originali in ebraico e greco antico. A
questa seguirà nel 1608 il Nuovo Testamento del Signor nostro Iesu Christo.
La Bibbia di Giovanni Diodati, con ben poche modifiche, è tuttora il testo
di riferimento per gli evangelici italiani ed è conosciuta con il
vezzeggiativo di "la diodantina" .
Nello stesso anno G. divenne rettore dell'Accademia di Ginevra, di cui
rimase professore fino a quattro anni prima della sua morte.
G. visitò anche Venezia due volte tra il 1605 ed il 1608, sotto lo
pseudonimo di Giovanni Coreglia, collaborando con il celebre fra' Paolo
Sarpi (1552-1623) al progetto, mai andato in porto, di far passare la città
alla Riforma. Infatti, in seguito all'interdetto lanciato sulla città da
parte del papa Paolo V il 17 luglio 1606, Sarpi studiò questa clamorosa
possibilità, tuttavia non se ne fece niente perché le vere motivazioni di
Sarpi erano più politiche (contro lo strapotere del papato di Roma) che
dottrinali (a favore della Riforma).
Nel 1618/9, accompagnato da Vincenzo Burlamacchi, G. venne inviato in
rappresentanza della città e della chiesa di Ginevra al sinodo di Dort (o
Dordrecht), dove il pensiero di Arminio (Jacob Hermanzoon) fu duramente
condannato, i suoi seguaci, i Rimostranti, perseguitati, e furono elaborati
i cinque punti del calvinismo, denominati Canone di Dort (depravazione
totale, elezione non condizionata, espiazione limitata, grazia irresistibile
e perseveranza dei santi). Su quest'ultimo argomento, se pur malato,
intervenne G., colpendo favorevolmente l'uditorio.
Negli ultimi anni della sua vita, G. soffrì di una malattia al fegato e morì
a Ginevra il 13 ottobre 1649, all'età di 73 anni.


4) Diodati, Teodoro (1573-1650)
Figlio di Carlo e fratello maggiore di Giovanni, Teodoro studiò medicina a
Leida, trasferendosi poi in Inghilterra, diventando membro del Royal College
of Physicians nel 1616 ed esercitando la professione per illustri pazienti,
come i principi Enrico Federico e Elisabetta, fratelli del futuro re Carlo I
(1625-1649).
T. ebbe tre figli (Charles, Philadelphia e John), di cui degno di nota è il
primogenito Charles, grande amico del famoso poeta John Milton (1608-1674),
che si disperò moltissimo alla sua prematura morte nel 1638.


Diodoro di Tarso (ca. 330- ca.391)



La vita
Diodoro, di nobile famiglia, nacque in Antiochia ca. nel 330 e studiò ad
Atene.
Successivamente entrò in un monastero vicino ad Antiochia, ma nel 361 fu
coinvolto nello scisma interno alla Chiesa di Antiochia, parteggiando per
Melezio, dal quale fu nominato prete.
Durante il regno di Giuliano l'Apostata (361-363), D. si impegnò in una
coraggiosa e vivace polemica con l'imperatore stesso, il quale aveva
attribuito la salute precaria di D. ad una punizione inflitta dagli Dei
pagani.
Sopravvisse anche le persecuzioni ordinate dall'imperatore Valente
(364-378), coordinando,  assieme a Flaviano, le fila dei meleziani, dopo
l'esilio del loro ispiratore.
Nel 372, D. conobbe San Basilio, che lo creò vescovo di Tarso, mentre poco
dopo l'imperatore Teodosio (379-395) lo nominò come uno dei referenti per
l'ortodossia per l'Oriente. Inoltre egli fu anche amico e sostenitore di San
Crisostomo.
D. morì nel 391 ca.


Il pensiero
D. fu il principale esponente della teologia antiochena e un convinto
assertore della esegesi letterale e storica della Bibbia, in contrasto con
gli origenisti.
Il suo coinvolgimento nella storia delle eresie cristologiche si riferisce
al fatto di aver esagerato nella difesa dell'ortodossia contro Apollinare di
Laodicea, insistendo sulle due nature, divina e umana, di Cristo, ma senza
risolvere il problema di come potessero coesistere in un'unica persona.
Per D. e per il suo discepolo Teodoro di Mopsuestia fu chiesta una condanna
postuma nel 437 da parte di Cirillo di Alessandria, sia perché nei loro
scritti avevano ribadito che l'umanità di Cristo doveva presupporre una
personalità umana, ma forse soprattutto perché i due erano stati,
rispettivamente, la fonte d'ispirazione (del tutto innocente) e il maestro
di Nestorio. In tale occasione essi furono difesi da Teodoreto di Ciro.


San Dionisio (o Dionigi) d'Alessandria, detto il Grande (ca. 190 - ca. 264)



Nell'ambito della discussione sui lapsi , coloro i quali avevano abiurato la
fede cristiana durante le persecuzioni, ordinate dall'imperatore Decio nel
249-251, assunse una certa importanza il vescovo di Alessandria, Dionisio (o
Dionigi).
D. era nato ca. nel 190 da una famiglia pagana di nobili origini e divenne
cristiano in gioventù. Studiò alla scuola di catechismo e di teologia di
Alessandria, il celebre Didaskaleion, sotto la guida di Origene, e dal 231,
data dell'espulsione di quest'ultimo, completò i suoi studi con Eracle,
successore di Origene. Alla morte del vescovo Demetrio, Eracle fu nominato
al suo posto e D. divenne capo del Didaskaleion. A sua volta, D. successe ad
Eracle come vescovo di Alessandria nel 247-8.
Nel 249, scoppiò una tremenda persecuzione dei cristiani: iniziata negli
ultimi mesi dell'impero di Filippo l'Arabo, venne poi legalizzata dal nuovo
imperatore Decio.
D. fu arrestato dal prefetto Sabino, ma, mentre veniva portato in prigione,
fu liberato da un gruppo di cristiani e ospitato in un luogo imprecisato nel
deserto della Libia fino alla cessazione delle persecuzioni nel 251.
Rientrato nella sua sede, D. fu coinvolto nelle discussioni che portarono
alla scissione della Chiesa dei santi di Novaziano, opposto a Papa Cornelio
(251-253), che D. appoggiò nel suo intento di riammettere i lapsi previo
pentimento.
Nel 257 una nuova persecuzione dei cristiani, ordinata dall'imperatore
Valeriano, provocò un ulteriore esilio in un luogo sicuro di D., il quale
rientrò ad Alessandria solo in seguito all'atto di tolleranza
dell'imperatore Gallieno del 260. Una sorte ben peggiore toccò al Papa
Stefano I, martirizzato il 2 Agosto 257, e a  Cipriano di Cartagine, ucciso
il 14 Settembre 258.
Cipriano aveva in comune varie cose con D.: erano ambedue pagani convertiti,
avevano preso posizione favorevole al riaccoglimento dei lapsi, avevano
discusso e litigato con i papi dell'epoca (Cipriano con Stefano I, Dionisio
con il suo omonimo papa Dionisio I), erano stati ambedue scomunicati, ma,
passato tutto nel dimenticatoio, erano stati infine canonizzati.
La scomunica di D. risalì al periodo in cui egli prese una decisa posizione
contro il  modalismo, rappresentato all'epoca da Sabellio. Per difendere la
Trinità dall'attacco modalista di essere solo o tre modi di rivelazione in
cui si manifestava, o attributi dati a Dio Padre, D. reagì troppo nella
direzione opposta, finendo in una posizione eretica.
Infatti egli, seguendo gli insegnamenti del suo maestro Origene, affermò che
il Figlio era qualcosa di creato (poiema) e quindi subordinato al Padre;
inoltre, come tale, Egli era una persona distinta, nella sostanza, dal Padre
stesso. Infatti per D., il Padre era eterno e non generato, mentre il Figlio
era "il primo generato" o "l'unico generato" (o Unigenito).
Per questo suo teorema, D. venne considerato uno dei padri dell'arianesimo,
ma, condannato dal suo omonimo papa, D. fu costretto a chiarire il suo
pensiero ed a correggere l'attributo di Cristo in "eternamente generato".
Inoltre, D. si rifiutò di inserire l'Apocalisse di Giovanni tra i libri
canonici del Nuovo Testamento, in quanto contrario all'idea chiliastica,
cioè dell'imminente ritorno di Cristo, che avrebbe segnato l'inizio di un
regno sulla terra di mille anni. La sua critica pungente fece sì che
l'Apocalisse venisse accettato, in seguito, dalle Chiese orientali solo
molto tempo dopo le Chiese occidentali.
Infine, in occasione del primo sinodo di Antiochia del 264, indetto per
condannare le teorie adozioniste di Paolo di Samosata, D. fu chiamato a
partecipare, ma rifiutò in quanto stanco e malato e morì nello stesso anno
(secondo alcuni autori, l'anno successivo, e più precisamente il 21
Novembre).


Dioscoro d'Alessandria (m. 454)



Dioscoro fu eletto Patriarca di Alessandria, come successore di S.Cirillo,
nel 444.
Non era un grande teologo come quest'ultimo, ma comunque attrettanto
ambizioso.
Nel 448, sostenne la causa del monaco Eutiche, che aveva accusato il vescovo
di Costantinopoli, S. Flaviano, di essere un nestoriano. Lo scopo di
Dioscoro era più politico che teologico: indebolire l'immagine del
Patriarcato di Costantinopoli per dare più prestigio alla sede di
Alessandria.
Nel 449, durante il Concilio di Efeso, che Dioscoro presidiette, egli
terrorizzò i 135 padri conciliari con la sua turba di monaci semianalfabeti
violenti e fanatici, capitanati da Barsumas e destituì i più importanti
teologi antiocheni, arroccati su posizioni nestoriane. Nel parapiglia,
alcuni dei presenti furono perfino uccisi.
L'insegnamento monofisita di Eutiche venne dichiarato ortodosso e il vescovo
di Costantinopoli fu mandato in esilio. Morì successivamente per le percosse
ricevute.
Papa Leone Magno (440-461), che, fra l'altro, convocò questo concilio, ma
non vi partecipò, lo definì non un "concilium", bensì un "latrocinium"
(brigantaggio)!
D. fu sempre protetto dall'imperatore Teodosio II (408-450), ma alla morte
di quest'ultimo, egli fu scomunicato e deposto dal Concilio di Calcedonia,
convocato nel 451 dall'Imperatrice (Santa) Pulcheria, fervente cattolica
ortodossa.
D. morì nel 454, esule a Gangra in Paflagonia.
La malasorte del loro vescovo offese moltissimi egiziani, che si schierarono
con lui e ciò permise al monofisismo di crescere negli anni successivi, fino
alla fondazione della Chiesa Copta.

Docetismo



Terminologia cristologica derivata dal greco dokéin, cioè apparire. Si
riferisce alla convinzione che l'umanità e le sofferenze di Gesù Cristo
fossero più apparenti che reali. Secondo i docetisti, in Gesù Cristo non
potevano essere simultaneamente presente sia il Bene che il Male,
rappresentato dalla carne.
Allora Cristo avrebbe dovuto avere un corpo solo apparente oppure etereo e
quindi Egli non sarebbe potuto nascere dalla Vergine Maria, né morire, né
resuscitare, né infine ci sarebbe il corpo di Cristo nell'eucarestia: il
tutto insomma sarebbe una pura illusione dei sensi.


Non si segnalano capostipiti di questo pensiero, che apparve più volte
durante la storia del cristianesimo. Si sviluppò come un pensiero
collaterale dei gnostici, preoccupati di rimuovere lo scandalo della
crocefissione.
Già da Simon Mago in avanti, si formulò il concetto che il Cristo non aveva
sofferto sulla croce, o perché era stato sostituito da qualcun altro (p.e.
Simone Cireneo, secondo Basilide) o perché tutto l'episodio del Calvario era
stato un'illusione.


Propugnatori della dottrina docetica sono i più famosi maestri gnostici,
come: Saturnino, Cerdo, Basilide, Valentino, Tolomeo, ed altri eretici come:
Marcione, Apelle, Bardesane, Giulio Cassiano, gli Elcasaiti, i  Manichei, i
Priscillianisti, i Pauliciani, i Seleuciani, i Bogomili fino a finire ai
Catari.
Nel periodo della riforma, gli Anabattisti avevano coltivato alcune vedute
docetiche ed infine in tempi più moderni alcuni concetti del docetismo hanno
fatto parte della dottrina teosofica.


Fra Dolcino da Novara (ca. 1250-1307) e dolciniani



La vita
Dolcino Torielli (o Tornielli) nacque, intorno al 1250, a Prato Sesia
(Novara) e si dice fosse il figlio illegittimo di un prete spretato. In
gioventù fu probabilmente un francescano o perlomeno compì degli studi
regolari, perché mostrò sempre una certa cultura e una buona conoscenza del
latino e delle Sacre Scritture.
Nel 1290 entrò nel movimento degli apostolici di Gherardo Segalelli, ma per
diversi anni non si fece particolarmente notare.
Il cambiamento avvenne nel 1300 dopo la morte sul rogo del Segalelli: la
repressione da parte della Chiesa cattolica fu molto brutale e lo stesso D.
riparò per qualche tempo in Dalmazia. Da qui scrisse la prima delle sue
lettere a tutti i seguaci del movimento, presentando la sua idea sullo
sviluppo delle ere della Storia rielaborando le ben note teorie di
Gioacchino da Fiore.
Ben presto D. fu nominato capo del movimento degli apostolici e nei primi
mesi del 1303, egli trasferì il movimento sulle montagne del Trentino,
vicino ad Arco sul Lago di Garda, dove conobbe Margherita di Trento, figlia
della contessa Oderica di Arco ed educanda in un convento. La fanciulla
sarebbe diventata la futura compagna di D., che da Arco scrisse la seconda
delle sue lettere agli apostolici.
Tuttavia poiché la lunga mano dell'Inquisizione era giunta fino in Trentino
con il rogo di tre apostolici, D. decise nel 1304, per organizzare meglio la
resistenza, di guidare i suoi seguaci (ben tremila persone) con una epica
marcia attraverso le montagne lombarde fino in Val Sesia, la sua terra
natia. Si dice che il nome di Campodolcino, un paese vicino a Chiavenna, sia
una diretta testimonianza di questo esodo di massa dei dolciniani.
In Val Sesia i dolciniani si insediarono dapprima nella parte bassa della
valle tra Gattinara e Serravalle, in località Piano di Cordova, nel feudo
dei conti di Biandrate, e grazie all'apporto di servi fuggiaschi dei vescovi
di Novara e di Vercelli, arrivarono ad essere una schiera di circa 4.000
persone. Si unirono anche diversi letterati provenienti da varie parti
d'Italia (Bologna, Toscana e Umbria), come Bentivegna da Gubbio.
Successivamente sotto l'incalzare delle truppe dei vescovi di Novara e
Vercelli, essi si spinsero più in su nella valle, nei possedimenti di un
ricco valligiano, di nome Milano Sola, di Campertogno, un paese pochi
chilometri prima di Alagna. Da lì, per difendersi meglio dapprima si
trasferirono sulle pendici della Cima Balme ed infine in Val Rassa, vicino a
Quare, su una montagna denominata Parete Calva, dove i superstiti (circa
1.500 persone) si asserragliarono per tutto l'inverno del 1304. Da qui
scendevano per saccheggiare e rubare nei villaggi sottostanti.
Ogni azione malvagia compiuta dai dolciniani in questo periodo fu
giustificata da D. Egli riteneva che essi fossero talmente perfetti da poter
commettere qualsiasi atto senza correre il rischio di peccare, secondo il
detto di San Paolo: Tutto è puro per i puri (Lettera a Tito 1,15) ed in
questo essi assomigliarono molto ai Fratelli dei Libero Spirito.
Ma nel rigido inverno del 1305 la morsa dell'assedio delle truppe cattoliche
e dei valligiani fu talmente incisiva che Margherita di Trento, con
inaspettato coraggio, decise lei stessa di guidare il gruppo in una
disperata azione di sgancio dall'assedio attraverso montagne e passi
innevati fino alla loro nuova roccaforte, il monte Rubello, vicino a
Trivero, in provincia di Vercelli, dove giunsero nel Marzo 1306.
Nel frattempo, nello stesso 1306, volendo definitivamente farla finita con
questa setta, il Papa Clemente V (1305-1314) aveva bandito una crociata.
I dolciniani, completamente circondati e posti d'assedio dalle truppe
cattoliche, resistettero per circa un anno, ma poi, oramai ridotti in
condizioni disumane (mangiavano carne di topi e di cani e ci furono perfino
episodi di cannibalismo), dopo un ultimo assalto, costato la morte a 800
dolciniani, si arresero alfine nel 1307.
D., Margherita e Longino Cattaneo di Bergamo, luogotenente di D., vennero
catturati vivi e portati a Biella, dove Longino e Margherita furono arsi sul
rogo il 1° Giugno 1307, nonostante i tentativi di alcuni nobili locali di
salvare la vita della donna, facendola abiurare.
D. fu costretto ad assistere al rogo della sua compagna e successivamente
portato a Vercelli per essere, a sua volta, arso: durante il percorso gli
vennero strappate le carni con delle tenaglie roventi. Nonostante questa
atroce tortura, D. non si lamentò mai, eccetto quando si strinse nelle
spalle all'amputazione del naso o quando sospirò profondamente al momento
dell'evirazione.


La tragica vicenda di D. suscitò l'interesse di diversi letterati nel corso
dei secoli come Nietzsche e Dante Alighieri, che lo descrisse nell'Inferno
nel canto XXVIII ai versi 55-60 (Or di' a fra Dolcin dunque che s'armi....).
Nel 1907 sul luogo della sua ultima resistenza fu eretto un obelisco
commemorativo, che fu abbattuto a cannonate durante il fascismo per essere
poi ricostruito negli anni '60.


La dottrina
Come si diceva, D. si ispirò alle dottrine millenariste di Gioacchino da
Fiore. Secondo D., la storia dell'umanità era contraddistinta da quattro
periodi:
Quello del Vecchio Testamento, caratterizzato dalla moltiplicazione del
genere umano,
Quello di Gesù Cristo e degli Apostoli, caratterizzato dalla castità e
povertà,
Quello iniziato al tempo dell'imperatore Costantino e di Papa Silvestro I,
caratterizzato da una decadenza della Chiesa a causa dell'accumulo delle
ricchezze e dell'ambizione,
Quello degli apostolici Segalelli e D., caratterizzato dal modo di vivere
apostolico, dalla povertà, dalla castità e dall'assenza di forme di governo
ed esso sarebbe durato fino alla fine dei tempi.
Inoltre, nelle sue lettere, egli fece ampio accenno all'Apocalisse di
Giovanni e in particolare ai sette angeli delle sette chiese, precursori
della propria setta. Egli infatti attendeva il settimo angelo, cioè di un
papa, finalmente eletto da Dio e non dai cardinali: questi ultimi sarebbero
stati distrutti, assieme a Papa Bonifacio VIII (1294-1303), da Federico III
d'Aragona e di Sicilia (1296-1337), re nel quale erano state riposte le
speranze dei ghibellini italiani.
Nonostante le profezie di D. su Federico III non si avverassero, D. rimase
sempre un riferimento per i suoi seguaci ai quali aveva predetto che, sotto
questo nuovo papa, gli apostolici avrebbero potuto ricevere la grazia dello
Spirito Santo e predicare e vivere in pace fine alla fine dei tempi.


Savonarola, Girolamo (1452-1498) e arrabbiati (o compagnacci o piagnoni)



Girolamo Savonarola nacque a Ferrara il 21 Settembre 1452 e, da giovane
intellettualmente dotato com'era, si dedicò con successo a studi di
filosofia e medicina.
Nel 1474, senza neppure avvisare la sua famiglia, prese tuttavia la
repentina decisione di entrare nell'Ordine Domenicano a Bologna, dove fino
al 1482 rimase in convento conducendo una vita ascetica dedicata alla
preghiera e all'approfondimento degli studi sulla filosofia di Aristotele e
di San Tommaso Aquino.
In quell'anno, 1482, S. si recò a Firenze nella Chiesa di San Marco, sede
dell'Ordine Domenicano in città, da dove iniziò a predicare con toni
violenti contro la vita immorale della corte di Lorenzo de' Medici, ma
sembra questi primi sermoni non sortirono l'effetto desiderato, anzi
passarono abbastanza inosservati.
Tuttavia, ritornato nella città toscana nel 1489, dopo diversi anni di
prediche in giro per l'Italia, la sua denuncia del paganesimo diffuso
divenne più incisiva e così dicasi dei suoi attacchi contro Lorenzo de'
Medici, nonostante la generosità di quest'ultimo nei confronti del convento
di San Marco, del quale S. stesso fu nominato priore nel 1491.
Nel 1493 Lorenzo morì, tuttavia S., non pago, aumentò ugualmente il livello
della sua denuncia contro l'immoralità e gli abusi, questa volta, del clero
e del nuovo Papa Alessandro VI (1492-1503), il famigerato Rodrigo Borgia,
padre di diversi figli, tra i quali i noti Lucrezia e Cesare ed eletto Papa
grazie a spregiudicati atti di corruzione e simonia.
Proprio il contrario degli ideali di S., che anelava ad una rigenerazione
morale e spirituale della Chiesa e che incominciò ad applicare alcune sue
idee, riformando i monasteri toscani dell'Ordine Domenicano secondo una
rigida osservanza della Regola originariamente stabilita e sottraendo il
controllo dalla Congregazione Lombarda, la Casamadre dell'Ordine.
Nel 1494 l'esercito di Carlo VIII di Francia (1483-1498) invase l'Italia,
per riaffermare il diritto del re, di sangue angioino, alla successione al
regno di Napoli, dopo la morte di Ferrante d'Aragona (1458-1494).
S. supportò la causa del re francese, sperando in cambio di un appoggio per
la formazione di un governo democratico in Firenze ed effettivamente la
visita di Carlo VIII a Firenze permise a S. di scacciare l'indegno figlio di
Lorenzo de' Medici, Pietro, e di instaurare una Repubblica teocratica.
In tutta la Repubblica fu messa in vigore una normativa morale molto severa
e basata sulla legge di Cristo, considerato il vero "Re di Firenze".
Divennero famosi i "falò delle vanità", roghi pubblici nei quali vennero
bruciati carte e dadi da gioco, libri pagani e immorali (talora bastava
anche un innocente libro di poesie o una copia del Decamerone del
Boccaccio), ornamenti e vestiti lussuosi, e perfino quadri del Botticelli.
Dall'alto del suo successo, S. poté riprendere gli attacchi contro
l'immoralità della Curia romana e di Alessandro VI, ma il Papa contrattaccò
nel 1495 convocandolo a Roma per difendersi dalle accuse di false profezie.
S. rifiutò adducendo motivi di salute cagionevole.
Tuttavia Alessandro VI non demorse e nel 1496 stabilì che i monasteri
domenicani toscani avrebbero dovuto riferire ad una nuova Congregazione
situata (ovviamente) in Roma: al rifiuto di S. di obbedire, questi fu
scomunicato il 12 Maggio 1497.
A questo provvedimento S. reagì dichiarandolo privo di valore e continuando
le sue prediche nel Duomo di Firenze, mentre il Papa reagì minacciando di
interdizione la città, se al predicatore non fosse stata tolta la parola.
Oltretutto, l'ostilità locale nei confronti di S., opportunamente
orchestrata da parte dei francescani, iniziò a crescere fino a quando, nel
Marzo 1498, il francescano Padre Francesco Rondinelli sfidò S. ad un'ordalia
del fuoco per stabilire la santità del predicatore domenicano.
Quest'ultimo rifiutò, ma, al suo posto, accettò la sfida il suo devoto
discepolo Domenico da Pescia.
Il 7 Aprile 1498, data prescelta per la prova, questa non si poté aver
luogo, dapprima per le lungaggini procedurali, e poi per un improvviso
acquazzone. La folla esasperata e di umore mutevole se la prese con S.,
arrestato sul luogo assieme a Domenico da Pescia. A nulla servì la reazione
dei suoi seguaci, denominati arrabbiati o compagnacci o piagnoni (dalle
lacrime che versavano ad ogni sermone di S.), i quali provocarono gravi
disordini, assaltando, fra l'altro, il convento di San Marco al grido di
Salvum fac populum tuum, Domine.
Il Papa non si fece scappare la ghiotta occasione di fare i conti con il
predicatore ribelle ed inviò a Firenze il generale dell'Ordine Domenicano e
il vescovo di Ilerda ad assistere al processo. Nonostante le torture, S. non
cedette, tuttavia furono redatti, a cura di alcuni notai compiacenti, degli
atti palesemente contraffatti del processo, nei quali S. avrebbe ammesso di
essere un falso profeta.
Sulla base di questa "confessione" S. venne condannato, assieme ai suoi
seguaci Domenico da Pescia e Fra Silvestro, a morte mediante impiccagione,
seguita dal rogo dei corpi e dalla dispersione delle ceneri nell'Arno.
La sentenza venne eseguita il 22 Maggio 1498.
La figura di S. fu onorata dal Luteranesimo, come esempio di antesignano
della Riforma e la sua statua fa parte del monumento dedicato a Lutero,
eretto a Worms, in Germania.
Comunque, anche la stessa Chiesa Cattolica sembra aver espresso recentemente
l'intenzione di rivalutare la figura di S. come rinnovatore della Chiesa ed
è stato avviato il relativo processo di beatificazione presso il Tribunale
Ecclesiastico, presieduto dal Cardinale Silvano Piovanelli, arcivescovo di
Firenze, secondo il quale S. "morì e visse come un santo".


Donato di Numidia (ca.270 - ca.355) e donatismo



Durante o dopo le grandi persecuzioni del III e IV secolo, la Chiesa
Cristiana si era spesso interrogata sull'atteggiamento da tenere nei
confronti di coloro che, per vari motivi, si erano sottratti al martirio,
tortura o imprigionamento, facendo apostasia, cioè rinnegando la propria
fede, ma che, passata la tempesta, avevano domandato di essere riammessi
nella Chiesa.
In latino, costoro venivano chiamati lapsi, cioè caduti e si dividevano in:
Libellatici, che si erano procurati documenti falsi, che attestavano che
essi avevano sacrificati agli dei romani.
Sacrificati, che avevano veramente sacrificato agli dei.
Turificati, che avevano bruciato l'incenso agli dei.
Traditores, che avevano consegnato le Sacre Scritture alle autorità romane.


La corrente degli intransigenti, come Novaziano intorno al 250 e Melezio di
Licopoli intorno al 305, era per la linea dura: nessun perdono né per i
lapsi né per coloro che avevano commesso peccati mortali.
La posizione ufficiale della Chiesa, ribadita nel Concilio di Elvira del
305, era invece orientata, con alcuni distinzioni, ad una nuova accoglienza
previa penitenza, come era stato suggerito nel 250 da Cipriano, vescovo di
Cartagine. Ironia della sorte però, fu proprio Cipriano ad introdurre il
tema, che diede il via, circa 60 anni più tardi, allo scisma donatista, e
cioè se i sacramenti amministrati da un sacerdote, reo di essere stato un
apostata, erano considerati validi o meno.
Nel 311, morì il vescovo di Cartagine, Mensurio e al suo posto fu eletto il
suo diacono, Ceciliano.
Il problema era che ambedue i prelati erano stati dei traditores durante le
persecuzioni di Diocleziano e quindi contro questa nomina si ribellò un
gruppo di 70 vescovi con a capo il vescovo di Numidia , Donato, nato a Casae
Nigrae (Case Nere) nel 270 ca., e soprannominato "il Grande" per la sua
notevole capacità di eloquenza.
D. e gli altri vescovi nominarono vescovo di Cartagine, il prete Maggiorino,
parente della nobile Lucilia, grande protettrice del neonato movimento.
Maggiorino morì pochi mesi più tardi e gli successe D. stesso, che diede il
nome di donatisti ai seguaci di questo scisma.
Al di là delle questioni religiose, questo movimento riuniva una miscela
esplosiva di nazionalismo punico (cioè della zona attualmente corrispondente
alla Tunisia e alla Libia), ostilità verso Roma e volontà di rivalsa delle
classi più deboli.
Nel 313, l'imperatore Costantino, prese posizione a favore di Ceciliano in
due lettere scritte al suo proconsole Anulino, ma a questa decisione i
donatisti si opposero con una tale forza che, volendo dirimere la questione
cartaginese, Costantino fece convocare un concilio a Roma, dal 2 al 4
Ottobre 313 in domo Faustae in Laterano, cioè nel Palazzo del Laterano,
futura sede del Papa.
Il concilio, presieduto dal Papa Milziade, condannò D. e confermò come
vescovo Ceciliano, tuttavia, al rientro di D., in patria si scatenarono le
reazioni dei suoi sostenitori.
Costantino convocò allora, nel 314, un altro concilio ad Arles in Francia, e
qui vennero riconfermate le decisioni del concilio di Roma e in più si
condannò l'usanza donatista di ribattezzare i peccatori.
A questo punto, tra il 317 ed il 321, si scatenò la repressione imperiale e
si cercò con la forza di sopprimere il movimento, espropriando le chiese
donatiste e mandandone in esilio i capi.
Ci furono anche diversi morti, ma anche la reazione dei donatisti non si
fece attendere. In particolare scesero in campo i circoncellioni o agonisti,
vero e proprio braccio armato (sebbene spesso solo di bastoni) del movimento
donatista.
Dal 321 Costantino, scoraggiato dal fatto che le misure intraprese non
avevano portato alla pace sperata, lasciò una relativa libertà di coscienza
e di culto al movimento, anche perché alle prese con una minaccia ben più
grave all'unità della Chiesa Cristiana: l'arianesimo.
Dopo qualche anno, il nuovo imperatore Costanzo II, ansioso, come il padre,
di pacificare l'Africa, mandò, nel 347, due commissari, Paolo e Macario, con
larghe somme di denaro per "convincere" alcuni influenti donatisti a tornare
in seno alla Chiesa cattolica.
L'azione fu considerata un vero e proprio affronto da parte di D., ma i
disordini che ne seguirono furono il pretesto per una dura repressione da
parte degli imperiali: D. stesso fu mandato in esilio dove morì, di morte
naturale, nel 355.
A D. subentrò, come successore, Parmeniano, riorganizzatore del movimento e
vendicatore, durante il regno dell'imperatore Giuliano nel 362, delle
persecuzioni subite dai donatisti: ci furono i soliti massacri questa volta
a carico dei cristiani ortodossi.
Nuovo cambio di rotta con gli imperatori Valentiniano nel 373, e Graziano
nel 377, che ordinarono la restituzione dei beni ai Cattolici.
Ma il segreto della sconfitta donatista fu l'intervento di due teologi: San
Ottato (Optato) di Milevi (l'odierna Mila, in Algeria) (m. ca. 385), autore
di De schismate Donatistarum e soprattutto Sant'Agostino (354-430), il
"martello dei donatisti": quest'ultimo, diventato vescovo di Ippona (oggi in
Algeria) nel 395, si impegnò a combattere contro i donatisti per parecchi
decenni. Agostino fu il trionfatore della disputa di Cartagine del 411 (un
dibattito tra cattolici e donatisti) e domandò pubblicamente che il potere
dello stato venisse usato contro i donatisti.
Questo fu la prima volta nella storia del Cristianesimo che il potere
politico interveniva a difesa del potere religioso per reprimere un'eresia.
Il successivo decreto dell'imperatore Onorio del 412 condannò i donatisti,
confiscò le loro proprietà e mandò in esilio i suoi vescovi, dando un colpo
mortale al movimento. A questo si aggiunse nel 429 l'invasione del province
romane del Nord Africa da parte dei Vandali.
Tuttavia alcune frange di donatismo resistettero fino all'invasione araba e
alla conquista di Cartagine da parte delle truppe dell'Islam nel 698. Il
movimento fu quindi definitivamente assorbito dall'islamismo, di cui
influenzò il concetto di martirio per fede religiosa.


Dositeo (I° secolo)



Dositeo, un samaritano contemporaneo o addirittura precedente a Simon Mago,
formò una setta gnostico-giudaica, secondo alcuni autori, prima dell'era
cristiana, e quindi non classificabile come eretico della Cristianità.
Origene pensò che Dositeo (discepolo di Giovanni Battista, secondo Clemente
Alessandrino) facesse parte di quella schiera di falsi profeti imperversanti
durante il periodo di Gesù, ma è probabile che confondesse due persone con
lo stesso nome.
I suoi seguaci, con il nome di dositeani (Dusitamya o Dostân), pare siano
sopravvissuti in Egitto fino al X° secolo.


Storch, Nicholas o Niklas (m. 1525) e "Profeti di Zwichau" o abecedariani



Premessa
Il paese di Zwickau era, nel XVI secolo, una ricca città della Sassonia,
vicino al confine con la Boemia, ed aveva basato il suo sviluppo sulle
attività minerarie dell'argento. Questo orientamento dell'economia locale
aveva, tuttavia, portato in rovina la precedente fiorente industria tessile,
generando una vasta disoccupazione tra i lavoratori tessili.


Nicholas Storch
Nicholas (o Niclas) Storch, era, per l'appunto, uno di questi ex-tessitori,
discendente di una ricca e potente famiglia mandata in bancarotta dai
proprietari minerari.
Nel Maggio 1520, era giunto a Zwickau il noto predicatore riformatore Thomas
Müntzer, chiamato come sostituto del precedente pastore della Chiesa di
Santa Maria, Johannes Egranus. La retorica di Müntzer fu forte e radicale,
soprattutto quando, diventato pastore della Chiesa di Santa Caterina
nell'Ottobre dello stesso 1520, si scagliò contro i monaci francescani
locali. Tra i suoi parrocchiani, i più attenti alle sue argomentazioni
erano, oltre a Storch, l'ex studente di Wittenberg Markus Stübner e un terzo
personaggio, che le varie fonti indicano o come Thomas Drechsel oppure come
Markus Thomä.
I tre, denominati "Profeti di Zwickau", furono fortemente influenzati dalle
dottrine dei Fratelli Boemi con una decisa impronta millenaria -
apocalittica, derivata dagli hussiti taboriti: essi predicavano l'imminenza
dell'avvento della "Chiesa degli Eletti", ricusavano lo studio della
teologia e consideravano gli uomini istruiti come manipolatori della parola
di Dio. Per questo erano convinti che era necessario essere totalmente
ignoranti, persino delle prime lettere dell'alfabeto (ABC), da cui il loro
nome di abecedariani.
Erano infatti convinti che Dio avrebbe illuminato i suoi eletti e dato loro
la conoscenza della verità tramite lo Spirito Santo. S. affermava inoltre
che l'arcangelo Gabriele gli era apparso, ordinandogli di diventare capo
della "Chiesa degli Eletti" e di nominare 12 apostoli e 72 discepoli.
Finché i "profeti" potettero godere della benevolenza di Müntzer, non ci
furono problemi, ma il 16 Aprile 1521, quest'ultimo fu espulso dal consiglio
cittadino di Zwickau, nonostante le manifestazioni di piazza inscenate per
solidarietà dai "profeti". Il nuovo pastore, Nicolaus Hausmann, non fu
affatto tenero con il movimento e il 16 Dicembre 1521 fece accusare gli
abecedariani di ripudio del battesimo infantile.
A questa data, quindi, si fa risalire la prima comparsa di un movimento
radicale, in realtà più anti-pedobattista (contrario al battesimo dei
bambini) che anabattista (ri-battesimo degli adulti), concetto,
quest'ultimo, espresso da Conrad Grebel ed i suoi seguaci in Svizzera.
S., Stübner e Thomä (o Drechsel), espulsi da Zwickau, cercarono di esportare
le loro idee a Wittenberg: furono ascoltati dai principali collaboratori di

Martin Lutero, Nikolaus von Amsdorf, Philipp Schwarzerd (Melantone) e
Andreas Bodenstein (Carlostadio) e riuscirono ad impressionare
favorevolmente Carlostadio e perfino ad installare dei dubbi in Melantone,
colpito dalla loro conoscenza della Bibbia.
La situazione, precipitata in seguito ad una serie di episodi di
iconoclastia provocati da Carlostadio, divenne così critica che Lutero
stesso dovette lasciare il suo rifugio nel castello di Wartburg e,
travestito da cavaliere, tornare a Wittenberg il 7 Marzo 1522.
Le tesi dei "profeti" furono prontamente respinte da un suo diretto ed
energico intervento, riassunto nell'opuscolo Contro i profeti celesti, dove
attaccò duramente anche il suo ex-amico Carlostadio. Quest'ultimo fu
esiliato nel 1524 dal principe Federico III di Sassonia, detto il Saggio
(1486-1525) e si stabilì perfino per un certo periodo nella città mineraria
sassone.
S. e i profeti furono espulsi da Wittenberg: in particolare S. viaggiò tra
il 1522 e 1524 in Turingia e Slesia, per propagandare le sue dottrine,
nonostante Lutero nel Settembre 1522 tentasse inutilmente di convincerlo a
ricusare le sue idee.
All'inizio del 1525, con un piccolo esercito di seguaci, S. raggiunse a
Mühlhausen Müntzer, che capeggiava, assieme a Heinrich Pfeiffer, la nota
Rivolta dei contadini.
Questa rivolta aveva tuttavia i giorni contati in quanto venne soppressa il
15 Maggio 1525 dalle truppe di Filippo, langravio di Hesse, durante la
battaglia di Frankenhausen, risoltasi in una orrenda carneficina dei
contadini, 5.000 dei quali furono fatti immediatamente a pezzi dai cavalieri
e soldati meglio equipaggiati e dotati di artiglieria, mentre altri 20.000,
che si arresero, furono sgozzati senza pietà. Sia Müntzer che Pfeiffer
furono catturati, torturati e decapitati.
Pare che S. fosse sfuggito alla morte in battaglia, ma che, giunto
gravemente ferito a Monaco di Baviera, fosse morto in un ospedale della
città nello stesso 1525.

Dudith Sbardellati, Andrea (1533-1589)



La vita
Il diplomatico ed ecclesiastico italo-ungherese Andrea Dudith Sbardellati
nacque a Buda, in Ungheria, nel 1533 da una nobile famiglia, di origini
croate (la grafia originale del cognome era Dudich), ma fu sempre orgoglioso
delle proprie ascendenze italiane da parte di madre, originaria di un ramo
degli Sbardellati di Rovereto (Trento), emigrato in Ungheria con il nonno di
Andrea.
D. rimase ben presto orfano di padre, caduto combattendo contro i turchi
sotto le mura di Buda nel 1542 e venne quindi affidato alla tutela dello zio
materno Agostino Sbardellati, personaggio molto in vista all'epoca:
consigliere dell'imperatore Carlo V (1516-1556), vescovo di Vác,
amministratore dei beni dell'arcivescovado di Esztergom (durante la sede
vacante), purtroppo anch'egli destinato a morire combattendo contro i turchi
nel 1552.
D. fu educato a Breslavia e nel 1550 compì un viaggio in Italia, con una
tappa a Vienna. In Italia abitò a Verona e qui conobbe il cardinale Reginald
Pole, che ai tempi viveva a Maguzzano sul Lago di Garda e lo storico
Giovanni Michele Bruto, il quale divenne un suo buon amico.
La figura del cardinale inglese lo colpì molto e, dopo un ciclo di studi a
Venezia e Padova [in quest'ultima città fu collega di studi del futuro
voivoda di Transilvania e re di Polonia, Istvàn (Stefano) Bàthory (re di
Polonia: 1576-1586)], entrò, come segretario personale, al seguito di Pole
in un viaggio a Bruxelles nel 1554 per incontrare Carlo V, il quale non
mancò di raccomandare il giovane D. al fratello Ferdinando I, arciduca
d'Austria, re di Boemia e d'Ungheria (arciduca: 1521-1564, re dal 1527).
Nei tre anni successivi (1555-1557), D. fece la spola tra Parigi, per
studiare filologia al College Royal con l'umanista Adrian Turnebus
(1512-1565), e Londra, dove fu testimone del sanguinario tentativo della
regina inglese Maria Tudor (1553-1558) di reintrodurre la religione
cattolica al paese. Tornò brevemente in patria per prendere gli ordini come
canonico di Esztergom, ma, ritornato in Inghilterra, si trovò senza
protettore per la morte del Pole il 17 novembre 1558, lo stesso giorno della
morte della regina Maria Tudor.
Decise quindi di seguire un regolare corso di giurisprudenza a Padova,
completato il quale, fu nominato, nel 1560 da Ferdinando I (diventato, nel
frattempo, imperatore nel 1556), vescovo di Knin (o Tinina, in Dalmazia) ed
in questa veste partecipò al Concilio di Trento (1545-1563), oltre che come
oratore del clero ungherese, portando avanti la politica conciliatoria di
Ferdinando I, favorevole all'unità del Cristianesimo a tutti i costi,
evitando lo strappo con i protestanti.
D. fece diversi interventi, come per esempio a favore della concessione del
calice ai laici e della comunione sotto ambedue le specie, ed il cardinale
Giovanni Morone, probabilmente per allontanare questo scomodo protetto
dell'imperatore, lo incaricò di presentare le proposte della curia
all'imperatore stesso per poter affrettare la conclusione del concilio.
Conclusa l'ambasciata, D. non tornò più a Trento, e, nonostante i rapporti
non certo ottimali con Roma, egli non perse comunque il favore imperiale:
Ferdinando I lo nominò vescovo nel 1562 di Csanàd, nel settembre 1563 di
Pécs, successivamente di Sziget, tutte e tre città ungheresi sotto il
dominio turco, mentre il successore Massimiliano II (1564-1576) lo inviò
come ambasciatore imperiale in Polonia nel 1565.
Tuttavia a Cracovia, nel 1567, egli rinunciò clamorosamente a tutti i suoi
benefici ecclesiastici e si sposò con una dama di compagnia della regina
Caterina di Polonia, sorella dell'imperatore Massimiliano II. Quest'ultimo
lo rimproverò aspramente per la decisione, pur non negandogli il sostegno
economico e accettando ancora i suoi servigi come diplomatico, e D. si
difese, scrivendo un trattato contro il celibato degli ecclesiastici, dal
titolo Demonstratio omni hominum ordini, sine exeptione, divina lege
matrimonium permissum esse.
Da questo periodo D. iniziò a simpatizzare per l'entourage antitrinitario in
Polonia, la cosiddetta Ecclesia Minor, sebbene si guardò bene dallo
schierarsi ufficialmente a favore degli unitariani.
Nel periodo 1573-1575, D. fece una violenta campagna contro l'elezione di
Stefano Bathory a re di Polonia, per preparare la strada alla nomina del
principe Ernesto, figlio dell'imperatore Massimiliano II.
Dal punto di vista religioso, D. si accostò sempre più agli
antitrinitariani, ma nel settembre 1574 egli sposò, in seconde nozze,
Elzbieta Zborowski, di un'influente famiglia polacca calvinista, vedova
dell'atamano Jan Tarnowski, ma furono proprio i potenti parenti della moglie
ad offrire la corona di Polonia a Stefano Bathory.
L'elezione di quest'ultimo il 15 dicembre 1575 scatenò la vendetta dei suoi
seguaci contro l'ambasciatore imperiale, che dovette darsi ad una
precipitosa fuga da Cracovia, abbandonando i suoi beni.
D. allora si trasferì a Breslavia, diventando luterano, e qui si dedicò ai
suoi studi scientifici, pubblicando opere sulla peste e il suo metodo di
contagio nel 1577-78 e sulle comete (De Cometis, con prefazione di Bruto)
nel 1579.
Nel 1578 si rifugiò nei suoi possedimenti in Moravia, a Paskov, dove trattò
sempre con rispetto i suoi contadini aderenti al movimento dei Fratelli
Boemi, ma già nel 1579 ritornò a Breslavia, per proseguire i suoi studi
scientifici e continuare la sua fitta corrispondenza con i principali
dissidenti italiani dell'epoca, come Giorgio Biandrata, Giacomo Paleologo,
Marcello Squarcialupi, Simone Simoni, Fausto Sozzini, Francesco Stancaro e
Prospero Provana, oltre che con il medico imperiale, cripto-calvinista,
Johannes Crato von Crafftheim (1519-1585).
Nel 1583 arrivò il disgelo con Bathory, che gli permise di esercitare alcune
attività commerciali con la Polonia.
D. morì a Breslavia il 23 febbraio 1589 e fu sepolto nella chiesa luterana
di Santa Elisabetta a Cracovia.


Il pensiero religioso
Come già detto, D. manifestò sempre una notevole, sebbene cauta, simpatia
per il movimento antitrinitario, ben presente in Polonia nella seconda metà
del `500. Il dibattito rimane comunque aperto fra gli studiosi contemporanei
per accertare se egli avesse mai aderito alle idee di Biandrata e Fausto
Sozzini.
E' vero che dopo essersi trasferito a Breslavia D. diventò luterano, ma
questo era stato fatto più che altro per uniformarsi al noto principio cuius
regio, eius religio.
Egli era un insofferente dell'intolleranza, cattolica o protestante che
fosse, tant'è che nel 1584 egli scrisse una lettera accompagnatoria alla
seconda edizione del De Haereticis capitali supplicio non afficiendis [del
teologo della tolleranza senese Mino Celsi (1514-ca.1575)], in cui D. entrò
nella polemica sulla persecuzione degli eretici. La lettera fu immediata
contestata e condannata da Théodore de Bèze.
Secondo lo storico Delio Cantimori, D. fu soprattutto un elaboratore di
motivi erasminiani, e anelava una Chiesa unica e santa, basata sul simbolo
apostolico e sulla morale evangelica.



Enrico VIII d'Inghilterra (1509-1547) e Anglicanesimo



L'Inghilterra fu unica nella sua scelta di staccarsi dalla Chiesa Cattolica:
il risultato finale fu la Chiesa Anglicana, teologicamente una miscela di
dottrina cattolica e riformata, ma in pratica indipendente da tutte e due.


Situazione storica
Già prima del XVI secolo, l'Inghilterra aveva conosciuto eresie
particolarmente radicate sul territorio, come, ad esempio nel XIV secolo,
John Wycliffe e i suoi poveri predicatori, e il conseguente movimento
lollardo, che persisteva anche ai tempi di re Enrico VIII.
L'Inghilterra, inoltre, cercava di sviluppare la propria società, rifondata,
dopo la lunga e devastante Guerra delle Due Rose (1455-1485), su un
nazionalismo piuttosto marcato e ovviamente desiderava evitare, il più
possibile, le interferenze esterne.
Quindi era chiaro che le ingerenze del papa sugli affari interni inglesi, il
pagamento dei tributi a Roma, la corruzione nel quale versava il clero
cattolico inglese, un quarto circa del suolo nazionale in mano alla Chiesa,
un sistema di giudizio e pagamento delle tasse differenziato per gli uomini
di chiesa erano problemi decisamente maldigeriti dalla nazione e dal suo re.


Enrico VIII (1509-1547)
Enrico VIII, nato nel 1491, salì sul trono a soli 18 anni, nel 1509, dopo la
morte del padre Enrico VII (1485-1509). Nel primo periodo del suo regno egli
diede l'impressione di un devoto fedele della Chiesa Cattolica: scrisse
perfino un Assertio Septem Sacramentorum nel 1521 e fu molto efficace
nell'opporsi alla diffusione del luteranesimo in Inghilterra. Il tutto gli
fece guadagnare il titolo di Difensor fidei (difensore della fede) da parte
del papa.
Ma la crisi con Roma arrivò nel 1527: infatti Enrico era sposato, per
volontà politica di suo padre, dal 1509 con Caterina d'Aragona, vedova di
suo fratello Arturo. A quel tempo, questo matrimonio si poté celebrare
solamente con la dispensa di Papa Giulio II (1503-1513).
Dopo 18 anni, il re chiese al Papa Clemente VII (1523-1534) l'invalidazione
della dispensa papale, ma la questione era infatti molto delicata: da una
parte Enrico era seriamente preoccupato per la successione al trono
d'Inghilterra a causa del matrimonio con la più anziana Caterina, che non
era riuscita a dare un erede maschio al re: l'unica superstite delle sue
varie gravidanze era la figlia Maria. Però, dall'altra parte bisognava
considerare le implicazioni internazionali: Caterina era anche zia
dell'imperatore Carlo V (1519-1558)!
L'intermediario papale [l'arcivescovo di Salisbury Lorenzo Campeggio
(1472-1539)] e quello del re [il cardinale e Lord Cancelliere Thomas Wolsey
(1474-1530)], scelti per condurre la trattativa, tirarono per le lunghe
senza arrivare ad una conclusione e lo stesso Papa Clemente VII, dopo aver
subito il sacco di Roma e la prigionia da parte dei lanzichenecchi di Carlo
V nel 1527, non voleva ulteriormente provocare l'imperatore, perciò nel 1529
avocò a Roma il diritto di decidere sulla questione, ma anche lui, debole o
troppo prudente, continuò a posporre la decisione finale.
Lo stato di impasse fu superato grazie a Thomas Cranmer, docente
universitario alla Jesus College di Cambridge, il quale suggerì al re di
consultare le principali università europee. Oltretutto, secondo Cranmer,
anche dalle stesse Sacre Scritture veniva la conferma della scelta di
separazione, secondo un passo del Levitico (20:21): Se un uomo sposa la
moglie di suo fratello commette un'impurità; essi rimarranno senza figli.
Benché la proposta di Cranmer non permettesse di raggiungere l'unanimità di
consensi, tuttavia la maggioranza delle risposte fu favorevole a Enrico.
Anno dopo anno, Enrico VIII, consigliato da Cranmer, nominato nel 1532
arcivescovo di Canterbury, alzò sempre più il tiro contro la Chiesa
Cattolica. Nel frattempo, però, Cranmer si era nel frattempo sposato con
Margaret, nipote del riformatore luterano Andreas Osiander: dovette
occultare la presenza della moglie e perfino mandarla all'estero per non
dispiacere al re.
Nel 1530 il re accusò molti prelati inglesi di violare, a loro favore, gli
statuti, denominati Praemunire, (editti nel 1353, 1365 e 1393), i quali
concedevano che le cause legali coinvolgenti uomini di chiesa fossero
portate davanti a corti papali fuori dall'Inghilterra, solo dopo il
beneplacito del re. La vittima più illustre di questa accusa fu Thomas
Wolsey, che già caduto in disgrazia per la sua inefficienza dimostrata
durante le trattative per la separazione del re, fu messo sotto accusa, ma
morì di malattia il 30 novembre 1530 durante il suo trasferimento a Londra.
Nel 1531 Enrico fece votare dal parlamento "l'atto di supremazia" con la
quale egli si fece riconoscere Capo Supremo della Chiesa in Inghilterra.
Nel 1532 decise che i tributi andavano pagati alla corona e non a Roma.


Lo strappo con Roma
Lo strappo definitivo arrivò nel 1533, quando il re sposò in segreto la sua
nuova fiamma, Anna Bolena, la quale già aspettava un figlio da lui, e, tre
mesi dopo, Cranmer, facendosi forte di un decreto parlamentare sulla
autonomia della Chiesa inglese nelle decisioni interne, dichiarò sciolto il
matrimonio di Enrico con Caterina e riconobbe ufficialmente quello con Anna
Bolena.
Il papa Clemente VII reagì con la scomunica del re, di Anna Bolena e di
Thomas Cranmer nel luglio 1534 e con l'interdizione (cessazione
dell'amministrazione dei sacramenti) dell'Inghilterra, provvedimento che
sarebbe stato tremendo nel medioevo, ma che fu praticamente ignorata nel XVI
secolo. Clemente morì nel settembre 1534: il successore, Paolo III
(1534-1549), ideatore del Concilio di Trento, dovette gestire un rapporto
con la Corona d'Inghilterra, che peggiorava ogni giorno sempre di più.
Infatti Enrico VIII rispose alla scomunica nel novembre 1534 con tre atti:
Un ulteriore "atto di supremazia" (il re era il Capo Supremo sulla Terra
della Chiesa di Inghilterra) con il diritto di reprimere le eresie e di
scomunicare;
L'obbligo per tutti gli inglesi di giurare solamente davanti al re, e non
davanti a qualche autorità straniera (sic!);
La condanna per tradimento per chi osasse dire che il re fosse eretico,
tiranno o scismatico.
La pressione sulla Chiesa cattolica inglese fu elevatissima: sotto il
coordinamento del Vicario Generale Thomas Cromwell, i monasteri furono
chiusi e i loro beni incamerati dalla corona e tutti i prelati dovettero
giurare di rispettare l'atto di supremazia, solo Tommaso Moro (Thomas More)
(1478-1535), il grande filosofo umanista erasminiano, autore dell'Utopia, ed
ex Lord Cancelliere, e John Fisher (1469-1535), vescovo di Rochester ed ex
confessore di Caterina d'Aragona, si opposero ed entrambi furono decapitati
per tradimento. Ambedue furono successivamente nominati santi dalla Chiesa
cattolica.
Ma la cosa più curiosa fu che, dal punto di vista dottrinale, almeno in
questa prima fase, Enrico VIII non aveva affatto rotto con il cattolicesimo:
in linea di massima, egli si mostrò un buon cattolico e solo dopo, durante
il breve regno del figlio Edoardo VI (1547-1553), si fecero largo con più
decisione elementi cari alla Riforma.
Ma ai tempi di Enrico VIII queste idee potevano costare care: se ne rese
conto anche Thomas Cromwell, che cercò di spingere la monarchia verso il
luteranesimo, facendo adottare i Dieci Articoli (The Ten Articles), articoli
di fede di chiara ispirazione luterana (sola fide e semplificazione a soli
tre Sacramenti) e, con le Ingiunzioni Reali del 1538, fece mettere una
Bibbia in latino ed una in inglese in ogni chiesa (sola scriptura!).
L'esperimento fallì e Cromwell, caduto in disgrazia, anche perché ritenuto
il responsabile del matrimonio, poi fallito, del re con Anna di Cleves, fu
condannato per tradimento e decapitato nel luglio 1540.
Nel 1537 Enrico ritornò con decisione ai dogmi cattolici, facendo redigere
il Bishop's book (il libro del vescovo), che conservava i sette sacramenti,
il culto della Vergine e dei santi e proibiva la lettura individuale della
Bibbia. Il libro fu poi rivisto in senso ancora più cattolico e ristampato
nel 1543 con il titolo di King's book (il libro del re).
Nel 1539 il parlamento inglese approvò i Sei Articoli (The Six Articles),
che confermarono, tra l'altro, la validità del dogma della
transustanziazione, l'Eucaristia sotto una sola specie, il celibato per i
prelati, le Messe private e la confessione.
Riprese quindi con vigore la persecuzione contro i protestanti: fu bruciato
sul rogo nel 1540 il luterano Robert Barnes; il traduttore William Tyndale,
il quale aveva pubblicato la prima Bibbia (Nuovo Testamento) in inglese nel
1535, fu denunciato all'inquisizione spagnola, che lo bruciò a Bruxelles nel
1536; la protestante Anne Askew fu processata e bruciata sul rogo nel 1546;
alti prelati di chiare simpatie riformiste, come i vescovi Hugh Latimer e
John Hooper, l'ex frate agostiniano Miles Coverdale, traduttore del primo
Antico Testamento in inglese, e lo stesso Thomas Cranmer, dovettero o
rifugiare all'estero o rivedere drasticamente le proprie idee o perlomeno
adottare un atteggiamento nicodemitico.
Insomma alla sua morte nel 1547, Enrico VIII lasciò sia i cattolici che i
protestanti inglesi del tutto insoddisfatti.


Edoardo VI (1547-1553)
Il nuovo re Edoardo VI, figlio di Jane Seymour (terza delle sei mogli di
Enrico), aveva solo nove anni, quando salì al trono d'Inghilterra e quindi
il potere effettivo era concentrato nelle mani del reggente e Lord
Protettore, suo zio Edward Seymour, duca di Somerset (1506-1552).
Somerset era un buon amico di Cranmer e un convinto assertore della Riforma,
che riprese vigore: Latimer poté nuovamente predicare, Hooper poté rientrare
dall'esilio, la chiese protestanti vennero addobbate secondo il loro credo,
cioè senza immagini, la Comunione veniva data sotto ambedue le forme e
Cranmer poté far rientrare la moglie.
Nel 1549 venne pubblicato il Book of Common Prayer (il libro delle
preghiere), compilato su richiesta di Cranmer per semplificare i libri di
preghiere e di funzioni religiose in latino e risalenti al periodo
medioevale. Il suo utilizzo obbligatorio venne prescritto dall'Atto di
Uniformità del 1549 stesso.
Però dal punto di vista dottrinale ne risultò un miscuglio di idee diverse
(cattoliche e luterane) e non soddisfaceva nessuno: quindi, nel 1552, fu
rivisto, tuttavia questa volta in un senso fortemente riformato di tipo
svizzero, con l'ausilio di Calvino in persona, che scrisse a Edoardo VI e al
conte di Somerset per aiutarli nella revisione.
Ma soprattutto grazie al nuovo Lord Protettore, John Dudley (1502-1553),
conte di Warwick e al vescovo di Londra Nicholas Ridley, diverse personalità
della Riforma svizzera zwingliano-calvinista furono chiamate in Inghilterra
e diedero il proprio contributo: Martin Bucero da Strasburgo, l'italiano
Pietro Martire Vermigli, professore ad Oxford, il polacco Jan Laski.
Anche nel caso di questa seconda versione, un apposito Atto di Uniformità
del 1552 ne prescrisse l'utilizzo con, in più, l'obbligo di partecipare alle
funzioni religiose e la condanna per imprigionamento per la partecipazione a
qualsiasi altra forma di riunione religiosa.
Infine nel 1553 vennero pubblicati i 42 Articoli (The forty-two articles),
la collezione delle formule dottrinali anglicane, rimaste sulla carta per la
morte del re.


Maria Tudor (1553-1558)
Infatti il 6 luglio 1553 Edoardo VI, a soli 15 anni, morì di tubercolosi, e
dopo l'infelice avventura di Lady Jane Grey (1537-1554), cugina di Edoardo e
regina per soli 9 giorni (poi decapitata nel 1554), salì al trono la
cattolica Maria Tudor, figlia di quella Caterina d'Aragona, il cui ripudio
aveva innestato lo scisma della Chiesa d'Inghilterra.
Inizialmente la regina impostò il suo regno sulla tolleranza religiosa, ma
nel contempo chiese ed ottenne, il 3 gennaio 1555, dal parlamento inglese il
ritorno all'obbedienza a Roma, ratificato dal cardinale inglese Reginald
Pole (1500-1558). Ironia della sorte, Pole, che per poco non diventò papa
nel 1549 (sarebbe bastato che avesse accettato l'elezione per adorationem),
fu perfino sospettato di eresia da parte del Papa Paolo IV (1555-1559) per
le sue idee moderatamente riformiste.
Sul piano personale, Maria aveva sposato nel 1554 suo cugino di secondo
grado, il figlio dell'imperatore Carlo V, Filippo di Spagna [il futuro
Filippo II (1556-1598)], undici anni più giovane di lei: fu una delle
decisioni più infelici del suo regno. Oltre all'impopolarità presso i suoi
sudditi, Maria soffrì il dramma personale perché non riuscì mai ad avere il
tanto aspettato erede.
Forse per l'influenza dei consiglieri cattolici spagnoli o a causa di
manifestazioni protestanti anti-monarchiche o per i consigli del Lord
Cancelliere, l'arcivescovo di York Stephen Gardiner (1483-1555), Maria si
trasformò ben presto in una delle più feroci persecutrici della Riforma in
Inghilterra, tale da meritarsi il soprannome di Maria la Sanguinaria: furono
imprigionati e successivamente bruciati sul rogo Cranmer, Ridley, Latimer e
Hooper. Ridley e Latimer furono addirittura arsi sulla stessa pira.
Ma il boia non si fermò qui: in tutto tra 273 e 288 (a secondo delle fonti)
protestanti furono arsi sul rogo, più di 800 fuggirono (come Coverdale) in
Germania e Svizzera e 2.000 preti furono espulsi perché sposati.
Maria morì il 17 novembre 1558. Qualche ora più tardi morì il cardinale
Pole, il fautore del momentaneo riavvicinamento dell'Inghilterra alla Chiesa
cattolica.


Elisabetta I (1558-1603)
Nel 1558 salì sul trono d'Inghilterra Elisabetta,figlia di Anna Bolena: essa
fu la vera fondatrice della Chiesa Anglicana, una sintesi dottrinale tra
liturgia cattolica e dogmatismo calvinista. Il suo regno non incominciò
certo nella migliore maniera: i cattolici la consideravano un'usurpatrice e
l'arcivescovo di Canterbury, Nicholas Heath (m. 1578), si rifiutò perfino di
incoronarla.
Tuttavia Elisabetta fu soprattutto una abile donna politica e dissimulò con
cura il suo credo religioso: non si dichiarò ufficialmente protestante per
non dare lo spunto ad una possibile grande alleanza tra Spagna, Francia e
Scozia, ma d'altronde adottò il protestantesimo, senza usare i toni accesi
dei predecessori.
I suoi primi passi furono improntati sulla diplomazia e compromesso: non si
fece più chiamare, come il padre Enrico VIII, capo supremo della Chiesa
d'Inghilterra, bensì più modestamente Governatore Supremo, pur negando
l'autorità giuridica del papa. Nel frattempo rese obbligatorio nel 1559, con
un ennesimo Atto di Uniformità, il Prayer Book, nella seconda versione di
Edoardo VI, tuttavia rivisto in senso cattolico.
Eppure la rivolta degli alti prelati cattolici era stata quasi totale: 15
vescovi, 12 decani, 15 direttori di collegi religiosi e circa 200/300 preti
rassegnarono le dimissioni o furono privati del titolo. Nel 1559 fu eletto
il nuovo arcivescovo di Canterbury, Matthew Parker, un uomo moderato e
conciliante, che aveva sofferto sotto Maria Tudor, ideale per Elisabetta in
quella posizione, ma per la sua investitura si dovettero scomodare quattro
ex prelati che erano stati vescovi nel periodo di Edoardo VI, stante la
situazione sopra descritta.
I 42 articoli di Edoardo VI (1553) (le formule dottrinali anglicane)
diventarono nel 1571, sotto Elisabetta I, i 39 articoli, compromesso
fortemente voluto da Parker, tra elementi cattolici, luterani e calvinisti.
L'altro grande teologo del regno elisabettiano fu Richard Hooker
(1554-1600), spiritualista e apologista, che scrisse il ponderoso Treatise
on the laws of ecclesiastical polity (trattato sulle leggi del governo
ecclesiastico) a difesa della scelta episcopale nella struttura della Chiesa
d'Inghilterra.
La reazione di Roma fu lenta: solo nel 1570 il Papa Pio V (1566-1572) si
decise a scomunicare Elisabetta e a sciogliere gli inglesi dal dovere di
obbedienza: errore gravissimo in un paese che non aveva certo bisogno di
alimentare il fuoco della polemica anti-papale.
Nel 1587, sotto la minaccia dell'invasione spagnola e in seguito
all'ennesima congiura per far cadere la regina e sostituirla con Maria
Stuarda (1542-1587), Elisabetta fece decapitare l'ex regina di Scozia,
fuggita in Inghilterra nel 1568, dove venne detenuta in cattività fino alla
sua esecuzione. La mossa aveva il preciso scopo politico di togliere di
mezzo una possibile protagonista (fra l'altro diretto successore in linea
gerarchica di Elisabetta) che potesse catalizzare le proteste dei cattolici
inglesi.
La reazione dei spagnoli avvenne l'anno dopo, 1588, ma la disfatta della
loro flotta di invasione, la famosa Invincible Armada (Invincibile Armata),
mise l'Inghilterra al sicuro da ingerenze esterne.
Rimasero comunque i conflitti interni: ovviamente una politica di
compromesso non poteva certo piacere agli opposti estremi. Soprattutto gli
estremisti protestanti, i Puritani, benché rintuzzati spesso da Hooker, dal
1570 in avanti attaccarono le apparenze esteriori (paramenti sfarzosi, l'uso
dei vescovi ecc.), secondo loro un retaggio papista, rendendo amari gli
ultimi anni per l'anziana regina, che si spense nel 1603.


Durand de Huesca (Durando d'Osca) (inizio XIII secolo) e Poveri Cattolici



Nel XIII secolo un personaggio di spicco del valdismo spagnolo fu Durand de
Huesca, un chierico e teologo di origine spagnola (secondo altri, invece,
proveniente dal sud della Francia), coerentemente impegnato nel fustigare i
costumi dei prelati corrotti ed indegni, cercando però, nel frattempo, di
non cadere nell'accusa di essere simpatizzante dei boni homini o boni
christiani , come si denominavano i catari. Anzi contro questi ultimi D.
prese le distanze, scrivendo il Liber contra Manicheos.
Tuttavia in Spagna erano tempi duri anche per i valdesi, che erano stati
perseguitati per ordine del re Alfonso II di Aragona, detto il Casto
(1152-1196).
Nel 1204, D. fu sollecitato a riconciliarsi con la Chiesa Cattolica, durante
una disputa teologica a Pamiers, dal vescovo di Osma, Diego, che, poco dopo,
sarebbe partito per una missione di evangelizzazione tra i catari della
Francia Meridionale con il suo assistente, Domenico di Guzman (1170-1221),
il futuro santo e fondatore dell'ordine dei domenicani.
D. accettò la riconciliazione e ne approfittò per far accettare nel 1208 il
suo movimento dei Poveri Cattolici, da parte di Papa Innocenzo III
(1198-1216). Lo scopo del movimento era di favorire il rientro nel
Cattolicesimo dei valdesi desiderosi di essere riaccolti dall'ortodossia,
ma, a parte alcuni successi parziali, come quello dell'adesione di quei
valdesi lombardi, che seguivano Bernardo Primo (fondatore nel 1210
dell'ordine dei Poveri Riconciliati), la strategia di D. andò
sostanzialmente fallita.
Per questo insuccesso e per atteggiamenti, secondo i cattolici, ancora poco
ortodossi, D. fu richiamato all'ordine in una lettera scrittagli
direttamente da Papa Innocenzo III nel 1209.




Du Vergier de Hauranne, Jean (1581-1643)



Se Cornelius Jansen fu l'ideatore del pensiero giansenista, certamente Jean
Du Vergier de Hauranne ne fu il principale diffusore.
Nato a Bayonne nel 1581 da una famiglia benestante, D. studiò ad Agen, alla
scuola dei gesuiti, e poi si iscrisse alla facoltà di teologia
all'università di Lovanio, in Belgio, dove conobbe e diventò amico di
Cornelius Jansen. Dopo la laurea e l'ordinazione a prete, D. si stabilì a
Parigi, dove la sua profonda cultura venne apprezzata e impiegata per
dirimere complesse e delicate questioni politiche, poste anche dalla stessa
famiglia reale francese.
A Parigi si stabilì anche Jansen per studiare greco antico: nel 1606 i due
amici si trasferirono presso la casa natale di D. a Bayonne, dove egli
diventò canonico della locale cattedrale, mentre, nel contempo, Jansen
divenne insegnante nel collegio annesso alla cattedrale. Per circa 12 anni
D. e Jansen studiarono approfonditamente gli scritti dei Padri della Chiesa,
e in particolare di Sant'Agostino (354-430).
Nel 1617 Jansen ritornò a Lovanio per occuparsi del collegio di Santa
Pulcheria, mentre D. divenne il segretario particolare del vescovo di
Poitiers, dal quale, nel 1620, ricevette il titolo di abate di Saint-Cyran
in commendam (la commenda consisteva nei proventi di un'abbazia dati ad un
ecclesiastico assegnatario senza che questi avesse l'obbligo di
risiedervi). Nello stesso periodo, D. conobbe il giovane e sconosciuto
vescovo di Lucon, ma che sarebbe poi diventato l'arcinoto cardinale Armand
Jean Richelieu (1585-1642) e suo futuro avversario.
In seguito D. lasciò Poitiers per recarsi a Parigi, dove diventò un amico
intimo della famiglia Arnauld e dove, assieme al ritrovato Jansen, iniziò a
propagandare le loro idee. Per fare ciò, i due scrissero due importanti
testi: Jansen il ben noto Augustinus, pubblicato solo nel 1640 dopo la morte
dell'autore, mentre D. scrisse (sembra insieme ad un suo nipote) il Petrus
Aurelius de hierarchia ecclesiastica, pubblicato nel 1633, ed accusato
immediatamente di calvinismo da parte dei gesuiti.
Nel 1633 D. fu nominato confessore del convento cistercense di Port-Royal,
del quale egli aveva già portato nel 1623 verso posizioni gianseniste l'ex
badessa Jacqueline Arnauld, (nome da religiosa: Madre Marie Angélique). Il
convento sarebbe poi diventato il baluardo del giansenismo e, durante il suo
mandato, D. si occupò, come padre spirituale, dei "solitari" (studiosi o
filosofi contemplativi che vivevano presso il convento).
Purtroppo lo zelo dimostrato nelle sue prediche a favore della santità
dell'officio sacerdotale gli attirarono l'odio e l'invidia di molti preti, i
quali se ne lamentarono con Richelieu. Il potente cardinale dapprima cercò
di ammansire l'irruente confessore di Port-Royal con un'offerta di un
vescovato, ma in seguito, nel 1638, con l'accusa di disturbare la quiete
ecclesiastica, lo fece arrestare e rinchiudere nelle segrete del castello di
Vincennes, dal quale egli poté uscire solo dopo la morte di Richelieu nel
dicembre 1642.
La dura prigionia, tuttavia, aveva minato il suo fisico e D. morì per un
colpo apoplettico l'11 ottobre 1643.