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Dopo le pillole sulle Risorse Idriche presentiamo quelle sulla mineralogia,
curate dalla dott.ssa Rosa Maria Di Maggio.
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21.3.2005 - GEOLOGIA E POLITICA
In occasione delle elezioni amministrative del 3 e 4 aprile 2005 la Sezione
Giovani della Società Geologica Italiana ha organizzato per il giorno 25
marzo alle ore 20,45 a Pavia un confronto pubblico con i candidati sindaco
sul tema "Politiche territoriali ed ambientali per la città di Pavia
18.3.2005 - SPECIALE GEOTURISMO
La nostra sezione sui GEOSITI si arricchisce di 5 bellissimi itinerari
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Terra. Inserisci il tuo indirizzo e-mail, è gratis. Storia della scienza
a cura di Alba Gainotti Perché la Storia della scienza? Perché contribuisce
a umanizzare la scienza che non viene vista solo come un asettico prodotto
del pensiero ma che diventa anche un'impresa di persone. Si può così
"raccontare la scienza" e mobilitare con la narrazione quei processi di
identificazione e di partecipazione emotiva che hanno un ruolo nell'apprendimento.
Provate per esempio a iniziare a parlare dei batteri a partire dal problema
della febbre da parto o della ricerca di Pasteur degli agenti infettivi dei
foruncoli. Perché consente di fare riferimento al "metodo" scientifico senza
fare entrare in gioco la complessa strumentazione che viene in genere oggi
utilizzata nei nostri laboratori di ricerca. Gli esperimenti di Spallanzani
sulla generazione spontanea possono essere "simulati" nei nostri laboratori.
La trasformazione dei viventi di Brunella Danesi
L'idea che gli esseri viventi siano in continua trasformazione è
un'acquisizione relativamente recente nella storia dell'uomo. Attorno a
questa idea è nata la teoria dell'Evoluzione, uno dei nostri più
affascinanti strumenti di interpretazione del mondo...
La cosmologia diventa scienza sperimentale diBarbara Scapellato
Quando ci guardiamo intorno, la complessità del mondo ci disorienta e ci
affascina. [...] I popoli antichi hanno risposto a queste domande con
racconti fantastici che spiegassero l'ordine che appariva nell'Universo...
Vita di Amedeo Avogadro diLuigi D'Amico
Il 24 settembre del 1911, a Torino, ebbe luogo la cerimonia di
commemorazione solenne del chimico torinese Amedeo Avogadro nel centenario
della formulazione della sua ipotesi sullo stato molecolare degli elementi
gassosi...
Vita di Camillo Golgi
Istologo di grande ingegno, premio Nobel per la Medicina nel 1906, Camillo
Golgi era nato a Còrteno, un piccolo paese in provincia di Brescia situata
in Valcamonica famosa per le sue iscrizioni rupestri (arte camuna)...
Le idee della Geologia tra '700 e '900
La geologia di oggi non è più essenzialmente esplicativa; da poco più di due
decenni essa è entrata nel novero delle scienze predittive, è a tutti gli
effetti una moderna scienza sperimentale...
Storia della Biochimica
Qual è stato il percorso della Chimica fino alle soglie degli eventi
moderni? In che modo si è intersecato il suo cammino con quello della
Biologia?
Storia dell'Evoluzione 2.0 di Brunella Danesi
L'evoluzione, o meglio la trasformazione, è la molla che ha determinato e
determina tutte le forme di vita presenti sul nostro pianeta...
Storia della geologia di Luciana Campanaro
Studiando la vita e le opere dei geologi del passato emergono dei concetti
strutturanti che si snodano nel tempo fino a costruire i pilastri della
moderna geologia...
Storia della genetica di Brunella Danesi
1836 Schleiden incentra la sua attenzione sulle pareti cellulari e sul
nucleo; per lui il protoplasma è materia non formata dalla quale si
originerebbero le cellule
LE ORIGINI DELLA BIOCHIMICA E DELLA BIOLOGIA MOLECOLARE
BREVI NOTE STORICHE
Questo corso rappresenta da un certo punto di vista il contributo più
importante del curricolo di Scienze Naturali del Liceo Dini alla storia del
Novecento, considerata la giovane età delle due scienze richiamate nel
titolo. Ovviamente non è possibile partire da troppo lontano. Un buon punto
di avvio può essere quello di arrivo del nostro discorso in campo genetico e
in campo chimico.
Nel XX° secolo le branche più rivoluzionarie della biologia sono state la
Genetica, la Teoria dell'evoluzione, La Biochimica e la Biologia molecolare.
In particolare è ormai un luogo comune che la prima metà del '900 sia stata
segnata dai rivoluzionari progressi delle scienze fisiche, mentre la seconda
metà sia stata dominata dagli sviluppi della biologia. E' appena il caso di
ricordare che le rivoluzioni sono preannunciate da eventi e processi che le
precedono e in parte le preparano.
Qual è stato il percorso della Chimica fino alle soglie degli eventi che ci
interessano?
In che modo si è intersecato il suo cammino con quello della Biologia?
Partiamo per comodità da alcune considerazioni sulla Chimica Organica,
facendo cronologicamente un passo indietro.
La Chimica Organica alla metà dell'800
Questa scienza delimita sempre meglio il suo campo d'azione nel corso della
seconda metà dell'800. Fino allora i chimici si erano limitati ad isolare,
analizzare e trasformare i vari composti traendoli dalla enorme varietà
esistente in natura. Il problema cruciale era rappresentato dalla incapacità
di sintetizzarli. Per spiegare la sicurezza e la precisione con cui i vari
"pezzi" delle diverse molecole organiche venivano spostati e ricombinati all'interno
delle cellule, si era indotti a postulare l'esistenza di una forza vitale
perché le conoscenze acquisite erano insufficienti a riprodurre in
laboratorio le stesse imprese dei viventi.
Nella seconda metà del secolo:
· si scopre che le sostanze
che fluiscono attraverso gli organismi si trasformano grazie a un flusso di
energia associato alla materia che la termodinamica riesce a calcolare;
· il controllo della
reattività chimica viene fondato su crescenti conoscenze relative alla
tetravalenza del carbonio e alle caratteristiche dei gruppi funzionali;
· infine la chimica svela le
funzioni dei microrganismi, eliminando gli ultimi residui della generazione
spontanea.
I LAVORI DI LOUIS PASTEUR (1822-1895) E DEI FRATELLI BUCHNER
Ancora alla metà dell'800 l'idea dominante intorno all'origine delle
fermentazioni era quella sostenuta dal chimico tedesco J. von Liebig che
riteneva la fermentazione un fenomeno puramente chimico.
Nel suo Mémoire sur la fermentation appellée
lactique Pasteur sostiene invece che "la fermentazione si mostra correlata
alla vita".
Nella fermentazione alcolica in particolare egli notò la presenza di globuli
il cui comportamento era quello di esseri viventi microscopici. Egli scopre
che laddove vi è fermentazione compaiono composti otticamente attivi,
esistenti in speciali forme isomere che costituiscono l'immagine speculare l'una
dell'altra. Pasteur ritiene che soltanto i viventi sono in grado di
introdurre un'asimmetria in alcune delle loro molecole. Poiché questi studi
mirano in partenza -su commissione dei produttori di vino francesi- a
ricercare le cause delle "malattie" della fermentazione, Pasteur arriva a
scoprire anche che certe "deviazioni" dalla fermentazione normale sono
riconducibili alla presenza di particolari microrganismi estranei. Giunto a
questo punto egli fu naturalmente portato a chiedersi quale fosse l'origine
di questi esseri microscopici, capaci di indurre importanti fenomeni di
trasformazione delle sostanze fermentescibili. Fu così che si trovò ad
affrontare lo studio della "generazione spontanea", antica teoria
esplicativa dell'origine della vita risalente almeno ad Aristotele. Nel
XVIIo secolo tale teoria fu dimostrata falsa da Francesco Redi per quello
che riguarda l'origine di mosche e insetti di vario tipo, ma rimase ben viva
soprattutto con riferimento al mondo dei microrganismi. Gli studi di
Pasteur, condotti nell'ambito di una memorabile contesa scientifica con
Félix Pouchet, gli consentirono di aggiudicarsi nel 1861 il premio che l'Accademia
delle scienze francese aveva offerto a chi "con ben condotti esperimenti
avesse gettato nuova luce sulla questione delle generazioni spontanee".
In conclusione si può così riassumere il contributo di Pasteur:
· infligge un colpo
definitivo alla concezione della generazione spontanea;
· attribuisce funzioni
precise alla invisibile realtà dei microrganismi, scoperti nel '600, ma
rimasti da allora ignorati e "senza scopo";
· fonda il principio di
specificità, a due livelli: ogni microrganismo è definito dalle specifiche
reazioni cui può sottoporre materiali prelevati dall'ambiente /ogni malattia
è specificamente determinata da un agente microbico (questi concetti danno
un forte impulso alla ricerca biomedica);
· chiarisce che le attività
dei microrganismi sono descrivibili in generale mediante classiche equazioni
chimiche e pertanto si modifica il legame tra la chimica e la biologia.
Tuttavia si rianima il Vitalismo perché Pasteur ritiene di aver fornito le
prove che l'attività fermentativa e l'introduzione di un'asimmetria nelle
molecole, per quanto descrivibili con i mezzi e il linguaggio della chimica,
restino indissolubilmente legate alla presenza di organismi vivi e delle
loro strutture organizzate.
Agli inizi del '900 però, i fratelli Buchner riescono a riprodurre le stesse
attività fermentative in assenza di organismi vivi, ma in presenza dei loro
estratti cellulari (tale pratica non sarà mai più abbandonata da allora).
Questo risultato assesta un colpo importante all'approccio vitalista e
contemporaneamente mette a disposizione dei ricercatori il metodo degli
estratti cellulari, capace di incentivare fortemente l'analisi del contenuto
cellulare nei diversi momenti della vita delle cellule.
Comincia così ad assumere i suoi lineamenti la Biochimica, interessata a
identificare i componenti chimici anche a livello delle strutture cellulari,
a individuare reagenti, intermedi e prodotti delle reazioni, gli scambi
energetici, la velocità e i meccanismi delle reazioni, nonché i sofisticati
sistemi adoperati dalle cellule per regolarle.
La nuova scienza, nata all'interno della fisiologia, se ne rende sempre più
autonoma col passare dei primi decenni del '900, e finisce per assumere una
posizione centrale rispetto a numerose e fondamentali discipline biologiche
come la Fisiologia animale e vegetale, la Patologia, l'Etologia e l'Ecologia,
ecc..
La sua logica e il suo metodo di lavoro sono dichiaratamente RIDUZIONISTI: i
sistemi complessi che essa studia sono decomposti in componenti sempre più
semplici fino a giungere al livello organizzativo atomico-molecolare. La
Biochimica ha interesse non solo a disegnare un'"anatomia" molecolare del
vivente, ma anche una fisiologia, ovvero una mappa delle relazioni
funzionali e dinamiche che legano tra loro le strutture molecolari.
Essa s'impegna a decifrare le centinaia di reazioni chimiche a tappe che
avvengono in ogni cellula, prima distruggendo l'unità di quest'ultima e poi
ricostruendola a ritroso, anche grazie al confronto fra le reazioni in vitro
e il comportamento degli organismi integri. Questa mappa costituirà la trama
del METABOLISMO.
Fondamentale apparirà allora -fra gli altri- il contributo fornito dalla
biochimica alla consapevolezza di una sostanziale unità del mondo vivente,
al di là della sua straordinaria varietà di forme e di stili di vita, dato
che le vie e gli snodi essenziali del labirinto metabolico appaiono identici
in tutti gli organismi viventi.
La chimica unitaria conferma, al livello organizzativo proprio della sua
descrizione, la comune origine del mondo vivente.
Un altro concetto nuovo e importantissimo messo in luce dalla biochimica è
la straordinaria precisione e specificità della chimica cellulare, rese
possibili dalla mediazione degli enzimi. Da qui l'esigenza di
caratterizzarne sempre meglio la natura che, tra l'altro, viene associata
definitivamente, dopo molte incertezze, alla classe delle proteine. Enzimi e
proteine porranno allora alla giovane biochimica altri problemi, sul piano
del metodo di indagine, delle tecnologie, ma anche degli strumenti
concettuali.
Prima di accennare a questo passaggio, conviene fare un passo indietro e
accennare brevemente il percorso storico della Biologia a partire dal punto
in cui l'avevamo lasciata con la genetica mendeliana.
Il termine ultimo dell'analisi genetica è il GENE, ma la genetica classica
appartiene a quel campo della biologia che studia l'organismo nel suo
insieme e le popolazioni. Essa applica agli organismi il metodo della
scatola nera: non li dissocia in parti più semplici (anche se la logica
riduzionista si manifesta chiaramente nella tendenza a trattare l'organismo
come una "collezione" di caratteri in qualche misura atomizzati).
Com'è immaginato l'organismo? Nella sua profondità i geni sono allineati nei
cromosomi come tante perline di una collana; sulla "superficie" della
scatola nera si manifestano i "terminali" di ogni singolo gene: i caratteri;
i cromosomi si muovono con movimenti semplici; tutti i mutamenti ereditabili
riscontrati a livello dei caratteri in superficie rinviano a cambiamenti
nella natura e/o disposizione delle perle della collana; l'eredità è
governata dalle leggi del caso esprimibili matematicamente.
Che cosa resta di oscuro?
· la natura dell'unità
ereditabile;
· il meccanismo, paurosamente
complesso, che sta fra il gene e il carattere espresso.
Fino a tutta la prima metà del '900 il gene assume le caratteristiche di un
ente sempre più astratto, quasi di un oggetto puramente razionale. Il
compito dei genetisti, verso la metà di questo secolo, è quello di
restituire corporeità a questi enti e ai meccanismi con cui essi agiscono.
Per compiere questo salto però, il metodo classico -osservazione dei
caratteri e del loro riassortimento attraverso le generazioni, misura delle
frequenze della variazione e costruzione delle mappe cromosomiche di
associazione- non è più sufficiente.
Diventa essenziale una collaborazione con la chimica.
Il dialogo fra queste due discipline si infittisce dunque al culmine di
percorsi quasi sempre separati, ma che, alla metà del '900, convergono nello
sforzo di fare luce sulla logica molecolare del vivente ai due livelli che
concretamente la storia ha posto in primo piano: il funzionamento del
metabolismo e la natura della eredità.
Questi livelli, inizialmente separati, mostreranno col procedere della
ricerca i fitti intrecci che li connettono dentro il confine unitario dell'organismo
vivente: presto, per esempio, si parlerà di errori genetici del metabolismo
come pure di metabolismo del DNA.
Da entrambi i versanti la giovane biochimica si scontra con l'inadeguatezza
dei suoi metodi tradizionali: come già si è accennato, l'indagine porta ben
presto a evidenziare il ruolo essenziale degli enzimi e delle proteine in
genere, e quindi a misurarsi con la inedita complessità che caratterizza
queste macromolecole. In particolare è l'analisi della complessa
architettura di tali oggetti ad esigere l'apporto di nuove tecniche, ma
anche di nuovi concetti. Questi saranno disponibili alla metà del '900
grazie al contributo congiunto della Fisica, della Chimica dei Polimeri,
della Teoria della Informazione.
Per costituirsi in scienza autonoma, la Biologia aveva dovuto separarsi
radicalmente dalla fisica e dalla chimica. A metà di questo secolo, per fare
avanzare l'indagine sulla struttura e sul funzionamento dei viventi, essa
torna dunque a riassociarsi a quelle più antiche scienze. Da questa "unione"
nascerà la Biologia Molecolare.
Il nano e i giganti: le idee della
geologia tra il '700 e il '900
Un difficile cammino tra scienza e filosofia, tra biologia e fisica
Premessa
Il geologo classico è un essere eminentemente pratico. Il suo interesse
principale risiede nella puntiforme osservazione delle rocce, il suo metodo
è sostanzial-mente analitico-descrittivo, il suo obbiettivo la ricer-ca per
via induttiva di possibili esplicazioni. Questa immagine del geologo come
pratico indagato-re della natura delle rocce, più portato alla esperienza
sul campo che all'astratta riflessione teorica, si era già consolidata fin
dal '700, se il mineralista e geologo francese Dolomieu (proprio quello cui
si deve il nome delle nostre Dolomiti) poteva scrivere nel 1794: "Un
Géologue est essentiellement un lithoclaste, ou rom-peur de pierre, et à
peine résiste-t-il au plaisir d'ecor-ner les monuments des arts pour mieux
determiner la nature des substances dont ils sont faits". Ma è tutto questo
ancora vero? Come vedremo, da pochi anni, alla fine di un percorso culturale
difficile e talora contorto, una vera e propria rivoluzione scientifica ha
profondamente modificato l'atteggia-mento delle Scienze della Terra. É stata
una rottura drastica, un vero e proprio rapidissimo capovolgi-mento delle
basi metodologiche e delle prospettive cognitive. La geologia di oggi non è
più essenzialmen-te esplicativa; da poco più di due decenni essa è entrata
nel novero delle scienze predittive, è a tutti gli effetti una moderna
scienza sperimentale. É accaduto da così poco tempo e così in fretta, che
molti degli stessi geologi hanno spesso durato fatica a cogliere la portata
del cambiamento. Le persone e le intere comunità scientifiche portano con sé
un baga-glio storico di idee che è difficile da modificare in poco tempo. La
stessa terminologia in uso non cambia subito: e vecchi termini nascondono
spesso vecchie idee, se non vecchi pregiudizi. Osservava Max Plank (1949):
"Una verità scientifica nuova non trionfa convincendo i suoi oppositori e
rivelando loro la luce, ma piuttosto perché a un certo punto gli oppositori
muoiono e cresce una nuova generazione che ha familiarità con essa". L'enorme
bagaglio di cognizioni accumulate dalla geologia classica non deve però
essere disperso. Per salvarlo, va ricollocato in una prospettiva storica,
nei diversi contesti culturali ove si è andato formando.
La stratigrafia: una esigenza pratica di classificazione
Come molte branche della scienza, anche la stratigrafia è nata da necessità
pratiche, soprattutto legate allo sviluppo dell'attività mineraria. Non fa
dunque meraviglia che i fondamenti della stratigrafia siano stati posti da
uomini come Johann Gottlob Lehmann (1719-1767), mineralista e inge-gnere
minerario tedesco, che nel 1756 pubblicò una classificazione delle rocce
della crosta terrestre: Urgebirge (montagne primitive), rocce di origine
chimica, cristalline, anteriori all'avvento della vita e prive di fossili);
Flötzgebirge (montagne stratificate), rocce fossilife-re, stratificate,
formate da particelle erose dalle pre-cedenti); Aufgeschwemnte Gebirge
(montagne di trasporto, alluvionali), rocce superficiali, poco cementate,
re-centi). L'influsso della classificazione di Lehmann fu gran-dissimo.
Anche perché, come spesso accade alle opere che si collocano tra quelle che
hanno posto storica-mente i fondamenti di una scienza, l'opera di Leh-mann
coglie i frutti di un intensissimo dibattito, centrato soprattutto sulla
natura dei fossili e sull'ori-gine delle montagne e dei continenti,
dibattito che aveva coinvolto scienziati, filosofi e uomini di chiesa già da
almeno un secolo. Basti pensare all'abate veneziano Anton Lazzaro Moro che
fin dal 1740 aveva proposto la divisione tra Monti primari (com-posti "di
gran massi di pietre") e Monti secondari (composti "strati sopra strati, di
una o di varie sorte di materia"). Certo la classificazione di Lehmann si
colloca in un contesto diverso ("plutonista" il Moro e "nettunista"
Lehmann), è meno "filosofica" ed è più organicamen-te legata ad ipotesi
operative. Tant'è vero che una analoga classificazione delle rocce in
Primitive, Se-condarie e Terziarie fu ben presto (1759) introdotta in Italia
proprio da un altro "tecnico", Giovanni Ardui-no (1714-1795), dapprima
"metallurgo" e "mineri-sta" in Tirolo, poi Soprastante alle Miniere di
Schio, quindi consulente minerario e scienziato di fama internazionale.
Tuttavia, sarebbe riduttivo il considerare queste classificazioni come meri
"strumenti" tecnico-operativi. Esse hanno a comune il fatto di ordinare le
rocce in base a criteri genetico-temporali piuttosto che pura-mente
composizionali. La qual cosa è, del resto, evidente nella terminologia di
Arduino (rocce Prima-rie, Secondarie, Terziarie), terminologia che, tra
pa-rentesi, solo recentissimamente ha cominciato a scom-parire dalla
letteratura geologica, anche se l'analogo "Quaternario" sussiste
incorruttibilmente. Proprio i criteri genetico-temporali collocano le
clas-sificazioni di Moro, di Lehmann, di Arduino nel pieno di quel dibattito
eminentemente filosofico (o filosofi-co- religioso) nel quale il problema
del tempo aveva il posto centrale.
Il tempo geologico: un problema scientifico e filosofico
Uno dei problemi più grossi cui si trovavano di fronte i primi stratigrafi
del '700, insieme certamente a coloro che si sforzavano di ricostruire la
storia della vita sulla Terra, era il problema del "tempo geologi-co".
Quanto era vecchia la Terra? Quanto tempo avevano a disposizione il geologo
e il paleontologo per collocarvi fenomeni che la semplice osservazione
dimostrava lentissimi? Ancora intorno al 1650 si calcolava l'età della Terra
attraverso il computo delle generazioni successive e degli avvenimenti
registrati nella Bibbia. L'arcive-scovo di Armagh, James Ussher, poneva così
l'origi-ne del mondo nell'anno 4004 a. C. E questo calcolo non va preso alla
leggera. L'arcivescovo Ussher era persona coltissima ed il calcolo aveva
implicato lo studio comparato degli antichi calendari, cui aveva collaborato
lo stesso Isaac Newton. Si cercava di quantizzare quella che avrebbe dovuto
essere l'età della Terra, secondo la visione cosmogonica più diffusa, ed era
certamente un buon punto di partenza. Tuttavia molti dubbi cominciavano a
sorgere. La figura più geniale del '600, in questo campo, è probabilmente
quella di John Ray (1627-1707), un sacerdote naturalista inglese,
osservatore attentissi-mo della natura e capace di lucida e sofferta
riflessio-ne filosofica. Coloro che vennero dopo di lui, da Linneo a White,
fino a Lyell e Darwin, debbono molto al suo pensiero, e glielo riconobbero
tutti. La motivazione centrale di Ray è certamente il tenta-tivo,
sollecitato anche dalla Chiesa, di ricercare nel-l'" ordine meraviglioso
della Natura" la testimonian-za della Creazione divina. A questo proposito,
possiamo fare una riflessione: paradossalmente, si può dire che tutta la
ricerca scientifica moderna ha la sua origine in un convinci-mento
assolutamente irrazionale. Alla base dell'at-teggiamento dell'uomo moderno
(o, per meglio dire, dell'uomo dell'occidente cristiano), così come si
an-dava configurando tra '500 e '600, vi era infatti "il semplice atto di
fede che l'Universo possedesse un ordine e potesse essere interpretato da
menti raziona-li" (Withehead, 1948). "E' certo uno fra i paradossi più
curiosi della storia che la scienza, che sul piano professionale ha ben poco
a che fare con la fede, debba le sue origini all'atto di fede che l'universo
possa essere interpretato razionalmente e che la scien-za oggi sia sostenuta
da tale assunto" (Eisely, 1958). John Ray, dunque, osservando nel 1663 una
foresta quaternaria sepolta che tornava alla luce dopo esser stata sommersa
dal mare, scriveva che: "in tempi antichi il fondo del mare era stato più
profondo e che uno spessore di cento piedi di terra era stato formato dai
sedimenti di quei grandi fiumi che si gettavano là in mare..." "É una cosa
strana, considerando la giovinezza del mondo, la cui età, secondo il computo
usuale, non supera i 15.600 anni". E, considerando anche la formazione delle
montagne: "...o il mondo è molto più antico di quanto si imma-gina, dal
momento che tali mutamenti richiedono uno spazio di tempo incredibile...
oppure, nei tempi primi-tivi, la creazione della terra si accompagnò a
scosse e mutamenti della sua parte superficiale molto più numerosi di quelli
intervenuti in seguito". Uniformismo e catastrofismo: nel brano sopra
ripor-tato sono lucidamente anticipate le idee di due correnti
scientifico-filosofiche che dominarono la geologia tra il '700 e la prima
parte dell'800, e delle quali restano ancora oggi tracce, quantomeno nella
terminologia geologica. Ma nel pensiero di John Ray c'è una ancora più
profonda consapevolezza. Il sospetto di una grande antichità della Terra
aveva risvolti sconvolgenti: ammettere l'estrema antichità di talune rocce
implica-va quella dei fossili in esse contenute. Tanto più se questi non
avevano corrispondenze con gli esseri viventi e sembravano quindi
appartenere a creature totalmente estinte. Così che Ray arrivava a dire, nel
1695: " Ma d'altra parte si arriva ad una serie di conclusioni che sembrano
scuotere la Scrittura: la storia della giovinezza del mondo; quanto meno,
esse rovesciano l'opinione comunemente accettata, e non senza buone ragioni,
fra i teologi e i filosofi, che dopo la prima creazione non sono andate
perdute specie di animali o di vegetali, né che ne siano state create di
nuove". L'onesto reverendo Ray, sgomento, vede ora vacilla-re la teoria -
quasi un dogma - del plenum, che aveva guidato per secoli l'atteggiamento
dei cristiani verso la natura: ogni cosa creata ab initio da Dio al suo
posto, a riempire tutti gli spazi possibili della Crea-zione, in un insieme
ordinato e immutabile, che dagli esseri inanimati alle forme inferiori di
vita, su su fino all'Uomo costituiva una lunga catena, una scala continua
tendente verso l'alto. In cima alla scala, l'Uomo, partecipante sia della
natura materiale degli esseri inferiori che di quella spirituale degli
Esseri celesti, testimoniava dell'anelito di tutta la Creazione verso il suo
Creatore. Ancora nel 1635, nella sua "Religio Medici", Sir Thomas Browne
scriveva: "In questo Universo c'è una scala che non sale in modo disordinato
e confuso ma con metodo e proporzioni convenienti". C'è voluto però quasi un
secolo, dai tempi del reveren-do Ray, affinché ai suoi sofferti dubbi si
cominciasse a dare una risposta organica, all'interno di quella vera e
propria rivoluzione scientifica che culminerà con l'opera di Leyell e di
Darwin. Osserva Eiseley (1961): " E' un fatto curioso e interessante che il
rigido ordine gerarchico che aveva dominato la biologia comincias-se a venir
meno quasi contemporaneamente alla scom-parsa della scala sociale feudale
nelle tempeste della rivoluzione francese".
I fossili: la chiave della macchina del tempo
Nella seconda metà del '700 le scoperte paleontologi-che avevano ormai
provato che esseri vissuti in passato erano scomparsi. L'immagine di un
mondo immutabile e relativamente giovane era stata ormai definitivamente
compromessa. Le collezioni naturalistiche di prìncipi e signori si
arricchivano di fossili; le scoperte di animali "pre-adamitici"
appassionavano chiunque avesse un mini-mo di cultura; ed anche nei salotti
borghesi si seguiva con attenzione il dibattito filosofico che ne scaturiva.
Ovunque gli appassionati divenivano cercatori e col-lezionisti. Particolare
sensazione destò, nell'anno 1770, il ritro-vamento di una enorma mandibola
di un "mostro pre-adamitico" (in realtà un Mosasauro), avvenuto a
Maastricht, in Olanda, in una cava di gesso a 450 m di profondità. Questo
fossile ebbe storia avventurosa. Fu scavato dal Dr. Hoffmann, un medico
militare tedesco in pensione, collezionista e Corrispondente del Museo
Teyler di Haarlem. Per studiarlo, Hoff-mann ricorse all'aiuto dell'anatomista
olandese Pie-ter Camper, che lo prese per una balena. Ma Camper fu presto
smentito dal suo stesso figlio Adrien Cam-per che, con grandissimo scalpore
di tutti, dichiarò trattarsi di una mostruosa lucertola marina oggi
scom-parsa. Intervenne allora il Canonico Godin, padrone del terreno sopra
alla cava, che, invocando i suoi diritti feudali (ma la rivoluzione francese
era alle porte, come vedremo ben presto!), trascinò in giudizio Hoffmann e
gli sottrasse il fossile, per esporlo in un'urna di vetro e mostrarlo ai
curiosi, ovviamente a pagamento. Il fossile pre-adamitico era dunque
sot-tratto alle elucubrazioni blasfeme degli scienziati, con vantaggio della
Chiesa e, quel più conta, del Canonico Godin. Giustizia fu fatta, come
abbiamo anticipato, dalla rivoluzione francese, quando i repubblicani
invasero la città e il Cittadino Generale Pichegru promise 600 bottiglie di
vino pregiato a quel soldato che gli avesse portato il famoso fossile. La
qual cosa avvenne ben presto, così che il "mostro" fu portato a Parigi, dove
il grande anatomista Cuvier poté esami-narlo e riconoscerne la natura.
Tanto, dunque, le vecchie idee erano in crisi che perfino i soldati di un
esercito rivoluzionario avevano la piena coscienza della importanza dei
ritrovamenti paleontologici, del potenziale dirompente che essi costituivano
nello scontro tra due diversi modi di vedere il mondo. Ma prima che nuove
idee si affer-massero in geologia, notevoli tentativi furono fatti per
conciliare il vecchio ed il nuovo senza che la sostanza del primo ne fosse
intaccata.
La macchina perfetta: Hutton e l'uniformismo
Ma aspettiamo ancora un momento a inoltrarci nel clima tumultuoso della
rivoluzione francese: bisogna, anzi, tornare indietro, in pieno Illuminismo,
ove tro-viamo lo scozzese James Hutton (1726-1797), ritenu-to il fondatore
della geologia storica. Hutton operava in un contesto culturale ancora
forte-mente influenzato "dall'abilità dimostrata dai grandi costruttori di
sistemi del Seicento - Galileo, Descar-tes, Newton e Leibniz - nell'individuare
l'ordine razionale complessivo del mondo celeste" e condivi-deva con molti
naturalisti suoi contemporanei "l'am-bizione di diventare i Descartes o i
Newton del globo terrestre" (Porter, 1992). In altre parole, Hutton credeva
fermamente che la storia della Terra potesse essere spiegata sulla base di
poche leggi naturali, universali e semplici, valide per tutti i momenti
della storia geologica e per tutte le parti del globo, esclu-dendo il
ricorso ad eventi straordinari o miracolosi. Il sistema di Hutton tendeva a
immaginare la Terra come una newtoniana "macchina perfetta", regolata da
leggi proprie ed immutabili, una macchina autore-golantesi e funzionante in
tempi senza principio e senza fine, come l'universo degli astronomi. In
questo senso va capito il suo "il presente è la chiave per spiegare il
passato", e il suo atteggiamento non va confuso con l'"attualismo" che verrà
più tardi intro-dotto da Lyell. La filosofia (perché di questo si tratta) di
Hutton è piuttosto quella dell'"uniformismo" ed in questo senso il suo modo
di pensare (come quello di Newton, del resto) è fortemente venato di teismo.
Come non rischiare di confondere, infatti, un Univer-so perfetto, eterno e
autosufficiente con la figura stessa della Divinità? Non a caso, anche per
questo (e non solo per le sue affermazioni sulla antichità della Terra)
Hutton fu aspramente accusato di eresia. Mentre ancora Georges-Louis Buffon
(1707-1788), biologo francese dell'Illuminismo, stimava -cosa ar-dita
allora- l'età della Terra a soli 72.000 anni, Hutton arrivava a ipotizzare
tempi di durata infinita. A Hutton si possono attribuire scoperte ed
intuizioni veramente innovative per i suoi tempi. Con osserva-zioni di
campagna e di laboratorio, provò, ad esem-pio, che quelle che verranno
chiamate "rocce ignee" derivavano dal raffreddamento di materiali fusi; sua
è la prima accurata distinzione tra rocce ignee e rocce sedimentarie e, si
potrebbe dire oggi, forse anche l'intuizione del metamorfismo. Ma il merito
principa-le, ed il limite, di Hutton è nella sua teoria generale, che ambiva
a spiegare in modo unitario tutti fenomeni che oggi chiameremmo della
"geodinamica" terre-stre, senza "interventi preternaturali". Secondo Hutton,
i materiali strappati dall'erosione ai continenti sono trasportati dai fiumi
fino al mare, dove si solidificano; l'erosione distrugge progressiva- mente
i continenti, che vengono così sommersi dalle acque, mentre altri continenti
si formano per il solle-vamento delle rocce marine ad opera di "una forza
che ha per principio il calore sotterraneo" (Hutton ed i suoi seguaci
vennero per questo chiamati "plutoni-sti", in opposizione, come vedremo, ai
werneriani, detti "nettunisti"). Il sollevamento dei continenti avreb-be
prodotto, secondo Hutton, strati inclinati e distorti, strati che
originariamente si erano deposti regolar-mente l'uno sull'altro, dal più
antico al più recente (principio della sovrapposizione stratigrafica, un'al-tra
brillante intuizione di Hutton, allora tutt'altro che scontata). In quanto
uniformisti, Hutton ed i suoi seguaci si interessarono soprattutto ai
fenomeni quotidiani della dinamica terrestre, immediatamente accessibili
alla osservazione, come l'erosione e la sedimentazione. A loro si debbono
notevoli osservazioni sulle strutture e la genesi delle rocce sedimentarie.
Ma erano poco interessati al tempo e alla geologia storica, poco rilevanti
in un mondo senza fine. Scriveva Hutton nel 1788: "Il risultato della nostra
ricerca attuale è che non troviamo alcuna traccia di inizio, sicura
prospet-tiva di fine". Paradossalmente, gli uniformisti sono stati
innovatori e conservatori insieme (ma capita di frequente): la loro macchina
autoregolantesi mal tollerava drastici mutamenti e avvenimenti catastrofici.
In paleontolo-gia, ad esempio, preferivano pensare a migrazioni delle faune
da un continente all'altro piuttosto che a estinzioni più o meno
generalizzate (Jean-Baptiste Lamarck, 1744-1829, fu un uniformista). Erano
dun-que poco interessati al dibattito che in quel momento appassionava
specialisti e profani, centrato proprio sul problema delle estinzioni e già
foriero delle nuove idee evoluzioniste.
Il nettunismo e l'origine del catastrofismo
In contrasto con Hutton e più o meno negli stessi anni, una teoria "più
moderna" (meno legata al razionali-smo seicentesco), ma per altri versi,
come vedremo, assai più conservativa, veniva proposta da Abraham Gottlob
Werner (1743-1815), un professore tedesco dell'Accademia Mineraria di
Freiberg. Questi in-fluenzò col suo "nettunismo" tutta la geologia della
fine del '700 e della prima parte dell'800. Il grande naturalista toscano
Paolo Savi era appunto un nettunista. La teoria nettunista di Werner
assegnava un'origine marina a tutte le rocce. Solo più tardi Werner
aggiun-se alla sua classificazione le "serie vulcaniche", com-prendenti però
solo alcune colate di lava, ritenute il prodotto recente, e poco importante,
della "cottura" di strati carboniosi ("fuochi superficiali per
autocom-bustione dei carboni"). La teoria postulava un grande Oceano
primitivo circondante una terra emersa di piccole dimensioni. Il ritiro
progressivo di questo mare avrebbe determinato l'emergere di nuove terre e
la conseguente deposizio-ne di tutti i materiali della crosta terrestre,
secondo lo schema già proposto da Lehmann. L'enfasi posta da Werner sull'origine
marina di tutte le rocce, anche di quelle cristalline (le moderne rocce
ignee intrusive e metamorfiti di alto grado), queste ultime per
precipitazione chimica dalle acque oceani-che, ha qualcosa di primitivo e
profondamente irra-zionale: il fascino che questa visione ha esercitato sta
forse anche nel suo richiamarsi ad archetipi sepolti ma profondamente
radicati in tutti noi. Come altro si potrebbe, del resto, spiegare oggi il
fascino della Pangea, circondata dal suo grande Oceano Pantalas-sico,
presentata da tanta divulgazione come la confi-gurazione de "la Terra
Primitiva", quando non si tratta altro che di "una" configurazione,
realizzatasi più o meno tra 300 e 200 milioni di anni orsono, e preceduta da
altre e diverse configurazioni, lungo un arco di tempo di centinaia di
milioni di anni? All'ini-zio era la Pangea.... Ma torniamo a Werner. La sua
classificazione gene-tico- storica delle rocce così era articolata:
Urgebirge (montagne primitive), le attuali rocce ignee e metamorfiti di alto
grado): primi derivati chimici dell'Oceano primitivo, che si estendevano
ininterrot-tamente intorno alla Terra; Übergangsgebirge (montagne di
transizione), calcari litoidi, dicchi, filoni, grovacche: primi sedimenti
veri e propri dell'Oceano, che si estendevano su tutta la Terra, mentre
veniva creata la vita, in forme primitive; Flötzgebirge (montagne
stratificate), rocce sedimen-tarie, fossilifere e stratificate: sedimenti
marini detri-tici sui fianchi delle terre in emersione, mentre conti-nuava
la Creazione e apparivano gli animali superiori fino ai primi Vertebrati;
Aufgeschwemmte Gebirge (montagne alluvionali), ghiaie, sabbie sciolte,
argille: formate sulle terre emerse, col ritirarsi dell'Oceano dai
continenti, men-tre venivano creati i Mammiferi e l'Uomo. Come si vede, la
teorie werneriana aveva una forte coloritura "teologica": la comparsa
progressiva della vita segue l'ordine della Genesi e si conclude con l'Uomo.
Le sue basi teoriche erano debolissime. Nessun "Nettunista" rispose mai
seriamente alla do-manda dove mai fossero andate a finire le acque del
primitivo Oceano, anche se fu pensato a tutto, ed in particolare ad un gorgo
immane che avrebbe progres-sivamente riversato le acque oceaniche in enormi
caverne sotterranee (e anche questa bizzarra idea esercitò a lungo un grande
fascino, fino alla seconda metà dell'800 almeno, come testimonia ancora la
"fantascienza" popolare di Giulio Verne). Ma proprio questa debolezza
teorica fu alla radice del successo del nettunismo. Esso forniva una visione
organica di insieme abbastanza innovativa per acco-gliere le nuove scoperte:
poteva ben accettare, ad esempio, la scomparsa di antiche specie e la
comparsa di nuove, nella sua visione di una Creazione dilazio-nata su tempi
lunghissimi. In contrasto con le idee uniformiste di Hutton, proponeva
inoltre una visione "progressiva" della storia, che faceva eco alle diffuse
speranze di rinnovamento sociale. Ma era anche abbastanza conservativa (il
suo richiamarsi alla Ge-nesi) da non allarmare chi già viveva in tempi di
grandi sconvolgimenti. E soprattutto, proprio perché non vincolata a basi
teoriche rigorose, era flessibile; e abbiamo già visto, fin dalla premessa,
l'atteggia-mento "pratico" dei geologi classici, da cui deriva la
propensione per quello che "funziona comunque". Hutton aveva ragione sulle
rocce ignee. Tanto che molti nettunisti ne furono toccati e, senza
abbandona-re una teoria così "comoda", la ritoccarono quel tanto che
bastava: erano i vulcani a sollevare le terre, non il mare a ritirarsi (e
furono per questo chiamati "vulcanisti"). Ma sono semplici variazioni su
tema. La visione di insieme restava e Hutton fu egualmente sconfitto.
Soprattutto da un elemento, marginale for-se nel nettunismo delle origini,
ma destinato ad essere sempre più enfatizzato in seguito: quello degli
avve-nimenti "catastrofici" all'origine della Terra attuale. Il ritiro dell'Oceano
primitivo, o il sollevamento dei continenti ad opera di immensi vulcani,
sono appunto avvenimenti "catastrofici" che non hanno riscontro nel mondo
moderno. E verso la fine del '700, in piena rivoluzione francese, l'esistenza
di "catastrofi" nella Storia non poteva più essere ignorata. Hutton e la sua
visione razionalista di un mondo in perenne, ma conservativa,
trasformazione, senza ca-tastrofi o palingenesi, furono dunque travolti,
nell'Inghilterra impaurita dai non lontani rumori della rivo-luzione
francese, proprio dal "catastrofismo", una ideologia (non certo una
filosofia) che aveva il pregio, come presto vedremo, di registrare l'esistenza
di "rivoluzioni" catastrofiche, ma anche di ricomporle all'interno di una
visione in cui l'ordine naturale veniva ogni volta ristabilito.
Venti di tempesta: il catastrofismo
Abbiamo già incontrato Cuvier al Jardin del Plantes di Parigi, intento a
esaminare, in piena rivoluzione francese, il Mosasauro di Maastricht
inviatogli dal Cittadino Generale Pichegru. Georges Cuvier (1769- 1832) era
figlio di un ufficiale svizzero; aveva studia-to biologia a Stoccarda e
aveva fatto in seguito, dal 1788 al 1794, il precettore di un Conte francese
in Normandia. Fu chiamato a Parigi dal grande Lamar-ck, nel 1795, appena in
tempo per ricevere in studio il famoso "mostro pre-adamitico" di Maastricht.
Cuvier era uomo d'ordine. Sotto Napoleone, divenne addirittura
Vicepresidente del Ministero dell'Interno. Ma, alla ricerca di un ordine
preciso nelle confuse conoscenze e ideologie dell'epoca, finì per portare
contributi essenziali al progresso scientifico e, suo malgrado, all'Evoluzionismo.
Quattro mesi dopo il suo arrivo a Parigi, ad esempio, ebbe occasione di
esaminare i resti di un Mammuth provenienti dai suoli perennemente congelati
della Siberia. E si convinse che si trattava di un animale oggi
completamente estinto. Probabilmente stava vi-vendo in un momento
psicologicamente assai favore-vole per far sapere al mondo che grandi
animali del passato, come i Mammuth, si erano estinti: a Parigi, in pieno
Terrore, dove cadevano sotto la ghigliottina le teste coronate, non era
difficile credere alla scompar-sa di maestosi animali, un tempo signori
delle steppe glaciali.... Ma in ogni caso, questa acquisizione fu da allora
sanzionata indiscutibilmente. Riassumiamo, assai schematicamente, alcuni dei
fon-damentali contributi di Cuvier: -non esiste una "scala degli esseri" ma
più gruppi (Vertebrati, Molluschi, Articolati, Radiati), non ordi-nati
gerarchicamente e ciascuno dotato di un proprio "piano" di adattamento all'ambiente;
-molte specie si sono estinte in passato; -le estinzioni sono opera di
cataclismi ripetuti (non si espresse mai chiaramente sulle modalità del
successi-vo ripopolamento, anche se suggerì migrazioni da altre aree); -più
le faune sono antiche e più sono diverse dalle attuali (e questa è la base
concettuale della stratigrafia su basi paleontologiche). Il nuovo schema
interpretativo, cui Cuvier aveva dato un apporto sostanziale, fu chiamato
"catastrofismo" ed esercitò influenza grandissima per tutto l'800 ed oltre.
E' significativo, a dimostrare quanto il problema filosofico della storia
della vita sulla Terra fosse rilevante a cavallo tra '700 e '800 (a solo
pochi decenni dall'opera di Darwin), che il catastrofismo sia stato
introdotto in geologia proprio da tre biologi (anche se allora le partizioni
del sapere, all'interno delle scienze naturali, erano assai poco definite).
Sta di fatto che Cuvier (anatomo comparato dei Vertebra-ti) e Brognart
(Molluschi) studiarono a fondo il Bacino di Parigi, con l'aiuto del grande
biologo Lamarck, e vi distinsero 11 formazioni geologiche, separate da
altrettante regressioni/trasgressioni mari-ne, cioè da eventi ritenuti
istantenei e catastrofici. Il catastrofismo si consolidò, ai primi dell'800,
in una Inghilterra dominata dalla reazione alla rivoluzione francese, e vi
assunse una più spiccata connotazione religiosa. Ci sono sì le rivoluzioni
(e chi poteva più negarlo?) ma: -dopo ogni catastrofe Dio ripopola
opportunamente il mondo con nuove creature; -le singole formazioni
geologiche sono caratterizzate da omogeneità di fauna e flora fossile su
tutto il globo e sono separate le une dalle altre da discontinuità
testimonianti eventi catastrofici sincroni a scala mon-diale; -gli strati
tipici dell'Inghilterra (o di altre località europee) devono riconoscersi
pertanto in tutto il mondo. Nonostante il suo carattere conservativo, e
proprio grazie a questo, il catastrofismo ebbe l'effetto di chiudere, almeno
per un po', una questione lacerante, quella cioè dei tempi geologici: ora,
nel nuovo conte-sto, si poteva più serenamente discutere di "quanto" fosse
antica la Terra, ma non "se" fosse antica. Le creazioni ripetute avrebbero
comunque rimesso tutto a posto.
Geologi e biologi: lo scambio del testimone
Se tra il '500 e il '700 non si può a rigore parlare di "geologi" e
"biologi" in senso stretto, ma piuttosto di interessi prevalenti di questo
o quello studioso rerum naturalium, con la seconda metà del '700 e,
soprattut-to, a partire dall'inizio dell'800, siamo sempre più legittimati a
distinguere tra le diverse partizioni del sapere scientifico naturalista e
tra i rispettivi specialisti. Studiosi come Buffon, Lamarck, Cuvier sono da
considerare a tutti gli effetti biologi. E i biologi erano allora impegnati
in quel grande dibattito culturale che portò ben presto alla sintesi
darwiniana delle già presenti teorie evoluzioniste. Quanto sopra si
osservava a proposito della nascita del catastrofismo sembra proprio
suggerire una par-ticolare chiave di lettura dei rapporti che si sono andati
configurando allora, alle soglie dell'800, tra geologia e biologia. Sia
Cuvier che Lamarck erano convinti (per ragioni tra loro diverse: al
contrario di Cuvier, Lamarck era un uniformista e pensava a lenti, continui
e graduali mutamenti nel mondo vivente) che la complessa storia della vita
sulla terra si fosse necessariamente svolta nell'arco di tempi lunghissi-mi.
Era questa una opinione ormai diffusa, soprattut-to tra i biologi più o meno
dichiaratamente evoluzionisti, se fin dalla seconda metà dal '700, Buffon
poteva scrivere nella sua Histoire Naturelle (il primo volume è del 1749):
"Il grande Artefice della Natura è il tempo" e il padre di Darwin, Erasmus
(1731- 1802) nel 1803 arrivava a stimare l'antichità della Terra nei termini
di milioni di secoli. Con la sistemazione catastrofista, i biologi hanno il
campo libero per la discussione sui problemi della trasformazione del mondo
vivente nei tempi geologi-ci. Restava da vedere "quanto" lunghi dovessero
essere questi tempi, affinché i diversi meccanismi proposti potessero dar
conto di quei cambiamenti biologici che ormai tutti ammettevano fossero
avve-nuti. Il tempo geologico veniva valutato soprattutto in rapporto ai
tempi richiesti dalla evoluzione biologica. Il problema dell'età della Terra
era dunque ormai saldamente in mano ai biologi. Non è questo il luogo per
ripercorrere il cammino iniziato dalla biologia settecentesca, quel cammino
che porterà a Darwin, a Mendel e alla moderna biologia. Ci basti qui
ribadire che, a partire dal primo '800, evoluzionismo ed antichità della
Terra faranno, almeno per un bel po', parte di un dibattito culturale nel
quale i geologi veri e propri avranno un ruolo minore. Un ruolo l'avranno
semmai i fisici, come vedremo. E i geologi?
William Smith, l'uomo degli strati
Una figura emblematica e singolare di "geologo puro" a cavallo tra '700 e
'800 è quella di William Smith (1769-1839), inglese, topografo-ingegnere
addetto alla escavazioni di canali per il trasporto di carbone e geologo
autodidatta. Nel suo lavoro ai canali, Smith si convinse ben presto che
progetti implicanti grandi spostamenti di terra e scavi di notevole
importanza dovessero esser prece-duti dall'acquisizione di adeguate
conoscenze sulla geologia dei luoghi. Per anni, dunque, Smith percorse in
lungo e in largo la campagna inglese per compilare quella che fu la prima
"Carta geologica dell'Inghilter-ra, del Galles e di parte della Scozia".
Conosciuto ovunque col soprannome di "Strata" Smith, non c'era Compagnia di
scavo che non lo chiamasse prima di iniziare un qualunque lavoro. A tutti
gli effetti, dunque, l'equivalente di un moderno geologo applicato,
libero-professionista. "Strata" Smith non prestò grande attenzione alla
disputa tra nettunisti e plutonisti. Di cultura per certi versi modesta,
Smith conosceva le teorie del suo tempo, ma aveva soprattutto interessi
pratici. La sua scoperta più interessante fu quella che strati diversi
potevano esser distinti in base al loro contenuto fossilifero, anche nel
caso in cui fossero simili per litologia. Sembrerebbe banale; ma non lo è
affatto, per l'epoca in cui questo principio fu formulato. Abbiamo infatti
visto come nei "sistemi" di nettunisti e plutonisti litologia ed età fossero
identificate: "rocce cristalline" e "rocce primitive" erano sinonimi, come
lo erano "rocce stratificate" e "rocce secondarie". Smith introdusse dunque
una classificazione strati-grafica basata su unità litologiche
caratterizzate da fossili diversi. Nel suo The Stratigraphical System of
Organized Fossils (1817), egli distinse 31 diverse unità litologico-
paleontologiche, con molte ulteriori suddivisioni minori. Per questo ebbe
nel 1831 la prima Wollaston Medal della Geological Society di Londra, e fu
una medaglia certamente meritata. Le sue unità furono accolte da Lyell, come
vedremo, e sono in parte ancora oggi in uso, col valore di unità
cronostratigrafiche. Purtroppo Smith era un uomo pratico, solo modesta-mente
colto e poco incline alle Lettere. Parlava a tutti, e volentieri, delle sue
scoperte, ma scriveva poco. Furono i suoi amici colti che lo spinsero a
scrivere e fecero notevoli pressioni affinché, nel clima inglese della
Restaurazione, "Strata" Smith sposasse il cata-strofismo. Ed alla fine,
nella sua opera principale, Smith pose l'accento, anche se un po'
controvoglia, più sulle discontinuità che sulle transizioni tra le sue unità
geologiche. Con conseguenze che non si fecero attendere.
Charles Lyell e l'attualismo
Cuvier aveva dato basi scientifiche al criterio di datazione su basi
paleontologiche. Il catastrofismo ed il lavoro paziente di Smith ponevano le
basi per una periodizzazione della storia della Terra. E' su questa base
culturale che operò Charles Lyell (1797-1875), appartenente per nascita alla
nobiltà terriera scozzese e ritenuto da molti, forse enfatizzando, il
fondatore della moderna geologia. Lyell seppe raccogliere la lezione
uniformista di Hutton, ricollocandola nel quadro della nuova strati-grafia.
Pubblicò nel 1833 quei Principles of Geology che ebbero una influenza
assolutamente determinante sullo stesso Darwin, tanto che questi ne
testimoniò più volte. Lyell aveva studiato Legge ed era un ottimo scrittore;
il suo libro divenne ben presto un vero "best-seller". Vi anticipò, tra l'altro,
pur non traendone le debite conseguenze, quasi tutti i principi cui Darwin
dette forma nell'evoluzionismo, a cominciare da quel-la "guerra di natura"
che anticipava la darwiniana "selezione naturale". In geologia introdusse il
princi-pio dell'attualismo (gli eventi del passato si spiegano con forze
ancora operanti e osservabili), principio che ricorda l'huttoniano "il
presente è la chiave per spie-gare il passato"; ma se per Hutton questo
implicava "uniformità dei fenomeni" (di oggi e del passato), per Lyell è
piuttosto uniformità delle leggi di natura, unifor-mità che non esclude
trasformazioni e cambiamenti della Terra, nel tempo. Osserva S. J. Gould
(1980): "Quan-do le monarchie caddero ed il 1700 si concluse in un'era di
rivoluzioni, gli scienziati cominciarono a vedere il cambiamento come parte
normale dell'ordi-ne universale, non più come qualcosa di aberrante ed
eccezionale. Gli eruditi allora trasferirono alla natura il programma
liberale di cambiamento lento e ordina-to che invocavano per le
trasformazioni sociali della società umana. A molti scienziati i cataclismi
naturali sembravano minacciosi come il regno del terrore di cui era stato
vittima il grande collega Lavoisier". L'insegnamento uniformista di Hutton è
evidente nelle meticolose osservazioni di Lyell, come quando, studiando gli
occhi dei Trilobiti, argomenta: "l'ocea-no doveva essere trasparente come
oggi, e doveva consentire il passaggio ai raggi di luce, e lo stesso vale
per l'atmosfera; ciò ci conduce a concludere che il sole esisteva allora
come oggi e a una grande varietà di altre inferenze...". O come quando,
studiando le impronte fossili di gocce di pioggia, scriveva: "le ..... gocce
erano simili nelle loro dimensioni a quelle medie che cadono oggi dalle
nubi", deducendone che "l'atmosfera di uno fra i periodi più remoti noti in
geologia corrispondeva per densità a quella che circonda oggi il globo".
Queste considerazioni sembrano appunto scritte da Hutton; Lyell ne ha
raccolto l'insegnamento ed è stato capace di divulgarlo in uno stile piano
ed elegante, ancorché rigoroso. Sono però i Principles di Lyell che
contengono il vero atto di nascita della geologia come scienza positiva. In
stratigrafia, Lyell accolse le unità litologico-pale-ontologiche di Smith; e
ne aggiunse altre, dello stesso tipo ma tipizzate in alcune località del
continente. Le unità smithiane furono raggruppate da Lyell in "Sistemi",
definiti su base litologica (es. Sistema Oolitico, Sistema Carbonifero) o
indicati con il nome della località-tipo (es. Sistema Giurassico), e a loro
volta divisi in "Periodi". Questa classificazione stratigrafica fu accolta e
se-guita per più di cento anni. Come si vede, permangono tracce del
nettunismo nella equiparazione litologia-età e nel sincronismo che viene
ammesso per la deposizione di certe litologie (rocce carbonifere, roc-ce
oolitiche). Nonostante l'enorme influenza che Lyell ebbe sul pensiero
geologico del suo secolo, la componente ideologica per certi versi
sei-settecentesca (deismo huttoniano) ancora sottilmente presente nel suo
mo-dello interpretativo, la sua avversione per qualunque idea di
"progressione" o direzionalità nella storia della Terra (e quindi anche per
i concetti evoluzioni-sti) finivano per contrastare col progressivismo
posi-tivista ottocentesco. D'altra parte, l'esperienza delle rivoluzioni
sociali faceva ancora propendere il pensiero dell'epoca, so-prattutto in
Inghilterra, verso visioni in cui le "cata-strofi" trovavano ancora una
volta adeguata sistema-zione: vere e proprie palingenesi universali,
venivano recuperate in un disegno complessivo che vedeva al suo centro il
"nuovo ordine", espressione di nuovi e più avanzati livelli di
organizzazione del sistema. Il catastrofismo, nato in un contesto assai
diverso e affermatosi in una particolare ed irrepetibile congiun-tura,
assumeva ora sfumature "progressive". Non fa dunque meraviglia il contrasto
tra l'ispirazio-ne originale di Lyell e un certo uso che poi fu fatto delle
sue idee. A proposito delle "catastrofi", ancora nel 1830 Lyell scriveva:
"Non vi è dubbio che in ogni regione del globo si sono susseguiti periodi di
scon-volgimenti e di quiete, ma forse è altrettanto vero che, per quanto
riguarda tutta la Terra, l'energia dei movimenti sotterranei è sempre stata
uniforme. Può darsi che per cicli di anni la forza dei terremoti sia stata
sempre confinata, come lo è ora, a zone estese ma finite e poi sia sia
spostata gradualmente così che un'altra regione, che era stata a lungo in
quiete, sia divenuta a sua volta il grandioso teatro della sua azione". Ma
gli epigoni di Lyell, e in suo nome, colsero soprattutto un aspetto,
probabilmente marginale e in qualche modo casuale e contraddittorio, del suo
sistema che, accogliendo le unità stratigrafiche di Smith, ne postulava
anche la originaria discontinuità (am-messa, si ricordi, di malavoglia dallo
stesso Smith!). I Sistemi o i Periodi erano quindi separati da "inter-valli
mancanti", sottolineati dal cambio brusco di litologia e da discordanze più
o meno marcate tra gli strati sotto e sopra giacenti, a testimonianza di
paros-sismi tettonici. Dopo Lyell si è così andato fissando quel criterio di
partizione della storia della Terra che, ancora nel 1909, faceva dire al
geologo americano T. C. Chamberlin (1843-1928): "Il diastrofismo è la base
defini-tiva di correlazione". In contrasto con la lucida intui-zione di
Lyell, si preferiva infatti pensare, e lo si è pensato a lungo, a
intermittenti orogenesi estese a tutto il globo, durante le quali i
continenti si solleva-vano, i mari arretravano, si formavano le montagne e
mutavano gli organismi animali e vegetali. Tant'è vero che ancora nel 1955
il geologo tedesco Stille si assicurava una non piccola notorietà,
pubblicando la sua periodizzazione del Paleozoico, basata su ben 42 distinti
episodi orogenetici, sincroni ed estesi a tutto il globo. Potremmo forse
azzardare l'ipotesi che al fissarsi di questa idea non fossero state
estranee, nell'epoca delle conquiste coloniali, nascoste propensioni
euro-centriche: indubbiamente, la sincronia globale degli eventi orogenetici
avrebbe permesso di estendere a tutto il mondo le partizioni stratigrafiche
codificate negli strato-tipi smithiani, come in effetti è avvenuto (e la
Repubblica Popolare Cinese lo ha fatto rilevare, alcuni anni fa, in una
formale lettera di protesta all'UNESCO). Tra il 1830 ed il 1880 circa, quasi
tutti gli attuali "Sistemi" furono definiti. Poiché cambiamenti mag-giori
erano stati osservati tra alcuni gruppi di Sistemi, si introdussero le "Ere",
wernerianamente chiamate "Primaria", "Secondaria", "Terziaria". Se questi
termini avevano ancora una connotazione "litostratigrafica", cioè si
riferivano a intervalli di tempo caratterizzati da certe tipiche litologie,
i termi-ni "Paleozoico", "Mesozoico", "Cenozoico", coesi-stenti con i primi
e con questi intercambiabili, si riferivano invece alle caratteristiche
paleontologiche di ciascuna Era ed avevano pertanto una valenza più
strettamente cronologica o biocronologica. Ma, come abbiamo detto, tutti i
termini coesistevano, e sarebbe una forzatura volerci trovare significati
che in realtà si sono andati precisando solo nel corso di questo secolo. La
periodizzazione dei tempi geologici iniziata da Lyell e completata dai suoi
epigoni ottocenteschi trovò infine una adeguata sistematizzazione nel
Codi-ce Stratigrafico di Grabau, del 1913.
Ancora il tempo, i biologi, i fisici
Torniamo, però, ancora un po' indietro, al problema del tempo geologico
verso la metà dell'800. Darwin ed i biologi evoluzionisti avevano bisogno di
tempi geologici lunghi , affinché il lento meccanismo della selezione
naturale potesse essere accettato come causa adeguata ed efficiente dell'evoluzione
biologica. E' così che Darwin nel 1859 si cimenta in prima persona con i
problemi geologici e tenta una stima del tempo necessario per l'avvenuta
erosione della regio-ne di Weald, in Inghilterra: almeno 300 milioni di anni
dalla seconda parte del "Periodo Secondario", una stima certamente in
eccesso, che fa capire quanto fosse grande in Darwin il "bisogno di tempo".
In quegli stessi anni (1860), l'inglese John Phillips (contrario sia alle
teorie di Lyell che a quelle di Darwin), basandosi sullo spessore di strati
di varia età e sulla presumibile velocità della loro deposizione, stimava
invece, in risposta a Darwin, l'età della Terra intorno a 96 Milioni di
anni. Ma il parere dei geologi era, tutto sommato, poco rilevante. Quello
che contava di più, per le implicazio-ni che aveva, era quello di Darwin. E
contro la nuova biologia scese in campo la fisica classica, impersona-ta da
William Thomson (1824-1907), meglio noto a tutti col nome di Lord Kelvin.
Kelvin, arrivato giovanissimo, a soli 22 anni, alla Cattedra di Filosofia
Naturale dell'Università di Glasgow, era il tipico scienziato vittoriano di
grande successo, profondamente religioso e convinto che la Natura fosse
espressione di un preciso ordine divino. L'atteggiamento
scientifico-filosofico di Kelvin po-trebbe essere descritto prendendo a
prestito un para-grafo di Eistein (1919), che si riferisce alle teorie della
fisica classica: "La maggior parte sono teorie costrut-tive. Attraverso un
sistema di formule relativamente semplice situato alla base, esse cercano di
costruire un'immagine di fenomeni relativamente complessi. (..) Quando si
dice che si è pervenuti a comprendere un insieme di processi naturali, ciò
significa sempre che si è trovata una teoria costruttiva che abbraccia i
fenomeni in questione". E Darwin si era mosso in senso diametralmente
opposto: partendo da alcune proprietà generali di processi naturali, dedotte
dalla osservazione diretta di fenomeni in atto (il suo famoso viaggio sulla
Beagle) ne aveva dedotto le possibili conseguenze sui processi particolari,
pur non possedendo le necessarie infor-mazioni per fare ipotesi dettagliate
sui meccanismi più intimi di questi processi (non si sapeva pratica-mente
niente dei meccanismi dell'ereditarietà). Anche la fisica della seconda metà
dell'800 vedeva nascere al suo interno un atteggiamento simile, che prenderà
forma nel quadro concettuale einsteiniano della "fisica dei principi". Ma
Lord Kelvin, pur validissimo scienziato, era un fisico classico e
filoso-ficamente un conservatore, e se la prese con i biologi evoluzionisti,
aprendo una controversia che durò molto di più di mezzo secolo. Nel 1861, in
una corrispondenza con Phillips, disse subito che "i calcoli di Darwin sono
qualcosa di assurdo". A partire dall'anno successivo cominciò a pubblicare
una serie di articoli sempre più duri e dogmatici contro coloro che
computavano l'età della terra in centinaia di milioni di anni. Il succo del
ragionamento di Kelvin si basava sul convincimento che il Sole fosse una
massa liquida incandescente che sta dissipando rapidamente la sua energia; e
che l'origine del calore solare non potesse essere che gravitazionale,
essendo da escludere come inadeguata quella chimica. Il punto di partenza di
Kelvin è pertanto la formazione di una massa fusa, derivata dal collasso
gravitaziona-le di una nebulosa, come quella postulata da Kant-Laplace. Se
si conosce la massa globale del sistema (inferita dalla massa stimata
attuale del Sole), sistema che è immaginato all'inizio a riposo in tutte le
sue parti, si può facilmente calcolare la quantità di calore che sarebbe
stato generato come equivalente della energia meccanica delle collisioni
avvenute in conse-guenza del collasso gravitazionale. In base alla
cono-scenza del flusso di calore emanato oggi dal Sole e dell'energia
disponibile all'inizio, si può risalire alla data di questo inizio. Da
semplici leggi fisiche si può derivare il funzionamento dei grandi sistemi.
Peccato che allora non si avesse la minima idea della esistenza di sorgenti
radioattive di energia. L'assoluta supremazia delle "leggi fisiche note" su
un qualunque altro ragionamento, portava appunto a bollare come assurde le
ipotesi di Darwin e dei geologi. Calcoli matematici sulla presunta velocità
di raffreddamento del Sole e della Terra, appoggiati più tardi anche da
calcoli sull'effetto frenante delle maree sulla rotazione terresre,
inducevano Kelvin a postula-re, senza possibilità di smentita, un'età della
Terra con tutta probabilità inferiore ai 100 milioni di anni. Che fosse un
problema di "guerra ideologica" piutto-sto che una questione meramente
scientifica è messo in evidenza anche dall'arena su cui Kelvin aveva deciso
di aprire le ostilità: il Macmillan's Magazine, una rivista popolare. Kelvin
parlava quindi diretta-mente al grande pubblico, verso il quale si poneva
come un moderno "opinion maker". E non bisogna credere che questo pubblico
fosse solamente quello delle persone colte: la Palentologia era allora molto
più di moda di oggi, come testimoniano i quarantami-la spettatori, alla cui
presenza la Regina Vittoria ed il Principe Alberto avevano inaugurato al
Crystal Pala-ce, il 10 giugno 1854, una grandiosa mostra all'aperto di
modelli in grandezza naturale di animali preistori-ci. I visitatori erano
accorsi a migliaia, per mesi e mesi, arrivando a danneggiare seriamente l'esposi-zione,
per la smania di accaparrarsi qualche souvenir strappato ai mostri
preistorici. Ma ben presto (1865) Kelvin si rivolse direttamente ai geologi,
attaccandoli frontalmente in una comunica-zione (The Doctrine of Uniformity
in Geology Briefly Refuted) letta dinanzi alla Royal Society di Edimburgo. L'obbiettivo
apparente era Lyell, ma quello vero era Darwin, che del resto Kelvin aveva
direttamente chiamato in causa (a proposito dell'erosione del Weald e dei
famosi 300 milioni di anni), fin dal suo primo articolo. Tant'è vero che da
parte dei geologi non vi fu praticamente alcuna reazione, mentre scese in
campo (1869) Thomas Huxley a difendere il suo amico Darwin. Ma senza la sua
solita abilità di polemista. Darwin stesso era restato assai scosso dall'attacco
di Kelvin: "Da qualche tempo le critiche di Thomson [Kelvin] sull'età
recente del mondo sono una delle mie più grosse preoccupazioni" (1869), e
ancora: "... sono molto turbato a causa della breve durata del mondo secondo
Sir W. Thomson, poiché io ho bisogno per le mie concezioni teoriche di un
periodo molto lungo prima della formazione cambria-na" (1869). Tanto
turbato, da arrivare a ridurre le sue stime sul Weald "di un fattore di due
o tre" nella seconda edizione dell'Origine delle Specie, per to-glierle poi
del tutto nella terza edizione. A partire da queste sue prime vittorie,
Kelvin fu sempre più esplicito e sempre più evidente fu il suo obbiettivo. I
geologi contavano poco; era la selezione naturale che veniva direttamente
confutata. Perché fosse chiaro a tutti, Kelvin scrisse nel 1894 sul Popular
lectures and Addresses: "La limitazione della durata dei periodi geologici
imposta dalla scien-za fisica non può ovviamente confutare l'ipotesi della
trasmutazione delle specie; ma appare sufficiente a confutare la dottrina
secondo cui la trasmutazione avrebbe avuto luogo attraverso la 'discendenza
con modificazione per mezzo della selezione naturale'". Kelvin passò da una
vittoria all'altra ("Troviamo ogni volta qualcosa per dimostrare... l'estrema
futili-tà della filosofia [di Darwin]", aveva scritto fin dal 1873). E ne
approfittò per ridurre ulteriormente le sue stime sull'età della Terra,
arrivando a valori intorno a 20 milioni in totale. Il suo collega P.G. Tait,
entrato in campo anche lui (1876), scese addirittua a 15 milioni di anni, al
massimo. Alla morte di Darwin, la teorie dell'evoluzione per selezione
naturale sembrava divenuta piuttosto fragile. Lo testimoniano anche le
continue contraddittorie aggiunte e i ritocchi alle ultime edizioni dell'Origine
delle Specie, introdotti per parare i colpi di Kelvin. Ma lo sconcerto dei
biologi, indusse questi ultimi anche ad esplorare nuovi approcci, fino alla
riscoper-ta di Gregor Mendel. Ma questa è una storia diversa, da vedersi in
altra sede. Torniamo ai geologi. Solo un paio di geologi, tra quelli che
avevano un qualche peso, si schierarono con i fisici. Ma anche loro furono
solo usati strumentalmente, come testi-monia, nel 1895, Sir Archibald
Geikie, che pure era stato, tra i geologi, il principale alleato di Kelvin:
"i fisici sono stati insaziabili e inesorabili. Spietati come le figlie di
Lear, hanno tagliato la loro assegnazione di anni in porzioni successive,
finché alcuni di essi hanno portato il numero a un po' meno di dieci
milioni". Davanti questi a nuovi "tagli", anche lo stesso Geikie era
costretto a protestare su Nature (1895) contro "un vizio in una linea di
ragionamento che tende a risultati così totalmente diversi dalle prove
[geologiche] in-controvertibili di una maggiore antichità", ipotizzan-do
prudentemente, per suo conto, un valore di cento milioni anni. D'altra
parte, lo stesso Lyell non aveva trovato altri argomenti contro Kelvin se
non quello di auspicare, negli ultimi anni della sua vita, la scoperta di
nuove fonti di energia solare, ove non si volesse ricorrere a leggi divine
in contrasto con quelle di natura. Ma per le prime era troppo presto e per
le seconde troppo tardi. Alcuni geologi avevano tentato stime indipendenti
dell'età della Terra, usando vari parametri geologici dedotti da conoscenze
spesso assai incomplete e teorie assi fragili. Così J. Croll, basandosi
sulla teoria delle glaciazioni (1868), T. Mellard Reade, sulla velocità dell'erosione
chimica (1878), e con loro alcuni altri. Non pochi tra questi, per prudenza
o per difetto di conoscenze, arrivarono a stime che finirono per por-tare
acqua al mulino di Kelvin. Tra questi ultimi, vale la pena di citare, per l'influenza
che ebbe, John Joly (1857-1933), in cattedra a Dublino, che si basava sul
supposto graduale formarsi della salinità marina, arrivando (1899) a stime
di 90-95 milioni di anni da quando gli oceani sarebbero scesi al di sotto di
100° C. Ma, nel complesso, le Scienze della Terra rimasero ai margini della
contesa, finendo comunque per condivi-dere con i biologi la sconfitta. Nel
1895, l'eminente geologo inglese W.J. Sollas doveva così ammettere in un
articolo su Nature: "a quanto posso vedere oggi, l'intervallo di tempo
trascorso dall'inizio del sistema cambriano è probabilmente inferiore a 17
milioni di anni...". E nel 1895, il grande geologo americano Charles Walcott
arrivava arditamente a pensare soltanto a "decine di milioni di anni"
(1895).
Non solo un epilogo: verso la "geologia dei principi"
Per tutto l'800 e fino alla prima metà del '900 la geologia è stata
essenzialmente "nazionale", legata ai singoli luoghi ed a problemi
applicativi circoscritti nello spazio: strade, canali, gallerie, miniere.
Gli stessi dibattiti teorici avevano avuto in certo qual modo carattere
localistico, muovendosi strettamente all'interno dei climi culturali
specifici di ciascuna nazione. Lo scontro promosso da Kelvin sulla durata
dei tempi geologici, ad esempio, era stato un fatto specificamente inglese,
che aveva trovato sul conti-nente assai più scarsa eco. A cavallo del cambio
di secolo, lo sviluppo impetuoso dell'industria e delle comunicazioni aveva
certamente apportato nuove conoscenze, prima impensabili, come quelle sulla
struttura profonda delle Alpi, messa in luce dalle grandi gallerie
transalpine. La scoperta della radioat-tività aveva posto le basi per
superare definitivamente la querelle circa la durata dei tempi geologici,
supe-ramento sanzionato da una celebre conferenza di Rutheford alla Royal
Institution di Londra (1904), ove il conferenziere si era addirittura
aggiudicato la benevolenza dell'ormai vecchio Lord Kelvin, assicu-rando l'uditorio
che le basi per questo cambiamento di prospettive erano già profeticamente
contenute in alcuni passi dei lavori dello stesso Kelvin. Ma il carattere
essenzialmente osservativo e descrit-tivo della geologia classica non era
mutato sostanzial-mente, né era mutata la propensione essenzialmente
"induttivista" dei geologi. Le grandi esplorazioni geografiche avevano però
allargato il campo del dibattito: una visione globale dei problemi si
sarebbe, o prima o poi, comunque imposta. All'alba del '900, già si vedevano
le premesse di quella che sarebbe stata una "teoria generale", capace di
predire i risultati sperimentali piuttosto che essere da questi indotta. I
punti di forza di questa vera e propria rivoluzione nelle Scienze della
Terra saranno costituiti soprattutto dalla geofisica e dalla moderna
stratigrafia. La geofisica vera e propria è scienza del '900. Nel secolo
precedente erano peraltro stati fatti tentativi di individuare le forze
motrici della dinamica terrestre, a partire dalle teorie chimiche del
solleva-mento, opera dei nettunisti, o dai "crateri di solleva-mento" del
catastrofista von Buch (1815). Se quest'ultima teoria ancora postulava forze
a direzione verticale, l'idea di una Terra evolutasi a partire da uno stadio
primordiale di completa fusione (idea che avrebbe finito per dominare tutto
il diciottesimo seco-lo), aveva suggerito a Léonce Élie de Beaumont (1829)
una spiegazione delle orogenesi basata su sforzi laterali, connessi a loro
volta con la contrazione della Terra per raffreddamento (la famosa immagine
della mela che si raggrinziva, disseccandosi). Verso la metà del secolo, uno
sviluppo della concezio-ne di Élie de Beaumont aveva portato l'americano
James Dwight Dana a sviluppare la sua teoria delle "geosinclinali", enormi
depressioni, corrispondenti agli oceani e frutto della contrazione primitiva
della Terra. Le geosinclinali erano aree stabilmente depres-se, che
avrebbero raccolto, dunque, tutti i sedimenti prodotti dall'erosione
subaerea; il proseguire della contrazione terrestre avrebbe determinato la
defor-mazione dei loro margini continentali e la nascita di catene di
montagne affacciate sull'oceano (gli Appa-lachi). Questa idea, più o meno
rimaneggiata e aggiu-stata, sarebbe sopravvissuta per almeno un secolo e non
è l'ultima delle ragioni della decisa opposizione degli americani alle
teorie di Wegener. Con Dana si sviluppa quella visione fissista della Terra
che non fu certo scalfita da episodiche ricostru-zioni mobiliste, ove i
continenti appaiono aver subito forti spostamenti laterali. Ma erano
considerate poco più che fantasiose produzioni di menti eccentriche, come la
cosmogonia biblica di quell'Antonio Snider Pellegrini che nel 1857 pubblicò
una ricostruzione della primitiva configurazione dei continenti,
sorprendentemente simile a quella che oggi chiamiamo la Pangea (il "Bullard's
fit") e postulò una apertura recente dell'Atlantico, "causa del Diluvio
biblico". Un tentativo molto più serio di sintesi in senso "mobilista" fu
fatto da Eduard Suess alla fine del secolo. Suess era nato a Londra da
famiglia boema ed aveva studiato a Vienna e a Praga, per divenire professore
di geologia a Vienna nel 1861. Il risultato dei suoi multiformi interessi e
studi (dalla paleontologia, alla tettonica, alla sismologia), fu un testo
che divenne famoso: Das Antliz der Erde (1883-1909), un'opera rivolta
proprio alle cause fisiche dei mutamenti fisio-grafici della Terra. L'aspetto
più innovativo è costi-tuito dal riconoscimento (frutto dello studio delle
Alpi) di fortissime compressioni laterali nelle catene montuose, capaci di
creare rotture nella crosta (le "faglie di carreggiamento"), con scorrimento
oriz-zontale e sovrapposizione dei lembi disgiunti. Ne derivava la mobilità
orizzontale delle masse con-tinentali sui versanti opposti delle catene
montuose, nozione questa che fu ampiamente sviluppata dai geologi della
scuola svizzera, primo fra tutti Émile Argand (nato a Ginevra nel 1879),
quando il traforo del Sempione (iniziato nel 1898) avrebbe fornito
sorprendenti conferme delle idee di Suess. Suess trasse dalla sua visione
mobilista anche conse-guenze più generali, fino ad arrivare alla
ricostruzio-ne di quel supercontinente paleozoico, formato dall'unione di
molti degli attuali continenti meridionali, che lo stesso Suess chiamò la
Terra di Gondwana e il cui significato fu in seguito ampliato a comprendere
anche Australia, America del Sud e Antartide. Si consolidavano così due
scuole opposte: quella mobilista, soprattutto europea continentale e frutto
dello studio delle Alpi, e quella americana, legata alle idee di Dana sugli
Appalachi e alle sue "geosinclinali" (vale forse la pena di ricordare, per
onor di cronaca, anche le idee "ultrafissiste" di Thomas C. Chamber-lin,
geologo del Wisconsin Geological Survey e poi professore di geologia a
Chicago, fino al 1918). In realtà, il classificare come "fissista" la scuola
americana (o piuttosto anglo-americana, come vedre-mo) rappresenta una
semplificazione eccessiva che porta a mascherare la vera portata della
problematica in atto. Il problema cui inglesi e americani erano interessati
era piuttosto quello della "natura" degli oceani: se la crosta oceanica
avesse avuto natura diversa da quella continentale, allora si sarebbe
dovu-ta definitivamente mettere da parte l'idea di periodici sprofondamenti
e sollevamenti dei continenti, ora sommersi, ora emergenti di nuovo. Il
concetto di continenti e oceani perfettamente "intercambiabili" era un
tipico concetto uniformista, huttoniano, che era stato reso popolare da
Lyell; il mondo anglosas-sone, sempre diffidente rispetto alla tradizione
unifor-mista, era predisposto ad accettare oceani con una storia propria e,
quindi, carattere di permanenza. Questo era il senso profondo della teoria
di Dana, ad esempio. Dunque, un problema eminentemente geofisico. E all'origine
di questa disciplina si trovano appunto due anglosassoni: il reverendo
Osmond Fisher in Inghil-terra e il geologo Clarence Dutton in America. Il
primo aveva pubblicato nel 1881 la sua Physics of the Earth's Crust, un'opera
che si può considerare come l'atto di nascita stesso della geofisica e che
contiene sorprendenti anticipazioni di teorie moder-nissime. Fisher contestò
la contrazione della Terra per raffreddamento come motore della formazione
delle grandi catene montuose (contestò anche le stime di Kelvin sull'età
della Terra, basate appunto sul raffreddamento) e postulò un interno del
pianeta caldo e relativamente fluido, con correnti convettive risalenti
sotto gli oceani (specialmente in corrispon-denza della dorsale
medio-atlantica) e in discesa sotto i continenti. Gli oceani erano il
prodotto di questa convezione, e in questo senso "permanenti", ma si
espandevano per aggiunta di nuove rocce vulcaniche al centro, mentre, per
converso, i continenti si corru-gavano ai margini. Dutton è il padre di un
concetto assolutamente basi-lare nella geologia globalista moderna: quello
dell'"equilibrio isostatico". Dutton pensava a continenti costituiti da
materiale leggero, galleggianti sulle rocce più dense dei fondi oceanici,
rispettivamente il "sial"e il "sima". E con il termine di "isostasia"
indicava la tendenza della crosta leggera e di quella pesante, a fronte di
erosioni o sedimentazioni, a stabilizzarsi a determinati livelli di
equilibrio in rap-porto alla gravità. L'aspetto importante, e foriero di
successivi sviluppi e ampliamenti, è quello del ricono-scimento di equilibri
dinamici. Anche qui un qualche aspetto di "permanenza", ma come
riaggiustamento dinamico, appunto. La scuola continentale europea,
soprattutto dell'area di lingua tedesca, aveva un approccio diverso: l'ac-cento
era posto di più sulle variazioni, rielaborando l'enorma massa di
osservazioni accumulate dalla geologia classica in tentativi di sintesi che
integrava-no diverse discipline, dalla tettonica, alla paleobioge-ografia,
alla paleoclimatologia. Non fa dunque mera-viglia l'apparente paradosso che
la prima sintesi veramente rilevante, quella di Wegener (1880-1930), ci sia
venuta proprio dal mondo tedesco: la geofisica anglosassone era ancora
troppo "normativa", vicina alla "fisica costruttiva", cioè all'approccio
caratteri-stico della fisica classica, per costituire la base cultu-rale per
un rovesciamento del metodo di lavoro della geologia, da una geologia
osservativa, induttivista e descrittiva, a una geologia delle idee generali,
dei modelli globali. Le basi analitiche geofisiche della sintesi di Wegener
erano fragili, ma la "necessità" generale del mobilismo continentale era
imposta proprio da una visione di insieme del patrimonio di conoscenze
accumulato dalla geologia. Wegener stesso non lo capì e dette nel suo lavoro
rilevanza maggiore al tentativo di giustifi-care preliminarmente, con
argomentazioni geofisiche dettagliate, quella che era stata in realtà una
intuizio-ne "a priori", confermata poi largamente dalla inte-grazione di una
massa enorme di indizi, provenienti da tutte le discipline delle Scienze
della Terra. Per questo fu, in pratica sconfitto: le sue idee saranno poi
ampiamente rivalutate, ma solo in un contesto cultu-rale assai diverso, ove
il riduttivismo metodologico ottocentesco era stato ormai sostituito da una
cultura della complessità. Non è il caso di dilungarci qui sull'apporto
scientifico di Wegener, su cui è stato scritto tantissimo negli anni della
sua rivalutazione. Basti pertanto ricordare le date principali della
divulgazione della sua "deriva dei continenti" (in realtà "Verschiebung der
Konti-nente" significa piuttosto "spostamento" dei conti-nenti): la prima
presentazione in una conferenza a Frankfurth a.Mein, nel 1912; la
pubblicazione di due lavori intitolati Die Entsteghung der Kontinente,
sempre nel 1912; le numerose edizioni del più famoso Die Entstehung der
Kontinente un Ozeane, dal 1915 al 1929 (le ultime due postume). Sviluppando
idee già sostenute da geofisici come Fisher e Dutton, Wegener (che era lui
stesso profes-sore di metereologia e geofisica a Graz) rifiutò deci-samente
l'ipotesi stravagante (di moda fino a buona parte del '900) dei "ponti
continentali" per spiegare le somiglianze paleofaunistiche sulle sponde
opposte dell'Atlantico e di altri oceani; ricostruì il supercon-tinente
tardo-paleozoico detto Pangea e ne periodizzò la dispersione, a formare i
continenti attuali, nel corso del Mesozoico e fino al presente; postulò
collisioni continentali, come quella dell'India con la massa eurasiatica,
all'origine delle catene intracontinentali. Nonostante tutte le apparenze
dei suoi scritti, Wege-ner sapeva perfettamente che il suo non era un
approc-cio ortodosso, di tipo classico, perché era certo che le cose
dovevano essere andate proprio così, anche se la complessità del problema
non permetteva ancora di definire i meccanismi elementari alla base del
proces-so: "Il Newton della teoria della deriva non è ancora apparso.... E'
probabile che la soluzione completa del problema sia ancora lontana a
venire, perché significa districare un groviglio di fenomeni interdipendenti
in cui spesso è difficile distinguere la causa dall'effetto". Anche se all'inizio
avversata da molti geologi e accolta con un certo interesse, invece, dai
geofisici, a partire dal 1922 furono soprattutto i geofisici inglesi ad
attaccare frontalmente quelle che Wegener stesso aveva imprudentemente
voluto presentare come le "basi analitiche" della sua teoria. Tra i suoi
accaniti demolitori, ricordiamo qui soltanto, a titolo di esem-pio, Philip
Lake e la sua recensione critica sul Geolo-gical Magazine del 1922; ed anche
Sir Harod Jeffreys (ritenuto il fondatore della geofisica matematica) e le
veementi critiche contenute nel suo trattato The Ear-th, its Origin, History
and Physical Constitution, del 1926. Il simposio dell'American Association
of Pe-troleum Geologists, tenutosi a New York nel '26, fu l'inizio dello
schierarsi a fianco dei geofisici inglesi della quasi totalità dei geofisici
ed anche dei geologi americani: Charles Schuchert, di Yale, il geologo
strutturale Bailey Willis, il geologo R.T. Chamberlin, e con loro tanti
altri. Il succo delle critiche è ben esemplificato da questo brano di E. W.
Berry, che ne riassume il contenuto essenzialmente metodologico: "[Il metodo
di Wegener], a mio parere, non è scienti-fico; segue il corso familiare di
un'idea iniziale, con una ricerca selettiva nella letteratura esistente di
prove a favore, ignorando la maggior parte dei dati in contrasto con l'idea
stessa e terminando in uno stato di auto-ebbrezza in cui l'idea soggettiva
giunge ad essere considerata un fatto oggettivo". Berry aveva parzialmente
ragione sul metodo, in quanto è proprio questo il metodo di Wegener, ma
bisogna dire che lo presenta in modo arbitrariamente ed emotivamente
negativo, anche se trascuriamo il fatto che nel merito aveva torto. Wegener
ebbe anche sostenitori che lo appoggiarono, anche se talora con alcune
varianti, come l'americano A. Daly, nella sua Our Mobile Earth del 1926, il
geologo strutturalista inglese E. B. Bailey e, soprat-tutto, il geologo e
petrografo Arthur Holmes (che propose, per la "deriva", meccanismi assai più
con-vincenti di quelli di Wegener) e il sudafricano Alex du Toit, noto
soprattutto per il libro Our Wandering Continents. Ma le critiche a Wegener
si rafforzarono ulteriormente dopo la sua morte, soprattutto in Ame-rica: vi
intervennero il paleontologo Simpson, ancora nel 1943, di nuovo Bailey,
nello stesso anno, insieme a molti altri. Tanto che ad un simposio
organizzato a New York dalla Società per lo studio dell'evoluzione, nel
1949, solo tre partecipanti su 17 si schierarono dalla parte della deriva.
In conclusione, negli anni '50 la deriva dei continenti veniva ricordata
nelle lezioni universitarie, anche in Europa, come una stravaganza da
menzionare solo per amor di cronaca. Aveva finito dunque per prevalere il
lapidario giudizio di Bailey che nel 1943 aveva definitivamente sentenziato:
"la teoria della deriva dei continenti è una favola (ein Märchen)". La
seconda guerra mondiale segna una decisa svolta rispetto a questi problemi.
Lo sviluppo di nuove strumentazioni, anche per esigenze belliche, dette il
via a ricerche assolutamente rivoluzionarie. Il gruppo di Blackett dell'Imperial
College di Londra e quello di Runcorn, Creer e Irving di Cambridge giunsero
a risultati concordanti, verso la metà degli anni '50, circa il
paleomagnetismo delle rocce, che indicava un apparente spostamento dei poli
nel corso dei tempi geologici. Runcorn, nel 1956, dimostrò che i poli
apparenti, se misurati in continenti diversi, non mo-stravano lo stesso
percorso storico. Ciò implicava spostamenti differenziali dei continenti. La
geofisica era diventata ora la solida base di teorie mobiliste. E questo fu
sanzionato dal gruppo di Blackett, in una celebre comunicazione sui
Procee-dings della Royal Society of London del 1960. La geofisica americana
dette il contributo determi-nante agli ulteriori sviluppi delle conoscenze.
Nuove tecniche analitiche furono sviluppate. Le grandi cam-pagne
oceanografiche degli anni 60-70 servirono alla integrazione di tutti le
metodologie di ricerca, da quelle geofisiche a quelle geocronologiche e
biostratigrafiche. Con la conferma della espansione dei fondi oceanici e
dell'esistenza di correnti convettive nel mantello, poteva nascere la
moderna teoria globale della dinamica terrestre, nota ormai a tutti col nome
di "tettonica a placche". Furono F. J. Vine, che era stato allievo di
Bullard a Cambridge, e D.H. Matthews, suo supervisore, a pubblicarne per
primi le basi nel 1963, in un famosissimo articolo su Nature. Che si sia
trattato di una vera e propria rivoluzione, una rottura drastica col
passato, è dimostrato dalla sorte subita da un articolo di Lawrence Morley,
un paleomagnetista del Geological Survey of Canada, che era giunto ad
analoghe conclusioni. Inviato al Journal of Geophysical Research, l'articolo
di Mat-thews fu respinto con questo laconico commento: "É il tipo di cose di
cui si potrebbe parlare a una festa ma su cui non si scrive un articolo". La
teoria della tettonica a placche è ormai nota, e non è il caso di
riassumerla qui. Ma è importante sottoli-neare come non si debba pensare a
questa teoria solo come ad una postuma riabilitazione di Wegener. Non può
essere ridotta al mobilismo continentale ed alla espansione dei fondi
oceanici. É qualcosa di molto di più (anche se Wegener ne ha aperto la
strada, in tempi tutt'altro che favorevoli): è un nuovo modo di pensare nell'ambito
delle Scienze della Terra. Ma qual è l'aspetto più rivoluzionario delle
nuove teorie? Sembrerebbe proprio quello metodologico: il carattere, cioè,
integrato del processo di formazione della teoria generale. Da questo deriva
il fatto che la moderna teoria geodinamica non ha soltanto una funzione
esplicativa dei fatti osservati, ma è soprat-tutto strumento di predizione
negli esperimenti e nelle ricerche che possono essere immaginate. In questo
senso, è la prima volta che la geologia può definirsi scienza sperimentale.
Siamo passati, potremmo dire parafrasando il titolo di un bel libro di M.
Cini (1984), dall'"universo delle leggi di natura al mondo dei processi
evolutivi". Se la geofisica ha fornito le leggi generali e la dinami-ca dei
fenomeni, la stratigrafia li ha collocati entro precise coordinate spaziali
e temporali, permettendo di ricostruirne la cinematica. Senza la
stratigrafia la sintesi che abbiamo sopra delineato non sarebbe potuta
avvenire. E' intorno agli anni '30 di questo secolo, col nascere della
moderna industria petrolifera, che la stratigrafia classica comincia ad
entrare in crisi. I pozzi petroli-feri si contano a migliaia (72.000 km di
sedimenti perforati in un anno solo in U.S.A. e in Canada) ed i problemi di
correlazione si pongono su nuove basi, anche per l'allargarsi a scala
globale delle esigenze di una industria divenuta ben presto multinazionale.
Il rinnovato interesse per la stratigrafia induceva fin dal 1933 l'americano
Ashley ed i suoi collaboratori a stendere un nuovo "Codice Stratigrafico". E
subito dopo, un gruppo di stratigrafi dell'Università di Stan-ford si mise
all'opera per rivedere le stesse basi teoriche della stratigrafia classica.
Ricordiamo che, per quest'ultima (almeno fino a tutto l'800), litologia,
contenuto fossilifero ed età delle rocce finivano per coincidere e che le
unità stratigrafiche relative a questi diversi aspetti dei depositi
sedimentari coesistevano ed erano tra loro più o meno intercambiabili. Non
che non fossero stati fatti tentativi in senso diverso. Ma contributi che
vennero poi ampiamente valorizzati in seguito, avevano avuto scarsa
influenza sui contemporanei, come la enucleazione del concetto di facies da
parte dello svizzero Amanz Gressly (1838), caduta praticamente nel vuoto
(almeno per i suoi aspetti più innovativi), in pieno clima nettunista; o la
formulazione della "Legge di Correlazione delle Facies" (nota soprattutto
come "Legge di Walther") da parte del tedesco Johannes Walther (1894), che
implicava, tra l'altro, la mancanza di parallelismo tra superfici isocrone e
limiti litologici. La Legge di Walther recita testualmente: "Possono
trovarsi so-vrapposte in continuità di sedimentazione soltanto quelle facies
che si depongono attualmente in ambien-ti contigui". E' assolutamente
sorprendente, per il suo carattere esplicitamente "predittivo", la modernità
di questa formulazione. La "Legge di Walther" è entrata a far parte, a pieno
titolo, della moderna geologia. Ai suoi tempi, essa non fu pienamente
compresa, soprattutto in America, dove ancora nel 1934 Caster proponeva una
classificazione in cui le unità litologiche maggiori (denominate
"magnafacies"), erano delimitate da su-perfici che, pur corrispondendo a
regressioni e tra-sgressioni, venivano tuttavia considerate isocrone. I
risultati del lavoro del gruppo di Stanford furono pubblicati da Schenk e
Muller nel 1941. L'aspetto più innovativo del nuovo codice è la rigorosa
distinzione tra unità stratigrafiche che sono il frutto di osserva-zione
diretta e sono quindi basate sui caratteri osser-vabili delle rocce
(litologia, contenuto paleontologi-co), e unità che discendono da inferenze
e deduzioni (unità deduttive), in quanto implicanti stime temporali. Dopo la
seconda guerra mondiale, la Commissione Nord Americana per la Nomenclatura
Stratigrafica (U.S.A., Canada, Messico) raffinò ancora questi concetti,
soprattutto per quanto riguarda la definizio-ne formale e la tipizzazione
delle singole unità, pub-blicando una serie di Rapporti a partire dal 1947 e
concludendo i suoi lavori con l'American Strati-graphic Code del 1961 e del
1970. A seguito della pubblicazione dell'International Stratigraphic Guide
del 1976, il lavoro fu ripreso da una seconda Commis-sione, tra il '78 e l'82.
Il risultato è l'attuale North American Stratigraphic Code. Può essere
significativo ricordare che la prima ado-zione in Italia di un codice simile
è del '93 e che, non esistendo un codice internazionale riconosciuto
uni-versalmente, i geologi di molte nazioni sono restati ancora praticamente
vincolati ai concetti della strati-grafia classica (ad esempio, in Svezia).
Ma ormai quello che Kuhn chiamerebbe il nuovo "paradigma" è stato
introdotto. La nuova stratigrafia ha ricomposto quella antinomia tra
uniformità delle leggi naturali ed episodicità dei fenomeni, in nome della
quale si erano scontrate generazioni di geologi "classici". Attraverso la
ricerca di regolarità fisiche nella intrinsecamente discontinua
documentazione stratigrafica, la moderna stratigrafia opera la
trasfor-mazione del discontinuo in continuo, della concreta documentazione,
spazialmente puntiforme e local-mente difforme, in astratte scale temporali
continue. É questo il senso, in particolare, della "stratigrafia
sequenziale", una metodologia che è stata introdotta per la prima volta da
Vail e da altri autori fin dalla metà degli anni '70 per interpretare le
ricorrenti regolarità in successioni sedimentarie diverse. Questo tipo di
analisi stratigrafica (che ingloba anche concet-ti già espressi da Walther)
si basa sui rapporti spaziali tra corpi geologici contigui, sulla geometria
delle relative stratificazioni e sulla loro composizione, per ricostruire
successivi cicli sedimentari, controllati da variazioni globali del livello
marino. In questo contesto, il riconoscimento di cicli sedimen-tari
correlabili alla scala di tutta la Terra fornisce anche uno strumento di
datazione relativa e la stessa distinzione rigida tra unità stratigrafiche
osservative e deduttive viene a perdere il suo significato
metodo-logicamente provocatorio e già tende ad esser messa da parte. Anche
lo strumento classico di datazione puntiforme, la paleontologia, proprio
perché per sua natura pun-tiforme, non serve più alla moderna stratigrafia.
La paleontologia migliore ha cessato di essere un sempli-ce strumento di
lavoro dei geologi ed è tornata parte della biologia (si pensi a nomi come
Simpson, Elredge, Gould). Mentre è patrimonio indispensabile del moderno
geologo la biostratigrafia, intesa come stru-mento di misura relativa di
intervalli di tempo, mar-cati o separati da specifici eventi biologici;
strumento, dunque, indispensabile ai fini della costruzione di una scala di
riferimento temporale che può essere con-frontata e integrata con scale
diverse, basate su fenomeni fisici cronologicamente identificati. E que-sta
trasformazione del discontinuo in continuo impli-ca metodologie rigorose,
quasi sempre anche stru-menti matematici. Quantunque in ritardo sulle altre
Scienze, anche la geologia, dunque, ha decisamente imboccato una strada
nuova: quella delle leggi generali, del modello globale, da cui ricavare
rigorosi progetti di verifica sperimentale. Diremmo dunque, parafrasando
Einstein, una "Geologia dei Principi". I moderni geologi sono certamente
debitori di questo atteggiamento mentale, almeno in gran parte, ai fisici.
Quantunque il termodinamico Kelvin avesse torto nel merito delle sue
asserzioni, certamente la sua lezione metodologi-ca, anche se spesso nella
forma di una avversione preconcetta, non è comunque andata persa.
Marco Tongiorgi
Riferimenti bibliografici
Vengono qui riportati solamente alcuni testi generali di storia della
Geologia, dai quali sono tratte anche quasi tutte le citazioni nel testo e
ai quali si rimanda.
Eiseley, L., 1981 (2a edizione italiana) Il secolo di Darwin. L'evoluzione e
gli uomini che la scoprirono. Einaudi (I fatti e le idee - Saggi e
biografie: Storia della Scienza) 324 pag. Hallam, A., 1979 (6a edizione
italiana) Una rivoluzione nelle scienze della Terra Zanichelli 160 pag.
Hallam, A., 1987 (edizione italiana) Le grandi dispute della Geologia. Dalle
origini delle rocce alla deriva dei continenti Zanichelli (Le Ellissi) 191
pag. Porter, R., 1993 (seconda edizione) La geologia dalle origini alla fine
del XVIII secolo In: Storia delle scienze, Natura e vita. 3: Dall'antichità
all'Illuminismo (a cura di F. Abbri e R. G. Mazzolini). Einaudi pag.
550-589. Porter, R., 1994 (seconda edizione) La geologia dall'Ot-tocento ai
giorni nostri In: Storia delle scienze, Natura e vita. 4: L'età moderna (a
cura di P. Corsi e C. Pogliano). Einaudi pag.16-47. Per l'impostazione
interpretativa (specialmente per i riferimenti alla storia della Fisica), si
vedano anche: Cini, M., 1988 Dalla cultura del macchinismo alla cultura
della complessità Epsilon, 1pag. 6-11. Cini, M., 1994 Un paradiso perduto.
Dall'universo delle leggi naturali al mondo dei processi evolutivi
Feltrinelli (Campi del sapere) 309 pag. Alcuni spunti storici minori si sono
trovati anche in: Desmond, A.J., 1979 (prima edizione italiana). L'enigma
dei Dinosauri. Rettili o animali a sangue caldo? Newton Compton (Paperboocks
ricerca. Scienze, 18) pag. 295 Krumbein, W. C. & Sloss, L. L., 1979 (seconda
edizione italiana a cura di Jacobacci A., Chiocchini U. & Valletta, M.)
Stratigrafia e sedimentazione C.E.R., Centro Edito-riale Romano pag. 499
Hotels Positano, sito dedicato a Positano
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