INTRODUZIONE
*Si potrebbe intendere per "letteratura latina"
l'insieme delle opere d'intento letterario scritte in latino. Ma questa
definizione è eccessivamente vasta e comprende, di fatto, varie letterature
differenti l'una dall'altra. L'uso letterario del latino, che comincia ad
affermarsi nel corso del III sec. a.C., è destinato infatti a svilupparsi
ininterrottamente da allora in poi. Esiste così una letteratura latina
moderna, che fa direttamente seguito a quella dei secoli precedenti. Ma è del
tutto evidente che essa non presenta i medesimi caratteri della letteratura del
periodo di Cicerone o di Augusto, così com'è certo che la letteratura in lingua
latina d'ispirazione cristiana forma, a sua volta, un settore a sé stante: le
sue radici, essenzialmente orientali, e il suo fine, di edificazione e
conversione, la distinguono dalla letteratura "pagana", il cui spirito è del
tutto diverso. Infine, ultima distinzione, andrebbero considerate a parte,
anche all'interno della letteratura antica e "pagana", le opere composte tra il
III sec. a.C. e il III o, al massimo, il IV della nostra era. Nel corso di
questo periodo, infatti, si manifestano possibilità di rinnovamento che, più
tardi, spariranno; la tradizione corre ininterrotta dalle origini; le opere sono
direttamente accessibili, se non a tutti, almeno a quanti hanno acquisito i
rudimenti della cultura. *Senza dubbio si può riconoscere, da alcuni indizi,
che a partire da questo momento la letteratura tende a divenire materia di
scuola, dunque a sclerotizzarsi; ma tale sclerosi diventerà totale solo nel
periodo seguente. Fino a che sopravvive, tra gli autori, il sentimento di
partecipare a una cultura "romana", è possibile ammettere ancora l'esistenza di
una letteratura latina, nel significato in cui, qui, l'intendiamo. Questa
letteratura, infatti, è essenzialmente quella di Roma, della Roma repubblicana e
conquistatrice, della Roma imperiale e trionfatrice. E’ animata dallo spirito
romano, celebra la gloria di coloro che sono divenuti, con molte sofferenze, i
padroni del mondo: ma si sforza anche di definire i valori fondamentali sui
quali poggia questa conquista; segue, e talvolta anticipa, l'evoluzione
intellettuale, contribuendo in questo modo alla formazione di una civiltà
originale, quale appunto fu quella di Roma. Sarebbe dunque allettante
chiamarla "romana", più che "latina", se anche questa definizione non
rischiasse, a sua volta, di creare confusione. Tra coloro che hanno contribuito
a formarla, com'è noto, pochi autori furono romani di Roma: fin dal principio
sono dei sudditi o degli alleati coloro che compongono le prime opere e, via via
che la conquista avanza, si vedono provinciali, i barbari della vigilia,
arricchire la letteratura dei loro vincitori. Il che lascia intravedere come
questa letteratura sia in realtà il prodotto di una convergenza tra uno stato
sociale e politico e uno stato linguistico, tra la città romana e la lingua
latina. Ciò che dobbiamo tentare di cogliere e definire è una letteratura di
lingua latina e di ispirazione romana. Si capisce, allora, perché essa potesse
nascere soltanto nel momento in cui, simultaneamente, si trovarono realizzate le
due condizioni che le erano necessarie, e perché, inoltre, non potesse
sopravvivere alla scomparsa di una delle due. *Alla sua nascita, era
necessario che Roma fosse già affermata e sufficientemente forte come centro
politico, e che la lingua latina avesse acquistato flessibilità e ricchezza
sufficienti. Al momento del suo declino, fu il crepuscolo dell'Impero, la
scomparsa dei valori tradizionali che ne compromisero definitivamente il
vigore. Alla metà del III sec. a.C., il mondo greco è all'apogeo della
civiltà ellenistica. Il tempo dei diretti successori di Alessandro (i diadochi)
è finito da una cinquantina d'anni, i re della seconda generazione hanno
consolidato stabilmente il loro dominio, l'ellenismo si è diffuso nelle regioni
interne dell'Asia, la cultura greca, estesa, separata persino da quanto un tempo
l'aveva strettamente unita alla polis, si impone come il modello per eccellenza
di ideale umano. In questa cultura che si irradia fino a raggiungere l'Occidente
mediterraneo, con le colonie della Magna Grecia, in Italia, con Siracusa,
prospera e splendida sotto Gerone II, in Sicilia e con le più lontane colonie
raggruppate intorno a Massalìa (Marsiglia), la letteratura resta un elemento
essenziale. Per un verso essa conserva, con le opere dell'ellenismo classico,
il tesoro comune dei poeti, dei filosofi e degli storici. Ma non è rivolta solo
verso il passato: i poeti contemporanei tentano di rinnovare la creazione
letteraria, e vi riescono con quella che noi oggi chiamiamo letteratura
"alessandrina" (perché si sviluppò soprattutto intorno ad Alessandria, la
capitale dei Tolomei). Callimaco, il più grande dei poeti alessandrini, è il
rappresentante per eccellenza di questa nuova estetica di poesia colta, dalla
forma perfetta, che ai lunghi poemi preferisce le brevi composizioni, che usa la
materia dei miti tradizionali, ma nelle varianti più rare. Accanto a lui,
Teocrito, siciliano di nascita, che dà dignità letteraria al genere popolare del
canto "bucolico", e trasforma in miniature preziose le improvvisazioni dei
bovari e dei caprai. Infine, Apollonio Rodio, autore di una lunga epopea sulle
avventure di Giasone e dei suoi compagni. Le sue Argonautiche eserciteranno, due
secoli più tardi, un'indubbia influenza sull'Eneide. D'altro canto, il teatro
resta molto vitale. Non c'è città greca che non abbia il proprio teatro, dove in
genere vengono riprese le grandi opere del repertorio classico (quelle di
Euripide, soprattutto), ma modificate per adattarle al gusto contemporaneo: si
conserva il dialogo, ma i cori sono sostituiti da canti che non hanno più alcuna
relazione con l'azione drammatica. Rispetto al passato, spettacolo e messa in
scena sono più evoluti, e le nuove rappresentazioni che i poeti compongono sono
conformi a queste tendenze. La letteratura ellenistica si propone come fine
l'esaltazione degli dèi e, tramite questi, dei nuovi "eroi" che reggono il
mondo. Ad Alessandria, naturalmente, celebra i Tolomei, altrove Antigono Gònata,
le cui vittorie sui rivali sono glorificate anche dagli scultori (come nel caso
dell'autore della Vittoria di Samotracia). La tradizione omerica, continuata
in epoca classica dagli epinici di Pindaro, ispira ancora quella che è talvolta
chiamata letteratura di corte: la "Chioma di Berenice", scritta da Callimaco, ne
è l'esempio più compiuto. Questa costante attenzione per la gloria ispirerà
anche i primi poeti romani che, in una certa misura, sono essi stessi
"ellenistici", se non propriamente "alessandrini". *Verso la metà del III
sec., Roma conclude vittoriosamente la prima guerra contro Cartagine. La potenza
punica, che fino a quel momento occupava gelosamente il bacino occidentale del
Mediterraneo e limitava verso est l'espansione ellenistica, si trova indebolita
e deve retrocedere, abbandonando a Roma la zona del mare Tirreno e ai focesi,
alleati di Roma, quella della Liguria e della Spagna settentrionale. Roma, la
cui parentela con i popoli e le città elleniche è avvertita da molto tempo (la
prima testimonianza certa, quella di Aristotele, risale a circa un secolo prima,
ma la tradizione era certamente più antica e voleva che Roma appartenesse al
gruppo di città la cui fondazione si collegava ai "ritorni" dei combattenti di
Troia), non consentì, certo, di rinnovare l'influenza politica dei greci
sull'Occidente, ma favorì, talvolta inconsciamente, talaltra anche però
consapevolmente, l'espansione della loro cultura anche all'interno del proprio
dominio. Una testimonianza di questa simbiosi è costituita, appunto, dalla
nascita di una letteratura di lingua latina. E’ certo che la letteratura latina
è figlia della letteratura greca, ma non dobbiamo credere che, inizialmente,
essa non sia stata altro che una copia maldestra, scolastica, delle opere
greche. Le sue composizioni sono una trasposizione, rispondente ai bisogni
culturali propri di Roma, più della funzione che della materia di quelle opere
che i romani vedevano vivere all'interno del mondo greco. Si creano, così, delle
epopee e un teatro tragico, che tenderanno a fissare, per Roma, un passato
mitico; la stessa commedia si svilupperà intorno a valori morali e sociali, come
faceva, in Grecia, da tre quarti di secolo, la "commedia nuova". La prosa,
quella degli storici, dei legislatori, dei giuristi, degli oratori, si integrerà
anch'essa allo spirito della città, e l'imitazione dei grandi prosatori greci
non sarà una schiavitù sterile, al contrario. E’ vano voler opporre una
Grecia creatrice a una Roma che ne sarebbe soltanto l'imitatrice servile: la
creatività si sussegue, dall'uno all'altro campo, tanto che l'anteriorità della
letteratura greca spiega solo come quella di Roma abbia potuto svilupparsi così
rapidamente e prendere una sorta di scorciatoia per giungere alla
perfezione.
LA POESIA ARCAICA *E’ con la poesia che ha inizio la
letteratura latina. Essa fa i suoi primi passi contemporaneamente con l'epopea e
col teatro. Molteplici sono le ragioni che presiedono a questo sviluppo: alcune
sono da ricercare nella situazione della letteratura greca contemporanea, nel
ruolo giocato insieme dalla tradizione omerica e dalle rappresentazioni teatrali
nella cultura ellenica; altre, invece, dipendono da condizioni proprie di
Roma. Prima della letteratura scritta era esistita una letteratura orale, i
cosiddetti "carmina convivalia", canti recitati da giovani, durante i banchetti,
per elogiare i grandi uomini del passato. L'influenza della civiltà etrusca
aveva diffuso la conoscenza dei miti greci che si erano fusi con le leggende
popolari. Abbiamo un'eco di questo repertorio preletterario nei dipinti delle
necropoli etrusche arcaiche. E’ molto probabile che il più antico passato di
Roma sia divenuto dunque, assai presto, materia "letteraria": antenati delle
gentes, re, e soprattutto Romolo, il fondatore della città, tutti dovevano
figurare, con le loro imprese, in questi rudimentali poemi. Il metro
utilizzato era probabilmente il "verso saturnio" (così chiamato a causa della
leggenda secondo cui il dio Saturno sarebbe stato il primo mitico re del Lazio),
del quale tuttavia non conosciamo che forme relativamente tarde e già
"letterarie". Sembra che fosse composto di due membri ineguali, il primo formato
in genere da tre parole (di due sillabe le due prime, di tre la terza), il
secondo comprendente invece due parole di tre sillabe ciascuna (secondo il
modello tramandatoci dal primo verso dell'Odyssia di Livio Andronico: Virum,
mihi, Camena / insece versutum (Narrami Camena, l'uomo dalle mille imprese);
esistevano tuttavia altre combinazioni possibili, come risulta ad esempio dal
verso di Nevio: Fato Metelli Romae / fiunt consules (Al fato si deve se a Roma i
Metelli diventano consoli), nel quale c'è una differente ripartizione delle
parole di due e tre sillabe. La recitazione veniva accompagnata con la lira,
che scandiva il metro. L'influenza esercitata da questi "canti conviviali" sulla
letteratura latina non si lascia cogliere agevolmente. Un tempo si supponeva che
essi avessero costituito la prima forma di storia e contribuito a formare le
leggende che i critici moderni amavano, in passato, denunciare nella tradizione
degli storici posteriori (soprattutto in Tito Livio). Oggi si è concordi nel
ridurne l'importanza, e nel ritenere che si siano sviluppati ai margini della
storia, senza peraltro sostituirsi ad essa. E’ certo, tuttavia, che essi hanno
preparato le varianti nazionali di due generi greci: l'epica romana e la fabula
praetexta, rappresentazione drammatica che fa dei romani stessi i nuovi eroi
della scena.
IL TEATRO ROMANO L’ORIGINE DEL TEATRO ROMANO.
Il teatro romano prende origine dalle tradizionali feste religiose etrusche
e in particolare dalla recitazione degli attori etruschi. Sempre agli etruschi,
o meglio alla città etrusca di Fescennium, è inoltre riconducibile anche la
festa campestre fescennino nella quale si rinvengono gli stessi elementi
drammaturgici propri alle rappresentazioni che si svolgevano nella città osca di
Atella, denominate per questo atellane. Ben presto però, intorno al 240 a.C. in
occasione dei Ludi Romani, in seguito ai contatti con la civiltà greca si
cominciarono a rappresentare a Roma drammi sul modello greco, che finirono col
fondersi con le altre forme drammaturgiche preesistenti. Il retaggio delle
antiche forme di spettacolo si rinviene nello spirito e nel gusto per il
divertimento, per il motto scherzoso in cui sono presenti oltre che i riti
etruschi anche il motteggio sfrenato di quell’antica città osca, Atella, terra
delle farse atellane. Niente più che un retaggio comunque e inevitabilmente
proprio a causa della loro natura basata sull’improvvisazione, sulla battuta di
scherno, senza che ci fosse alcuna testimonianza o documentazione
scritta.
GLI AUTORI E LE OPERE. La mancanza di testi scritti ha reso difficile una ricostruzione certa
dello sviluppo della drammaturgia latina. Del resto i generi drammaturgici più
antichi, fondamentali per stabilire l’origine della drammaturgia latina, non
prevedevano proprio per tipologia, l’esistenza di un testo e tanto meno di un
autore. Per questo convenzionalmente la data di inizio della letteratura latina
è stata fissata intorno al 240 a.C., anno a cui risalgono cioè le traduzioni e
gli adattamenti di derivazione greca di Livio Andronico. Anche del suo
contemporaneo Gneo Nevio, a parte il fatto che anche lui si "occupava" di teatro
si sa poco altro. I primi autori di cui ci siano rimasti gli scritti
sono: Tito Maccio Plauto Publio Afro Terenzio che, a differenza dei
loro predecessori che non si specializzarono in un genere in particolare,
scrissero solo commedie. Altri autori romani di commedie nel II I secolo a.
C. sono: Titinio Afranio Atta Autori romani di tragedie sono:
Cecilio Stazio (230 - 220) Quinto Ennio (239 - 189) Pacuvio (220 -
130) Lucio Accio (170 - 85) Accanto a questa produzione, che potremmo
definire aulica, si mantenne una produzione minore oltre ai consueti spettacoli
romani: le corse dei carri, i combattimenti dei gladiatori, venationes e
naumachie.
IL FESCENNINO. Il Fescennino é una festa celebrata in
occasione delle scadenze principali della vita contadina (la vendemmia, la
raccolta del grano ecc.) era improntata sullo scherno, e la canzonatura degli
altri vendemmiatori o mietitori. L’etimologia del termine sembra infatti poter
risalire anche al latino fascinatium, malocchio, quello gettato agli altri carri
incolonnati e carichi di uva in occasione della vendemmia. Da tali atteggiamenti
e dalle caratteristiche di questa festa popolare ha preso origine la
drammaturgia latina.
L’ATELLANA. Per atellane si intendono le
improvvisazioni di breve durata (forse addirittura semplici chiusure delle
rappresentazioni) di contenuto farsesco che si rappresentavano ad Atella, città
osca della Campania. Le rappresentazioni erano caratterizzate dalla presenza di
personaggi fissi con proprie maschere e propri costumi. Il genere dell’Atellana,
di probabile derivazione dalla farsa fliacica, fu introdotto a Roma nella prima
metà del III secolo a.C.. Le Atellane riproponevano quattro personaggi fissi
in tutte le rappresentazioni: Pappus, il vecchio sciocco; Maccus, il tipo
dello scemo maltrattato; Dossenus, il gobbo furbo e imbroglione; Bucco,
insaziabile e maleducato. Tali personaggi avevano anche una loro maschera e
un loro costume caratteristico.
IL MIMO. Il mimo era una forma
drammaticata di breve durata che in alcuni casi si trasformava in spettacolo
vero e proprio. Molto amato dai romani questo genere rifletteva il gusto del
tempo incline alla violenza e alle scene di lotta.
LA COMMEDIA ROMANA.
La commedia romana sembra non discostarsi minimamente dalla commedia nuova
greca, se non che per poche innovazioni: l’eliminazione del coro (ripristinato
solo successivamente dagli editori); l’introduzione dell’accompagnamento
musicale, peraltro probabile retaggio della tradizione etrusca. Questo tipo
di commedia veniva definita fabula palliata. Accanto a questa ne esisteva anche
un altro la fabula togata, di contenuto e ambientazione romana.
LA
TRAGEDIA ROMANA. Il genere della tragedia, molto apprezzato dal pubblico, fu
completamente ripreso dai modelli greci e definito dai romani fabula crepidata.
Gli unici autori di cui si abbia memoria (ma non i testi) sono Quinto Ennio (239
- 189), Marco Pacuvio (c.220 - c.132) e Lucio Accio (170 - c. 90). Le tragedie
romane che ci sono pervenute risalgono ad un periodo successivo, compreso tra il
30 e il 60 d.C., per lo più opera di Seneca.
GLI ATTORI. La professione
dell’attore godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia, ma certamente
non a Roma, dove sembra venisse demandata agli schiavi che erano al servizio del
direttore della compagnia. Questo fu quasi certamente vero almeno fino a quando
Roscio, il più grande attore della romanità, non riuscì a riabilitare tale
professione. Gli attori comunque si dividevano in due categorie principali gli
histriones e i mimi.
I COSTUMI. I costumi cambiavano a seconda del genere
teatrale: commedia, tragedia e atellana. Per tutte le rappresentazioni di
ambientazione greca gli attori vestivano abiti ateniesi, mentre per quelle di
ambientazione romana indossavano la classica toga romana.
LE MASCHERE.
Le maschere romane, sul modello di quelle greche, erano di tela con
applicata una capigliatura. L’uso delle maschere facilitava l’interpretazione
degli attori che dovevano impersonare più ruoli o personaggi di aspetto simile
(I Gemelli o l’Anfitrione di Plauto). Nel teatro dei mimi la maschera invece non
esisteva, e vista la popolarità di questo genere man mano la maschera scomparve
dal teatro romano.
LA MUSICA. La musica all’interno delle
rappresentazioni romane aveva un ruolo fondamentale, che veniva svolto da un
suonatore di flauto a due canne lungo circa 50 cm.. L’accompagnamento del
musico aveva delle convenzioni rigide (il pubblico era in grado di capire il
personaggio che sarebbe entrato, o casa sarebbe accaduto dalla sola musica di
introduzione) e accompagnava lo spettacolo dall’inizio alla fine spostandosi, a
volte, insieme ai personaggi.
GLI SPETTATORI.
Gli spettatori romani prediligevano rappresentazioni cruente con scene di
violenza, spesso realistiche. In occasione delle feste per l’inaugurazione
dell’anfiteatro Flavio (Colosseo), per esempio, durante le rappresentazioni
avvenne che nelle scene di crocifissione lo schiavo cristiano si sostituì
all’attore e quindi moriva realmente. Caratteristiche di verosimiglianza e di
violenza completamente inesistenti, invece, nel teatro greco.
L’EDIFICIO
SCENICO. I romani cominciarono a costruire veri e propri edifici teatrali soltanto
nel 30 a.C., prima di questa data le strutture che ospitavano gli spettacoli
erano provvisorie appositamente costruite per i diversi eventi. I primi teatri
stabili, comunque, riproducono più o meno la struttura dei teatri greci anche se
con alcune modifiche. La passione dei romani per generi di spettacolo molto
importanti e "ingombranti", rese ben presto necessaria la creazione di luoghi
adeguati che potessero ospitarli. Tale necessità è evidentemente all’origine
della ideazione e costruzione degli Anfiteatri il cui maggiore esempio è per
tutti l’Anfiteatro Flavio da tutti conosciuto con il nome che gli venne dato
durante il Medioevo di Colosseo.
LE SCENE. Le notizie relative alla scenografia romana si basano sulle testimonianze
del trattatista latino del I sec. a.C., Vitruvio. Da queste sembrerebbe che il
teatro romano non presentasse una scenografia molto complessa, ma piuttosto
erano gli attori che con i loro dialoghi evocavano ambienti e circostanze
diverse. Di sicuro gli elementi scenografici sempre presenti erano: la scenae
fronts, i periaktoi e l’auleum. La scenae fronts è costituita da
un’architettura simile alla facciata di un edificio, nella quale si aprono
diversi ingressi utilizzati dagli attori. I periaktoi, di derivazione greca,
erano prismi triangolari ruotabili con i lati dipinti, secondo Vitruvio, con una
scena tragica su un lato, comica su un altro e satiresca sul terzo. L’auleum
era un telo simile al nostro attuale sipario che consentiva di rivelare
improvvisamente, lasciato cadere dall’alto, una nuova scena. Negli anfiteatri
gli effetti speciali erano realizzati con l’utilizzo di macchine teatrali, anche
queste di derivazione greca. Uno degli effetti più sensazionali e graditi erano
le scene di massa affollate da personaggi e animali.
LE RICORRENZE
PRINCIPALI DEL TEATRO ROMANO. Anche a Roma, come in Grecia, la maggior parte dell’attività teatrale si
svolgeva nel corso delle feste di carattere religioso e, anche se più raramente,
in occasione di vittorie militari, consacrazione di pubblici edifici, o per i
funerali di importanti personalità. Gli antichi romani, per la verità non
molto diversamente dai romani "moderni", dedicavano alle diverse divinità alcuni
giorni fissi dell’anno durante i quali organizzavano spettacoli e celebrazioni.
Definivano tali periodi Ludi accompagnati da un aggettivo che derivava o
richiamava in qualche modo la divinità che si celebrava, come ad esempio i Ludi
Florales, i Ludi Apollinares, Ludi Megalenses e Ludi Cereales durante i quali
veniva peraltro dato particolare rilievo agli spettacoli teatrali. C’erano poi
durante i mesi di settembre e novembre i Ludi in onore di Giove rispettivamente
denominati Romani e Plebei anche questi occasione di festa, divertimento e
quindi spettacoli.
Livio Andronico (Taranto III sec.
A.C.) VITA. Le date di nascita e di morte ci sono sconosciute, sappiamo
soltanto che era un ex schiavo originario di Taranto e che partecipò alla guerra
tra Taranto e Roma al seguito del suo protettore, il senatore Livio Salinatore,
che l'affrancò dopo avergli affidato l'educazione dei figli e dal quale L. prese
anche il prenome. Due sono le tappe importanti della sua carriera: 240, quando
una sua opera fu il primo testo drammatico rappresentato a Roma (è da questo
momento che si fa cominciare la storia della letteratura latina); 207, quando
compose un partenio in onore di Giunone. Riconosciuta fu la sua "associazione
professionale", il "collegium scribarum histrionumque".
OPERE E
CONSIDERAZIONI. L. si può giudicare l'iniziatore della letteratura latina:
abbiamo 9 titoli di tragedie dedicate alla guerra di Troia (Achilles, Aiax
mastigophorus, Equos troianus, Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Tereus, Danae e
Ino), una palliata ("Gladiolus", ovvero "sciaboletta"), il "partenio" (di cui
però nulla conserviamo); ma il suo capolavoro è la traduzione, o forse è più
esatto dire l’adattamento artistico, "letterario", in lingua latina e in versi
saturni, dell'Odissea di Omero ("Odyssa") e ciò ebbe una importanza storica
enorme. L'operazione aveva infatti finalità sia letterarie che culturali:
l'Odissea rappresentava un testo fondamentale della cultura greca ed è per
questo la traduzione di L. non era letta solamente in ambito scolastico. Il
merito di L. non fu tanto di introdurre a Roma la letteratura greca, quanto di
concepire la possibilità di una letteratura in lingua latina, sul modello delle
opere greche. Egli, come visto, compose al tempo stesso tragedie, commedie e
un'epopea, fondando così tre generi che avrebbero dato origine, molto presto, a
una straordinaria fioritura con le opere dei suoi contemporanei e degli
immediati successori, Nevio, Plauto, Ennio e Pacuvio. Non avendo una
tradizione epica alle spalle, L. cercò di dare per altre vie solennità e
intensità al suo linguaggio letterario. All'inizio della traduzione L. rende la
"Musa" di Omero con l'antichissima "Camena", divinità italica delle acque.
Tuttavia, alcune dei passi scritti da Omero non erano concepibili per i romani e
L. si trovò a dover modificare spesso l'Odissea (eroe pari agli dei). Tipica
della sua poesia è anche la ricerca del pathos, della tensione drammatica, della
solennità: non disdegna, così, arcaismi, o di ricorrere al formulario religioso.
I modelli tragici cui s’ispirò, a tal proposito, furono verosimilmente testi
attici del V sec. (soprattutto Sofocle ed Euripide). Di questa Odyssia, noi
non possediamo che pochi frammenti isolati e molto brevi, ma la scelta del
soggetto lascia intravedere lo scopo che L. si proponeva. Mentre l'Iliade,
"libro sacro" per eccellenza della cultura greca, era centrata sull'Egeo,
l'Odissea, al contrario, guardava verso l'Occidente. Una tradizione di
commentatori situava la maggior parte dei suoi episodi sulle sponde italiane e
siciliane. E’ in Italia che sono situati gli sviluppi della leggenda di
Ulisse. Un particolare degno di nota era costituito inoltre dal fatto che la
figura di Ulisse aveva incontrato larga fortuna nelle regioni etrusche; i figli
che, a quanto si raccontava, egli aveva avuto da Circe, erano ritenuti i
fondatori di numerose città dell'Italia centrale (Tivoli, Ardea). Dietro
l'epopea di L. possiamo indovinare i racconti leggendari etruschi e l'epopea
"orale" del Lazio etruschizzato. Inoltre, in quella seconda metà del III sec.,
accadeva che Roma fosse impegnata negli affari dell'Illiria e si preoccupasse
delle coste adriatiche, che aveva raggiunto da molto tempo, ma che, fino a quel
momento, non erano entrate nel suo immediato orizzonte politico. Ben presto,
in questa regione, Roma appare come la protettrice degli elleni contro i pirati
barbari. Ora, uno degli eroi delle guerre d'Illiria era precisamente proprio un
L. Salinatore, forse la stessa persona che aveva affrancato L., forse il figlio
e, in tal caso, l'antico allievo del poeta. Adattare l'Odissea in latino non era
forse rendere delicato omaggio ai romani che, dall'Italia centrale, ritornavano
da liberatori alla patria di Ulisse? Delle origini italiche della letteratura
latina, dunque, l'epopea di L. conservava molto: non soltanto il metro
(l'Odyssia era scritta in versi saturni), ma l'interesse per leggende nelle
quali, da lungo tempo, ci si compiaceva di riconoscere i prolungamenti
occidentali dei cicli epici
Gneo Nevio (Campania? 270 ca – Utica
201 a.C.)
VITA. Combatté nella prima guerra punica (264-241).
Probabilmente era un plebeo di nascita e questo spiega il fatto delle frequenti
politiche antinobiliari: non abbiamo inoltre indizi che si appoggiasse a
protettori aristocratici come Ennio-Nobiliore ed Andronico-Salinatore. Si
sospetta che fosse stato incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi
drammi: morì in esilio a Utica. N. è il primo letterato latino di
nazionalità romana, e ci appare anche come il primo letterato latino vivacemente
inserito nelle vicende contemporanee. Fece recitare la sua prima
rappresentazione nel 235, cinque anni soltanto dopo quella che aveva segnato gli
inizi di Livio.
OPERE. Di N. conosciamo: 2 praetexte, il "Romulus" e il
"Clastidium"; il "Bellum Poenicum"; almeno 6 tragedie mitologiche: "Equos
troianus" (l'argomento piaceva ai romani), "Lesiona" (altra leggenda relativa
alle catastrofi troiane), "Hector proficiscens", "Iphigenia" (probabilmente
un'"Ifigenia in Tauride"), "Danae" e "Lycurgus", (rappresentazione dionisiaca
senza alcun dubbio in rapporto col diffondersi del culto di Bacco nell'Italia
meridionale e nel Lazio durante gli ultimi decenni del III sec.; 1 commedia, la
"Tarentilla" ossia il ritratto di una ragazza civettona. Il capolavoro è,
ovviamente, il "Bellum Poenicum", scritto in saturni, probabilmente durante la
vecchiaia intorno al 209 (nel momento in cui l'Italia era per gran parte
occupata dalle truppe di Annibale o, quanto meno, minacciata dalle imprese del
cartaginese) e comprendente circa 4000/5000 versi, riguardante la prima guerra
punica.
CONSIDERAZIONI. I frammenti che possediamo dell’opera sono
brevi, ma relativamente numerosi, e consentono di farsi una qualche idea
dell'insieme. Ne evinciamo che il poeta non si limita a trattare in poesia le
vicende della guerra cartaginese, ma con un salto temporale non indifferente,
affonda nella preistoria di Roma: N. parla, nei primi canti, con certa ampiezza
dell'impresa di Enea, considerato il fondatore di Roma, e dei suoi amori con la
regina Didone, la fondatrice di Cartagine. Il nostro utilizzò questa storia
drammatica per spiegare la rivalità mortale che opponeva Roma a Cartagine. Il
suo scopo è di mostrare che il fato è dalla parte di Roma; ciò assumeva grande
importanza negli anni oscuri della II guerra punica. Roma riceveva dal suo poeta
una duplice certezza: che gli dèi erano con lei, e che le passate vittorie su
Cartagine garantivano il successo finale. Pur mantenendo di fondo
un'ispirazione nazionale del poema, N. non si stacca troppo dalla tradizione
letteraria greca: nel "Bellum Poenicum" si intrecciano, come visto, una storia
di viaggi e una storia di guerra, quasi a simboleggiare l'Odissea e l'Iliade.
Sicuro è che non vi era, però, narrazione continua: mito di fondazione e storia
"contemporanea" si fronteggiavano dunque in blocchi distinti. Anche certi
aspetti, come ad es. le figure di suono, presuppongono un'originale mescolanza
di cultura romana e greca nel testo. Mentre l'"Odyssia" di Livio era ispirata
dalla tradizione italica, il "Bellum Punicum" è più profondamente romano. Sono
cambiate le circostanze: Roma non è più l'arbitro dell'Italia, ma una città che
lotta per la sua stessa esistenza, e questo restringimento dei suoi orizzonti
provoca un accesso di nazionalismo, di cui l'esaltazione storica degli eroi
nazionali è una manifestazione. E’ il momento, come vedremo, in cui si forma la
tragedia "praetexta".
Tito Maccio Plauto (Sarsina, Umbria 259/251
– Roma 184 a.C. ca)
VITA. P. si dedicò solo ad un unico genere
letterario, alla composizione di commedie. Operò una sintesi della commedia
greca nuova e di elementi attinti dalla farsa italica. Sappiamo poco di P. e le
notizie che possediamo sono poco attendibili. Tali notizie ci sono pervenute da
A. Gellio e S. Girolamo IV sec. d.C.: da loro sappiamo che egli si dedicò alla
recitazione con successo, investì il capitale in commercio e fallì, si ricoprì
di debiti e si guadagnò da vivere in un mulino girando la macina. In questo
periodo cominciò a comporre commedie, fra cui il "Saturio" (il pancia piena), in
cui narra della sua precedente condizione di agiatezza, e l’"Addictus" (schiavo
per debiti), in cui narra della sua attuale condizione di schiavitù e una terza
commedia dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono
l’inizio di una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio. Alieno
della politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo, visse interamente
della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo. Cicerone nel "De
senectute", citando diversi personaggi che avevano continuato a svolgere
attività culturali al termine della vita, cita anche P. e afferma che compose da
senex alcune commedie fra cui lo "Pseudulus" (il bugiardo), scritta nel 191
a.C., era quindi già vecchio. Sempre Cicerone nel "Brutus" dice che morì nel 184
a.C. La sua produzione si svolse durante la II guerra punica. I codici che
contengono le commedie di P., ci hanno tramandato il suo nome completo, Tito
Maccio P.. Tito e Maccio sono nomi fittizi: Maccio, infatti, deriva da Maccus
(maschera dell’atellana); Plautus può significare o piedi piatti oppure orecchie
lunghe e penzoloni. Molto probabilmente si tratta di nomi d’arte che aveva usato
durante l’attività di attore.
OPERE. Alla sua morte, entrarono in
circolazione una serie di commedie a suo nome rivelatesi in seguito dei falsi.
Nel I sec. a.C. circolavano 130 commedie. Un erudito dell’epoca, Marco Terenzio
Varrone, studiò le commedie ("De comoedis Plautinis") e ne considerò false 90,
le altre originali e sicuramente vere. L’autorità di Varrone fu tale che
continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. La XXI ci è giunta lacunosa.
Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a pensare che
esistessero altre commedie sicuramente plautine e oggi perdute: così
Commorientes, Colax, Gemini lenones, Condalium, Anus, Agroecus, Faerenatrix,
Acharistio, Parasitus piger, Artemo, Frivolaria, Sitellitergus,
Astraba. Sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e
dello "Pseudulus" (191 a.C.); la cronologia delle altre è definibile in base ad
elementi interni, ipotizzando un’evoluzione del suo teatro dalla "farsa" ad una
specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi evolutiva generale
s’è affermato nettamente). Provando comunque ad ordinarle cronologicamente,
esse sono: Asinaria (212), Mercator (212-10), Rudens (211-205), Amphitruo (206),
Menaechmi (206), Miles gloriosus (206-5), Cistellaria (204), Stichus (200),
Persa (dopo il 196), Epidicus (195-4), Aulularia (194), Mostellaria (inc.),
Curculio (200-191?), Pseudolus (191), Captivi (191-90), Bacchides (189),
Truculentus (189), Poenulus (189-8), Trinummus (188), Casina (186-5); in più la
Vidularia pervenuta assai mutila. Si ricordi che, tuttavia, nei codici le
commedie sono disposte in ordine alfabetico.
TRAME. "Amphitruo"
(Anfitrione), l’unica a soggetto mitologico: Giove si innamora di Alcmena,
moglie di Anfitrione. Giove approfitta dell’assenza di Anfitrione, impegnato in
guerra, per assumerne le sembianze. Si presenta da Alcmena e trascorre con lei
una lunga notte d’amore. Mercurio accompagna Giove e sta di guardia assumendo le
sembianze di Sosia, servo di Anfitrione. Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna
Anfitrione che si fa annunciare da Sosia che, arrivato alla reggia si incontra
con Mercurio sotto le sembianze di Sosia. Da questa situazione nascono una serie
di inevitabili equivoci. "Asinaria" (La commedia degli asini) Il giovane
Argirippo è innamorato di Filenio, figlia dell’avara Cleareta che pretende in
giornata la somma di venti mine, altrimenti darà la figlia al rivale Diabolo.
Sarà lo stesso padre a venire in soccorso di Argirippo, incaricando due servi di
casa di procurarsi il denaro a danno della sua ricca e avara moglie. Uno dei
servi fingerà di essere l’amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere
le venti mine che un mercante deve a quella per l’acquisto di certi asini.
La commedia è giunta assai mutila e con un certo numero di contraddizioni
interne: ad es. il contratto concluso da Argirippo ai versi 299 sgg. Appare poi
nelle mani di Diabolo ai versi 752 sgg.: si è voluto appianare le difficoltà
sostituendo nelle scene I, 2 e 3 il nome di Diabolus a quello di Argyrippus;
altri invece, rilevando anche certe contraddizioni nel carattere di Filenio,
preferisce ritenere che nell’originale greco di Demofilo (dall’Onagos
"L’asinaio") P. abbia introdotto alcune scene da un secondo modello greco, in
cui la protagonista era di nascita libera. Dall’Asinaria deriva il P.,
commedia in tre atti di Nepomucene Lemercier (1771-1840), la cui unica
originalità consiste nell’aver introdotto tra i personaggi P. stesso. Elementi
dell’Asinaria sono anche nella Cassaria dell’Ariosto e nel Martello del
Cecchi. "Mercator" (Il mercante). E’ la commedia della rivalità tra Demifone
e Carino - padre e figlio - per una bella schiava, Pasicompsa, che Carino ha
condotto da Rodi dove si era recato per commercio. Demifone - che ha avuto un
sogno premonitore della vicenda - fa comprare al porto la fanciulla dall’amico
Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un giorno, profittando
dell’assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna, l’equivoco deve essere per
forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto al figlio. Deriva
dall’Emporos (che in greco significa appunto mercante) di Filemone (nato a
Siracusa nel 361, morto nel 263 o 262). "Rudens" (La gomena). Un lenone, dopo
aver promesso una bella fanciulla ad un giovane innamorato di lei, da cui ha
ricevuto un lauto anticipo, decide di fuggire velocemente durante la notte per
sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta fa naufragare la nave, che ributta
sulla riva i partenti. La ragazza si rifugia con la propria ancella nel tempio
di Venere, a poca distanza dal quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita
la propria figlia. Segue naturalmente il riconoscimento: la ragazza, sottratta
all’avido lenone, può finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo
innamorato. Derivato da una commedia di Difilo il Rudens si svolge in
un’atmosfera e in un ambiente diversi da quelli di tutte le altre commedie di
P.. Basti dire che la scena, anziché la solita piazzetta su cui s’affacciano le
case dei principali personaggi, ci presenta una spiaggia battuta dal mare in
tempesta, e un ambiente di pescatori che vivono di stenti, com’è detto nel coro
che è al principio del secondo atto (importante perché è l’unico coro che si
trovi nella Commedia latina). Quanto all’atmosfera, il comico è del tutto
assente nel Rudens, in cui predomina un tono tra il patetico e il solenne, che
sfiora in qualche punto la tragedia. "Menaechmi" (I Menecmi). E’ la gioiosa
commedia degli equivoci dovuti all’incredibile somiglianza di due gemelli,
Menecmo I e Menecmo II, separati fin dalla fanciullezza. La vicenda si svolge ad
Epidammo, dove Menecmo II è capitato nel corso di un viaggio di ricerca del
fratello. Gli equivoci a ripetizione, in cui sono coinvolti prima l’amica di
Menecmo I, Erozio, ed il suo cuoco, poi il parassita di Menecmo I, Penicolo, ed
infine la moglie dello stesso, conferiscono all’azione un’irresistibile tensione
comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge ormai ai
medici, essi si trovano l’uno dinanzi all’altro davanti alla casa di Erozio e
tutto si chiarisce. La lunga serie di peripezie rende questa commedia tra le più
animate del teatro classico: un susseguirsi ininterrotto di saporose battute, di
botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni, senza un solo attimo di
stasi. Benché non si conosca l’originale greco da cui il Menaechmi plautino sia
derivato, si sa che una non piccola schiera di commediografi greci (Menandro,
Antifane, Posidippo, per non citare che i più noti) s’ispirò a questo motivo
dell’identità di due persone. Del resto, il motivo non è nuovo neppure in P.: si
pensi solo al Mercurio-Sosia e al Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo.
L’elenco delle imitazioni, dei rifacimenti, delle traduzioni del Menaechmi
plautino è lunghissimo. I più importanti Sono la Calandria di Bernardo Dovizi da
Bibbiena, i Due gemelli veneziani di Goldoni e La commedia degli equivoci di
William Shakespeare. "Miles gloriosus" (Il soldato fanfarone). Il giovane
Pleusicle ama la bella Filocomasio. Durante un’assenza del giovane, la ragazza
viene rapita dal miles Pirgopolinice, un soldato smargiasso e fanfarone, a cui
il parassita Artotrogo fa credere di essere irresistibile con le donne.
Palestrione, servo di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è
accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato proprio al
miles. Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione, si fa ospitare da
Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa contigua a quella del miles.
Palestrione pratica una breccia nel muro di confine tra le due case, consentendo
agli amanti di incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles, li scorge mentre si
baciano, e costringe Palestrione a escogitare una serie di inganni per salvare i
due amanti, fingendo che esista una gemella di Filocomasio. Palestrione
organizza una feroce beffa ai danni di Pirgopolinice: gli fa credere che la
moglie di Periplectomeno sia pazzamente innamorata di lui. Il miles licenzia in
un sol colpo Filocomasio e Palestrione, dando loro la libertà. Entrato nella
casa di Periplectomeno per un appuntamento galante trova un marito furibondo e i
servi pronti a fustigarlo ignominiosamente come adultero. Gran parte della
trama proviene dalla commedia greca Alazon (Il vanaglorioso), ma è probabile che
P. abbia largamente applicato la contaminatio, assumendo da un altro dramma il
motivo del foro nel muro e della sorella gemella. "Cistellaria" (La
cassetta). Il giovane Alcesimarco ama Selenio, una trovatella allevata da una
cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un’altra ragazza, figlia del
vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un’altra figlia avuta molti anni
prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni. Dopo
varie vicissitudini, si scopre che la ragazza abbandonata è Selenio, che ora
Alcesimarco può sposare con l’assenso del padre. Nonostante una lunga lacuna
(più di seicento versi) l’intreccio di questa commedia è abbastanza chiaro.
L’originale greco sembra di Menandro. "Stichus" (Stico). Due sorelle da tre
anni non hanno più notizie dei loro mariti, partiti oltremare per ricostituire
un patrimonio in rovina. Il padre vorrebbe farle risposare, ma le donne
insistono per serbare la loro fedeltà. Non manca un parassita, Gelasimo, che da
tre anni patisce la fame. Giunge finalmente in porto la nave dei due uomini,
carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro c’è anche il servo Stico, che
organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si rappacificano con il vecchio
suocero, soddisfatto del successo dei loro affari. Solo il parassita non riesce
a farsi invitare da nessuno, e comicamente continua a restare deluso nella sua
ormai annosa brama di cibo Stichus deriverebbe dall’Adelphoe di
Menandro. "Persa" (Il persiano). Il servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo
una ragazza che ama. Poi traveste da orientale la figlia di un parassita e finge
di venderla a Dordalo, che cade nel tranello. La somma ricavata serve a
cancellare il debito iniziale. Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo
di aver comprato una ragazza libera. La commedia si conclude con una grande
festa, durante la quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza.
Tossilo può giustamente trionfare. "Epidicus" (Epidico). Il giovane
Stratippocle si innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al
servus Epidico l’incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a
riscattarle. Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio Perifane,
padre di Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma quando i suoi
raggiri stanno per essere scoperti, una delle due ragazze viene riconosciuta
figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che ripiega sull’altra cortigiana
mentre Epidico viene affrancato per meriti d’ingegno. L’intreccio è più
complicato del solito. Ma l’interesse della commedia sta soprattutto nella
figura d’Epidico: il più abile, il più astuto, il più diabolicamente scaltro dei
servi che il teatro abbia dato. "Aulularia" (La commedia della pentolina). Un
vecchio avaro, Euclione, ha trovato in casa sua una pentola piena di monete
d’oro. Per timore che gliela possano rubare, egli la nasconde nel tempio della
Buona Fede e successivamente nel bosco di Silvano. Ma Strobilo, servo del
giovane Liconide, avendo seguito le sue mosse, se ne impadronisce. Il vecchio è
fuori di sé dalla disperazione, tanto più che Liconide confessa di aver messo
incinta Fedria, sua figlia, che egli aveva promesso in sposa al vecchio
Megadoro, suo vicino. Qui la commedia si interrompe, ma la conclusione è
scontata: in cambio dell’oro, Euclione concede la mano della figlia a Liconide,
che a sua volta darà la libertà al servo Strobilo. L’originale greco è
ignoto, ma è probabile che fosse una commedia di Menandro in cui l’avaro aveva
nome Smicrine. L’Aulularia ispirò l’Avaro di Moliere e quello di
Goldoni. "Mostellaria" (La commedia del fantasma). Mentre il padre
Teopropide, un ricco mercante di Atene, è assente da lungo tempo per affari, il
giovane Filolachete si dà alla pazza gioia assieme all’amico Callidamate,
assistito dall’ingegnoso e sfrontato servus Tranione, che ha anche dovuto
procurarsi un prestito rilevante per riscattare la bella Filemazio, una
cortigiana amata dal padroncino. Torna inaspettatamente il padre, mentre è in
corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per impedire a Teopropide
di entrare inventa che la casa è abitata da un fantasma. Giunge nel frattempo un
usuraio per riscuotere un credito, e Tranione è costretto ancora a mentire,
affermando che il denaro è servito a comprare un’altra abitazione. Teopropide
chiede di vederla, e il servo escogita nuovi geniali trucchi per mostrargliela,
ingannando anche il vero proprietario. Infine la verità viene a galla, e solo
l’intervento di Callidamate che promette di soddisfare personalmente a ogni
debito, salva Tranione dall’irosa furia di Teopropide. Si pensa che la
Mostellaria derivi dal Phasma di Filemone o di un autore minore,
Teogneto. "Curculio" (Gorgoglione o Pidocchio). Il giovane Fedromo è
innamorato della cortigiana Planesio e cerca di riscattarla dal lenone Cappadoce
con l’aiuto di Pidocchio. Il parassita, che veste anche la parte del servus
currens, scopre che un miles ha già comprato la ragazza, e ha depositato presso
un banchiere la somma pattuita: tale somma verrà pagata a chi presenterà una
lettera sigillata con l’anello del soldato. Pidocchio, travestito da soldato, si
impadronisce ai dadi dell’anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la
ragazza. Nel frattempo sul palcoscenico sale l’impresario della compagnia
recitante timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a Pidocchio.
Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica nell’anello del miles
quello che era solito portare il padre, dal quale era stata un giorno rapita: il
soldato viene riconosciuto come suo fratello, e Fedromo può felicemente sposare
la donna. La commedia prende il titolo dal parassita protagonista
Gorgoglione, il cui nome è tutto un programma d’insaziabile voracità: il
curculio è il verme roditore del frumento. Il Curculio contiene la famosa "
serenata dei chiavistelli " (atto primo, scena terza), che il giovane Fedromo
rivolge alla porta dell’amata, perché dischiuda i suoi battenti. "Pseudolus"
(Pseudolo). Il giovane Calidoro ama la cortigiana Fenicio, che il lenone
Ballione ha già venduto ad un miles per venti mine: quindici anticipate, più
cinque che un messo del soldato sborserà entro la sera. Calidoro si affida
all’ingegno furfantesco e creativo del servus Pseudolo, che si mette all’opera,
sgominando progressivamente ogni ostacolo e vincendo addirittura un’impossibile
scommessa con Simia, padre di Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a
restituire il denaro al messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine
a Simia per una scommessa perduta. La commedia è ben costruita e rivela la
grande arte di P. e l’abilità dell’autore (ignoto) del copione greco. Pseudolus
è una delle commedie predilette dall’autore, come scrisse Cicerone nel De
senectute: "Quanto si compiaceva della sua Guerra Punica Nevio! quanto del
Truculento P., e quanto dello Pseudolo!". "Captivi" (I prigionieri). Durante
una guerra fra Elei ed Etoli, il ricco Egione ha perso il figlio, fatto
prigioniero dagli Elei. Per riscattarlo, acquista dei prigionieri Elei, con lo
scopo di operare uno scambio. Fra di essi, c’è il nobile Filocratre con il servo
Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare le parti. Credendo di inviare in
Elide il servo, Egione manda invece il padrone. Scoperto l’inganno, getta in
catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con il figlio di Egione ormai
libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è figlio di Egione, rapito in
tenera età venduto come schiavo in Elide. Captivi è una commedia anomala
rispetto alle altre, priva di vicende amorose e fondata sul tema dell’amicizia e
della lealtà: non compare alcuna donna, particolare che in P. si ritrova solo
nel Trinummus. Captivi fu imitato da Ariosto nei Suppositi, da Calderon nel
Principe Costante e da Jean de Rotrou ne Les Captifs. "Bacchides" (Le
Bacchidi). Due sorelle gemelle, entrambe di nome Bacchide ed entrambe
cortigiane, vivono l’una a Samo, l’altra ad Atene. Il giovane Mnesiloco, di
passaggio a Samo, s’innamora della prima Bacchide, di cui si impadronisce
tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad Atene. Mnesiloco dà incarico
di recuperarla all’amico Pistoclero, che dopo averla trovata si fa sedurre dalla
seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di essere stato tradito dall’amico, dà
intanto al servo Crisalo l’incarico di trovare il denaro necessario per
riscattare l’amata: il servo per ben due volte riesce a spillar denaro al padre
di Mnesiloco. Gli equivoci si diradano e le situazioni sembrano risolversi
felicemente: i giovani Mnesiloco e Pistoclero si ritrovano a banchettare
allegramente con le due Bacchidi. Giungono però furenti i due padri, decisi a
trascinarsi a casa i figli gozzoviglianti, ma anch’essi vengono "tosati" dalle
due spumeggianti ragazze e si abbandonano assieme ai figli ad un allegro
festino. Deriva dalle Evantides di Filemone o da Il doppio inganno di
Menandro. "Truculentus" (Truculento). La commedia, largamente lacunosa,
prende titolo dal nome del rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un
giovane fattore che è vittima, insieme all’ateniese Diniarco e al soldato
Stratofane, della sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio. L’intreccio si
lascia intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo
figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di
Diniarco e di una libera cittadina ateniese. "Poenulus" (Il cartaginese).
Rapiti in tenera età nella loro patria, Cartagine, vivono a Calidone di Etolia
un giovinetto, Agorastocle, e le sue due cugine, Adelfasio e Anterastile: ma se
il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le due fanciulle conducono
invece una vita misera, in potere dello sfruttatore Lico. Una ben architettata
trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e recitata dal villico
Collibisco offre il modo di citare lo sfruttatore in tribunale. Giunge frattanto
da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il padre Annone: egli si incontra
con Agorastocle ed è condotto da questi in casa di Lico dove può riconoscere e
riabbracciare le figliuole. Modello della commedia è stato il Carchedonios di
Menandro. Una prima redazione del Poenulus aveva titolo Patruos (Lo
zio). "Trinummus" (Le tre dracme). Mentre il vecchio Carmide è in viaggio
d’affari, il giovane figlio Lesbonico continua a dissipare il suo patrimonio, e
finisce per vendere perfino la casa ad un altro senex, Callicle, che per fortuna
è un leale amico di Carmide, e decide di salvaguardare per il ritorno dell’amico
un tesoro sepolto nella casa. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la
sorella di Callicle, e chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che
è in fondo un giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare
in dote alla sorella l’ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Per
evitare che tutto il patrimonio vada perduto, Callicle inventa allora uno
stratagemma: assolda un messo a cui, per tre dracme dà l’incarico di giungere in
città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà Callicle
ha prelevato dal tesoro. Carmide è inaspettatamente tornato, ed è proprio lui a
ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti sono dissipati dal
commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si conclude con due matrimoni:
di Lisitele con la figlia di Carmide e di Lesbonico con quella di Callicle.
L’originale di Filemone prendeva titolo dal "tesoro" nascosto in
casa. "Càsina". Di Casina, una trovatella, si sono invaghiti il vecchio
Lisidamo e il figlio di lui, Eutinico. Essi hanno indotto, l’uno il proprio
fattore, l’altro il proprio scudiero, a chiedere la mano della fanciulla, per
poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo, vistasi intralciare la strada dal
figlio, lo spedisce all’estero, ma la moglie del vecchio, che conosce le
intenzioni del marito, prende le parti del figliolo assente. Poiché Lisidamo e
sua moglie non riescono ad accordarsi, decidono di ricorrere alla sorte. Questa
favorisce il fattore. Si preparano le nozze, ma in luogo di Casina viene
presentato come sposa Calino, lo scudiero, travestito da donna, che,
approfittando dell’oscurità della stanza in cui viene condotto, bastona il
fattore e Lisidamo. Casina è certo tra le più libere commedie di P., ma,
bisogna riconoscerlo, tra le più ricche di comicità, e quindi tra le più
riuscite. Deriva da una commedia di Difilo, Clerumenoe, cioè I
sorteggianti. "Vidularia" (La commedia del baule). I circa 120 versi
superstiti di questa commedia lasciano intravedere un intreccio simile al
Rudens: il giovane Nicodemo viene riconosciuto dal padre per mezzo degli oggetti
conservati in un baule scomparso in mare durante un naufragio e poi ritrovato da
un pescatore
PERSONAGGI.
I personaggi di P. non sono dei caratteri individuali ma delle maschere
fisse e per questo già note al pubblico nel momento stesso in cui si presentano
in scena. Anche i nomi propri che P. attribuisce ai personaggi non servono a
conferir loro un’individualità e un carattere, ma a ribadire la fissità del loro
ruolo scenico. *L’ "adulescens": Il giovane innamorato (adulescens) è uno dei
protagonisti della palliata, sempre languido e sospiroso, perduto in un amore
che lo travolge e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che incontra
sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri alti della
tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici ("Son sbattuto, son
straziato, / tormentato, punzecchiato, / sulla ruota dell’amore rigirato ed
annientato." - da Cistellaria 206-208). P. non prende mai sul serio la sua
storia né i suoi lamenti d’amore: lo guarda divertito, costringendolo a subire i
lazzi spiritosi del servus (FEDROMO: Palinuro, Palinuro! / PALINURO: Spiegati,
che hai da chiamare Palinuro? / FE: Che fascino! / PA: Fin troppo. / FE: Mi
sento un dio. / PA: Ma no che sei un uomo, e di poco valore. / FE: Hai mai visto
o vedrai mai un essere più simile agli dei? / PA: Vedo che sei poco sano, e me
ne duole" - da Curculio 166-173). L’eccesso di patetismi, di infelicità e di
iperbolici disastri annunciati nei suoi monologhi va sempre letto su un registro
di parodia scanzonata e burlesca. *Il "senex": Il vecchio (senex) viene
caratterizzato in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato che
cerca inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescens (come nella
Mostellaria); ma talvolta anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli
nella battaglia, senza esclusione di colpi, per la conquista della donna
desiderata (come nell’Asinaria o nella Casina). Nelle vesti dell’amico o del
vicino, ha a disposizione un ricco ventaglio di funzioni drammatiche: può ad
esempio essere alleato dei giovani (come nel Miles gloriosus) oppure fornire un
burlesco doppio del senex innamorato (come nel Mercator). *La "meretrix":
Minore importanza rivestono i ruoli femminili, anche perché non è infrequente
che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella Casina) o svolga
una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è quello della
cortigiana (meretrix), una figura sconosciuta in Roma prima che nascesse la
palliata, e che era invece consueta nel mondo greco. Le etère ateniesi erano
donne libere e spregiudicate che vivevano una vita lussuosa al di fuori del
mondo familiare (cosa inammissibile a Roma). Molte di loro erano colte e
spiritose, sapevano danzare e cantare e intrattenevano rapporti con i maggiori
filosofi e poeti dell’epoca. Nella palliata plautina possono essere sia libere
che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che le mettono in
vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande desiderio è
quello di essere riscattate dall’amante. Naturalmente l’espediente
dell’agnizione può consentireloro il felice passaggio dalla consizione di amanti
a quella di spose. Alcune di loro sono abilissime e sfrontate (come nel
Truculentus), altre dolci e sensibili (ed è il caso più frequente). *La
"matrona": Accanto alla figura dell’etera, risalta per contrasto quella della
matrona, madre dell’adulescens e sposa del senex, quasi sempre autoritaria e
dispotica, soprattutto se "dotata" (cioè provvista di dote). Accade che spesso
il senex sia vittima delle sue ire furibonde (come nell’Asinaria). Non manca
qualche eccezione: la nobile figura di Alcmena nell’Amphitruo; le due spose
fedeli nello Stichus. *Il "parasitus": Presente in ben nove commedie di P.,
il parassita è uno dei tipi più buffi e curiosi della palliata, caratterizzato
dalla fame insaziabile e dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina
economica per il disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante
e vitale nella sua mai placata ingordigia , il parassita non lesina lodi
iperboliche e servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che
naturalmente sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella
famosa scena d’esordio del Miles gloriosus. *Il "miles gloriosus": Come la
cortigiana, anche il miles , il soldato mercenario che si mette al servizio di
chi lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma sconosciuta
in Roma, dove all’epoca di P. il servizio militare era dovere di ogni cittadino.
Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del gloriosus, cioè del
millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai compiute,
spacciandosi per giunta per un grande seduttore: è insomma un conquistatore
immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli avvenimenti della
commedia. E’ probabile che i Romani, ridendo di questi milites ellenistici, si
sentissero orgogliosi del proprio valore militare: di mercenari era in gran
parte composto anche l’esercito di Pirro, battuto durante la guerra tarentina.
*Il "leno": Anche il lenone, il commerciante di schiave, era una figura
sconosciuta presso i Romani. P. ne fa la figura più odiosa, anche perché di
norma costituisce il maggior ostacolo al compimento dei desideri del giovane
innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro plautino non esistono
personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una partecipazione e un
coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin dall’inizio: l’odiosità,
come l’avidità, sono solo i caratteri fissi che definiscono la maschera del
lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta e alla beffa. Colpisce molto
di più, invece, la sua formidabile vitalità, la sua capacità di esser superiore
a ogni giudizio morale, come rivela la bellissima gara di insulti che adulescens
e servus ingaggiano contro il lenone dello Pseudolus. *Il "servus": La
figura più grandiosa, il vero motore delle fabulae plautine è il servus,
personaggio sfrontato e geniale, spavaldo orditore di incredibili inganni a
favore dell’adulescens e contro l’arcigna taccagneria dei senes o l’avidità dei
formidabili lenoni plautini. Senza di lui non ci sarebbe storia; la storia,
anzi, è quasi sempre il risultato delle sue invenzioni e delle sue creazioni: P.
lo definisce in vari luoghi come un "architetto" (Palestrione, nel Miles
Gloriosus), un "poeta" (Pseudolo, nel Pseudolus), un "generale" (Pseudolo, nel
Pseudolus e Palestrione, nel Miles Gloriosus), finendo palesemente per
identificarsi nella sua figura. La sua ingegnosità è accompagnata da una
lucida visione degli eventi e da un’ironia dissacrante, che non risparmia niente
e nessuno, nemmeno l’amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta
le ire del vecchio padrone. La sua forza è la giocosità creativa delle sue
invenzioni, la gratuità un po’ folle e anarchica delle sue scommesse,
naturalmente sempre vinte. Su di lui incombe perennemente la minaccia delle
sferze e delle catene, gli strumenti di punizione dello schiavo, a cui tuttavia
il servo plautino risponde con la forza superiore dei suoi geniali raggiri.
Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi al
pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso. P. ce ne dà anche
un ritratto fisico, che corrisponde convenzionalmente alla sua maschera: "rosso
di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande testa, occhi vivaci,
rubicondo in faccia, piedi enormi" (Pseudolus 1218-1220). La deformità mostruosa
del fisico sembra una sfida al destino, e un segno della vitalità trionfante del
teatro plautino, che rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i
servi trionfano sui padroni e i figli sui padri, sovvertendo ogni codice sociale
e facendosi beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono
più vicini agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo,
dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli
atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più
intelligente, e risulta perciò anche il più simpatico, quello per il quale il
pubblico "tifa" fin dall’inizio della rappresentazione. *Personaggi minori:
Non mancano, accanto ai ruoli principali, altre figura occasionali: la lena
("ruffiana"), una sorta di doppio femminile del leno, per lo più rappresentata
come vecchia e beona; l’ancilla ("ancella"), servetta al seguito della meretrix
(più spesso) o della matrona, quasi sempre complice negli affari delle sue
padrone; il cocus, il più delle volte ingaggiato per luculliani banchetti; il
puer, lo schiavetto generalmente a ruoli di contorno; il fenerator ("usuraio"),
sempre pronto ad entrare in scena nei momenti più inopportuni per riscuotere del
denaro, naturalmente prestato per riscattare una cortigiana; la fidicina
("citarista"); il medicus.
CONSIDERAZIONI.
*Gli intrecci delle commedie plautine derivano da originali greci, sono
molto complicati, ma abbastanza ripetitivi e caratterizzati da elementi
convenzionali. 16 su 20 presentano la stessa situazione di base, con
protagonista un giovane innamorato, l’adulescens, si tratta di amore ostacolato.
Se l’adulescens è innamorato di una giovane cortigiana, l’ostacolo è la mancanza
di denaro per ottenerne i favori. L’etera riceve a casa sua i suoi amanti
facendoli pagare, oppure è alle dipendenze di un lenone, un trafficante di
schiave e sfruttatore di prostitute che, comprava, vendeva o affidava le donne
per determinati periodi. L’adulescens dipende economicamente dal padre e
deve carpirgli il denaro necessario per pagare l’etera. Può essere innamorato
anche di una fanciulla onesta ma senza dote, in questo caso gli ostacoli sono
gli impedimenti sociali che ne derivano. L’adulescens lotta per far trionfare
l’amore contro qualche antagonista, il padre, il lenone o il miles gloriosus, il
mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta l’adulescens viene aiutato
da un amico, da un vecchio comprensivo o da un parassita, ma, soprattutto dal
servus callidus (scaltro). Spesso la commedia si risolve in una serie di inganni
organizzati dal servus callidus per ingannare il padrone e carpirgli il denaro
necessario all’adulescens. Ogni commedia si risolve con un lieto fine, i giovani
vengono perdonati dai padri che si riconciliano anche con i servi. I danni e le
beffe spettano ai personaggi esterni alla famiglia, quali il miles gloriosus e
il lenone. Spesso il lieto fine coincide con il matrimonio che è reso possibile
dal topos del riconoscimento, si scopre n fine che la ragazza era nata libera da
genitori benestanti, ma esposta o rapita dai pirati. Come si vede, in
generale lo scioglimento tipico consiste in un "rimettere le cose a posto" (ed è
chiaro che il pubblico trova in questo movimento dal disordine all’ordine un
particolare piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in scena
– al di là degli estrinseci dettagli esotici, che garantiscano un certo
"straniamento" – è perfettamente compatibile con l’esperienza problematica e
quotidiana della Roma del tempo). Tuttavia, ed è importante, sia chiaro che
nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende
tipiche. *Frequenti, poi, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es.,
è frequente l’utilizzazione di similitudini e di metafore di tipo militare: il
servo presenta spesso la sua lotta contro l’antagonista (padrone avaro, leone,
soldato) come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte del generale
vittorioso, che sconfigge brillantemente il nemico e celebra il trionfo su di
lui. L’abbondanza di riferimenti a situazioni militari non stupisce in testi
scritti in un periodo storico in cui Roma passava vittoriosamente da una guerra
all’altra. Tuttavia, se sono numerosi i riferimenti alla vita militare, non c’è
traccia dei grandi avvenimenti dell’epoca: Canne, Zama, le guerre contro la
Macedonia, la Siria , l’Etolia. C’è chi ha voluto vedere qualche allusione
storica in alcuni passi delle sue opere; ma si tratta , comunque, di accenni
vaghi e velati, tanto che si può dire che egli si mantenne lontano da i grandi
affari di stato, e cercò altrove motivi ed ispirazione per le sue commedie.
*Una delle differenze fondamentali con la commedia di Menandro (ma modelli
altrettanto validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto concerne le
trame, è che, mentre Menandro cerca la coerenza e l’organicità degli intrecci,
P. sacrifica le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento di
trarre effetti comici dalla singola scena, per cui non è sempre possibile
trovare credibilità e coerenza. Altra differenza è che mentre il teatro di
Menandro è un teatro antropocentrico e i suoi personaggi sono autentici e
scavano all’interno della loro interiorità per scoprire le pieghe più nascoste
del loro animo, rompe la fissità del tipo, mette in evidenza l’individuo oltre
lo stereotipo. In P. non troviamo queste introspezioni, il suo teatro non è
di anime, P. accentua i tratti caricaturali dei personaggi tipici e ne fa
maschere grottesche. A P. non interessa la complessità del rapporto fra marito e
moglie, fra padre e figlio, fra servo e padrone, il conflitto generazionale è
semplificato e ridotto alla speranza che il padre muoia quanto prima per
consentire al figlio di raggiungere l’indipendenza economica, oppure il rapporto
conflittuale tra padre e figlio di risolve in un antagonismo amoroso, in questa
competizione perde sempre il padre che viene beffeggiato come senex libidinosus.
Le mogli in P. si presentano con caratteristiche fisse, come "uxores
morosae" (donne intrattenibili) e soprattutto, se hanno una grossa dote, sono
sempre autoritarie e temute dai mariti. I parassiti sono sempre affamati e
voraci. Anche i giovani sono poco credibili, mentre Menandro partecipa
emotivamente ai sentimenti dei protagonisti delle sue commedie, in P. sono
sempre languidi e sospirosi, fino al ridicolo. Si esprimono inoltre sempre
secondo i modelli stilistici della poesia erotica venendo quindi parodiati dal
poeta. Insomma, questa è un’altra fondamentale caratteristica del teatro
platino: appunto la limitatezza, prevedibilità e ripetitività dei "tipi",
inquadrati fin dai prologhi. *In P., poi, non c’è l’amore come sentimento
autentico, ne troviamo la caricatura. Vere e proprie maschere grottesche sono
personaggi iperbolici del miles gloriosus. Emblema della figura del miles è
Pirgopolinice (distruttore di fortezze e di città), protagonista dell’omonima
commedia, un nome questo fortemente allusivo alle caratteristiche del
personaggio. Altro personaggio fortemente rappresentativo è il Baglione che
nello "Pseudolus" incarna il lenone. Però il personaggio che risulta essere più
congeniale alla vis comica plautina, è quello del servus callidus che, spesso,
diventa, in molte commedie, il vero protagonista; non è solo intelligente, ma
anche sfrontato, sicuro di se fino all’insolenza e alla sfrontatezza, pronto a
prendersi gioco di tutto e di tutti. Quando il servus callidus è riuscito nel
suo intento, si abbandona ad autoglorificazioni e si paragona al generale
vittorioso che, dopo aver portato a termine l’impresa militare, celebra il suo
trionfo. P. utilizza spesso metafore tratte dal linguaggio militaresco, cosa
spiegabile con il periodo storico in cui vive. Alleata del servo è, però, la
fortuna (Tyche), che ne contempera – e di molto – il merito del successo, e che
ha grande valore stabilizzante. Si parla, infatti, di rovesciamento burlesco
della realtà, alla fine della commedia sono i giovani a trionfare sui vecchi, le
mogli sui mariti. Con questo P. non vuole mettere in discussione i rapporti
vigenti all’interno della società, vuole solo far divertire. *Non ci sono
pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine per cui non
possiamo valutare l’indipendenza, l’originalità di P. rispetto ai modelli greci.
Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo alla sua attività, parla di
"vertere barbarae" (tradurre dal greco al latino), infatti, P. fa suo il punto
di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara. Le commedie
plautine non sono semplici traduzioni dal greco, ma libere interpretazioni di
modelli greci. P., infatti, ricorre alla cosiddetta "contaminatio", inserisce in
una commedia derivata da un originale greco, una o più scene, uno o più
personaggi attinti da un’altra commedia sempre greca. Mescola l’originale con
altre commedie. *Altra prova dell’originalità di P., è il fatto che lui dà
molto spazio alla musica e al canto (circa i due terzi del numero complessivo
dei versi prevedevano il suono del flauto), mentre nelle commedie di Menandro
sono molto scarse le parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P.
troviamo i "cantica", metri lirici cantati. Altre parti in versi o metri lunghi
recitati e accompagnati dal flauto. Nella metrica, insomma, P. è un maestro:
egli foggia, seguendo le necessità della lingua latina, i già noti senari
giambici e versi quadrati in varietà di forme, peraltro sottomesse a sottili
regole. La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme del deverbium (parti
recitate senza accompagnamento) e, come detto, canticum (recitativo
accompagnato), alternate con estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva
parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Particolarmente
rilevante, così, è la presenza delle parti liriche e polimetriche, dai ritmi
assai variati, mossi e vivaci: esse occupano complessivamente circa 3000 versi,
cioè un settimo del totale, e avevano la funzione di dar rilievo, con il
contributo determinante del ritmo e della musica, ai momenti di più forte
concitazione e di più intensa emotività. E’ probabile che il potenziamento
dell’elemento lirico-musicale sia stato stimolato dalla consuetudine e dalla
predilezione del pubblico romano per i tipi di spettacolo in cui la musica, il
canto e la danza avevano un ruolo fondamentale. *Inoltre, P. si inserisce in
commedie ambientate in Grecia che hanno come personaggi dei greci, ma con
riferimenti a luoghi, usi e costumi romani. Molta della comicità plautina è
basata su giochi di parole, comicità assente nel modello greco. P. sottolinea
continuamente nelle sue commedie l’aspetto fittizio e ludico dell’evento
teatrale, vuole sottolineare che ciò che avviene sulla scena è solo finzione,
solo gioco. Vuole così impedire che il pubblico si immedesimi negli eventi
scenici, che si crei il transfert (immedesimazione). Vuole impedire che si
verifichi quell’illusione scenica per cui attua procedimenti che tendono a
rompere l’illusione scenica. Uno di questi è quello in cui i personaggi comici
si rivolgono direttamente agli spettatori. Fra i procedimenti adottati per
rompere l’illusione scenica, uno dei più praticati era il "metateatro", il
teatro che parla di se e si rappresenta. Nella "Casina" (la fanciulla del caso),
è portato sulla scena l’antagonismo fra padre e figlio per la stessa fanciulla.
Il senex la fa sposare con un suo dipendente per poterne usufruire, la moglie
scopre la trama e si vendica. Fa travestire uno scudiero da fanciulla e durante
la notte lo fa incontrare con il senex, che prende botte. Alla fine la moglie
perdona il marito e dice: "Ti perdono per non prolungare questa commedia poiché
è già lunga di per se". *Altro esempio di metateatro lo troviamo nel
"Mercator" altra commedia che pone sulla scena lo stesso antagonismo. Un
personaggio ne invita un altro a riferirgli ciò che sa e si esprime così:
"Perché aspetti? Forse non vuoi svegliare gli spettatori che dormono?". Nello
"Pseudolus", un personaggio chiede a Baglione quali critiche gli siano state
rivolte da un altro personaggio e dice: "Mi sono stati fatti i soliti rimproveri
da commedia?". *Un altro aspetto del teatro plautino, è l’atteggiamento nei
confronti dei greci; è significativo a riguardo un passo del "Curculio" (nome
del protagonista traducibile con Gorgoglione o pidocchio, parassita). L’aspetto
più significativo è che questo personaggio, greco, parla male dei greci. Durante
la commedia, infatti, sta attraversando una via e gli danno fastidio questi
greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col capo coperto,
carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie in cerca di chi
possa offrire loro in bicchiere di vino. È chiaro che P. sfrutta a fini comici
quel sentimento di ostilità nei confronti dei greci, tipica di una parte della
società romana e che aveva trovato portavoce in Catone. P. conia addirittura un
verbo, "pergraecari", che significa gozzovigliare alla greca, vivere in modo
dissoluto come fanno i greci. P. attribuisce ai greci un modus vivendi dissoluto
e corrotto, ma, la cosa più assurda è che in commedie ambientate in Grecia, con
personaggi greci, siano i greci stessi ad autodefinirsi spregevoli. Alcuni
studiosi hanno inserito per questo motivo il teatro plautino nell’entourage
catoniano. Questa affermazione pare però poco attendibile, P., infatti, vuole
solo risum movere, non schierarsi politicamente, rinuncia a trasmettere
qualsiasi tipo di messaggio. La comicità plautina può essere di tre generi:
1.di situazione: basata sugli equivoci e scambi di persone; 2.di
carattere: basata sull’accentuazione iperbolica dei difetti dei
protagonisti; 3.bassa: basata su battute volgari e sull’esasperazione di
sentimenti naturali. Tipico esempio della comicità di situazione è l’"Anfitruo".
Alcune battute si avvalgono di una lingua popolare, ma permeata di erudizione e
di cultura: questo perché P. la riempie di espressioni greche o grecizzanti,
quando addirittura non rinuncia, come in "Poenulus", a servirsi di idiomi
perlomeno inusitati, come il punico. A ciò si aggiungano parole mezzo latine e
mezzo greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie del pubblico (es.
pultifagus = mangiapolenta), grecismi con terminazione latina (atticissare =
parlare greco), parole formate da più radici (turpilucricupidus = desideroso di
turpi guadagni) oltre a neologismi veri e propri (dentifrangibula, riferito ai
pugniche rompono i denti; emissicius, che si manda alla scoperta di qualcosa e
perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi iperbolici e
ridicoli (ipsissimus, stessissimo; occisissimus, uccisissimo). Il sermo dei
personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici giochi di parole,
identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa ragazza che stai
abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando gli occhi!" Asin.619),
espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su un piano più propriamente
stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni sorta di figura
retorica. *Fondamentale, infine, la maestria ritmica, i "numeri innumeri",
gli "infiniti metri", la predilezione per le forme "cantate". Ne deriva una
conseguenza importante: lo stile è intrinsecamente vario e polifonico, ma varia
piuttosto poco da commedia a commedia, in una forte coerenza. Insomma, si deduce
che P. non dipende esclusivamente dallo stile di alcun modello e anzi, come già
detto, dà sfoggio di ampia originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione
della divisione in atti, completa trasformazione del sistema
onomastico. Così, "Musas plautino sermone locuturas fuisse, si latine loqui
vellent." ("Se le Muse avessero voluto esprimersi in latino avrebbero parlato
con la lingua di P.") così Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci
tramanda il giudizio critico di Elio Stilone, il primo grande filologo latino
del secolo II a.C. . Per non dimenticare, poi, l’epitaffio del poeta citato da
Gellio (che lo aveva letto negli scritti di Varrone) dove si dice che, alla
morte di P.: "numeri innumeri simul omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in
pianto tutti insieme ritmi innumerevoli"). Allora, la comicità originale
nasce proprio nel contatto fra la materia dell’intreccio e l’aprirsi di
"occasioni" in cui l’azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo
comico" (Barchiesi), in una sfuriata di digressioni esilaranti, battute salaci
e/o beffarde, dialoghi scoppiettanti.
Cecilio Stazio (230/220 –
168 a.C.)
VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI. L'opera di S. attenuava, agli
occhi degli antichi, il contrasto tra Plauto e Terenzio, così netto e istruttivo
ai nostri occhi, poiché ci rivela l'evoluzione della mentalità pubblica tra gli
anni della II guerra punica e quelli delle conquiste orientali., Gallo di
Milano, schiavo, era stato allevato a Roma, poi affrancato. Divenne amico di
Ennio, e fu legato all’attore Ambivio Turione. Di gusti più letterari di
Plauto, imitava di preferenza le opere di Menandro, il più conforme ai canoni
classici fra i poeti della "commedia nuova". Sotto questo riguardo, anticipava
Terenzio, pur conservando alle proprie commedie un "movimento" paragonabile a
quello di Plauto (grande ricchezza di metri, vis comica, gusto per il farsesco).
Giudicato in seguito scrittore piuttosto mediocre, si pensava che avesse
introdotto della profondità (gravitas) nelle sue commedie. Come Terenzio, S. "fa
riflettere". Delle sue opere non conosciamo che alcuni titoli, 40 per
l’esattezza (in parte greci, in parte latini), tutti di palliate: Meretrix ("La
cortigiana"), Portitor ("Il doganiere"), Pugil ("Il pugile"), Epistula ("La
lettera"), Exul ("L'esule"), Fallacia, ("L'inganno"), eccetera.
LE
ORIGINI DELLA STORIOGRAFIA ROMANA.
In modo abbastanza paradossale, sembra
che l'influenza dell'ellenismo abbia avuto sulla formazione della prosa latina
un ruolo più importante che nella formazione della poesia. Questa prosa fece la
sua prima apparizione in coincidenza con la II guerra punica, allorché si
avvertì il bisogno di opporre agli storiografi greci che si trovavano nel campo
di Annibale, una storiografia d'impronta nazionale. E’ significativo, a
questo proposito, che il primo storico romano, Q. Fabio Pittore (vissuto
all'incirca fra il 260 e il 190 a.C.), abbia composto la sua opera storica
("Rerum gestarum libri": a carattere annalistico, dalla fondazione di Roma alla
fine della II guerra punica) sia in greco che in latino (salvo che addirittura
l'opera non si limitasse in origine all'edizione greca, e che la versione latina
non sia altro, perciò, che un semplice rimaneggiamento successivo): ciò
rispondeva alla necessità di raggiungere un pubblico di ambito appunto
mediterraneo e significò una rottura con la tradizione della cronaca
pontificale, da cui pur erano tratti strutture e materiali. P. apparteneva
alla gens Fabia. Senatore e magistrato, aveva combattuto i Galli Insubri. Ebbe
l'incarico di un'ambasciata sacra a Delfi nel 216, dopo la battaglia di Canne,
per riannodare i rapporti esistenti da molto tempo fra Roma e il dio (si
pensava, sicuramente, che nessuno meglio di lui avrebbe potuto perorare la causa
di Roma nei confronti del mondo greco, del quale Delfi era uno dei centri
spirituali). Nella sua opera, dunque, rappresenta il punto di vista
aristocratico, da cui l’acceso nazionalismo e il gusto antiquario: notevole così
l’interesse per le origini di Roma, per l’età regia e per gl’inizi della
Repubblica (epoche alle quali si facevano risalire molte istituzioni, costumi,
usanze religiose e civili). E’ assai verosimile supporre che Pittore e il suo
contemporaneo L. Cincio Alimento (di famiglia plebea, senatore e magistrato,
combattente della II guerra punica) autore anch'egli di una storia annalistica
di Roma dalle origini in lingua greca (storia che si distingue per obbiettività
e capacità di analisi), abbiano subito l'influenza della storiografia ellenica,
e in particolare quella degli storici siciliani, che a Siracusa, città con la
quale a partire dalla prima guerra punica si erano stabiliti rapporti profondi e
amichevoli, erano stati numerosi e brillanti. Timeo di Tauromenio, fra gli
altri, può essere considerato uno dei "padrini" della giovane storiografia
romana. L'opera dei primi annalisti romani è andata quasi interamente perduta.
Le poche notizie di cui disponiamo provengono tutte da citazioni di autori più
tardi e dall'uso che delle loro opere è stato fatto da Tito Livio. Su quali
documenti operavano questi primi storiografi? Possiamo unicamente
immaginarlo, ed è questa la ragione fondamentale della grande varietà di ipotesi
fatte, al riguardo, dagli studiosi moderni. Per alcuni, questi disponevano solo
di leggende elaborate dall'orgoglio nazionale o, più di frequente, dall'orgoglio
delle famiglie nobili. L'indigenza degli archivi di Stato (che, per giunta,
sarebbero andati distrutti durante l'incendio di Roma ad opera dei galli nel 390
a.C. e sarebbero stati ricostituiti successivamente alla meno peggio),
l'incertezza stessa dell'elenco dei consoli dei primi secoli, tutto ciò avrebbe
contribuito a far sì che i primi storici costruissero vicende in gran parte
inventate, colmando le lacune con racconti favolosi forniti dalle epopee
popolari (carmina convivalia), con l'aiuto di "ricalchi" immaginati a partire da
circostanze posteriori o con anticipazioni anacronistiche. Tale è stata e rimane
l'opinione dei moderni "ipercritici". Ma nei casi, piuttosto rari, nei quali
l'archeologia ha potuto stabilire un qualche riscontro (come sul problema delle
origini di Roma, quello delle tradizioni dei re, eccetera), i fatti tramandati
dalla tradizione annalistica si sono rivelati più solidi di quanto si potesse
immaginare.
Quinto Ennio (239 a.C. Rudiae vicino Lecce,
Messapia) VITA. Uno dei massimi esponenti del circolo scipionico fu E.
che, dagli autori successivi sarà considerato pater. Egli nacque in una città
non greca ma messapica: tutta la zona era comunque ellenizzata ed E. si vantava
di possedere la "tria corda", tre anime, per la sua conoscenza di tre lingue:
latino, greco e osco. Combattè nella II guerra punica, e nel 204 a.C. era in
Sardegna negli ausiliari romani, dove incontrò Catone il censore, che notò il
suo spessore culturale e lo condusse a Roma. Catone in seguito diventerà il più
feroce antagonista degli scipioni e cercherà di contrastare la dilagante
ellenizzazione e di difendere i mos maiorum, i costumi. Giunto a Roma, E.
entrerà in contatto con l’Africano e gli dedicherà un’opera, "Scipio". Nel
186 a.C., E. seguirà Marco Fulvio Nobiliore contro gli Etoli e assisterà alla
conquista di Ambragia. L’intento era quello di narrare ed esaltare le sue
imprese, usanza questa tipicamente greca. E. compose anche una tragedia in onore
del magnate, "Ambragia". Nel 184 a.C. il figlio di Nobiliore, Quinto Fulvio,
fondò la colonia di Pesaro e concesse ad E. delle terre e la cittadinanza. Con
grande orgoglio scriverà: "Nos summus Romani qui fumus ante Rudini". Nell'ultima
parte della sua vita si dedicò alla fatica degli "Annales".
OPERE.
*E. compose molte sceneggiature sia drammatiche che comiche (mediocri); fu,
tra l'altro, l'ultimo poeta latino a coltivare assieme commedia e tragedia.
Nella produzione drammatica, puntava sulla tensione stilistica dei suoi versi e
sulla ricerca del pathos. Il modello era Euripide: la rielaborazione dei modelli
classici permetteva di creare effetti di scena e di rafforzare gli elementi
drammatici della rappresentazione. Un altro punto su cui E. fondava la propria
forza era la partecipazione emotiva degli spettatori: le sue tragedia dovevano
suscitare nel pubblico processi psicologici di identificazione con i
personaggi. Delle sue opere minori, ricordiamo così: tragedie [tra queste, il
ciclo troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander (era il
soprannome dato a Paride fra i pastori), Hectoris lytra ("Il riscatto di
Ettore"), Iphigenia, Hecuba, Andromacha aechmalotis ("Andromaca prigioniera di
guerra"), Telamo e Telephus; aveva, inoltre, trattato leggende di origini
diverse: Alcmeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides, Medea
exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes, rassegna nella quale si riconoscono
titoli (e senza dubbio i soggetti) ripresi da Euripide]; 2 praetextae (l'
"Ambracia" e le "Sabinae"); lo "Scipio", celebrazione di Scipione l’Africano
vincitore a Zama; un "Hediphagetica" (il mangiar bene, poemetto gastronomico in
esametri); 3 operette di carattere filosofico (l’ "Epicharmus" e il
"Protrèpticus", in settenari trocaici, e l’ "Heuhemerus" – che tratta della
relativa dottrina – in prosa); il "Sota"; e infine le "Saturae", 4 libri in
versi polimetri, di cui 70 conservati. Scrisse anche epigrammi. *Tuttavia,
sua opera più importante, una delle pochissime opere scritte in età
medio-repubblicana, è un poema epico di 18 libri e di ca 30000 versi (ce ne
restano 600 ca), gli "Annales", titolo che indubbiamente si rifà agli Annales
Maximi, ossia alle registrazioni degli eventi che capitavano di anno in anno.
E., come Nevio, coltiva l’epica storica; la poesia che cerca di creare è cioè
poesia celebrativa di gesta eroiche: si rifaceva così sia ad Omero, sia alla più
recente tradizione ellenistica. Scritta dopo la vittoria che pose fine alla II
guerra punica, essa tuttavia non è più opera di combattimento, ma di meditazione
sulla grandezza e sulla missione storica di Roma. Apparteneva, dunque, alla
generazione successiva a quella di Livio e di Nevio. Gli Annales sono così un
poema epico celebrativo di tutta la storia di Roma, che E. decise di narrare
senza stacchi e in ordine cronologico, privilegiando tuttavia alcuni periodi ad
altri. Particolarmente sacrificata fu in questo senso la I guerra punica, già
trattata dal suo battistrada Nevio (che, quindi, a sua differenza, s’era
limitato ad esaltarne un solo episodio). Anche dal punto di vista concettuale E.
non fu totalmente equilibrato: si occupò maggiormente di avvenimenti bellici che
di vita politica interna. Altra differenza con Nevio è l’utilizzo dell’esametro
dattilico, che da E. in poi diverrà tipico della poesia epica. Infine,
innovativa fu anche la raccolta della storia in libri, concepiti come unità
narrative comprese in un’architettura complessiva (gli ultimi 3 libri furono da
lui aggiunti al piano originale che ne prevedeva solo 15). Per tutte queste
ragioni, E. è spesso considerato dai romani come il vero "padre" della loro
letteratura, il che non mancò di provocare l'ironia di Orazio, al tempo di
Augusto., *Ci è pervenuto l’inizio del poema, in cui E. non fa l’invocazione
alle Camene romane, come fece Livio Andronico, bensì alle muse greche. Seguiva
all’invocazione il proemio con un sogno (nei proemi sono enunciate, in forma
programmatica, le idee di poetica del nostro autore): l’anima di Omero
apparsagli appunto in sogno gli illustra la dottrina pitagorica della
metempsicosi (egli stesso un adepto delle dottrine pitagoriche, che restavano
vitali nei dintorni di Taranto e contavano seguaci nell'aristocrazia romana),
secondo cui l’anima di Omero si era incarnata prima in un pavone e
successivamente in E., l’alter Omerus o Omero Romano. Nel I° libro, E. inizia il
racconto dalla sconfitta di Troia con la fuga di Enea e l’arrivo nel Lazio.
dalle nozze di Enea con la principessa del Lazio nasce una figlia, Ilia, madre
di Romolo e Remo. Uno dei più lunghi frammenti narra il sogno profetico di Ilia.
È un passo significativo con uno stile profetico e drammatico. I libro:
Romolo contro Remo per la fondazione di Roma; II: altri re di Roma; III:
passaggio dalla monarchia alla repubblica e guerra contro Pirro; VII: un secondo
proemio sottolinea la sua distanza dal rozzo Nevio che parlò di saturno e si
definì Docti Studiosus, esperto di lingua e arte (E. contesta anche Livio
Andronico per l'uso dei versi saturni nella traduzione dell'Odissea: egli
infatti riteneva questi versi adatti solamente alle divinità campestri.); VIII:
guerre puniche, contro la Macedonia, la Siria e gli Etoli.
CONSIDERAZIONI. *Grazie a Cicerone ci è pervenuto un frammento gli
"Annales" in cui è espressa l’ideologia dell’intera opera: "Moribus antiquis res
stat Romana virisque" in cui si giustifica l’espansione romana sulla base della
sua virtus. I mores erano i grandi uomini antichi a cui si deve la potenza
romana. Pur parlando di guerra, E. non esalta la violenza, bensì la saggezza
politica e la dedizione allo stato. Nella guerra fra Roma e Cartagine, Roma
corrispondeva a pace e concordia e Cartagine a discordia e violenza, per questo
destinata a soccombere. Così, l’autore tenta di fissare negli Annales non
solo racconti di gesta, ma anche valori, insegnamenti, esempi di comportamento e
modelli culturali. La visione del mondo che viene comunicata è il trionfo
dell'ideologia aristocratica. *E. è più filosofo che "teologo". Insiste di
più sui valori strettamente umani. Due dei suoi poemi (perduti ancor più
interamente degli Annales, di cui restano invece numerosi frammenti),
l'"Epicharmus" e l'"Euhemerus", lo rivelano occupato in speculazioni
cosmogoniche e morali molto lontane dall'atteggiamento religioso tradizionale
dei romani. Nel secondo, egli espone, con particolare congenialità, la dottrina
di Evemero di Messina, secondo il quale gli dèi e le dee del pantheon
tradizionale altro non sono che re e principesse del tempo antico, divinizzati
per i servizi resi all'umanità. Ciò consentiva naturalmente di esaltare
maggiormente i condottieri romani, le cui imprese dominavano sempre più la
storia umana. *Infine, riguardo allo stile e al linguaggio, è da dire che E.
è raffigurato come il primo poeta filologo, cultore della parola, l'unico capace
di stare alla pari con la raffinata cultura greca. Si può definire poeta
sperimentale per l'immissione di numerosi grecismi nelle sue composizioni quali
le innumerevoli pause sintattiche, l'allitterazione e altre figure di
suono.
Afro Publio Terenzio (195 o 185 ca Cartagine - 159 a.C., in
viaggio) VITA. Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a
Svetonio. A questa attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie
del nostro. T. nacque a Cartagine e giunse a Roma come schiavo del senatore T.
Lucano, dal quale fu affrancato "ob ingenium et formam", per il suo ingegno e la
sua bellezza. Divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio; entrò a far
parte dell’entourage scipionico e fu portavoce dell’ideale di humanitas da esso
elaborato. Questa sua posizione di prestigio suscitò l’invidia dei suoi
contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T. sorsero
calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di essere un prestanome dei suoi
importanti protettori che sarebbero i veri autori delle commedie terenziane.
Era, infatti, considerato disdicevole per un civis Romanus, impegnato
politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie (l’unica
attività che era concesso coltivare era l’oratoria o la storiografia). Da
questa accusa T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l’"Adelphoe"
(da adelfoi fratelli). Nel prologo, l’autore afferma che ciò che gli altri
ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di vanto e di
orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più importanti di Roma,
delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa di T. risulta debole,
forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei protettori, a cui le
calunnie e le dicerie non dispiacevano affatto. Amareggiato dal complessivo
insuccesso della sua produzione, T. lasciò Roma nel 160 a.C. e volle fare un
viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui non fece più ritorno. Morì qualche
anno più tardi, o a causa di una malattia, o a causa di un naufragio, oppure per
il dolore procuratogli dalla perdita dei bagagli che contenevano molte commedie
che aveva tradotto da originali menandrei reperiti in Grecia.
OPERE.
T. compose in tutto 6 commedie, pervenuteci interamente con le didascalie
relative alla rappresentazione. La sua carriera drammaturgica non fu facile come
per Plauto: non ebbe lo stesso successo perché la sua commedia non rispondeva ai
gusti del grosso pubblico romano. Quella di T. era una commedia che voleva
trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità romana abituata al
teatro plautino che interpretava i rapporti interpersonali come basati
sull’inganno, sulla violenza e sulle prevaricazioni. Il circolo scipionico
tendeva ad imporre diversi modelli di comportamento, ispirati al costume greco,
e il messaggio terenziano risulta emblematicamente contenuto nella famosa frase
dell’"Heautontimorumenos" (da timoreo, ossia il punitore di se stesso): "homo
sum humani nihil a me alienum puto", "sono uomo e niente di ciò che è umano
considero a me estraneo". T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l’"Andria"
(la ragazza dell’isola di Andrio). Nel 165 a.C. fece rappresentare una
seconda commedia, l’"Hecyra" (la suocera). Il pubblico dopo le prime scene
abbandonò il teatro preferendo assistere ad una manifestazione di pugili e
funamboli; fu un fiasco clamoroso. Nel 163 a.C. fece rappresentare
l’"Heautontimorumenos". Nel 169 a.C. furono rappresentate 2 commedie,
l’"Eunucus" e il "Phormio". L’"Eunucus" fu il più grande successo di T., perché
è la commedia terenziana più simile alla comicità plautina. Nel 160, durante
i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio Paolo, padre di Scipione
Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima commedia, l’"Adelphoe", nella
stessa occasione tentò una seconda rappresentazione dell’"Hecyra", ma anche
questa volta il pubblico abbandonò il teatro preferendo i gladiatori. Una terza
rappresentazione avvenne durante i Ludi Romani dello stesso anno e, finalmente,
fu rappresentato dall’inizio alla fine, il pubblico rimase in teatro grazie alla
presenza di Ambivio Turpione, attore molto celebre. *L’"Hecyra". Il
protagonista dell’"Hecyra" è il giovane Pamfilo, tormentato e patetico, in
perenne conflitto fra amore e pudore. È innamorato di Bacchide, una cortigiana,
ma il padre lo costringe a sposare Filumena, una ragazza perbene. Pamfilo è
combattuto fra la passione per Bacchide e il rispetto della volontà paterna.
Sposa Filumena senza amarla e si rifiuta di avere rapporti intimi con la moglie,
scarica su di lei le sue delusioni. Filumena accetta con umiltà i torti del
marito che, dopo averla conosciuta meglio e confrontata con le altre donne,
impara ad apprezzare il pudore della moglie e dalla stima nasce l’amore; un
sentimento più profondo dell’attrazione per Bacchide. Ad un certo punto, Pamfilo
parte per un viaggio di affari; la moglie lascia la casa del marito, dove viveva
con la suocera Sostrata, e torna a vivere dai genitori. Nessuno sa con
precisione le cause di questo allontanamento. Un servo riferisce che Filumena ha
giustificato il suo allontanamento con motivi di salute, una malattia l’avrebbe
costretta a tornare a casa. Tutti gli altri personaggi ritengono che la causa
dell’allontanamento siano stati i conflitti con la suocera. È soprattutto il
marito di Sostrata ad accusarla di aver reso la vita impossibile a Filumena e di
averla costretta ad allontanarsi da casa. Sostrata si ritiene innocente e in un
monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che vogliono tute
le suocere ostili alle proprie nuore. Nessuno conosce i motivi reali che l’hanno
indotta a lasciare la casa, ma tutti i personaggi avanzano supposizioni
infondate. Il messaggio che T. vuol trasmettere è che non bisogna giudicare
dalle apparenze e lasciarsi guidare dai soliti pregiudizi. La realtà è spesso
ben diversa dalle apparenze. Ritorna Pamfilo dal viaggio e viene informato
dell’accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie per constatare di
persone le condizioni di salute di Filumena. A casa di Filumena, Pamfilo scopre
la verità, ben diversa da ciò che gli altri pensavano. Filumena ha lasciato la
casa perché sta per partorire un figlio non di Pamfilo, ma che è stato concepito
prima del matrimonio, frutto di una violenza notturna subita da Filumena durante
una festa, ad opera di uno sconosciuto. In un monologo lungo e patetico, Pamfilo
rivela al pubblico questa verità e mette a nudo i suoi sentimenti, il conflitto
che si agita in lui fra amore e pudore. Sa che la sua vita senza la moglie sarà
una vita vuota, però sa che l’onore e la società lo costringono a separarsi
dalla moglie e a non considerare come suo l’alienus puer. Pamfilo non rivela
però il vero motivo per cui divorzia per non compromettere il buon nome di
Filumena. I due suoceri, all’oscuro della verità, pensano che pamfilo voglia
ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con lei. Vanno a parlare con
Bacchide che rivela ai due che non ha più rapporti con Pamfilo dal giorno del
matrimonio. Pur essendo una cortigiana, Bacchide accetta un compito che
nessun’altra al suo posto avrebbe accettato: andare da Filumena per dirle che
Pamfilo la ama. Bacchide è uno dei personaggi più peculiari del teatro di T., si
contrappone allo stereotipo della cortigiana, agisce contro i suoi interessi
perché affezionata a Pamfilo e vuole la sua felicità. Bacchide va da Filumena
e la madre nota al dito della cortigiana un anello che apparteneva alla figlia e
che Filumena portava la notte in cui aveva subito la violenza e che le era stato
strappato dal giovane. Bacchide rivela che l’anello le era stato dato da
Pamfilo, il giovane stupratore era quindi il marito. La commedia si conclude con
il ristabilimento dell’unione che una serie di equivoci avevano
minato. *Altre commedie interessanti sono l’"Heautontimorumenos" e gli
"Adelphoe". In queste commedie, il tema principale è il problema pedagogico del
rapporto fra genitori e figli e di quale sia il migliore metodo per educare i
giovani. Protagonista della prima, è un vecchio genitore, Meneremo, che con la
sua severità ha costretto il figlio a lasciare la sua città e ad arruolarsi come
soldato, iniziando così una vita di pericoli e di disagi. Dopo essersi reso
conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide di autopunirsi, vende
tutti i suoi beni, va in campagna sottoponendosi a lavori massacranti. Un altro
anziano, Cremete, che ha un campo vicino al suo, nota il comportamento di
Menedemo e lo invita ad aprirsi con lui, a confidarsi. È Cremete a pronunciare
il famoso verso"homo sum humani nihil a me alienum puto". Negli "Adelphoe"
sono protagonisti 2 fratelli, Demea e Micione. Il primo è un uomo all’antica,
rigido e austero che ha due figli, uno dei due lo educa personalmente secondo i
sistemi tradizionali, l’altro, invece, lo affida al fratello Micione, che, non
sposato, vive in città e ha idee moderne. È padre per libera scelta e decide di
educare il figlio adottivo con indulgenza e liberalità. Secondo lui i giovani
devono instaurare un rapporto basato sul dialogo con i genitori. Non bisogna
costringerli a fare il bene solo per paura di una punizione, ma per una scelta
personale, sua spunte e non per metus (Timore).
CONSIDERAZIONI.
Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei: solo
l’"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono commedie di Apollodoro di Caristo, un
altro commediografo greco che non conosciamo. Cesare definì T. "Dimidiatus
Menander", ossia un Menandro dimezzato; giudizio questo che svalutava T.
rispetto al greco. Rispetto a Plauto, le commedie di T. presentano maggiore
fedeltà ai modelli greci, ma si tratta sempre di una fedeltà relativa: anche T.,
come Plauto, ricorreva alla contaminazione, ovvero non traduceva alla lettera i
testi greci. Rispetto a Plauto, T. mantiene un’ambientazione rigorosamente
greca, senza surreali intrusioni di usi e costumi romani. T. elimina quasi
completamente i cantica, facendo invece uso abbondante dei versi lunghi. Altra
notevole differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: non
troviamo in T. l’esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le
parodie dello stile tragico; evita vigorosamente espressioni popolari e volgari;
segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria. Quello di T.
è insomma uno stile sobrio, naturale, all’insegna della compostezza, della
semplicità. Anche in T., al centro della vicenda comica troviamo amori
ostacolati che, alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli
della commedia nea, giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; troviamo anche qui
i soliti stereotipi della nea equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento
conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli " Adelphoe ". Sempre 5 su 6 si
concludono con uno o più matrimoni: solo nell’"Hecyra " troviamo il
ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa di
equivoci e sospetti infondati. T. tende a complicare gli intrecci menandrei,
inserendo nella commedia, accanto alla coppia principale, una seconda coppia.
Gli adulescens sono quindi 2 e sono 2 i senex. Rispetto a Plauto, T. costruisce
i suoi intrecci con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche
queste mancanti nell’altro, che puntava sull’efficacia comica della singola
scena. Altra differenza importante con Plauto e Menandro, è l’abolizione del
prologo informativo. T. trasforma il prologo informativo in un prologo a
carattere letterario; nel prologo parla di sè, del suo modo di poetare e si
difende dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. Plauto e Menandro si
servono del prologo per informare il pubblico dell’antefatto e anticipano spesso
la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire meglio la
vicenda, il cui intreccio era spesso complesso. Ciò rendeva il pubblico
superiore ai personaggi della commedia. T. elimina il prologo informativo,
perché punta su effetti di suspense, vuole che lo spettatore si immedesimi nel
personaggio, vuole che il pubblico sia coinvolto emotivamente nelle vicende,
provi le stesse emozioni dei personaggi. T. vuole mascherare l’aspetto fittizio
dell’evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta l’illusione scenica.
Elimina tutti i procedimenti metateatrali a cui spesso ricorreva Plauto. Tutto
ciò ha uno scopo preciso: mentre Plauto non perseguiva nessun fine morale o
politico, ma tendeva solo a divertire, T., con le sue commedie, vuole
trasmettere un messaggio morale. T., inoltre, attenua i tratti caricaturali
dei personaggi della nea e ne fa delle figure delicate, tenere, sensibili (ma
più "tipi" che individui). Protagonista del suo teatro non è più il servus
callidus, ma padri e figli. Non ridicolizza i sentimenti d’amore dei giovani, ma
li segue con partecipazione e simpatia. I padri terenziani sono differenti da
quelli plautini, sono disponibili al dialogo con i figli e si preoccupano della
loro felicità più che del loro patrimonio e del veder affermata la loro
autorità. Nel teatro di T. non esistono personaggi del tutto negativi. Anche i
servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari; non
tutte le cortigiane pensano ai propri interessi. Il messaggio che vuole
trasmettere è quello di aprirsi agli altri, rinunciare all’egoismo, comprendere
i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori altrui, essere
tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente da uomo fra gli
uomini.
Marco Pacuvio (Brindisi 220 – Taranto 130
a.C.)
VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI. Introdotto, grazie all'influenza
dello zio Ennio, negli ambienti filoellenici di Roma, in particolare nel
"circolo degli Scipioni", P. sembra che abbia imitato più Sofocle che Euripide,
forse sotto l'influsso dei suoi amici romani, il cui gusto si volgeva verso il
classicismo attico. Ecco i titoli delle sue tragedie che ci sono stati
tramandati: "Antiopa", "Armorum iudicium" (la contesa tra Aiace e Ulisse per le
armi di Achille), "Atalanta", "Chryses", "Dulorestes" ("L'Oreste schiavo"),
"Hermiona", "Iliona", "Medus" (storia del figlio di Medea, avuto da Egeo, re di
Atene), "Niptra" ("Il bagno" in cui, si narrava, Telègono, figlio di Ulisse,
aveva involontariamente ucciso il padre). Sua è anche una praetexta ("Paulus"),
allestita forse in occasione del trionfo di Paolo Emilio su Perseo (160 a.C.).
Nella serie dei giudizi tradizionali dati al tempo di Orazio sugli antichi
tragici romani, P. passava per un "vecchio sapiente": forse per il fatto che si
era sforzato di rinnovare le ispirazioni del suo teatro, ricorrendo a modelli
meno ritriti. In ogni caso, le sue opere teatrali vennero riprese ancora molto
tempo dopo la sua morte, e persino il pubblico popolare ne conosceva a memoria
lunghi brani. I frammenti abbastanza lunghi che ce ne fa conoscere Cicerone
lasciano intravedere, in P., un grande vigore di stile, un senso del patetico
moderato dalla preoccupazione per la dignità che conviene agli eroi, un senso
tutto romano della virus, una conseguente spiccata sentenziosità, una certa
predilezione per il macabro (che ne fanno una sorta di precursore di
Seneca). Di conseguenza, la lingua è contraddistinta da parole strane, forme
insolite, conii artificiosi. Fu anche autore di "Saturae", in vario metro,
purtroppo perdute.
Lucio Accio (Pesaro, 170 – 85 ca
a.C.) VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI. Si tratta di un poeta "moderno" e
"dotto". In viaggio a Pergamo, nel momento in cui il regno di Attalo III
diventava provincia romana (133 a.C.), era stato iniziato ai metodi della
filologia pergamena. I suoi interessi si erano rivolti alla storia del teatro a
Roma e anche in Grecia. Oltre ad alcuni scritti "minori" – "Didascalica"
(prosimetro, su questioni di storia letteraria); "Pragmatica" (di tecnica
teatrale); "Annales" (almeno 27 libri su storie e miti connessi alle festività),
"Sotadica" (poesie erotiche) - la cui varietà dimostra la vivace curiosità del
suo intelletto e l'estensione della sua cultura, A. ha lasciato numerose
tragedie, delle quali ci sono noti circa 45 titoli. Dei testi di queste opere,
però, possediamo solo alcuni frammenti (700 versi circa), che non possono darci
che un'idea molto generale della sua arte. Le tragedie di A. trattano in
genere di leggende greche già più volte portate sulla scena. I suoi soggetti
preferiti sembrano essere quelli che comportano episodi violenti o atroci. La
sua fama cominciò verso il 130, con la messa in scena di un Tereus (storia del
bambino che la madre fa divorare dal marito infedele). Com'era facile
prevedere, A. trattò in seguito l'intero ciclo dei Pelopidi, con una tragedia
dallo stesso titolo, a cui si aggiungevano un Atreus, un Chrysippus, una
Clytaemestra, un Aegisthus e una tragedia dal titolo Agamemnonidae, che
sviluppavano tutta intera la serie delle atroci violenze che avevano
caratterizzato ogni generazione di quella dinastia. Al ciclo troiano
appartenevano l'Achilles, l'Epinausimache (la ripresa dei combattimenti nei
pressi delle navi, un celebre episodio dell'Iliade), l'Armorum iudicium (la
controversia fra Ulisse e Aiace sull'attribuzione delle armi di Achille), la
Nyctegresia (la spedizione notturna di Diomede e Ulisse nel campo troiano),
Troades, Astyanax, Deiphobus, eccetera. Alcune di queste opere si
ricollegano direttamente all'Iliade, altre alla Piccola Iliade e ad altri poemi
ciclici. I soggetti tebani erano rappresentati da Phoenissae, Thebais, Antigona
ed Epigoni. I miti dionisiaci erano largamente ricordati con Athamas, Bacchae,
Tropaeum Liberi e probabilmente Erigona. Altri soggetti celebri (Medea,
Alcestis, Alcmeo, Andromeda, Meleager, Prometheus, eccetera.) completavano
infine il repertorio tradizionale al quale A. si ispirava. E’ stata avanzata
l'ipotesi che il poeta non avesse scelto i suoi soggetti senza una qualche
finalità recondita e che, in una certa misura, tenesse conto dei problemi di
attualità, ad esempio della questione sociale nel periodo dei Gracchi. La cosa è
difficilmente dimostrabile nei particolari. In se stessa, tuttavia, l'idea è ben
lungi dall'essere inverosimile. Di sicuro c'è che i romani (e in particolare
Cicerone, grande ammiratore di A.) trovavano sempre, nelle sue opere, materiali
per inattese applicazioni. Il che era agevolato dall'abbondanza delle massime
morali e degli sviluppi di idee comuni, come la tirannide, l'esilio,
eccetera. La ricchezza oratoria di A., come traspare anche dai frammenti
rimasti, prelude già allo stile delle tragedie di Seneca: il linguaggio ha un
tono magniloquente e ridondante, ricco di giochi allitterativi e di composti
eruditi. La celebrità di A. si deve anche alle due tragedie praetextae da lui
composte: il "Decius" o Aeneadae e il "Brutus". La prima ricordava le
"devozioni" dei Decii, il sacrificio delle loro vite che quei tre eroi avevano
compiuto, uno dopo l'altro, per assicurare la vittoria alle armate romane (295
a.C.). Di queste due tragedie, noi conosciamo però molto meglio la seconda, che
portava in scena la caduta della monarchia e l'avvento della repubblica. Si
assisteva all'attentato contro Lucrezia e alla punizione dei tiranni. Un sogno e
la sua interpretazione da parte di un indovino davano luogo a una scena celebre
che Cicerone cita testualmente nel De divinatione. Essa rivela un senso della
gravitas religiosa e della presenza del divino che sembra smentire le
affermazioni dei moderni troppo propensi a considerare la religione nazionale,
in quell'epoea, solo come un'accozzaglia di leggende obsolete. Qualunque
fosse la realtà degli dèi, le anime continuavano a essere agitate da sogni, da
presagi, e conservavano comunque la loro fede nei riti. Si è spesso
rimproverato ad A. l'eccessiva violenza e ricercatezza del suo stile, quella sua
volontà di rimanere nel "sublime" ad ogni costo che, se non impedì il successo
delle sue opere, segnò tuttavia l'inizio del declino cui andò incontro il genere
tragico dopo di lui. Fatto sta che la conseguenza più importante delle
carriere di A. e Pacuvio fu forse, in definitiva, che la tragedia salì di classe
e di tono: la sua pratica, pur continuando a godere del successo popolare,
divenne sempre più cosa da gentiluomini.
Marco Porcio Catone il
Censore o il Vecchio (Tusculum, 234 a.C.)
VITA. C. visse nel
periodo più intenso della storia romana, quello delle guerre puniche e
dell’espansione ad oriente. Per le guerre contro la Macedonia e la Siria,
s’intensificarono i rapporti tra Roma e la Grecia. L’ala più progressista
romana, a capo della quale erano gli Scipioni, si aprì alla cultura greca; C. fu
rappresentante invece dell’area più tradizionalista dell’aristocrazia. Di C.
abbiamo due immagini contrastanti: 1.Quella delineata da Cicerone nel "Cato
Maior seu De senectute" è un’immagine idealizzata, mitizzata. C. diventa
cittadino esemplare e incarna i mores, i costumi del passato. 2.L’altra la
troviamo nella biografia di Plutarco che, nelle sue "Vite Parallele", fa di C.
un personaggio contraddittorio, un uomo che si atteggia a moralista, a censore
dei costumi ma che, nella sfera privata, non disdegna di esercitare l’usura o di
darsi a speculazioni finanziarie spregiudicate, esoso verso i suoi dipendenti e
gli schiavi, un uomo che colpisce le vanità altrui ma che appare egli stesso
vanitoso e ambizioso (e forse è questa l’immagine più reale). Nato da
famiglia contadina, C trascorse la giovinezza lavorando le terre in Sabina. La
sua origine lasciò un’impronta determinante nella sua mentalità. Fu arruolato
nella II guerra punica e rimase sotto le armi per quasi tutta la durata del
conflitto. Solo alla fine iniziò il cursus onorum. Egli era un uomo novus, la
cui famiglia non aveva mai ricoperto cariche politiche. Per la sua attività
politica si avvalse dell’appoggio di Valerio Flacco, aristocratico conservatore.
Nel 204 a.C. fu eletto questore; nello stesso anno Scipione portava la
guerra in Africa. C. lo seguì. Il contrasto fra di loro è immediato. C. infatti
contestò l’eccessiva prodigalità di Scipione e le eccessive elargizioni alle sue
truppe. Quello rispose che non aveva bisogno di un questore così preciso e che
doveva dare conto a Roma non del denaro speso, ma delle imprese portate a
termine. Tornato in Italia, incontra Ennio e lo porta a Roma. Negli anni
seguenti continua la carriera politica, e nel 195 a.C. Flacco diviene console.
Nello stesso anno i tribuni della plebe proposero l’abrogazione della lex oppia,
legge promulgata nel 125 a.C. dopo la disfatta di Canne che vietava alle donne
di indossare abiti lussuosi e gioielli d’oro che superassero un certo peso;
questo perché bisognava concentrare le risorse economiche per le imprese
militari. C. si oppose, però la legge venne abrogata. Nel 190 a.C. era
finita la guerra contro Antioco III di Siria che, sconfitto pagò ai romani
15.000 talenti di cui 500 andarono direttamente agli Scipioni. C. colse la palla
al balzo e li attaccò sul loro punto debole, l’amministrazione del denaro
pubblico. Lo stesso Scipione, in conseguenza dei processi che ne derivarono,
preferì allontanarsi in volontario esilio. Nel 184 a.C. C. divenne censore
con Valerio Flacco e lo fece con rigore proverbiale. Si oppose in tutti i modi
al lusso eccessivo, al mal costume e alla corruzione di cui davano prova gli
esponenti dell’aristocrazia progressista. Nel 180 a.C. muore Flacco e C. smorza
i toni aspri della sua polemica, si avvicina a Lucio Emilio Paolo che è
diventato l’uomo più rappresentativo del circolo scipionico. Combina il
matrimonio fra il figlio Marco e Terzia, figlia di quello. Intanto cerca di
arricchirsi con speculazioni finanziarie e con l’usura. Continua poi la
polemica contro i greci. Nel 161 a.C. il senato, sotto sua ispirazione, emanò un
decreto di espulsione per tutti i retori e i filosofi greci residenti a Roma.
Nel 155 a.C. giunsero a Roma come ambasciatori ateniesi, 3 filosofi greci,
Carneade, Diogene e Critolao che, in attesa di essere ricevuti dal senato,
tennero a Roma delle conferenze: i romani li andarono a sentire e ne rimasero
affascinati. C. consigliò al senato di riceverli il prima possibile per farli
andare via altrettanto rapidamente. La paura dei romani per la retorica e la
filosofia è basata sull’autonomia e sullo spirito critico che queste comportano;
da un lato ne sono affascinati, dall’altro hanno paura che esse possano
corrompere i valori e i rapporti sociali tradizionali. Negli ultimi anni, C.
conduce una campagna politica contro Cartagine, città non più un pericolo dal
punto di vista militare ma competitiva dal punto di vista commerciale. La III
guerra punica fu dichiarata nel 149 a.C. anno della morte di C..
OPERE.
*Per raggiungere le vette del potere politico, C. fu un oratore eccellente:
con lui sarà inaugurato il nesso fra politica e arte oratoria, la capacità di
tenere discorsi persuasivi. L’oratoria diventa strumento politico. Nel corso
della sua vita, a detta di Cicerone, C. pronunciò moltissimi discorsi (almeno
160) e fu anche il primo a scriverli per rielaborarli. Noi possediamo circa 80
titoli e qualche frammento delle sue orazioni. Per C. l’oratore perfetto doveva
essere Vir Bonus Dicendi Peritus. C. inoltre dà la precedenza al vir e alla sua
integrità morale, ponendo in secondo piano l’abilità nel parlare. Ciò che conta
per lui è l’interiorità, senza la quale non si può essere un buon oratore. Altro
precetto che ci ha lasciato è la famosa frase: "Rem tene, verba sequentur".
Fra le orazioni di C. ricordiamo il "De sumptu suo": qui C. contrappone il
"proprio tenore di vita" a quello dei suoi avversari e traccia l’immagine di sé
come di un politico onestissimo che esercita le sue cariche con disinteresse,
ligio al proprio dovere. Contrapponeva quindi questa immagine di perfezione a
quella degli altri che esercitavano il loro potere per interesse personale,
sfruttando il prestigio che avevano. Altra orazione fu quella del 167 a.C.
"Pro Rodiensibus" (In difesa degli abitanti di Rodi). Rodi era alleata romana e
durante la guerra tra Roma e Perseo rimase neutrale. Dopo la vittoria fu
accusata dai romani di tradimento. Roma la voleva punire e C. intervenne in sua
difesa affermando che si possono punire le azioni, non i pensieri. Il senato
accettò la tesi di C., ciò nonostante qualche anno dopo Rodi venne punita
economicamente: Roma dichiarò la vicina Delo porto franco e i traffici si
spostarono da Rodi a Delo. *Altra operetta è il "Praecepta ad Marcum
filium", a carattere enciclopedico e di pronta consultazione; il suo intento era
di istruire il figlio, di essere il suo primo maestro e di criticare l’uso che
si stava diffondendo di far educare i propri figli dai greci. L’opera era
divisa a seconda della disciplina che voleva insegnare: arte, retorica, medicina
ecc. Vi è un frammento in cui parla al figlio dei greci screditandoli.
Secondo C. è necessario conoscere i greci ma non farsi influenzare poiché sono
corrotti e corruttori. *L’unica opera pervenutaci interamente è il "De agri
cultura", la prima scritta in prosa della letteratura latina: è un trattato
sull’agricoltura. Non è a carattere sistematico: sono 162 capitoli in cui sono
esposti consigli circa la conduzione di un’azienda agricola. L’azienda di cui
parla è finalizzata non ad un’economia di sussistenza ma di mercato: si
contrappone il modello del podere di medie dimensioni al nascente latifondo. C.
consiglia il podere da acquistare, i lavori da compiere, insegna la cura delle
malattie di piante e animali, i compiti del fattore, insegna come trattare i
dipendenti e come comportarsi con gli schiavi che, per lui non sono persone ma
res. Nelle sue intenzioni, l’opera ha anche funzione morale e sociale: C.
infatti ritiene che l’agricoltura innanzitutto è l’attività più sicura ed
onesta, e che poi è solo col lavoro agricolo che si formano i buoni cittadini ed
i buoni soldati. *C. si cimentò anche nel genere storiografico, e da vecchio
scrisse un’opera - "Origines" - di cui abbiamo solo frammenti: le uniche
testimonianze unitarie le possediamo tramite Cornelio Nepote. Sappiamo che
l’opera era in 7 libri, e seguiva questo profilo: I libro: origini di Roma e
periodo monarchico; II e III: storia delle altre città e popolazioni italiche;
IV: Iª guerra punica; V : IIª guerra punica; VI e VII: avvenimenti successivi
sino al 151 a.C., anno in cui il pretore Servio Sulpicio Galba vinse sulla
popolazione spagnola dei Lusitani grazie ad atti di grande ferocia e crudeltà
che C. denunciò in un’orazione del 149 a.C. poco prima di morire. C. Vuole,
con questa opera, porre sullo stesso piano Roma e le altre città italiche (per
lui la potenza di Roma è frutto anche dell’appoggio delle altre popolazioni);
inoltre non cita i nomi dei generali, ma li indica con la carica ricoperta, e lo
fa per contestare la concezione individualistica, "carismatica" della storia,
cosa evidente nell’epica storica di Ennio e nelle prime opere storiografiche
romane, gli Annales. Di contro, C. vedeva invece la creazione e la storia dello
stato romano come l’opera collettiva e progressiva del "populus romanus",
stretto intorno all’ideologia e agli uomini della classe dirigente senatoria.
LA STORIOGRAFIA DOPO CATONE
*Già nel 149, quando Catone morì,
l'ellenismo invadeva Roma o, quanto meno, produceva nelle coscienze un
riequilibrio di valori del quale abbiamo già avuto modo di rilevare l'ampiezza,
a proposito di Terenzio e di Lucilio. I generi in prosa non si sottraevano a
tale influenza. Gli eruditi greci cominciavano a essere conosciuti a Roma
parallelamente ai filosofi e, mentre grazie a questi ultimi gli oratori
cominciavano a interrogarsi sul valore e sui limiti dell'eloquenza, insieme
all'erudizione venivano crescendo anche le esigenze nei confronti della
storiografia. *Da questo punto di vista, è caratteristica la parte avuta
dallo scrittore greco Polibio. Alto magistrato della lega achea al momento di
Pidna, si trovò compreso nell'elenco degli ostaggi achei rivendicati da Roma
dopo la vittoria (167). Ciò spiega la ragione per cui visse a Roma per molti
anni. Legato a L. Emilio Paolo, fu precettore dei suoi figli e "guida
spirituale" del giovane Scipione Emiliano. Storico egli stesso, cercò di
comprendere il fenomeno storico costituito da Roma: in che modo, in meno di una
generazione, la repubblica avesse raggiunto i risultati che, nello spazio di due
secoli e mezzo, i re orientali non avevano ottenuto, e cioè riportare la pace
nel bacino del Mediterraneo e imporre al mondo un potere forte e stabile.
Intorno a quest'uomo, l'élite dei giovani romani è portata a riflettere sul
ruolo della propria città, e a sottoporre ogni azione alla critica della ragione
e della conoscenza. *Ma dalle lezioni di Polibio trassero profitto
soprattutto gli uomini di stato filoellenici e i teorici della filosofia
politica; quanto agli storici, bisognerà aspettare fino a Tito Livio, e cioè
fino ai tempi di Augusto, per trovare in modo certo un impiego diretto della sua
opera. In verità, noi non conosciamo quasi nulla degli annalisti del secondo
secolo a.C. Cosa mai contenessero le opere storiche di P. Cornelio Scipione,
figlio di Scipione l'Africano, o quelle di C. Acilio o, infine, la storia di A.
Postumio Albino, aspramente ripreso da Catone perché, al pari di Scipione e
Acilio, era uso scrivere in greco, ci è ignoto. Essi avevano scelto quest'ultima
lingua per disprezzo verso il latino, per conformarsi alla tradizione di Fabio
Pittore e di Cincio Alimento, o perché si trovavano sotto l'influenza di
Polibio? Non lo sappiamo. E’ probabile però che l'impiego del greco permettesse
a questi autori di rompere il quadro, essenzialmente romano e quasi rituale,
dell'esposizione successiva, anno per anno, degli avvenimenti. *Gli storici
di lingua latina di quest'epoca si adattano, infatti, ancora allo schema
annalistico. Così, oltre a L. Cassio Emina e a L. Calpurnio Pisone, uno degli
autori più "critici" nei confronti delle antiche leggende, C. Fannio, genero di
C. Lelio e membro, perciò, del "circolo degli Scipioni", nel quale s'incarna la
tendenza modernista e filoellenica. Pisone e Fannio erano stati gli ascoltatori
e, in una certa misura, i discepoli di Panezio, il filosofo stoico che,
trasferitosi a Roma, vi era rimasto fino al 130 circa, in contatto anch'egli col
"circolo degli Scipioni". Com'è noto, la dottrina stoica comportava delle
riflessioni sulla storia, attraverso le quali essa si sforzava di dare una
lettura dei disegni della provvidenza, di quel dio che, a suo giudizio, governa
il mondo. La ricerca storiografica delle cause, piuttosto che dalla diretta
imitazione degli storici greci, nei quali la nozione di causa (ad esempio in
Tucidide) rimaneva piuttosto confusa e relegata nella contingenza, ebbe dunque
origine in questo modo. *Vi furono anche, alla fine del II secolo e
all'inizio del I, altri annalisti che si limitarono a dare continuità alla
tradizione dei più antichi. Claudio Quadrigario, diffidando dei documenti
relativi ai primi passi della repubblica, diede avvio ai suoi "Annales" con
l'evento della presa di Roma da parte dei Galli. A quanto pare, tendeva
soprattutto ad evidenziare il carattere pittoresco del racconto e a privilegiare
le situazioni drammatiche. Il suo contemporaneo, Valerio Anziate, si è meritato
invece la cattiva fama d'essere stato un compilatore poco scrupoloso, avendo
inventato particolari che non si trovavano nelle fonti ed esagerato le cifre
(degli armati, dei caduti in battaglia, eccetera), e avendo scelto sempre, fra
le varie versioni di un evento, quella più ricca di elementi
fantastici. *Tuttavia, in questa II metà del II sec., si vede sorgere una
forma di narrazione storica che non ha più nulla a che vedere col metodo
annalistico, e il cui interesse è rivolto, al contrario, alla trattazione di un
periodo o di un evento ben determinati. Così i 7 libri di Celio Antipatro sulla
guerra di Annibale, o le "Historiae" di Sempronio Asellione che esaminavano un
periodo di cui l'autore era stato testimone diretto (dal 134 al 90
a.C.). Antipatro e Asellione applicavano, in questo modo, la concezione
storica prevalente presso i greci in quello stesso periodo. Il fatto che l'opera
di un Posidonio, discepolo di Panezio, sia stata concepita nel medesimo spirito
(la ricerca delle cause all'interno di un periodo definito), lascia supporre
che l'origine comune sia da ricercare nella dottrina elaborata dagli stoici già
romanizzati e nell'ambiente dello stesso Polibio, il quale aveva a sua volta
tratto profitto dall'esperienza e dalla riflessione dei suoi amici sulla
gestione pratica degli affari pubblici. E’ significativo inoltre che questi
storici abbiano cominciato la loro carriera come uomini d'azione: Sempronio
Asellione aveva servito sotto il comando di Emiliano a Numanzia, Polibio, nella
sua giovinezza, aveva cominciato con l'essere "ipparco" nella lega achea;
Posidonio era stato "pritano" della repubblica di Rodi. Per loro la storia è la
prosecuzione dell'azione, non è ancora diventata opera esclusivamente erudita o
letteraria.
Gaio Lucilio (Sessa Aurunca, Campania/Lazio 148/7 –
102/1 a.C)
VITA. Di origini nobili, fu uno fra i primi romani che
abbiano affrontato il viaggio in Grecia per farsi una cultura filosofica e
sicuramente fu il primo letterato di buona famiglia a condurre una vita da
scrittore, volontariamente appartata dalle cariche pubbliche. La sua
biografia è segnata dall'incontro con gli Scipioni: fu compagno di Scipione
Emiliano in Spagna, nel l33, in occasione della guerra di Numanzia. Poco dopo,
giovanissimo, esordiva come poeta, riprendendo il genere della "satira".
Divenuto adulto, saranno proprio i grandi personaggi del partito scipionico a
proteggerlo. Per le sue origini aristocratiche, i suoi rapporti, l'ambiente in
cui viveva, L. fu infatti spinto a prendere partito nelle lotte politiche; lo
fece con vivacità e persino con violenza. Evoca per esempio i grandi processi
del tempo, il che lo porta a rappresentare scene di vita nel foro. Altre volte,
affidando ai versi gli avvenimenti della sua vita quotidiana, racconta un
viaggio in Campania e in Sicilia, dove lo chiamavano gli affari privati. Quasi
nulla si sa, comunque, del periodo più tardo della sua vita.
IL
SIGNIFICATO DI "SATIRA". Le origini della satira sono abbastanza confuse: la
connessione col termine greco "satyros" è del tutto falsa: la satira in origine
non sembra aver avuto niente a che fare con i satiri e con il teatro comico
greco. Sembra invece che "satura lanx" indicasse nell'antica Roma un piatto
misto di primizie che venivano offerte agli dei. È probabile allora che il
valore di mescolanza e varietà fosse quello originario. Il nome, dunque, non è
greco ma romano (come l'atellana), ed è proprio per questo che Quintilliano
contrappone la satira agli altri generi di letteratura latina come l'unica
veramente e solamente romana. Per i primi poeti la satira era intesa come
spazio personale, in cui si poteva esprimere la voce personale del poeta. Già ai
tempi di Ennio la produzione letteraria era abbastanza articolata ma nessuno dei
generi canonici dava spazio ai pensieri diretti del poeta. Nelle satire varietà,
voce personale e realismo sono le caratteristiche principali: L. decide di
specializzarsi nel genere satirico e lo sviluppo della satira negli anni
seguenti segnò lo sviluppo di un nuovo pubblico, interessato alla poesia
scritta, culturalmente avvertito e desideroso di una letteratura che
rispecchiasse la realtà
OPERA. Di L. abbiamo esclusivamente "Satire"
(egli stesso le chiama "poemata" o anche "ludus ac sermones", poesie scherzose),
in 30 libri, di cui ci restano 900 frammenti ca. Furono raccolte ed ordinate
con criterio metrico: l’autore aveva pubblicato progressivamente i libri
XXVI-XXX, contenenti le satire in settenari trocaici e semari giambici e, verso
la fine, in esametri dattilici; i libri I-XXI, in esametri (forse sua ultima e
definitiva scelta); i libri XXII-XXV, nei quali pare prevalesse il verso
elegiaco (sono stati aggiunti al corpus postumi). I temi delle satire
luciliane si possono riassumere nel seguente elenco: la parola del Concilium
Deorum: attraverso una parodia di concili e decisione divine, L. prende di mira
un certo Lentulo Lupo, personaggio antipatico agli scipioni (lo farà morire di
indigestione); la descrizione di viaggi e il filone gastronomico: vi è un libro
di satire (III) in cui si parla di un viaggio in Sicilia e altri in cui sono
scritte delle ricette succulenti; l'amore e le questioni letterarie: nel XVI
libro L. parla della donna di cui è innamorato.
CONSIDERAZIONI. *L.,
dunque, si dedicò esclusivamente alla satira, trattandola inizialmente, come già
aveva fatto Ennio, in versi trocaici e giambici, i versi dei generi drammatici;
in seguito, nell'ultima parte della sua produzione (quella che, nella raccolta
pubblicata, forma i primi 20 libri), userà solo l'esametro, creando in tal modo
la forma definitiva della satira, poema "ragionato", più narrativo e meditativo
che drammatico, portato gradualmente a quell'ordine formale con cui ci apparirà
più tardi. *Il realismo, il gusto dell'aneddoto che ritroviamo nelle arti
plastiche romane, l'interesse per i paesaggi, gli oggetti, i dettagli
dell'esistenza reale e quotidiana, tutto ciò traspare nei frammenti rimasti e
delinea una tradizione. Aperto alle influenze elleniche (in particolare, i
commediografi greci e la filosofia stoica neoaccademica), L. resta partigiano
convinto dei valori romani tradizionali, ma senza essere schiavo dei pregiudizi
e della grettezza della generazione precedente. In un celebre passo, proclama
che il primo posto si deve dare alla patria, il secondo ai componenti la propria
famiglia, e solo il terzo a se stessi, il che significa, in questa morale della
saggezza, subordinare la propria felicità a quella degli gli altri,
atteggiamento che, dopo Epicuro e Zenone, non è più quello dei filosofi
greci. Con lui vediamo come la mentalità romana, quanto meno nell'élite
cittadina, abbia superato la crisi, l'inquietudine di cui l'opera di Terenzio
era testimonianza, proseguendo con successo la sintesi di cultura ellenica e
tradizione nazionale. *Infine, dal punto di vista stilistico, la poesia di L.
si apre in tutte le direzioni: amalgama il linguaggio celebrativo dell'epica,
come fosse parodia, e fa uso di termini tecnici e retorici che finora non erano
mai stati usati.
Neoteroi (I sec. a.C.) Quello dei n. (o
"poetae novi") è un gruppo di poeti, quasi tutti provenienti dalla Gallia
Cisalpina, che operò a Roma nel I sec. a.C. Vennero così definiti
polemicamente da Cicerone, nel senso di "quelli alla moda", con allusione al
loro gusto ellenizzante e aristocratico, e al loro atteggiamento di innovatori
d’ispirazione alessandrina (riflesso della situazione politica – conquiste di
Roma in oriente – e della lezione epicurea). "Lepos", "venustas" e "urbanitas"
sono dunque le loro parole-chiave, armonizzate in un rapporto ch’è al contempo
etico ed estetico. Legati da reciproca amicizia, liberi e spregiudicati
nella vita privata, i n. avevano in comune il culto della letteratura e
l’esigenza di esprimersi con spontaneità e insieme estrema consapevolezza
d’arte: contrapponevano, cioè, alla letteratura usata solo per fini
etico-politici, l'otium letterario individuale: il piacere di scrivere diventa
lo scopo e il fine della vita. Insomma, proclamavano una poesia affermatrice
dell’individualismo, che avvertiva i problemi inquietanti della crisi
repubblicana e che, se pur si schierava con spirito di fronda contro i nuovi
dittatori (Cesare), avversava paritempo – in letteratura – il tradizionalismo
(per quanto illuminato – di un Cicerone. Dichiararono, così, guerra ai lunghi
poemi epici di imitazione enniana, privilegiando gli epilli, i "carmina docta"
(brevi componimenti di argomento poco noto a imitazione di Callimaco e di
Euforione), la diretta confessione lirica e le divagazioni leggere ("nugae")
sempre nel più meticoloso rispetto della tecnica metrica. Cercarono
l’ispirazione preferita nel tema amoroso (e in questo punti patenti sono le
differenze con l’epicureismo). Tra gli altri – oltre che ovviamente Catullo –
vanno ricordati almeno: Levio (che, in verità, è più un prenoterico), autore
di una vasta raccolta di "Erotopaegnia" (ossia, "scherzi d’amore"), di cui
restano frammenti. In essa, trattava, con toni sentimentali e romanzeschi, ma
smitizzando il materiale della tradizione epico-tragica, gli amori di personaggi
del mito o di eroi troiani. Poeta colto, introdusse in Roma il genere
alessandrino dell’elegia narrativa, influendo – coi suoi arditi neologismi, con
pittoreschi impasti di lingua colta e colloquiale, coi diminutivi affettivi – la
generazione neoterica. Varrone Atacino, che iniziò con un poema sulla
campagna di Cesare contro Ariovisto ("Bellum Sequanicum") e con "Satire" di tipo
luciliano, e si fece poi divulgatore della poesia alessandrina rielaborando in
latino le "Argonautiche" di Apollonio Rodio, componendo poesie d’amore, una
"Chorographia", d’argomento geografico, e un calendario agricolo in versi
("Ephemeris"). Licinio Calvo, oratore di tendenza attica, scrisse anche,
oltre ad epigrammi di invettiva politica, epitalami e altri componimenti di
soggetto amoroso, nonché un epillio ("Io"). Elvio Cinna, la cui fama è
legata soprattutto all’epillio "Zmyrna", sull’amore incestuoso di Mirra per il
padre, caratterizzato dalla "brevitas" dello stile, dalla densità della dottrina
e dalla mostra di conoscenza della psicologia amorosa. Furio Bibaculo, di
cui restano 2 epigrammi su Valerio Catone, suo maestro, e si sa di altri contro
Augusto. Alcuni critici lo identificano con un Furio Alpino, autore di 2 poemi
perduti: "Pragmatica Belli Gallici", di carattere storico, e "Aethiopis", di
carattere mitologico.
Gaio Valerio Catullo (SirmioneVerona, 84? –
Roma, 54? a.C.)
VITA. C. apparteneva ad una famiglia agiata, e suo
padre ospitò più di una volta Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del
Lago di Garda. Trasferitosi a Roma per gli studi, secondo la consuetudine dei
giovani di famiglie benestanti, trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue
doti di scrittore ed entrò a far parte dei neóteroi o poetae novi. Il poeta
entrò in contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto
Ortensio Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote. C. è
stato definito come il poeta della giovinezza per il suo modo di scrivere e di
pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, che il poeta amò con
tutto il cuore. Il vero nome della donna era Clodia (chiamata Lesbia, perchè il
poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la donna amorosa di
Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno Clodio, e moglie del
proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q. Metello Celere. La
storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: nelle sue poesie abbiamo
diversi accenni allo stato d'animo che C. provava per lei, a volte di affetto e
amore, a volte di ira per i tradimenti di lei: tutto, fino all'addio
finale. Deciso, infine, ad allontanarsi da Roma, per dimenticare le
sofferenza e riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il
pretore Caio Memmio in Bitinia. Laggiù, in Asia, il giovane C. entra in contatto
con l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente. E’ probabilmente dopo questo
viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per
compiangerlo, che compone i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in
patria. Morì a poco più di 30 anni, per il dolore che Lesbia gli dava
trastullandosi con i nuovi amanti a Roma.
OPERA. Il "liber"
catulliano di "carmi" (116 e circa 2300 versi) si può dividere, su base metrica,
in 3 sezioni: - (1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o
coserelle; - (61-68) sono definiti "carmina docta": elegie, epilli ed
epitalami nei quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando
naturalmente ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l’epitalamio
per le nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e
felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi galliambi,
strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di bravura
callimachea; il celebratissimo carme 64, il vasto epillio per le nozze di Péleo
e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una piccola epopea mitologica
sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in esametri della "Chioma di
Berenice" di Callimaco, preceduta dalla dedica all’amico Ortalo in distici
elegiaci; un’elegia epistolare di gusto alessandrino, che ricorda il tempo
felice dell’amore di Lesbia. - (69-116) sono carmi brevi o "epigrammi" in
distici elegiaci.
CONSIDERAZIONI. *Il I e il III gruppo
costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è consegnata tutta la storia
dell’amore di C. per Lesbia. Le peripezie di questo romanzo d'amore non ci
appaiono molto chiare: dovettero esservi giorni (e per lo meno una notte) di
felicità, ma anche molte sofferenze, giacché Clodia, checché se ne dica, nutriva
grande attenzione per la sua reputazione e per il suo onore di gran dama, e
anche, probabilmente, perché lei e C. non concepivano l'amore nello stesso modo.
Egli l'amava con la foga di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare
sull'idea che Clodia fosse per lui "la sposa". A lei, invece, quel nodo nuziale,
dal quale la morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava.
Clodia, inoltre, era una donna che amava civettare con uno stuolo di giovani al
suo fianco. C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere
l'unico, in nome degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che non
era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in versi
atroci, dove pretendeva che Lesbia si prostituisse con chi le capitava. Seguì la
separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per lei. "Amo e odio", le
scriveva, "tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so che è così, e
soffro." *Dunque, il rapporto con Lesbia – cui C. programmaticamente
trasferisce tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi del
civis romano (del resto, sebbene vissuto in un'epoca di grandi cambiamenti
politici, C. nelle sue opere dimostra tra l’altro una grande indifferenza per le
situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e Cicerone) – nato
essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato sull’eros, nel farsi
oggetto esclusivo dell’impegno morale del poeta tende però, paradossalmente, a
configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un tenace vincolo matrimoniale,
o quantomeno ad un "foedus", un ibrido – se vogliamo – dei due valori cardinali
dell’ideologia e dell’ordinamento sociale romano: la "fides" e la "pietas".
Tuttavia, l’offesa ripetuta del tradimento (il "foedus violato") produce in C.
una dolorosa dissociazione fra la componente sensuale ("amare") e quella
affettiva ("bene velle"). *Il II gruppo di carmi, invece, è quello che più
lega C. al movimento neoterico e quella che più corrisponde alla variante romana
del gusto alessandrino. Ma la critica recente ha sottolineato come la
distinzione tra "nugae" e "carmina docta" non implichi in C. l’impiego di un
diverso impegno letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso
livello espressivo: si tratta, insomma, sempre di una lirica dotta e
aristocratica (come i fruitori dell’opera), secondo i canoni estetici dei
neoteroi, anche laddove l’effetto patetico e certe movenze apparentemente
dimesse potrebbero far pensare ad un’espressione per così dire popolare (è,
invece, più giustamente, "ricercata spontaneità"). La stessa lingua è il
risultato di un originale impasto di linguaggio letterario e "sermo
familiaris". *L’opera di C., anche se non è ancora quella di un "elegiaco", è
comunque l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo che ha già
acquistato diritto di cittadinanza nella poesia. Per ciò che conserva ancora in
sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da mettere
piuttosto fra i predecessori immediati che fra i poeti augustei che formeranno
in seguito il "classicismo" della poesia romana. E’ però l'unico a emergere
rispetto alla produzione dei neoteroi, condannata in modo così fermo da Orazio
nella sua "Ars poetica" in nome del "ritorno ai valori classici dell'atticismo",
che sarà la parola d'ordine (quanto meno ufficiale, ma non sempre seguita) degli
augustei.
Tito Lucrezio Caro (99? – 55?
a.C.)
VITA. Della vita di L. rimane poco o nulla: due righe di san
Gerolamo ed un accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente
avversi alla dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con
ponderatezza. Il silenzio su questo grande poeta, che dovette provocare comunque
un certo scalpore nella Roma di Cesare, è tuttavia emblematico della
stigmatizzazione che dovette subire il "De rerum natura", lontano com’era sia
dagli allora in voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo
stoicismo eclettico di Cicerone, sia dall’esaltazione della politica attiva o
della guerra fatta da Catilina e Cesare. Nato nei burrascosi tempi della
guerra civile fra Silla e Mario, probabilmente proveniva da Napoli o da Roma
(dalla sua opera e dal modo in cui si rivolge all'aristocratico Memmio non si
riesce però ancora a capire se fosse anch'egli un aristocratico oppure un
liberto) e altrettanto probabilmente trascorse una vita tormentata da forti
passioni, come si rileva in molti passi del "De rerum natura". Va, tuttavia,
respinta la teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da
un filtro d'amore: si pensa infatti che l'accusa sia nata nel IV secolo al fine
di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta.
L. E
L’EPICUREISMO A ROMA. Torna al sommario A parte il rigore intollerante di
Catone il Censore, la cultura e il pensiero greco erano penetrati, attentamente
filtrati, nel mondo romano. Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del
pensiero greco pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone
trovava un elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l'epicureismo
era visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale
tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene,
distoglieva i cittadini dall'impegno politico per la difesa delle istituzioni.
Inoltre l'epicureismo, negando l'intervento divino negli affari umani, portava
molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non poteva più usare la
religione come strumento di potere. Poco si conosce riguardo la penetrazione
dell'epicureismo nelle classi inferiori della società romana; probabilmente
divulgazioni dell'epicureismo circolavano presso la plebe attratta dalla
facilità di comprensione di quei testi e dagli inviti al piacere in essi
contenuti. Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, L. scelse la forma del
poema epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell'agire di L.: se
da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per il
fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall'altro ne fa uso per
divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da L., così
alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover spiegare
anche l'atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente Cicerone non
poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è proprio
l'eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non tenere conto di
L. nella sua polemica all'epicureismo.
OPERE. La sua più grande
opera, il "De rerum natura", fu scritta in esametri e suddivisa in sei libri:
probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso, manca di una revisione. Il
poema di L. è dedicato a Gaio Memmio, che fu amico e patrono di Catullo e Cinna.
San Girolamo asserisce che il "De rerum natura" fu rivisto e pubblicato da
Cicerone pochi anni dopo la morte di L.. La data di composizione non è
sicura: probabilmente fu composta nel periodo successivo al 58, anno in cui fu
pretore Memmio. Il poema è chiaramente articolato in tre gruppi di due libri
(diadi): Nel I libro, dopo l'inno a Venere, personificazione della forza
della natura, sono spiegati i principi generali della filosofia epicurea. Nel II
libro viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più originale
di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo. Il III e IV libro costituiscono la
seconda coppia che espone l'antropologia epicurea. La terza coppia di libri
prende in esame la cosmologia: il libro V espone la mortalità del mondo, mentre
il VI discorre di come la volontà divina non influisca minimamente negli affari
degli uomini. Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante di
dissoluzione. All’attacco di ogni libro, invece, c’è una celebrazione di
Epicureo, del suo coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui L.
evidentemente intende il riferimento anche come rivolto a se stesso). Come
detto, il "De rerum natura" probabilmente non ha ricevuto un'ultima revisione:
il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, in corrispondenza con il
gioioso inno a Venere, e non con il terrificante quadro della peste di
Atene.
FILOSOFIA. *Religio. Il "De rerum natura" si apre con
l’invocazione a Venere, dea dell’amore, unica a poter placare la sete di sangue
di Marte, dio della guerra: L. vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco,
della guerra di Gallia e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e
vorrebbe un ritorno alla pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di
potere della classe politica romana. La via che L. trova per affrontare i
mali della vita è la dottrina di Epicuro, cantato come simbolo della ratio
umana, che fuga i miasmi della religione e della superstizione e prende
coscienza dello stato umano. All'inizio del poema L. invita il lettore a non
considerare subito empia la dottrina che egli si accinge ad esporre, e a
riflettere su quanto, al contrario, sia davvero crudele ed empia la religione
tradizionale (emblema ne è il sacrificio di Ifigenia): la religione è in grado
di sopprimere e condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro
cuore un seme di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più
nulla, smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei
timori che essa comporta. Si vede, quindi, già dai primi versi come L. offra un
nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una
speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque, questi
timori nascono dall'ignoranza delle leggi meccaniche che governano il
mondo. L’accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della
filosofia di L.: Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava
piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice. *Natura. Per insegnare agli
uomini come la dottrina epicurea possa servire da tetrafarmaco, e combattere
cioè la paura per morte, malattia, dolore e dei, L. inizia la sua descrizione
della natura. Tutto ciò che ci circonda è formato da piccolissimi granelli
indivisibili, gli atomi, i semina rerum o genitalia corpora come li chiama il
poeta per enfatizzare il loro originario ruolo di creazione. Ogni pianta,
pietra, uomo è formato da atomi, e cosí persino l’animo umano; ed ogni cosa è
destinata a nascere e disfarsi in eterno; solo gli atomi sono immortali e non i
loro aggregati. In questo mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano
le particelle elementari, c’è comunque spazio per la libertà: all’origine
dell’universo c’è una deviazione del moto atomico, un clinamen, che ha dato il
via alla formazione delle cose ed al gioco infinito della natura. *Morte.
Dopo aver descritto la natura della materia l’autore invita i suoi lettori
(rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di ineluttabile e
comunque esterna all’uomo: quando noi siamo non c’è morte, quando c’è la morte
noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine l’uomo dovrebbe
occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo stupide ambizioni
(E tu esiterai, e per di piú t’indignerai di dover morire? Tu cui è morta la
vita mentre ancora sei vivo e vedi e consumi nel sonno la parte maggiore del
tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere sogni, e hai l’animo
tormentato da vane angosce, né riesci a scoprire qual sia cosí spesso il tuo
male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni parte gli affanni e vaghi
oscillando nell’incerto errare della mente - III, vv. 1045-1052). *Sensi e
amore. Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di come possano
essere turbati. I sensi, per L., non fanno altro che captare dei flussi atomici
particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle nostre orecchie e vediamo
perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai sensi che hanno origine ogni
forma di conoscenza e la ragione umana, non crollerebbe soltanto tutta la
ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe di schianto, se tu non osassi
fidare nei sensi (IV, vv. 507-8). Anche stavolta, dopo aver cercato di
trasmette l’atarassia epicurea, L. si allontana dalla calma del suo maestro e
descrive con profonda partecipazione quanto piú può turbare i sensi, le passioni
amorose e carnali, a cui dedica i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio:
Brucia l’intima piaga (l’amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei
giorni l’ardore, l’angoscia ti serra, se non confondi l’antico dolore con nuove
ferite, e le recenti piaghe errabondo lenisca d’instabili amori, e ad altro tu
possa rivolgere i moti dell’animo (vv. 1068-1073); Infatti proprio nel momento
del pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l’ardore degli amanti che
non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta la
creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le mordono a
sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere non è puro, e
vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l’oggetto, qualunque sia, da cui
sorgono i germi di quella furia (vv. 1076-1083). Dopo aver condannato l’amore
come sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv. 1079-1083), amarezza (v. 1134),
rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e segg.), cecità (v. 1153), miseria (v.
1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179), L. cambia tono: "È proprio lei che
talvolta con l’onesto suo agire, / l’equilibrio dei modi, la nitida eleganza
della persona, / ti rende consueta la gioia d’una vita comune. / Nel tempo
avvenire l’abitudine concilia l’amore; / ciò che subisce colpi, per quanto lievi
ma incessanti, / a lungo andare cede, e infine vacilla". Appare diverso,
teneramente malinconico, più paterno ("E spesso alcuni [...] trovarono fuori [di
casa] una natura affine, così da poter adornare di prole la loro vecchiaia", vv.
1254-6). Personalità contrastata fra ratio e furor, L., come scrisse Schwob,
"conoscendo esattamente la tristezza e l’amore e la morte, continuò a piangere e
a desiderare l’amore e a temere la morte". *Civiltà e peste. Nel libro
seguente il poeta descrive dettagliatamente la formazione del mondo e la nascita
della civiltà: I re cominciarono a fondare città e a stabilire fortezze, per
averne difesa e rifugio a sé stessi, e divisero i campi e il bestiame, assegnati
a seconda della forza, dell’ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv.
1008-1111), senza però cadere in tentazioni positiviste: con la nascita della
civiltà nascono anche l’ambizione e la cupidigia, contro cui L. si scaglia con
forza: Lascia dunque che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano
sull’angusto sentiero dell’ambizione, poiché sanno per bocca d’altri e dirigono
il loro desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo
accade e accadrà piú di quanto è accaduto in passato (vv.
1131-1135). Insomma, L. pone molta attenzione sul progresso dell'uomo e ne
delinea gli effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto
rilievo il fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e
il sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i
desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di
quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo veramente
felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna abbandonare gli
sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali. Anche nel discusso
finale dell’opera, la descrizione della tremenda peste di Atene, il poeta si
distacca dalla pretesa leggerezza dell’epicureismo, per immergersi completamente
nella malattia e nelle morti: probabilmente l’opera non doveva avere questo
finale (è comunque appurato che dovesse essere il sesto l’ultimo libro e non
moltissimi versi alla chiusura del poema), mancando la descrizione delle sedi
degli dei e la spiegazione di come l’epicureismo possa aiutare ad affrontare
persino i mali piú oscuri come la peste; il passo rimane comunque emblematico
del tormentato animo lucreziano, che in questa descrizione è piú vicino al gusto
dell’orrido di stoici come Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del
Giardino.
CONSIDERAZIONI. Prima del "De rerum natura" la letteratura
romana non aveva prodotto opere di poesia didascalica di grande impegno; d'altra
parte, L. si differenzia notevolmente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha
come unico scopo quello di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della
vita dell'uomo e del mondo, di convincere il lettore della validità della
dottrina epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua ispirazione
negli argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza dell'importanza
ella materia e delle informazioni date determina un particolare tipo di rapporto
tra L. e il lettore discepolo: questo viene continuamente esortato e minacciato
affinché segua con rettitudine i precetti e il percorso di felicità imposti
dall'epicureismo. Un ulteriore differenza tra la poesia didascalica
ellenistica e quella di L. sta nel fatto che quest'ultimo ricerca le cause dei
fenomeni, e propone al lettore una verità, una ratio sulla quale è obbligato ad
esprimere un giudizio, mentre la prima si limita a descrivere in maniera
empiristica tali fenomeni. Per L. non vi è nulla di cui meravigliarsi
nell'osservazione di questo o quel fenomeno poiché esso è connesso
necessariamente con una regola oggettiva: non può trarne stupore chi abbia
capito il funzionamento di tale regola. Alla retorica del mirabile egli
sostituisce la retorica del necessario (necesse est è una formula molto usata
nel poema di L.). I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono
pensati per spronare il lettore a scegliere anch'egli un modello di vita forte e
alta: il lettore di L. è chiamato a trasformarsi in eroe, a farsi pronto e forte
come la poesia che egli legge. Il destinatario ideale di L. è colui che sa
adeguarsi alla forza sublime di un'esperienza sconvolgente: in questo modo la
dottrina degli atomi è descritta non solo in sé, ma anche nelle reazioni di
vertigine che può provocare nel lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel
"De rerum natura" un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare
per contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi
ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è la rigorosa
struttura argomentativa. L. usa anche il sillogismo. Il libro che testimonia
la perizia argomentativa di L. è il III, dedicato alla confutazione del timore
della morte. Pur avendo dimostrato scientificamente la mortalità dell'anima, L.
si rende conto che ciò non basta per distogliere l'uomo dalla paura di lasciare
la propria vita. Al fine di convincerlo L., nella parte finale del libro, dà la
parola alla Natura stessa, che si rivolge all'uomo: se la tua vita è stata bella
e piena di gioie ti puoi allontanare da lei come un convitato sazio e felice
dopo un banchetto; se invece è stata triste, che senso ha continuare a vivere
un'esistenza infelice? In questo libro è evidente il contatto di L. con la
letteratura diatribica (ossia l'accorgimento di far parlare dei personaggi
fittizi di particolare interesse). I critici sono molto confusi riguardo al
binomio autore e narratore: benché siano la stessa persona non devono essere
sovrapposte meccanicamente. Come visto, un'attenta lettura dell'opera induce a
constatare che la tensione dell'autore è sempre rivolta a conseguire il
convincimento razionale del lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina
di liberazione morale. L. è fortemente contrario alle insensatezze della
passione amorosa poiché questa non è certamente un bisogno necessario e deve
essere, di conseguenza, esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno
agito anche stimoli culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi
all'ideologia erotica dei neoteroi. La volontà di L. è allora, come già detto,
quella di ricercare un indirizzo stilistico elevato che accolga nella sua forma
sublime gli elementi della satira e della diatriba.
STILE. Se le
teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l’animo, L. la
considera come il miele che, cosparso sull’orlo del bicchiere, aiuta il bambino
a prendere la medicina (nam veluti pueris abstinthia taetra medentes / cum dare
conantur, prius oras pocula circum / contingunt mellis dulci flavoque liquore -
lib V vv. 11-13): la sua poesia è scientifica, chiara (obscura de re tam lucida
pango / carmina), in netta rottura coi vatum terriloquis dictis di molti poeti
che l’hanno preceduto (anche se può sembrare strano che la ricerca della
chiarezza si accompagni ad un frequente uso di arcaismi e grecismi). Il
commento di Cicerone riguardo il "De rerum natura" testimonia che egli ammirava
in L. non solo l'acutezza del pensatore, ma anche le grandi capacità di
elaborazione artistica. Anche lo stile, come l'organizzazione complessiva della
materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si
spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a una prima vista,
potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche. Anche l'invito
all'attenzione del lettore è ripetuto spesse volte. Non bisogna trascurare
inoltre che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli tecnici e non era quindi
in grado di esprimere certi concetti della filosofia greca, L. si trovò
costretto così a dover inventare nuove perifrasi e nuovi vocaboli: il poeta
sfrutta molti vocaboli della poesia arcaica e molti altri ne crea ex novo. Vi è
inoltre un uso abbastanza frequente di allitterazioni, assonanze, costrutti
arcaici, infiniti passivi in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai
e l'uso dell'enjambement. L. dimostra di avere una buona conoscenza della
letteratura greca, come testimoniano le riprese da Omero e Platone e la
descrizione della peste di Atene. Il registro del poema è quello dell'entusiasmo
poetico posto a servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace
di durezze ed eleganze, pronto alla commozione ma anche all'invettiva profetica:
comunque sempre grandioso.
Marco Terenzio Varrone (Reate, oggi
Rieti, in Sabina, nel 116 – 27 a.C.)
VITA. Studiò a Roma e ad Atene.
Difensore della tradizione, si schierò dalla parte di Pompeo. Cesare gli perdonò
e gli affidò la biblioteca pubblica che intendeva instaurare in Roma. Pare sia
stato anche consigliere di Augusto per le questioni
religiose.
OPERE. Ancor più che come poeta moralizzante, V. agì sul
suo tempo come erudito. La sua riflessione si estese a tutti i campi che si
presentavano agli "antiquari" del suo secolo: dal passato della lingua latina
("De lingua latina") alla storia letteraria di Roma (De poetis, De poematis,
eccetera, con particolare riguardo per i problemi sollevati dal teatro di
Plauto), alla religione romana e alla "vetustà" delle istituzioni e dei costumi
profani ("Antiquitates rerum humanarum et divinarum"), fino al diritto (15 libri
di diritto civile), alla cronologia generale, alla genealogia delle famiglie
nobili, passando ancora per la geografia, l'agricoltura ("De re rustica"), la
geometria, l'aritmetica, per concludere infine con un quadro dei differenti
sistemi filosofici. Ecco i contenuti delle opere: - "De rustica", in 3
libri: il I tratta dell’agricoltura in generale; il II dell’allevamento del
bestiame; il III degli animali da villa e da cortile. Non destinata
all’istruzione pratica del fattore (se non nelle apparenze), ma scritta
piuttosto per alimentare e compiacere l’ideologia del ricco proprietario
terriero – secondo il presupposto del processo di concentrazione delle terre –
l’opera in qualche modo "estetizza" la vita agricola. Sue caratteristiche: la
profonda conoscenza della materia, la formula dialogica – spesso briosa ed
arguta, quando non è soffocata dall’erudizione – e l’amore per la sana vita dei
campi. - "Antiquitates rerum humanarum et divinarum" (41 libri): da S.
Agostino, che ce ne ha conservato lo schema strutturale, apprendiamo che essa si
divideva in due parti, dedicate la I alle antichità profane (libri 1-25), la II
a quelle sacre (libri 26-41). La storia – come è qui concepita – è
soprattutto storia di costumi, di istituzioni, e anche di "mentalità"; è la
storia collettiva del popolo romano, sentito come un organismo unitario in
evoluzione. - "Imagines" o "Hebdomades" (15 libri), 700 ritratti di uomini
illustri, latini e greci, accompagnato ognuno da un elogio in versi e da una
notizia in prosa, disposti in 7 su un foglio e distribuiti in diverse categorie:
capitani, politici, poeti, ecc… - "De lingua latina". Primo trattato
sistematico di grammatica latina, era diviso in 3 parti: sull’etimologia (libri
II-VII), la teoria delle declinazioni (VIII-XIII) e la sintassi
(XIV-XXV). Dei libri superstiti (V-X), i primi 3 parlano dunque di
etimologia, mentre gli altri della flessione, e in particolare discutono la
questione, allora in voga, dell’ "anomalia" e dell’ "analogia". V. propende
sostanzialmente per l’ultima. - "Logistorici" (76 libri), serie di
trattatelli: ad es. "Marius, de fortuna", "Catus, de liberis educandi"… -
"Discipline" (9 libri), una vera e propria enciclopedia delle arti
liberali; - "Saturae Menippeae" (150 libri), in chiave etico-didascalica ad
emulazione dei prosimetri di Menippeo di Gàdara, filosofo cinico, severo
fustigatore dei corrotti costumi. V. è uno dei primi e, forse, il più
completo degli enciclopedisti romani.
CONSIDERAZIONI. Il suo pensiero
è chiaro, sebbene egli abbia la tendenza a usare e ad abusare di suddivisioni
sistematiche non sempre rispondenti alla realtà. Dall'antichità in poi, ha
costituito la fonte inesauribile delle informazioni cui hanno attinto tutti gli
autori successivi e in particolare sant'Agostino, che da lui ha ricavato
moltissimi elementi relativi alla religione romana. (morì, infatti, solo nel 27
a.C.). Virgilio, da parte sua, ha molto utilizzato il suo trattato
sull'agricoltura (che è fra le fonti delle Georgiche). V. fornisce perciò al
proprio secolo l'impalcatura delle conoscenze sulle quali aspira ad appoggiarsi
una letteratura che si rivela sempre meno una manifestazione di pensiero e
sempre più un fenomeno di "stile".
Marco Tullio Cicerone (Arpino
106 – Formia 43 a.C.)
VITA. C. nasce da una famiglia agiata
equestre: è dunque un "uomo nuovo": egli sarà il primo della sua famiglia ad
accedere alle magistrature: lo dovrà al proprio talento, ma anche agli appoggi
che, sin dall'adolescenza, troverà presso le famiglie nobili. C. compie
studi di retorica e filosofia a Roma, discepolo del giurista Q. Muzio Scevola e
ascoltatore assiduo di Marco Antonio e di Licinio Crasso, i due oratori più
apprezzati nel senato e fra il popolo. Nella casa di Scevola, venne a contatto
con l'aristocrazia intellettuale romana raccolta intorno al "circolo degli
Scipioni" (Scevola era il genero di Lelio), al cui interno erano difesi e
salvaguardati i valori della gravitas, della dignità personale, ma anche il
gusto della cultura. Queste impressioni giovanili s'imprimeranno
duraturamente nell'animo di C.: verso la fine della sua vita, ogni volta che
vorrà animare, in un dialogo, le sue idee più care, metterà in scena le figure
di quel mondo che sarà per lui una specie di età aurea della repubblica, un'età
della quale egli aveva conosciuto solo il crepuscolo. C. vedeva anche, intorno a
sé, il quadro animato degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, dei grammatici
venuti dalla Grecia, che a nessuno sarebbe più venuto in mente di bandire, e di
cui anzi i più nobili romani ricercavano la compagnia: il poeta Archia, i
filosofi Diodoto e Fedro, stoico il primo, epicureo il secondo, Filone di
Larissa, rappresentante della "Nuova Accademia", che avrebbe avuto su di lui una
notevole influenza. Questi primi studi furono interrotti dalla Guerra
sociale, alla quale C. partecipò nello Stato maggiore di Pompeo Strabone e poi
in quello di Silla. Non appena concluso questo servizio militare, obbligatorio
per chi volesse avviarsi alla carriera politica, C. cominciò a intervenire ai
dibattiti nel Foro: nell'81 debutta come avvocato e un anno dopo difende Sesto
Roscio, accusato di parricidio, contro importanti esponenti del regime sillano.
Vinse la causa del proprio cliente ma, probabilmente su consiglio di coloro che
avevano utilizzato il suo giovane ingegno, partì per l'Oriente per farsi
dimenticare e rimanere in attesa che Silla abbandonasse il potere. Tra il 79
e il 77 compie, dunque, il viaggio in Grecia e in Asia, dove studia filosofia e
retorica per migliorare il proprio linguaggio. Nel 75 diventa questore in
Sicilia e nel 70 gli verrà chiesto di sostenere l'accusa di concussione dei
siciliani contro l'ex governatore Verre ("Verrine"): il processo non era
limitatamente giudiziario, ma aveva implicazioni politiche, da to che tramite
Verre veniva messo in discussione l'intero sistema del regime oligarchico: C.
accettò, correndo il rischio di separarsi dai suoi protettori. Ortensio Ortalo,
più anziano di C. e oratore rinomato per il suo talento, assunse il compito
della difesa. C. portò avanti le cose in tal modo, riunì testimonianze così
schiaccianti, che Verre non osò neppure perorare la sua causa e se ne andò in
esilio dopo un solo giorno di dibattimento. Edile nel 69, pretore nel 66, C.
è eletto in ciascuna delle consultazioni a cui gli è consentito di partecipare
come candidato, con una schiacciante maggioranza di voti. Per lui, sono ora
schierate non tanto le famiglie nobili ma, oltre al popolo, che è sensibile alla
sua parola, le famiglie degli equiti, l'ordine equestre del quale è egli stesso
originario. Nel periodo in cui è pretore, C. pronuncia un discorso importante,
il "Pro lege Manilia", a favore del progetto di conferire a Pompeo poteri
straordinari in Oriente, dove la guerra contro Mitridate si prolunga da tempo.
Gli aristocratici erano ostili a questa legge, per timore di queste insolite
procedure. Ma l'assemblea popolare seguì il parere di C., e la legge fu
approvata. Nel 63 diviene finalmente console, e nel periodo della sua carica
si schiera con fermezza contro un altro progetto che ledeva gli interessi
dell'aristocrazia, una legge agraria appoggiata sottobanco da Cesare. Le quattro
orazioni sulla legge agraria (De lege agraria), di cui possediamo solo una
parte, sbarrarono la strada a questa mozione. Lo stesso anno C. ebbe la
responsabilità di difendere l'ordine contro una pericolosa congiura ordita da L.
Sergio Catilina ("Catilinarie") con l'aiuto di alcuni altri nobili che speravano
di ripetere, a proprio vantaggio, l'avventura di Silla. La situazione a Roma si
presentava estremamente complessa. Catilina poteva contare sulla complicità di
numerose personalità, alcune delle quali si sottrassero quando si trovarono di
fronte al pericolo. Ma fu necessaria tutta l'energia del console (il suo collega
era sospetto di simpatie a favore dei congiurati), per evitare che Roma fosse
incendiata e le maggiori autorità dello Stato assassinate. C. ebbe dunque la
meglio e, sostenuto da un senatoconsulto, fece giustiziare i congiurati che era
stato possibile arrestare. Gli altri, compreso Catilina, perirono sul campo di
battaglia ai primi dell'anno successivo. In quel momento, C. poteva dire di
aver realizzato intorno a sé l'unione di tutte le "persone oneste", gli
Optimates, ma il trionfo non fu di lunga durata. Dopo il consolato di Cesare
(nel 59), le violenze del partito popolare condotto da P. Clodio Pulcro, allora
tribuno, portarono alla messa sotto accusa dell'ex console, per aver fatto
giustiziare, senza processo, dei cittadini. La coalizione degli Optimates non fu
in grado di resistere alla volontà dei triumviri, Cesare, Pompeo e Crasso e,
mentre Cesare si avviava verso la Gallia di cui s'iniziava la conquista, C. fu
costretto in esilio in Grecia (marzo 58). Torna tuttavia a Roma l'anno
seguente e cerca di allacciare rapporti con il triumvirato. Fu questa, per lui,
l'occasione di un'intensa attività oratoria: ringraziamenti ufficiali (Oratio
cum Senatui gratias egit, Oratio cum populo), invettive al senato contro coloro
che l'avevano tradito (In Pisonem, eccetera). Ma in una repubblica lacerata
da ambizioni feroci, più che altro si dedica a scrivere le sue opere maggiori,
non partecipando che marginalmente alla vita politica: nel 55 pubblica il "De
oratore", nel 51 portò a termine il "De rupubblica". Nel 51 è governatore in
Cilicia. In seguito allo scoppio della guerra civile, nel 49, dopo molte
esitazioni si unirà al partito del senato, capeggiato da Pompeo. Quando
quest'ultimo viene sconfitto, C. ottiene facilmente il perdono di Cesare. Nel
frattempo, divorzia dalla moglie Terenzia e sposa Publilia. Nel 45 gli muore la
figlia Tullia; inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche.
Nel 44, morto Cesare, rientra nella vita politica e comincia la sua lotta contro
Antonio ("Filippiche"). Ma dopo il voltafaccia di Ottaviano, che stringe il II
triumvirato, il suo nome viene inserito nelle liste di proscrizione: muore nel
43 sotto i colpi dei sicari di Antonio.
CONSIDERAZIONI SUL PERSONAGGIO
STORICO E SUL SUO PENSIERO POLITICO-FILOSOFICO.
*Degno testimone e
protagonista del tramonto della repubblica, C. fu politicamente un conservatore
"moderato": l'idea che cercherà di difendere nel corso della sua carriera sarà
quella dell'egemonia di un blocco sociale ("concordia ordinorum"),
sostanzialmente la classe possidente dei senatori e dei cavalieri: C., grande
avvocato e manipolatore delle parole, rivela la sua ars dicendi come una tecnica
sapiente e produttiva, funzionale al dominio dell'uditorio e, quindi, ottimo
strumento politico. Il fine dell'oratoria e della filosofia ciceroniane è quello
di dare una solida base ideale, etica, politica a una classe dominante il cui
bisogno di ordinare non si traduca in ottuse chiusure (ma rispettasse gl’ideali
dell’ "humanitas"), cui l’ossequio per la tradizione antica non impedisca
l'assorbimento della cultura greca. Quindi l'intero operato di C. si può
interpretare come la ricerca di una difficile situazione di equilibrio fra
istanze di ammodernamento e necessità di conservazione delle leggi tradizionali.
La stessa collaborazione con i triumviri fu una risposta al bisogno di un
governo autorevole e anche in questo caso C. si preoccupò di mantenere saldo il
potere del senato. A C. mancarono le condizioni per crearsi il seguito
clientelare o militare necessario a far trionfare la sua linea politica; inoltre
sottovalutò il peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione
della crisi; infine non tenne conto del fatto che i ceti possidenti avrebbero
potuto ritenere che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica di
Cesare. *Fedele alla tradizione come visto, C. non può immaginare un mondo
dove l'impegno nella gestione della cosa pubblica non sia il valore supremo. Ed
è forse qui che si situa il centro e il fine ultimo di tutti i suoi pensieri.
Ciò, ad esempio, spiega le sue opzioni filosofiche, la ripugnanza che prova nei
confronti dell'epicureismo, non perché Epicuro facesse del piacere il bene
supremo, ma perché giudicava la felicità incompatibile con la partecipazione ai
pubblici affari. Allo stesso modo, le sue simpatie per lo stoicismo si
rivolgevano a quegli aspetti della dottrina che mettevano in luce l'importanza
delle virtù sociali, la giustizia, l'umanità, il coraggio civico, la devozione
alla patria. Durante il viaggio in Grecia, C. aveva seguito gli insegnamenti
dei filosofi e, fedele alla sua prima vocazione, quello del nuovo capo
dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successore di Filone di Larissa. In questo
modo diede inizio alla formazione di quella che possiamo definire la sua
dottrina filosofica: un "probabilismo pragmatico" che subordinava la conoscenza
teorica (giudicata, nella maggior parte dei casi, inaccessibile nella sua
perfezione) all'efficacia e soprattutto al valore morale dell'azione. Così egli
risolveva, a suo modo, il problema dell'eloquenza, rispetto ai termini della
questione posti da Platone: non era più necessario utilizzare tecniche di
persuasione troppo sofisticate per arrivare alla verità; la verità equivale a
ciò che è onesto (ciò che conviene). Un'ulteriore elaborazione consentiva
inoltre di risolvere lo scetticismo degli accademici, grazie alle soluzioni
"medie" immaginate da Panezio, secondo il quale il bene perfetto del saggio
stoico, situato troppo al di sopra della portata umana, era sostituito dal
concetto di azione "appropriata" e di "dovere". In seguito, nel suo "De
Officiis", C. esporrà questa dottrina di Panezio e ne farà un testamento
filosofico dedicato al figlio Marco. E’ evidente, in tal modo, come possa essere
giustificato (e, in una certa misura, anche criticato) l'epiteto di "eclettico"
affibbiato al C. filosofo, laddove però questo eclettismo non era fatto di
elementi presi a destra e a manca, bensì era una sintesi autonoma operata in
funzione di bisogni spirituali ben definiti e soprattutto in funzione della
necessità di giustificare l'azione. *In tutto questo, C. resta romano,
nonostante la sua immensa cultura greca. Dopo il soggiorno ateniese, recatosi a
Rodi, ritrovò il rètore Molone, che aveva frequentato già a Roma e dal quale,
facendo tesoro delle esperienze oratorie già fatte, accettò, con maggiore
docilità e anche con più largo profitto, alcune lezioni. La sua eloquenza,
appassionata e sensibile, era naturalmente incline a una violenza espressiva che
l'avvicinava all'asianesimo. A Rodi, e senza dubbio anche sotto l'influenza del
pensiero stoico che Posidonio insegnava in quel periodo nell'isola, essa si
addolcì, temperò la sua veemenza. *Un ultima notazione, sullo stile: in
generale la prosa di C. risulta sintatticamente assai complessa e aritmicamente
scandita, ma insieme limpida ed attentissima alle sfumature di significato. C.,
del resto, codifica quello che sarà il linguaggio della filosofia e in generale
della cultura latina.
OPERE. *Oratoria. L'attività oratoria di C. si
intreccia inevitabilmente con le vicende politiche di Roma negli ultimi
cinquanta anni di repubblica. Queste, grosso modo, le tappe: - nell'81 egli
debutta nel foro come avvocato; - nell'80, durante la dittatura di Lucio
Silla, C. si espone accettando di difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio
da alcune potenti figure amiche del dittatore. Il padre di Sesto Roscio era
stato ucciso su mandato di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio,
liberto di Silla: gli assassini, per avere le mani pulite, decisero di
sbarazzarsi del figlio accusandolo di avere ucciso il padre. C. dovette stare
molto attento nell'accusare personaggi vicini al potente dittatore e, per non
sembrare sovversivo, copriva di lodi Silla: il bravo avvocato non era ostile al
buon governo sillano ma, come molti, avrebbe preferito porre un freno agli
arbitrî e alle proscrizioni. L'orazione "Pro Roscio Amerino" ebbe successo e
Sesto Roscio fu ritenuto innocente. - nel 70 i siciliani gli proposero di
sostenere l'accusa nel processo da essi intentato contro l'ex governatore Verre,
che aveva sfruttato la provincia pensando solo ai propri interessi. C. raccolse
le prove in tempo brevissimo, il che permise di anticipare i tempi del processo:
al dibattito, C. non fece in tempo a esibire tutte le prove che aveva raccolto e
organizzato: dopo solo pochi giorni Verre fuggì dall'Italia e venne condannato
in contumacia. Successivamente C. pubblicò le "Verrinae" che si rivelarono come
un documento storica di grande importanza per conoscere i metodi di cui si
serviva l'amministrazione romana nelle province (diventare governatore di una
ricca provincia era un'occasione dalla quale si potevano trarre grandi profitti
grazie allo sfruttamento). La vittoria su Ortensio, difensore di Verre, fu anche
una vittoria in campo letterario: lo stile delle "Verrinae" è già completamente
maturo, C. ha eliminato alcune esuberanze, il periodare è armonioso,
architettonicamente complesso, ma la sintassi è estremamente duttile e, se
l'occasione lo richiede, C. non fugge dall'uso di un fraseggio coinciso e
martellante. - nel 66 C., pretore nel senato, parla a favore del progetto di
legge presentato dal tribuno Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di
poteri straordinari su tutto l'Oriente, minacciato tra le altre cose da
Mitridate, re del Ponto ("Pro lege Manilia"). Parlando di fronte al popolo in
favore di tale legge, C. insisté sull'importanza dei tributi che affluivano
dalle province d'Oriente; la popolazione di Roma sarebbe stata privata di tale
beneficio se Mitridate avesse continuato la sua azione. In realtà, a essere
minacciati dalla situazione che si veniva a creare in oriente erano soprattutto
gli appartenenti al ceto finanziario e imprenditoriale, cui C. era legato. C.
era completamente contrario a qualsiasi progetto di distribuzione delle terre
pubbliche ai ceti meno abbienti; egli cominciava a vedere la via d'uscita dalla
crisi che minacciava la repubblica nella concordia tra ceti abbienti, senatori e
cavalieri (concordia ordinum). - C. divenne console nel 63 e soffocò la
congiura di Catilina ai danni dello stato: da allora in poi sarebbe stato il
teorizzatore di quella "concordia ordinum" che lo aveva portato al potere. Le
più celebri orazioni consolari di C. sono le 4 "Catilinarie", con le quali egli
svelò le trame sovversive che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi
sconfitto nella competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e
giustificò la sua decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo.
Nella I Catilinaria C. fa uso di un artificio retorico chiamato prosopopea
(personificazione) della patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con
parole di biasimo. - nel 62 C. compose la "Pro Archia poeta", l'orazione
pronunciata in difesa del poeta Archia, venuto a Roma nel 102 e accusato di
usurpazione della cittadinanza romana. Essa è celebre per l'appassionata difesa
della poesia che contiene e per la rivendicazione della nobiltà degli studi
letterari. - richiamato dall'esilio nel 57, trova Roma in preda all'anarchia:
si fronteggiavano le opposte bande di Clodio e di Milone (amico personale di
C.). Fu in tale clima che nel 56 C., trovandosi a difendere Sestio ("Pro
Sestio"), un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza, espose una nuova
versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. La concordia
ordinum si era rivelata fallimentare: C. ne dilata ora il concetto in quello di
consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le persone agiate e
possidenti, amanti dell'ordine politico e sociale. I boni, una categoria che
attraversa verticalmente gli strati sociali esistenti, senza identificarsi con
alcuno di essi in particolare, saranno d'ora in poi il principale destinatario
della predicazione etico politica di C.. Il dovere dei boni è quello di non
rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento dei propri interessi privati, ma di
fornire sostegno attivo agli uomini politici che rappresentano la loro causa.
L'esigenza di un governo più autorevole spinge tuttavia C. a desiderare che il
senato e i boni si affidino alla guida di personaggi eminenti e illustri: questa
teoria verrà approfondita nel "De repubblica" ed è la principale causa che portò
C. ad avvicinarsi al triumvirato. Il bravo C. cerca di fare in modo che il
potere dei triumviri non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei
limiti delle istituzioni repubblicane. - tra le orazioni anticlodiane occupa
un ruolo particolare quella in difesa di Marco Celio Rufo ("Pro Celio Rufo"), un
giovane brillante e amico di C.. Celio era stato l'amante di Clodia e ora lo
avevano condannato di tentato avvelenamento nei confronti di quest'ultima.
Attaccando Clodia, in cui indicò l'unica regista di tutte le congiure contro
Celio, C. ebbe modo di sfogare il suo rancore nei confronti del fratello di lei:
la donna è descritta come una persona infima e viene accusata pure di rapporti
incestuosi. Tramite la descrizione della vita di Celio, C. ha modo di dipingere
uno spaccato della società romana del suo tempo, e si sforza di giustificare
agli occhi della giuria i nuovi costumi che la gioventù ha assunto da tempo e
che possono destare scandalo solo allo sguardo di moralisti troppo severi e
attaccati al passato. C. qui ci propone un originale modello culturale, teso
a ricondurre i nuovi comportamenti all’interno di una scala di valori che
continui ad essere dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del
loro eccesso di rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo sentito
consapevolmente in trasformazione. - gli scontri tra le bande di Clodio e di
Milone durarono ancora a lungo e nel 52 Clodio rimase ucciso. C. si assunse la
difesa di Milone, accusato di avere ucciso il rivale. L'orazione composta da C.
("Pro Milone") è considerata uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle
parti e l'abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa
e sulla esaltazione del tirannicidio. C. davanti ai giudici, però, fece un
fiasco completo: gli cedettero i nervi a causa della situazione di estrema
tensione in cui si trovava la città e così Milone dovette fuggire in esilio.
- dopo la vittoria di Cesare, C. ne ottenne il perdono: nella speranza di
rendere il regime meno autoritario cercò forme di collaborazione e accettò di
perorare di fronte al dittatore le cause di alcuni pompeiani pentiti. Le
"orazioni cesariane" ("Pro Marcello"…) si collocano tra il 46 e il 45 e sono
caratterizzate da un'abbondanza di elogi a Cesare la cui completa sincerità è
piuttosto difficile ammettere. - dopo la morte di Cesare, per indurre il
senato a dichiarare guerra ad Antonio, C. pubblicò le "Filippiche" (44), in
numero forse di 18. *Retorica. Abbiamo visto in quale misura l'arte
oratoria, in C., sia stata legata all'azione; è chiaro, dunque, che nessuno
meglio di lui era in grado di elaborare una teoria romana dell'eloquenza, come
mezzo di espressione e come strumento politico. Le prime riflessioni al riguardo
risalgono alla sua giovinezza; ma, in quell'epoca, egli non ha ancora concepito
il problema in tutta la sua ampiezza. - Ancora troppo vicino ai suoi maestri
greci, per i quali l'eloquenza era una "tecnica" fra le altre, aveva scritto un
manuale scolastico, il "De inventione". - Solo nel 55, quando le circostanze
lo sollecitarono a riflettere sulla reale funzione dell'eloquenza all'interno
della città, compose il "De oratore", un’opera in forma dialogica, "platonica"
ma con contenuti romani: Crasso e Antonio sono i principali interlocutori. Il
tema non è l'eloquenza in quanto tale né le regole per praticarla, ma la persona
stessa dell'oratore, assunto come ideale civico e umano, uomo politico della
classe dirigente, guidato dalla "probitas" e dalla "prudentia": egli dovrà
servirsi della sua abilità non per scopi demagogici, ma per invogliare alla
volontà dei "boni". Il vecchio problema di Catone è riproposto in termini nuovi,
ma seguendo il medesimo spirito. Per C. l'oratore è un pensatore universale, che
deve conoscere a fondo tutto ciò su cui si può trovare in obbligo di parlare (e
in ciò C. si avvicina alle tesi di Platone), ma deve superare anche tutte le
tecniche particolari, essere un artista della parola per persuadere con la
grazia, e al tempo stesso essere un filosofo per scoprire ogni volta le ragioni
profonde delle cose. IL I libro tratta così proprio della preparazione
generale dell’oratore (appunto soprattutto filosofica, con predilezione per la
filosofia morale); il II dell’invenzione, della disposizione, della memoria; il
III della elocuzione e dello stile. - La riflessione di C. sull'eloquenza
trovò espressione, in seguito, nel "Brutus" (46), che è un quadro degli oratori
romani dalle origini fino allo stesso C.. Vi si combattono gli "attivisti", ma
forse più correttamente si prende una posizione intermedia tra quelli e gli
"asiani", teorizzando, per così dire, la duttilità "situazionale"
dell’oratore. - L' "Orator" (46), infine, è opera più tecnica, che affronta
in modo tutto particolare il problema del ritmo e dello stile nella
prosa. *Politica. C., sin dalla sua giovinezza, era stato attratto dalla
filosofia. Questa aveva nutrito la sua eloquenza. Quando l'attenuarsi forzato
della sua attività politica gli concesse qualche respiro, egli volle trasporre,
nella cornice della realtà romana, i dibattiti del pensiero filosofico greco.
Partendo dalle cose più urgenti, in una città in piena decomposizione politica,
scrisse - il "De republica" (tra il 54 e il 52), in 6 libri, un trattato
sullo Stato, il cui proposito era ispirato dal celebre dialogo di Platone. Noi
ne conosciamo solo una parte (buona parte dei primi 2 libri e frammenti degli
altri), trasmessaci principalmente da un palinsesto scoperto nel 1822 da Angelo
Mai. L’opera è, più specificamente, costituita da 3 dialoghi, tenuti in 2
giorni, a ognuno dei quali sono dedicati 2 libri. Delle tre forme di governo
(monarchia, aristocrazia, democrazia) nessuna è buona ed esaustiva per se
stessa: ideale è la Repubblica romana, in cui queste tre forme trovano giusto
temperamento ed equa applicazione ("regime misto") nella "collaborazione" tra
consolato, senato e comizi (tuttavia, in verità, viene preferita la repubblica
aristocratica dell’età scipionica) [I libro]; inoltre, la costituzione romana
supera le altre perché non si deve ad uno solo, ma è opera di più generazioni e
di molti uomini d’ingegno [II libro]. Nel III libro si disputa del fondamento
della costituzione: se, cioè, essa debba basarsi sulla giustizia o sull’utilità
e sul diritto del più forte. Argomento dei libri IV e V sono invece le
istituzioni morali e politiche, la scienza del governo e i doveri del "princeps"
(ma il singolare si riferisce piuttosto al "tipo" dell’uomo politico eminente:
C. sembra pensare più ad un’elite di personaggi eminenti che si ponga alla guida
del senato e dei "boni"), visto – utopisticamente – come un "dominatore asceta".
Infine, nel VI libro, si tratta della felicità riservata dopo la morte agli
uomini che hanno ben meritato della patria ("Somnium Scipionis"). - "De
legibus" (52-?). Forse erano 6 libri, ma ce ne sono pervenuti 3, e per giunta
non interi. C. tratta del diritto razionale e naturale, e del concetto di
giustizia da cui derivano le leggi. Esse hanno quindi in se stesse la ragione
che vincola l’uomo al loro rispetto. Nella pratica, C. trova che le "dodici
tavole" sono il plus non ultra (libro I). Negli altri 2 libri, è contenuta una
serie di prescrizioni religiose e civili, scritte nel latino arcaico della
primitiva legislazione romana. Filosofia. Torna al sommario - "Accademica"
(45). E’ un’opera dialogica composta in due tempi. C. compose prima 2 dialoghi
("Catulus" e "Lucullus"), che rifuse, poi, in una II ed., in 4 libri con altri
personaggi, Attico e Marrone. A noi è pervenuto il II libro della I ed.
("Accademica priora") e il I – incompleto – della II ed. ("Accademica
posteriora"); vi si tratta del problema della conoscenza secondo lo spirito
della "nuova accademia": l’uomo non può arrivare alla conoscenza, ma deve
accontentarsi della "verosimiglianza". - "De finibus bonorum et malorum"
(45). Dedicata a Bruto, è un’opera dialogica in 5 libri, in cui appunto si
tratta dell’essenza del sommo bene e del sommo male. In ordine a tale
problema, è esposta nel I libro la teoria epicurea (confutata nel II): sommo
bene è la voluttà con i piaceri dello spirito, sommo male il dolore; nel III è
svolta la teoria stoica (confutata nel IV): sommo bene è l’onesta e la sapienza.
Il V libro contiene il pensiero di C., ed è un’esposizione delle dottrine
accademiche e peripatetiche, secondo cui il sommo bene si consegue solo vivendo
secondo la legge naturale, che esige la salvaguardia dell’animo mediante la
virtù e quella del corpo mediante la soddisfazione degli appetiti naturali. -
"Tusculanae disputationes" (45). Dedicato a Bruto, è un dialogo in 5 libri, uno
per ogni giorno ambientato nella villa di Tuscolo. Si segue il metodo
accademico peripatetico di esame delle opinioni diverse, dimostrandone la
parziale falsità e ricavandone ciò che v’è di più verosimile. Il problema è
quello della felicità. Nei primi 4 libri si parla di ciò che impedisce all’uomo
di essere felice: il timore della morte (ma la morte è un bene, che l’anima sia
immortale o no, perché dà eterna beatitudine); il dolore (il peggiore dei mali:
ma la ragione lo sconfigge con la sopportazione ed il "buon senso"); la
tristezza ed i turbamenti dello spirito (fondati su passioni e false opinioni,
che la ragione però rimuove). Il V libro mostra come la virtù sola basti alla
vita felice, affrancando l’uomo da timori, dolore e sofferenza; chi la possiede
è forte, magnanimo, impassibile, invincibile. - "De officiis". Trattato
dedicato al figlio Marco: i primi 2 libri trattano "dell’onesto e dell’utile"
(Panezio), il III del loro conflitto (Posidonio). C. cerca, in definitiva, nella
filosofia, i fondamenti di un progetto di vasto respiro, indirizzato alla
formulazione di una morale della vita quotidiana che permette all’aristocrazia
romana di riacquistare il controllo sulla società. - I 3 dialoghi di
argomento religioso e teologico: "De natura deorum", dedicato a Bruto, in 3
libri (nel I Velleio espone la dottrina epicurea sull’esistenza degli dei e la
loro natura; nel II L. Balbo espone la dottrina stoica a riguardo: è il più
interessante, in particolare per la parte che descrive l’ordine e le bellezze
dell’universo, concepito finalisticamente come destinato al bene dell’uomo,
secondo una Provvidenza invisibile, ma indubitabile; nel III A. Cotta – alterego
di C. – presenta una visione scettico-razionalistica del problema: probabilismo
applicato alla teologia, senza il dogmatismo ateo degli epicurei o quello
panteistico degli stoici); "De divinatione", in 2 libri, sulla validità
dell’arte divinatoria, che C. considera un’impostura; "De fato", dove si esamina
il problema del rapporto tra fato e libero volere, e si espone una tesi –
peraltro non originale – contraria al fatalismo stoico. - "Cato maior de
senectute", dedicato ad Attico (44). Si finge che Catone il censore, giunto in
venerabile età, esalti alla presenza di Lelio e di Scipione Emiliano, attraverso
numerosi esempi, la saggezza e i beni spirituali della vecchiaia: l’operosità
non interrotta, l’integrità delle forze e dello spirito, i godimenti spirituali
non certo inferiori a quelli dei sensi, la contemplazione serena della
morte. - "Laelius de amicizia" (44). Dinanzi a C. Fanno e M. Scevola, Lelio
esalta l’amicizia: il dialogo si immagina avvenuto in occasione della morte di
Scipione Emiliano. Viene affermato il valore morale dell’amicizia e si sostiene
che colui che intende l’amicizia in modo utilitario concepirà in modo utilitario
anche la morale, cioè non disinteressatamente (e questo in polemica con gli
epicurei).
*Epistolario. Si compone, nella forma in cui ci è tramandato,
di 16 libri "Ad familiares" (parenti e amici, dal 62 al 43 a.C.); 16 libri "Ad
Atticum" (il migliore amico di C.:68-44 a.C.); 3 libri "Ad Quintum fratrem" (dal
60 al 54) e 2 libri "Ad Marcum Brutum". Il tutto per un totale di 900 lettera
circa, in cui la varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si
rispecchia fedelmente in quello dei toni. Si tratta – è bene sottolinearlo – di
lettere "vere", che perciò ci mostrano un C. "privato, un ufficiale", nonché uno
spaccato importantissimo (un documentario, quasi) della Roma del tempo. Torna
al sommario *Poesia. Alcuni poemi: una traduzione in versi dei "Fenomeni"
(poema astronomico, d'ispirazione stoica, scritto dall'alessandrino Arato), un
poemetto epico dedicato alla vita e alle gesta del suo nobile concittadino C.
Mario ("Marius") e un poemetto, ancora, dedicato alla propria attività nel
periodo del consolato ("De consulatu meo"). Sono generalmente opere di poco
valore artistico, se non per la più mobile struttura dell’esametro.
Gaio Giulio Cesare (Roma 100 ca. – 44 a.C.).
VITA. Nacque da
una famiglia di vetusta nobiltà; mostrò presto simpatia per il partito
democratico, cui era legato anche da vincoli familiari (ancora giovanissimo
sposò Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e durante la dittatura
di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia Minore (81-78)..Quando
tornò in patria, dovette sostenere le accuse di concussione mossegli contro. In
questo episodio, mise in luce la propria grande arte oratoria, la freddezza e la
compostezza. C. si adeguò subito alla vita politica di Roma. Nel 68 cominciò
il "cursus honorum" in Spagna, come questore. Continuò poi come edile,
accattivandosi il favore del popolo con grandi feste e spettacoli. Due anni dopo
fu eletto pontefice massimo, la carica più alta nel sistema religioso del
periodo, molto legata alla vita politica. In questi anni, fu spesso coinvolto in
tribunale, per via della congiura di Catilina, che proprio in quegli anni veniva
sventata. Nel 62, ottenne la carica di pretore; l'anno dopo, il governo della
Spagna. In questo periodo ripudiò la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in
scandalo con Clodio. Intelligentemente, trattò quest'ultimo con mitezza, mirando
all'appoggio politico che poteva trarne dall'amicizia. Nel 60, chiese al Senato
la carica di console, ma non gli fu accordata, per via del suo irriducibile
nemico Catone. C., comunque, arrivò lo stesso al potere grazie a quella
alleanza che in seguito sarà definita come I triumvirato: strinse cioè un
accordo del tutto privato con Pompeo Magno, e Marco Licinio Crasso, personaggi
potentissimi, scontenti anche loro dell'atteggiamento del Senato nei loro
confronti. C. sposava in terze nozze Calpurnia, e contemporaneamente dava in
isposa Giulia, la proprio figlia, a Pompeo. L'accordo portò i suoi frutti, e
nel 59 C. fu eletto console. Da questo momento in poi darà prova delle sue doti
militari e politiche, distinguendosi e superando qualsiasi rivale.
Proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese la conquista, terminata nel
51. Il conflitto col senato e l’aristocrazia romana e lo scontro con Pompeo
sfociarono (49) in guerra civile: vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia, C.
raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e
soffocandone definitivamente i focolai di resistenza. Intanto, padrone
assoluto di Roma, C. ricoprì – talora contemporaneamente – dittatura e
consolato. Il 15 marzo del 44 veniva tuttavia assassinato da un gruppo di
aristocratici di salda fede repubblicana, preoccupati per le tendenze
aristocratiche e regali che C. andava assumendo.
OPERE.
* "Commentarii de bello Gallico". Sono 7 libri, uno per ognuno dei 7 anni
della guerra gallica, e cioè dall’inizio (58) alla presa di Alesia e alla
sconfitta di Vercingetòrige (52). E’ opera scritta "di getto", probabilmente
fra il 51 e il 50 (ma c’è anche chi pensa ad una scrittura graduale e
contemporanea agli eventi), con grande equilibrio e straordinario senso della
storia. Con quest’opera, C. intese evidentemente reagire alle critiche degli
avversari politici per i grossi sacrifici di sangue e di denaro che la guerra
aveva imposto: egli presentava così ai Romani la conquista della Gallia come una
necessità storica volta ad evitare che i Germani, passato il Reno, invadessero
la Gallia appunto. Completati dall’ VIII libro, che copre gli anni 52-51 ed è
solitamente trribuito al generale Irzio, furono seguiti dai * "Commentarii de
bello civili". Sono in 3 libri, e narrano i fatti degli anni 49-48, dal
passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della guerra alessandrina (ott.
48). Il tono, rispetto alla precedente opera, è più partecipe (arrivando
addirittura a sfiorare il satirico), anche per l’intento apologetico: C.,
difatti, vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nella legalità, e
che anzi l’ha sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria costante volontà di
"pax"; mostra i propri esempi di "clementia"; e così via. Manco a dirlo, il
destinatario della sua propaganda è lo strato "medio" e "benpensante"
dell’opinione pubblica. Insomma, da una parte C. e dall’altra una classe
dirigente ormai indegna di governare: Questa contrapposizione tra il vecchio e
il nuovo è il fulcro centrale di questa entusiasmante opera storico-narrativa,
ed è anche la sua chiave d’accesso. E’ lui, infatti, C., l’esecutore di un
processo storico rivoluzionario, che senza alcun dubbio comporterà il
superamento dell’oligarchia-senatoria a vantaggio del popolo romano.
Certamente, essendo stata scritta da C. stesso, l’opera non può essere
imparziale, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua
sincerità. Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile e ne
attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché loro e non Pompeo erano i
veri colpevoli. Loro avevano infangato la sua dignitas, loro con il senatus
consultum ultimum avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre il veto. C.
non voleva la guerra civile. Se così non fosse come si spiegherebbe il suo
comportamento nei confronti degli avversari? Non c’è stato un combattimento,
poiché il suo scopo era far arrendere l’avversario e non distruggerlo, e ciò
avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro Afranio e Petreio e nei primi
anni della guerra contro l’esercito di Pompeo. Come spiegare allora la clemenza
di C. nei confronti dei vinti? E come possiamo spiegare la mancanza nell’opera
di frammenti e di riferimenti riguardanti l’attraversamento del Rubicone?
Inoltre dalla lettura viene fuori anche un grande amore di Cesare per i suoi
soldati, tanto grande non fargli citare mai nell’opera l’ammutinamento della
nona legione a Piacenza. Egli, poi, non parla mai di hostes, ma di adversarii,
perché gli hostes non possono essere cittadini romani Nella sua opera non c’è
odio, né nei confronti di Catone e degli ottimati, né nei riguardi di Pompeo.
Quest’ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano ed era geloso dei
successi di C., che offuscavano il suo nome. C. definiva Cnaeus Pompeius Magnus,
come un uomo che aveva sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo
entusiasmare dagli ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso
sapeva benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di poter
comprendere il suo vero ideale politico. C. non commenta la morte di Pompeo, la
narra e nel suo silenzio c’è angoscia. L’opera termina con l’assassinio di
Potino, ordinato da C. per vendicare il grande Pompeo. * Il già citato Irzio
par essere autore anche del "Bellum Alexandrinum" (sull’omonima guerra,
48-47). * Infine, del "Corpus Caesarianum" fanno parte anche un "Bellum
Africanum" (in "sermo vulgaris") e un "Bellum Hispaniense", in cui scrittori di
molto minore levatura, forse essi stessi generali di C., narrano le guerre
d’Africa e di Spagna (46), appunto. * Altre opere (purtroppo perdute): l’
"Antìcato", 2 libri in polemica con l’elogio di Catone fatto da Cicerone; il "De
analògia", un’opera grammaticale in 2 libri, che interveniva nella controversia
fra "analogisti" e "anomalisti" sul problema della natura delle lingue (queste,
ci si chiedeva, erano sottoposte a regole razionali - quelle dell' "analogia" -
o potevano essere oggetto di creazioni arbitrarie, "senza leggi" – anomale -
secondo la fantasia degli scrittori? C., da buon atticista, propendeva per la
stretta disciplina e per la purezza della lingua: per lui il linguaggio si
costruisce mediante una selezione naturale-razionale-sistematica); l’ "Iter",
poemetto a memoria del viaggio fatto da Roma in Spagna; le celebri "Epistulae";
le altrettanto note "Orationes", in cui raggiunse – secondo i contemporanei – un
notevole grado di maestria.
CONSIDERAZIONI. Nei suoi "Commentarii",
C. si propose di fornire materiali agli storici per stendere un’opera
criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un’opera d’arte,
limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista e testimone, e
spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo comportamento militare e
politico. E’ da dire, comunque, che sotto questa impassibilità, la critica
recente ha tuttavia ritenuto di scoprire interpretazioni tendenziose e
deformazioni quasi "subliminali" degli avvenimenti, a fine di
propaganda. Comunque, proprio il suddetto presunto proposito di verità,
nonché la semplicità stilistica, conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed
eleganza, frutto anche di lunga consuetudine di studio. Lo stesso titolo di
"Commentarii" può significare che si tratta di un libro di memorie o di appunti
presi giorno per giorno; il titolo quindi accentua il significato di diario che
riporta il nudo tessuto degli avvenimenti. Sulla traccia del greco
Senofonte, poi, C. racconta i fatti in terza persona, al fine di attribuire il
massimo di oggettività agli avvenimenti narrati e ai suoi comportamenti; da
questo scrupolo dell'oggettività è derivato il rifiuto di inserire lunghi
discorsi in forma diretta, così cari agli storici antichi. Accanto al valore
storico non si può dimenticare, infine, il grande valore artistico dei
Commentarii cesariani, che in tutti i tempi hanno costituito un testo base per
lo studio della lingua latina. "Nudi sono – dice Cicerone – schietti e semplici
questi Commentarii, che, pur essendo privi di ogni ornamento, sono pieni di
grazia". Non minori sono gli elogi tributati all’opera dagli studiosi moderni.
Il Marchesi afferma che nessuno degli antichi seppe scrivere un opera "dove
siano adoperate meno parole per dire tutto, dove tutte le cose più complicate
siano espresse con così sobria e precisa chiarezza da sembrare disegnate". La
narrazione è condotta in modo personalissimo e sempre fresco e non viene mai
appesantita dall’autocelebrazione. Sul piano strutturale dell'intera opera,
ogni elemento linguistico punta direttamente a mettere in mostra la figura dello
scrittore, che è insieme demiurgo-ordinatore di ogni azione; autore-narratore di
ogni piano e di ogni progetto; attore-protagonista di ogni scena ideata e
realizzata. Una preziosa spia, in tal senso, è il fatto che il racconto è
sapientemente riportato in terza persona e in essa il nome di Caesar oppure, in
sua vece, is o ipse appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione
spesso anche la prima persona plurale (nostri, nostrum, nostrorum): e ciò sia
per mettere sempre in prima linea la persona dell'autore sia per coinvolgere,
per quanto su un piano inferiore a quello del comandante, gli attori secondari
del racconto, che sono, poi, sempre "i soldati di Cesare". Ad essi si
contrappongono, nella veste di soggetti passivi, oggetto del racconto, i nemici,
che, nel De bello gallico sono i barbari con i loro vari nomi, nel De bello
civili, invece, sono gli oppositori politici dello scrittore, anch'essi
puntualmente individuati. Naturalmente, alcuni di questi nemici hanno una
grande personalità (ad esempio, Vercingetorige nel De bello gallico e Pompeo nel
De bello civili), tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore,
che tutti è riuscito a superare. In questo contesto ha molta importanza, quindi,
mettere in evidenza i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e
turbinose della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro
significati è facile cogliere l'intima ansia dello scrittore, che pone su un
versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori, ossia quelli della sua
parte; sul versante opposto, invece, egli colloca i nemici, tutti destinati alla
sconfitta. Gli scenari delle battaglie vengono concepiti sempre come degli
immensi palcoscenici, in cui le azioni del regista-attore vengono scandite
appunto dall'uso dei tempi del verbo, in cui prevale il presente storico, che
consente allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il racconto, suscitando
l'attenzione del lettore, dall'altra, di "rappresentare" gli eventi narrati. Non
mancano il perfetto e 1'imperfetto, ma ciò avviene con minore frequenza e il
loro uso è subordinato alla volontà del narratore di frapporre una netta
separazione tra se stesso e la narrazione. Sul piano stilistico a C. vengono
concordemente riconosciute dalla critica le seguenti qualità: la chiarezza
(=perspicàitas), ossia un procedimento lineare e terso, alieno da ogni pensiero
contorto e involuto; la brevità (= brevitas), che mira all'essenzialità e alla
rapidità; l'assenza di ornamenti superflui, come bene intuì Cicerone, quando
definì nudi i Commentarii cesariani; l'eleganza del dettato (= urbanitas), al
punto che pochi sono gli scrittori dell'intera latinità che possano gareggiare
con 1ui in purezza e proprietà di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli
incarnò quel puri sermonis amator, che, in uno scritto minore, aveva vista
realizzato nel poeta comico Terenzio; infine, l’armonia e simmetria dei
costrutti, che gli antichi (con Cicerone che ne fu il massimo maestro)
chiamavano concinnitas. Sul piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la
tendenza all’arcaismo e compie determinate scelte sui vocaboli, senza
preoccuparsi se poi ciò causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano sintattico,
egli predilige la paratassi all’ipotassi, soprattutto per motivi di chiarezza, e
riesce a costruire sempre dei periodari lineari e lucidi.
Cornelio
Nepote (Gallia Cisalpina 99 ca - ? 24 ca a.C.)
*N. è autore della più
antica raccolta di biografie latine giuntaci: il "De viris illustribus" (34
a.C.), almeno 16 libri di vite di generali, storici, poeti e oratori latini e
stranieri (raggruppati secondo le "categorie professionali"), con una
trattazione parallela derivata forse dalle "Imagines" di Marrone e ripresa, in
seguito, nelle "Vite" di Plutarco. Dell’opera ci restano numerosi frammenti:
2 vite (Catone il Vecchio e Attico) del "De historicis latinis" e l’intera
sezione "De excellentibus ducibus exterarium gentium" (22 biografie). E’
chiaro l’intento dell’autore di fare del genere letterario della biografia il
veicolo di un confronto sistematico fra civiltà greca e romana, evidentemente
senza adombramenti nazionalistici (si tratta di un caso di "relativismo
culturale"?) *Altre opere (perdute): "Cronica", storia universale in 3 libri,
forse in prosa, in cui già affiorava l’esigenza di un confronto tra la civiltà
romana con le altre; "Exempla", aneddoti e curiosità storiche e geografiche in 5
libri; "Vite" più ampie di Catone e di Cicerone. *N. è un improvvisatore, e
cita le sue fonti spesso senza averne conoscenza diretta e senza controllarne il
valore: le sue biografie appaiono piuttosto panegirici moraleggianti che
ricerche critiche, e ci danno informazioni preziose solo nelle descrizioni
d’ambiente.
G. Sallustio Crispo (Amiterno, Sabina, 85 – Roma 35 o
36 a.C.)
VITA. S. nacque da famiglia pebea. Compì i suoi studi a Roma,
venendo a contatto con lo studio neopitagorico di Nigidio Figulo. Partecipò
anche alla vita mondana della capitale. Politicamente si affiancò a Cesare. Per
questo suo impegno ottenne la carica di questor nel 54. Questo fu un anno molto
turbolento per la politica romana: vi fu l'uccisione di Clodio, un demagogo del
popolo, ad opera di Milone. S. si schierò decisamente contro quest'ultimo e
anche contro Cicerone, suo difensore. Nel 50 fu espulso dal senato per
immoralità (aveva infatti una relazione con Fausta, figlia di Silla e moglie in
seconde nozze con Milone). Durante le guerre di quel periodo fu fedele a Cesare,
aiutandolo anche alle operazioni militari in cui, però, non risultò sempre
vincitore. Nel 48 riottenne la questura, la dignità senatoria. Alla fine del
47 seguì seguì Cesare in Africa, e portò a compimento una operazione militare,
conquistando l'isola di Cercina. A seguito di questo successo, Cesare gli affidò
il compito di governatore della cosiddetta Africa Nuova, costituita dal vecchio
regno numidico di Iuba. Nei mesi di governo potè accumulare notevoli ricchezze
che gli permisero, dopo la morte di Cesare ed il suo ritiro dalla vita pubblica,
nei celebri "Horti Sallustiani", di vivere in ricchezza componendo le sue opere.
OPERE. Di S. abbiamo: *due monografie: - "De coniuratione
Catilinae" (42?): con essa, lo storico interrompe la tradizione annalistica e si
occupa di un episodio di storia contemporanea – appunto la congiura e il moto
del 63-62 – facendovi precedere un’analisi della condotta cesariana del 66-63,
vista come unica valida alternativa al corrotto "regime dei partiti", con
riflesso sulle sue scelte politiche. Tutta la prima parte dell’opera è,
praticamente, un’analisi e un’esegesi dell’inquietante fenomeno rivoluzionario,
alla luce di categorie storiche, morali e psicologiche. Ne risulta perciò un
quadro fosco, ma estremamente vivace, di una società profondamente corrotta, su
cui campeggia come figura dominante Catilina, intelligente, coraggioso e
malvagio. Accanto a lui, altri personaggi "studiati" con eguale interesse: i
congiurati, Sempronia, Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare
e Catone (visti come entrambi positivi – direi "complementari" – per Roma: uno
con la sua liberalità, munificenza e misericordia; l’altro con la sua
integritas, severitas, innocentia…) Come si vede, il metodo adottato
nell’analisi è moralistico: S. ritiene che l’antica grandezza della repubblica
fosse garantita dall’integrità e dalla virtù dei cittadini, e vede nel successo,
nella ricchezza e nel lusso le cause della decadenza e la possibilità di
tentativi come quello di Catilina. - "Bellum Iugurthinum" (40 ca): narra, in
114 capitoli, la guerra combattuta dai romani (111-105 a. C.) contro appunto
Giugurta, re di Numidia. Ma anche qui il taglio è politico: se infatti, da
una parte, S. si dimostra capace di forti sintesi storiche, dall’altra rivela
vigore polemico nel denunciare l’incompetenza della nobilitas nella conduzione
della guerra, e la sua corruzione generale; nel valorizzare le ragioni
espansionistiche della classe mercantile; nell’auspicare la nascita di una nuova
aristocrazia, fondata sulla "virus" (a tal proposito, si ricordi il riportato
discorso di Mario). *le "Historie" di cui abbiamo un numero abbastanza
cospicuo di frammenti di 5 libri e alcuni discorsi. Esse riprendono e sviluppano
le Historiae di Sisenna, andando dalla morte di Silla (78) alla guerra di Pompeo
contro i pirati (67). Dai frammenti, si evince che S. era ritornato
all’annalistica e che il suo pessimismo si era, se possibile, acuito. *Oggi
non conosciamo più la sua traduzione dei poemi di Empedocle (ammesso che l'
"Empedoclea" di cui parla Cicerone in una lettera, sia davvero opera sua). A lui
si attribuiscono anche 2 epistole politiche a Cesare su un nuovo ordinamento
dello stato; quasi sicuramente spuria è invece un’invettiva contro Cicerone, di
scuola retorica.
CONSIDERAZIONI. *S., dunque, scelse i temi delle sue
due "monografie" con intenti ben precisi: mostrare in che modo un regime
aristocratico, quale quello instaurato dopo la sconfitta dei Gracchi, fosse
andato progressivamente in rovina. La prima delle cause era da ricercare negli
scandali che avevano accompagnato la guerra contro il re numida Giugurta, e che
avevano messo in luce i compromessi e la corruzione di quegli stessi uomini che,
nel senato, erano i responsabili della politica romana: la stessa personalità
universalmente rispettata di Metello, cui si era finito per dare il carico della
guerra, non bastò a impedire l'ascesa di C. Mario, al quale il popolo affidò
l'incarico di porre termine a una guerra quasi conclusa da Metello,
raccogliendone i frutti della gloria. Questo episodio aveva segnato, in effetti,
l'inizio delle guerre civili, che dovevano provocare le smisurate ambizioni
dello stesso Mario. La "Congiura di Catilina", mettendo in luce i crimini di cui
erano stati complici un pugno di aristocratici, esaminava, a sua volta, le cause
morali di tale decadenza: gusto del piacere, corruzione dei costumi, sfrenata
avidità di denaro. Dunque, S. considerò la storiografia – ritenuta comunque
inferiore alla politica – non solo come cronaca di fatti, ma anche come
"archeologia", cioè come ricerca delle loro cause: essa quindi tende a
configurarsi come indagine sulla crisi, e l’impostazione monografica (una novità
quasi assoluta) ben si prestava alla messa a fuoco di un periodo o problema
storico (analizzato da S. a partire comunque e sempre da un moralismo di
fondo). Il quadro che lo storico dipinge è già quasi degno di Tacito. S.
scrive queste pagine dopo la rivoluzione guidata da Cesare (senza dubbio dopo la
morte dello stesso Cesare), e dopo che il mondo da lui evocato si è già
definitivamente dissolto sul campo di battaglia di Farsàlo. S. non è un
"democratico" che rivendica al popolo una parte di potere. Come i suoi
predecessori, da Catone a Cicerone, è l'avvocato dei valori morali essenziali,
un adepto di quel "conservatorismo intelligente" che è il solo a poter salvare
Roma. E’ il programma che Augusto riprenderà alcuni anni dopo. *Un'altra
caratteristica dell'opera di S. è la consapevole originalità del suo stile, nel
quale si giustappongono ricercati arcaismi e ardite innovazioni ("arcaismo
innovatore"), termini presi dal linguaggio familiare ed ellenismi. Egli vuole,
innanzitutto, dare un'impressione di vita, in virtù di un periodo serrato e
vibrante, di scorci rapidi e di giri sintattici "atemporali" (è la famosa
"inconcinnitas" sallustiana), come l'impiego ripetuto di ellissi, dell'infinito
narrativo o lo sviluppo sistematico di proposizioni participiali che costituiva,
tra l'altro, uno dei tratti caratteristici e di maggior rilievo dello stile
narrativo dei greci. Questa lingua composita suscita oggi l'impressione di una
certa artificiosità. Rimane lontana da quella "naturalezza" ciceroniana che
ci è familiare, da quello sviluppo logico del pensiero in periodi analitici,
dove l'idea è situata al centro del suo contesto di cause e di circostanze, e
dove il ritmo accompagna e prelude ogni volta il precipitare della frase. Non
dobbiamo credere, tuttavia, che il periodo ciceroniano fosse più vicino alla
lingua parlata e la frase di S., invece, la libera creazione di un artista. La
lingua quotidiana si collocava, in realtà, alla medesima distanza sia dall'uno
che dall'altra. Per sua natura, non era né periodizzata né ritmata. Ma neppure
disponeva delle molteplici risorse che S. mette insieme.
Publio
Virgilio Marone (Andes, 15 ott. 70 – Brindisi, 22 sett. 19
a.C.)
VITA. *Le scuole. V. nacque in un piccolo villaggio nei pressi
di Mantova, da una oscura famiglia di coltivatori, appartenente alla piccola
borghesia locale, romanizzata piuttosto di recente. La sua figura è
profondamente contrassegnata dall'infanzia trascorsa in quel paesaggio fresco e
pacifico situato sulle rive dei Mincio, dove l'allevamento del bestiame e la
coltivazione dei campi erano le risorse dominanti, e dove la sua famiglia
possedeva una tenuta. La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove
frequentò la scuola di grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga
virile. Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola
del retore Epidio, esponente dell’indirizzo asiano, così chiamato perchè di moda
in Grecia, uno stile oratorio ricco e brillante, in netto contrasto con lo stile
semplice degli oratori classici. Epidio, inoltre, annoverava tra i suoi
discepoli i giovani che sarebbero diventati gli elementi di spicco della futura
classe dirigente di Roma, fra cui Marco Antonio e Ottaviano. V., tuttavia,
schivo per natura, non aveva talento oratorio, nè intendeva perseguire la
carriera forense. Abbandonò così la retorica per dedicarsi agli studi
filosofici, e in particolare all’Epicureismo, che approfondì a Napoli alla
scuola di Sirone. Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e Plozio Tucca, che
saranno poi i curatori della prima edizione dell’Eneide. Il periodo della
sua formazione è dominato, sul piano letterario, dalle personalità di Catullo e
di Elvio Cinna (del quale scriverà un elogio discreto nella IX Egloga), e
dall'astro nascente di C. Gallo, della sua stessa età. Sedotto e affascinato da
questo ambiente, V., quasi certamente, scrive in questo periodo almeno alcune
delle composizioni che entreranno a far parte della raccolta oggi conosciuta col
nome di "Appendix Vergiliana" (letteralmente: "Aggiunta a V."), nella quale
poemi autentici convivono con pastiches di origine incerta. *La perdita delle
terre. Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi del 43, V. fece
ritorno ad Andes, dove ritrovò l’amico della sua giovinezza, Asinio Pollione,
che ricopriva l’incarico di distribuire le terre ai veterani. Grazie a lui,
uomo sensibile alle arti ed alla cultura, il poeta potè in un primo tempo
sottrarre le sue terre all’esproprio: tuttavia, un anno più tardi, mentre era
impegnato nella composizione delle "Bucoliche", i suoi campi di Mantova furono
assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si era rivelato insufficiente il
territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il dolore causato dalla perdita
della sua terra, per la quale sentì sempre una viva nostalgia. *Il
trasferimento a Roma. Perdute le sue terre nel mantovano, V. si trasferì a Roma,
dove pubblicò le "Bucoliche", composte dal 42 al 39 a.C.. L’anno successivo
entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate. Catullo e Lucrezio erano
morti da poco e soltanto la poesia alessandrina, coltivata da Cornelio Gallo,
conservava ancora un certo splendore, mentre Orazio, che V. stesso presentò a
Mecenate, iniziava allora a scrivere le satire. Mecenate ed Ottaviano, il suo
referente politico, offrirono a V. una casa a Roma, nel quartiere
dell’Esquilino, ma il poeta spesso preferiva ritirarsi a sud verso il mare ed il
sole, mentre si dedicava alla composizione delle "Georgiche", compiuta in sette
anni, durante un soggiorno a Napoli, fra il 37 ed il 30. Le "Georgiche"
diedero a V. la fama e suscitarono l’ammirazione di Mecenate, che gli era stato
particolarmente vicino nelle varie fasi della composizione. Si presume, in
realtà, che V. fosse istintivamente un "cesariano". D'altro canto, l'epicureismo
invitava i suoi adepti a non occuparsi di politica, ma ad accettare, a cuor
contento, un padrone che assicurasse la pace. *L’ "Eneide". Nell’estate del
29 Ottaviano, tornato dall’Asia dopo la vittoria conseguita ad Azio su Antonio e
Cleopatra, si era fermato ad Atella per riprendersi da un mal di gola. Là V. gli
lesse per quattro giorni di seguito i libri compiuti delle "Georgiche", aiutato
da Mecenate, che lo sostituiva nella lettura quando era stanco. Dopo questo
episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso Augusto, V. fu
scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe. Da questo momento
fino alla fine della vita V. attese all’ "Eneide", un poema epico sulle origini
di Roma. V. aveva nella tradizione letteraria latina predecessori illustri
nell’ambito di questo genere letterario, ma l’ "Eneide" si richiamava più da
vicino al modello omerico. Il poema era stato inizialmente concepito come una
narrazione allegorica delle imprese di Ottaviano, ma il poeta cambiò idea ed il
poema storico venne sostituito dal poema epico sulle vicende di Enea,
progenitore dei Romani. Ancora tre anni dopo l’inizio della stesura
dell’"Eneide", V. scriveva ad Augusto che il poema era solo "incominciato" e ci
vollero ancora tre anni perchè la prima redazione dell’ "Eneide" fosse
terminata. Nel 22 V. lesse all’imperatore alcuni canti del poema, ma non si
trattava ancora della stesura definitiva. *Il viaggio in Asia. Nel 19 a.C. V.
partì per un lungo viaggio attraverso la Grecia e l’Asia allo scopo di
arricchire la propria cultura e, nello stesso tempo, verificare la topografia
dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene il poeta incontrò Augusto, di ritorno
dalle province orientali. Questi, notate le sue precarie condizioni di salute,
lo persuase a tornare in Italia. V., che aveva appena visitato Megara sotto un
sole cocente, era estenuato ed il suo stato si aggravò durante la traversata
verso le coste italiane. Sbarcato a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma
prima di morire chiese il manoscritto dell’ "Eneide", ancora incompiuta, per
bruciarlo. Gli amici non gli ubbidirono. Il corpo di V. fu trasferito a
Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi eredi furono Augusto e Mecenate,
che diede incarico a Vario e Tucca di pubblicare l’Eneide.
OPERE. Le
"Bucoliche". *Le "Bucoliche" sono un'opera d'ispirazione alessandrina,
composta da X egloghe (cioè "poesie scelte"), in esametri, di cui alcune sono
lirico-narrative, altre in forma dialogica, distribuite non nella successione
cronologica della loro stesura, ma con un ordine d’intento letterario (numerosi
i rimandi, i parallelismi, le simmetrie). Questo il contenuto: *Ecloga I:
d’intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori Titiro (V.?) e
Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana. Melibeo è triste perché
ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno, perché un giovane a Roma
(Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e il possesso della sua
terra. Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di
Alessi. Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d’abilità nel
canto. Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta
nel 40, quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all’ "età
dell’oro", che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A.
Pollione (e ricordiamo la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha
fatto il Cristianesimo, ritenendo addirittura d’individuare in V. il profeta
dell’avvento messianico). Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il
suonatore di zampogna Mopso, uno dopo l’altro, cantano in onore di Dafni, ucciso
crudelmente. Mopso ne canta la morte, l’altro l’apoteosi. Ecloga VI: è
trattata l’origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo. Il cantore è il
vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e hanno legato. Ecloga
VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra Coridone e
Tirsi. Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata
quasi interamente da un modello di Teocrito. E’ dedicata a Pollione, che ritorna
vittorioso dalla Dalmazia. Ecloga IX: d’intonazione forse autobiografica.
Menalca (V.?) è stato cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i
suoi canti. Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l’infedele
Licoride l’ha lasciato. *V. riprende il genere reso illustre da Teocrito (III
a.C.), che a Roma non aveva ancora trovato dei continuatori, ma lo rifonde in
una trama di rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col
modello. I temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni
connotazione realistica, e appare come un’elaborata e stilizzata costruzione: a
cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani, butteri. Ma sullo sfondo
si intuisce tutto un complesso di allegorie e di significati riposti, che
ripetute volte si è tentato di penetrare, probabilmente invano. Non è forse
Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta la divinizzazione? E’ verosimile, ma
in nessun modo dimostrabile. E il Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma
anche ad altri poeti contemporanei, e persino a Sirone, l'amato maestro, chi
nasconde sotto il suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto,
un volto della poesia? Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono
essere considerati, fino in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici
e di persone reali, bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi
rappresentata: la tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l’arcadica
perfezione di quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi – e spesso
gratuitamente – tenta d’insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli
sconvolgimenti provocati dall’esilio, dalla morte, dalla passione. *La
raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell'anno 39, momento
in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della pace con Sesto
Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue flotte. Le "Bucoliche"
respirano perciò, in genere, un'atmosfera serena, e rendono omaggio a quel
"giovane dio", simile all'Apollo onorato dai pastori, nel quale è facile
riconoscere Ottaviano.
Le "Georgiche". *Il poema delle "Georgiche",
composto tra il 37 e il 30 a.C., in 2183 esametri, si riallaccia alla poesia
della natura che è nelle "Bucoliche", ed è inoltre preludio al canto delle virtù
umane, che sarà nell’ "Eneide". Si dice che V. lo scrivesse su invito di
Mecenate, che si faceva interprete del programma di risanamento morale di pace e
di lavoro formulato da Augusto, cui realmente stava a cuore la ripresa
dell’agricoltura. Ma ciò che più conta è che l’opera risponde alle vere
aspirazioni del poeta. *Scegliendo questa tematica, affrontata in altri
tempi da Esiodo nel poema "Opere e giorni", V. rimaneva nell'ambito dello
spirito alessandrino, che considerava Esiodo uno dei poeti più alti, forse
superiore allo stesso Omero. Per di più, V. vedeva nel suo progetto (com'egli
stesso orgogliosamente affermerà) la possibilità di annettere una nuova regione
poetica alle lettere latine. Le sue convinzioni epicuree, infine (forse già un
po' scosse, ma delle quali sarebbe impossibile dubitare), lo portano a emulare
Lucrezio in un'epopea consacrata allo spettacolo del mondo e alle attività
umane. Il mondo dell’Arcadia, che era fittizio, e che escludeva, a dispetto
delle apparenze, l’urgenza del mondo della realtà, lascia il posto ad un mondo
soltanto o prevalentemente reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di lavoro
aspro, di attività creativa che le immaginate favole del mito e le invenzioni
letterarie anche qui inserite a trapuntare il tessuto narrativo e didascalico
non solo non annullano, ma anzi rilevano. *Nelle "Georgiche" si registra
però il miracolo del superamento dei modelli grazie al dolore che connota
l’intero poema. Qui il dolore non si mostra come generato dall’ingiustizia
sofferta quale destino ineluttabile, superato o stemperato in dolce malinconia
per mezzo dell’evasione in Arcadia; ma è dolore esistenziale intuito e scoperto
nel quotidiano vivere dell’uomo nel suo contrasto con le avversità atmosferiche,
che rovinano i seminati. Tale condizione esistenziale non consente evasioni;
anzi resta come il segno vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno
idillico delle Bucoliche. V. "vede l’uomo nella sua funzione di
trasformatore" (Ferrero). L’uomo è capace di vincere le avversità, di correggere
gli errori di trovare rimedio ai mali grazie al suo impegno costante nel lavoro:
il lavoro procura lo sviluppo civile, sorregge i legami della società, le
istituzioni, i costumi. I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei
termini del loro caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono
gli aspetti autenticamente morali dell’agricoltura. Per tutte queste ed altre
ragioni l’intento didascalico dell’opera, che voleva rispondere all’invito di
Mecenate, il committente affabile ma esigente, non risulta affatto fondamentale,
tant’è che non è difficile scoprire che i consigli e gli ammaestramenti dati dal
poeta ai contadini non sono tutti o in tutto realizzabili né tutti opportuni o
logici in senso strettamente pratico. *Il destinatario delle "Georgiche" dal
punto di vista del contenuto tecnico è il contadino; ma badando al livello
artistico e alla perfezione formale, che è frutto di eccezionale cultura e porta
i segni di una faticosa elaborazione, per la quale lo stile medio del poema
didascalico si eleva al piano dello stile sublime dell’epica, il pubblico di
lettori ideali a cui il poema si rivolge è il pubblico urbano al quale si adatta
il contenuto etico generale, ispirato al programma augusteo volto al recupero
dei sani costumi e alla stabilità delle condizioni di pace. Ma invero, nel
suo poema V. cerca di dimostrare una verità che non rientra nell'ordine della
politica. Mette a confronto l'uomo e la natura, e dimostra che quest'ultima è,
per eccellenza, l'ambiente fisico e morale suscettibile di condurre l'uomo a una
felicità abbastanza prossima a quella predicata dagli epicurei. Tuttavia, a poco
a poco, V. è trascinato a rompere gli schemi un po' angusti dell'epicureismo,
quasi che lo spettacolo e la meditazione dei grandi momenti della "Natura" gli
rivelassero, in essa, la presenza degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito,
che mostra come Giove abbia in realtà "dissimulato" negli oggetti ciò che l'uomo
deve cercarvi: il fuoco nelle vene silicee o nel legno dei rami, il ferro nelle
viscere delle montagne, imponendo così la legge, moralmente salutare, del
lavoro. Se in Venere, simbolo della "voluttà", Lucrezio aveva visto, in modo
analogo, il motore del mondo, in V. il mito s'ingrandisce fino a dominare. La
divinità si trasforma nell'aspetto "oggettivato" della sensibilità del poeta
stesso, che si compiace nell'evocare le realtà religiose dell'esistenza rurale.
Il calendario del rituale romano riprende il suo primitivo valore a contatto con
la realtà fondamentale della terra. *V., superate le strutture stilistiche
delle "Bucoliche", ha modellato le nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle,
più complesse e più varie, se non ugualmente sempre perfette, dell’ "Eneide". Ma
forse soltanto nella tristezza che ispira le conclusioni di tutti e 4 i libri
può rintracciarsi la prova del preciso disegno architettonico dell’opera.
Certo è che ognuno dei libri ha una sua tematica distinta, una sua autonomia
che si rivela anche per mezzo del particolare proemio che lo introduce:
Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a Mecenate e l’invocazione alle
divinità protettrici, prende in esame la natura, la semina e le sue cure
specifiche, l’osservazione degli astri, i pronostici. Si conclude con una
ulteriore invocazione agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto dalla
guerre. Libro II: Tratta della cultura delle piante, in particolare della
vite e dell’olivo, che nell'economia italiana di quel tempo, dove vino e olio
costituivano i prodotti principali delle grandi tenute e la prima fonte
d'esportazione verso le province occidentali, occupavano evidentemente un posto
fondamentale. Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all’Italia. C’è,
in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio patriottico e di una
testimonianza di fede nel destino d’Italia, quanto l’emozione di chi si incanta
al miracolo di una realtà di pace che fino a ieri era solo un’aspirazione.
Libro III: Dedicato all'allevamento del grosso e del piccolo bestiame e ai
sistemi di sfruttamento dei terreni, italiani e no (Africa, Spagna, Illiria),
che non si prestavano alla coltivazione della vite o dell'olivo; contiene
un’altra invocazione, a Pale e ad Apollo, le divinità della pastorizia.
Libro IV: Riguardante le api, tratta dell’ubicazione e della costruzione
dell’alveare, delle abitudini delle api e delle riproduzioni degli sciami (il
miele aveva unposto di rilievo in un'alimentazione interamente priva di altre
fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di un giardino con
piante e fiori profumati, V. introduce la breve storia del vecchio di Corico,
che riuscì grazie alla sua tenacia a sentirsi ricco e beato come un
re. Ciascun canto presenta una "digressione": nel I il racconto dei prodigi
che accompagnarono la morte di Cesare; nel II l'elogio dell'Italia; nel III la
peste (epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel IV, infine, a
coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo "apicultore", nella quale
si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice. *Architettura perfetta, dunque,
ma della quale rimangono misteriosi i motivi profondi: forse per V. si trattava
solo di colmare, in questo finale del IV libro, il vuoto lasciato dalla
soppressione dell'elogio di Gallo (che appunto inizialmente ne era la
conclusione), il quale - divenuto prefetto dell'Egitto - aveva offeso Augusto e
si era suicidato. L’ "Eneide". *l’ "Eneide" si inserisce pienamente nel
genere epico di ascendenza greca, riuscendo a farsi nel contempo interprete dei
valori della romanità e dello spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da
divenire il poema nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di
mitologia e storia che caratterizzava l’epica latina arcaica, differenziandosi
però per l’argomento: il mito assume un posto centrale e diventa nucleo primario
della vicenda tanto che il protagonista non è Augusto, ma Enea. In virtù di
questa impostazione V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi
contemporanei e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il significato
della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello principale - altri
elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli alessandrini, e in
particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e romani, agli orfici, a Nevio
e a Ennio. Né bisogna dimenticare che il mito di Enea aveva assunto per i Latini
un valore nazionale e che per lo più ne veniva ammessa financo la storicità.
*Eppure, l’ "Eneide" risulta un’opera originale, nella sua straordinaria
densità e complessità, grazie all’enorme quantità di materiali culturali:
storici, letterari, antiquari e filosofici. Il modello principale – come detto -
è Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la successione
originale e riducendoli in uno solo. La prima metà, chiamata parte "odissiaca",
ha quindi come tema principale il viaggio, la seconda, detta "iliadica", invece
ha la guerra (spartiacque è il libro VI, quello della discesa di Enea negli
Inferi). La presenza di Omero è massiccia oltre che nell’intreccio, nella
ripresa di molti episodi. V. segue Omero anche in ciò che riguarda l’apparato
mitologico, con alcune differenze fondamentali come il rinnovamento dei
materiali poetici di cui si serve, che organizza e orienta in modo diverso in
funzione del significato complessivo dell’opera. Il punto d’arrivo a cui tende
la storia universale è Ottaviano Augusto che viene unificato così alla
celebrazione di Roma su di un piano ideologico. *All’interno di questa
struttura, l’azione si sviluppa abbastanza lineare, procedendo senza divagazioni
verso la grande scena finale: infatti, l’interesse del poeta è tutto concentrato
sul destino del protagonista, che attraverso molteplici avventure si avvicina
sempre più alla meta fissata dal Fato: il nascere e la futura gloria di Roma. I
vari episodi del poema non ne sono quindi altro che le necessarie tappe, secondo
una curvatura decisamente teleologica. E’ tale meta, dunque, che illumina, dà
senso e giustifica le fatiche, le angosce, la morte che incombono e colpiscono
inesorabilmente i personaggi: il mondo dell’ "Eneide", infatti, a differenza di
quello omerico, non conosce tanto esuberanze giovanili ed esaltazione eroica, ma
appare invece dolente e meditativo, strettamente affine all’universo delle
precedenti opere: postulato fondamentale è l’obbedienza al Fato, e anche in ciò
personaggio emblematico è ovviamente il "pius" Enea. *Al poema, V. lavorava
dettando un gran numero di versi, e poi rielaborandoli per tutta la giornata.
Seguiva uno schema di prosa che si preparava e che poi portava in versi. Eccone
la sintesi: Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata contro i Troiani,
fa approdare Enea lungo le coste presso Cartagine. Con l’aiuto della madre
Venere, Enea viene bene accolto dalla regina Didone, alla quale racconta la fine
di Troia. Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione della città,
Enea riesce a scappare con il padre Anchise e il figlio. Libro III: Racconto
di Enea: partiti da Troia, Enea si rende conto che una nuova patria lo attende
in Occidente. Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine Didone si
uccide profetizzando l’eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei
Troiani. Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono dei giochi in
onore di Anchise. Libro VI: Enea arriva in Campania dove consulta la Sibilla
ed entra nel mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto a Troia, Didone,
Palinuro, il timoniere, e il padre che gli mostra la sua eroica
discendenza. Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere e riconosce in essa
la terra promessagli dal padre. Qui stringe un patto con il re Latino, ma
interviene Giunone che fa scagliare contro di loro il principe Rutolo, Turno.
Enea non può più sposare la principessa Lavinia. Libro VIII: Enea è costretto
a risalire il Tevere dove trova degli alleati in Evandro, re di un piccolo
gruppo di Arcadi, e in una coalizione di Etruschi. Libro IX: Con Enea
assente il campo troiano è in una situazione critica. Libro X: Enea irrompe
nella scena e uccide l’alleato di Turno, Mezenzio, che a sua volta uccide
Pallante protetto di Enea. Libro XI: Dopo la sua vittoria Enea piange l’amico
morto. Le sue offerte di pace non hanno successo. Libro XII: Turno accetta di
sfidare Enea a duello, ma un intervento di Giunone fa riprendere la guerra. Enea
sconfigge Turno e lo uccide nel nome di Pallante. *Si compie così il primo
atto del destino di Roma. L'evoluzione religiosa del poeta fa dunque sì che egli
approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un platonismo mistico (o, se si
preferisce, a un "neo-pitagorismo"), che ammette l'esistenza di anime
sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un disegno della Provvidenza. V. si
avvicina, per questa strada, alle idee professate dagli storici intrisi di
stoicismo, epigoni di Polibio. Si realizza in tal modo la sintesi delle
principali correnti spirituali di Roma, che consente all' "Eneide" di farsi
immagine di quest'ultima e giustificazione del suo straordinario valore
storico. *I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise è lo strumento
obbediente della divinità, nella prima parte come profugo errabondo, nella
seconda come guerriero: tuttavia egli, a differenza degli eroi di Omero,
presenta una sua intimità, una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben
volentieri fra le rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un’indistinta
nostalgia del ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua "humanitas"
spesso non va d’accordo con la sua "pietas", ma lo rende altresì più umano e più
vero. Turno: come eroe è un personaggio meglio caratterizzato di Enea, anche
se è, per così dire, la copia virgiliana dell’ Ettore omerico. Didone: è il
personaggio, tragico e appassionato, meglio riuscito del poema, che supera
abbondantemente i modelli cui potè ispirarsi, la Medea di A. Rodio e l’Arianna
di Catullo. Camilla: è un altro personaggio ben riuscito: la sua forza e il
suo coraggio di guerriera nulla tolgono alla sua femminile bellezza e alla sua
palese e fatale vanità. Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino,
Evandro, Eurialo e Niso, Lauso e Mesenzio. L’ "Appendix Vergiliana". Torna al
sommario Il termine "Appendix Vergiliana" è moderno (risale, come
evidentemente la silloge, all’età umanistica) e indica un gruppo di poemetti
pseudovirgiliani (salvo forse un paio di poemetti dei "Catalepton"), inseribili
nel quadro della poesia minore del I sec. D.C. (conclusivo è stato l’esame
stilistico). I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi priapei) non
sono comunque databili tutti allo stesso periodo e sono sicuramente di mani
diverse: inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti
intenzionalmente come falsi. I componimenti principali sono: 1 una serie di
epigrammi raccolti sotto il titolo di "Catalepton" ("componimenti leggeri"), che
contengono preziose informazioni biografiche; 2 un'epopea ingenua intitolata
"La zanzara" ("Culex", 48 a.C.), un epillio di 414 esametri (di gusto
neoterico). Un pastore, svegliato da una zanzara che uccide, riesce a salvarsi
da un serpente. Nella notte la zanzara gli appare, gli fa una lunga descrizione
dell’oltretomba, e chiede sepoltura. 3 un racconto leggendario, l' "Airone
bianco" ("Ciris"), di 541 esametri, che prelude alle "Metamorfosi" di Ovidio e
che trova collegamenti con la poesia erudita alessandrina, che si compiaceva di
leggende bizzarre: descrive infatti la trasformazione di Scilla in un uccello
marino appunto. 4 "Dirae", carme di 183 esametri (attribuibile forse a
Valerio Catone), che fonde insieme un canto di maledizione (contro l’attuale
proprietario del podere di cui è stato spogliato) e un canto d’amore (il destino
lo priva dell’amore di Lydia lontana). 5 "Aetna", poema di 646 esametri (che
Seneca attribuisce al "suo" Lucilio), di intonazione epicurea, in cui l’autore
vuole spiegare i fenomeni naturali in modo scientifico per sfatare le credenze
popolari e le interpretazioni dei poeti. 6 "Copa" ("l’ostessa"), ch’è la
descrizione vivida di una bella ragazza d’osteria, che domina tutto il breve
idillio di 19 distici; sulla soglia dell’osteria, canta e danza, invitando i
passanti ad entrare. 7 "Moretum" ("la torta campagnola"): poemetto di poco
più di 100 esametri, che descrive minutamente la scena di un contadino il quale
deve prepararsi il cibo (la focaccia piccante) per consumarlo al ritorno dal
lavoro.
Quinto Orazio Flacco (Venosa 65 a.C. – Roma 8
a.C.)
VITA. Figlio di uno schiavo liberato (liberto), ch’era riuscito
a racimolare un piccolo patrimonio, fu portato a studiare proprio dal padre
(quello ch’egli stesso definirà "il migliore dei padri") nelle migliori scuole
di grammatica e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del grammatico
Orbilio), andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i 20 anni. Lì O. aderì
all’ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano anche
perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu coinvolto, così,
dalla guerra di Bruto e Cassio, ai cui comandi si arruolò come "tribuno dei
soldati", combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò
miracolosamente, e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41),
profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni politiche. Le
sostanze lasciategli dal padre erano state confiscate: per vivere s’impiegò come
contabile nell’amministrazione statale. In seguito frequentò a Napoli la
scuola epicurea di Sirone in compagnia di Virgilio. Iniziata l’attività poetica
con gli "Epodi" e le "Satire", nel 39 fu presentato proprio da Virgilio a
Mecenate, che lo legò a sé come amico e gli donò (33?) un podere nella Sabina.
Augusto gli offrì un posto di segretario, ma O. declinò l’invito,
assecondando tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia su
quello letterario: un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato". Nel 17
fu incaricato di scrivere il "Carmen speculare" in onore di Apollo e Diana, da
cantare durante i ludi saeculares. Nel 20 iniziò a pubblicare le Epistole il
secondo libro delle quali comprende tre lunghi componimenti di argomento
estetico fra cui l’Ars poetica. Nell’8 a.C. scrisse quattro libri di Odi, fra le
quali si distinguono le c.d. Odi romane. Nel settembre dell’8 a.C. morì
Mecenate. O. si sentì perduto, e anche lui si spense il novembre del medesimo
anno a causa di una emorraggia cerebrale o paralisi. Fu sepolto accanto alla
tomba di Mecenate, "la metà dell’anima sua".
OPERE.
*"Epòdi" (41-30 a.C.). Sono 17 componimenti (O. li chiama "iambi"),
ordinati metricamente. O. emula i giambografi greci, soprattutto Archiloco
(ma ne mutua più che altro i metri e l’ispirazione aggressiva, non già i
contenuti), anche se il suo furore è, in verità, talvolta alquanto letterario.
Tuttavia, gli "Epòdi", malgrado una certa ridondanza stilistica, sono
fondamentalmente più violenti delle "Satire", e più amari: vi deplorava le
disgrazie della patria e affermava la propria indignazione per alcuni scandali
derivati dalle guerre civili. Ora, quindi, sono appunto le ansie per il
pericolo della guerra civile (epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto
tribuno militare (IV), contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro
(X), contro una vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII).
Ma anche qui affiora la mitezza di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a
Mecenate al tempo di Azio e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità, più
decisamente nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l’ironia finale
c’è un forte gusto per la vita agreste, mentre infine nel XIII compare un altro
tema caratteristica: quello della fugacità della vita. *"Satire" ( dette dal
poeta stesso "Sermones"). Scritte in esametri, sono divise in 2 libri: il I
(35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8. Difficile ne è la cronologia
interna. Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli "Epòdi",
attraverso certo i temi della predicazione filosofica (ma non quella più rigida
e moralistica) e la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere la
versione moderna: I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana e discorsiva
(si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci, ma come detto non sfoghi
moralistici) un suo ideale di misura che lo salvi dalle tensioni interne e non
gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia" e "metriòtes"). Il poeta
insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà interiore, valendosi
di uno straordinario senso critico e autocritico, oltre che del suo tatto e
della sua conoscenza del mondo: il ragionamento si mantiene sul piano
psicologico-umano, e la polemica non è tanto contro i vizi in sé, quanto contro
la loro vera radice, ovvero l’eccesso. Inoltre, nelle prime "Satire", O. si
sforza di dimostrare che la morale epicurea non è in disaccordo con i valori
tradizionali di Roma: moderazione, saggezza, rispetto dei costumi, eccetera.
Insiste anche sulla semplicità dell’esistenza rurale quale condizione della
felicità, parlando, in questo senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e
precisamente nello stesso periodo, all’incirca, in cui questi componeva le sue
Georgiche. Affinità vi sono anche col linguaggio di Tibullo. Inoltre, l’amicizia
da lui spesso elogiata non è scambio di favori, e ancor meno schiavitù (come
spesso avveniva a Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una
comunione profondamente spirituale o, anche, ideale. Altra satira
programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche rivoltegli. Spunti
autobiografici, invece, si trovano nelle satire: I4 (sul padre); I6 (sulla
presentazione a Mecenate); I5 (sul viaggio a Brindisi al seguito di Ottaviano);
II6 (in cui esprime la gioia per la villa donatagli). Satire più propriamente
etico-filosofiche sono invece: I2 (sull’adulterio; vigorosa); II3 (sulla pazzia
degli uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6 (con l’apologo del topos
campagnolo e del topos urbano). *"Odi" (secondo i grammatici), "Carmina" per
O.. I primi 3 libri (88 odi), dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23
a.C., il IV (15 odi: quindi, in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C. O. aggiunse il IV
libro dopo molti anni, su richiesta di Augusto per "cantare" la vittoria di
Druso e Tiberio su Reti e Vindelici. Il criterio d’organizzazione del libro
sembra essere quello della "variatio": sia dal punto di vista metrico-formale
(ben 13 sono i metri usati), sia per tono e contenuti (alternanza di temi
politici e temi privati, di stile alto e stile leggero). L’ispirazione
oraziana qui si modifica e purifica in composizioni raffinatissime, chiuse nel
giro di strofe perfette (il modello è nei poeti classici greci: Alceo, Saffo, ma
anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro…): le "Odi" si caratterizzano come un
riuscito tentativo di trasferire a Roma i ritmi della poesia eolica. Lo stile
diventa esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi fredda; il tutto,
insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza tecnica (la "callida
iunctura", cioè l’accorta disposizione delle parole e l’accurata articolazione
del periodo) e dall’altro dal controllo di impressioni e sentimenti: O. si
presenta come discepolo dei "poeti nuovi", alla ricerca anch’egli della
perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal superamento delle
difficoltà. Se O. nei "Sermones" era apparso, così, poeta e narratore, nelle
"Odi" si rivela nelle vesti di un sublime "moralista": non perchè vada
predicando una morale, ma perchè eccelle nel cogliere e nell’esprimere in un
ritmo, in un accostamento di parole, nella suggestione di un’immagine,
un’"esperienza" privilegiata che illumina l’anima e la rivela a se stessa. La
causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile intemperanza (I16):
è invece insistente l’idea della "misura" ("aurea mediocritas", II10). Essa
assume una dimensione nuova: da una parte viene ancorata saldamente al concetto
di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni (modestia, parsimonia,
campagna contro città, etc…: ad es., I18, II2-3-15-18, III1 e 16), ma con
l’aggiunta del motivo – riflesso autobiografico – della felicità di chi, oltre
che saggio, è anche poeta (II16,III14…); dall’altra, sul piano della
meditazione, è associata all’idea della morte, che tutto rilivella (II3 e 8,
III1 e 24): il senso della fugacità della vita acquista rilievo e ispira tra le
"odi" più celebrate: I11 (v’è il motivo del "carpe diem"), I24 (in morte del
poeta Q. Varo), I28 (sulla tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo),
ecc… Attinto alle correnti filosofiche dell’epoca (in special modo,
l’epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es.,
Mimnermo), dato senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su questa
poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto
traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido senso
dell’amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette "odi conviviali"), nel
controllo stesso delle passioni nelle non poche odi dedicate a donne i cui modi
(Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale…) celano quasi certamente persone (e forse financo
vicende) reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la necessità di una poesia
che cantasse l'amore: chiede infatti proprio all'amico di porlo tra i poeti
lirici (1 I 35)). Una delle intuizioni fondamentali dell’epicureismo era il
valore proprio di ogni istante. O. se ne impadronisce e ne fa uno dei temi del
suo lirismo. Il "carpe diem", nel quale si è pensato di poter riassumere la sua
"saggezza" (riducendola, in questo modo, ad una formula angusta e anche un po’
volgare), è innanzitutto il nucleo di una poetica. Non è tanto la ricerca, fine
a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e semplice fatto
di vivere. In questa prospettiva, O. canta il "tempo libero" (otium), che è
anche quiete dell’intelletto e dell’anima, libertà interiore: il carmen prolunga
la strada imboccata col sermo, trasfigurando ciò ch’era stato consiglio
obiettivo in scoperta dell’anima. Il pensiero stesso della morte, anziché
rivelarsi amaro, dà tutto il suo valore alla rinnovata presenza della
vita. Forse anche il vistoso apparato mitologico va inteso, al di là del
richiamo alessandrino o degli agganci alla religione della Roma augustea, come
un elemento di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della poesia;
epicureo, O. non crede davvero all’intervento degli dèi nel mondo: egli ne fa un
gioco, allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione tutta intera, senza
voler scoprire in essa il segno di una trascendenza divina. Ma, in fondo, non è
un problema che lo interessi molto. Egli onora le divinità campestri della sua
tenuta come presenze familiari che prolungano il suo personale universo
interiore, non per manifestare ad esse la propria "adorazione". Quasi
sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza di essere
poeta: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del regime di
Augusto: ne fa fede l’importante filone etico-politico che riscontriamo nelle
"Odi" (ovvero i 6 componimenti (detti "odi romane", appunto) con cui si apre il
III libro), nonché il "carmen saeculare". *Il "Carmen Saeculare". Augusto nel
17 a.C. indìce i ludi Saeculares, nel momento più adatto, scelto con grande
abilità, per celebrare i ludi, testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte
civili che si chiude e di un'era di pace che si apre. Morto Virgilio nel 19,
nessun altro poeta poteva ricevere l'incarico di comporre l'inno per i ludi,
perché nessuno più di O. aveva dimostrato, specialmente con le odi romane, di
saper interpretare l'essenza della grandezza di Roma. O. accettò l'incarico, che
significava per lui riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più
ancora, consacrazione della sua attività lirica, che appunto dalla composizione
del "Carmen" trasse nuova linfa e riprese sostanza. Così, il poeta affida al
canto di due cori di giovani, l’uno maschile e l’altro femminile, il compito di
invocare la protezione degli dèi su Roma. Il "Carmen" presenta, ovviamente, i
difetti propri delle composizioni eseguite su commissione, ma, se non è sorretto
da altissima ispirazione, è tuttavia opera di altissima dignità artistica e,
soprattutto, di profonda sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il
poeta può liberarsi dagli obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia
e dispiegare liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità poetica
delle sue liriche più felici, interpretando con severità e serietà il mito
storico di Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un ideale quasi ieratico di
potenza e di predominio" (Turolla). *"Epistole". In esametri e in 2 libri: il
I (di 20 componimenti) dedicato a Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 del II
libro, quella ad Augusto è del 14 o 13, quella a Floro è del 18
ca. L’epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O.
non si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di cui si
discute il carattere "reale" o meramente "letterario"), il poeta – oramai maturo
– cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c’è un bisogno di calma
e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana, interiorizzata in una
sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo spostamento verso una periferia
agreste, che risuona di memorie filosofiche: un "angulus", insomma): è il frutto
della migliore lezione del suo epicureismo (non vi è dunque "svolta" in senso
stoico). *Infine, al II libro è aggiunta l’epistola ai Pisoni, nota come "Ars
poetica" (17 o 13 a.C.), in esametri: ricca di riferimenti a Neottolemo di Pario
e ancor più ad Aristotele, è impostata sul problema dell’unità dell’opera d’arte
e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come principale punto
di riferimento il dramma. Due tesi, in particolare, sono celebri: la necessità
di fondere la spontaneità e immediatezza dell’ispirazione con lo studio metodico
e il paziente lavoro di lima; e il noto principio dell’ "utile dulci", della
fusione cioè fra utile e dilettevole. Torna al sommario
Breve profilo
introduttivo della letteratura d’amore in Roma.
La poesia d'amore nasce
tardi nella letteratura latina e si afferma solo nel II sec. a.C., quando i
Romani, concluse vittoriosamente le guerre in Oriente e in Grecia, allentano le
preoccupazioni per l'interesse dello stato, trovando il tempo e l'animo per
dedicarsi anche alla vita anteriore. I tempi nuovi, meno condizionati dagli
obblighi e dalle campagne militari, permettono di coltivare, oltre ai modi della
scrittura adatti alla riflessione sul bene comune (come la storiografia,
l'oratoria, il teatro, la satira, il poema epico e la tragedia stessa), generi
nuovi da dedicare all'effusione dei sentimenti o alla ricerca
dell'io. Intorno a tali tematiche si raccolgono gli intellettuali del circolo
letterario di Lutazio Càtulo (ca. 150-87 a.C.), che dà vita a una produzione di
sapore individualistico, particolarmente elaborata nello stile. I poeti
appartenenti a tale corrente sviluppano argomenti e forme della poesia
ellenistica, rifacendosi soprattutto a Callimaco, come appare evidente da alcuni
brevi componimenti dello stesso Lutazio Càtulo. Se n'è fuggito il mio cuore:
se ne sarà andato, al solito, da Teotimo. Sicuramente è quello il suo rifugio.
Ma come? Non gli avevo forse imposto di non accogliere il fuggitivo, e di
scacciarlo piuttosto? Andremo a cercarlo. Ma temo di essere trattenuto io
stesso. Che fare? Consigliami, o Venere. (Epigramma 1 Morel; trad. di V.
Sirago) Valerio Edituo invece riprende una famosa ode si Saffo, il frammento
31 LP, che ispirerà anche il più celebre carme 51 di Catullo. Quando mi
sforzo di dirti, o Pànfila, la pena del mio cuore, e che cosa desidero da te, le
parole mi mancano sulle labbra; nel petto in una vampa trascorre improvviso il
sudore; così tacito, avvampante, mentre mi vergogno, muoio. (Epigramma 1
Morel; trad. V. Sirago) Il circolo intorno a Lutazio Càtulo, non a caso detto
"preneoteorico", ha il merito di anticipare e preparare l’importante circolo dei
poeti novi, o - alla greca – neoteroi, scrittori colti, consapevolmente
indirizzati a riprodurre nei metri e nei temi i grandi modelli della poesia
alessandrina e dei lirici greci. Se l'epigramma di Valerio Edituo brilla
sotto il profilo compositivo soprattutto per la sua chiusa sorprendente, dove il
"vergognarsi" (pudeo) è contrapposto al "morire" (pereo), tocca al carme 51 di
Catullo il compito di istituire un topos della poesia d'amore, legando la lirica
latina al mondo dei sensi e della passione e quindi avviando il filone della
"malattia amorosa" e della "servitù d'amore". Già Lucrezio aveva proposto,
nei duecento versi del finale del IV libro, il tema dello sconvolgimento
psicofisico che accompagna il furor degli amanti, restando però all'interno di
un contesto filosofico, che neppure il vigoroso movimento delle immagini riesce
a distaccare dai parametri epicurei della lontananza da ogni passione. In
Catullo, pur in assenza dell'effigie femminile, l'effetto di concretezza del
rapporto risulta rafforzato a causa del realismo con cui sono presentati i
sintomi dell'amore/malattia, che il poeta soffre sul proprio corpo con la
perdita della voce, della vista e persino dell'udito, fino al deliquio (carme
51, vv. 7-12). Il sapore del "vissuto" e della "quotidianità" dell'amore,
talora felice (carmi 5 e 7), più spesso infelice (carmi 8, 58 e 70) trova
efficacia particolare grazie alle scelte linguistiche in cui si intrecciano
linguaggi diversi, da quello parlato (carme 5: basia, "i baci") a quello
finanziario-contabile (carme 5, v. 3: "consideriamolo un soldo bucato") a quello
dotto di derivazione ellenistico-callimachea (carme 7, vv. 3-6:
"Cirene...Batto"). La complessità linguistica e formale e la varietà dei
modelli ai quali Catullo si è ispirato non tolgono nulla alla forza del canto,
in cui si intrecciano poesia e vita, letteratura e autobiografia. Il poeta
stesso è implicato nella storia che narra e le sue parole hanno il sapore
dell'esperienza. Il canzoniere di Catullo, pur nell'esercizio continuo della
doctrina e della raffinatezza formale, effonde un senso profondo di umanità per
la "mondanità" dei fatti e delle emozioni. Quando è ormai chiaro che Lesbia
tradisce il suo Catullo, il dolore del poeta si manifesta nell'incalzare di
mille reazioni, dall'autoesortazione all'oblio (carme 8) unita all'accorato
fluire dei ricordi - la rievocazione dei luminosi giorni passati con Lesbia -,
alla denuncia lucida e incredula dell'odi et amo, voce semplicissima e
fortissima, oggi emblema del contrasto sempre lacerante fra amore e odio (carme
85). La donna ormai lontana continua a occupare i pensiero del poeta fino
quasi a condurlo con l'assolutezza della sua presenza alla follia. Catullo cerca
allora di superare il tormento rielaborando in modi diversi il rapporto con
Lesbia: senza mai abiurare al suo amore, prospetta un legame insolito per la
cultura romana che sarà destinato a orientare la letteratura d'amore fino al
Medioevo e oltre. Nobilita cioè l'intensità totalizzante e assoluta della
passione con il rigore di un "patto" che vincola i due amanti anche senza il
matrimonio (carme 87). E Catullo, sia pure con toni che variamente
riproducono l'ossessiva presenza di Lesbia anche dopo il tradimento di lei, non
cessa di approfondire, quasi stupito per le sue stesse scoperte, la psicologia
amorosa. Riprende così l'antitesi "odio/amore" nel carme 92 dove l'immediatezza
espressiva appare inferiore a quella del carme 85, mentre è maggiore la
raffinatezza psicologica che induce Catullo, fra straniamento e perdita della
lucidità, ad attribuire alla donna, per una sorta di transfert, sentimenti
affini ai suoi.
Lesbia va continuamente sparlando di me, e non sta zitta,
quando si parla di me: mi venga un accidente se Lesbia non mi ama. "Da che cosa
l'arguisci?". Perché sono gli stessi indizi miei: continuo a detestarla, ma mi
venga un accidente se non la amo! (trad. F. Della Corte) La varietà dei
metri e delle forme nel libro catulliano ben rappresenta la mutevolezza
dell'animo femminile e la complessità esistenziale del rapporto
d'amore. Catullo, nell'intreccio fra vicenda umana e iper poetico, dà l'avvio
a un modello di linguaggio amoroso e a un genere letterario, nel quale stringe
un legame intellettuale importante, anche se implicito, con tutti i fedeli - e i
malati - d'amore. Lesbia, ora innamorata dolce-ingenua, ora amante della
passione dirompente, ora ingannatrice, infine vera e propria traditrice di ogni
patto sancito, donna di strada nutrita d'intrighi, è figura dominante e concreta
che mette l'amore al primo posto, a costo di contrapporlo alle consuetudini
sociali del tempo o alla vita morale del poeta. Non si può infatti
dimenticare che nel I sec. a.C. l'epica, la tragedia e i generi
filosofico-didascalici disapprovavano chiunque presentasse amori diversi da
quelli improntati al nobile sentire. È Catullo il primo scrittore che toglie la
poesia erotica dal clima leggero del gioco mercenario e mette al centro la donna
reale, con il suo carico di contraddizione e di infelicità. Nel secolo di
Augusto, Orazio continuerà a cantare d'amore, imitando le fonti greche, come
Alceo (carme I, 9), Semonide di Amorgo (carme I, 5 "Quale giovane a-gile ti
chiama/tra molte rose e puri aromi, Pirra/nella grotta felice...) o gli
ellenistici, e offrirà una sua visione leggera e malinconica dell'amore,
tributando a Catullo solo il debito di qualche "citazione" colta. Ma Catullo
"sarà maestro per la generazione degli elegiaci, che da lui trarranno la
concezione dell'amore come continua sofferenza e come consapevole scelta di
vita" (P. Fedeli). Con la suggestione, la novità e la raffinatezza dei suoi
versi diviene modello di altri poeti e in particolare di P.. L'amore,
presentato sempre più esplicitamente come motivo di vita, si fa materia
privilegiata per il canto e per l'effusione dei sentimenti. Anche P. prende
spunto dalla sua vicenda amorosa, ma non si ferma all'esperienza. Sapendo fin
dall'inizio (grazie alla frequentazione del libro catulliano) che la sua storia
non sarà solo ricca di gioia, cerca di delineare una teoria dell'amore: chi vive
come "fedele d'amore", anche se infelice, compie una scelta difficile, ma
superiore a quella di chi intraprende la carriera politica o militare. È dunque
meglio rinunciare agli onori delle cariche o alle ricchezze e lasciarsi
soggiogare dalla tirannia dell'amata. La sua Cinzia esercita un duro dominio
costringendo il poeta a una pesante "schiavitù". Dalle Elegie di P. traspare
un nuovo legame fra arte e vita: nella vita il poeta si dedica alla donna
trascurando gli impegni pubblici; nell'arte ricerca moduli adatti a cantare il
suo sentimento totalizzante e assoluto. Il rapporto sentimentale, che già in
Catullo aveva trovato importanza e significato oltre il semplice gioco e-rotico
o mondano, diventa ricerca di valori etici e letterari. Non compare tuttavia
alcuna idealizzazione dell'amore. Anzi P., nell'elegia (I, 6) in cui dichiara di
rinunciare - per amore - a seguire l'amico Tullo in Oriente, riconosce con
semplicità di cedere all'"estrema debolezza" (nequitia, v. 26), obbedendo alle
parole di Cinzia, che dolente e adirata gli ingiunge di rimanere in
patria: "questa è la milizia a cui mi costringe il fato" (v. 30). Il
canzoniere properziano mantiene e rafforza l'importanza della donna e dell'amore
nella poesia e nella vita, continuando, nonostante gli inviti di Augusto a
comporre versi impegnati, a riproporre la sua appartenenza ai "fedeli
d'amore".
L’elegia: la sua nascita e la sua fortuna a
Roma
Nella sua storia, l'elegia ha conosciuto toni e contenuti molto
diversi, pur nell'unità della struttura metrica, che è quella del distico detto,
appunto, 'elegiaco' (un esametro e un pentametro dattilico in coppia). Nata in
ambiente ionico nel VII sec., fu guerresca con Callino e con Tirteo; con Solone
divenne politica e sociale; con Mimnermo cantò la fugacità malinconica della
giovinezza e dell'amore; fu pessimistica e moraleggiante con l'aristocratico
Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V sec., significativa fu
l'opera di Antimaco di Colofone, che raccolse una serie di elegie che narravano
vicende mitiche d'amore sotto il nome di Lide, la sua donna (come Mimnermo aveva
fatto per la flautista Nannò), costituendo un importante tramite per l'elegia
erotica e narrativa di età ellenistica. Abbiamo così, in età alessandrina, la
Leonzio di Ermesianatte, Gli amori di Fanocle, forse la Battide di Filita,
l'Apollo di Alessandro Etolo, la grande elegia eziologica di Callimaco. L'elegia
alessandrina fu sopra tutto l'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle
passioni del mito meno conosciute: fu elegia raffinata che ricercò ogni
recondita dottrina; in essa il poeta, molto più che parlare di sé, doveva
esporre gli antichi, mitici casi d'amore. Agli elegiaci alessandrini (come
Callimaco e Filita) i Latini si rifecero come a maestri. Purtroppo della
produzione ellenistica quasi nulla a noi è pervenuto, e non possiamo dunque dire
se anche negli elegiaci alessandrini fosse presente, magari in piccola parte,
quel carattere personale e soggettivo che è tipico, invece, dei
latini. Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione (10, 1, 93
elegia... Graecos provocamus: "nell'elegia gareggiamo coi Greci") doveva
avvertire concretamente i caratteri in parve innovatori dell'elegia romana. Di
sicuro noi possiamo sottolineare l'importanza di Catullo e del suo mondo poetico
per la formazione dell'elegia latina: nelle forme e nelle tecniche alessandrine
egli aveva immesso l'intensità passionale del suo temperamento, gli odi e gli
amori, Il dolore e l'idealizzazione mitica di una donna, l'esperienza drammatica
della vita vissuta. Riduttiva appare la tesi di F. Jacoby, secondo la quale
l'elegia latina deriverebbe non direttamente dall'elegia ellenistica (F. Leo),
ma da un ampliamento dell'epigramma greco, il genere letterario al quale i poeti
d'Alessandria avevano affidato l'espressione diretta del sentimento personale.
Spunti epigrammatici non mancano, certo, presso gli elegiaci latini. Ma la
momentanea effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre s'esaurisce in un
respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione convenzionale, viene,
dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che è già strutturalmente
diverso, più ampio e impegnativo. Neanche sono assenti punti di contatto tra
elegia latina e commedia nuova. Ma sia per l'epigramma, sia per la commedia,
quanta parte doveva avere, anche per i poeti elegiaci, l'insegnamento della
scuola, in particolare la retorica, col ricco suo campionario di temi e
situazioni che, desunti dalle fonti più disparate, offriva alle esercitazioni
degli allievi? L'immediato precedente dell'elegia latina resta l'elegia
erotica alessandrina che, quasi del tutto perduta per noi, con buona probabilità
non doveva ignorare, accanto la narrazione mitica, anche il diretto riferimento
del poeta alla sfera del suo personale sentimento, pur se per i Latini, posta
l'esperienza fondamentale della lezione catulliana, il discorso soggettivo e
intimistico si amplierà e si approfondirà. Per non parlare dell'elegia a sfondo
più spiccatamente eziologico: gli Aitia callimachei costituiscono l'indubbio
punto di riferimento per le "Elegie romane" di P. e per i Fasti ovidiani. Al
centro dell'elegia latina è la figura femminile, una donna dai netti connotati
spirituali e dalla presenza fisica talora assai corposa, e ossessiva. Accanto a
lei, un poeta che la canta, perchè oltre tutto e' proprio lei ad esserne
l'ingenium, l'ispirazione esclusiva, e che la adora, pur fra tradimenti, liti e
riappacificazioni, in un vagheggiamento che la traspone in una dimensione
mitica. Essenziale, nel corteggiamento, è lo stesso esercizio poetico, che
prospetta all'amata una fama imperitura. Immancabilmente bellissima, la donna è
vita del poeta, ed è idealizzata sin nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia...). E’
l'amica o, meglio, la domina alla quale sottomettersi in un servitium, non senza
un dolce arrovellarsi nella sofferenza, perchè traditrice è la donna, e
volubile. E' comunque amore che vuole durare eterno, e non passione intensissima
ma labile, come quella di un epigrammista greco. E’ eros che va oltre la morte e
che talora il poeta canta come nenia funebre (flebilis è, tradizionalmente, il
componimento elegiaco). Il poeta elegiaco s'abbandona a un intreccio di
immagini ove la fantasia vale almeno quanto la realtà, e in cui l'ebbrezza
scatenata dei sensi non esclude l'esigenza di rinvenire un corrispettivo della
propria passione nel mondo sublime, ma estremamente ambiguo, del mito.
Gaio Cornelio Gallo (Forum Julii, odierna Fréjus, 69 – 26
a.C.)
VITA. Imbevuto di cultura ellenistica, G. costituisce l'anello
di congiunzione tra la poesia neoterica e l'elegia augustea. Nacque nella
Gallia Narbonese. Cornbattè con Ottaviano contro Antonio in Egitto e, nel 30,
divenne il primo praefectus Aegypti. Alcuni suoi atteggiamenti, congiunti alla
tendenza a tributare onori divini ai governanti, tipici di quella regione, lo
misero in cattiva luce presso Ottaviano, che lo fece condannare all'esilio e
alla confisca dei beni. G. si uccise. La damnatio memoriae che il princeps volle
del suo prefetto indusse, come sembra, Virgilio, che pure era stato legato a G.
da intensa amicizia, a sostituire il finale del IV libro delle Georgiche, che si
chiudevano con le sue lodi, con l'episodio di Aristeo, ma non impedì che P. lo
celebrasse come insigne poeta d'amore e Ovidio vedesse in lui l'iniziatore
dell'elegia latina. Determinante per la sua formazione fu l'amicizia con
Partenio di Nicea, il poeta greco che molto contribuì alla diffusione
dell'alessandrinismo presso i neoteroi. A lui Partenio dedicò la sua raccolta in
prosa di dolorose vicende d'amore (Erotika pathemata) come repertorio di casi e
di citazioni da utilizzare per la composizione dei suoi versi. Accanto a
quella di Partenio, rilevante fu pure l'influenza della 'difficile' poesia, di
carattere mitico e astrusamente erudito, del greco Euforione di Calcide (III
secolo). G. amò, sotto lo pseudonimo di Licoride, una donna seducente quanto
spregiudicata. Da schiava, 'Licoride' era riuscita a diventare mima, idoleggiata
attricetta, col nome di Citeride (ma si chiamava solo Volumnia...). Amante di
Bruto e di Antonio, dovè fare irresistibile presa sull'animo sognante - cosi ce
lo descrive Virgilio nella X ecloga - di G., che tuttavia abbandonò nel più
profondo sconforto per seguire un ufficiale tra le nevi delle Alpi e i freddi
del Reno. Capricciosa e leggera, la pulchra Lycoris fu tuttavia 1'ingenium di G.
(cosi Marziale in 8, 73, 6) ed ebbe gli onori della poesia nei 4 libri di elegie
che il poeta compose e riunì forse col nome di Amores (o proprio col suo nome,
Lycoris?).
OPERE. Sino a pochi anni fa, di G., posto da Quintiliano
(10,1, 93) tra i massimi poeti elegiaci, avevamo soltanto un pentametro,
contenente una nota erudita, secondo la migliore tradizione alessandrina, su un
fiume della Scizia. Tutto ciò ci rimaneva del corpus attestato invece dalla
tradizione: 4 libri di elegie, "Amores" ed epilli. Nel 1979 un papiro egiziano
ci ha restituito una decina di versi, nel primo dei quali è presente il nome di
Licoride. Se questi versi sono effettivamente autentici, resta confermata
l'importanza che gli antichi assegnavano all'esperienza poetica di G.: vi son
contenute le note soggettive tipiche dell'elegia latina, Ia dedizione d'amore
intesa come servitium nei confronti della domina, l'accenno alla nequitia, alla
dissolutezza, un concetto caratteristico del mondo elegiaco. Probabilmente
nella poesia di G. dovevano essere presenti i motivi e la struttura compositiva
della grande elegia augustea. In particolare, le note mitiche ed erudite
dovevano fondersi con la diretta esperienza sentimentale del poeta amante.
Albio Tibullo (Gabii 55/48 – 19 o 18 a.C.)
VITA. Abbiamo
poche e incerte notizie sulla vita di T., il poeta elegiaco che Orazio
(nell'epistola 1, 4) ritrae, pur bello e dotato di ogni bene, mentre s'aggira
nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in penosi
pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima". Di ceto equestre, T. nacque in
territorio laziale, anche se è molto improbabile l'identificazione del luogo di
nascita nel villaggio di Gabii, come da qualcuno è stato proposto. Fece
parte, a Roma, del circolo di Messalla Corvino, e con Messalla, cui fu sempre
legato da intensa amicizia, partecipò a due spedizioni militari, una in Oriente,
nel corso della quale dove fermarsi, ammalato, a Corcira (Corfu); l'altra in
Aquitania, ove si distinse per meriti militari (cantò il trionfo di Messalla -
celebrato nel 27 - nell'elegia 1,7 nella quale è anche un passo sul dio Osiride,
interessante documento della sua religiosità).
OPERE E CONSIDERAZIONI.
*Il "Corpus Tibullianum". I codici ci hanno trasmesso 3 libri di elegie. I
primi due sono sicuramente di T.. Il I fu composto tra il 30 e il 25, e consta
di 10 elegie. Vi si canta sopra tutto l'amore per una donna, Delia, che Apuleio,
nella sua Apologia (10), dice chiamarsi Plania (T. avrebbe ellenizzato il suo
nome: planus = delos). Il II comprende 6 elegie, in tre delle quali è cantata un
altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi: come una 'Vendetta' per i
tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa cenno Orazio nell'ode 1, 33:
una certa Glicera, una Glicera crudele ch’è venuta meno al patto d'amore col
poeta. C'è poi il III libro, che gli umanisti italiani divisero in due parti.
La I contiene una raccolta di 6 elegie che l'autore, un poeta di nome Ligdamo,
dedica alla sua Neera. La II consta di un anonimo Panegyricus Messallae, di
undici elegie che cantano l'amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con due
componimenti, verisimilmente attribuibili a T. giovane: un'elegia per una
ragazza innominata (la Glicera di cui parla Orazio?) e un epigramma. Molto
probabile è che l'intero Corpus sia frutto di poeti del circolo letterario di
Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune, quasi monocorde,
comunque lontana dall'estrema ricchezza e varietà di toni dei poeti della
cerchia di Mecenate. *I due libri di T.. Il mondo poetico di T. si configura
come un nostalgico vagheggiamento dell'amore e dell'ombra. I temi fondamentali
della sua poesia sono la campagna e l'amore, molto spesso intrecciati. Il poeta
ama vedere la sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con
tenerezza, talora appena tinta di un indefinito dolore. Il suo è amore fatto
sopra tutto di malinconica dolcezza, oscillante tra il desiderio di star vicino
alla sua donna e certe fantasie di morire. Nel II libro i toni divengono forse
più sofferti e crudi per la venale Nemesi, il nuovo amore che avrebbe dovuto
sostituire l'infedele Delia, e che invece ha imposto al poeta una umiliante
schiavitù, un triste servitium. Le note di fondo permangono, tuttavia,
sostanzialmente identiche. Le avventure con Delia, con Nemesi o, ancora, col
giovinetto Marato (cui T. dedica ben tre elegie nel I libro) sembrano spesso
svaghi di fantasia più che reali, effettive esperienze. L'amore del poeta non è
quello, travolgente e passionale, di Catullo per Lesbia. E’ tenerezza, languore
intriso di nostalgia e, molto spesso, espressione di vicende intraviste,
sognate, molto più che vissute. A ciò contribuisce la tecnica compositiva di
T., che ama disporre come a onde i vari motivi che si sviluppano nell'elegia. Un
tema si innesta su un altro, per poi venire abbandonato e poi ripreso, in un
gioco sinuoso di volute entro cui ogni realtà sembra perdere i suoi connotati.
Non sono - si badi - le digressioni che con dotta arte gli alessandrini
inserivano nel discorso poetico. In T. la trama poetica, pur unitaria, si
risolve in una variazione di temi che quasi si inseguono intorno a quello di
fondo, come in una composizione musicale. Le vane note della poesia tibulliana,
la deprecazione della guerra, l'esaltazione della pace dei campi, le fantasie
d'amore e di morte, gli stessi luoghi comuni dell'erotica alessandrina (il
lamento davanti alla porta chiusa dell'amata, Cupido armato di frecce, i riti
magici per conquistare la donna) si fondono, spesso senza scorie che sappiano di
stilizzazione, di 'maniera', in una struttura tanto sottile quanto organica.
L'assenza di erudizione mitologica rende ancora più nitido il disegno
dell'elegia tibulliana che, anche per questo, occupa nell'antichità un posto
tutto particolare, straordinariamente moderno. L'andamento vago, ondeggiante
del testo poetico di T. si combina - ed è qui forse il suo fascino precipuo -
con un linguaggio chiaro, elegante nella sua sobrietà, in apparenza semplice, ma
in realtà risultato di un sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata
di quel senso della misura caratteristico del classicismo augusteo. Quintiliano
acutamente definì T. tersus atque elegans (10,1,93). Armonioso e musicale è il
suo distico; forse solo un po' monotono. Un esempio tipico della composizione
tibulliana per associazione di idee può essere fornito da un rapido esame della
III elegia del I libro, che costituisce quasi una sintesi del suo mondo poetico.
E’ in essa un divagare continuo, ma non tale da non permettere di intravedere le
linee della struttura poetica, organizzata con rara sagacia. Il poeta è
ammalato, a Corfù, e teme di morire lontano dai suoi, lontano da Delia. Eppure
l'amata, prima della partenza, ha interrogato gli oracoli e ha supplicato Iside.
Se riuscirà a salvarsi, il poeta celebrerà piuttosto i Penati e i Lari. Il
ricordo di queste primitive divinità gli suggerisce la rievocazione dell'età
dell'oro, l'epoca di Saturno e della felicità, ignara di viaggi per mare e di
guerre. Ora è invece il regno di Giove, ricco di stragi e di morte. Eppure Giove
dovrà salvarlo. Se dovrà invece morire, sarà condotto nei Campi Elisi da Venere,
in un regno di innamorati fatto di danze e di canti, dove i giovani giocano
misti alle tenere fanciulle. Ma nell'oltretomba non ci son solo gli Elisi: c'è
pure il luogo di dannazione, destinato a chi abbia violato l'amore del poeta e a
chi gli abbia augurato lunga la campagna militare. Ma Delia resti casta: a lei,
raccolta nell'intimità della casa, mentre la vecchia nutrice le racconta una
favola e l'ancella che fila la lana s'abbandona al sonno, il poeta apparirà
improvviso e la sorprenderà; a piedi nudi Delia correrà verso di lui, coi lunghi
capelli scomposti. L'immagine di Delia che corre incontro al poeta è tra le
più fini della poesia tibulliana; ma non solo per se stessa, per il suo intimo
fascino, quanto sopra tutto perchè non è mai avvenuta, frutto, soltanto, di un
vago fantasticare. Qui e' l'incanto particolare delle immagini di T.: nel
sognare e realizzare nel sogno ciò che potrebbe accadere, ma che non è mai
avvenuto e forse mai sarà. Nelle elegie del II libro compare qualche tratto
più realistico (solo qualche tratto, perchè l'attenzione di T. non ama
soffermarsi su ciò che è attuale e presente, ma dilatarsi nella speranza, nel
desiderio, o nella rievocazione del passato). In un caso il poeta raggiunge
un’intensissima suggestione: in 2, 6, 29-43 prega Nemesi di aver pietà di lui,
in nome della sorella morta anzi tempo. Per convincerla, le prospetta la
possibilità che la sorella le appaia nel sonno, presso il letto, insanguinata
come quando cadde a precipizio dall'alta finestra e raggiunse i laghi infernali.
E’ una minaccia che T. fa balenare agli occhi della sua dura puella, ma quella
pozza di sangue nella strada è troppo cruda per non essere stata anche
vera. La campagna di T. non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore.
E’ anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi
guadagni e al fragore delle armi. E’, ancora, la campagna delle feste contadine,
quella che conserva i riti antichi del mondo rurale (la I elegia del II libro è
dedicata agli Ambarvalia, al rito della purificazione dei campi). Il poeta è
rimasto legato alla fede della sua infanzia, agli dèi della campagna e del
focolare: nelle sue elegie compaiono i Lari (ai cui piedi T. correva, da
bambino: cfr. 1, 10, 15 5.) e Silvano e Priapo e Bacco, e poi Cerere e Pale. La
campagna coi suoi riti è per lui l'approdo sicuro, ove più genuini si
manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della famiglia. Anche
l'esaltazione di Roma, presente nell'elegia 2, 5 (dedicata a Messalino) si
risolve nella rievocazione, densa di ricordi virgiliani, della religiosità
agreste del Lazio primitivo. *Ligdamo. L'attuale III libro consta di 6 elegie
attribuite a un certo Ligdamo (è cosi che il poeta si nomina in 2, 29) che canta
il suo amore per una donna, Neera. Si tratta con ogni probabilità di uno
pseudonimo. Solo uno schiavo, infatti, avrebbe potuto avere un nome greco,
mentre il poeta, come risulta dalle elegie, si rivela di condizione libera.
Ardua è però l'identificazione di Ligdamo. L'ipotesi più plausibile è che sia
uno poeti che fecero parte del circolo di Messalla Corvino (taluni lo
identificano con lo stesso T., talaltri con Ovidio giovane). Quel che si può
con sufficiente certezza affermare è che Ligdamo ha letto, e imitato, sia T. sia
Ovidio, mutuandone immagini ed espressioni per dare vita al suo ancor tenue,
giovanile mondo poetico. E’ innamorato di Neera, con una dilezione tenera e
casta, e accarezza il sogno di una vita matrimoniale con lei. Ma Neera è
incostante e infedele, e l'abbandona, lasciandolo affranto dal dolore. E nel
dolore s'arrovella, certo più di T., e pensa alla morte, a Neera che, coi
capelli scomposti, e accompagnata dalla madre, s'avvicinerà al suo rogo (2,
9-13). *Il Panegirico di Messala. Il "Panegyricus Messallae", un elogio di
Messalla composto forse nel 31 a.C., anno del suo consolato, apre l'attuale IV
libro del Corpus. E’ stato attribuito a T. giovane, ma sembra troppo lontano
dalla sua arte (con ben altro fermento fantastico T. ha celebrato Messalla
nell'elegia 1,7). Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una
retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e
condottiero (nella II), con l'aggiunta di pedanti digressioni sull'Odissea e
sulle cinque zone climatiche. *Il ciclo di Sulpicia e Cerinto. Seguono, nel
IV libro, 13 componimenti. Gli ultimi 2 sono verisimilmente tibulliani. Il ciclo
di Sulpicia e Cerinto occupa dunque 11 elegie (2-12). Le prime 5 narrano le
vicende d'amore di Sulpicia, nipote di Messalla, col giovane Cerinto. Sono state
attribuite, con buona probabilità, a T. (ma come suona strano questo T. che
narra amori altrui!). Gli altri 6 componimenti sono brevissimi biglietti d'amore
composti, per il suo diletto, forse dalla stessa Sulpicia. In essi Sulpicia
confessa il suo amore, che è passione di sensi, con sorprendente immediatezza
espressiva. Brama rivelare il suo amore, e non tenerlo nascosto, perchè dolce le
è l'aver peccato (7); se ha un pentimento è per un mancato incontro d'amore: per
aver lasciato solo il suo Cerinto durante una notte, troppo preoccupata di
nascondergli tutto il suo ardore (12).
Sesto Properzio (Assisi? 50
ca a.C. – Roma, dopo il 15 a.C.)
VITA. P. nacque da agiata famiglia di
rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei
suoi averi. Morto il padre, fu dalla madre condotto a Roma, ove fu avviato alla
carriera forense. Ma P. rivelò molto per tempo le sue attitudini per la poesia.
Al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto
monobiblos ("libro unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia),
secondo la tradizione dei poeti alessandrini. Hostia era il vero nome della
donna, come ci riferisce Apuleio: il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e
Diana, che nacquero a Delo, sul monte Cinto (si ricordi la Delia di Tibullo).
Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di P., dagli occhi neri e dai
capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma
anche di facili avventure d'amore (e dunque costituzionalmente infedele) dominò
incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un
rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione. Si
amarono, talora nevroticamente, per quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20
a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desideno di lei si fecero
ancora più acuti nella mente del poeta. P. la seguì nella morte intorno al 16
a.C. Una vera e definitiva rottura con Cinzia non ci fu mai: nonostante le due
ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il discidium, la
separazione definitiva; nonostante la morte di lei.
OPERE. P. compose
4 libri di "elegie". Come monobiblos fu pubblicato nel 28 il I libro (22
elegie). Sempre pronto nell'individuare i migliori talenti, Mecenate apprezzò le
qualità poetiche di P., che fu subito ammesso nel celebre 'circolo'. P.
conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era
solito recitare i propri roventi versi. Difficili, invece, i rapporti con
Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e P.
sembrano poi del tutto ignorarsi: gelosia reciproca? Tra il 28 e il 25
compose il II libro (34 elegie), che si apre con una recusatio, un rifiuto da
parte del poeta di coltivare la poesia epico-celebrativa cui Mecenate pur lo
sollecitava. Pubblicò il II libro forse insieme col III (25 elegie) nel 22. Il
IV libro (11 elegie), che contiene le 5 elegie 'romane', volte a cantare
leggende e riti dell'antichità romana (P. accolse finalmente, anche se con tutta
misura le richieste di Mecenate), fu probabilmente pubblicato nel 16 a.C., data
a cui risalgono gli eventi cui vi si fa riferimento.
CONTENUTI E
CONSIDERAZIONI. Poesia e amore sono due elementi inscindibili in P.. Il
poeta si sente vittima d'amore, e proclama il suo servitium Amoris, la sua
dedizione totale alla passione. E’ una precisa scelta di vita, lontana dalle
tradizionali ambizioni del foro e della politica, una vita di nequitia di cui il
poeta è consapevole; ed è pure una scelta di poesia e di poetica (illuminante,
al riguardo, è particolarmente la I elegia del I libro): di una poesia che
esprima una vita dedita all'amore, e che dunque sia idonea a far innamorare la
donna, e una poetica, quella callimachea, che con sua brevitas e l'impiego del
mito meglio si presti agli intenti del poeta elegiaco. A differenza di
Tibullo, che sembra quasi smarrirsi nelle sue fantasie, P. ha un'immaginazione
corposa, che ama le tinte intense, i bruschi trapassi. L'amore è al centro del
suo canto, ma un amore fatto sopra tutto di passione e di tormento, assoluto e
coinvolgente, che si proietta oltre il reale, oltre la vita stessa, sino a
superare le barriere della morte. *Di Cinzia il poeta, già all'inizio del I
libro, sottolinea la prepotente bellezza fisica (1, 2). E' questa splendida
presenza fatta di carne che ossessiona il ricordo e alimenta la gelosia di P..
In 1, 11 Cinzia è a Baia, allora mondanissimo luogo di villeggiatura, e il poeta
la segue con la mente sino al momento in cui si delinea, atroce, il sospetto che
la donna possa abbandonarsi a un'avventura, quella donna che da sola costituiva
la casa, i genitori, ogni possibilità di gioia per la sua vita (vv. 23
s.): tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes, omnia tu nostrae
tempora laetitiae. E’ la totalità radicale di questo amore, è Cinzia che col
suo corpo assilla la fantasia del poeta. In 2,15 P. descrive una intensa notte
d'amore, ritratta con un'audacia singolare, che a momenti può ricordare la
lucreziana follia degli amanti, ma che in effetti vuole esprimere un bisogno
acutissimo di eternità, il desiderio che quell'amore, quel contatto fisico possa
durare, ripetuto, all'infinito, in una catena indissolubile: perchè la vita è
fugace e tutto può, d'un tratto, dileguarsi. La morte incombe, ma proprio per
questo Cinzia è tanto più bella e amabile, e la stessa morte è meno da temere se
P. può contare sul costante amore di lei (1, 19). Molto spesso, nel suo
'Canzoniere', il poeta s'abbandona a fantasie di morte in connubio singolare con
un prepotente senso dell'eros: è l'amore che vuole protendersi oltre la vita e
disporsi in una dimensione definitiva. P. si compiace di immaginare Cinzia in
situazioni difficili, disperate, come in 2, 26, ove la donna è ritratta vittima
di un naufragio, già trasportata, fatta pesante, dalle onde. Fantasie di poeta,
che si sviluppano però non secondo le morbide volute tibulliane. Piuttosto, si
accaniscono con straordinaria intensità attorno ad alcuni punti focali secondo
una logica poetica talora strana, anomala nei suoi trapassi, forse non sempre
del tutto coerente, ma probabilmente proprio per questo più accattivante. Nella
stessa elegia in cui si compiace di vedere Cinzia sbattuta dalle onde, il poeta
si lascia andare a un impossibile sogno d'amore, proiettato al di là delle
distese marine: se la sua donna vorrà avventurarsi per l'ampio mare, egli la
seguirà; si addormenteranno sullo stesso lido, uno stesso albero sarà il loro
tetto, alla stessa sorgente entrambi berranno (vv. 29 ss.). P. ama
contemplare Cinzia, fissarla in alcuni momenti di seduzione: nel giorno del suo
compleanno la invita a farsi più bella che mai, e a indossare l'abito con cui a
lui era apparsa la prima volta (3, 10); si sofferma a mirarla dormente in un
sonno quasi mitico, in un'atmosfera satura del respiro e della presenza
dell'amata (1, 3), o, in 2, 29, la contempla appena sveglia, sola nel suo letto,
bella da incantare (vv. 25 s.), prima di una memorabile scenata d'ira della
donna. Le furie di Cinzia attirano spesso, con toni intensi e strani, la
fantasia del poeta. Dolce gli è ricordare le imprecazioni e le coppe colme di
vino che Cinzia, come una pazza, gli ha lanciato contro (3, 8): sono, per lui,
segni di vera passione, come i morsi sul collo e le lividure, tanto più che
nell'amore egli vuole soffrire o sentire che la donna soffre (v. 23).
Singolarissima è la temperie di 4, 8, ove a una scena ritratta con vivace
realismo subentra un'atmosfera come di incubo: Cinzia appare all'improvviso, pur
bella nel suo furore, e interrompe una boccaccesca avventura del poeta sfogando
la sua ira sulle sue due amichette e, con schiaffi e morsi, sul poeta
stesso. La Cinzia di 4, 8 appare prepotentemente viva, nel suo furore, nella
gelosia, nella passione che attraversa le sue membra. E’ questa presenza,
assillante, del corpo della donna che si pone al centro dell'immaginazione del
poeta e sollecita le più vane e strane fantasie. Nell'elegia che immediatamente
precede (4, 7), Cinzia è vista, dopo la sua morte, da poco sepolta, apparire di
notte a P.. E’ l'apparizione di una defunta; eppure c'è ancora il senso della
carne, di quel corpo che continua ad essere l'ossessione del poeta: Cinzia
sembra quasi che s'appoggi col suo peso sul letto di P., dopo le sue esequie, le
esequie di un amore, con gli stessi occhi, gli stessi capelli che aveva al
momento del funerale, con la veste bruciata al fianco e le labbra scolorite.
Cinzia parla a P., e gli rammenta le gioie furtive d'amore nella Suburra, il
davanzale della sua finestra logorato dalle segrete fughe notturne e gli
abbracci sul trivio e la strada che, attraverso i mantelli distesi, avvertiva il
calore dei loro corpi avvinti. Ora, la casa un tempo piena della sua presenza, è
dominata da un'altra. Ma non s'illuda P.: per il momento lo possiedano pure
altre donne, chè presto lei sola lo terrà, e sfregherà, mescolandole, le proprie
ossa contro le sue (vv. 93 s.). L'elegia segna il culmine dell'esperienza
poetica di P.: l'amore che va oltre la vita, ma - e questo è il suo carattere
precipuo - con un senso quasi oppressivo della presenza carnale di
Cinzia. *Il mito e le "Elegie romane". Pure per altra via la presenza di
Cinzia diviene, nel poeta, memoria grandiosa. P. eredita dalla poetica
alessandrina, di cui è stato a Roma finissimo interprete, l'impiego del mito, ma
non di un mito inteso puramente come brillante e talora divertito sfoggio di
erudizione. In P. la realtà stessa viene rivissuta alla luce del mito: sopra
ogni cosa, Cinzia. L'intero suo mondo degli affetti viene trasfigurato e, per
così dire, eternato dall'atmosfera incantata del mito. L'esperienza d'amore del
poeta viene così sublimata da una luce ideale e Cinzia, la creatura di sangue e
di passione, viene intravista in una dimensione mitica. Persino il ricordo di
Licinna, la schiava di Cinzia che al poeta giovane aveva rivelato i segreti
dell'amore, ed era stata fatta oggetto delle ire gelose della padrona, persino
l'umile Licinna, vittima di ingiuste vessazioni, suggerisce a P. la rievocazione
di un mito di dolore, quello di Antiope, forse il suo mito più patetico e
intenso (3, 15). Effettivamente, la trasfigurazione mitica è, per P., il
mezzo ideale per sublimare la realtà, e resterà costante nell'intera sua
produzione poetica. In altri termini, non è da ravvisare una frattura spirituale
e artistica tra il P. cantore d'amore e il P. che canta antichi miti romani e
italici. Dopo la pubblicazione del I libro, abbiamo visto, egli viene accolto
nel circolo di Mecenate, che cerca, in sintonia con la politica culturale, etica
e religiosa del regime augusteo, di indirizzarlo verso un tipo di poesia più
elevata, atta a celebrare le glorie romane. Più volte, con amabili recusationes,
P. si schermisce: la sua Musa è troppo tenue per poter cantare argomenti di
tanto impegno. Egli si appella a quelli che considera i suoi maestri, come
Filita e ancor più Callimaco, che aveva disdegnato la poesia epica e celebrativa
a favore del componimento breve e ricercato (P. è anche attentissimo lettore di
epigrammi ellenistici i cui motivi trasfonde sovente nelle sue elegie). Alla
fine, pur dopo vane e non sempre chiare oscillazioni, P. cede alle
sollecitazioni di Mecenate e si decide a comporre alcune elegie relative alle
origini di antiche tradizioni di Roma, collegate con culti o luoghi particolari.
Alla base, ancora una volta, è Callimaco coi suoi Aitia, il poema sulle origini
di antichi riti e istituzioni (come "Callimaco romano" P. si presenta
nell'elegia proemiale del IV libro). Le "Elegie romane" (la II, IV, VI, IX, X
del quarto libro) introducono nella letteratura latina l'elegia di tipo
eziologico, che Ovidio riprenderà e svilupperà nei suoi Fasti. P. rivive
dunque le origini di storie e leggende dell'antica Roma collegandosi alla
lezione di Callimaco, ma con una visione finale del mito che certamente supera
gli angusti ambiti entro cui il poeta di Cirene lo aveva costretto. Al 'mito' di
Cinzia subentra (o, meglio, s'alterna nella singolare compagine del IV libro)
quello di Roma con un atteggiamento poetico sostanzialmente coerente. Perchè
mito è per P. elevare la realtà attuale in un passato esemplare che la renda in
certo modo eterna. E’ il continuo trasferire la contingenza del reale in una
dimensione ideale ad assicurare la continuità di ispirazione nella pur tanto
complessa produzione poetica properziana. Nelle elegie romane P., come Virgilio
nell'VIII libro dell'Eneide, vagheggia l'età primitiva di Roma e canta vicende
remote, circonfuse di un'aura leggendaria, come le origini del culto di Giove
Feretno (10), Ercole e Caco (9), ma sopra tutto la leggenda di Tarpea (4), la
fanciulla che per amore, almeno nella versione properziana, tradisce la sua
patria, e che, al solo vederlo, s'innamora di Tito Tazio, il re nemico di cui
amerebbe divenir prigioniera. E poi c'è la gustosissima elegia che canta
Vertumno (2), una strana divinità capace di trasformarsi in ogni cosa e di
rivestire ogni forma: un'elegia che traduce il tema eziologico in un vivace
gioco fantastico. Nel contesto del IV libro particolare rilievo assumono
ancora due elegie, nelle quali il cantore appassionato di Cinzia esalta il casto
amore coniugale. La III elegia è una lettera che Aretusa invia al marito Licota
impegnato in una spedizione militare, una lettera densa di trepidazione,
desiderio, gelosia della donna per il marito lontano. Con ogni probabilità
Ovidio tenne presente questa epistola in forma di elegia per la composizione
delle sue Heroides. L'ultima elegia del IV libro (11), che la tradizione suole
denominare regina elegiarum, si risolve in una celebrazione delle antiche virtù
delle matrone romane. L’esaltazione dei valori tradizionali e il tema dell'amore
si fondono nelle nobili parole che, dopo la morte, Cornelia rivolge al marito
Emilio Paolo. Traspare in esse, con una spoglia essenzialità, rara in P., la
dedizione totale di una donna alla sua famiglia, la sua intemerata fedeltà, uno
spirito di abnegazione che ricorda l'Alcesti euripidea, il delicatissimo amore
nei confronti dei figli col desiderio, sottile, di continuare a esser presente
nella casa che una volta fu sua.
LA LINGUA E LO STILE. All'intensità
sentimentale dell'elegia properziana corrisponde una temperie stilistica densa,
fatta di scorci, di trapassi arditi, in una concentrazione talora estrema, che
costringe il lettore a indugiare di continuo per cogliere la pregnanza spesso
oscura di un'espressione. A termini dotti e ricercati s'alternano, nei contesti
più realistici, espressioni del linguaggio quotidiano, in una tensione
stilistica ricca di ambiguità. E' arduo talora cogliere a pieno l'intera valenza
connotativa di un'espressione, come è difficile, almeno all'inizio, individuare,
nell'intreccio delle sue articolazioni, la struttura di un'elegia properziana: è
una tecnica eminentemente composita, nella quale sembra tradursi l'animo stesso,
appassionato e contorto, del poeta. Di qui gli inizi improvvisi, assai
suggestivi, delle sue elegie; di qui i passaggi sintattici e concettuali
repentini e, almeno in apparenza, lontani da ogni coerenza logica. Le sue
espressioni hanno la concentrazione incisiva delle epigrafi, una densità che
sembra di fiamma (ignes definì Ovidio i versi di P.), ma anche, all'occasione,
una certa patina di leggera ironia, che sembra svelare, in alcuni momenti, il
gioco del poeta, ondeggiante tra fantasia e realtà, la sua capacità di
distaccarsi dall'oggetto della sua passione, e di ragionare, un po' divertito,
sulla passione stessa. Il tutto con un linguaggio poetico elevato, informato a
una dotta eleganza. Nelle elegie s'avverte un incalzare di immagini che
s'addensano come in blocchi, fervidi di idee e di allusività. Una tecnica che è
lontana dalle ampie volute tibulliane come dalle 'emozioni' catulliane. Rispetto
al Veronese, che dà risalto al particolare sia esso di gioia, d'amore o di
dolore, in P. c'è un'atmosfera mitica che pone ogni cosa in una prospettiva
ideale, appena temperata da un trasparente velo di ironia.
Publio
Ovidio Nasone (Sulmona, Abruzzo 43 a.C. – Tomi, Mar Nero 17-18
d.C.)
VITA. O. nacque da antica e agiata famiglia equestre
(nell'elegia 4, 10 dei Tristia è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla
sua vita). A Roma, ove si recò col fratello, studiò grammatica e retorica presso
insigni maestri come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera
forense e politica, O. avvertì invece imperiosa l'inclinazione verso la poesia,
al punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi (et quod temptabam
dicere versus erat). Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene, O.
rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore. Ad alimentare la
sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a
Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio, Gallo
(solo per poco vide Virgilio). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni sfortunati (ma
ebbe una figlia, forse dalla seconda moglie), sposò una giovane fanciulla della
gens Fabia che amò teneramente sino alla fine. Il legame coniugale non gli
impedì di essere il poeta galante, cantore di una Roma ormai dimentica delle
guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di godere. Nell'8 d.c., quando
ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da un ordine di Augusto
(revocato neanche dal successore Tiberio), che lo relegava a Tomi, l'attuale
Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si trattò, e' vero, di una
relegatio che, a differenza dell’exilium, non prevedeva la perdita dei diritti
di cittadino e la confisca dei beni. E tuttavia, di fatto, O. fu costretto a
rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza,
sino alla morte, che lo colse nel 17 (o 18) d.c. Ignoti restano i motivi del
severo provvedimento di Augusto, anche se O. parla, enigmaticamente, di due
colpe che l'avrebbero perduto (trist. 2, 1, 207): carmen et error. Nel carmen
deve essere allusione all’ Ars amatoria, il suo trattato sull'amore libertino
che, contemporaneamente alla condanna, venne ritirato dalle biblioteche
pubbliche. Riguardo l’error, l'ipotesi più verisimile è che O. sia stato
coinvolto in uno scandalo di corte: fatto è che nello stesso anno, pure Giulia
minore, nipote di Augusto, fu relegata nelle isole Tremiti, accusata di
adulterio col giovane patrizio Decimo Silano.
OPERE E CONSIDERAZIONI.
Possiamo dividere la multiforme attività poetica di O. in tre momenti che
corrispondono ad altrettante fasi della sua vita. Al primo periodo
appartengono le poesie erotiche, che cantano l'amore nella galante cornice della
vita di Roma: gli "Amores", un canzoniere d'amore, le "Heroides", lettere di
eroine ai loro infedeli amanti, l' "Ars amatoria", una precettistica dell'arte
d'amare, i "Medicamina faciei femineae", un trattato di cosmetica, i "Remedia
amoris", composti per aiutare a guarire dalle pene d'amore. Al secondo
periodo appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio respiro,
composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la celebrazione
del principato: sono le "Metamorfosi", il poema delle trasformazioni e i
"Fasti", un poema che doveva illustrare il calendario romano, ma che fu
interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi. II terzo periodo e' quello
dell'esilio e comprende la composizione dei "Tristia" e delle "Epistulae ex
Ponto", i canti della solitudine e della nostalgia, della noia e della
disperazione. *Gli Amores. Gli Amores, in 3 libri (una I ed. era però in 5
libri), furono composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione,
dunque, intorno ai vent'anni. Sono elegie di carattere amoroso nelle quali è
cantata una donna, Corinna. Ma Corinna è uno pseudonimo (è il nome di una
poetessa greca)forse di un personaggio puramente letterario. Quel che si può con
certezza affermare è che Corinna è lontanissima dalle donne intensamente
vagheggiate dagli altri poeti d'amore latini. Ella sembra sintetizzare tutti
quanti gli 'amori' di un poeta che, per indole, non poteva cantare un’unica
passione. Corinna è donna, almeno nella fantasia poetica e al contempo, è un
insieme di donne, la somma di esperienze erotiche o semplicemente galanti che il
poeta vive in una Roma splendida. in una società smaliziata e gaudente. Amore
come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta:
corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma legate al
momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente ottenuto ma pronto a
dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in questo gioco dei sentimenti,
d'una arguzia gradevolmente ironica, che costituisce una delle note più gustose
di questo suo disincantato mondo poetico. E’ una sequela di quadri, di scene di
vita, che s'alternano a precetti d'amore, a casistiche varie, alle infinite
situazioni che l'incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico
elegiaco estremamente musicale che segue con rara aderenza la materia
trattata. Ad alimentare la fantasia ovidiana è la precedente produzione
elegiaca, e' una serie di "luoghi comuni" (come il lamento davanti alla porta
dell'amata, il servizio d'amore inteso come milizia...); è l'epigramma
ellenistico d'amore, invece, che gli suggerisce variazioni su tema pressochè
infinite; ma è anche una Roma brillante e festosa, che viene ad essere eternata
nei lievi, cantabili distici ovidiani. Sorprendente, sin d'ora, è l'attitudine
del poeta a scavare entro le pieghe riposte della psicologia femminile (la
composizione delle Heroides, vero capolavoro in questo senso, è forse
contemporanea a quella degli Amores). Un'attenzione per la donna e il suo mondo
che resterà costante nella poesia del Sulmonese. Quella degli Amores e' una
poesia di una superficialità che incanta, che dell'amore sembra preferire i soli
'esterni' in una società che tutta pare ridursi a vivere in un perenne gioco
galante. Arte della variazione spinta al massimo, e non solo dal punto di vista
letterario. O. non può, diremmo costituzionalmente, riconoscere un unico oggetto
d'amore: tutte gli piacciono le belle romane, e a nessuna si sente di opporre
resistenza. Non una bellezza definita suscita in lui l'amore: ogni donna ha una
sua attrattiva, a volte particolarissima, che in maniera irresistibile, riesce a
sedurlo (2, 4). Sono amori che iniziano e finiscono spesso Lì dove sono nati,
che sembrano, nonostante le promesse, esaurirsi in un'amabile corte (come in
quella, impareggiabile, che il poeta rivolge a una gran bella donna, tutta gambe
e sorrisi, che, accanto a lui, assiste alle corse dei carri nel Circo (3,
2). *Le Heroides. Le Heroides (il nome in origine dové però essere quello di
Epistulae heroidum) sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate da
donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare, 14 sono
lettere di eroine mitiche (come di Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito, Didone a
Enea, Medea a Giasone...), una è della poetessa Saffo a Faone; le ultime 6,
disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono lettere di eroi
alle loro amate, seguite dalla risposta di queste. Domina, nelle epistole, la
forma retorica della suasoria, del discorso cioè che tende a convincere qualcuno
a compiere una determinata azione: in questo caso a ricambiare un amore. O. può
vantarsi (ars 3, 346) di avere, con le Heroides, introdotto un genere nuovo
nella letteratura antica, cioè l'epistola erotica in versi, anche se indubbio
precedente era l'epistola properziana (4, 3) di Aretusa a Licota (due pseudonimi
che cela\'ano personaggi reali, a differenza di O. che attinge dalla sfera del
mito).
Il mito e la donna: e' questo il fulcro poetico delle Heroides
ovidiane. Certo, non nel senso properziano dell'idealizzazione mitica della
figura femminile. Piuttosto, O. umanizza le antiche eroine. Le solenni vicende
del mito rivivono col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della
Roma di O., delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell'amore infelice,
quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello della donna
abbandonata. Accanto a questa fondamentale fonte di ispirazione s'affiancano
numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci, e poi Catullo,
Virgilio, Orazio. Ad animare l'ampio materiale proveniente dalla letteratura
precedente, è l'eccezionale capacità di O., erede, in questo, di Euripide, di
penetrare negli intimi recessi dell'animo femminile, a sondarne i sentimenti pur
attraverso ripetizioni, riprese, frasi dette e poi smentite, in un vortice di
immagini ricche di sfaccettature e di risvolti insospettati. O., allievo delle
scuole di retorica, Si rivela maestro in quest'arte di andare a fondo di una
situazione spirituale, di esaminarne, uno per uno, i possibili (e talora
impossibili) esiti. Rischio di tale operazione poteva essere quello di ridurre
ogni afflato sentimentale a una serie di giochi d'intelletto, di battute a
freddo, in lunghi, sempre uguali monologhi di anime affrante. In effetti, la
preparazione retorica ha offerto al poeta uno strumento eccellente per
sviscerare a fondo la complessità dell'animo femminile; è divenuta essa stessa
mezzo mirabile per l'espressione di un contorto mondo spirituale, di idee e
immagini ripetute talora in maniera ossessiva. Al centro, è la donna del
mito, ma resa umana, quasi ridotta in frammenti di impulsi e di sensazioni. E’
la donna eterna che trionfa sull'idealizzazione mitica, la donna di sempre con
le sue emozioni, le sue solitudini, la tormentosa sensibilità. E proprio
quest'arte di frantumazione del mondo sentimentale che consente a O. di gettare
un fascio di luce su passioni anche scabrose, su segreti inconfessabili, su
certi chiaroscuri che verranno ripresi e sviluppati dalla successiva letteratura
imperiale. Le Heroides sono forse l'opera più 'moderna' di O., in cui l'animo
femminile si rivela con inedita verità. Torna al sommario Molto varie sono le
vibrazioni sentimentali delle Heroides: la penetrante, straordinariamente
'soffice' seduzione che Fedra vuole a tutti i costi esercitare su Ippolito,
l'amato figliastro (4); la vanità, tanto intensa quanto puritana, di Elena che
non vuol cedere, ma cede, a Paride (17); l'atmosfera 'romantica' e le incantate
sospensioni, paesistiche e sentimentali, che fanno da sfondo all'impossibile
storia di Ero e Leandro (18). Impossibile e scellerata la passione di Canace per
il fratello Macareo (11): la lettera che Canace scrive prima di uccidersi è
densa di cupo pathos, storia di un amore che si risolve in tragici preparativi
di morte. Atmosfera di morte e di tristezza inconsolabile anche nella lettera di
Laodamia a Protesilao, nella sua trepidazione, nei presagi di lutto, in quella
stessa immagine di cera che riproduce le fattezze del marito, e che Laodamia
troppo morbosamente conserva e accarezza (13, 151 ss.). *L'Ars amatoria.
L'Ars amatoria (il titolo deriva dal primo verso dell'opera), composti tra l’1
a.C. e l’'l d.C., consta di 3 libri in distici elegiaci. I primi due libri sono
indirizzati agli uomini, ai quali O. insegna come incontrare, conquistare (1),
conservare (II) l'amore di una donna; nel III, composto in un secondo momento,
il poeta rivolge gli stessi consigli alle donne. Torna al sommario Anche
l'Ars amatoria costituisce un genere nuovo. Si presenta, nella struttura, come
un'opera didascalica (del tipo delle Georgiche virgiliane), ma coi contenuti
caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano. L'opera vuole essere
un trattato sui comportamenti d'amore, vera summa - e culmine - di tutta
l'elegia latina precedente, una precettistica di galanteria erotica, condita di
arguzie e piacevolezze, ma nella struttura del poema didascalico. Di qui un
contrasto sottile, che offre al poeta l'occasione per istituire un suo gioco,
intellettualistico e ironico, su quell'eterno gioco che è l'amore (egli è
lascivi... praeceptor Amoris: 2, 497). L'Ars amatoria (che già nel titolo
riecheggia da un lato le coeve artes oratoriae, dall'altro le "arti d'amare" dei
filosofi greci) dispone in maniera organica quei precetti che più di una volta,
anche se in forma isolata, erano gia apparsi negli Amores (qualche spunto
'precettistico' era anche in Tibullo e in Properzio); ma e' una precettistica
molto poco austera, chè ogni situazione d'amore resta solo frivola avventura,
arricchita da digressioni, gustosi riferimenti al mondo del mito o alla storia o
alla leggenda (in alcuni 'affreschi' mitici è gia prefigurato quello che sarà il
mondo delle Metamorfosi). Al di sopra di tutto, al di sopra dei luoghi comuni,
dei consigli d'amore, delle scene di vita come degli squarci di mito è la
sorridente arguzia del poeta, che con arte suprema e impeccabile impegno formale
ha creato un mondo in cui tutto sembra accordarsi, anche gli inganni, gli
spergiuri e le astute simulazioni, in una superiore armonia. Sullo sfondo,
ancora la Roma degli Amores, una Roma fissata in un'atmosfera di magica
luminosità. Una Roma nelle cui vie affollate unica dominatrice sembra essere la
donna, con l'incanto delle sue apparizioni, con la gioia e il senso di vita che
riesce a infondere. Questo ovidiano è sopra tutto un mondo di grazia e di
eleganza, ove ognuno trova la propria dimensione in un impegno d'amore che è,
sì, coinvolgente, ma che mai assorbe troppo sul serio. Anche gli dèi e gli
eroi sembrano far parte di questo mondo ove tutto si riduce a levità, gioco
superficiale ma terribilmente ammaliante. Si pensi a Ulisse e Calipso che
discutono sulla spiaggia: Ulisse è arso dal desiderio di rivedere la patria;
Calipso, tristemente consapevole di un abbandono che vede imminente, ancora
vuole riascoltare dalle labbra dell'amato le sue eroiche vicende, quando
all'improvviso un'onda cancella i tratti coi quali, sull'arena, Ulisse aveva
disegnato e Troia e il Simoenta e i grandi accampamenti (2, 123-142). Il mito si
è come dissolto in tocco leggero, un piacevole conversare, in segni tracciati su
un lido che un'onda può in un attimo cancellare. Si pensi, ancora, all'atmosfera
di magica attesa in cui si risolve la tragica storia di Procri, invano gelosa
dell'amato Cefalo (3, 687-746) o alla festevole leggerezza con cui si conclude
quella vicenda di Bacco e Arianna (1, 525-~61) che con intenso pathos Catullo
aveva cantato neT c. 64. *Opera a suo modo precettistica è pure il De
medicamine faciei ('L'arte del trucco'), un trattatello di cosmetica di circa
cento versi in metro elegiaco con cui O. indica alle donne come rendere più
attraente la loro bellezza. Torna al sommario *I Remedia amoris, sempre in
distici elegiaci (per Un totale di circa ottocento versi), vogliono invece
insegnare i mezzi con cui si curano gli effetti nefasti dell’amore. In
particolare deg1i amori sfortunati. Con fine ironia, che vuole ripetere quella
dell'Ars, il poeta invita 1'amante infelice a considerare i difetti dell'amata,
a fuggire la solitudine e, insomma, a 'distrarsi'. Importante è poi ostacolare
la mala passione quand'è all'inizio, prima che col tempo abbia modo di prender
forza . Amabile gioco, questo di O., che mostra di ritrattare, ma con infinito
garbo, gli insegnamenti dell'Ars. *Le Metamorfosi. Le Metamorfosi
(Metamorphoseon libri XV), il 'poema delle trasformazioni', che O. iniziò a
comporre intorno al 3 d.C., sono in 15 libri di esametri, contenenti circa 250
miti uniti tra loro dal tema della trasformazione: uomini o creature del mito si
mutano in parti della natura, animata e inanimata, in rocce, piante, animali...
Torna al sommario Opera in apparenza disorganica, le Metamorfosi rivelano la
loro unita nella concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti
materia vivente, partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come
archivio fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di
una creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso. Numerose possono
essere considerate le 'fonti' ovidiane. Raccolte di miti circolavano in
repertori che O. deve aver certamente conosciuto. Il tema della trasformazione
era poi caro alla letteratura alessandrina: basti pensare a Callimaco e a
Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro di Colofone e di Partenio di
Nicea; ma era stato trattato pure nel mondo latino nell'Orniithogonia di Emilio
Macro e, occasionalmente, pure dai neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella
poesia omerica era il modello di ogni trasformazione: quella, operata dalla maga
Circe, dei compagni di Ulisse in porci). O., insomma, aveva alle spalle un
enorme patrimonio mitologico e letterario, che indubbiamente traspare dalla
lettura della sua opera. E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione
ovidiana, che si sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con
uno stile e un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la Toro
sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua vicenda
delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui cangiamenti, in
una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura. Le Metamorfosi
iniziano dalla più antica trasformazione, quella del Chaos primitivo nel cosmo,
sino a pervenire alla trasformazione in astro (= catasterismo) di Cesare
divinizzato e alla celebrazione di Augusto. E’ cosi che O. intende ripercorrere
tutte le fasi del mito e della storia. Il motivo conduttore è dunque quello
della mutazione continua: dalle remote origini del cosmo sino alla
glorificazione della dinastia giulia. II poeta si dichiara convinto, già nei
primi versi dell'opera di comporre un carmen continuum, un'opera, cioè,
profondamente unitaria, anche dal punto di vista 'cronologico' (dalle origini
all'attuale gloria di Roma). Significativo, ai fini degli intenti unitari del
poeta, è il discorso che, nel XV libro, O. pone sulle labbra di Pitagora, e che
contiene una particolare concezione dell'universo, inteso come luogo di eterna
trasformazione. Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di
là delle dichiarazioni stesse del poeta, le Metamorfosi, nonostante apparenti
disuguaglianze strutturali, restano un poema unitario e di superiore armonia. II
poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio all'altro con legami
talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato per analogia, ora per
identità di contenuto, ora per incastro in altro mito che fa da cornice, ora è
esposto da un personaggio di altra vicenda. Un racconto scaturisce dall'altro in
una dimensione che pare dilatarsi all'infinito. Dominano nelle Metamorfosi
la gioia di narrare, una gioia morbida, perennemente variata ed elegante; una
fantasia ora lieve e sfuggente come un sogno, ora corposa e sensuale, che
insiste su scenari contemplati nel loro sontuoso rigoglìo o invece immersi in
un'atmosfera di fiaba; un'arte plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare
storia delle mutazioni che il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o
addolorato per la sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro
aspetto. Il tutto con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di
ciò che appare ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da
sè. Della trasformazione, O. mette in risalto ora il carattere repentino ora,
ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica
natura nella nuova. Dell'uomo che si trasforma in essere arboreo o inanimato il
poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una
trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo. La natura
ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature d'amore e di
dolore che essa cela nel suo grembo. E’ qui che il mondo di O., così in
apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori, rivela
dimensioni insospettate. Sì, certo, in O. il mito, oltre che umanizzarsi, si
atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e gli eroi, scomparsa
ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad alimentare la sfarzosa
immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in alcuni casi, il brillante gioco
delle superfici s'accompagna, in singolare simbiosi, a una sensibilità inquieta
di creature tormentate, che trovano nel trasformarsi l'unica via d'uscita a una
situazione impossibile, a una passione assurda. Nel divenire finalmente altra
cosa rispetto a una realtà divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano il
loro riscatto. Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello
Cauno: a lei non resta alla fine, perduta di mente, che andare errando, per poi
accasciarsi a terra e piangere e sciogliersi nelle lacrime e tramutarsi in fonte
(9, 630-665). Sensualita' esasperata e insana, come quella di Mirra, pazza del
padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di venir
trasformata, per non contaminare con la sua presenza il mondo dei vivi nè con la
sua morte quello dei defunti. Ed eccola tramutarsi in pianta, gradualmente, e
mentre sempre più viene avvolta dal tronco nascente, quasi smaniosa di por fine
all'insostenibile sua vergogna, Mirra immerge il volto nella corteccia per
affrettare la mutazione; ma pur continua a piangere: lacrime usciranno da quel
tronco, e saranno mirra (10, 476-502). Accanto al mito, l'amore è dunque
1'altro grande tema delle Metamorfosi, ma non l'amore, fatto di corteggiamenti e
galanterie, cantato negli Amores e nell’Ars, bensi l'amore del mito (come già
nelle Heroides), un amore che conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla
passione malata, all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà
coniugale. Una soffusa mestizia permea la vicenda di due sposi infelici, Alcione
e Ceice, che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare
per sempre i1 loro amore coniugale (11, 573-748). Così come solo la
trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci, che
ricevono lo straordinario onore di accogliere nella loro umile capanna (che
diverrà un tempio) nientemeno che due divinità. In albero si trasforma pure
Dafne, la ninfa che Apollo continuerà ad amare pur quando sarà divenuta
corteccia e fronde di un meraviglioso alloro (1, 466-567). Strani, questi
amori delle Metamorfosi, spesso impossibili o abnormi. Di Eco, innamorata di
Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso, invaghito di se stesso sino
a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore (3, 359-510). Sono, in prevalenza,
amori fatti sopra tutto di sensazioni, di attrazione per le forme, più che di
turbamenti dell'anima: cosi è di Pigmalione, incantato da una statua d'avorio
che egli stesso ha scolpito, una statua che sotto le sue mani diviene a poco a
poco realtà palpitante di donna viva (10, 243-294); cosi è della ninfa Salmacide
che nell'acqua avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle
dell'amato fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà
sciogliersi: l'Ermafrodito (4, 288-388). Accanto ai toni torbidi dell'episodio
di Salmacide, O. sa affiancare, nella sua variegatissima 'sinfonia', l'amore
innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che intensamente si amano,
nonostante l'opposizione dei genitori. Muoiono entrambi a causa di un tragico
equivoco e, per il sangue uscito dai loro corpi le bacche del gelso (l'albero
del loro fatale incontro) da bianche divengono scure (4, 53-166). *I Fasti.
Anche i Fasti sono opera narrativa, che vuole illustrare il calendario romano
(fasti vale appunto "calendario"). Composti contemporaneamente alle Metamorfosi,
i Fasti dovevano comprendere 12 libri (uno per ogni mese), ma furono interrotti,
a causa della relegazione a Tomi, ai primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi
che vanno da gennaio a giugno. Durante l'esilio, il poeta rivide l'opera, in
particolare il I libro che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio
adottivo di Tiberio. Torna al sommario I Fasti intendono dunque cantare, in
distici elegiaci, le tradizioni romane nell'ordine in cui compaiono nel
calendario latino. Opera organica, nei disegni del poeta, a differenza delle
'Elegie romane' di Properzio, che avevano selezionato soltanto alcuni tra i miti
antichi; e opera eziologica, come gli Aitia di Callimaco, dal momento che
intento di O. e' quello di spiegare le lontane origini di una festa, di un
culto, di un nome. A tale scopo, il poeta utilizza sopra tutto l'opera erudita
di Varrone e di Verrio Flacco, nonchè la storia di Livio (da notare che i Fasti,
per la loro documentazione, restano testimonianza preziosa di antiquaria
latina). Per la composizione di un'opera che voleva cantare la religione
romana, in sintonia col severo programma augusteo di restaurazione, O. mancava
tuttavia di autentiche motivazioni interiori. Quanto c'è di vivo e vero nei
Fasti è in contrasto con quelli che dovevano essere gli impegnativi intenti
programmatici. Ai riti, alle feste, alle sacre istituzioni di Roma antica, O.
s'accosta con spirito disincantato, ancora con quel gusto di raccontare che
abbiamo visto dominante nelle Metamorfosi, e con una curiosità tutta sorridente
nei confronti del divino. II poeta ha avuto il merito di aver come fissato e
trasmesso ai secoli un'immagine concreta e verace di quella che a lui appariva
la religiosità romana. Sono squarci di vita, come la descrizione della festa in
onore di Anna Perenna, una vecchia dea di Roma (3, 523-542), che trasmette con
vivace immediatezza l'atmosfera di una festività paesana. 0, ancora, sono
rievocazioni di antichi personaggi della tradizione, vicende sopra tutto di
donne, presenti anche nei Fasti col loro fascino tipicamente ovidiano: può
essere Lucrezia, ritratta nell'incanto che le deriva dalla sua onestà, bella
sino alla fine, sino al suo suicidio di signora oltraggiata (2, 761-836); o
Silvia, la vestale che commette l'errore di abbandonarsi sull'erba e di
addormentarsi mentre un dio bramoso la compromette senza rimedio (3, 11-48); la
naiade Lotide, che pur s'addormenta dopo una festa dedicata a Bacco (descritta
con toni carichi e sensuali): al chiaro di luna il dio Priapo le si avvicina con
inequivocabili intenti, ma il raglio di un asino, svegliando tutti, pone
indecorosamente fine al suo lubrico tentativo (1, 390-440). Ancora una volta
il mito è avvertito dal poeta in maniera cordiale, con un senso di confidente
familiarità coi culti, i riti, gli dèi di Roma che è poi la dimensione più vera
dell'O. dei Fasti. Basterebbe a documentarlo il gustoso colloquio che,
all'inizio del IV libro, il poeta ha con Venere, condotto con spregiudicata
grazia alessandrina (4,1-16). *Le opere dell'esilio. La produzione ovidiana
dell'esilio comprende 5 libri di Tristia e 4 libri di Epistulae ex Ponto (tutti
in distici elegiaci). I Tristia furono scritti tra l'8 e il 12 d.C.; la
composizione dei primi 3 libri delle Epistulae ex Ponto risale al 12 (il IV
libro, più lungo, fu pubblicato postumo). Le due raccolte differiscono nel
fatto che nelle Epistulae O. nomina espressamente i destinatari delle 'lettere',
che invece son quasi sempre taciuti nei Tristia. Per il resto, i contenuti sono
in sostanza identici: la solitudine e i lamenti dell'esule, la desolazione che
lo circonda, il rimpianto di Roma e della vita mondana, rimpianto che,
rinnovato, non fa che acuire lo strazio, l'adulazione, spesso insistente, nei
confronti del principe nella speranza, inutile, che possa finalmente richiamarlo
da una terra lontana quanto barbara, ove la vita è sempre ugualmente grigia e le
giornate interminabili. Il poeta canta e ripete le stesse cose, con una
monotonia che traduce il devastante disagio di un gran signore trapiantato d'un
tratto in un ambiente di bruti. Certo, sono elegie, queste dell'esilio,
disuguali, che troppo spesso ripiegano su stanchi luoghi comuni. Eppure, lo
stesso O. era conscio dei difetti di questi suoi componimenti. In un passo
toccante (trist. 4, 1, 1-18) invita il lettore a volerli comprendere e
giustificare, considerando le circostanze che ne avevano accompagnato la
composizione: solo per un conforto egli si dedica alla poesia, e non per trarne
gloria (è cosi che O. sottolinea il potere consolatorio che ha per lui il canto
poetico). Nella lontananza da Roma, separato ormai da quella società e da quel
pubblico che gli avevano col loro plauso riempito la vita, O. scopre
l'essenzialità del dolore, mentre la sua stessa esperienza umana e poetica si
scarnifica. E’ un O. rimasto solo con se stesso, che piange e ricorda un passato
di spensierate eleganze e di sorrisi di donna che mai più gli avrebbero
trasmesso il brivido di sentirsi vivo. L'espressione poetica accompagna
questo processo di scavo interiore che, col tempo, si fa sempre più asciutto,
sconsolato, sino alla gelida disperazione dell'epistola a Flacco (Pont. 1, 10),
tristissimo punto d'arrivo di colui che, una volta, era stato il celebre cantore
di teneri amori (tenerorum lusor amorum: tris. 4, 10, 1), ridotto ora a rodersi
il cuore in un affanno che mai l'abbandona. Alla desolazione interiore
s'affianca quella del paesaggio, immerso in uno strano torpore, che la
lontananza da Roma rende ancora più intollerabile. Nella fantasia di O. resta
Roma, splendida, ricordo monumentale e carissimo, quale la vide nella notte del
distacco, quando, addolorato e stupito, fu strappato a quel mondo che era suo,
ai suoi affetti. L'elegia III del I libro dei Tristia, rievoca quegli ultimi,
fatali momenti: lo smarrimento del poeta, le lacrime della moglie, gli amici,
pochissimi, che gli restano vicini, il saluto all'Urbe immersa nel silenzio
notturno, illuminata dal chiarore lunare. Confinato ormai in un paese ove anche
la primavera è triste (trist. 3, 12), non gli resta che chiedere notizie della
moglie lontana alle stelle dell'Orsa, unico punto di collegamento con un mondo
per lui irrimediabilmente perduto (trist. 4, 3). Ridotto ormai, poeta che
aveva scandagliato in ogni senso l'intimo delle sue eroine, a scavare entro se
stesso, O. ci ha lasciato, con la X elegia del IV libro dei Tristia, prima di
morire, una confessione che è anche bilancio di tutta una vita e di una
esperienza artistica. Torna al sommario *Altre opere di O.. Al periodo
dell'esilio risale pure il poemetto Ibis, in distici elegiaci, rivolto contro un
ignoto avversario del poeta, che a lui augura ogni male, attingendo da esempi
tratti dal mito e dalla storia. Il titolo, che allude a un uccello egiziano cui
gli antichi attribuivano immondi costumi, riprende quello, identico, di un
poemetto da Callimaco diretto contro Apollonio Rodio. Possediamo un lungo
frammento di 134 esametri di un poemetto sulla pesca e sui vari tipi di pesci,
ricordato da Plinio il Vecchio col titolo di Halieutica (cioè Piscatoria). Sopra
tutto per motivi metrici si dubita possa essere autentico. Di O. a noi
restano 5 esametri di un poema astronomico (Phaenomena) e 2 versi di una
tragedia, Medea, che ebbe enorme fortuna nel I sec. d.C. Niente ci rimane di
altre opere, come il poema epico Gigantomachia, composto in gioventù, un
epitalamio per le nozze di Paolo Fabio Massimo, un carme in onore di Augusto
scritto in lingua getica. Non possono essere attribuiti a O. nè il poemetto
Nux (un albero di noce si lamenta delle sassate che riceve) nè la Consolatio ad
Liviam, composta in occasione della morte di Druso (9 a.C.).
Tito
Livio (Padova, 59 a. C. - 17 d. C)
VITA. Proveniva da nobile
famiglia, ma non partecipò alla vita pubblica: tuttavia, venuto a Roma, si
guadagnò notevole prestigio fu amico di Augusto e poi precettore di Claudio, di
cui intese gli interessi storiografici. I suoi interessi si rivolsero dapprima
alla filosofia, ma ben presto (27-25 a.C.) si concentrarono interamente sulla
sua opera storica.
OPERA E CONSIDERAZIONI. *L. compose qualche
dialogo filosofico e una monumentale opera storica in 142 libri: "Ab Urbe
condita libri" ("Libri dalla fondazione di Roma", dallo stesso autore chiamati
"annales" o semplicemente "libri"), che prendeva appunto le mosse dalla
fondazione di Roma fino al 9 a. C. o, forse, al 9 d. C. *Il lavoro venne
successivamente diviso per decadi (tale scansione forse rispettava le fasi di
pubblicazione), delle quali sono a noi pervenute: la I (dalla venuta di Enea
alla III guerra sannitica, 293 a.C.); la III (sulla II guerra punica,
218-200 a.C.); la IV (fino alla morte di Filippo il Macedone, 179
a.C.); la prima metà della V (fino al trionfo di Paolo Emilio sulla
Macedonia, 167 a.C.). Ossia in tutto 35 libri. Il contenuto della parte
perduta è noto attraverso brevi estratti e riassunti (le "Perìochae") e commenti
(fra cui quello di Floro). *La narrazione di L., non priva di difetti dal
punto di vista storiografico, si raccomanda per il vivo senso drammatico e per
il colorito poetico: egli, in effetti, sembra realizzare in sé, abbastanza
esattamente, quell'equilibrio fra scienza e retorica che costituisce il vero
ideale dell'epoca augustea: preoccupazione, persino passione della verità, ma
anche desiderio di comporre opere in grado di competere, in quanto a bellezza,
con i prodotti della poesia e dell'arte. *L’opera, tesa a glorificare la
"virtus" romana e l’ideale della "pax augusta", attraverso il punto di vista di
un nostalgico degl’ideali repubblicani (solo il grande passato di Roma indica
per lui la via a chi intendesse rinnovare i fasti dell’Urbe), si presenta
invero, più che come un’opera storica in senso stretto, piuttosto come un grande
poema epico in prosa, in quanto concede largo spazio agli elementi epici, come
l’eroismo, la volontà degli dei, la missione di Roma, a scapito dell’esame
puntuale dei fatti. Ciò non vuol dire che L. non fosse uno storico
fondamentalmente "onesto", e tanto meno – almeno per quanto già detto – che
svolgesse una propaganda di sostegno acritico al regime augusteo: anzi, se con
esso vi erano punti di contatto (ad es., nel culto della "res publica"), L. se
ne allontanava decisamente rispetto all’ideologia "carismatica" e assolutistica
(lo stesso Augusto gli rimproverava, amichevolmente, di essere rimasto, in fondo
al cuore, un "partigiano di Pompeo"). Ciò nonostante, l’impero è storicamente
"giustificato", come frutto della cooperazione tra la "fortuna" provvidenziale e
la "virus" del popolo romano, e la stessa crisi attuale – pur riconosciuta come
"epocale" e non episodica – non viene astratta dal quadro generale della storia
di Roma. Insomma, ciò che dà vita all’opera di L. è, più che una fede
politica, un patriottismo profondo, un amore dappertutto sensibile per Roma.
Sotto questo riguardo, egli è uno degli scrittori che più efficacemente hanno
contribuito a diffondere e a far accettare, nelle province di lingua latina,
un'immagine "romana" di Roma, esaltante e, per ciò stesso,
unificante. *Inoltre, appare quantomeno superfluo attardarsi a sottolinearne
i difetti metodologici e scientifici dell’opera: innanzitutto, l’acriticità
nell’uso delle fonti (ci si è dilettati, in altri tempi, a cercare quale fosse
la fonte di questo o quel libro, che si presumeva unica), dagli annalisti romani
a Polibio (come lui, il nostro è, si potrebbe dire, un "filosofo della storia").
Ma L. non è, fondamentalmente, un erudito, ed impiega fonti già letterarie, e
non "documenti grezzi". Egli, in effetti, riprende la struttura annalistica,
e tratta ogni anno in maniera sinottica, dilatando l’ampiezza della narrazione
man mano che si avvicinava all’epoca contemporanea, secondo le aspettative dei
lettori. Il piano della sua narrazione è sì impostato sull'ordine
cronologico, ma egli seppe introdurre, in quello che poteva risultare un
andamento monotono, varie parentesi drammatiche, episodi che formano quadri
naturali. Il filo narrativo è spesso interrotto da discorsi, ed è difficile
dire se sono un prodotto di pura fantasia o se trovano sostegno in qualche fonte
documentaria più o meno fedele. Si può ipotizzare che la proporzione fra verità
e invenzione varia secondo le date dei discorsi. Le opere più antiche,
probabilmente, non si fondano su documenti davvero autentici, mentre è probabile
che le orazioni più recenti, pronunciate da questo o quell'illustre personaggio
del II o anche del III secolo a.C., fossero conservate più fedelmente. Lo stesso
vale per gli avvenimenti. Il quadro dei primi secoli di Roma è più "restaurato",
ma è anche più semplice e, in una certa misura, più direttamente epico di quello
riguardante la storia più vicina. *Infine, nella scrittura, L. si contrappone
alla tendenza di Sallustio, avvicinandosi piuttosto allo stile vagheggiato da
Cicerone per la storiografia: la "lactea ubertas" – come la definì Quintiliano –
consisteva così in una prosa ampia, fluida e luminosa, senza artifici e
restrizioni, di limpida chiarezza ("candor"). Un periodare, insomma, destinato
alla lettura. Ma L. sa conferire al proprio stile anche un’ammirevole
duttilità e varietà: dal gusto arcaicizzante della I decade (dettato dalla
vetustà degli eventi) ad una sempre maggiore coloritura poetica e drammatica del
racconto, se non addirittura "tragica", soprattutto nella descrizione dei
personaggi (Lucrezia, Virginia, Sofonisba, Coriolano, Camillo, Fabio Massimo,
Scipione…) e "impressionistica" nella presentazione degli avvenimenti, verso cui
spesso L. tradisce sentimentale partecipazione.
STORICI MINORI
DOPO LIVIO
Gaio Asinio Pollione (Teate, 76 a.C. – Roma? 4
d.C.)
Console nel 40 a.C., homo novus nato da ricca famiglia, fu un
convinto sostenitore di Cesare; dopo la morte del dittatore appoggiò
tiepidamente Antonio, trattò per lui la pace di Brindisi ma non lo segui nello
scontro finale con Ottaviano. Durante il regime augusteo si ritirò a vita
privata, in posizione di larvato dissenso. Intellettuale di notevole
spessore, fu legato in gioventù ai neòteroi (Elvio Cinna gli dedicò un
Propempticon Pofilonis) e compose opere poetiche; fu oratore di stile attivista
(un atticismo quasi esasperato: uno stile "secco" fino a rasentare l’oscurità) e
storico di indirizzo tucidideo: scrisse un'apprezzata storia ("Historiae", 35
a.C. in poi) delle guerre civili dal I triumvirato alla battaglia di Filippi, in
17 libri (terreno dunque scottante, scandagliato con una certa indifferenza, che
però – probabilmente – non prendeva forma di aperta opposizione). Per primo
istituì una biblioteca pubblica (39 a.C.); animò un "circolo" di letterati e
introdusse l'uso delle recitationes (letture davanti a un pubblico di invitati).
Fu amico di Virgilio e di Cornelio Gallo e corrispondente di Cicerone, nel
cui epistolario sono comprese alcune sue lettere (unici testi pervenutici con
pochi frammenti delle opere).
Pompeo Trogo (sec. I a.
C.)
Originario della Gallia Narbonense, scrisse in età augustea alcuni
trattati scientifici, zoologici e botanici, e una storia universale in 44 libri,
intitolata "Historiae Philippicae". Con uno stile elaborato e con tendenze
moraleggianti, T. andava dalle antichissime vicende di Babilonia fino ai tempi a
lui contemporanei, con una maggiore attenzione alla storia della Macedonia
(libri 7-40), mentre solo i 2 ultimi libri si occupavano della storia di Roma e
delle regioni occidentali. Rispetto a Livio, è cambiata la prospettiva: Roma
non è più il punto di vista privilegiato e l’attore principale della storia: la
sua, per T., è solo una delle numerose egemonie succedutesi nei secoli (non a
caso, l’autore come fonte si avvaleva largamente di Timagene, storico
contemporaneo notevolmente ostile a Roma e al principato). Insomma, per T.
solo la "fortuna" ha permesso a Roma di sopraffare l’ "aretè" greca.
Caio Velleio Patercolo (19 ca a.C. – dopo 30 d.C.)
Di famiglia
campana, fece una discreta carriera pubblica: questore nel 7 e pretore nel 14
d.C., non raggiunse il consolato forse perché coinvolto nella caduta di Seiano
(31 d.C.). Di lui ci è giunto un compendio di "Storia romana", in 2 libri,
con qualche lacuna nel I libro: l’opera inizia con un breve sommario della
storia orientale e greca e si fa poi più ricca per le vicende recenti. E’ un
testo che ben rappresenta quel tipo di storiografia filo-imperiale (nella
fattispecie, sotto Tiberio) condannato da Tacito. Interessanti, comunque, alcune
caratterizzazioni di personaggi (talora "paradossali"), anche minori, e gli
excursus sulla colonizzazione romana, sulle province, sull’antica letteratura
latina, su quella del periodo ciceroniano e su quella augustea. L’artificiosità
retorica ne caratterizza, infine, lo stile.
Valerio Massimo (sec. I
d.C.)
Dopo aver accompagnato nel proconsolato in Asia il suo protettore
Sesto Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali, "Factotum et
dictorum memorabilium libri IX", dedicato all’imperatore Tiberio (le aspre
critiche a Seiano contenute nell’opera fanno pensare ad una pubblicazione subito
dopo la sua caduta). Il materiale, tratto da storici latini e greci (Livio,
Trogo, Varrone…) è ordinato secondo criteri filosofico-morali (in primo luogo,
l’esaltazione dei valori tradizionali), ma con un piano non ben definito: un
prontuario di modelli di vizi e di virtù dove si susseguono "exempla" romani e
stranieri (soprattutto greci) di moderazione, gratitudine, castità, crudeltà,
ecc… Dal punto di vista stilistico, sono da rilevare la ricchezza degli
artifici retorici (tipici dell’età argentea) e il tono
sentenzioso.
Curzio Rufo (sec. I d.C.)
Compose delle "Historiae
Alexandri Magni" (di tormentata datazione) in 10 libri, di cui sono perduti i
primi 2 e parti del V, del VI, del X. Sensibile al clima letterario
ellenistico, R. vi rievoca – con ingenua e fantastica ammirazione – le imprese
del macedone, ponendone in evidenza più l’aspetto esotico che l’importanza
politico-sociale: facendone, quindi, un vero e proprio eroe da
romanzo. L’autore, che ha come modello di stile Livio e che trae spunto da
fonti greche (Clitarco, Timagene, Aristobulo…), ha quindi certamente inteso far
opera di narratore – con l’occhio attento al lettore – più che di vero
storico.
AUTORI DI OPERE SCIENTIFICHE.
Marco
Manilio (sec. I a.C – I d.C.)
Scrisse, sotto Augusto e Tiberio, un
poema didascalico in esametri, "Astronomica" (interrotto al V libro), in cui
espone le vicende delle costellazioni e l’influsso degli astri sul destino degli
uomini. Di orientamento stoico, è ovviamente in polemica con Lucrezio – che
tuttavia rimane il suo modello letterario – credendo, di contro, che l’universo
sia retto e governato dalla divina ragione. L’opera rivela abilità tecnica e
talento letterario.
Verrio Flacco (sec. I d.C.)
Originario di
Preneste, liberto e precettore dei nipoti di Augusto, scrisse varie opere
filologiche, tutte perdute. Deve la sua fama a un vastissimo lavoro
lessicale "De verborum significatu", ricca miniera di notizie relative alla
lingua (ma dove l’interesse grammaticale era strettamente connesso con la
ricerca antiquaria), di cui rimane – mutilo – un successivo compendio in 20
libri di Pompeo Festo (fine sec. II d.C.).
Vitruvio Pollione (sec. I
a.C.)
Identificato con l’ufficiale cesariano Mamurra, architetto, scrisse
il "De architectura" (25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato ad Augusto
e riconducibile alla sua politica d’abbellimento architettonico di
Roma. L’opera, in parte compilatoria e in parte originale (7 libri di
architettura, 1 di idraulica e 2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo e per
il suo contenuto (ricco di elementi di varia natura, tratti da discipline
disparate: aritmetica, geometria, disegno, musica, prosodia, astronomia, ottica,
medicina, giurisprudenza, storia, filosofia), è un unicum nel suo
genere. L’architettura è vista, in senso aristotelico, come "mimesis"
dell’ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede all’architetto una
cultura ricca e varia (quasi quella dell’oratore ciceroniano), che faccia perno
sulla filosofia.
Cornelio Celso (età tiberiana)
Fu autore di
una vasta enciclopedia – "Artes" o "Cesti" – che trattava di filosofia, diritto,
agricoltura, medicina, retorica e arte militare. Ci restano, integralmente, gli
8 libri del "De medicina" (in cui si cerca di mantenere una posizione
equidistante fra l’ "indirizzo empirico" e quello "razionalistico") e frammenti
delle altre sezioni. Riguardo il suo stile, si pensi solo che C. fu detto
"Cicero medicorum".
L. Giunio Moderato Columella (sec I
d.C.)
Nato a Cadice, fu tribuno militare in Siria e poi visse in Italia,
dove possedeva alcune terre. Di lui ci è giunto il più completo trattato di
agricoltura nell’antichità, il "De rustica", in 12 libri, che descrive il lavoro
agricolo e l’allevamento, e affronta il problema della decadenza
dell’agricoltura in Italia (dovuta, secondo C., al disinteresse dei proprietari,
all’inadeguato sfruttamento dei vastissimi latifondi, alla mancanza di una seria
preparazione scientifica in materia; a soluzione del problema, C. sembra
affacciare l’ideale di una cultura enciclopedica, che faccia perno sulla
filosofia). Il X libro (l’unico in versi), sul giardinaggio, raccoglie un
invito a trattarne, contenuto nelle "Georgiche". Resta anche un libro sulle
piante, "De arboribus", parte di un’opera più vasta. C. scrive in una prosa
limpida e scorrevole, e anche i suoi versi sono discreti; le fonti sono quelle
consuete del genere, ma predominante è l’esperienza personale
dell’autore.
Maro Vipsanio Agrippa
Autore di una carta geografica
con relativi commentari.
Pomponio Mela (Tingetela, Gibilterra,
sec. I)
Fu il primo geografo "puro", con la sua "De chorographia", in 3
libri, che con stile "sallustiano" ed attingendo a varie fonti, descrive la
terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo; e l’opera,
benché sia poco più che un repertorio di nomi, è ricca di interessanti notizie
etnografiche e geoclimatiche.
Marco Gavio Apicio (sec. I
d.C.)
Autore di un "De re coquinaria", in cui, più che allo stile
(pedestre), l’attenzione è rivolta alla creatività e alla elaborazione
scenografica dei piatti.
LA LETTERATURA DELLA I ETA’
IMPERIALE.
In questo periodo si assiste alla crisi, in seguito alla
morte di Mecenate, del mecenatismo. Durante il principato di Tiberio non ci si
pone il problema di organizzare un programma di egemonia culturale e si sviluppa
in questo modo una storiografia contraria al principato. La situazione non
migliora con Claudio, che pure aveva una fama di uomo dotto, e che sappiamo
avere scritte molte opere. Solo Nerone, negli anni iniziali del suo principato,
ispirati dalla guida di Seneca, tenta un recupero del consenso del senato e una
ripresa del mecenatismo. Nerone stesso fu un poeta e promosse in vario modo le
attività artistiche, nel 60 istituì una gara quinquennale di canto, musica,
poesia e oratoria. La moda dei pubblici agoni, in occasione di certe feste,
si diffonde più ampiamente sotto il principato dei Flavi, ma l'avvento della
nuova dinastia imperiale segna una netta inversione di rotta rispetto agli
indirizzi culturali di Nerone. Sul piano letterario spiccano principalmente due
fenomeni: la ripresa della poesia epica, nel segno del primato di Virgilio, e,
in prosa, l'assurgere di Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche
di una educazione fondata sulla retorica. Sappiamo inoltre che un altro
poeta epico, Lucano, si dedicò all'attività di librettista. In questi anni il
teatro torna a godere di un'immensa fortuna. La pantomima, il genere di
spettacolo favorito, era una rappresentazione in cui un attore cantava il testo
del libretto, mentre un secondo attore, col volto mascherato, mimava la vicenda.
Particolare era il realismo nella descrizione di certi eventi. Un altro
importante fenomeno di questo periodo è lo sviluppo delle declamazioni. La
declamatio era un tipo di esercizio in uso nelle scuole di retorica. Possediamo
in proposito un'opera di Seneca il Vecchio, frutto dei suoi ricordi di
scuola.
Seneca il vecchio (Cordova, 55 ca a.C. – Roma 40 ca
d.C.)
VITA. Di estrazione equestre, discendente di una famiglia di
coloni romani stabilitasi in Spagna, S. divise la sua lunga vita tra Roma
(frequentandone gli ambienti socialmente più elevati) e la Spagna, probabilmente
fino a vedere il regno di Caligola.
OPERA. La sua opera più
importante ("Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores") ci
testimonia il mutamento che l'avvento del principato ha prodotto sulla
situazione intellettuale a Roma, in particolare sull’attività retorica: viene
meno la sua funzione civile e si immiserisce in futili esercitazioni che vertono
su temi e argomenti fittizi ("declamationes"), romanzeschi e un po' singolari,
che attirano gli studenti delle scuole ma anche il pubblico generico. S.
personalmente non è uno scrittore di "mestiere", ma un "vir bonus" che, durante
la sua giovinezza, ha seguito a Roma l'insegnamento delle scuole di retorica e
che, in età matura, per istruire i propri figli, mette per iscritto i suoi
ricordi. Dotato di una memoria molto precisa, cita non solo i temi sui quali
abitualmente si esercitavano i giovani, ma anche ampi frammenti delle loro
"composizioni". S. illustra così i due tipi di esercizi più in voga: - la
"controversia", un dibattito su argomento giudiziario su due posizioni
contrapposte (anche sulla base di legislazioni immaginarie): generalmente
verteva su fatti immaginari della vita quotidiana ; - la "suasoria", che
consisteva nel tentativo da parte dell'oratore di orientare l'azione di un
personaggio famoso (un'esortazione in piena regola) di fronte ad una situazione
incerta o difficile: generalmente verteva su temi del mito e della storia (ad
esempio, discorso rivolto a Silla nel momento dell'abbandono del potere, o ad
Achille che rifiuta di riprendere a combattere nel campo degli
achei). Essendo destinate ad un vasto pubblico, e basandosi su situazioni
fittizie, le declamationes miravano a stupire l'uditorio, attraverso impreviste
situazioni e ricche figure retoriche, ricreando effetto e uno stile brillante e
prezioso. La loro lettura fa capire, così, con quale spirito esse erano
condotte: sviluppare l'immaginazione degli allievi, la loro ingegnosà nello
scoprire argomenti imprevisti, il loro virtuosismo nel trattamento dei luoghi
comuni. Un allievo di levatura media finiva per acquisire un repertorio di
svolgimenti tematici che, assimilati definitivamente, potevano essere
riutilizzati nelle più diverse circostanze. In questo modo, non avrebbe mai
corso il pericolo di trovarsi sprovvisto di argomenti. Un insegnamento di tal
genere presentava, tuttavia, alcuni aspetti negativi: non tanto il carattere
artificiale delle situazioni immaginarie e della tematica, così distanti dalla
realtà quotidiana, quanto una certa meccanicità dell'eloquenza, la riduzione a
principi codificati di ciò che sarebbe dovuto essere manifestazione spontanea di
un talento personale. La situazione ebbe conseguenze che si ripercossero
sull'intero sviluppo della letteratura latina: essendo la retorica la base
stessa della cultura, essa diffuse un gusto del virtuosismo fine a se stesso, e
impose a tutti i generi, tanto poetici che in prosa, uno stile tutto
particolare. Nessuno scrittore vi sfugge. Tutti, più o meno coscientemente,
applicano le ricette dell'"arte di persuadere". Ciò che in realtà hanno da dire
comincia solo al di là di questa barriera.
Fedro (Tracia o
Macedonia, 15 ca a.C. – 50 ca d.C.)
VITA. F. nacque durante il
principato di Augusto, fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio. E' uno dei
pochissimi autori di nascita non libera nella letteratura della I età imperiale:
egli era infatti uno schiavo di origine tracia, e nei manoscritti delle sue
opere è citato come liberto di Augusto (sembra quindi che fosse stato liberato
dall'imperatore). Da accenni nella sua stessa opera, si ricava che il poeta
sarebbe stato perseguitato da Seiano, il braccio destro di Tiberio, rimasto
offeso da allusioni colte in alcuni scritti. Dopo la condanna, F. soffrì
umiliazioni e, probabilmente, la povertà.
OPERA. Ci sono tramandate
poco più di 90 "Favole", divise in 5 libri, e tutte in senari giambici. Sono
sicuramente di F. anche le circa 30 favole raccolte nella cosiddetta "Appendix
Perottina", che prende nome dall'umanista Niccolò Perotti, curatore della
raccolta. Di altre ci resta la parafrasi in prosa. F. ha una posizione
sociale modesta e come poeta non si può definire un virtuoso: pratica un genere
letterario minore, anch'esso marginale rispetto alle grandi corrente dell'età
imperiale. Tuttavia, a questo umile artigiano tocca una priorità storica
importante: è il primo autore che ci presenta una raccolta di temi favolistici,
concepiti come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Come narratore,
egli inventa ben poco: prese una per una, le sue favole sono poco originali,
indebitate con la tradizione esotica e con una raccolta di favole di età
ellenistica (soprattutto nel I libro, mentre nei seguenti l’arricchisce con
altre di altra provenienza); quanto alla rielaborazione letteraria nessuna delle
favole di F. può superare le opere dei grandi poeti. Il merito di F. sta invece
nell'impegno costante e metodico per dare alla favola una misura, una regola,
una voce ben definita e riconoscibile. La tradizione esopica di storielle che
presentavano spunti umoristici e pillole di saggezza si era fissata in Grecia
intorno al IV sec. a. C. in raccolte letterarie composte in prosa. Si era
intanto affermato una premessa o una postilla in cui veniva spiegato il tema
della favola o la morale che si poteva trarre da essa. Lavorando su queste
raccolte F. creò una regolare forma poetica per la favola includente premessa o
postilla. Tipico del genere è l'uso di animali come maschere, personaggi
umanizzati dotati di una psicologia fissa. Inoltre è sempre presente la morale
che F. vuole estrarre a tutti i costi da ciascuna fiaba. Tuttavia le morali
di F. esprimono una mentalità sociale, ossia il punto di vista delle classi
subalterne della società romana. Egli è l'unico a dare voce al mondo degli
emarginati: in questo la sua opera contiene un'istanza realistica. Al contrario,
è quasi del tutto assente un realismo descrittivo e linguistico, anzi il mondo
delle favole è piuttosto generico, il linguaggio asciutto e poco caratterizzato.
Non mancano spunti di adesione alla realtà contemporanea: F., infatti, non si
limita sempre alla tradizione della fiaba d'animali, e talora sembra inventare
di suo, come nel racconto che ha per protagonista Tiberio; altrove ricava
aneddoti dalla storia. Nei prologhi dei singoli libri il poeta manifesta
notevole consapevolezza letteraria; difende il suo tipo di poesia e ne esalta i
pregi, sottolineando la sua indipendenza dal modello esopico. F. non manca
di accenni polemici verso la società, e nel suo stile quasi satirico colpisce
tipi di uomini e regole del vivere. Le sue favole vogliono essere divertenti ed
insieme istruttive (una sorta, dunque, di "realismo comico"). Comunque, non ebbe
molta fortuna nei suoi tempi.
Lucio Annèo Seneca (Cordova, Spagna
4 ca a.C – Roma 65 d.C.)
VITA. S. nacque a Cordova (nella Spagna
Betica) da una famiglia del rango equestre che aveva per costume l'attività
dell'intelletto (figlio di S. il Vecchio). Venne presto a Roma dove si dedicò
agli studi filosofici (suoi maestri lo stoico Attalo e P. Fabiano). Nella
carriera forense rivelò straordinarie qualità oratorie e, ottenuta la questura,
entrò nel senato dove la sua eloquenza durante il regno di Caligola gli valse il
senato e gli accrebbe onori, reputazioni e pericoli. Tuttavia, nel 41 la
principessa Giulia Livilla, sorella di Caligola, venne accusata dalla gelosa
Messalina, e la rovina della principessa travolse anche S. (non si sa per quali
pretesti di complicità): fu relegato nella solitudine aspra della Corsica e
soltanto nel 49, dopo 8 anni di esilio, per intercessione di Agrippina, nuova
imperatrice, poteva tornare a Roma come maestro del giovane Nerone, divenuto,
per l'adozione di Claudio, il designato successore dell'impero. Nell’ott.
54, Claudio (zio di Caligola, principato dal 41 al 54) muore avvelenato (pare da
Agrippina) e Nerone sale al trono. Dunque morto Claudio, S. restò il più
autorevole e ascoltato consigliere del principe, e pur senza assumere cariche
pubbliche, fu in realtà il vero regolatore della politica imperiale (molti atti
del principato neroniano per circa 7 anni fanno sentire il nobile e benefico
influsso di S.: è il cosiddetto periodo del "buon governo"). Ma Nerone volle
forzare ben presto le tappe verso un governo autocratico: ne pagarono le
conseguenze Britannico, la stessa Agrippina e S. appunto, il quale – dopo la
morte del prefetto del pretorio Afranio Burro (62) – pensò bene di ritirarsi a
vita privata e di dedicarsi completamente alla meditazione. Ma il destino era
segnato: nel 65 fu scoperta la congiura contro Nerone che aveva a capo un grande
signore romano, Calpurnio Pisone. La congiura comprendeva personaggi civili e
militari e ufficiali delle milizie pretoriane. Non si sa quanto sia stata
fondata l'accusa di complicità nei riguardi di S., ma Nerone colse con gioia
l'occasione di sbarazzarsi del suo vecchio e odioso consigliere. S., ricevuto
l'ordine di morire, dimostrò effettivamente nel suo ultimo giorno di saper
sfidare quella morte che egli aveva dichiarato di attendere con serenità in
tutti i giorni della sua vita.
OPERE: TEMI E CONSIDERAZIONI.
Ben
poche fra le opere senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è
difficile cercare di seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere
della consolatio si costituisce attorno a un repertorio di temi morali che
fondano gran parte della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del
tempo, la precarietà della vita e la morte come destino ineluttabile dell'uomo.
Molte opere filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12
libri di "Dialogi" su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali,
confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto è
dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in senso
stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi particolari
di etica, in un quadro generale ch’è quello essenzialmente di un eclettismo di
propensione stoica (scuola di mezzo"): "De providentia" (62 d.C.?): vi si
espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a giustificare la
constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i malvagi e punire gli
onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere alla prova i buoni ed
attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua natura razionale nel
riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato nell'ordine cosmico,
accettandolo serenamente. "De brevitate vitae": vi sono trattati i temi del
tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della vita: la condizione
umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo afferrare l'essenza della
vita, e la disperdiamo in occupazioni futili. "De ira libri III" (41 d.C.?):
sono una sorta di fenomenologia delle passioni umane, poiché analizzano i
meccanismi di origine e i modi per inibirle e controllarle. "De
consolatione" (posteriore al 37 d.C.). "De vita beata" (58 d.C.?): esamina
il problema della ricchezza e dei piaceri (nei quali non si trova l'essenza
della felicità), ma se è vero che il saggio sa vivere secondo natura, saggezza e
ricchezza non sono necessariamente antitetiche ("nessuno ha condannato la
saggezza alla povertà"): l'importante non è non possedere ricchezze, ma non
farsi possedere da esse. Così, S. legittima l'uso della ricchezza se questa si
rivela funzionale alla ricerca della virtù. "De costantia sapientis", "De
otio (62 d.C. ?), "De tranquillitate animi" (62 d.C.?): in questa trilogia,
dedicata all'amico Sereno, S. cerca una mediazione tra l'otium contemplativo e
l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione intermedia tra neoteroi
(Catullo) e Cicerone. Il comportamento dell'intellettuale deve essere rapportato
alle condizioni politiche, ma la scelta di una vita totalmente appartata può
essere resa necessaria da una grave posizione politica, che non lascia al saggio
altro che rifugiarsi nella solitudine contemplativa. In effetti, più
specificamente, questo è il tema del secondo dei dialoghi, mentre il primo
esalta l'imperturbabilità del saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle
avversità e il terzo affronta il problema della partecipazione del saggio alla
vita politica. A tutti e tre i dialoghi, però, comune è l'obiettivo da seguire:
quello, cioè, della serenità d'animo capace di giovare agli altri, se non con
l'impegno pubblico, almeno con l'esempio e con la parola. Sempre di
filosofia trattano: "De beneficiis" (7 libri): si parla della natura e delle
varie modalità degli atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e
beneficiato e dei doveri che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata
allusione al comportamento di Nerone). In pratica, quest’opera è un appello ai
doveri della filantropia e della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti
sociali più umani e cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al
fallimento del progetto di una monarchia illuminata. "De clementia", 3 libri
dedicati a Nerone: riguarda l'amministrazione della giustizia e il governo dello
stato; è, cioè, un'indicazione al giovane imperatore per un programma politico
di equità e moderazione (S. non mette, però, in discussione le forme apertamente
monarchiche del governo). Il problema è in sostanza quello di avere un buon
sovrano, che in un regime di potere assoluto potrà far leva soltanto sulla sua
stessa coscienza per non far sfociare nella tirannide il proprio governo. La
clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi, solo con
essa sarà in grado di ottenere la loro benevolenza e il loro appoggio. E'
evidente in una concezione di principato illuminato l'importanza che acquista
l'educazione del principe, e più in generale la funzione della filosofia come
garante e ispiratrice della direzione politica dello stato. Alla filosofia
spetta dunque il ruolo di promuovere la formazione morale del sovrano e
dell'élite politica. Tra i dialogi abbiamo due lettere (ad Helviam matrem e
ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della consolazione,
ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla precarietà della
vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera a Polibio si rivela
un tentativo di adulare l'imperatore, e per questo S. viene accusato anche di
opportunismo. Quindi abbiamo: 124 "Epistulae morales ad Lucilium" (20
libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi riassume la sua filosofia e la
sua esperienza, la sua saggezza e il suo dolore: vi sono insomma esposti i
caratteri della filosofia stoica, spesso avvicinandosi alla tradizione
diatribica. L'opera ci è giunta incompleta e si può datare al periodo del
disimpegno politico (62). Lo spunto per la composizione di queste lettere sarà
venuto probabilmente a S. da Platone e da Epicureo: in ogni caso, egli mostra la
consapevolezza di introdurre nella cultura letteraria latina un genere nuovo,
distinto dalla tradizione più illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui
egli intende uniformarsi è Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo
arrivare ad un alto grado di formazione e di educazione spirituale. Se si
tratti di un epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che
S. è convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con
l'amico che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di
un insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e
permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come
strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di
curvatura profondamente aristocratica), fondata sull'acquisizione di alcuni
principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad
accogliere un tipo di filosofia, come quella dell’autore, priva di sistematicità
e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o singoli temi etici
(si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato di chi non si atteggia
a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia, e attraverso un vero e
proprio colloquim, S. propone l'ideale di una vita indirizzata al raccoglimento
e alla meditazione, ad un perfezionamento interiore mediante un'attenta
riflessione sulle debolezze e i vizi propri e altrui. Il distacco dal mondo e
dalle passioni che lo agitano si accentua, nelle Epistole, parallelamente al
fascino della vita appartata e all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio
che non è inerzia, ma alacre ricerca del bene. La progressività del processo
di formazione, così, non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole
lettere, man mano che l’epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato
filosofico. Di carattere scientifico sono i 7 libri delle "Naturales
quaestiones", dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali S. analizza i
fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete.
L’interesse dell’autore per le scienze – ritenute parte integrante della
filosofia – non è "gratuito", ma è legato ad una profonda istanza morale: quella
di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Ci sono poi: 9
tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco: Hercules furens,
Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon, Thyestes, Hercules
Oetus. Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia, sono le uniche
tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria, e inoltre sono
molto importanti anche come documento della ripresa del teatro latino tragico:
esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti dell’espressionismo
verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto la scarsità di notizie
esterne sulle tragedie senecane non ci permette di sapere nulla di certo sulle
modalità della loro rappresentazione: non è da escludere l'ipotesi che fossero
tragedie destinate soprattutto alla lettura in pubblico, in cui quindi l’azione
drammatica è sostituita dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è
la psicologia) e dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute
autentiche sono, come detto, nove cothurnatae: sul modello dell'autore greco
Euripide abbiamo, ad es., le Phoenissae, che narra del tragico destino di Èdipo
e dell'odio che divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di
Èdipo è presente anche nell'Oedipus: causa inconsapevole dell'uccisione del
padre, alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra
della vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli
ha sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui
imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto con
i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la necessità
di una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli greci. Il
linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia augustea,
dalla quale l’autore mutua anche le raffinate forme metriche, come i metri
lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della tragedia latina
arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del pathos, e spesso
l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta mediante l'introduzione di
lunghe disgressioni, che alterano i tempi dello sviluppo inserendosi nella
tendenza a isolare singole scene come quadri autonomi. Sul filone delle tragedie
di età giulio-claudia è infine evidente la generalizzata ispirazione
antitirannica. Le tragedie sono sempre alimentate dalla filosofia e dalla
dottrina stoica dell'autore, i cui tratti fondamentali sono illustrati sotto
forma di exempla nelle opere: le vicende si configurano infatti come conflitti
di forze contrastanti, soprattutto all'interno dell'animo, nell'opposizione tra
mens bona e furor, la ragione e la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi
più che altro come substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le
esigenze letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si
rivela incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono
perciò toni cupi e atroci, scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta tra
il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno della
psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del tiranno
sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male, tormentato com'è
dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno problema del potere. A parte va
considerata l'Octavia, una commedia praetexta (cioè di argomento romano, e
l’unica rimastaci della letteratura latina), ove si rappresenta la sorte di
Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata e fatta uccidere. Il fatto
però che venga preannunciata in maniera troppo corrispondente alla realtà la
morte di Nerone, lascia trasparire forti dubbi sulla paternità della tragedia
(S., che vi compare peraltro come protagonista, morì prima di Nerone),
attribuita invece dalla tradizione manoscritta, data l’affinità stilistica con
le precedenti tragedie. l' "Apokolokýntosis" o "Ludus de morte Claudii", una
satira menippea sull'apoteosi dell'imperatore: Il componimento narra appunto la
morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere assunto
fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce schiavo del
nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso dantesco per
chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo romano. Si tratta,
evidentemente, di una satira, che assume spesso toni parodisticamente solenni,
aspetti coloriti e situazioni fortemente ironiche a scapito del poco amato
imperatore Claudio (è la tipica opposizione stoica al potere arbitrario ed
incontrollato), mentre con gioia viene salutato l’avvento al potere di Nerone.
Apokolokýntosis è il titolo greco dell'opera e significherebbe "deificazione di
una zucca", con evidente riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto
Claudio. Un'opera simile contrasta però con la laudatio funebris dell'imperatore
morte presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua
autenticità. Si attribuisce infine a S. una raccolta di ca 70 epigrammi, di
cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece, la
corrispondenza con San Paolo.
CONSIDERAZIONI SULLO STILE. Se il fine
della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo dovrà badare
all'utilità delle parole, e non alla loro elaboratezza. S. rifiuta la compatta
architettura classica del periodo ciceroniano, che nella sua disposizione
organizzava anche la gerarchia interna, e dà vita a uno stile eminentemente
paratattico, che frantuma l'impianto del pensiero in un susseguirsi di frasi
aguzze, il cui collegamento è affidato soprattutto all'antitesi e alla
ripetizione: continua è la ricerca dell’effetto, dell’espressione appunto
epigrammatica, quasi a voler riprodurre il "sermo familiaris", e il tono oscilla
ben volentieri tra quello di una rigorosa analisi interiore e quello di una
sapiente predica ad intelligenti ascoltatori. S., insomma, fa uso di questo
stile (che affonda le sue radici nella retorica asiana e nella predicazione
cinica) come di una sonda per esplorare i segreti dell'animo umano e le
contraddizioni che lo lacerano, ma anche per parlare al cuore degli uomini ed
esortare al bene.
Marco Anneo Lucano (Cordova 39 – Roma 65
d.C.)
VITA. Figlio di Anneo Mela fratello di Seneca, è dunque nipote
del grande filosofo. Nel 40 si trasferisce con la famiglia a Roma dove compie i
suoi primi studi, sotto la guida di ottimi maestri e del filosofo stoico
Cornuto. Entra ben presto nella corte di Nerone, anzi fra i suoi intimi, e
proprio per volontà di quest'ultimo diviene questore prima dell'età minima
prevista, entrando poi a far parte del collegio degli àuguri. Nel 60 L. recita
le Laudes del principe, in occasione delle sue feste (e ciò gli valse
l’incoronazione di poeta), e pubblica i primi 3 libri della "Pharsalia", con
un’enfatica dedica a Nerone. Subentra però una brusca rottura con
l’imperatore, causata – secondo la tradizione - dalla gelosia letteraria che
questi provava nei suoi confronti o, più probabilmente, dal fatto che L.
s’andasse accostando sempre più alle posizioni della propaganda stoica
anticesariana, e quindi avesse idee troppo marcatamente improntate a un
nostalgico repubblicanesimo, come appare evidente dal tono dei successivi libri
del suo capolavoro, cui fra l’altro sostituì la dedica. In seguito, L. aderì
alla congiura di Pisone e, una volta scoperto il complotto, ricevette l'ordine
di darsi la morte. Si tolse la vita nel 65, a meno di 26 anni, non senza aver
cercato di salvarsi con delazioni.
OPERE. *Tra le opere perdute
ricordiamo, invece, un "Iliacon" (componimento in versi sulla guerra di Troia);
un "Catachtonion" (carme sulla discesa negli inferi); i 10 libri di "Silvae",
raccolta di poesie di vario genere; la tragedia incompleta "Medea"; epigrammi e
14 "fabulae salticae" (libretti per pantomime). Il numero e la varietà delle
composizioni di cui si ha notizia indicano un eccezionale precocità artistica,
unità ad una notevole versatilità. Dalle opere perdute sembra di poter cogliere
una totale adesione ai gusti neroniani: nell'Iliacon veniva incontro alla
passione del principe per le antichità troiane; Silvae e libretti per pantomime
ben si inserivano nel quadro generale della poesia di intrattenimento. *Ma il
suo capolavoro, e tra l’altro l’unica sua opera pervenutaci, è il poema epico
"Bellum civile" o "Pharsalia", in 10 libri e ancora incompiuto (il libro X
infatti viene interrotto bruscamente per la morte dell’autore). Quest’opera
risulta essere di tutt'altro genere rispetto le sue precedenti: il modo in cui
L. ha scelto di trattare l'argomento della guerra civile tra Cesare e Pompeo si
risolve in un'esaltazione dell'antica libertà repubblicana e in una condanna del
regime imperiale. Dopo l'esposizione dell'argomento del poema e un lungo
elogio di Nerone, L. espone le cause della guerra e il passaggio del Rubicone da
parte di Cesare. Lamenti dei romani che ricordano il precedente conflitto
civile tra Mario e Silla. Dibattito notturno tra Bruto e Catone sulla guerra
imminente. Appare in sogno a Pompeo la figura di Giulia, figlia di Cesare e sua
prima moglie, per minacciargli terribili sciagure. Cesare entra in Roma, poco
dopo la guerra si sposta a Marsiglia. Azioni di Cesare in Spagna e grande
eroismo di un pompeiano. Il Senato, esule da Roma, si riunisce in Epiro. Il
pompeiano Appio si reca a consultare l'oracolo di Delfi ma il responso resta
dubbio. Cesare entra in Epiro e sconfigge l'esercito di Pompeo che è costretto a
lasciare Cornelia nell'Isola di Lesbo: dolore dei due sposi per la separazione.
Pompeo viene assediato a Durazzo con il suo esercito. I due eserciti arrivano in
Tessaglia, che sarà luogo dello scontro decisivo. Uno dei figli di Pompeo,
Sesto, si reca a consultare la maga Erittone. Sesto riesce a richiamare in vita
un soldato caduto in battaglia, il quale rivela a Sesto la rovina che incombe su
di lui, sulla sua famiglia e sull'intero ordinamento politico di Roma. Si tiene
il consiglio di guerra e Pompeo sconsiglia l'attacco, la volontà dei partigiani
è, tuttavia, più forte della sua e così sii iniziano i preparativi per la
battaglia. Scontro finale dei due nemici e vittoria definitiva di Cesare. Pompeo
fugge e Cesare rifiuta gli onori funebri ai caduti. Ripresa con sé Cornelia
Pompeo si rifugia in Egitto, dove spera di trovare rifugio. Ma il re Tolomeo,
dietro consiglio dei suoi cortigiani, lo fa uccidere al suo arrivo. Il corpo
decapitato di Pompeo viene lasciato sul litorale, gli dà degna sepoltura un
certo Cordo. Dopo la morte dei Pompeo, Catone assume il comando dell'esercito
dei repubblicani, e attraversa il deserto libico affrontando pericoli di ogni
sorta. Rifiuta di consultare l'oracolo di Ammone: la conoscenza del futuro non
può modificare le decisioni del saggio. Ad Alessandria Cesare visita la tomba di
Alessandro Magno, quasi suo maestro di Tirannide. Gli alessandrini tentano una
sollevazione contro Cesare e a questo punto si interrompe il poema.
CONSIDERAZIONI SULLA FARSAGLIA. La critica antica dei grammatici e
dei retori ha mosso al poema di Lucano una serie di censure: l'uso e l'abuso
delle sententiae concettistiche, che avvicinerebbero lo stile della Pharsalia a
quello oratorio, la rinuncia agli interventi divini, un ordine della narrazione
quasi annalistico, tipico più delle opere storiche (e si ricordino Nevio ed
Ennio) che di quelle poetiche. In alcune parti del poema, la fedeltà scrupolosa
alla fonte storica viene sacrificata alle deformazioni della verità a fini
ideologici, soprattutto per quel che riguarda Cesare, Pompeo e i rispettivi
sostenitori. A ragione si è potuto parlare della Pharsalia come di una sorta
di anti-Eneide, e del suo autore come di un anti Virgilio. Il poema epico era
stato celebrazione solenne delle glorie dello stato e dei suoi eserciti; nelle
mani di L. il poema epico diventa invece la denuncia della guerra fratricida,
del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento di un'era di ingiustizia.
Appunto Virgilio diventa per L. il modello da rovesciare e da confutare: per
lui, il mantovano ha coperto con un velo di mistificazioni la trasformazione
dell'antica repubblica in tirannide. La via che l’autore sceglie per sconfessare
Virgilio è prima di tutto il mutamento dell'oggetto: non si tratta di
rielaborare racconti mitici, ma di esporre, con sostanziale fedeltà, una storia
recente e ben documentata, soprattutto universalmente riconosciuta. Questa
scelta di fedeltà al vero spiega anche la rinuncia agli interventi divini che
tanto faceva scandalizzare la critica antica. Come detto, è abbastanza
probabile che il pessimismo di L. sia andato maturando progressivamente nel
corso della stesura del poema. La polemica antivirgiliana comincia a delinearsi
fino dai versi successivi al proemio, mentre nell'epos di Virgilio il tema
storico delle guerre civili si affacciava qua e là nel testo, L. vuole invece
riprodurlo in tutta la sua ineludibile realtà storica, presentandone le nefaste
conseguenze sulla storia successiva. L'elogio a Nerone riprende da Virgilio
alcuni motivi rivolti alla glorificazione del principe (d'altro canto,
l'attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del
tempo):tuttavia, agli occhi di L. il mito del nuovo Augusto è molto migliore del
primo, e tesserne l'elogio significa entrare in velata polemica con Virgilio:
Nerone, e non Augusto, è la vera realizzazione delle promesse del Giove
virgiliano (Giove aveva profetizzato a venere l'avvento di una nuova età
dell'oro). Resta il fatto che, all'interno della Pharsalia, l'elogio di
Nerone suona come una nota stridente: nello stesso progetto del poema era insita
la contraddizione fra la visione radicalmente pessimista dell'ultimo secolo di
storia romana, che L. era venuto maturando, e le aspettative suscitate dal nuovo
principe. Nel seguito del poema, il pessimismo di L. si fa sempre più radicale,
e approda a una concezione apparentemente priva di luci: un vero e proprio
"anti-mito" di Roma, il mito del suo tracollo, che si contrappone a quello
virgiliano dell'ascesa della Città da umilissime origini. Come l'Eneide, anche
la Pharsalia si articola attorno a una serie di profezie, che rivelano non le
future glorie di Roma, ma la rovina che l'attende. La più importante è
costituita soprattutto dalla negromanzia del libro VI. La collocazione
dell'episodio in tale libro costituisce un probabile indizio della posizione di
centralità che l’autore intendeva accordargli nell'architettura del poema. L.
rovescia il modello virgiliano fin nei minimi particolari. Il soldato richiamato
in vita dalla maga racconta di aver visto gli inferi in grande agitazione; in
lacrime le anime dei grandi eroi di Roma; esultanti gli spiriti degli antichi
antenati di Cesare, gli eterni nemici dello stato romano. La scelta di Sesto si
spiega col fatto che L. intendeva collegare la stirpe di Pompeo con il mito
della rovina di Roma. Per di più Sesto, figlio empio e degenere, rappresenta per
molti rispetti un rovesciamento del pio Enea. La Pharsalia non ha un
personaggio principale, ma ruota soprattutto attorno alle personalità di Cesare,
Pompeo e Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza:
egli assurge a incarnazione del furore che un'entità ostile, la Fortuna, scatena
contro l'antica potenza di Roma. In alcuni punti il poeta sembra quasi
soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale in fondo
rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell'Eneide venivano
dominate e sconfitte: il furor, l'ira e l'impazienza. Inoltre, nel suo poema, L.
spoglia Cesare del suo attributo principale, la clemenza verso i vinti, a costo
di stravolgere la verità storica. Alla frenetica energia di Cesare si
contrappone una relativa passività da parte di Pompeo, questo tipo di
caratterizzazione serve tuttavia a limitare la responsabilità di Pompeo: la
forsennata brama di potere di Cesare è la principale causa della catastrofe che
porterà Roma al tracollo. L. cerca di fare di Pompeo una sorte di Enea il cui
destino si mostra avverso piuttosto che favorevole: in questo senso la figura di
Pompeo è l'unica che nello svolgimento del poema subisce una trasformazione
psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare di Pompeo dai
vertici più alti, mentre la Fortuna gli si rivolge contro con ostile
determinazione. Alla fine, abbandonato dalla Fortuna, Pompeo va incontro a una
sorta di purificazione: diviene consapevole della malvagità dei fati, comprende
che la morte in nome di una giusta causa costituisce l'unica via di riscatto
morale. Questa consapevolezza costituisce per Catone un solido possesso fin
dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo filosofico del poema è senza
dubbio di natura stoica: ma nel personaggio di Catone si consuma la crisi dello
stoicismo tradizionale. Di fronte alla consapevolezza di un fato che cerca la
distruzione di Roma, diviene impossibile per Catone l'adesione volontaria alla
volontà del destino. Matura così la convinzione che il criterio della giustizia
sia ormai da ricercarsi altrove che nel volere del cielo: esso d'ora in poi
risiede unicamente nella coscienza del saggio. Catone si fa pari agli dei
(titanismo): non ha più bisogno dei loro consigli per cogliere il discrimine tra
il giusto e l'ingiusto. In una parola, è qui evidente il rifiuto di ogni
concezione provvidenzialistica della storia umana, in nome dei principi stoici
della virtù e della fortuna. Ardente e concitato, così viene definito da
Quintiliano lo stile di L., riferendosi probabilmente all'incalzante ritmo
narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e lasciano debordare parti
della frase oltre i confini dell'esametro: così l'urgenza dei pensieri si
esplicita nel continuo enjambement, e la sintassi delle parole aspira ad uscire
dai vincoli dello schema esametrico. L’opera è l’espressione tipica d’un
nuovo gusto anticlassico, sostenuto da una perenne tensione retorica e da un
patetismo sincero (non alieno da alcune sostanziali "deformazioni"). L'io del
poeta è praticamente onnipresente per giudicare e spesso condannare in tono
indignato. E' senza dubbio uno stile che di rado conosce dominio e misura: per
questo esso può rapidamente saziare il lettore. Ma la rappresentazione di una
catastrofe come la guerra civile poteva ancora continuare a basarsi su una forma
tradizionale quale era quella che il genere epico offriva? La tradizione epica
aveva costituito tutto un linguaggio complesso, capace di dare l'attraente forma
di narrazione ai grandi modelli culturali cui si ispirava la società romana. L.
non ha la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente
insufficiente ai suoi bisogni. Più che tentare una rifondazione del linguaggio
epico , egli cerca un rimedio di compenso nell'ardore ideologico con cui ne
denuncia la crisi. Così la presenza di un'ideologia politico moralista si fa in
lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce infine a retorica. Ma la
retorica che anima questo linguaggio non è vana artificiosità ornamentale, ma
ricerca di una propria autenticità, per essere sicuro di non tradire con le
parole il messaggio di un'ideologia disperata.
Gaio Petronio (? -
m. Cuma 66 d.C.)
VITA. Per molto tempo si è parlato di una questione
petroniana, finché è durata l'incertezza sull'epoca, la persona, il nome
completo e il titolo dell'opera narrativa di P.. Se l'autore del Satyricon è
il personaggio rappresentato da Tacito in Annales 16, T. Petronius Niger. Il P.
di Tacito era stato un uomo di potere (console nel 62), ma la qualità che lo
rendeva caro a Nerone era la raffinatezza, il gusto estetico ("elegantiae
arbiter"). Questo P., spinto al suicidio nel 66 da intrighi di corte, stupì
ancora una volta realizzando un suicidio in grande stile. Incidendosi le vene, e
poi rallentando il momento della fine, P. passò le ultime ore a banchetto
occupandosi di poesia. Ma volle mostrarsi anche serio e responsabile: si occupò
dei suoi servi, e scelse di denunciare apertamente i crimini dell'imperatore,
distrusse poi il suo anello perché non potesse venire riutilizzato in qualche
intrigo. Le qualità che Tacito dà alla figura di P. sono tutte qualità che
l'autore del Satyricon deve aver posseduto in modo elevatissimo. Non sappiamo se
Tacito conoscesse direttamente il romanzo; se lo conosceva è lecito pensare che
ne abbia tenuto conto nella sua descrizione di P., ma non era tenuto a citare
nella sua severa opera storica un testo così eccentrico e scandaloso. Certi
aspetti del testo possono rimandare all'ambiente neroniano e il gusto di P. per
la vita dei bassi fondi può avere una sottile complicità con i gusti
dell'imperatore. Se l'autore è in realtà il P. di Tacito dobbiamo aspettarci
certamente allusioni anche sottili all'ambiente della corte neroniana. Tutti gli
elementi di datazione interni concordano con una datazione non oltre il
principato di Nerone. Le allusioni a personaggi storici e i nomi di tutte le
figure del romanzo sono perfettamente compatibili con il contesto del periodo
storico di Nerone.
OPERA. Del "Satyricon", come detto, sono incerti
l'autore, la data di composizione, il titolo e il significato di questo,
l'estensione originaria, la trama, il genere letterario e le motivazioni per cui
quest'opera venne scritta e pubblicata. In effetti, l'unico attestato delle
opere di P. è un lungo frammento narrativo in prosa, con parti in versi, residuo
di una narrazione molto più ampia; il titolo, Satyrica, sembra formato da due
grecismi: Satyri (i personaggi del mito e del folklore greco) più il suffisso di
derivazione greca -icus. La parte che abbiamo copre parte dei libri XIV e XVI e
la totalità del libro XV. Non sappiamo di quanti libri fosse composto il
romanzo. Il testo ebbe un destino complesso, fu antologizzato in età tardo
antica, con intervento anche di vere e proprie interpolazioni. Questa,
brevemente, la trama: Encolpio, perseguitato dal dio Priapo che gli ha tolto la
virilità, vaga con l’efebo Gitone e l’amico Ascilto per le città dell’Italia
meridionale, incorrendo in varie avventure mariolesche ed erotiche, nelle quali
spiccano, fra le altre, le figure di Quartilla, Psiche, Circe, di insaziabile
sensualità. Al terzetto si aggiunge Eumolpo, un vecchio ribaldo, ma poeta e fine
critico, che in un episodio canta "La presa di Troia" (65 senari giambici) e "La
guerra civile" (295 esametri), probabili parodie di opere di Nerone e
Lucano. Frammenti famosi sono la "cena di Trimalcione", un incredibile
banchetto offerto da un arricchito, e la novella della matrona di Efeso, che si
dà ad un soldato sulla tomba stessa del marito.
IL SATYRICON E IL ROMANZO
ANTICO. E’ noto che il Satyricon costituisce, insieme alle "Metamorfosi" di
Apuleio, l’unico testo della letteratura latina appartenente al genere del
romanzo. Riguardo il romanzo antico, è possibile distinguerne tre tipologie
differenti: 1) il romanzo "di avventure e di prove", rappresentato eminentemente
dal cosiddetto "romanzo greco" o "sofistico": le Etiopiche di Eliodoro, Leucippe
e Clitofonte di Achille Tazio, Le avventure di Cherea e Calliroe di Caritone,
Abrocome e Anzia o Racconti Efesii di Senofonte Efesio, e Le avventure pastorali
di Dafni e Cloe di Longo Sofista. 2) il romanzo "biografico", al quale sono
ricondotti l’ Apologia di Socrate e il Fedone di Platone, oltre alle biografie
retoriche che hanno origine dagli encomi, a loro volta discendenti dagli antichi
threnoi o, in ambiente latino, dalle laudationes funebres; ne sono un esempio le
Retractationes di Agostino; all’interno di questa tipologia Bachtin distingue
poi la biografia "energetica", rappresentata dalle Vite di Plutarco, che porta
ad una progressiva rivelazione del carattere del protagonista, dalla biografia
"analitica", il cui autore più tipico è Svetonio; 3) il romanzo "di avventure e
di costume", rappresentato in senso stretto solo dalle già citate Metamorfosi di
Apuleio e dal Satyricon di P., che Bachtin avvicina al romanzo picaresco europeo
moderno, in quanto in entrambi quello che egli definisce "tempo di avventura" si
intreccia strettamente nella narrazione al "tempo quotidiano". Al contrario
dei romanzi latini questa serie di opere greche è unita da una notevole
omogeneità e permanenza di tratti distintivi. La trama è quasi invariabile: si
tratta delle traversie di una coppia di innamorati che vengono separati e che
devono affrontare mille pericoli prima di potersi riabbracciare. Il tono è quasi
sempre serio, lo scenario è invece variabile e spazia nei paesi del
Mediterraneo. L'amore è trattato con pudicizia, come una passione seria ed
esclusiva: l'eroina riesce sempre ad arrivare alla fine del romanzo ancora
casta. Nel romanzo di P. l'amore è visto in modo ben diverso. Non c'è spazio
per la castità, e nessun personaggio è un serio portavoce di valori morali. Il
protagonista è sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo, è il suo partner
preferito è maschile. Il rapporto omosessuale tra Encolpio e Gitone diventa
quasi una parodia dell'amore romantico che lega gli innamorati dei romanzi
greci. A partire dal I secolo d.C. ha grande fortuna una letteratura
novellistica, caratterizzata da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali.
Un filone importante è quello che gli antichi spesso etichettano come fabula
Milesia; sappiamo con certezza che P. utilizzò ampiamente questo filone di
narrativa non idealizzata. Una tipica storia milesia è quella raccontata da
Eumolpo: una matrona di Efeso, vedova inconsolabile, cede alle voglie di un
soldato e finisce per esporre sulla croce la salma di suo marito per salvare
l'amante. I temi tipici di questa novellistica si oppongono a qualsiasi
idealizzazione della realtà: gli uomini sono sciocchi e le donne pronte a
cedere. Tuttavia nessun testo narrativo classico si avvicina anche
lontanamente alla complessità letteraria di P.. Se la trama del romanzo si
presenta molto complessa, ancora più complessa è la forma del romanzo. La prosa
narrativa è interrotta frequentemente con inserti poetici: alcune di queste
parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, ma molte altre parti
poetiche sono strutturate come interventi diretti del narratore, che nel vivo
della sua storia abbandona le relazioni con gli eventi esterni e si abbandona a
commenti che hanno funzione ironica. La presenza di un narratore passivo che
subisce i capricci della fortuna è tipica di P. come del romanzo di Apuleio, ma
l'uso libero e ricorrente di inserti poetici allontana quest'opera dalla
tradizione del romanzo e la avvicina agli altri generi letterari. Il punto di
riferimento più vicino al Satyricon è la satira menippea, questo tipo di satira
si configurava infatti come un contenitore aperto, molto vario per contenuti e
per forma e che alternava momenti seri a situazioni giocose, il tutto
sorvegliato da un'abile tecnica di composizione. Rimangono tuttavia delle
differenze nette: la satira di Seneca è una narrazione molto breve, ed è
impossibile paragonala allo sviluppo del Satyricon. Inoltre è un testo di satira
intesa come libello, come attacco personale concepito in una precisa situazione
e rivolto contro un bersaglio esplicito: Claudio. In P. invece nessun intento
del genere è percepibile. Ancora Bachtin sottolinea in particolare la
caratteristica della pluridiscorsività del Satyricon, che si manifesta sia nella
varietà dei punti di vista che si incrociano nel romanzo, sia nella molteplicità
di allusioni e riprese dei più svariati generi letterari. Proprio su questo
aspetto si è incentrato il dibattito critico successivo, sviluppando ampiamente
le ricerche sulla intertestualità nel Satyricon soprattutto per quanto riguarda
la messa a fuoco delle parodie dei generi letterari su cui il testo appare
costruito. Così è stato particolarmente studiato il rapporto tra il romanzo
greco e il Satyricon, ed in questo ambito è stato spesso sostenuto che il
romanzo di P. si pone come inversione parodistica dei modelli greci: il tema
strutturante di opere come quelle citate di Caritone o di Senofonte Efesio,
costituito dall’amore contrastato di una coppia di giovani e dalle peripezie che
attraversano per coronare la loro unione, risulta rovesciato nel Satyricon nel
rapporto omosessuale dei due protagonisti. Ci sono d’altra parte studiosi che,
come Sullivan, non condividono appieno questa ipotesi, e sostengono invece che
sia il Satyricon sia i romanzi greci si rifarebbero al comune modello dell’
epos, e che quindi le analogie strutturali che si riscontrano tra il romanzo
latino e quelli greci sarebbero giustificate da questa comune ascendenza.
Ancora, sono stati oggetto di indagine anche i riferimenti che P. dissemina
nella sua opera ad autori latini, in particolare a Virgilio, la cui opera
sarebbe parodiata e/o imitata nel cosiddetto Bellum civile, cioè quella sezione
in versi che Eumolpo, uno dei protagonisti, recita nella parte iniziale del
testo (che, come è noto, è un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa e
versi): anche su questo argomento però i pareri sono discordi, dal momento che
secondo altri qui P. intenderebbe parodiare il poema epico di Lucano, più che
quello di Virgilio. Molto nota invece e sicuramente più fondata è
l’individuazione nel Satyricon di un intento parodistico dell’Odissea,
individuato e descritto tra gli altri anche da Courtney, Klebs e Fedeli. I punti
a sostegno di questa tesi sono molti, e probanti: si tratta non tanto della
ripresa dell’ira di Poseidon che perseguita Odisseo nel poema, parodisticamente
adombrata da P. nella persecuzione del dio Priapo nei confronti del protagonista
Encolpio, né della struttura "odissiaca" (incentrata cioè sulle peripezie di
viaggio) delle avventure narrate nel romanzo, quanto piuttosto di elementi di
dettaglio, ma perciò stesso assai più significativi, che depongono a favore di
questa tesi. Ad esempio è molto significativo che il già nominato Encolpio
assuma, in una avventura di seduzione di una matrona, il nome di Polieno: e
nell’Odissea polyainos è un epiteto che viene attribuito da Omero al solo
Odisseo. Analogie evidenti presentano poi alcuni episodi, come quello in cui il
protagonista del romanzo, per sottrarsi ai suoi inseguitori, si attacca sotto ad
un letto, con un evidente ripresa dell’espediente con cui Odisseo fugge dalla
caverna del Ciclope attaccandosi sotto il ventre dell’ariete avviato al pascolo.
Invece è solo in tempi più recenti che sono stati messi in luce alcuni
riferimenti (oggetto di parodia o di semplice allusione) alla cultura ebraica
che sarebbe possibile riscontrare nel romanzo: uno studioso in particolare, J.
Clarke, ha rilevato nell’episodio centrale della parte superstite del Satyricon
(ovvero la cena di Trimalcione) alcuni riferimenti all’ebraismo. Sull’esempio di
questo studioso, le ricerche di echi e riprese di elementi della cultura
giudaica nel Satyricon si sono moltiplicati, estendendosi anche all’ambito
dell’onomastica. In questo settore, già da tempo è stato osservato che i nomi
dei personaggi sono assegnati da P. con intenzione allusiva a personaggi o
vicende del mito: Labate ad es. osservava che Corace (nome del servo che rivela
agli heredipetae l’inganno di Encolpio ed Eumolpo nell’avventura di Crotone) è
con ogni evidenza ripreso dal mito della cornacchia (korax) punita da Apollo per
la sua attività di delazione di cui parla Callimaco in un suo inno. Estendendo
l’indagine anche all’area linguistica semitica alla ricerca di analoghe
allusioni, Bauer ha interpretato il nome di Trimalcione come composto da un
prefisso tri-, di significato intensivo, associato alla radice semitica mlk,
portatrice dell’idea di regalità. Trimalcione sarebbe quindi il "tre volte re",
titolo certo adatto alla sua smania di esibizionismo e alla volontà di
autocelebrazione che lo contraddistinguono come parvenu desideroso di ostentare
la propria smisurata ricchezza.
CONSIDERAZIONI. Il Satyricon deve
molto alla narrativa per trama e struttura del racconto, e qualcosa alla
tradizione menippea, per la tessitura formale, ma trascende, in complessità e
ricchezza di effetti, entrambe le tradizioni. Il tratto più originale della
poetica di P. è forse la forte carica realistica, evidente soprattutto nel
capitolo 15, dove diventa anche un fenomeno linguistico. L'autore ha un vivo
interesse per le mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro
linguaggio quotidiano. Mentre il realismo della satira latina si soffermava in
genere su tipi sociali ben precisi e questi erano tutti costruiti attraverso un
filtro morale, che coincideva con poi con l'ideale del poeta, P. non offre ai
suoi lettori nessun strumento di giudizio. Non potrebbe essere altrimenti, in
una narrazione condotta in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al
collo in quel mondo sregolato. L'originalità del realismo di P. sta quindi non
tanto nell'offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell'offrirci una visione
del reale che è critica quanto disincantata. Infine, è da dire che il livello
culturale dei lettori a cui il Satyricon si rivolgeva era sicuramente alto, come
notava già Auerbach quando scriveva: "P. attende lettori di tale levatura
sociale e cultura letteraria da poter subito intendere tutte le sfumature del
mal comportamento sociale e dell’abbassamento della lingua e del gusto ...
un’élite sociale e letteraria che riguarda le cose dall’alto ... anche P. dunque
scrive dall’alto, e per il ceto delle persone dotte".
Carmina
Priapea.
E’ una raccolta giuntaci anonima (I sec. d.C.?), circa 80
componimenti di lunghezza e metro variabili, legati tra loro dalla figura del
dio Priapo. Si tratta dunque di un tipo particolare di epigramma, di tono
scherzoso e tematica per lo più esplicitamente sessuale. E così, data la
relativa monotonia del tema, la bravura dell’autore (infatti, probabilmente è
singolo) sta nel produrre effetti di varietà, sia di situazioni che di forma
metrica (carmi di dedica, ritratti satirici, maledizioni,
enigmi…).
Aulo Persio Flacco (Volterra, 34 – Roma, 62
d.C.)
VITA. Rimasto orfano di padre, a 12-13 anni venne a Roma ad
educarsi presoo le migliori scuole di grammatica e retorica: a segnarlo fu
l’incontro col filosofo stoico Anneo Cornuto, che lo mise in contatto con gli
ambienti dell’opposizione senatoria (P. legò soprattutto con Tràsea Peto). La
conversione alla filosofia lo portò a condurre una vita austera e appartata, nel
culto degli studi e degli affetti familiari. Fu Cornuto ad incoraggiarlo
alla poesia e a ritoccare le "Satire" per l’edizione, postuma, curata da Cesio
Basso.
OPERA. P. scrisse "Satire", in numero di 6, in esametri
dattilici, precedute da un proemio di 14 versi "coliambi", che polemizza
aspramente contro le mode letterarie del tempo. La I satira illustra i vizi
deplorevoli della poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si
accompagna, cui il poeta oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi,
rivolti ad uomini liberi; la II attacca la religiosità formale ed ipocrita; la
III biasima un giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi alla morale stoica; la
IV illustra la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum" per chi
ambisca alla carriera politica; la V, rivolta a Cornuto, svolge il tema della
libertà secondo il saggio stoico, ch’è consapevolezza razionale; la VI, infine,
rivolta a C. Basso, deplora l’avarizia, cui contrappone al "moderazione" propria
degli stoici.
CONSIDERAZIONI. P., imbevuto dell’ambiente stoico e
lontano dalle esperienze della vita, parla col tono del moralista intransigente,
ma astratto; così, gli uomini diventano pretesto per una denuncia e per un esame
"scientifico" (esemplato sui manuali morali del tempo) e "fenomenologico" del
vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un lessico, come dire, "corporale"),
col risultato di mettere a fuoco, anziché l’uomo, il suo comportamento
tipizzato: la sua poesia è dunque anzitutto ispirata da una forte esigenza
etica; ma un’etica distruttiva, o solo marginalmente costruttiva (sono poche,
cioè, le indicazioni del "recte vivere"). Ma non è solo esuberante esercizio
di moralismo filosofico: bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori
esemplari, nel loro intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che
altro come "antimodello", nel senso che in P. il rapporto
"maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in una reciproca
"incomprensione", che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla
tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un "barocchismo"
macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio: il
monologo della confessione. L’esigenza realistica è all’origine della scelta
di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della tecnica della
"iunctura acris" (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal punto di vista
fonico che soprattutto semantico) e quindi si "deformi", condizione necessaria
ad esprimere verità profonde e accecanti: l’oscurità è dunque, più che altro,
una scelta estetica.
Decimo Giunio Giovenale (Equino, 50/65 – 140
ca d.C.)
VITA. Della sua biografia ignoriamo quasi tutto. Ciò che è
possibile ricostruirne non può che reggere su ipotesi. Adottato da un ricco
liberto, fu probabilmente soldato e poi maestro di scuola, prima di redigere, a
Roma, le 16 "Satire" che compongono la sua opera. Forse esercitò l’avvocatura,
probabilmente con scarso successo. Visse nella disagiata condizione di
"cliente", come il suo amico Marziale, conobbe rovesci di carriera, e fu mandato
in esilio, in una remota guarnigione dell'Egitto. E in esilio sarebbe morto.
Queste sono tutte cose che si possono dedurre dalla sua opera, a meno che
non si tratti, nei brani dove si pensa di cogliere un'allusione, di semplici
finzioni letterarie.
OPERA. Torna al sommario G. scrisse "Satire"
(100-127 d.C.?), in numero di 16 (l’ultima è incompleta), pubblicate – forse da
lui stesso – in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando il
clima politico lo permise. Nella I satira, proemio programmatico, il poeta
afferma che il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge a scrivere,
e che però, per evitare le più che certe reazioni violente degli uomini del suo
tempo, parlerà dell’immoralità dei tempi passati; la II bersaglia l’ipocrisia in
generale, l’omosessualità in particolare (come la IX); la III parla di Umbricio,
amico di G., costretto ad allontanarsi da Roma perché non resiste al caos e allo
spettacolo dei vizi che la inquinano; la IV, sferzante, è contro la
cortigianeria e lo stupido uso del potere in cui narra la storia di un grosso
rombo che si fa pescare per essere offerto a Domiziano che convoca un consiglio
di militari per decidere in che modo cuocerlo; la V descrive l’umile condizione
dei "clienti" e l’arroganza dei padroni durante i banchetti (cui contrappone il
proprio, frugale, nell’ XI); la VI, la più lunga e certamente la più famosa,
costituisce un attacco veemente contro i vizi delle donne, tutte corrotte,
nobili o di umili origini che siano (è la satira che ha fatto passare alla
storia la moglie dell’Imperatore Claudio, la celeberrima Messalina, come esempio
di donna dissoluta e depravata); la VII depreca la triste condizione dei
letterati, in tempo di assente mecenatismo; l’ VIII afferma che l’unica vera
nobiltà è quella dell’anima, che agisce secondo virtù e che è lontana dagli
eccessi (com’è ribadito nella X); la XII si scaglia contro chi cerca la
ricchezza ad ogni costo, in questo caso attraverso la "caccia" ai testamenti; la
XIII consola l’amico di G., Calvino che, fiducioso, ha prestato denaro che poi
non gli è stato restituito; la XIV tratta della responsabilità dei genitori
nell’educazione dei figli, da attuarsi non con l’imposizione, ma soprattutto
tramite l’esempio; la XV attacca le superstizioni religiose; la XVI elenca i
privilegi della vita militare.
CONSIDERAZIONI. G. non crede che la
sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede
irrimediabili della corruzione: la sua satira si limiterà a denunciare, a
gridare la sua protesta astiosa ("indignatio", placata – apparentemente? - solo
verso la fine, nelle satire XV e XVI), senza coltivare illusioni di riscatto,
rifiutando in toto la connotazione consolatoria del pensiero moralistico
tradizionale romano. L’invettiva e il sarcasmo di G., allora, sono rivolti
contro tutto il "sistema" (soprattutto nei suoi gangli rappresentativi), quel
sistema che lo ha emarginato (il "democraticismo" del poeta è così solo
apparente) e che gli fa rimpiangere, ed idealizzare, la tradizione nazionale e
repubblicana, coi suoi valori morali e politici, oramai mortificati. Nella
civiltà che gli sta intorno, G. ha in orrore tutto ciò che non è "romano", nella
buona tradizione del termine. Detesta gli orientali, l'ellenismo, i liberti
arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio, sottrae ai romani le proprie
conquiste. Ma non detesta meno i senatori che non hanno il coraggio di opporsi
al tiranno, o le donne che si fanno beffe della fedeltà coniugale e rendono la
vita del proprio marito un lungo martirio. In ogni modo, combatte con pari
vigore tanto i vizi e le semplici forme di ridicolaggine, la donna che pratica
aborti come la pedante. Per cui ci si può chiedere fino a che punto queste
satire non siano anzitutto delle "amplificazioni", espressioni volontarie di
estremismo, che non meritano di essere confuse con delle testimonianze
obiettive. Le Satire recano l'impronta della retorica. Declamatore, G. lo è
per i temi che affronta ("luoghi comuni" sui costumi del tempo, la povertà, la
ricchezza, ecc), e più ancora per il tono che lo distingue, fatto di una
virulenza appassionata e di un'eloquenza che hanno contribuito a modificare
fortemente l'evoluzione del genere satirico. E alla violenza dell’ "indignatio"
(e alla mostruosità del mondo che ne è oggetto) s’addice – per contrasto –
un’altezza di tono e una grandiosità di stile che accostano la satira –
rivoluzionariamente – alla tragedia, analogamente "sublime". Infine, del
nostro poeta sono i celeberrimi detti che vanno dall’ottimistica "mens sana in
corporae sano" agli amari "set quis custodiet ipsos custodes ?" e "panem et
circences" di cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi d’altro,
secondo lui, appunto che di mangiare e divertirsi.
Publio Papinio
Stazio (Napoli 45 ca – 96 d.C.)
VITA. Figlio di un maestro di
scuola napoletano, S. incarna la figura del poeta "professionista". Si trasferì
a Roma per tentare la fortuna durante l'impero di Domiziano. In breve, si
guadagnò – nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche - il favore del
pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi protettori. D'ingegno
duttile e versatile, in questo primo periodo compose libretti per mimi e, oltre
al suo primo poema epico, la "Tebaide", alcune "Silvae", componimenti lirici di
circostanza in uno stile facile ed elegante. Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante
le preghiere insistenti della moglie Claudia, una musicista, decise di
abbandonare la città per far ritorno in Campania. Vi condusse lo stesso genere
di esistenza di poeta mondano al servizio dei nobili romani, che vi approdavano
in massa per i loro soggiorni sotto il cielo di Napoli. In questo periodo
della sua attività, scrisse alcune "Silvae" e una seconda epopea, l'
"Achilleide", che non gli fu possibile compiere.
OPERE. *"Tebaide"
(pubblicata nel 92). E’ in 12 libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle
e Polinice per la successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è
mitologico, dotato di un complesso apparato divino, la sostanza del contenuto
riporta irresistibilmente verso la "Farsaglia" di Lucano). In un insolito
epilogo programmatico, S. dichiara di avere un modello altissimo, coi dovuti
rispetti: l "Eneide", di cui le due esadi ne riproducono fedelmente la metà
iliadica di preparazione e quella odisseica. I modelli poetici sono legione:
S. dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Antimaco di Colofone e
Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici o di loro riassunti. Talora
(oltre che l’Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti:
Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco; infine, lo stile narrativo e la
metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del
mondo dell’influsso di Seneca. Insomma, proprio qui – ovvero nel contrasto
tra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti – sta il
vero centro dell’ispirazione epica di S. . Posta sotto tale costellazione di
influssi, l’opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico è
piuttosto l’ossessiva ricorsività di motivi e atmosfere: tutta la storia è
dominata da una ferrea "necessità universale" (la cui funzione è enfatizzata in
un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le cose,
gli uomini e le stesse divinità (è qui che S. si avvicina invece più a
Lucano). *"Achilleide" (interrotta all'inizio del II libro dalla morte del
poeta). Poema epico sull’educazione e le vicende della vita di Achille, fino
alla sua partenza per Troia. Il tono è più disteso ed idillico che nella barocca
"Tebaide". *"Silvae" ("schizzi"?). Una raccolta di 32 poesie in 5 libri di
metro vario (dall’esametro ai versi lirici) e temi occasionali (epitalami,
descrizioni di ville e di terme, di statue e di altri oggetti artistici,
epicedi, epistole poetiche, invocazioni…). Esse ci hanno conservato preziose
immagini dell’alta società romana (della sua "mentalità") e dell’ambiente di
corte; e il poeta si propone quasi quale supervisore sistematico dei pubblici
sentimenti o si atteggia a cantore orfico integrato nella comunità (da qui la
patina cortigiana e conformistica di tutto l’insieme).
CONSIDERAZIONI.
S. è un poeta erudito, un cantore della poesia sentimentale e preziosa,
addirittura "estetizzante" (a suo proposito, si è parlato di "retorica della
dolcezza"). I suoi componimenti epici sono pieni di riferimenti letterari,
le leggende da lui trattate sono in molti casi oscure. In questo, egli si mostra
discepolo lontano degli alessandrini, e spirito alessandrino è quello che
appunto si ritrova nell'abbondanza degli episodi minuti, delle "miniature"
sentimentali o pittoresche (si pensi alla condanna pronunciata da Orazio contro
i poeti di tale scuola, "incapaci di comporre l'insieme di
un'opera"). Nonostante la sua volontà di imitare Virgilio, S., ne fosse
cosciente o meno, discende dalla tradizione ovidiana, quella che un giorno verrà
rappresentata dalle "Dionisiache" di Nonno.
Caio Valerio Flacco Balbo
Setino (m. 93 d.C.?)
VITA. Nulla si sa di lui, tranne che fu
"quidecemvir". La sua attività si compie sotto l'impero di Domiziano. non visse
abbastanza a lungo per portare a termine il suo poema delle
"Argonautiche".
OPERA E CONSIDERAZIONI. In tacita polemica con Lucano,
che aveva trattato un tema d’attualità, F. tornò al mito e scrisse un poema
epico mitologico in esametri, dedicato a Vespasiano: "Argonautica", iniziato
verso l’80, interrotto bruscamente al libro VIII. La materia, derivata
liberamente dall’omonimo poema di Apollonio Rodio, racconta la conquista del
vello d’oro (e nell’enfasi sul dominio del mare c’è forse un riferimento
all’deologia vespasianea) e la passione di Medea per Giasone: nei punti in cui
F. segue da vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata dalla
ricerca dell’effetto, per ottenere il coinvolgimento emotivo del
destinatario. Dopo Apollonio Rodio, il tema rientrava nel repertorio
dell'epopea ellenistica. Nell'Eneide, Virgilio non aveva trascurato d'ispirarsi
a questo modello, cosicché F. ritrova, indirettamente, un'ispirazione ellenica
tramite la creazione virgiliana, che spinge il nostro ad una poetica, come dire,
"reazionaria", nell’apparato mitologico e divino e nell’impostazione edificante.
L'elemento romano è rappresentato dal tentativo del poeta di comparare
l'impresa degli argonauti a quella di Vespasiano che esplora i mari intorno alla
Bretagna. Più sensibilmente stoica di quanto non fosse già in Virgilio, è la
presenza di Giove come provvidenza, aspetto per il quale F. subiva l'influenza
del pensiero contemporaneo. E’ evidente, inoltre, che il poeta ha conosciuto e
apprezzato le tragedie romane, in modo particolare, forse, quelle di Seneca.
Come quest'ultimo, si mostra sensibile alla poesia "cosmica". Le evocazioni del
cielo stellato, dei venti, del mare sono introdotte non tanto come forme
spettacolari, quanto come presenze di forze naturali. Discepolo dei poeti
tragici, F. lo è anche nelle sue motivazioni psicologiche (il che fa pensare a
Lucano), e nel dar valore all'eroe (Giasone, eccetera) quale eroe universale,
mentre nell' "Eneide" esso era collegato maggiormente al suo contesto religioso
e sociale. Questa poesia "riflessa" ed elaborata – talora "manieristica" –
rischia a volte di disperdersi sotto tali molteplici spinte, non sempre
armonizzate: ma se F. fallisce spesso nella creazione di strutture narrative
articolate, di converso appare elegante e raffinato nel particolare, nel
dettaglio descrittivo, nella notazione psicologica (la narrazione, nell’opera,
esaspera la propensione virgiliana allo stile soggettivo e alla
"psicologizzazione" del racconto). Da tutto ciò, risulta un testo narrativo
assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come estremamente dotto
anche per quanto riguarda la sua destinazione.
Tiberio Cazio Asconio
Silio Italico (Padova?, 25 ca – Campania 101 d.C.)
VITA. Senatore,
cortigiano di Nerone, consolo nel 68, noto durante i periodi più cupi della
tirannide come delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d'Asia; coltivò la
poesia nella vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male
incurabile, si lasciò morire di fame.
OPERA E CONSIDERAZIONI. *La sua
opera maggiore è un poema epico sulle guerre puniche ("Punica") in 17 libri,
ricostruzione della guerra di Roma contro Annibale, dalla spedizione di questi
in Spagna al trionfo di Scipione dopo Zama. *Il tema, già trattato da Ennio,
preannunciato in qualche modo dal "Bellum Punicum" di Nevio, era questa volta
ripresentato in stile virgiliano. Ma la presenza sensibile dell'epopea
"annalistica" permane: S. non ha saputo liberarsi dai quadri storici, e ciò
produce una specie di miscela di due estetiche, che mette allo scoperto per
intero l'apparato del "meraviglioso" di tipo "omerico", come un complesso di
artifici ormai sorpassati. Seppure la disposizione è "annalistica", non si
può ridurre l’opera ad una semplice versificazione del materiale storico
raccolto ed esposto da Livio nella III decade. Tra le fonti di S. furono
Marrone, Posidonio e Igino; fra le poetiche Ennio (essenzialmente per la già
detta disposizione "annalistica"), Virgilio (essenzialmente per il ricorso a
tutto un apparato mitologico-divino, spesso tuttavia inverosimile) e Lucano (per
le consonanze di taluni "colores" stilistici). *L’opera – che nel suo
complesso si innesta, senza aggiungere molto di nuovo, nel ricco filone della
letteratura patriottica romana – è stata severamente giudicata dalla critica
moderna per la sua macchinosità, l’eccesso di discorsi retorici, la scarsa
poeticità (ma già Plinio il Giovane la disse scritta "più con scrupolo che non
ingegno").
Gaio Plinio Secondo, detto "il Vecchio" (Como, 23-24
d.C – Stabile, odierna Castellammare, 79 d.C.).
VITA. P. apparteneva
all'ordine equestre romano e comandò a lungo uno squadrone di cavalleria sul
Reno. Ricoprì importanti incarichi amministrativi durante i regni di vari
imperatori (Vespasiano e Tito). Prefetto della flotta di Capo Miseno durante il
regno di Tito, egli esercitava ancora questo comando quando trovò la morte,
inghiottito dall'eruzione del Vesuvio che seppellì le città campane nel 79 d.C.
. Una buona parte delle nostre informazioni su di lui ci vengono dalla
corrispondenza di suo nipote e figlio adottivo, Plinio "il Giovane".
OPERE E CONSIDERAZIONI. *Per noi, P. è soprattutto un enciclopedista
le cui straordinarie conoscenze si trovano compendiate nei 37 libri della sua
"Storia naturale", vasta indagine (finita nel 77-78) su tutto ciò che esiste in
natura, e su argomenti che spaziano dall'arte alla medicina. L’opera, aperta
da un’epistola dedicatoria e illustrativa rivolta al futuro imperatore Tito,
inizia con una prefazione e una bibliografia, e continua con la trattazione
dell’astronomia e della geografia (libri II-VI), dell’uomo e degli animali
(VII-IX), della botanica (XII-XIX), della medicina (XX-XXXII), della metallurgia
e mineralogia, con ampi excursus sulla storia dell’arte (XXXIII-XXXVII). P.
si colloca sulla linea di Varrone, ma senza l'ampiezza analitica di
quest'ultimo. E’ piuttosto un collezionista che un pensatore. Le sue idee
filosofiche e religiose, impregnate di stoicismo, non superano i luoghi comuni
abituali del suo tempo, e anzi la mentalità enciclopedica è per lui un
accomodante eclettismo. Mescolando esperienze personali e testimonianze di
fonti antiche in uno stile manierato e talvolta tortuoso (ma giustificato dalla
mole e dall’intento divulgativo dell’opera), P. ci dà – oltre a innumerevoli,
precise e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del tempo
– un esempio unico del profondo umanesimo e della vastità d’interessi della
cultura latina del I sec., nonché una lampante testimonianza della diffusione e
dell’ascesa dei ceti "tecnici" e "professionali", con la relativa domando di
cognizioni appunto tecniche. *Tuttavia, P. non deve la sua fama unicamente a
quest'opera di compilazione. Fu autore anche, come Plinio il Giovane ci
testimonia nel suo elenco, di saggi storici molto stimati, di cui però purtroppo
nulla possediamo: 20 libri su "Le guerre di Germania" (ispirati alle sue
campagne), e 31 "Dalla fine di Aufidio Basso", che riprendevano il filo degli
eventi dal punto in cui si era fermata (gli ultimi anni dell'impero di Tiberio)
l'opera dello storico A. Basso, egli stesso continuatore di Tito Livio. Questi
libri di P. furono una delle fonti di Tacito. Dovrebbe infine aver scritto
anche un "Dubius sermo", ovvero un manuale su problemi linguistici.
Sesto Giulio Frontino (30 ca – 103/4)
Governatore della
Britannia (74-78) e curatore delle acque di Roma (97), si occupò, per scopi
pratici e in uno stile di efficace semplicità (ma con limitate ambizioni
letterarie: si tratta di opere del tipo "Commentarii"), di agrimensura
(dell’opera, in 2 libri, abbiamo estratti), di idraulica (i 2 libri del "De
aquis urbis Romae", buona e concreta trattazione), tecnica militare e strategia
(i 4 libri degli "Strategemata"), esempi appunto di stratagemmi, tratti dalla
storia greco-romana, per battaglie ed assedi; ma l’informazione è generica e
frutto di compilazione non sempre puntuale).
Marco Valerio
Marziale (Bilbilis, Spagna Terragonese 40 d.C. ca – 104
ca)
VITA.
Dopo essere stato educato in patria, giunse a Roma nel 64. Fino a quando non
uscirono di scena in seguito alla congiura dei Pisoni, godette dell'appoggio e
dell'amicizia di due importanti suoi compatrioti: il filosofo Seneca e di suo
nipote, il poeta epico Lucano. Si dedicò all'attività forense, sperando di
trarre rapidi e consistenti vantaggi economici da essa. Le cose, però, andarono
in ben altro modo, e M. si ritrovò a percorrere la difficile strada del cliens,
il cliente. I suoi patroni furono certo poco munifici: M., a corto di soldi,
visse a lungo in una brutta e alta dimora, alla quale, come ci informa lo stesso
poeta, si accedeva dopo tre dure rampe di scale. L'attività poetica gli
consentì, comunque, sotto Tito (80 d.C.) di ottenere da parte dell'imperatore il
titolo onorario di tribuno militare, il rango equestre e benefici economici di
varia natura, in cambio di una raccolta di epigrammi (il "Liber de spectaculis")
volta a celebrare l'inaugurazione in quell'anno dell'Anfiteatro Flavio, il
cosiddetto Colosseo. Ma il vero successo letterario venne a M. solo dopo
l'84-85 con la pubblicazione ininterrotta dei suoi epigrammi: essa durò fino al
98, quando, sotto l'imperatore Neva, lasciò Roma per ritornare in patria (le
spese del viaggio furono pagate da un importante uomo di cultura del tempo,
Plinio il Giovane). In Spagna, nella sua Bilbilis, si godette un podere
donatogli da una ricca vedova e devota ammiratrice, Marcella. M. si attendeva di
trovare al suo ritorno il mondo e gli amici della giovinezza, ma, senza più
questi, e dopo anni trascorsi nella turbolenta, ma vivace vita della Capitale,
Bilbilis e il suo meschino ambiente di provincia finirono ben presto per
stancarlo. Pubblicò nel 101 il suo ultimo libro di epigrammi, ma continuò a
rimpiangere Roma, fino alla morte.
OPERE. Ci resta una raccolta di
"Epigrammi" distribuiti in 12 libri composti e via via pubblicati fra l'86 e il
102. Tale corpo centrale è preceduto da un altro libro a sé di una trentina di
epigrammi, il "Liber Spectaculorum", e seguito da altri 2 libri (84 – 85 d.C.)
anch'essi autonomi, lo "Xenia" (distici destinati ad accompagnare i "doni per
amici e parenti" nelle feste dei Saturnali) e gli "Apophoreta" (coppie di
distici di accompagnamento agli omaggi offerti nei banchetti e "portati via" dai
convitati). La disposizione attuale dell’intera raccolta riproduce probabilmente
quella di un’edizione antica postuma. Nell’ordinare gli epigrammi, M. li ha
distribuiti in modo equilibrato, secondo il topos della "varietas", secondo il
metro e l’estensione, attento soprattutto ad evitare ripetitività e piattezza.
Così, i metri sono vari: accanto al distico elegiaco sono frequenti anche
falecio e scazonte, ma non mancano altri metri diversi. Varie sono anche le
dimensioni dei componimenti: dall'epigramma di un solo distico o di un solo
verso a quelli di dieci e più versi, fino ad alcune decine. In totale gli
epigrammi sono più di 1500, con un complesso di 10000
versi.
CONSIDERAZIONI. Un aspetto importante della cultura letteraria
dell'età flavia, nel clima di restaurazione morale, è la tendenza al recupero
del genero poetico più alto, ossia l'epica, ma anche alla diffusione e al
successo di un genere come l'epigramma, che è considerato il più umile di tutti.
In realtà non vi era una tradizione che riguardasse gli epigrammi: solo
Catullo svolge una funzione importante di mediazione fra cultura greca e latina
nella storia di questo genere letterario. L'origine dell'epigramma risale
all'età greca arcaica, dove la sua funzione era essenzialmente commemorativa:
era inciso ad esempio su pietre tombali o su offerte votive. In età ellenistica
però l'epigramma, pur conservando la sua caratteristica brevità, mostra di
essersi emancipato dalla forma epigrafica e dalla destinazione pratica: è un
tipo di componimento adatto alla poesia d'occasione, a fissare nel giro di pochi
versi l'impressione di un momento. I temi sono di tipo leggero: erotico,
satirico, parodistico, accanto a quelli più tradizionali, ad esempio di
carattere funebre. Nell'ambito della poesia latina, l'epigramma non aveva
una grande tradizione, e di essa ben poco ci è rimasto: con l'eccezione di
Catullo, quasi nulla sappiamo dei poeti che M. indica come suoi auctores. A Roma
è Catullo che valorizza la forma breve come la più idonea a esprimere
sentimenti, gusti, passioni, cioè temi della vita individuale, nonché a farsi
strumento di vivace aggressione polemica. M. farà dell'epigramma il suo
genere esclusivo, l'unica forma della sua poesia, apprezzandone soprattutto la
duttilità, la facilità ad aderire ai molteplici aspetti del reale. Questi sono i
pregi che egli contrappone ai generi illustri, all'epos e alla tragedia, coi
loro toni seriosi e i loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche
tanti lontane dalla realtà della vita quotidiana. E' proprio il realismo,
l'aderenza alla vita concreta, che marziale rivendica come tratto caratteristico
della sua poesia. Un tipo di poesia, quindi, che coniuga fruibilità pratica e
divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo della
realtà quotidiana con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Nelle scene si
riscontrano sempre le stesse tipologie di personaggi: i parassiti, i ladri, gli
spilorci, gli imbroglioni, i medici pericolosi e così via. Tali deformazioni
grottesche sono frutto di una tecnica di rappresentazione molto ravvicinata, un
effetto ottico che focalizza singoli personaggi negando loro uno sfondo, un
contorno, come se, per meglio mostrarli, fossero strappati al contesto, come
fossero sospesi nel vuoto. L'atteggiamento del poeta è però quello di un
osservatore attento ma per lo più distaccato. *I temi degli epigrammi di M.
sono vari: accanto a quelli più radicati nella tradizione, altri riguardano più
da vicino le vicende personali del poeta o il costume della società del tempo.
M. sviluppa fortemente l'aspetto comico satirico, proseguendo un processo
avviato dal poeta greco di età neroniana Lucilio, che aveva conferito largo
spazio a personaggi caratterizzati da vistosi difetti fisici, a tipi e caratteri
sociali rappresentati comicamente, e si inserisce nella tradizione satirica
romana, attenta all'analisi del costume sociale e pronta a tratteggiarne i
caratteri più rappresentativi. Ma M. copia da Lucilio anche alcuni procedimenti
formali, come ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che
chiude in maniera brillante il breve giro di pensiero. Le forme composite
sono svariate, ma generalmente si riconducono ad uno schema fisso, basato su una
prima parte, che descrive la situazione, l'oggetto e il personaggio, suscitando
nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che scarica quella
tensione in un paradosso, in un fulmine. *La struttura dell'epigramma. Il
discorso che segue investe in modo particolare gli epigrammi di M. destinati
alla satira sociale. In essi confluiscono, dando vita ad un tipo di composizione
originalissima ed insuperata, apporti della precedente tradizione epigrammatica:
di quella ellenistica per quanto riguarda l'arguzia e la fine ironia che li
pervade, di quella latina repubblicana (Catullo) per la loro aggressiva
vivacità, di quella latina imperiale (Lucillio, epigrammatista dell'età di
Nerone) per la rappresentazione comica di difetti fisici, di tipi e caratteri
sociali. In questo tipo di epigramma è possibile, schematizzando, enucleare
le seguenti caratteristiche: a) il poeta spesso si rivolge alla vittima
dell'epigramma (di regola persona fittizia o comunque non individuabile) o a una
terza persona (che può essere reale o fittizia) cui addita la figura o il
comportamento del personaggio colpito; b) l'epigramma è solitamente breve
(molto raramente di un solo verso, solitamente da 2 a 10 versi, ma vi sono anche
numerosi epigrammi di più di 20 versi, fino ad un massimo di 51 versi); c)
compaiono quasi sempre apostrofi, interrogazioni, movimenti di dialogo che
devono dare l'impressione di un intervento diretto del poeta in una certa
situazione, davanti a un interlocutore; d) la sinteticità caratterizza la
delineazione della situazione o del tipo. Altre volte ci sono quadri più ampi,
di notevole impegno e complessità, in cui M. dà prova di grandi capacità di
rappresentazione realistica; e) M. ottiene effetti particolarmente felici nel
finale dell'epigramma, che a volte riassume i termini di una situazione in una
formulazione estremamente incisiva e pregnante, altre volte li porta a una
comica iperbole, altre volte li costringe a un esito assurdo o a un paradosso,
altre volte li pone all'improvviso sotto una luce diversa e rivelatrice (è l'
"effetto di sorpresa", per cui M. è particolarmente celebre). Insomma, il
pubblico (ed è questo il segreto del successo) vi ritrovava, da parte sua, la
propria esperienza filtrata e nobilitata da una forma artistica dotata appunto
di agilità e pregnanza espressiva, aperta alla vivacità dei modo colloquiali e
alla ricchezza del lessico quotidiano (a volte degenerante in un vero e proprio
"realismo osceno"), ma capace anche – all’occorrenza – di limpida sobrietà, se
non addirittura di ricercatezza. Tali caratteristiche compaiono in epigrammi
dalla diversa strutturazione. Il Lessing individuò come schema-tipo
dell'epigramma di M. e, più in generale, del genere epigrammatico, lo schema
bipartito "attesa"/"spiegazione conclusiva". Nella prima parte il poeta,
attraverso la rappresentazione di una situazione o la descrizione di un
personaggio crea nel lettore un'aspettativa, la quale viene soddisfatta dalla
battuta conclusiva, tanto più efficace quanto più lontana dalla previsione del
lettore (effetto di sorpresa). Si può senz'altro, a distanza di tantissimi
anni, utilizzare ancora con profitto la distinzione lessinghiana, a patto, però,
di non farne un idolo critico-letterario. Infatti non si può negare la presenza
per l'epigramma di M. di altre possibilità strutturali. V'è, per esempio,
uno schema bipartito impostato sulla sequenza: "attesa: quesito"/ "spiegazione
conclusiva: risposta". In esso la tensione di attesa è suscitata non già da una
descrizione, bensì da un quesito, rispetto al quale la spiegazione finale
costituisce risposta. Spesso, però, la bipartizione lascia il posto allo
schema tripartito nel quale la "spiegazione finale" costituisce la risposta ad
un precedente quesito, scaturito a sua volta dalla descrizione contenuta
nell'attesa: " attesa " / " quesito " / " spiegazione conclusiva: risposta ".
Qualche volta la tripartizione fa seguire all'attesa descrittiva
l'accettazione da parte del poeta dei concetti e delle situazioni in essa
delineati, salvo poi revocare in dubbio tale accettazione, con la precisazione
di nuovi, sorprendenti particolari:" attesa " / "accettazione" / "revoca in
dubbio".
Marco Fabio Quintiliano (Calahorra, Spagna 35 ca – Roma 95 ca
d.C.)
VITA. Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di
illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l’insegnamento e l’avvocatura
con notevole successo, finchè fu richiamato a Roma da Galba, nel 68 d.C., dove
incominciò la sua attività di maestro di retorica (con tanto successo che nel 78
Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale). Vespasiano gli accordò un
onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così riconoscimento all'importanza
dell'arte retorica nella formazione della gioventù. Fra i suoi numerosi
allievi ebbe Plinio il Giovane e, forse, tacito; Domiziano lo incaricò
dell’educazione dei suoi nipoti, cosa che gli valse gli "ornamenta
consolatoria". Nell’88 si ritirò da tutto per darsi completamente agli
studi.
OPERE. Di Q. è andato perduto un trattato "De causis corruptae
eloquentiae", così come le "Artes rethoricae", sorta di dispense. Spurie le due
raccolte di "declamazioni" ("maiores" e "minores"). Ma il suo capolavoro è l’
"Institutio oratoria" (93-96 d.C.), che compendia l'esperienza di un
insegnamento che durò vent'anni (dal 70 al 90 ca). E’ un manuale sistematico, 1n
12 libri e pervenutoci integro, che si delinea come un programma complessivo di
formazione culturale e morale che il futuro oratore deve seguire scrupolosamente
dall’infanzia fino al momento in cui avrà acquistato qualità e mezzi per
affrontare un uditorio (e ciò, in risposta alla corruzione contemporanea
dell’eloquenza, che Q. vede in temi moralistici, e per la quale addita come
rimedi il risanamento dei costumi e soprattutto la rifondazione delle
scuole). Il I libro fa parte a sé, e tratta di problemi vari di pedagogia. Il
II chiarisce la didattica del rètore, consiglia la lettura di autori "optimi",
né troppo antichi né troppo moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro
declamazioni attinenti alla vita reale (e che puntassero comunque alla "sostanza
delle cose"), con un linguaggio semplice ed appropriato. I libri dal III al VII
trattano dell’ "inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti
da inserire nelle cause e l’arte di distribuirli; i libri dall’VIII al X, dell’
"elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell’orazione. Il X libro insegna
i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura nell’espressione
(prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Q. inserisce qui un
famoso excursus storico-letterario sugli scrittori greci e latini – di uguali
meriti – preziosa testimonianza sui canoni critici dell’antichità: ma i giudizi
hanno un carattere esclusivamente retorico). L’XI libro parla della "memoria" e
dell’ "actio", cioè dell’arte di tenere a mente i discorsi e di porgerli. Il XII
presenta, infine, la figura dell’oratore ideale.
CONSIDERAZIONI. Pur
nella nuova situazione politica, in un impero unitario e pacificato, Q.
ripropone il modello di oratore di età repubblicana, di stampo
catoniano-ciceroniano; è nel recupero dell’oratoria per un nuovo spazio di
missione civile il vero scopo di Q., in cui si risolve la problematica dei
rapporti fra oratore e principe tracciata nel XII libro e tacciata – così
ingiustamente – di servilismo. Nel suo tentativo particolare di "recupero
formale" della retorica, poi, Q. si oppone da un lato agli eccessi del "Nuovo
Stile", cioè della nuova prosa di tipo senecano e allo stile acceso delle
declamazioni (che mirano a "movere" più che a "docere"), dall’altro al troppo
scarno gusto arcaistico: e propone anche qui il modello di Cicerone (modello di
sanità di espressione ch’è insieme sintomo di saldezza di costumi),
reinterpretato ai fini di un’ideale equidistanza fra asciuttezza e
ampollosità. L’autore, però, sia in teoria, sia soprattutto nella pratica
della sua prosa, concessioni al nuovo gusto per l’irregolarità e per il colore
vivace.
Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto il Giovane (Como 61/62 –
112/3 d.C.)
VITA. Orfano di padre, venne adottato da Plinio il Veccio,
suo zio materno (da cui il nome); a Roma studiò retorica sotto la guida di
Quintiliano e di N. Sacerdote. Incominciò presto la carriera forense, con
notevoli successi, e il "cursus honorum", che culminò nella nomina a "prefetto
dell’erario" (98) e "consul suffectus", sotto Traiano. Questi lo nominò suo
legato in Bitinia (111).
OPERE E CONSIDERAZIONI. *Considerato dai
contemporanei (ancor più da se stesso) un oratore di primo piano, pronunciò
nell'anno 100 il "Panegyricus" ufficiale dell'imperatore Traiano e questo
saggio, di cui disponiamo, ci permette di giudicare delle sue qualità
nell'eloquenza ufficiale. La sua frase è ampia, lunga e sinuosa; il pensiero
aggrovigliato e, per lo più, banale. Ma bisogna mitigare questa impressione
sfavorevole, tenendo conto che il genere aveva le sue esigenze, la prima delle
quali era che l'allusione dovesse prevalere sulle affermazioni, e che
era necessario insinuare e pericoloso parlare troppo e chiaro. Ci si avvede,
quindi, che P., in questo genere, è un maestro. Dalle sue parole emerge
un'immagine dell'imperatore che corrisponde esattamente al modo in cui Traiano
desiderava vedersi con i suoi occhi. L'eloquenza diventa una specie di lavoro
poetico, esattamente ciò che Platone, in passato, temeva che potesse divenire:
maestra di illusione e di menzogna. Il "panegirico", comunque, risulta
interessante – oltre che per essere l’unico esempio di oratoria romana nella I
età imperiale - quanto meno per l’importante auspicio, contenutovi, di un
periodo di rinnovata e costruttiva collaborazione tra imperatore, senato e ceto
equestre 8con qualche ingenuità, P. sembra rivendicare per sé una sorta di
funzione "pedagogica" nei confronti del Principe). *E’ probabile però che
l'eloquenza giudiziaria di P. (fu un avvocato di grido) fosse di diversa
qualità, giacché egli ci appare nelle sue "Epistulae" (parte fondamentale della
sua opera) un onest'uomo, anche piuttosto scrupoloso (perlomeno quando scrive a
Traiano, durante l'esercizio della carica di governo in Bitinia, per chiedergli
consigli sul comportamento da adottare nei confronti dei suoi
amministrati). Le "Lettere" sono in 10 libri: i primi 9, raccolti e ordinati
dallo stesso P. per consiglio di Setticio, contengono lettere di indole privata,
indirizzate ad amici e (meno) a parenti. Si presentano come veri e propri saggi
brevi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile (di cui, visto il
suo status, egli è osservatore privilegiato). Il X libro, pubblicato postumo, è
riservato al carteggio ufficiale intercorso, come detto, tra P. e Traiano. I
libri su citati, non meno di quest’ultimo, rivelano nella forma (il modello è
Cicerone, con accenni di "maniera" una ricercatezza e una lisciatura che
direbbero da sole – quand’anche l’autore stesso non lo avvertisse col suo "paulo
maiore cura" – che sono state rivedute per affrontare il giudizio del pubblico:
ben lo testimonia l’ordinamento interno, attento alla "variatio" degli
argomenti. Il nostro mostra notevoli interessi verso le cose intellettuali,
in particolare per la filosofia, ma più con lo spirito del dilettante che con
quello del vero filosofo. Inoltre, ci offre un esempio esauriente della cultura
"umanistica", così come era concepita al suo tempo. E’ un po' poeta: scrive
brevi componimenti in versi ("endecasillabi" ora perduti), rivolge la propria
curiosità verso i fenomeni naturali, ma senza cercare di approfondire nulla. E’
possibile valutare ciò che la perdita della libertà ha potuto produrre nello
spirito romano se si paragonano queste sue Lettere con l'Epistolario di
Cicerone.
Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito (55 d.C.? ca – 120
ca)
VITA. T. nacque nella Gallia Narbonese, da una famiglia di ordine
equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola,
statista e comandante militare. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e
la proseguì sotto Tito e Domiziano. Questore nell’81-82 e pretore nell'88, fu
per qualche anno lontano da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia o in
Germania. Nel 97 fu console e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il
console morto durante l'anno in carica. Abbandonò poi decisamente oratoria e
politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d’Asia, nel 112-113) per
dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico di Plinio il
Giovane.
OPERE. "Dialogus de oratoribus", dell’ 80 ca o di poco
successivo al 100; è comunque dedicato a Fabio Giusto; "De Vita Agricolae",
pubblicato nel 98; "De origine et situ Germanorum" o "Germania", dello stesso
anno?; "Historiae", composte tra il 100 e il 110, in 12 o 14 libri di cui
però ci sono pervenuti solo i primi 4 e metà del V; "Annales" o "Ab excessu
divi Augusti", del 100-117?, comunque successivi alle "Historie", in 16 o 18
libri, di cui ci rimane, però, l'opera incompleta: i primi 4 libri, alcuni
frammenti del V e del VI (mancante forse del principio) che trattano del regno
di Tiberio; infine, gli ultimi 6, concernenti Nerone, ma per lo più
lacunosi.
CONTENUTI E COMMENTI DELLE OPERE. *"Dialogus de
oratoribus": le cause della decadenza dell'oratoria. Il "Dialogus de
oratoribus" non è probabilmente la prima opera di T.: la tesi che oggi prevale è
che sia stato composto dopo la "Germania" e dopo l' "Agricola". Il periodo di
tale opera ricorda infatti il modello neociceroniano forbito ma non prolisso,
cui si ispirava l'insegnamento della scuola di Quintilliano: per questo c'è chi
suppone che l'opera sia stata scritta quando T. era ancora giovane e legato alle
predilezioni classicheggianti della scuola di Quintilliano. Se questa ipotesi
fosse vera, resta il fatto che l'opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la
morte di Domiziano. Ambientato nel 75 o nel 77, si riallaccia alla
tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici.
Riferisce di una discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui stesso,
Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento si
contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è la maschera dietro cui
si nasconde lo stesso T.), in difesa rispettivamente dell'eloquenza e della
poesia. L'andamento del dibattito subisce una svolta con l'arrivo di Messalla,
spostandosi sul tema della decadenza dell'oratoria, la cui causa è il
deterioramento dell'educazione. Il dialogo si conclude con il discorso di
Materno: egli sostiene che una grande oratoria forse era possibile solo con la
libertà, o piuttosto con l'anarchia; diviene invece anacronistica e noiosa in
una società tranquilla come quella conseguente all'instaurazione dell'Impero,
caratterizzata dalla degenerazione sociale, politica e culturale. L'opinione
attribuita a Materno rispecchia il pensiero di T.: egli, infatti, nonostante
tutto, sente la necessità dell'Impero come unica forza in grado di salvare lo
stato dal caos delle guerre civili, di garantire insomma la pace, anche se il
principato restringe lo spazio per l'oratore e l'uomo politico. *"Agricola"
e la sterilità dell'opposizione. Verso gli inizi del regno di Traiano T.
approfittò del ripristino dell'atmosfera di libertà dopo la tirannide per
pubblicare il suo primo opuscolo storico, la sua prima monografia, che tramanda
ai posteri la memoria del suocero Giulio Agricola. Per il suo tono encomiastico,
lo stile di quest'opera si avvicina a quello delle laudationes funebri. Dopo un
riassunto della vita del protagonista, si sofferma sulla conquista della
Britannia, lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche ed etniche.
Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio: la Britannia è
soprattutto un campo in cui si dispiega la virtus di Agricola, il teatro delle
sue imprese. T. mette in risalto come il suocero avesse saputo servire lo Stato
con fedeltà e onestà anche sotto un pessimo principe come Domiziano. Anche nella
morte Agricola mantiene la sua rettitudine: egli lascia la vita in silenzio,
senza andare in cerca della gloria di un martirio ostentato. L'esempio di
Agricola indica come anche sotto la tirannide sia possibile percorrere la via
mediana (la vera virtù è appunto la "moderazione") fra quelle del martirio e
della indecenza. L' "Agricola" si può considerare come un punto di intersezione
tra diverse correnti letterarie: si tratta di un panegirico sviluppato in
biografia, di una laudatio funebris integrata con materiali storici ed
etnografici. Notevole è l'influenza di Cicerone soprattutto nella perorazione
finale. *"Germania": virtù dei barbari e corruzione dei romani. Gli
interessi etnografici sono al centro della "Germania", non a caso scritto in
quel particolare momento storico-politico, quando l’agitarsi delle popolazioni
ultrarenane indusse Traiano ad affrontare decisamente il problema germanico:
unica testimonianza, comunque, di una letteratura specificatamente etnografica
che a Roma doveva godere di una certa fortuna. Le considerazioni
etnogeografiche (sui popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio) all'interno
della "Germania" non derivano tuttavia da una visione diretta, ma da fonti
scritte, soprattutto dai "Bella Germaniae" di Plinio il Vecchio, che aveva
prestato servizio nelle armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua fonte con
fedeltà, aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare l'opera: ciò
nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la "Germania" sembra descrivere
abbastanza spesso la situazione come si presentava prima che gli imperatori
flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio. Si può notare
nell'opuscolo di T. l'esaltazione di una civiltà ingenua e primordiale, non
ancora corrotta dai vizi raffinati di una civiltà decadente. Tutta l'opera
sembra percorsa da una vena implicita di contrapposizione dei barbari, ricchi di
energie sane e fresche, ai romani. E molto probabilmente, al di là di ogni
"idealizzazione", T. intendeva sottolineare la loro pericolosità per l'Impero: i
germani potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato
sul servilismo e sulla corruzione. Ovviamente T. parla anche dei molti difetti
di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente barbarico.
*"Historie": i parallelismi della storia. Il progetto di una vasta opera
storica era presente già nell'Agricola, ma nelle "Historiae" tale progetto
appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la narrazione degli
eventi dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica, l'opera nel suo complesso
doveva estendersi fino al 96, l'anno della morte di Domiziano: nel proemio T.
afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei principati di Nerva e di
Traiano. Le "Historiae" descrivono quindi un periodo cupo, sconvolta dalla
guerra civile e concluso con la tirannide: Il I libro parla del breve regno
di Galba; seguono l'uccisione di questo e l'elezione all'Impero di Otone. In
Germania le legioni acclamano però come Imperatore Vitellio. Nel II e III
libro si parla della lotta tra Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e
tra Vitellio e Vespasiano. Quest'ultimo, eletto imperatore in oriente, lascia il
proprio figlio Tito ad affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma
dove si era rifugiato Vitellio, che viene ucciso. Nel IV libro si parla dei
tumulti ad opera dei soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati
in Gallia e in Germania. Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e
dei primi segni di stanchezza mostrati dai ribelli. Nel 69, anno in cui si
apre l'Historiae, vede succedersi 4 imperatori: questo perché il principe poteva
essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si basava principalmente
sull'appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti. T. scrive
a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di
quell'anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato
l'ascesa al potere di Traiano. E' stato notato un certo parallelismo tra questa
e gli avvenimenti del 69:il predecessore di Traiano, Nerva, si era trovato come
Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva traballare le basi del
suo potere, e come Galba aveva designato per "adozione" un suo successore.
L'analogia però si ferma a questo punto: mentre Galba si era scelto come
successore Pisone, un nobile di antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece
consolidato il proprio potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare
autorevole, comandante dell'armata della Germania superiore. Con il discorso
di Galba in occasione dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare
nella figura dell'imperatore il divario fra il modello di comportamento
rigorosamente ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e
controllare gli avvenimenti. Solo l'adozione di una figura come quella di
Traiano placò i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità. Come già
detto, T. è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace e
la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle "Historiae" sottolinea come dopo
la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola persona
si rivelò indispensabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno scellerato
tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Dovrà invece assommare in sé
quelle qualità necessarie per reggere la compagine imperiale, e
contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del ceto
dirigente senatorio. Quindi per T. l'unica soluzione è nel principato moderato
degli imperatori d'adozione. Lo stile delle "Historiae" ha un ritmo vario e
veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di condensazione rispetto ai dati
forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più spesso T. sa conferire
efficacia drammatica alle proprie opere suddividendo il racconto in più scene.
Lo storico è molto bravo nella descrizione delle masse, da cui traspare il
timore misto a disprezzo del senatore per le turbolenze dei soldati e della
feccia della capitale. Le "Historiae" raccontano per la maggior parte fatti
di violenza e di ingiustizia: ciò non toglie che T. sappia tratteggiare in modo
abile i caratteri dei propri personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti
compiuti come quello di Muciano o di Otone. Lo storico insiste sulla
consapevolezza di questo personaggio della sua subalternità nei confronti degli
strati inferiori urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo
la sua capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una virtus inquieta,
che all'inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da
eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un
personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte gloriosa. Nella sua
descrizione T. si affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata, alle
strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi. Egli ama
ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per dare
movimento alla narrazione. *"Annales": le radici del principato. Torna al
sommario Nemmeno nell'ultima fase della sua attività T. mantenne il proposito
di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Egli, negli "Annales",
intraprese il racconto della più antica storia del principato, dalla morte di
Augusto a quella di Nerone. Probabilmente T. intendeva la sua opera come un
proseguimento di quella di Livio: in effetti il titolo presente nei manoscritti
di T. ("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare quello liviano "Ab urbe
condita". Come accennato, degli "Annales" sono conservati i libri I-IV, un
frammento del V e parte del VI, comprendenti il racconto degli avvenimenti dalla
morte di Augusto (14) a quella di Tiberio (37); inoltre sono conservati i libri
XI-XVI, col racconto dei regni di Claudio e di Nerone. Claudio è rappresentato
come un imbelle che dopo la morte della prima moglie Messalina cade nelle mani
del potente liberto Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine fa
avvelenare il marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente
matrimonio. Quindi è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza influenzato
dalle figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro.
Poi acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un
regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e ai spettacoli.
Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre Seneca si ritira a vita privata.
Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma intorno a Gaio Pisone si coagula
un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere il principe. La congiura
di Pisone viene scoperta e repressa. Negli "Annales" T. sembra mantenere la
tesi della necessità del principato: ma il suo orizzonte sembra essersi
notevolmente incupito. La storia del principato è anche la storia del tramonto
della libertà politica dell'aristocrazia senatoria, anch'essa coinvolta in un
processo di decadenza morale e di corruzione. Scarsa simpatia lo storico
presenta anche nei confronti di coloro l'opposta via del martirio,
sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano a mettere in scena suicidi
filosofici. T. conduce il lettore attraverso un territorio umano desolato, senza
luce o speranza. Tuttavia la parte sana dell'élite politica continua a dare il
meglio di sé nel governo delle provincie e nella guida degli eserciti: l'opera
bellica di Germanico risulta grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di
Tiberio. T. alla forte componente tragica della sua storiografia assegna
soprattutto la funzione di scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in
profondità e portarne alla luce le ambiguità e i chiaroscuri. Negli "Annales" si
perfeziona ulteriormente la tecnica del ritratto: il vertice è stato individuato
nel ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè
il ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente
attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti. Un
certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l'esempio più
notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio
nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l'ignavia la fama
che altri acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita contrasta
con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto importanti cariche
pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima voluttà, dando
contemporaneamente prova di autocontrollo e di fermezza. Nello stile degli
"Annales" si assiste ad un allontanamento dalla norma e dalla convenzione, una
ricerca di straniamento che si esprime nel lessico arcaico e solenne. A partire
dal libro XIII, invece, pare registrarsi un’involuzione verso modelli più
tradizionali, meno lontani dai dettami del classicismo: forse il regno di
Nerone, abbastanza vicino nel tempo, richiedeva una trattazione con minore di
stanziamento solenne. Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano
meno eloquenti, più concisi e austeri. Si accentua il gusto della inconcinnitas,
ottenuta soprattutto grazie alla variatio, cioè allineando un'espressione a
un'altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente
strutturata.
CONSIDERAZIONI. *Come si vede, l’opera di T. è tutta
sostenuta da un’esplicita e tesa passione etico-politica e alla partecipazione
delle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo bilancio (soprattutto
nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza monarchica dal punto di
vista di un’intellettuale, il quale benché proclami di voler fare storia in modo
imparziale ("sine ira et studio"), esprime il punto di vista della "sana"
opposizione senatoriale alla pratica imperiale (leitmotiv ne è l’inconciliabile
tensione tra "libertas" e "principatus"). T. individua il "peccato originale"
nella svolta anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata
repubblicana, e denuncia le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur senza
rifiutare totalmente l’istituzione – oramai necessaria per l’unità, l’ordine e
la pace dell’Impero – del "principato". La visione della storia è, infine,
essenzialmente individualistica (tipica della storiografia antica), e fa
discendere la dinamica degli eventi dalla personalità e dalle scelte dei
"grandi". *Ancora aperto è il "problema delle fonti" di T.. Alcuni punti sono
comunque assodati: T. consultò la documentazione ufficiale ("acta senatus", più
o meno i verbali delle sedute; "acta diurna", contenenti gli atti del governo e
notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre a disposizione
raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno "scrupolo" inusuale
tra gli storici antichi. Numerose anche le fonti storiche (Plinio, Vipsiano
Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico…) e letterarie (epistolografia, memorialistica,
libellistica ["Exitus illustrium virorum"]…). Così, al mito dell’utilizzo di
un’unica fonte (almeno per ciascuna sezione delle opere maggiori), si è
sostenuta piuttosto l’idea di una molteplicità di fonti, per giunta talune anche
di opposta tendenza, e utilizzate con una certa libertà.
Gaio
Svetonio Tranquillo (Algeria o Roma, 70? – 14? ca d.C.)
VITA. Nato
da una famiglia dell'ordine equestre, rifiutò tuttavia la carriera di
amministratore o di soldato riservata in genere ai "cavalieri". Uomo dedito agli
studi, intimo amico di Plinio il Giovane, consacrò tutta la sua vita a ricerche
erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone. La sua attività si
limitò quasi interamente al genere biografico. Grazie all'amicizia del
prefetto del pretorio Setticio Claro (un amico di Plinio, sopravvissuto a
quest'ultimo, che aveva continuato a proteggerlo), intorno al 120 S. riuscì
tuttavia a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato della corrispondenza)
nei servizi dell'imperatore Adriano. Ciò gli permise di accedere liberamente
agli archivi del Palatino, per cui le sue informazioni ci hanno permesso di
ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui, sarebbero andati
completamente perduti. Nessun altro storico, infatti, poteva averne conoscenza.
L'incarico di S. presso la corte non durò, tuttavia, molto a lungo. Nel 122,
Adriano lo allontanò perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui fra gli
altri, avevano instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente
dell'imperatrice Sabina.
OPERE. *S. compose un libro sugli uomini
"illustri" della latinità ("De viris illustribus", dopo il 113) e una grande
opera sulla "vita dei Cesari" ("De vita Caesarum", 121 d.C.), pervenutaci
integralmente. *Nella prima di queste opere, S. non limitava la propria
indagine alla cerchia dei politici e dei militari. Un libro era dedicato agli
oratori, un altro ai poeti, altri ancora ai grammatici, ai rètori, ai filosofi,
eccetera. Di questo panorama così vasto a noi restano unicamente le notizie
riguardanti grammatici e rètori, particolarmente preziose per la conoscenza
dell'insegnamento a Roma e della sua storia. Degli altri "capitoli", disponiamo
solo di notizie staccate. Quelle sugli scrittori furono utilizzate da san
Gerolamo per la sua Cronaca, ed è quindi possibile, in una certa misura,
ricostruirle. In queste biografie erudite, S. si preoccupa fondamentalmente
di raccogliere una documentazione, molto meno di controllarne e criticarne la
validità. E’ un testimone (uno dei primi) della tradizione scolastica (noi
diremmo universitaria) che si forma e si svilupperà, con variazioni diverse,
durante tutta la parte finale dell'antichità e nel Medio Evo, ad es. nei
commentari di Donato (su Virgilio e su Terenzio) alla fine del IV secolo, e in
quelli di Servio (che visse intorno al 400 d.C.) su Virgilio. *Qualunque
possa essere l'importanza delle biografie composte da S. sugli scrittori, nella
formazione della storia letteraria come genere, quella delle "Vite dei Cesari"
è, ovviamente, di gran lunga più considerevole, giacché, per le parti ormai
perdute degli "Annali" e delle "Storie" di Tacito, esse rappresentano una
preziosa fonte sostitutiva. Le biografie degli imperatori (12, da Cesare a
Domiziano) non sono opere storiche nel senso comune del termine. Della
cronologia e della concatenazione degli avvenimenti esse tengono conto in modo
molto approssimativo. Ogni fatto è, invece, classificato (pressappoco) in una
categoria: infanzia, origine, carattere, ritratto fisico, ritratto
intellettuale, attività militari, giochi offerti al popolo, eccetera. Anche in
questo caso, la critica è quasi inesistente. Altro vantaggio per noi delle
"Vite dei Cesari" è il fatto che S. attinge notizie da opere ormai perdute degli
storici dell'impero. Ciò permette di ritrovare una prospettiva più giusta sugli
avvenimenti e sugli uomini che sono stati oggetto a volte di appassionata
ammirazione e a volte di odio feroce. *Il modello, per entrambe le opere, è
quello delle biografie "alessandrine", per non parlare delle influenze formali
più direttamente romane: gli "elogia" e le "laudationes funebres". Non
solo. Riguardo la seconda, si aggiunge la consapevolezza in S. che quella del
genere biografico è la forma storiografica più idonea a dar conto della nuova
forma che il potere ha assunto (quella individualistica, personale, del
principato) e che la biografia dei singoli imperatori è la più adatta a fungere
da criterio di periodizzazione della storia dell’Impero. Così, nella tendenza
– tanto deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo – ad insistere sulla
vita privata degl’imperatori descrivendone eccessi ed intemperanze, sui
particolari futili e scandalistici, si inclina oggi a vedere (anche) la
manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell’intento di
fornire un ritratto integrale del personaggio. Ne risulta un tipo di
storiografia "minore" (rispetto a quella "aristocratica" di Tacito) che attinge
alle più varie fonti e che delinea anche, in qualche modo, i tratti del suo
destinatario, che è l’ordine equestre, il punto di vista attraverso cui le
singole vicende sono osservate e valutate. *Riguardo allo stile, infine, è da
dire che S. scrive senza prolissità e/o ricercatezze, con lingua chiara e
semplice, e con un fraseggio rapido e vivace.
L. Anneo (o Giulio)
Floro (secc. I-II d.C.)
VITA E OPERE. Originario dell'Africa, a
somiglianza degli oratori greci della "seconda sofistica", ebbe un'attività di
conferenziere itinerante nelle province. Uno dei temi da lui affrontato era la
questione se "Virgilio era oratore o poeta", problema sul quale ci è stato
conservato uno svolgimento redatto in forma di dialogo. F. finì per stabilire
a Roma la sua dimora, durante l'impero di Adriano, e nella città compose i suoi
2 libri "sulle guerre romane", comprente 7 secoli di storia militare romana,
dalla fondazione dell’Urbe ad Augusto. Sotto la vernice del presunto storico,
traspare però l'atteggiamento del rètore: F. elogia più che raccontare. Questo
conferenziere, sempre in cerca di brillanti amplificazioni, immagina di
paragonare la vita del popolo romano a quella di un essere umano le cui
differenti età si caratterizzano per una crescita, una maturità e una decadenza,
salvo poi concludere, per trarsi d'impaccio, che la dinastia antonina aveva
restituito a Roma la sua giovinezza. Quest'opera puerile ci è stata
conservata sotto il titolo, davvero improprio, di "Compendio di Tito Livio"
("Epitome Titi Livii").
Lucio (?) Apuleio (Madaura, Algeria 125 ca
– dopo il 170 d.C.)
VITA. Di estrazione agiata, A. studiò a Cartagine,
dove apprese le regole dell'eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi
allo studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l'attraeva erano le
dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: lo stoicismo,
al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui Marco Aurelio
sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della dottrina che
allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo dire
"teosofico"), impregnata di misticismo e addirittura di magia. A. si fece
iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano
nell'Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside, culto
dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza era di
trovare il "segreto delle cose" e, al pari della sua eroina Psiche, si
abbandonava a tutti i dèmoni della curiosità, avventurandosi fino alle frontiere
del sacrilegio. La strada del ritorno dalla Grecia all'Africa lo condusse
attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica, dove lo
attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). La madre di
Ponziano, uno dei suoi compagni di studi ad Atene, rimasta vedova, desiderava
riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti della
nobildonna, adirati nel vedere compromessa l'eredità, intentarono un processo al
"filosofo" straniero accusandolo di arti magiche. Gli imputavano di avere
plagiato la loro congiunta, e lo tradussero davanti al governatore della
provincia. Per difendersi, A. compose un'arringa scintillante di spirito, che ci
è stata conservata col titolo di "Apologia" (158).
OPERE. -
"Apologia" o "De magia" (158), come detto versione successivamente rielaborata
della propria, vittoriosa, orazione difensiva. E’ interessante paragonare questo
genere di eloquenza, di discorso effettivamente pronunciato davanti a un
tribunale, con quella dei "Florida" (antherà, "selezioni di fiori"), estratti di
conferenze (23 brani oratori) tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma,
antologizzati da un anonimo ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico. -
Tre opere filosofiche: "De mundo", rifacimento – in chiave stoicheggiante –
dell’omonimo trattato pseudoaristotelico; "De Platone et eius domate", una
sintesi della fisica e dell’etica di Platone, cui doveva seguire una logica
("Perì ermeneias"?); "De deo Socratis", un opuscolo in cui A. esamina la
demonologia di Socrate: sotto l’influsso delle filosofie orientali, i "demoni"
(ovvero, divinità) diventano Angeli, o affini ad essi, per A., spiriti che
fungono da intermediari tra gli dèi e gli uomini, e che presiedono a rivelazioni
e presagi. - "Metamorfosi" (denominato a volte "L'asino d'oro").
LE
"METAMORFOSI". TRAMA E CONSIDERAZIONI. Torna al sommario *Il romanzo, opera
stravagante in 11 libri, è forse l'adattamento (almeno nei primi 10) di uno
scritto di Luciano di cui non siamo in possesso, ma del quale ci è pervenuto un
plagio intitolato "Lucius o L'asino": si discute se A. abbia seguito il modello
solo nella trama principale, o ne abbia ricavato anche le molte digressioni
novellistiche tragiche ed erotiche. Le "Metamorfosi" gravitano comunque nella
tradizione della "milesia", ma anche in quella del romanzo greco contemporaneo,
arricchito però dall’originale e determinante elemento magico. Dunque, il
magico si alterna con l’epico (nelle storie, vedremo, dei briganti), col
tragico, col comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati
ovviamente in un unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza
rigoroso), che trova corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella
piena padronanza di diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale:
e il tutto in una lingua, comunque, decisamente "letteraria". *La storia
narra di un giovane chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore),
appassionato di magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per
affari in Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare
in casa del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la
facoltà di trasformarsi in uccello. Lucio vuole imitarla e, valendosi dell'aiuto
di una servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma
sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed
intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice (gli
basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di
circostanze non gli impedisse di scoprire l'antidoto indispensabile. Rapito da
certi ladri durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia da
soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad
infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il tema
è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di racconti. Nella
caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima favola di "Amore e
Psiche", narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita dai malviventi: la
favola racconta appunto l'avventura di Psiche, l'Anima, innamorata di Eros, dio
del desiderio, uno dei grandi dèmoni dell'universo platonico, la quale possiede
senza saperlo, nella notte della propria coscienza, il dio che lei ama, e che
però smarrisce per curiosità, per ritrovarlo poi nel dolore di un'espiazione che
le fa attraversare tutti gli "elementi" del mondo). Sconfitti poi i briganti
dal fidanzato della fanciulla, Lucio viene liberato, finchè – dopo altre
peripezie – si trova nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina,
si addormenta sulla spiagga di Cancree e, durante una notte di plenilunio, vede
apparire in sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del
supplizio e gli indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il
miracolo si compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per
riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride. *L'ultima parte
del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione mistica
ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E’ evidente che è
un'aggiunta di A., al pari della celebre "favola" di Amore e Psiche, che si
trova inserita verso la metà dell'opera: centralità decisamente "programmatica",
che fa della stessa quasi un modello in scala ridotta dell’intero percorso
narrativo del romanzo, offrendone la corretta decodificazione. Ci si può
chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare l'intenzione dell'autore. In
realtà l'episodio di Iside, come quello di Amore e Psiche, ha un evidente
significato religioso: indubbio nel primo; fortemente probabile nel secondo,
interpretato specificamente ora come mito filosofico di matrice platonica, ora
come un racconto di iniziazione al culto iliaco, ora – ma meno efficacemente –
come un mito cristiano. Certo è, comunque, che tutto il romanzo è carico di
rimandi simbolici all’itinerario spirituale del protagonista-autore: la vicenda
di Lucio ha, infatti, indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e
la redenzione dell’uomo, di cui l’XI libro è certamente la conclusione
religiosa. Il tutto farebbe delle "Metamorfosi", così, un vero e proprio romanzo
"mistagogico". Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione,
ci offre una straordinaria descrizione delle province dell'impero al tempo degli
Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto. Confrontato con
quello di Petronio, dà la curiosa impressione che i personaggi vi siano
osservati a maggiore distanza, come in un immenso affresco dove si muovono,
agitandosi, innumerevoli comparse.
Poeti novelli Nell’età dei
rètori e dell’erudizione trionfante, la poesia sembra aver perso ormai ogni
centralità culturale, o addirittura la de-finizione del proprio genere: essa
emerge più che altro come un raffinato hobby delle classi elevate. Si
continua, invece, a praticare un genere di poesia minore e mistiforme, una sorta
di via secondaria della poesia latina, con una sua continuità, cui appartengono
i "poetae novelli", un vero e proprio "movimento", del sec. II, fiorito
all’epoca di Adriano (egli stesso è pregevole verificatore, di gusto
decadente). Al gruppo appartengono: Terenziano Mauro, "teorico" del
gruppo, cui ha assegnato la definizione. E’ autore di un elaborato trattato di
metrica – "De litteris syllabis et metri Horatii" – giuntoci solo in parte, in
cui tra l’altro espone la tesi della scuola "derivazionistica" (e cioè: tutti i
metri greci e latini non sarebbero altro che modificazioni di due strutture
metriche fondamentali: l’esametro e il trimetro giambico). Ammiano, autore
dei "Carmina fallisca" (dal metro anomalo "falisco") e anche dei misteriosi
"Fescennini". Alfio Avito, che poetò sugli uomini illustri della storia di
Roma. Un certo Mariano, che compose dei "Lupercalia". Settimio Severo,
che cantò temi rurali e pastorali. Il nuovo stile puntava a costruire moduli
preziosi, e quasi lambiccanti, su temi semplici e anche futili, riducendo lo
spessore dei sentimenti e dei concetti. Comune è lo sperimentalismo metrico:
si escogitano forme nuove (ad es., il falisco), oppure, sempre in segno di
rottura rispetto ai grandi classici, si cantano temi tradizionali su metri
inattesi e apparentemente impropri (abbiamo addirittura forme di metrica
figurata). Concorrevano a formare il loro gusto la tendenza arcaicizzante
dell’età adrianea, i modi dei "neoteroi" previrgiliani e la poesia greca
contemporanea.
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