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STORIA DELL'ANTICA ROMA

La leggenda delle origini:
Enea, Marte e la Lupa
La leggenda vuole che i latini siano in qualche modo discendenti di Enea, fuggito dalle ceneri di Troia e approdato nel Lazio, dove si stabilì ed ebbe abbondante discendenza.
Ora, alcune generazioni dopo, in una delle città fondate dalla sua stirpe (Alba Longa), accadde che il buon re Numitore fosse usurpato dal fratello malvagio, Amulio. Questi imprigionò il fratello e ne uccise la discendenza maschile, costringendo l'unica figlia superstite a farsi vestale, titolo che imponeva il voto di castità.
Rea Siliva, questo il nome della ragazza, era una bella e innocente fanciulla, che commise però il fatale errore di addormentarsi distesa sulla riva del fiume: la bella non passò inosservata agli dei, visto che di lì a poco passò Marte e molto ellenicamente la fece sua.
Da questa unione nacquero due gemelli, Romolo e Remo.
Amulio, venuto a sapere del fatto, fece uccidere Rea Silvia a bastonate e ordinò ad un suo servitore di ucciderne i figli, ma il servitore si impietosì e li abbandonò in un cesto di vimini in una secca, in balia del loro destino fluviale.
La cesta si arenò, i due gemelli piangevano e il loro pianto giunse alle orecchie di una Lupa che provvide a portare la cesta nella sua tana e a svezzarne il contenuto.
Senonché Faustolo, un pastore di passaggio, impietosito, decise di portarsi a casa gli infanti. Qui trovarono finalmente una mamma umana, Acca Larenzia, che sembra fosse la vera e unica Lupa di tutta la storia (ovvero una prostituta), con buona pace della corrente storico-animalista.
Romolo e Remo crebbero tra i pastori e si distinsero per forza e coraggio (erano pur sempre figli del dio della guerra). Venuti a sapere delle loro vere origini, si recarono ad Alba Longa, fecero piazza pulita di Amulio e restituirono il trono al nonno Numitore.
A questo punto i due fratelli decisero di tributarsi il giusto onore fondando una città nel luogo del loro ritrovamento, e immancabilmente nacquero i primi dissapori per la supremazia di quelle poche capanne che chiamavano città. Romolo voleva chiamarla Roma, Remo invece Remuria, entrambi ispirandosi ai rispettivi nomi. Romolo prevalse dopo essersi giocato il nome in una serie di prove di abilità.
Trovato il nome occorreva fissare il quadrato delle mura: Romolo ebbe la visione premonitrice di dodici avvoltoi roteanti sul suo capo (mentendo al fratello che ne vide appena sei). Questo gli diede il diritto di tracciare il solco con l'aratro e giurare davanti agli dei che nessuno lo avrebbe mai oltrepassato senza il suo permesso. Accade però che il solco fu attraversato per sfida proprio dal fratello, il quale venne ucciso da Romolo secondo giuramento.
Così, secondo il mito, nacque Roma nel 753 a.C.
Il primo re fu naturalmente Romolo. Tracciato il solco ed eliminato il fratello, il problema più incombente era di trovare le donne per la sua compagine. Senza donne non era possibile alcuna discendenza e nessun futuro glorioso avrebbe segnato la sorte di Roma.
A questo punto Romolo decise ancora una volta di risolvere la questione con l'inganno: lo stratagemma passò alla storia come il ratto delle sabine. Il piano era di invitare a una festa il vicino popolo dei sabini con le donne al seguito, e al momento opportuno, sfruttando la sopresa, rapire quante più fanciulle possibile. Il piano riuscì alla perfezione: il bottino fu di seicentottantatre ragazze vergini, meno una, Ersilia, rapita per errore, che diventò la sposa di Romolo.
Al ratto seguì l'inevitabile guerra tra romani e sabini che finì soltanto grazie al provvidenziale intervento di Ersilia: ella si fece portavoce delle sabine rapite supplicando i contendenti di mettere fine a quella inutile carneficina che avrebbe rischiato di uccidere i padri dei loro figli. A quanto pare le sabine si erano abituate (o rassegnate) ai rapitori.
Fatta la pace, Tito Tazio, re dei sabini, divenne monarca alla pari di Romolo e si stabilì con il suo popolo sul Quirinale (Tito era originario di Curi e i suoi vennero chiamati quiriti).
A Romolo si atrribuisce la prima divisione sociale delle genti romane: il popolo venne diviso in tre etnie (o tribù): I Ramnes (o Ramini) di Romolo, I Tities (o Tizi) di Tito Tazio e i Luceres (o Luceri), tribù che raggruppava le genti di origine etrusca.
Romolo decise poi di formare un senato (Curia) composto da 100 (poi ampliato a 200) patres (padri fondatori) nominati dal re, ad esclusione dei Luceri.
Anche l'esercito fu diviso in milites e celeres, i primi fanti e i secondi cavalieri.
I due reggenti decisero poi di bonificare l'area del Campidoglio e costruire un Foro, ovvero uno spazio attorno al quale si sarebbero affaciati la Curia, i templi delle divinità maggiori, i mercati e le botteghe degli artigiani; il centro politico, religioso ed economico della città romana.
Accade però che Tito Tazio morì in seguito a un'imboscata forse tesagli da qualche città sabina limitrofa e Romolo si trovò solo a fronteggiare una popolazione spaccata in due: per arginare la crisi si profuse in una nuova divisione della popolazione. Si decise di dividere i romani in patrizi (i patres, i fondatori storici) e plebei (tutti gli altri). Ai primi spettavano i compiti religiosi ed amministrativi, ai secondi l'artigianato, il commercio e il lavoro nei campi. I matrimoni tra cittadini di classi diverse furono proibiti.
La morte di Romolo è avvolta nel mito: scomparve in una notte di tempesta durante un'eclissi, il suo corpo non fu mai ritrovato. Si dice che salì in cielo sul carro di Marte per diventare il protettore dei romani col nome di Quirino (ma forse fu solo vittima di un complotto).
II° Re: Numa Pompilio, il pio (716-672 a.C.)
Dopo la morte di Romolo seguì un periodo di confusione in cui si susseguirono alla guida di Roma dieci patrizi, mentre le stirpi sabine e romane lottavano tra di loro per la supremazia.
Alla fine si decise di eleggere a reggente Numa Pompilio, di stirpe sabina e marito di Tazia, la figlia del defunto re sabino. Numa Pompilio era un uomo al di sopra delle parti: era molto religioso e poco portato alla frenesia della vita politica tanto che alla responsabilità del governo preferì in principio la calma di Curi. Ma i romani lo convinsero dicendogli che governando avrebbe reso un servizio a Dio.
Il suo regno fu contraddistinto dalle riforme religiose: introdusse riti meno sanguinari, riformò il calendario portandolo da 10 a 12 mesi (aggiunse Gennaio, in onore di Giano Bifronte, e Febbraio, in precedenza l'anno seguiva il ciclo lunare e cominciava da Marzo, consacrato a Marte), i giorni dell'anno passarono da 304 a 355.
A lui si attribuisce anche la fondazione del collegio dei pontefici, massime cariche religiose, e la suddivisione della popolazione per mestieri (fabbri, vasai, carpentieri e orefici). Fu un re ben voluto dalla plebe e molto popolare.
Morì a ottantanni senza aver mai fatto una guerra, quando già le due stirpi riappacificate gli avevano eretto un mausoleo sul Gianicolo.
III° Re: Tullo Ostilio, il distruttore di Alba (672-640 a.C.)
Tullo Ostilio, di origine latine, era assai diverso dal suo predecessore: Il suo nome venne associato alla distruzione di Alba Longa.
Per avere un casus belli che giustificasse la guerra come giusta agli occhi degli dei istituì il collegio dei feziali, i quali avevano il compito di trovare un pretesto per ogni belligeranza.
La guerra con Alba fu lunga e spietata (è qui che si svolse l'episiodio degli Orazi e Curiazi). La città fu distrutta e la sua popolazione deportata sul monte Celio; Il suo re, Mezio Fufezio, fu sventrato atrocemente, legato mani e piedi a quattro quadrighe con cavalli partite in direzioni opposte.
Gli ultimi anni del suo regno videro la costruzione di una nuova sede senatoriale (Curia Hostilia) e la sconfitta degli Etruschi di Veio, nonche una terribile epidemia di peste.
Mori' in un incendio provocato da un fulmine scagliato da Giove, il quale pare non avesse gradito un rito sacro a lui dedicato.
IV° Re: Anco Marzio, il fondatore di Ostia (640-616 a.C.)
Anco Marzio, di stirpe sabina e marito di una figlia di Numa Pompilio, divenne il IV° re di Roma.
Dopo aver conquistato il terreno che separava la città dalla costa, fondò Ostia, così anche Roma, come si disse, potè avere il suo Pireo (il porto di Atene).
Fornita Roma di uno sbocco marittimo e migliorata la navigabilità del Tevere, aumentarono i commerci, sopratutto del sale, per estrarre il quale si scavarono nuove saline e si costruirono per conservarlo dei magazzini lungo il fiume. Il re ordinò poi la distribuzione gratuita del prodotto, cosa che risultò gradita alla popolazione, che lo usava per conservare i cibi.
Le barche risalivano il Tevere per portare il sale alle zone piu' interne e scendevano cariche di legname, facendo aumentare gli scambi e instaurando stabili rapporti d'affari con gli etruschi.
Al re si attribuisce poi la costruzione del primo ponte in legno sul Tevere, il Sublicio, a sud della futura isola Tiberina, e la conquista, con abituale deportazione delle popolazioni entro le mura della città, di numerose tribù locali.
V° Re: Tarquinio Prisco e l'occupazione etrusca (616-578 a.C.)
Con Tarquinio Prisco inizia l'occupazione etrusca di Roma. Era figlio di Demarato, un eminente greco fuggito da Corinto e stabilitosi a Tarquinia, città etrusca. Tarquinio, che si chiamava ancora Lucumone, sposò Tanaquilla, raffinata dama etrusca, che lo convinse a trasferirsi a Roma dove divenne il braccio destro di Anco Marzio. Il re lo fece tutore dei suoi figli e lo iscrisse nella tribù lucera.
Salito al trono col nome latino di Lucio Tarquinio Prisco, allargò il numero dei patres della Curia introducendovi per la prima volte dei membri etruschi.
Non contravennendo agli usi romani, intraprese una serie di battaglie vittoriose nei confronti dei popoli vicini, continuando ad espandere il territorio di Roma e formando una lega di stati etruschi con reciprochi vincoli di non belligeranza.
Tarquinio introdusse nel protocollo di corte i fasci littori e le più raffinate usanze etrusche, fece sfoggio di grande sfarzo durante le celebrazioni e si circondò di guardie del corpo. La città di Roma venne ingrandita e abbellita: si lastricarono le strade, si arricchì il Foro di nuovi tempi e nuove strutture, si costruì il Circo Massimo e si iniziò la costruzione del tempio di Giove Capitolino.
A Tarquinio si attribuisce il generale affinamento dei riti e delle tradizioni romane sotto l'influenza della più raffinata civiltà etrusca.
Morì ucciso da sicari assoldati dai figli di Anco Marzio, che lo accusavano di aver conquistato il trono grazie al favore che godeva agli occhi del padre, nonchè alle sue ricchezze.
VI° Re: Servio Tullio, il rifondatore (578-534 a.C.)
Servio Tullio, etrusco, era di orgini servili ma aveva preso in sposa Tarquinia, una delle figlie di Tarquinio Prisco, e si era assai distinto in battaglia come comandante di cavalleria.
Fu un re non eletto, in particolare si racconta che salì al trono grazie a uno stratagemma escogitato assieme alla suocera. I due fecero credere alla popolazione che Tarquinio Prisco fosse ancora vivo e che in punto di morte avesse passato momentaneamente il regno nelle mani di Servio, carica che da temporanea divenne definitiva.
Servio Tullio dovette domare le rivolte di Veio, Cere e Tarquinia, che non riconscevano il lui il successore di Tarquinio e si rifiutavano di rispettare gli accordi di non belligeranza firmati con il predecessore.
In ricordo delle sue orgini fece una legge che permetteva a chiunque di poter scalare i livelli sociali a dispetto delle origini di classe.
Servio venne ricordato per essere un grande riformatore, tanto da meritarsi l''appellativo di rifondatore di Roma: per conoscere meglio la popolazione fece indire un censimento generale, quindi passò a dividere le genti in cinque classi secondo il censo.
A lui si devono le possenti mura di tufo che cinsero Roma nel V° secolo (conosciute come serviane).
Servio assegno' poi ad ogni moneta di bronzo una immagine di un capo di bestiame (pecus, da cui pecunia) in rapporto al loro diverso valore.
La città venne divisa in quattro zone: la Palatina, L'Esquilina, la Collina (o Quirinale) e la suburana (o Celio). Alle tre tribu' originarie (Ramini, Tizi e Luceri), dette tribù urbane, venne aggiunta una quarta tribù, detta rustica, composta da tutte quelle popolazioni che si erano aggregate alla città per vari motivi (guerre, deportazioni e profughi di diversa natura) le quali prendevano il nome dalla zona geografica di origine.
Il regno di Servio vide un periodo di pace, stabilità e concordia tra le diverse stirpi romane. Sull'Aventino venne eretto, di comune accordo, un tempio alla vergine dea Diana, divinità dei boschi cara alla plebe, agli schiavi e alle donne.
Tutto ciò non impedì la morte violenta di Servio Tullio per mano della figlia Tullia, che intendeva impossessarsi del regno assieme al cognato. La leggenda vuole che, ucciso il padre, la figlia ne abbandonò il corpo esanime in strada e vi passò sopra con il suo carro. Quindi, non paga, fece avvelenare il marito, Arunte Tarquinio, per sposarne il fratello Lucio Tarquinio, che divenne il nuovo re.
VII° Re: Tarquinio il Superbo, il tiranno (534-510 a.C.)
L'ultimo re di Roma fu ricordato per la sua tirannia e l'assoluta iniquità, e per aver esasperato a tal punto il popolo romano da meritarsi l'appellativo di Superbo, nonché la rivolta che lo scacciò.
Il Superbo sciolse il senato, ne vietò ogni riunione e uccise tutti coloro che gli mostrarono opposizione. Impose poi nuove tassazioni, arricchendo il suo patrimonio personale e distruggendo tutto l'impianto di riforme del suo predeccessore, governando senza alcuna regola e a suo esclusivo tornaconto.
L'episodio leggendario che provocò la caduta della monarchia e la scacciata degli etruschi da Roma vede come protagonista Sesto, un figlio di Tarquinio. Assieme ai fratelli Tito e Arunte e ad altri compagni di baldoria, ormai ubriachi, proposero di vedere cosa mai stessero combinando in quel momento le proprie mogli.
Giunti a casa, le trovarono con gran sorpresa tutte più o meno affacendate in baccanali, tranne una, Lucrezia, la moglie di Lucio Tarquinio Collatino, seduta al telaio. La cosa non finì qui.
Ospite di Tarquinio Collatino, Sesto abusò sessualmente di sua moglie Lucrezia.
L'indomani Lucrezia si precipitò dal padre e dal marito, e spiegando loro cosa era successo, trasse da sotto le vesti un pugnale e si uccise.
Da questo suicido scaturì una furente sollevazione popolare guidata da il padre di Lucrezia, Spurio Lucrezio, dal marito e dal figlio di una sorella di Tarquinio il Superbo, Lucio Giunio Bruto, fino allora defilato ma destinato a grandi cose. Egli portò il cadavere di Lucrezia al foro e giurò di vendicarne la morte con l'aiuto dei romani e dell'esercito che ancora assediava Ardea.
Era il 510 a.C. quando Roma scacciò la dinastia dei Tarquini, ormai completamente screditata e divisa al suo stesso interno, liberandosi della dominazione etrusca e dandosi una nuova forma di governo.
Tarquinio il Superbo fu costretto all'esilio e si rifugiò nella città etrusca di Cere, mentre il figlio Sesto fu ucciso a Gabi. Così nasceva, secondo la leggenda, la Repubblica dei consoli.
 I Consoli: l'istituzione della Repubblica
Dopo l'esperienza della tirannide, Roma non volle più fidarsi della forma di governo monarchica: Bruto decise che il potere sarebbe spettato d'ora in poi a due praetores, poi divenuti consoles (consoli): nasceva così la Repubblica. Essi avevano reciproco potere di veto sulle rispettive decisioni, dovevano consigliarsi e sentire il parere del Senato su ogni questione, esercitavano la loro carica un mese ciascuno e alla fine del mandato venivano confermati o destituiti dopo aver reso conto del loro operato.
Era un cambiamento epocale per i romani: i patrizi continuarono ad egemonizzare la vita politica, ma il potere non era più arbitrario e concentrato nelle mani di una sola persona. Le decisioni divennero collegiali e, molto modernamente, erano sottoposte a un continuo controllo in modo da impedire cadute autoritarie.
I primi due consoli furono Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino, vedovo di Lucrezia.
I figli di Bruto tramano contro il padre, epurazione e nuovo consolato
Quanto la Repubblica fosse ancora fragile e poco salda lo dimostrarono le circostanze che videro Bruto opposto ai figli.
Tarquinio il Superbo non aveva mai smesso, dal suo esilio, di sperare in un suo ritorno. Egli cercava di farsi amici i senatori corrompendoli con il denaro e continuava a seminare zizzania tra gli schieramenti politici, da un lato mirava a ritornare dittatore e dall'altro si cospargeva il capo di cenere per impietosire la popolazione romana.
La cosa divenne evidente quando si scoprì un tentativo di congiura ai danni della neonata repubblica capeggiata nientemeno che dai figli dello stesso Bruto, Tiberio e Tito. Essi non si erano mai convinti della bontà del nuovo ordinamento politico, ma tutto saltò per la denuncia dello schiavo Vindicio, il quale consegnò alcune loro lettere compromettenti al padre.
Bruto sottopose il caso al Senato, e, con una freddezza e un amor di patria fuori dal comune, fece uccidere seduta state i figli, flagellandoli e tagliando loro le teste. Fu chiaro a tutti che Bruto era l'uomo che non avrebbe mai permesso un ritorno alla tirannide, aldilà di ogni considerazione.
L'epurazione che seguì comportò l'allontanamento del console Lucio Tarquinio, colpevole di essere troppo compassionevole con i cospiratori, lo sostituì Publio Valerio, che ben presto divenne popolare quanto Bruto.
I due consoli, oltre che premiare lo schiavo Vindicio con la cittadinanza e un grosso conguaglio in denaro, promossero a patrizi tutti quei plebei che contribuirono attivamente a scongiurare il colpo di stato, aumentando così notevolmente la loro popolarità.
Selva Arsia: Morte di Bruto
Ma Tarquinio non demordeva. Egli continuamente riuniva fra loro gli etruschi e tutti i nemici dell'Urbe. Accadde infatti che Tarquinia e Veia scesero in guerra contro Roma: la battaglia che ne scaturì prese il nome di Selva Arsia, dal bosco dove trovarono la morte, in duello, Bruto e Arunte, figlio di Tarquinio.
La battaglia fu cruenta e caddero morti, oltre ai due capi, molti tra romani ed etruschi. La leggenda narra che vinsero i romani per un morto in più: caddero 13.000 etruschi e 12.999 romani.
Il cadavere di Bruto fu portato in trionfo per Roma fra il cordolio generale della popolazione. Publio Valerio pronunciò una strepitosa orazione funebre. Ora era il solo console, e attese qualche tempo prima di nominare suo collega Spurio Lucrezio, il padre di Lucrezia, ma questi morì pochi giorni dopo. Gli successe Marco Orazio Pulvillo.
Intanto Publio Valerio propose una legge in favore della popolazione che gli valse il soprannome di Pubblicola (favorevole al popolo, appunto): egli permise ai privati cittadini di poter citare in giudizio un magistrato che si fosse reso responsabile di atti punitivi ingiustificati.
Porsenna, Publio Orazio, Muzio Scevola
Dopo Veio e Tarquinia fu la volta di Lars Porsenna, re di Chiusi, bellicoso personaggio etrusco foraggiato dal mai indomito Tarquinio.
Egli occupò il Gianicolo e già premeva alle porte di Roma: la città si vide in grave pericolo, si distribuì il grano ai più poveri, si alleggerirono le tasse, si istituì il monopolio del sale per renderlo accessibile a tutti.
Ancora una volta la leggenda narra degli atti eroici di due personaggi: Publio Orazio (discendente degli Orazi) e Muzio Cordo, detto poi Scevola.
Il primo tenne testa eroicamente all'intero esercito invasore ostruendo il passaggio sul ponte Sublicio. Il suo temporeggiare permise ai romani di distruggerlo ed osannare Publio, tornato a riva a nuoto, come un vero e proprio salvatore della patria.
Il secondo si rese protagonista di uno strataggemma più complesso. Muzio decise, nonostante il parere contrario del Senato, di infiltrarsi come disertore nel campo nemico, in modo da uccidere Porsenna in persona e mettere fine all'assedio. La sua era quasi un'impresa suicida, infatti riuscì solamente in parte. Accadde che Muzio uccise sì un uomo, ma l'uomo sbagliato: egli non pugnalò Porsenna ma il suo segretario.
Portato prigioniero di fronte al re assediante, Muzio mostrò grande fermezza d'animo bruciando viva su un braciere la mano che aveva sbagliato mira. Egli, mentendo, fece credere a Porsenna che era solo il primo di trecento cospiratori pronti a toglierli la vita.
Di fronte alla minaccia della falsa congiura e rimasto colpito dal coraggio dell'uomo, rimasto mancino (scevola), Il re di Chiusi vide bene di firmare la pace con i romani, che da quel momento smisero di essergli nemici.
La Lega Latina contro Roma, l'isitutuzione della tirannide
Mai domo, Tarquinio cominciò a tessere la tela di una larga alleanza fra popoli vicini e ostili ai romani. Tutti i popoli che speravano di poter affrancarsi dall'egemonia di Roma e diventare essi stessi egemoni aderirono alla Lega Latina.
Il pericolo per Roma era evidente, essa si trovava sola contro tutti. Nella difficile situazione, l'Urbe cominciò a snervarsi in tutta una piccola serie di guerre e scaramuccie che avevano il solo risultato di aumentare lo scontento tra la popolazione plebea, costretta da sempre a reggere demograficamente il peso dei conflitti.
Nella straordinaria congiuntura, il Senato decise di eleggere, per la prima volta dall'istituzione della Repubblica, un tiranno, il quale avrebbe avuto poteri straordinari per la durata dell'emergenza da affrontare. Si assistette quindi al curioso spettacolo di un ritorno alla tirannide esercitata per il bene del popolo e a tempo determinato (e si può dire che Roma riuscì a rispettare questo precetto).
Il primo tiranno fu un ex-console, Tito Larcio. Oltre a revocare alcune leggi fatte da Pubblicola, indì un censimento per appurare le disponibilità militari della popolazione (l'arrualemento si effettuava secondo il censo, ovvero secondo le disponibilità economiche, anche limitate, dei singoli). Egli si dimise prima dello scadere del suo mandato. Al secondo tiranno, Aulo Postumio, toccò vincere, in netta inferiorità numerica, la minaccia degli eserciti avversari. Si dice che vinse la battaglia grazie all'intervento di Castore e Polluce, di certo è che Aulo toccò la popolazione nel vivo del suo orgoglio invitando a combattere contro il possibile ritorno del tiranno tarquinio.
In seguito alla battaglia contro la Lega, venne sottoscritta la pace tra romani e latini nel 493 a.C.
La crisi sociale, Menemio Agrippa, l'istituzione dei tribuni
Costretti da sempre a ogni sorta di guerra e sempre in prima linea, i plebei cominciarono a manifestare un diffuso malcontento: nonostante essi fossero il bracccio armato di Roma non ricevevano in cambio nulla che non fosse il disprezzo dela patriziato e la persecuzione dei debiti e delle tasse. Nella difficile situazione esterna, il peso della inevitabile crisi economica ricadeva sopratutto sulla classe più debole.
La situazione era quantomai pericolosa, per la prima volta si assisteva alla frattura di quella pace sociale che aveva fatto la forza di Roma. In più, Volsci, Equi e Sabini continuavano a minacciare di assediare la città.
Il capo dei plebei era Sicinio Belluto. egli mise il senato di fronte al rifiuto di obbedire a qualsiasi chiamata alle armi senza alcuna garanzia. I plebei decisero dunque di abbandonare in massa la città, appoggiati da molta parte dell'esercito, e rifugiarsi su una collina fuori da Roma, minacciando di fondare su quel monte una città autonoma.
Fu il neo eletto console Menemio Agrippa a prendere in mano la situazione. Egli portò le parti alla ragione mediando tra l'apparente incomunicabilità che si era istaurata tra i due schieramenti. Ai senatori fece capire che la plebe era indispensabile a Roma e che qualcosa avrebbero dovuto concedere ad una popolazione che aveva contribuito attivamente alla grandezza della città.
Recatosi poi sulla collina della plebe, Agrippa tenne un memorabile discorso in cui paragonava lo stato romana all'organismo umano. Ogni parte era indispensabile all'altra, senza un solo organo, anche se apparantemente poco attivo, tutto avrebbe smesso di funzionare e tutte le parti sarebbero morte.
I plebei chiesero allora garanzie politiche precise: fu così che si decise di istituire i Tribuni della Plebe, ovvero due figure elette dal popolo durante i comizi tribuni (plebisciti) da affiancare ai consoli. I tribuni si sarebbero fatti portavoce delle istanze della plebe e avrebbero garantito sulla reale attuazione della giustizia sociale. I tribuni erano inviolabili, ovvero intoccabili per legge da eventuali colpi di mano dei patrizi, le loro case dovevano essere aperte sia di giorno che di notte in modo da accogliere ogni eventuale denuncia. Essi sedevano su semplici panche e non avevano la toga orlata di rosso.
Il monte della plebe divenne sacro, come anche le leggi che sancivano, per la prima volta nella storia di Roma, l'importanza capitale della plebe e dei semplici cittadini di fronte al diritto e alla vita politica: era il 494 a.C., la prima elezione dei tribuni storicamente accertata è invece del 471 a.C.
 Coriolano
Continuavano frattanto le infinite guerre con i popoli vicini. Una vittoria molto importante fu ottenuta da Caio Marzio a Carioli sui volsci. Per questo il generale fu portanto in trionfo e chiamato il Coriolano. Ma chi lo voleva console dovette arrendersi alle sue poco diplomatiche dichiarazioni contro la plebe. Egli era di origini patrizie e non aveva ancora digerito le concessioni fatte sul Monte Sacro e l'istituzione dei tribuni.
I tribuni lo denunciarono, e nel processo che seguì fu messa a voto dalle tribù la possibilità di un suo esilio, ciò che in realtà accadde.
Indignato dalla decisione, Coriolano si rifugiò ad Anzio per guidare un esercito di Volsci contro la sua città. Narra la leggenda che solo l'intervento della madre, cui il figlio era molto affezionato, riuscì ad impedire la vendetta. Coriolano si ritirò a vita privata (alcuni dissero fosse stato ucciso dai volsci sentitisi traditi). I romani, privati i nemici dell'abilità del generale, ebbero gioco facile e sventarono l'ennesima minaccia.
La legge agraria
Nel 486 a.C. Spurio Cassio riformò i principi di distribuzione delle terre conquistate. Prima di allora la divisione delle terre aveva favorito i patrizi e il demanio a scapito della plebe. La legge di Spurio era stata ideata per una più equa distribuzione delle terre, ma questo, non c'è da stupirsi, rese inviso il legislatore ai patrizi e ai grandi latifondisti, motivo per cui venne gettato dalla rupe Tarpea.
Il problema della distribuzione delle terre conquistate si trascinerà ancora a lungo, e sarà il principale motivo di lotta tra plebei e patrizi, assieme alla regolamentazione delle punizioni per i debitori (che prevedevano per i colpevoli la schavitù, il carcere e la morte), fino alla progressiva conquista della penisola che rese più abbondante il bottino da spartire e le tensioni sociali meno evidenti.
I decemviri: le XII tavole
Nel 462 a.C., un tribuno della plebe, Caio Terentillo Arsa, propose una legge che aveva il compito di limitare il potere dei consoli, i quali venivano accusati di esercitare la giustizia e le leggi con troppa disinvoltura (da ricordare che le leggi non erano ancora state codificate per iscritto e tutto si fondava sulle sole consuetudini).
Il provvedimento di restrizione di Terentillo fu oggetto di un accananito ustruzionismo senatoriale che di fatto bloccò la contesa per cinque anni.
Alla fine si decise, nel 451, di dare pieni poteri legislativi a un collegio composto di dieci patrizi, il decemvirato, i quali avrebbero elaborato dieci tavole (poi divenute dodici), sulle quali si sarebbero messe per iscritto, con qualche aggiunta, le leggi che fino allora erano state tramandate solo oralmente (si narra che nel 454 vi fu un'ambasciata romana che si recò in Grecia appositamente per studiare la legislazione di Solone).
Anche Roma avrebbe quindi seguito la tradizione delle grandi repubbilche aristocratiche greche, dove le leggi erano esposte per iscritto in pubblico come garanzia contro possibili abusi.
I decemviri dovevano prendere le loro decisioni all'unanimità, ogni membro aveva potere di veto. Il primo decemvirato venne sciolto dopo un anno, il secondo venne eletto accogliendo tra i suoi membri alcuni esponenti plebei (ma solo i più ricchi).
Malgrado ciò, il popolo romano si accorse che anche i decemviri tendevano a legiferare contro la plebe (come, ad esempio, la ribadita impossibilità di contrarre matrimoni tra le due classi).
Una rivolta popolare destituì i dieci legislatori, dopo che la plebe era ritornata nuovamente sul Monte Sacro e accentuando per l'ennesima volta la frattura sociale.
La legge di Valerio e Orazio
Ennesimo episodio della lotta tra patriziato e plebe sono le leggi emesse dai due consoli che seguirono l'esperienza del decemvirato.
Nel 449, Valerio Potito e Orazio Barbato, patrizi moderati, emisero una legge in favore del popolo: ribadirono l'inviolabilità dei tribuni, sempre minacciata dall'opposizione dei patrizi, stabilirino che le decisioni prese durante i plebisciti fossero voncolanti per tutto il popolo e restauravano il diritto di appello nel caso in cui un semplice cittadino fosse stato condannato a morte da un alto magistrato (questo diritto era stato sospeso durante il demvirato).
La caduta di Veio: la decandenza etrusca
La caduta di Veio è datata 396 a.C. Più volte Roma era entrata in contrasto con la città etrusca, Veio contendeva all'Urbe le saline del Tirreno e si intrometteva nelle regole di navigazione del Tevere, contrastandola in prestigio e ricchezza.
La caduta definitiva della roccaforte è attribuita all'abilità del console Marco Furio Camillo. La leggenda narra di un assedio decennale, volutamente paragonato a quello di Troia, alla fine del quale la città etrusca venne rasa al suolo e i suoi superstiti deportati.
Con la presa di Veio comincia il lento declino della civiltà etrusca. Già dopo la battaglia di Cuma del 474, contro i siracusani, gli etruschi avevano perso la supremazia marittima e si erano ritirati all'interno. Ora Roma si era annessa il territorio laziale occupato dai veienti.
La decandenza etrusca è poi da imputare alla scarsa lungimiranza delle città-stato, sempre in lotta tra loro, e alla pressione dei popoli galli scesi dalle Alpi, che premevano a nord. L'Etruria si trovò così fatalmente schiacciata tra l'ascesa romana a sud e le scorribande barbare nella pianura padana: una morsa fatale.
L'invasione di Brenno, il sacco di Roma, le oche del Campidoglio
Nel 390 a.C. accadde un fatto inaspettato, una pagina tra le più vergognose della storia di Roma (tanto che gli storici, pare, si affacendarono a indorare la pillola assocciando al fatto gesta leggendarie ed eroiche che ne mitigassero l'onta).
Accadde che una tribù di galli senoni, guidate dal valente e spietato condottiero Brenno, attraversò, saccheggiandola, l'Etruria, fino a giungere ad assediare la città di Chiusi.
I chiusini chiesero aiuto ai romani che mandarono in città alcuni ambasciatori della stirpe dei Fabi. Di fronte ai rifiuti dei galli di risolvere il conflitto con la mediazione, gli ambasciatori mossero seduta stante guerra al popolo invasore, dando man forte algli assediati.
I galli non presero bene la cosa, lasciarono Chiusi e decisero di marciare direttamente su Roma. I romani tentarono di fermarli sul fiume Allia, ma la sola cosa che ottennero fu una sonora sconfitta che gettò l'Urbe nel terrore.
A questo punto si consumò l'onta: Roma si era già svuotata, la sua popolazione si era dispersa nelle città vicine nella sicurezza che nulla avrebbe fermato la marcia dei barbari invasori (l'esercito sbaragliato non era riuscito a riorganizzarsi). Brenno entrò in città senza colpo ferire. Roma fu saccheggiata selvaggiamente, incendiate le case e distrutti i monumenti, massacrati gli abitanti rimasti.
Nel fuggi fuggi generale si narra della leggendaria resistenza del Campidoglio. Il luogo, che conservava i più importanti tempi delle divinità, era sistemato su una collina che i galli strinsero d'assedio. La leggenda vuole che, una notte, Brenno decise di risalire le pendici del colle per cogliere di sorpresa gli assediati. Il piano falli perché le oche sacre a Giunone si misero a starnazzare e svegliarono il console Marco Manlio, il quale diede l'allarme e riuscì a respingere l'attacco con l'aiuto delle sentinelle.
La situazione di stallo che si creò indusse i galli a chiedere un riscatto di 1.000 libbre d'oro. Il riscatto fu pagato e i galli se ne andarono, non senza essere sbaragliati dal console Furio Camillo, il conquistatore di Veio, il quale riuscì persino a recuperare l'oro estorto (ma molto probablimente questa fu la versione storica consolatoria).
Leggi Licinie-Sestie
Scacciati gli invasori barbari, Roma venne ricostruita in fretta e furia. Si era anche pensato di abbandonare definitivamente la città e di edificarne un'altra in un luogo diverso, ma una volta superato lo spavento, ricominciò lo scontro interno tra patrizi e plebei. Le questioni sul tavolo erano la spartizione delle terre sotratte a Veio, che i plebei rivendicavano, e la possibilità per i plebei di accedere al consolato.
I tempi erano maturi perché due tribuni appartenenti ai ceti più abbienti, Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, facessero approvare alcune leggi favorevoli al popolo. Con la prima si agevolava il pagamento dei debiti, con la seconda si ponevano limiti alla grandezza dei terreni acquistabili e alla dimensione delle greggi, in modo da lasciare spazio anche ai più poveri, e con la terza si decise che uno dei consoli fosse sempre un plebeo.
Lo scontro al Senato fu durissimo e si protrasse per dieci anni. Fu il solito stallo dei veti incrociati, sia da parte dei patrizi che da parte dei tribuni, per cui sembrava che non si potesse prendere nessuna decisione, ma alla fine le leggi furono approvate.
Nel 366 a.C., fu eletto il primo console plebeo, Lucio Sestio Laterano. L'evento fu di portata storica e venne festeggiato istituendo i Giochi Massimi.
Prima guerra sannitica
Risolta temporaneamente la questione interna, si presentò a Roma un nuovo problema esterno. Giunsero a Roma alcuni ambasciatori campani venuti dalla città di Capua, fiorente centro della Magna Grecia. Essi venivano ad invocare aiuto a causa della minaccia dei sanniti, i quali stringevano d'assedio la loro città per distruggerla.
I sanniti erano una assai bellicosa popolazione della Campania centrale con la quale i romani avevano però stretto un patto di non belligeranza alcuni anni prima. Di fronte al rifiuto del Senato di venire in aiuto di Capua, gli ambasciatori, terrorizzati dalla sorte che li avrebbe attesi, non ci pensarono su due volte a consegnare nelle mani di Roma la loro città.
A questo punto i romani saggiarono il terreno mandando un'ambasciata nel Sannio. Gli ambasciatori proposero ai sanniti di abbandonare l'assedio di Capua poiché era diventata di loro proprietà. I sanniti risero in faccia ai messi e Roma non potè che dichiarare loro guerra nel 343 a.C.
Le sorti della guerra furono affidate a due consoli patrizi (contravvenedo alle leggi Licinie-Sestie da poco approvate). In Campania fu inviato marco Valerio Corvo, nel Sannio Aulo Cornelio Cosso.
Le sorti della guerra in Campania arrisero all'esercito di Valerio, che sconfisse i sanniti abbastanza facilmente, mentre in aiuto di Cornelio Cosso, impantanato tra le strette gole del Sannio e vittima della guerriglia e delle imboscate, fu necessario il rinforzo di un tribuno militare plebeo, Publio Decio Mure.
La guerra terminò dopo due anni, nel 341 a.C. sul campo di Suessola, presso Capua. I romani considerarono giusto firmare un nuovo accordo di pace per meglio concentrarsi sull'ennesima recrudescenza interna dello scontro sociale.
Seconda guerra sannitica:
Le Forche Caudine
Ma i conti con i sanniti non erano ancora chiusi. Inevitabile fu lo scoppio di una nuova serie di guerre nel 327 a.C.
Questa volta l'esercito romano fu affidato ai due consoli Tito Veturio e Spurio Postumio. Le sorti della guerra erano alterne, ma accadde ugualmente un fatto tra i più nefasti nella storia di Roma.
L'esercito romano decise di muovere da Capua a Benevento, si mise quindi in marcia verso il Sannio. I sanniti idearono però uno stratagemma. Travestiti alcuni soldati da pastori, indicarono all'esercito romano la strada di una stretta gola montuosa. I romani, giunti nel luogo nominato come Caudio, si resero conto di avere la strada sbarrata da tronci e massi, mentre dall'altra parte lo sbarramento nemico, capeggiato da Gavio Ponzio, impedivano loro di uscire dalla strettoia.
I sanniti lasciarono passare l'esercito, ormai minacciato dalla fame, ma impose gravose condizioni di resa. Ogni soldato romano fu costretto a denudarsi e passare sotto un arco di lancie nemiche, schernito e deriso dal nemico. Inoltre, i romani furono costretti a lasciare in ostaggio ai sanniti la loro cavalleria. L'episodio fu ricordato col nome di Forche Caudine.
Il ritorno a Roma dei due consoli fu mesto. Fu deciso di sostiuirli con il patrizio Lucio Papirio Cursore e il plebeo Quinto Publilio Filone. Le condizioni di resa non furono accettate e l'esercito romano, sotto la guida dei nuovi abili generali, riuscì a ricambiare l'onta delle Forche Caudine vincendo in Apulia (furono restituiti gli "onori" ai sanniti, ripetendo a parti inverse la farsa delle Forche).
Malgrado i sanniti si fossero alleati con gli etruschi e con i popoli latini e sabini sempre in lotta con Roma, dovettero definitivamente capitolare a Boviano.
La seconda guerra sannitica terminava nel 304 a.C.
Terza guerra sannitica
Il terzo ed ultimo episodio della guerra sannitica si consumò a partire dal 298 a.C.
Questa volta i sanniti si erano alleati, oltre che con i sabini, umbri e lucani, anche con i galli senoni, gli stessi che avevano saccheggiato Roma. Nella pianura umbra di Sentino, nel 295, i romani vennero sorpresi da una trovata dei Galli. Essi si gettarono sull'esercito romano con carri trainati da cavalli, in ogni carro una legione barbara che scagliava freccie. Il fracasso dei carri spaventò i cavalli romani, i quali batterono in ritirata.
Ma nemmeno questa trovata bastò. Publio Decio Mure, filgio dello stesso Mure che era corso in aiuto delle legioni nella prima guerra, si immolò abbattendosi contro i carri e perdendo la vita. Il suo sacrificio diede nuovo vigore ai romani che sbaragliarono i Galli per l'ennesima volta.
Ad uno ad uno caddero anche gli alleati dei sanniti, e a questi indomabili guerrieri non restò altro che firmare, questa volta definitivamente, la resa. Questo accadde nel 290 a.C.
Con la vittoria sui sanniti i Romani conquistarono una posizione di dominio in tutto il centro sud, conquista che inaugurò storicamente l'ascesa militare romana sul suolo italico.
 Il dominio dell'Italia centrale
Dopo le guerre sannitiche, Roma si trovava padrona dell'Italia centrale. Il suo dominio si estendeva dall'Etruria al Sannio, ovvero dall'odierna Toscana fino alle zone centrali della Campania. E' in questo periodo che viene costruita la via Appia, destinata a unire l'Urbe a Capua, poi successivamente prolungata fino a Brindisi.
A questo punto, la prossima avversaria da affrontare era Taranto. La città della Puglia era considerata dai romani l'unico ostacolo verso lo Ionio. Ma con Taranto si era stipulato un accordo di non belligeranza legato all'impossibilità di penetrare nel golfo con navi da guerra. Nulla potè però impedire lo scontro.
Pirro, Re dell'Epiro
Taranto, intuite le intenzioni romane, non restò inerme di fronte alla minaccia. Per proteggersi cominciò a stringere alleanze, in particolare con Pirro, Re dell'Epiro (regione a sud dell'odierna Albania).
Pirro era un personaggio di prim'ordine. Si diceva che fosse discendente di Neottolemo, figlio di Achille (Neottolemo era chiamato Pirro perché il padre, quando si nascose alla corte di Licomede, si era travestito da donna prendendo il nome di Pirra, vedi La guerra di Troia). Si diceva anche che guarisse i malanni con l'imposizione dell'alluce e che avesse parecchie concubine, seppur sposato con Antigone, figliastra di Tolomeo d'Egitto.
Pirro mirava a un'espansione verso occidente, attraverso l'Italia. Accettò da subito la chiamata di Taranto e si preparò alla guerra.
Il casus belli che permise a Taranto di iniziare le ostilità venne fornito dagli stessi romani. Nel 282 a.C. Turi, minacciata dai lucani, chiamò in aiuto Roma. Per aiutare l'alleato a Roma toccò penetrare nel golfo con dieci navi da guerra. I tarantini non ci pensarono due volte ad aprire le ostilità e delle dieci navi nemiche ne furono affondate quattro e una quinta catturata (trucidandone l'equipaggio), alle altre non restò che fuggire.
La guerra: le "vittorie" di Pirro
Il primo scontro tra i due eserciti si ebbe a Eraclea, in Lucania, nel 280 a.C.
Pirro recava con se delle macchine da guerra eccezionali che i romani avrebbero imparato a conoscere ma che all'inizio sembrarono loro portentose: gli elefanti.
Sfruttando l'effetto sopresa, Pirro riuscì a sbaragliare la cavalleria romana, anche se in un secondo tempo i romani riuscirono a contrastare i pachidermi con più efficacia (ferendone alcuni e provocando lo scompiglio tra le file nemiche).
La battaglia di Eraclea si concluse con molte perdite da entrambe le parti, per cui Pirro si ritirò ed ebbe un momento di tentennamento pronunciando le frasi che resero famose le sue sofferte vittorie.
Considerata la forza dei romani, Pirro tentò di mandare a Roma uno dei suoi più validi mediatori, Cinea. L'abile oratore era quasi riuscito a convincere i romani ad abbandonare la guerra quando un senatore, Appio Claudio Cieco, non volle accettare l'accordo.
Nonostante il parere contrario del suo ambasciatore, Pirro riprese la guerra. Quasi giunto presso Roma, le sue schiere di elefanti vennero sbaragliate grazie agli stessi stratagemmi che avevano usato i galli contro i romani: le legioni costruirono carri muniti di lancie infuocate e palizzate mobili, cosicché i pachidermi furono messi rovinosamente in fuga.
Un altro durissimo scontro avvenne ad Asculum nel 278, dove vinse di misura Pirro. Il re dell'Epiro ottenne altre vittorie, ma sempre al prezzo di gravi perdite (egli stesso venne ferito).
La vittoria decisiva dei romani si ebbe a Maleventum nel 275 a.C. I due consoli dell'Urbe erano il patrizio Lucio Cornelio Lentulo e il plebeo Mario Curio Dentanto. Il patrizio marciava verso la lucania, il plebeo verso il Sannio. Fu una perfetta mossa di accerchiamento.
Dentato respinse ancora una volta sia soldati che elefanti nemici, grazie ai carri muniti di aste e torcie infuocate, mentre gli arceri scagliavano dardi infuocati.
Pirro abbandonò Taranto e si ritirò definitivamente nel suo regno al di là del mare. Taranto cadde nelle mani dei romani.
Per l'occasione, Maleventum venne ribattezzata Beneventum.
I romani avevano assunto così il controllo dell'intero centro-sud. Sanniti, bruzi e lucani erano stati definitamente ridotti a vassalli. Un nuovo tassello era stato aggiunto nella costruzione del mosaico repubblicano.
Un nuovo nemico: Cartagine
Il dominio romano si estendeva ormai dall'odierna Emilia fino alla Calabria, ma un nuovo nemico si stagliava all'orizzonte, una fiorente, ricca e prestigiosa città punica costruita su uno sperone tunisino: Cartagine.
Con Cartagine erano già stati stipulati a più riprese accordi di non belligeranza, la città africana aveva colonie in Sardegna e soprattutto in Sicilia, dove si contendeva il dominio con le colonie della Magna Grecia.
Cartagine era stata fondata attorno all'800 a.C. da Didone, figlia del re della Fenicia, Tiro. Cartagine significava Città Nuova (in fenicio, Qart Chadasht). Cartagine aveva il dominio del commercio nel Mediterraneo e la sua influenza, anche militare, dovuta al prestigio e alla forza della sua flotta navale, era in forte ascesa.
Il casus belli
L'occasione che diede inizio alle ostilità fu l'occupazione di Messina da parte di un gruppo di mercenari campani, i mamertini. Chiamati in un primo tempo dal vecchio tiranno di Siracusa Agatocle per combattere i cartaginesi, essi si erano impadroniti poi della rocca di Messina. Il nuovo tiranno siracusano, Ierone, gli aveva costretti alla resa, tanto che i mamertini invocarono l'aiuto di Cartagine e di Roma. Ma Cartagine fu più lesta e si impadronì facilmente di Messina sconfiggendo Ierone.
A questo punto, fu chiaro ai romani che il dominio fenicio in Sicilia era troppo pericoloso e strategicamente importante. Roma aspirava a controllare l'intera penisola, e sud non poteva tollerare la presenza ingombrante dei fenici.
La prima guerra punica
L'esercito romano era comandato dal console Appio Claudio, detto Caudex. Nel 264 a.C. decise di attaccare i cartaginesi e conquistare Messina. L'impresa andò a buon fine, e questo fu quanto mai sorprendente, poiché l'esercito cartaginese era forte sia sui mari che sulla terra, potendo contare sull'appoggio di collaudate truppe mercenarie.
I cartaginesi si insediarono ad Agrigento, colonia greca, e dovettero subire un'altra sconfitta, poiché i romani, seppur i loro nemici si erano alleati con i galli, gli iberici e i liguri, riuscirono a conquistare la città dopo un assedio decennale finito nel 262 a.C.
I romani si rafforzarono anche sul mare: per contrastare la supremazia cartaginese munirono le proprie navi di un rostro per abbordare le navi nemiche e combattere così corpo a corpo (l'arrembaggio).
Al comando di Caio Duilio la nuova flotta affrontò i cartaginesi a Milazzo nel 260 a.C. e li sbaragliò. Grande fu la sorpresa dei cartaginesi e lo stupore degli stessi romani. Furono tributati gli onori dovuti a Caio Duilio e alla sua flotta, venne eretta nel Foro una colonna costruita con i rostri delle navi nemiche.
Nel 255 a.C. i romani decisero di approntare una flotta per dirigersi direttamente in Africa e sbarcare le truppe. La nuova e grande flotta venne affidata ai consoli Lucio Manlio Vulsone Longo e a Marco Attilio Regolo. La flotta contava 230 navi da battaglia e 80 da trasporto, 100.000 uomini in tutto.
La battaglia tra le due flotte (i cartaginesi contavano 200.000 uomini) avvenne al largo del capo Ecnomo, a sud della Sicilia. I romani vinsero ancora, con gravi perdite per i loro nemici, e a questo punto alla stirpe dell'Urbe non restò che dirigersi indisturbati verso le coste africane.
Facilitati dal fatto che i Cartaginesi non avevano approntato adeguate misure terrestri, vista la fiducia che nutrivano nella loro flotta navale, i romani conquistarono facilmente Aspis, ribatezzata Clupea, una città vicino a Cartagine. Qui stabilirono la loro sede operativa.
Regolo marciò fino alle porte di Cartagine dove fu affrontato dall'esercito nemico, dotato di elefanti, non sufficienti però a spaventare i romani, i quali riuscirono a sopraffarli. A questo punto Attilio Regolo impose al nemico durissime condizioni di resa: la cessione della Sicilia, della Sardegna, della Corsica e delle Baleari.
Nell'attesa di una risposta, i cartaginesi riorganizzarono l'esercito con l'aiuto di cavalieri della Numidia e mercenari iberici e greci. Il comando dell'esercito fu affidato a Santippo, un mercenario spartano. Questa volta le sorti della guerra girarono a favore dei cartaginesi che sbaragliarono l'esercito romano e catturarono Regolo.
Quando il console potè tornare a Roma per trattare le condizioni di resa, Regolo non volle sentire le ragioni dei senatori romani che lo invitavano quantomeno alla prudenza e si apprestò a tornare in Africa per riconsegnarsi al nemico a testa alta. I cartaginesi lo ripagarono gettandolo da una rupe dentro una botte chiodata.
A questo punto i romani si concentrarono sulla Sicilia. Riuscirono a battere i cartaginesi a Panormo (Palermo) nel 250. Ma nel 247 apparve nell'Isola un agguerito e valente generale nemico, Amilcare Barca (Barca significava Fulmine). Egli riuscì a sconfiggere i romani con continuità e a rinconquistare quasi tutta la Sicilia, spingendosi ad insidiare anche Cuma, ma ben presto, per mancanza di risorse, dovette cedere la riconquista.
L'ultimo atto della sanguinosa prima guerra punica fu un'ultima battaglia navale al largo delle isole Egadi, nel 241 a.C. Vinsero i romani. Cartagine questa volta chiese la resa e i romani furono più clementi. Chiesero L'abbandono della Sicilia, la restituzione dei prigionieri e la copertura delle spese di guerra.
Il bilancio della prima guerra
Oltre ad ottenere il possesso della Sicilia, i romani avevano conquistato anche la Sardegna e la Corsica. Artefici di queste conquiste furono Cornelio Scipione, Marco Claudio Marcello e Caio Flaminio, console plebeo, il quale, per onorare la vittoria, fece costruire la via Flaminia che congiungeva Ariminum (Rimini) all'Urbe romana.
I romani avevano poi imparato a navigare e avevano costruito in un lasso di tempo relativamente breve una flotta navale in grado di battere la più prestigiosa potenza del Meditterraneo. Conseguenza di ciò anche la nascita tra i romani di un certo amore per il commercio, che trovava ormai sfogo nella supremazia su quel mare che avrebbero in seguito chiamato nostrum.
Amilcare in Spagna
Amilcare Barca non si dava per vinto. Nel 237 a.C. convinse il re cartaginese Annone il Grande a concedergli una spedizione in Spagna. Partendo dalle colonie che già si trovavano nella penisola iberica, Amilcare intendeva dominare quel territorio ricco di risorse naturali (oro, rame, ferro, stagno).
In Spagna Amilcare otteneva un successo dopo l'altro, sia militare che diplomatico, aveva portato con sè anche il figlio Annibale, al quale aveva fatto giurare di fronte all'idolo Baal, che avrebbe odiato i romani per tutta la vita. Amilcare si "portava avanti col lavoro", perché mentre si faceva sempre più strada l'idea di invadere l'Italia, morì in un fiume a causa di un tranello, nel 229 a.C.
Il comando passò al genero Asdrubale. Egli fondò sulle coste del sud una nuova colonia, Carthago Nova, che divenne la base cartaginese in Spagna.
Il compito di Asdrubale era quello di raggiungere le sponde del fiume Ebro, confine dell'influenza cartaginese in Spagna, come accordi stipulati con Roma, e poi da li prepararsi a invadere l'Italia.
Annibale Barca, l'assedio di Segunto
Alla morte di Asdrubale, nel 221 a.C., Annibale, appena venticinquenne, divenne il generale in capo dell'esercito cartaginese.
Annibale era un uomo deciso e spartano, personaggio dal grande carisma e dal grande coraggio in battaglia, nelle quali mai si tirava indietro, all'occorenza si accontentava di dormire per terra. Era crudele e sanguinario e aveva scarso rispetto per gli Dei, in compenso non era uomo di parola, ciò che interessava più di tutto al giovane generale era la sconfitta di Roma, come per rispettare la promessa fatta al padre.
Nel 219 cominciò l'assedio di Sagunto, una città autonoma protetta da Roma, e la espugnò dopo otto mesi di battaglia. I romani mandarono le loro ambasciate sia in Spagna sia a Cartagine, pregando il nemico di rispettare i patti e l'autonomia della città. Annibale continuò sanguinariamente ad attacare la città, tanto che si narrà del suicidio volontario dei suoi abitanti.
A Cartagine Annone il Grande, fautore della pace coi romani, era stato messo in minoranza dalla potente famiglia dei Barca, i quali permisero agli ambasciatori romani di ufficializzare formalmente il conflitto. Gli ambasciatori offrirono ciò che i cartaginesi avrebbero chiesto, sia pace che guerra, e i Barca decisero per la guerra.
Sagunto fu così il casus belli che diede inizio alla seconda guerra punica.
L'Invasione dalle Alpi
Annibale si apprestava ad invadere l'Italia romana da nord, nel 218 a.C. attraverso le Alpi. Il suo esercito era composto da 50.000 fanti e 90.000 cavalieri, nonché da trentasette elefanti. Passato l'Ebro, attraverso non senza difficolta i Pirenei, e qui si trovò di fronte alle popolazioni galliche.
Il piano era quello di allearsi con loro per rinforzare l'esercito. I volsci lo ostacolarono con le armi. Anche l'attraversamento del Rodano con gli elefanti fu alquanto difficile, ma ormai l'obiettivo era stato fissato e nulla poteva impedire di raggiungerlo.
Nel settembre del 218, Annibale giunse al passo del Monginevro. Attraversò le Alpi con gli Elefanti e il suo esercito, in una lunga carovana, per sentieri men che meno impervi e spaventosi, sotto le tormente di neve. Un'impresa titanica anche ai giorni nostri (gli elefanti sulle Alpi!).
Moltissime furono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell'esercito, nonostante ciò Annibale riusci nel suo intento di ridiscendere i monti e affaciarsi sulla Pianura Padana.
Le sconfitte del Ticino, del Trebbia e del Trasimeno
Roma aveva affidato il comando delle operazioni a due consoli: Publio Cornelio Scipione, patrizio, e a Tiberio Sempronio Longo, plebeo. Il Primo doveva partire per la Spagna, il secondo sbarcare in Africa per colpire Cartagine al cuore.
La notizia dell'invasione dalle Alpi fece saltare tutti i piani, e i due eserciti dovettero frettolosamente ritornare in Italia quando già erano sulla via dei rispettivi obiettivi (Longo era già arrivato a Malta).
Con sorpresa dei romani, che credevano i cartaginesi stanchi e malridotti dall'attraversamento delle montagne, l'esercito di Annibale inflisse una sonora sconfitta a quello di Scipione presso il Ticino, grazie all'aiuto di una formidabile cavalleria.
Lo stesso generale romano fu salvato dal suo giovane figlio diciassettenne, Publio Cornelio. Scipione, ferito, si ritirò a Piacenza e aspettava di ricongiungersi con l'esercito di Longo, che proveniva da Ariminum attraverso la Flaminia. 35.000 erano i romani, 20.000 i cartaginesi, con il loro seguito di alleati.
Ma nel dicembre del 218 il gelo era tremendo. Con un tranello Annibale attirò l'esercito romano in una trappola sul fiume Trebbia, gli elefanti sbaragliarono i romani, la sconfitta fu disastrosa. A Roma cominciavano a temere un invasione simile a quella subita da Brenno.
Nel frattempo, il fratello maggiore di Publio Scipione, Gneo, otteneva buoni successi in Spagna, cercando idi interrompere i collegamenti tra Annibale e la penisola iberica (si veda la III parte).
Intanto al comando dell'esercito romano era salito Caio Flaminio (il costruttore della Flaminia), plebeo, a furor di popolo. Annibale era giunto in Etruria e bisognava contrastarlo. La battaglia fu combatutta presso il lago Trasimeno, nel giugno del 217. Il disastro romano fu assoluto. Flaminio morì, 15.000 romani vennero uccisi e altri 12.000 si erano frettolosamente dispersi.
Le prime battaglie volsero decisamente a favore di Annibale: sotrasse ai romani la Gallia Cisalpina (la Pianura Padana) e gettava scompiglio in Etruria. Annibale stimava il sistema di alleanze create da Roma piuttosto debole, per questo ad ogni popolo conquistato dichiarava di essere venuto a liberarlo dal giogo dell'iniqua prepotenza romana.
Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore
Nel 217 i romani affidarono le sorti della città a un nuovo dittatore: il generale Quinto Fabio Massimo, di discendenza patrizia e già vittorioso contro i liguri. Egli non decise di attaccare Annibale, ma si limitò a fortificare le mura della città.
Annibale, in conseguenza di ciò, decise di non attaccare subito Roma, proseguendo nel suo piano di accerchiamento: egli intendeva conquistare i popoli italici sia del nord che del sud, in modo tale da indebolire la supremazia romana e schiacciarla nella morsa di una generale insurrezione popolare.
Incontrata una imprevista resistenza a Spoleto, saltò la città ostile e si diresse verso l'Apulia (l'odierna Puglia). Le colonie romane di Lucera e Venosa lo contrastarono però vigorosamente, cosicché decise di dirigersi verso la Campania in direzione del Sannio.
Quinto Fabio Massimo adottava una tattica attendista. Il suo esercito seguiva quello cartaginese da vicino, senza ingaggiare battaglia, nell'attesa di trovarsi sul terreno favorevole per attaccare. Fatto sta che i cartaginesi continuavano a saccheggiare i paesi che attraversavano, e lo scontento cominciava a farsi largo tra il popolo.
Marco Minucio Rufo, detrattore di Fabio Massimo, non perdeva occasione per cavalcare il malcontento popolare e stigmatizzare la tattica "codarda" del generale romano.
In effetto un occasione si presentò a Fabio Massimo: l'esercito cartaginese si era imbottigliato fra Teano e Cales. Fabio Massimo controllava l'uscita della valle, ma Annibale, con uno stratagemma degno di Ulisse, riuscì a cavarsela anche questa volta: ordinò di attaccare delle fascine sui fianchi di una mandria di buoi e poi, appiccato il fuoco, la scagliò contro l'esercito romano. Lo scompiglio fu tale che i cartaginesi ebbero il tempo di fuggire.
La sconfitta di Canne
Nella primavera del 216, scaduta l'investitura di Fabio Massimo, furono eletti due nuovi consoli: Lucio Emilio Paolo, patrizio, e Caio Terenzio Varrone, di "esemplare" estrazione plebea (figlio di un macellaio, egli stesso in passato garzone).
La parola d'ordine era attaccare finalmente Annibale per cancellare la "vergognosa" tattica attendista di Fabio Massimo.
Lo scontro tra i due eserciti avvenne a Canne, sconosciuto villaggio nei pressi del Gargano. I romani avevano a disposizione 50.000 fanti e 6.000 cavalieri, i cartaginesi 35.000 fanti e 10.000 cavalieri.
L'esercito romano era però gravato del disaccordo tra i due consoli, l'uno era contro le decisioni dell'altro, il patrizio contro il plebeo. Annibale tese inoltre una trappola: finta la diserzione di 500 numidi, giunti presso i romani, i soldati sguainarono all'improvviso le spade contro i legionari.
Annibale era strategicamente superiore ai due consoli, la polvere accecava l'esercito romano e la cavalleria cartaginese accerchiò facilmente i nemici. Fu una strage.
L'attacco romano fu deciso da Varrone all'insaputa del console patrizio. I romani lasciarono sul campo 45.500 fanti 2.700 cavalieri. Morirono Lucio Emilio Paolo e i tribuni militari Gneo Servilio Gemino e Marco Minucio Rufo, oltre a ottanta senatori partiti come volontari. Varrone si rifugiò a Venosa.
Canne fu la sconfitta più pesante della seconda guerra punica: la Gallia Cisalpina era da tempo in rivolta, solo qualche avamposto romano ben difeso presidiava le zone del nord, con la sconfitta di Canne anche il sud della penisola era in balia dell'invasore, con Roma ora vi era solo l'Italia centrale, ovvero l'Etruria, l'Umbria, il Piceno e il Lazio.
A Roma le donne piangevano i morti, il clima generale era di paura, se non ti terrore: Annibale sembrava invincibile, e nulla sembrava impedire al generale cartaginese di impadronirsi anche della capitale.
Il dopo Canne: le strategie puniche
Per perorare la causa della sua campagna di conquista agli occhi di Annone il Grande, Annibale mandò in patria suo fratello Magone con una nave carica degli anelli d'oro dei cavalieri romani uccisi in battaglia, l'impressione fu grande, ma il re cartaginese continuava a ritenere una eventuale pace con Roma più fruttuosa della guerra. Nonostante ciò Annibale ottenne rinforzi (4.000 numidi, 40 elefanti, oltre a 20.000 fanti e 40.000 cavalieri).
L'intenzione di Annibale era quella di rovesciare Roma attraverso la perdita degli alleati italici. Il nord era già destabilizzato, il sud si avviava ad esserlo, nell'Adriatico Annibale aveva mobilitato, grazie ad una alleanza, il re Macedone, Filippo V (ma il nuovo fronte non fu mai in grado di impensierire i romani). La guerra con Filippo viene definita dagli storici come "prima guerra macedone", ben altre due guerre più impegnative vedranno protagonisti i due regni in futuro.
Ora i punici puntavano alla Sicilia: nelle intenzioni l'isola doveva diventare la base logistica per accogliere i rifornimenti dalla madre patria e un territorio stragegico sicuro più vicino allo scenario bellico rispetto alla Spagna. Se il suo piano fosse giunto a compimento, la Sicilia sarebbe diventata il primo anello della conquista della penisola.
La guerra in Sicilia: l'assedio di Siracusa
A contrastare Annibale in Sicilia fu mandato il bellicoso generale Claudio Marcello. Ma nonostante gli sforzi, le prime battaglie volsero ancora a favore dei cartaginesi.
Il popolo siciliano fu quasi interamente dalla parte di Cartagine. Agrigento fu occupata da Annibale.
Siracusa era passata al fianco del generale cartaginese. Alla morte del suo tiranno Gerone II, grande amico di Roma, il consiglio cittadino aveva deciso di schierarsi con Annibale. A Claudio Marcello non restò altro che iniziare l'assedio della città: durò due anni, dal 213 al 211. Le sue truppe stringevano la città da mare e da terra, ma dovettero subire il leggendario attacco delle geniali macchine di Archimede, ospite della città (gli specchi ustori che affondavano le navi bruciandole e gigantesche ancore-arpioni che penetravano gli scafi facevandoli rovesciare).
Nonostante ciò, Claudio Marcello ottenne la caduta di Siracusa, dopo una lunga battaglia condotta quartiere per quartiere. Archimede stesso morì, e molti tra i siracusani, accusati di tradimento, furono trucidati. La città stessa venne saccheggiata per ridare fiato alle esauste casse romane. Siracusa era di vitale importanza per tutta l'isola, anche Agrigento non poteva che arrendersi, mentre già Annibale era a Taranto, consegnatasi al nemico in forza dell'ennesimo tradimento.
La mancata conquista della Sicilia fu il primo duro colpo ai piani cartaginesi. Ora i rifornimenti ad Annibale sarebbero dovuti arrivare ancora dalla Spagna, lontana e sul fronte di guerra (si veda la parte III°).
Annibale alle porte di Roma, la caduta di Capua
Nel frattempo, nel 212, i romani, facendo appello ai cittadini perché consegnassero gli averi alla patria e varando nuove tasse (la guerra aveva esaurito l'erario), cominciarono ad assediare Capua, nella quale si trovava, tra gli agi e le mollezze che la città offriva, lo stesso Annibale e il suo esercito.
I romani impedivano sistematicamente ad Annibale di uscire dalla città, avevano costruito tutto intorno un complesso sistema di macchinari d'assedio e lottavano con vigore ogniqualvolta una spedizione nemica minacciava di sfondare lo sbarramento.
Annibale decise di tentare la marcia su Roma, con la speranza che l'esercito assediante seguisse l'esercito cartaginese e interrompesse l'assedio di Capua.
Non fu così. Sebbene Annibale riuscisse ad uscire dalla città, grazie all'ennesimo stratagemma (fece muovere l'esercito di notte dopo avere accesso ingannevolmente le torcie nel suo accampamento), l'esercito assediante non lo seguì, fatto che si dimostrò decisivo nello sviluppo successivo degli eventi. Annibale ebbe quindi gioco facile nella sua marcia verso Roma, giungendo alle sue porte senza incontrare resistenza.
Tutti pensarono che Annibale volesse sferrare l'attacco finale e la popolazione già si preparava a subire le conseguenze del saccheggio nemico, ma non fu così. Forse in considerazione del fatto che le mura delle città, fortificate da Fabio Massimo, erano praticamente inespugnabili, che a Roma si trovavano ancora quattro legioni e che alle spalle aveva Capua ancora assediata, Annibale, dopo avere saccheggiato le campagne, decise di fare marcia indietro, e dirigersi verso l'Apulia, abbandonando la stessa colonia campana al nemico.
Per Capua fu il crollo (211). Senza i cartaginesi la città venne occupata dai romani, che non ebbero molta pietà per coloro che consideravano traditori (gli stessi capuani dovettero bere l'amaro calice del tradimento di Annibale). I membri del senato capuano e i notabili furono condannati, parte della popolazione ridotta in schiavitù. La stessa città perdette l'indipendenza e fu nominato un pretore romano allo scopo di governarla come comunità in sudditanza. Fu l'inizio della riscossa romana.
La guerra in Spagna
Dal 215 si trovavano sul fronte spagnolo i fratelli Scipione, Gneo e Publio (già protagonisti della battaglia sul Trebbia). Publio era omonimo di quel Publio Cornelio che più avanti sarebbe prepotentemente entrato nella storia.
Lo scopo della spedizione romana era arginare i tentativi di invasione cartaginesi e privare Annibale dei rinforzi. La Spagna era per i fratelli Barca la base strategica della campagna europea, lì vi avevano fondato la loro citta, Carthago Nova, nelle intenzioni e nel nome una seconda Cartagine, capitale del futuro regno punico nel contintente. Del fronte spagnolo si occupavano Asdrubale e Magone, i fratelli di Annibale.
I fratelli Scipione avevano passato l'Ebro ed erano vicini a Sagunto, la città che fu il casus belli del conflitto. Presso Dertosa, assediata dai romani, si svolse la prima battaglia con i cartaginesi. Vinsero gli Scipioni. La vittoria permise di rallentare le mire espansionistiche cartaginesi e a far cambiare orientamento politico alle tribù iberiche locali, oltre a provocare una prima ondata di ottimismo in patria, a Roma.
Intanto Asdrubale dovette ritornare in Africa per sedare la rivolta di Siface, re di Numidia, si dice "incoraggiato" alla rivolta dagli stessi Scipioni (come sempre la guerra fu anche "diplomatica").
Nei tre anni che servirono ad Asdrubale per sconfiggere Siface, i fratelli Scipione avevano riportato ulteriori succesi, tra i quali la riconquista di Segunto, nel 212.
L'esercito cartaginese, riorganizzatosi, ingaggiò nel 211 la battaglia decisiva. Asdrubale riuscì a dividere gli eserciti dei due fratelli Scipione per poi affrontarli separatamente. I romani furono nettamente sconfitti, gli stessi Scipioni morirono, e quel che restava dell'esercito romano si dovette ritirare nuovamente oltre l'Ebro, dove mantenne, pur nelle dificoltà, le posizioni.
Il promettente Publio Cornelio Scipione
Già da tempo a Roma si stava facendo largo un giovane e promettente condottiero, Publio Cornelio Scipione. Era un personaggio carismatico, si dice fosse affabile nei modi, sicuro di sé e della sua futura gloria e avesse un profondo sentimento religioso (nelle sue scelte si affidava al responso dei sogni e degli dei), tra la popolazione godeva di gran favore, grazie anche all'episodio che lo vide salvare la vita al padre nella battaglia del Ticino.
Nel 211 il senato romano mandò sul fronte spagnolo il pretore Claudio Nerone, ma la sua tattica "del temporeggiatore" ancora una volta non venne gradita sia dai senatori che dal popolo. A questo punto si acclamava a gran voce di sostituirlo con Scipione.
Pur essendo solo venticinquenne e non avendo ancora titoli, il senato lo nominò proconsole e lo mandò sul fronte spagnolo con due legioni da aggiungere a quelle che già vi si trovavano.
L'arrivo di Scipione in Spagna, nel 210, risollevò il morale alle truppe, anche perché il generale riorganizzò l'esercito eliminando di fatto un certo lassismo e una certa disorganizzazione che si era impossessata delle legioni.
La presa di Carthago Nova
La prima impresa di Scipione fu quanto mai eclatante. Preso atto che le legioni cartaginesi erano sparpagliate su tutto il territorio iberico, decise di puntare direttamente su Carthago Nova.
La città sorgeva su un promotorio, da un lato era difesa da mura, dall'altro un'impervia scogliera rendeva difficile lo sbarco via mare. Scipione disponeva, oltre alle legioni, di un contigente di navi.
In un primo momento l'esercito romano ingaggiò battaglia presso le mura in modo da attirare l'attenzione della guardia verso terra. Sfruttando la bassa marea, dal mare le navi sbarcarono 500 legionari muniti di scale, che ebbero gioco facile nel risalire la scogliera e penetrare in città. La sorpresa fece crollare le difese nemiche, ormai circondate. Ciò accadde nel 209.
Il crollo di Carthago Nova fu un durissimo colpo per i cartaginesi. Persa la possibilità di stabilire una base in Sicilia, perdevano improvvisamente la sede storica della loro invasione. Grosse quantità di provviste e di armi passarono al nemico, nonché un certo numero di ostaggi.
Scipione dimostrò tutta la sua abilità politica e la sua nobiltà di carattere quando si trattò di restituire alcuni ostaggi iberici, di fronte alle offerte di riscatto, egli restituì gli iberi senza chiedere in cambio nulla. Tutto ciò, unita alla presa di Carthago Nova, portò i favori della popolazione spagnola verso Roma.
La battaglia del Metauro
Asdrubale, nel 207, decise di puntare verso l'Italia per congiungersi al fratello, seguendo la stessa via da lui percorsa nel 218. La spedizione consisteva in 20.000 uomini, ma contava di trovare altri soldati strada facendo, soprattutto tra le popolazioni di Galli. Malgrado la presa di Carthago Nova, Scipione venne meno così al suo compito, che era quello di impedire al fratello di Annibale di lasciare la Spagna.
A Roma si corse ai ripari. Vennero eletti consoli Claudio Nerone e Marco Livio Salinatore. Livio presidiò con il suo esercito il nord, mentre Claudio Nerone ebbe il compito di tenere a bada Annibale che si trovava come sempre più a sud, in Apulia.
Per informare il fratello dei suoi piani, Asdrubale aveva mandato alcuni corrieri. Disgraziatamente questi caddero nelle mani di Claudio Nerone che venne così a conoscenza dei piani di ricongiungimento.
Claudio prese una decisione improvvisa e coraggiosa. Lasciati sul posto alcuni soldati a sorveglianza di Annibale, nottetempo partì con tutto il suo esercitò verso nord, con l'intenzione di riunirsi alle legioni di Livio. Ora Roma poteva disporre di un esercito riunito di 40.000 uomini.
Quando Asdrubale si accorse delle forze preponderanti romane, cercò di aggirarle, ma alla fine dovvete affrontare la battaglia presso il fiume Metauro, nel 207. La battaglia fu un trionfo romano, la spedizione cartaginese venne annientata, lo stesso Asdrubale perse la vita in battaglia e i romani tagliarono la testa al cadavere gettandola davanti all'accampamento di Annibale (in questo non si mostrarono molto riconoscenti nei confronti del generale che aveva accordato degna sepoltura a Claudio Marcello, vittorioso a Siracusa, caduto in Puglia nel 208 dopo aver riconquistato Taranto nel 209: Annibale ordinò che il suo corpo fosse seppellito con tutti gli onori militari).
La battaglia fu quanto mai decisiva per i romani. Con la morte di Asdrubale, Annibale venne privato di qualsiasi possibilità di aiuto, e la sua sorte, dopo 15 anni di vittorie sull'intero suolo italico, sembrava più che mai segnata. Le popolazioni della penisola non appoggiavano più i cartaginesi, i quali non godevano ormai di molte possibilità di vittoria. Annibale era ormai solo.
La fine del domonio cartaginese in Spagna
Nel 207 Scipione attaccò l'esercito cartaginese a Silpia, presso il fiume Baetis. In Spagna, per i punici, erano rimasti Magone e un altro Asdrubale, figlio di Giscone. Sebbene Cartagine avesse mandato rinforzi, la vittoria fu ancora una volta dei romani.
Magone con le truppe superstiti si ritirò a Cadice, e fece poi un tentativo di rinconquistare Carthago Nova, ma fallì. Quando ritornò a Cadice, la città si era già consegnata pacificamente ai romani. Magone non potè altro che tornare a Cartagine.
Fu la fine del dominio cartaginese in Spagna, nel 206 la penisola era definitivamente liberata.
Scipione sbarca in Africa
Il vittorioso Publio Scipione ritornò in patria da trionfatore. Nel 205 si candidò per la carica di Console e fu eletto all'unanimità. Inutile dire che il popolo era tutto dalla sua parte. L'altro console fu Publio Licinio Crasso, ovviamente oscurato, agli occhi della storia, dalla fama del giovane generale.
A questo punto Scipione propose al Senato l'idea di sbarcare in Africa per sconfiggere il nemico sul suo stesso suolo definitivamente. Il Senato, guidato dal prudente Fabio Massimo, in un primo momento si oppose, infine decise di accontentare Scipione.
Vennero reclutati volontari dall'Etruria e construite 30 navi, mentre Scipione ottenne la Sicilia come provincia, col permesso di reclutare altre legioni sul posto e di recarsi in Africa quando più lo ritenesse opportuno.
Nel frattempo Magone sbarcò in Liguria dalle Baleari, nel tentativo di ricongiungersi al fratello. Conquistò Genua (Genova) e tentò di portare dalla sua parte la popolazione ligure, ma la lezione del Metauro aveva impaurito i galli. Senza l'aiuto dei liguri, Magone non potè far altro che ritirarsi (203). Egli stesso gravemente ferito, morì probabilmente durante il viaggio di ritorno in patria.
Nella primavera del 204 Scipione partì da Lilibeo verso le coste africane. Portava con sé 50 navi e un esercito di 25.000 uomini. Lo sbarco avvenne presso Utica, senza incontrare alcuna resistenza. I romani allestirono il campo presso la città.
Ora la minaccia per Cartagine era più che mai seria. La guerra aveva cambiato corso: fino ad allora assedianti, i punici erano ora diventati gli assediati.
Cartagine chiede l'armistizio, Annibale ritorna in patria
Scipione tentò subito di assediare Utica, ma dovette desistere. In Africa i cartaginesi godevano dell'appoggio di Siface, re della Numidia occidentale, il quale, assieme ad Adsdrubale di Giscone, tenne facilmente a bada, in un primo momento, le mire di conquista di Scipione. Tuttavia quest'ultimo potè contare sull'appoggio di Massinissa, re della Numidia orientale e nemico di Siface.
Giunti a un punto di stallo, in cui entrambi gli eserciti non si sentivano superiori all'altro, venne proposta la pace, con il ritorno allo stato "quo ante bellum", ovvero allo stato di cose precedente alla guerra. Scipione, malgrado non fosse per niente dell'idea, acconsentì, un pò per prendere tempo, e un pò per raccogliere utili informazioni sullo stato delle forze avversarie.
Quando si sentì pronto, Scipione rifiutò l'armistizio, e mandò a dire a Siface che, seppur personalmente contrario al conflitto, non lo era il suo consiglio di guerra.
La stessa notte mandò Massinissa e il suo generale Caio Lelio ad incendiare i campi numidi. Nel frattempo Scipione si schierava nei presso del campo cartaginese. Il panico causato dagli incendi procurò gravissime perdite agli eserciti nemici, per il fatto che i romani attendevano alle spalle i fuggitivi per colpirli durante la ritirata.
Il tranello disorientò gli eserciti nemici. Rinforzate in tutta fretta con mercenari celtiberi, le forze di Siface e Asdrubale si presentarono alla battaglia presso i Campi Magni. I romani ebbero la meglio. Siface fuggì verso il suo regno, Asdrubale di Giscone riparò a Cartagine. Massinissa seguì Siface e lo fece prigioniero, diventando così l'unico re della Numidia.
Ai cartaginesi, perso l'appoggio numida, non restò che chiedere l'armistizio. Era l'autunno del 203.
Le condizioni dettate da Roma furono le seguenti: Cartagine perdeva tutti i possedimenti fuori dall'Africa, doveva pagare un grosso tributo di guerra e consegnare quasi tutte le navi da guerra. La Numidia venne riconsciuta come stato indipendente con re Massinissa.
Una delegazione cartaginese consegnò il trattato a Roma, dove venne approvato dal Senato e da una assemblea popolare.
In tutto questo, l'esercito romano rimaneva in Africa, Scipione operò per sottomettere le città puniche attorno a Cartagine, mentre ad Annibale e a Magone (che morì durante il viaggio) venne ordinato il ritorno in patria.
Così terminava la spedizione di Annibale in Italia, dopo quindici anni di scorribande vittoriose e senza alcuna seria sconfitta. Da grande minaccia qual era stato per tutto lo stato romano e per i suoi alleati, ora il forte condottiero era costretto a difendere la patria dallo stesso nemico che aveva quasi sconfitto e trascinato in un lungo e logorante conflitto.
La battaglia di Zama
Lungi dal sentirsi sconfitti, il ritorno in patria di Magone e Annibale ridiede coraggio ai cartaginesi. Nel senato della capitale punica prevalse il partito militare dei Barca e il sentimento di riscatto. I cartaginesi iniziarono ad assalire le navi militari romane e a disturbare i rifornimenti alle truppe di terra di Scipione.
Prima dell'inevitabile scontro, Annibale e Scipione si incontrarono faccia a faccia per la prima volta per discutere una soluzione pacifica, entrambi erano incerti sulle possibilità e la forza dei rispettivi eserciti. Ma non se ne fece nulla.
I due eserciti si incontrarono a Zama, a sud di Cartagine, verso l'interno. Potevano contare entrambi su una forza di 40.000 uomini. Quello di Scipione era appoggiato da 4.000 cavalieri e 6.000 fanti numidi di Massinissa, l'esercito di Annibale era composto da mercenari, dai veterani della spedizione italica, da reparti della guardia cittadina di Cartagine e da soli 2.000 cavalieri numidi ribelli, amici di Siface. Davanti allo schieramento erano stati schierati 40 elefanti.
I reparti di Scipione erano disposti su tre file, con ampi spazi tra gli uni e gli altri per consentire il passaggio degli elefanti. La cavalleria era come sempre piazzata ai lati dello schieramento.
Inizialmente le trombe di guerra dei romani spaventarono alcuni elefanti che si rivolsero contro la propria cavalleria. Lo scompiglio creato permise alla cavalleria romana di gettarsi sopra quella avversaria mettendola in fuga. I fanti cartaginesi resistettero bene all'urto, ma non poterono fare nulla quando la cavalleria romana ritornò colpendoli alle spalle. Le sorti della battaglia arrisero a Scipione. Sul campo caddero 10.000 cartaginesi e altrettanti furono fatti prigionieri, mentre le perdite romane furono di molto inferiori. Annibale fuggì ad oriente e trovò rifugio ad Adrumento, con un piccolo contingente di quella cavalleria che questa volta si era dimostrata di molto inferiore all'avversaria. Era il 202 a.C.
Sebbene qualcuno pensasse di continuare a combattere, Annibale capì che era giunto il momento di arrendersi.
Le condizioni della resa furono più dure rispetto al precedente armistizio. Cartagine perdeva tutti i possedimenti non africani, doveva consegnare l'intera numidia a Massinissa e pagare il mantenimento delle truppe romane in Africa per tre mesi. Inoltre, oltre al pagamento dei danni di guerra intercorsi tra il precedente armistizio e quello nuovo, Cartagine era privata del diritto di dichiarare guerra senza il permesso di Roma. A garanzia di tali condizioni, Scipione ottenne il diritto di scegliere cento ostaggi.
Considerazioni finali
Il trionfo di Roma fu definitivo. A Scipione venne attribuito l'appellativo di Africano. Con la fine della seconda guerra punica Roma divenne di fatto lo stato più potente del Mediterraneo.
Le guerre puniche furono per Roma una valida scuola militare. Molti miglioramenti erano stati apportati nell'equipaggiamento e nelle tecniche di guerra, grazie alla necessità di contrastare avversarsi temibilissimi quali i cartaginesi. grazie a tali conoscienze a a tale esperienza, Roma diventò quella potenza in grado di contrastare e dominare il bacino del Mediterraneo per mezzo secolo.
La guerra portò ai romani anche molti nuovi territori: la Corsica, la Sardegna, la Sicilia, la penisola iberica meridionale, oltre a un'influenza considerevole sulle coste africane cartaginesi e numidi. Per la prima volta nella sua storia Roma si affacciava oltre le terre italiche. Altri trionfi l'attendevano.
Guerra in Oriente
Mentre Cartagine e Roma erano intente a darsi battaglia nel Mediterraneo, altri vicende avevano creato diversi rapporti di forza tra le potenze orientali.
Le tre grandi potenze orientali attorno al 200 a.C. erano la Macedonia di Filippo V, già intromessasi nelle vicende della guerra tra Roma e Cartagine con azioni di disturbo nell'Adriatico (si veda la II° guerra punica), la Siria di Antioco III e l'Egitto Tolemaico.
Mentre la Macedonia manteneva la sua influenza sull'Illiria e sulla Grecia, la Siria era riuscita a reasturare la monarchia dei Seleucidi e occupava un territorio che andava dal medio-oriente fino alla Persia, attraverso la Mesopotamia. Per l'Egitto Tolemaico invece, si avviava una lenta e inesorabile decadenza, il suo territorio era ambito sia dalla Macedonia che, soprattutto, dalla confinante Siria.
Nel 203-202 a.C. Macedonia e Siria strinsero un accordo segreto contro l'Egitto. Nel 201 Antioco invase la Siria meridionale e sconfisse l'esercito egiziano, conquistando Gaza. Filippo V, invece, forse per doppio gioco (si dice volesse risparmiare l'Egitto per ricavarne una futura alleanza contro la Siria) attaccò le città indipendenti dell'Egeo, e dell'Ellesponto, allendosi con Prusia, re di Bitinia (Turchia settentrionale).
Le città greche, indignate dall'efferatezza degli attacchi (distruzioni e schiavismo), cominciarono ad allearsi tra loro: Rodi, Bisanzio, Chio e il regno di Pergamo si unirono contro gli aggressori.
Filippo V fu validamente tenuto a bada dalle agguerrite flotte greche, e fu costretto a ripararsi nella Caria meridionale (Turchia) per qualche tempo, prima di fare ritorno in Macedonia, non sconfitto, ma nemmeno vincitore e dopo avere inutilmente tentato di invadere Pergamo.
Roma scende in campo
Le città greche assalite non potevano certo sperare di resistere a lungo, fu così che decisero di mandare un'ambasciata a Roma per cercarne l'appoggio.
In quel momento Roma era appena uscita dalla seconda guerra punica: l'economia italica era in ginocchio, la popolazione diminuita drasticamente e i tributi chiesti alla popolazione avevano raggiunto cifre esorbitanti. Non sembrava quindi possibile che l'Urbe decidesse per un intervento militare, si trattatava pur sempre di una nuova campagna fuori dai confini.
Tuttavia Roma accettò di aiutare le città greche. Fu una decisione lungamente ponderata. A favore dell'intervento aveva giocato il timore che la Macedonia e la Siria, allenadosi, avessero potuto conquistare agevolmente gli stati medio-orientali, nettamente più deboli e dar vita a un regno fin troppo potente e potenzialmente pericoloso per gli interessi romani nel mediterraneo.
La seconda guerra macedone
La diplomazia romana si mosse in due direzioni. Nella prima si faceva pressione su Filippo per constringelo ad ingaggiare lotta, nella seconda si cercava di mantenere la Siria neutrale, cosa che di fatto riuscì, vista l'antica diffidenza di Antioco verso la Macedonia. Pur avendo stretto un alleanza, Macedonia e Siria mai ebbero una politica comune, ognuno temeva che le vittorie avrebbero rafforzato eccessivamente una parte a scapito dell'altra. Questo rese debole da subito l'alleanza tra i due stati.
Nel 199 a.C. Publio Sulpicio penetrò in Macedonia attraverso l'Illiria. Filippo si ritirò, temendo la superiorità numerica dei romani, mentre questi, impossibilitati a ingaggiare battaglia, ritornarono ai loro accampamenti in Illiria. Filippo ebbe il tempo di fortificarsi e rafforzare le difese ai valichi fra l'Epiro e la Tessaglia, mentre respingeva gli attacchi di invasori Etoli e Dardani.
Nel 198 il comando dell'esercito romano fu affidato a Tito Quinzio Flaminino, valente generale dell'ambiente degli Scipioni. Egli era un abile diplomatico e sognava di liberare la Grecia, della quale era un ammiratore, dal gioco macedone.
Flaminino cominciò subito a tessere una rete di alleanze anti-macedoni. Diede un ultimatum a Filippo: egli doveva liberare immediatamente le città greche dall'assedio. Filippo, che si sentiva forte delle posizioni, non accettò. Flaminino, con l'aiuto di guide locali, fu però talmente abile da aggirare le fortificazioni macedoni e costrinse Filippo ad indietreggiare ancora di più verso l'interno.
Intanto dalle parti di Roma si erano schierate anche le città dell'Achea, fino ad allora alleate della Macedonia. Successivamente anche Sparta e la Beozia cambiarono l'alleanza in favore dei romani. Filippo era sempre più isolato. Contemporaneamente, la flotta alleata si era intanto avvicinata a Corinto, importante centro sotto inluenza macedone.
Nel 197 a.C. la situazione era ormai matura per lo scontro diretto. Filippo non poteva attendere oltre con il rischio di rimanere sempre più solo, Flaminino temeva di essere sostituito alla guida dell'esercito.
Lo scontro avvenne in Tessaglia, sulle colline dette Cinocefale ("teste di cane"). Filippo aveva assoldato le riserve, tra loro anche ragazzi di sedici anni, entrambi gli eserciti disponevano di circa 26.000 uomini. I romani vinsero infliggendo pesanti perdite ai macedoni, che non avevano potuto sfruttare le qualità della falange sul terreno collinare e scosceso.
I romani, temendo l'intervento siriano, si affrettarono a trattare l'armisitizio. Si decise una tregua di quattro mesi e il pagamento di 400 talenti. Filippo doveva inoltre interrompere gli assedi alle città greche ed evaquare quelle conquistate, oltre a consegnare la flotta militare.
Le clausole non furono troppo severe perché già si pensava di guadagnarsi l'appoggio di Filippo nella futura e ormai inevitabile guerra contro la Siria.
La liberazione della Grecia
Sempre nell'ottica diplomatica di crearsi un largo consenso nelle regione orientali, Roma e Flaminino dichiararono solennemente la libertà della Grecia. Il testo del trattato recitava: "In generale, tutti gli Elleni, sia asiatici che europei, saranno liberi e sottoposti a proprie leggi".
Polibio scrisse della dichiarazione in occasione dei giochi istmici dell'estate del 196 a.C., riportando l'araldo: "Il senato romano e il comandante con potere consolare, Tito Quinzio, che hanno vinto il guerra Filippo e i Macedoni, donano la libertà ai Corinzi, ai Focesi, agli Egei, agli Achei Ftioti, ai Magneti, ai Tessalici, ai Perrebi, permettendo loro di non mantenere guarnigioni, di non pagare imposte e di vivere secondo la legge dei loro padri".
Le città greche da sole non potevano ormai contrastare né i Macedoni, né Roma, né tantomeno la Siria. Roma decise allora di stringere un accordo che in termini moderni si definirebbe di "partnerariato", ben sapendo di essere il soggetto più forte. Roma avrebbe quindi aiutato la Grecia, frammentata come sempre in un'innumerevole sciame di città indipendenti e piccoli stati, proteggendola con il suo prestigio politico e la sua forza militare.
In sostanza fu un'abile mossa diplomatica per garantirsi il favore di una antica e onorata civiltà, se Roma non avesse dichiarato la libertà dei greci, lo avrebbe fatto Antioco di Siria, con grave danno politico e strategico.
In realtà Flaminino mantenne a lungo guarnigioni romane in Grecia, che ritirò solo sotto la pressione della popolazione, che già lamentava l'occupazione romana e il tradimento dell'annuncio. I romani intendevano ridisegnare la carta geo-politica di una regione ritenuta ancora instabile. In vista di una invasione siriana, Flaminino e il consiglio dei dieci, incaricati di vegliare sulla regione, cercarono di attirare a sé più alleati possibili.
Il pericolo siriano
Mentre Roma e Macedonia erano intente a farsi la guerra, la Siria di Antioco non era rimasta a guardare. Aveva conquistato, sfruttando la debolezza egiziana, la costa meridionale dell'Asia minore, mentre già aveva varcato l'Ellesponto e occupato alcune città della Tracia, precedentemete appartenute ai macedoni. Era il 196 a.C. e la Siria per Roma si faceva quanto mai minacciosa (la Tracia era praticamente adiacente alle città greche sotto la protezione romana).
Benché Antioco volesse solo impadronirsi dei possedimenti traci, già storicamente occupati e poi perduti, il consistente sbarco di truppe siriane in Europa preoccuparono Roma che mandò in Tracia una prima ambasciata, con il pretesto di farsi carico delle lamentele di alcune città libere greche. Roma fece capire ad Antioco che non avrebbe tollerato l'eventualità di una sua politica aggressiva, ma il re siriano rispose che non vedeva nessuno motivo per il quale Roma dovesse intromettersi nella politica estera del suo regno.
Fu l'inizio di una serie di eventi che avrebbe portato le due parti allo scontro.
Annibale alla corte di Antioco
Nel frattempo Annibale era salito alla guida dello stato cartaginese e stava cercando di risollevare il regno, soprattutto finanziariamente. Egli aveva cercato di debellare la diffusa corruzione che albergava tra i membri del consiglio della città, e questo, unito al timore che Annibale potesse acquisire troppo potere ai loro danni, fece si che gli oligarchi dello stato punico chiamassaro in aiuto proprio i nemici romani.
Con il pretesto di discutere questioni riguardanti la Numidia, i membri del consiglio tramarono di nascosto la consegna di Annibale agli ambasciatori, ma questi fiutò il pericolo e fuggì nottetempo, diretto in Siria. Ciò accadde nel 195 a.C.
In Siria Annibale fu accolto con grandi onori, e questo, ovviamente, fu motivo di nuova allarme per Roma. Se Antioco avesse abbandonato le coste europee, Roma era disposta a lasciarle mano libera in Asia, ma Antioco non ne voleva sapere di lasciare la Tracia, e, inevitabilmente, scoppiò la guerra.
Malcontento e divisioni in Grecia
Nel 193 a.C. l'entusiasmo che aveva suscitato il proclama di liberazione romano aveva lasciato il posto a un diffuso malcontento tra i litigiosi stati della Grecia. Sebbene Roma avesse ritirato le sue guarnigioni sul territorio, manteneva pur sempre la "mano pesante" nelle faccende politiche locali. L'obiettivo romano, come si è detto, era quello di riorganizzare la mappa geo-politica della Grecia, e per fare questo spesso favorì uno stato a scapito dell'altro, sempre appoggiando gli elementi aristocratici e meno i sentimenti della popolazione.
Sentendosi egemonizzati dalla prepotenza romana, tra i greci cominciò a farsi largo lìidea che il solo e unico liberatore della Grecia potesse essere Antioco, il solo in quel momento, ingrado di contrastare e battere Roma.
Soprattutto la lega Etolica spingeva nella direzione di fondare una coalizione antiromana (agli Etoli non era piaciuta la divisione del "bottino" di guerra macedone, dove avevano combattuto a fianco dei romani).
Assieme alla lega Etolica, alleata con la Siria, si schierò la Beozia, l'Eubea, l'Elide e Messene, mentre con Roma si scherarono la lega Achea (che aveva incorporato Sparta nel 192 a.C. grazie a una vittoria del famoso stratego acheo Filopemene), Atene, ma soprattutto la Macedonia, ormai alleata di Roma, che l'aveva esonerata dal pagamento del debito di guerra, restituito gli ostaggi e promesso vantaggi territoriali in caso di vittoria.
Antioco sconfitto alle Termopili
Annibale, nella veste di consigliere militare, aveva proposto ad Antioco di portare la battaglia direttamente sul suolo italico, ma il re siriano non accolse i consigli del condottiero cartaginese in quanto non riteneva Roma obiettivo principale della sua campagna. Ad Antioco interessava, come già detto, l'Asia e, parzialmente, la Grecia, se non altro per la sua posizione strategica sempre nell'ambito della scacchiera orientale.
Nel 192 a.C. Antioco sbarcò a Demetria, in Tessaglia, con solo 10.000 fanti, un piccolo reparto di cavalleria e 6 elefanti. Era evidente che contava sull'appoggio dei suoi alleati greci, sopratutto gli Etoli, sopravvalutandone però la forza.
Antioco e gli Etoli attaccarono i romani presso Delion, la guerra era cominciata.
I romani avevano affrontato la guerra più metodicamente. Nel timore che i siriani potessero sbarcare in Italia, una parte della flotta romana pattugliò costantemente le coste, mentre un'altra parte, al comando del console Manio Acilio Glabrione (del partito degli Scipioni), sbarcò in Illiria, ad Apollonia. L'esercito romano contava 20.000 fanti, 2.000 cavalieri e 15 elefanti (i romani ne avevano appreso l'uso durante le guerre puniche).
Nell'aprile del 191 a.C. Antioco già combatteva con i macedoni e alcuni reparti romani in appoggio, quando l'arrivo dell'esercito di Acilio gli suggerì di ritirarsi alle Termopili (già luogo di una famosa battaglia tra grechi e persiani). Qui fu affrontanto dall'esercito romano e venne sonoramente sconfitto.
Ad Antioco non restò altro che imbarcarsi in Eubea diretto verso Efeso. Le regione greche alleate si arresero ai romani (con l'eccezione degli Etoli).
Padroni dell'Egeo
Caduta la possibilità di una invasione siriana in Italia, la flotta a guardia dei confini si diresse verso l'Egeo, al comando di Caio Livio Salinatore. Al fianco della flotta romana si schierarono Rodi, Pergamo, Chio e le più grandi isole greche.
Le flotte romane e siriane, comandate da Polissenida, si incontarono davanti a Chio, presso il capo Corico, nell'estate del 191 a.C. Ancora una volta i siriani vennero sconfitti, cosicché, di fatto, i romani divennero padroni dell'Egeo, e già si pensava di sbarcare in Asia Minore (Turchia) e sconfiggere Antioco sul suo stesso territorio.
Saputo della sconfitta, Antioco diede mandato ad Annibale di reclutare in tutta fretta una nuova flotta navale, con equipaggi fenici reclutati per l'occasione e scarsamente preparati. Nel 190 La flotta di Annibale si scontrò con quella di Rodi presso le coste della Pamfilia (turchia meridionale) e perse 20 navi. Fu l'evento che segnò il definitivo abbandono della guerra da parte di Annibale.
Antioco non si diede pervinto e organizzò sempre nello stesso anno un'altra spedizione di 89 navi, tutta la flotta a guardia di Efeso. La flotta romana e rodia, presso il capo Mionneso, affondò 40 navi nemiche. Fu l'evento che segnò la definitiva sconfitta della marina siriana, che non sarebbe più scesa in campo fino al termine del conflitto.
Intanto i romani avevano già occupato, con l'aiuto della flotta rodia, Sesto, nell'Ellesponto. Con gli Etoli si era conclusa una tregua di sei mesi in modo da permettere di concentrare l'esercito romano e quello macedone in Tracia, in vista dell'invasione dell'Asia Minore.
La battaglia di Magnesia
In Asia Minore Antioco aveva riunito un grande esercito, composto da soldati proveniente da ogni parte del regno. Malgrado ciò, dopo aver perso i primi scontri, tentò di intavolare trattative di pace coi romani, non sentendosi più sicuro della vittoria. I romani, al contrario, sentendosi forti, non accettarono la proposta di Antioco di abbandonare l'Europa, ma pretesero che abbandonasse invece tutta l'Asia Minore e pagasse le spese di guerra. Il re siriano non accettò e gli scontri proseguirono.
Lo scontro decisivo avvenne presso Magnesia nel 189 a.C. I romani, guidati dell'ex console Gneo Domizio (Scipione era ammalato) disponevano di 30.000 uomini, i siriani di 70.000 (16.000 fanti pesanti, le falangi, 12.000 cavalieri, 20.000 fanti leggeri, 54 elefanti e carri falcati, carri corrazzati con spuntoni alle ruote).
Malgrado l'enorme divario di forze, i romani accettarono lo scontro, ben informati sulla composizione quanto mai eterogenea dei nemici, proveniente da ogni parte del regno selucida, dalle più remote parti dell'oriente ad alcuni mercenari grechi e macedoni.
Fu proprio la scarsa organizzazione dovuta alla diversità e alla poca esperienza dei reparti siriani che giocò a sfavore per le sorti della battaglia.
Eumene, re di Pergamo, comandava il fianco destro romano. Egli sgominò il reparto di carri falcati e attaccò le falangi sul lato scoperto con la cavallieria, mentre i romani ebbero gioco facile contro elefanti (come al solito spaventati) e fanteria leggera siriana, contro la quale scagliarono una pioggia di giavellotti. Al termine della battaglia le perdite siriane furono circa 50.000, mentre quelle romane 300. Fu una delle più grandi vittorie di Roma.
Il trattato di Apamea, l'egemonia politica romana
Antioco non potè che accettare la sconfitta. I termini della resa, stipulata ad Apamea nel 188, furono così onerosi che da allora il regno siriano non riuscì più a risollevarsi.
Antioco perse tutti i possedimenti dell'Asia Minore (Turchia) e dovette pagare una cifra di 12.000 talenti in 12 anni, oltre che a rinunciare agli elefanti e a smantellare la propria flotta navale, mantenendo non più di 10 navi. Antioco stesso morì nel 187 nel tentativo di sedare una rivolta nelle regioni del suo regno che ne avevano avvertito la debolezza.
In Asia Minore il regno che ne trasse più vantaggio fu Pergamo, che divenne lo stato più importante della regione. Anche Rodi allargò i propri territori, mentre in Grecia a trarre più vantaggi fu la lega Achea (mentre gli Etoli accettarono la resa con i romani e dovettero dare 40 ostaggi in garanzia).
Roma aveva esteso la sua influenza in oriente. Sebbene non occupasse direttamente i territori, di fatto si era assicurata la presenza in quelle regioni attraverso dei validi alleati quali Permago, Rodi e la lega Achea. La sua influenza politica, inoltre, si faceva più che mai sentire, era ormai diventata la più grande potenza del Mediterraneo, e nessuno stato poteva dichiararsi guerra senza il parere dei romani.
La diplomazia romana ebbe cura di evitare qualsiasi pericolosa alleanze tra gli stati ancora ostili, isolandoli, in modo da circoscriverne la forza, una tattica, quella di spezzettare i nemici in piccoli stati deboli che aveva dato i suoi frutti ed era stata sperimentata già in Italia attraverso la fitta rete di stati alleati, colonie e vassalli.
Nuove politiche macedoni
Malgrado la Macedonia avesse combattuto validamente al fianco dei romani nella guerra siriaca, nuove nubi si addensavano all'orizzonte. La Macedonia aveva tratto molti vantaggi dalla vittoria sui siriani, il suo territorio si era allargato a scapito della lega Etolica e della Tracia, dove aveva occupato le città della costa precedentemente in mano alla Siria.
Filippo V già pensava di cambiare nuovamente linea politica, aspirando all'egemonia sulla Grecia, che già tornava a lamentarsi del giogo romano e vedeva la Macedonia come possibile liberatrice di turno.
Filippo aveva due figli, Perseo, il primogenito, e Demetrio. I romani puntarono sul secondo in quanto aveva già abitato Roma in qualità di ostaggio, e lo vedevano già alla guida della Macedonia, tuttavia, i contrasti e le tensioni che ne derivarono all'interno della famiglia macedone ebbero come unico risultato la condanna a morte di Demetrio nel 181 a.C.
I romani avevano già tentato per via diplomatica di far desistere la Macedonia: le ordinarono di abbandonare immediatamente le coste della Tracia e alcune zone della Grecia. Filippo sembrò abbandonare i propositi bellicosi diretti e si concentrò sulla conquista delle zone interne della Tracia. Egli aveva il progetto di formare una coalizione con gli stati barbari in grado di sfidare i romani.
Nel 179 Filippo morì e il regno passò nelle mani del figlio Perseo. Questi era nemico di Roma, anche se apparentemente manteneva la pace in modo da tessere la tela delle alleanze anti-romane. Perseo puntava alla Grecia, lanciando una campagna demagogica imponente per spingere sul malconento popolare e il desiderio di liberazione dei greci.
La guerra: la battaglia di Pidna
Nemico di Perseo era Eumene, re di Pergamo e alleato dei romani. Nel 172 a.C. andò a Roma per presentare di persona le sue lagnanze: era preoccupato dalla politica macedone in Grecia e in Tracia. I romani, che non erano ancora pronti alla guerra, tergiversarono, in modo da organizzare meglio il conflitto, Perseo non osò attaccare per primo, e quindi si arrivò a rinviare l'inizio del conflitto nel 171.
La Grecia non era passata al fianco di Perseo, forse intimorita dalla potenza romana e comunque non propriamente convinta della forza della Macedonia. Gli Etoli si schierarono con Roma nella speranza di contrastare il troppo potente regno ai suoi confini. Anche la lega Achea si schierava come sempre con i romani, come Pergamo e Rodi. Perseo si trovò così isolato.
Le prime battaglie furono favorevoli a Perseo. I romani combattevano in modo disorganizzato, abbandonandosi alle violenze verso le popolazioni locali. Questo favorì un nuovo cambiamento negli umori dei greci, che sembrarono tornare dalla parte della Macedonia. Tuttavia Perseo tendeva a non sfruttare lo slancio delle vittorie, per timore di perdere poi rovinosamente (si dice fosse molto avaro e quindi ossesionato dalla possibilità di perdere ciò che aveva conquistato).
Nel 170 e nel 169, la Macedonia ebbe però importanti conferme dalle battaglie navali nell'Egeo. Rodi, credendo che i romani non fossero in grado di concludere il conflitto, chiese loro di intavolare trattative di pace col nemico per salvaguardare gli interessi commerciali della sua flotta. Dicerie di palazzo volevano persino Eumene di Pergamo in trattative segrete con Perseo.
Roma ruppe gli indugi. Nel 168 a.C. Lucio Emilio Paolo prese il controllo delle operazioni, restituendo la displina perduta all'esercito. Egli riuscì con il suo esercito a confinare Perseo nelle vicinanze di Pidna, in Tessaglia.
La battaglia vide in un primo momento il successo schiacciante della falange macedone. La fanteria romana venne ricacciata quasi sulle alture che attorniavano il campo di battaglia e paradossalmente fu proprio l'enorme forza d'urto della falange a segnarne le sorti. L'attacco macedone era stato così rapido che presto le falangi si ritrovarono disunite e vennero attaccate alle spalle e ai fianchi dalla seconda linea romana, che la sbaragliò. La cavalleria macedone, vista la sorte della falange, invece di attaccare si ritirò. A Perseo non restò che fuggire a Samotrace con i suoi tesori. Sul campo restarono 20.000 macedoni, altri 11.000 vennero fatti prigionieri.
La battaglia di Pidna, oltre a segnare la definitiva scomparsa della monarchia macedone, fu decisiva e importante in quanto segnò l'abbandono della linea diplomatica romana a favore di una più energica politica di "annullamento" degli sconfitti. Da Pidna in poi i romani avrebbero sistemato le faccende orientali con mano decisamente più energica.
Nuovo ordine romano in Oriente
Dopo la fine della guerra, Roma decise di smembrare la Macedonia in quattro parti, gli abitanti di ogni repubblica indipendente (così le avevano chiamate) non potevano avere rapporti tra loro, praticare i commerci e perfino sposarsi tra appartenenti a repubbliche diverse. Ai macedoni venne poi proibito di lavorare i metalli e il tributo delle tasse sarebbe stato riscosso da Roma, a capo di ogni repubblica venne insediata una dirigenza filo-romana.
Ora che nessuno più osava contrastarla militarmente, Roma non aveva più bisogno di contrappesi in Asia Minore, e anche a Rodi e Pergamo toccò pagare per le "strane comnistioni" con il nemico che le avevano viste protagoniste durante la guerra macedone. Eumene di Pergamo si recò perfino a Roma per difendere la sua innocenza, ma non venne ascoltato. I romani appoggiarono nel suo regno i movimenti di rivolta e cercarono di contrapporli il fratello Attalo. Questa volta nessuna concessione territoriale venne assegnata.
A Rodi vennero tolti buona parte dei possedimenti sulla terraferma e si fece in modo che i suoi commerci marittimi, che la rendevano una delle più importati città dell'Egeo, crollassero. Rodi non poteva più commerciare con la Macedonia e in seguito alla decisione romana di rendere Delo porto franco detassato, si vide ridurre la portata delle sue entrate da 1.000.000 di dracme all'anno a 150.000. Per Rodi fu il crollo.
In Grecia continuò la politica della lunga mano negli affari politici. Fu ridimensionata l'Etolia e anche la lega Achea venne punita, 10.000 nobili achei, tra i quali Polibio, vennero deportati in Italia.
Anche la Siria, che, approfittando della guerra che teneva occupati i romani, era arrivata fino alle mura di Alessandria, dovette restituire tutti i territori conquistati ed evaquare l'Egitto entro il termine indicato dalla diplomazia romana. Evidentemente tutti ormai temevano la forza di Roma.
Lo Pseudofilippo, la Macedonia provincia romana
La reazione Macedone venne convogliata nella figura dello Pseudofilippo, un artigiano della Tracia di nome Andrisco che si era spacciato per il figlio di Perseo, Filippo, in realtà morto in Italia a diciottoanni.
Questi era un personaggio bizzarro, già fatto più volte prigioniero dalle autorità locali, consegnato a Roma, dove ottenne, nel disinteresse generale, nuovamente la libertà, Andrisco riuscì a farsi riconoscere dal alcuni principi macedoni come vero figlio di Perseo.
Nel 149 a.C. si mise a capo di un esercito di macedoni e di traci, riuscendo a conquistare quasi interamente la Tessaglia, grazie anche al fatto che Roma ne aveva sottovalutato la forza. Sullo slancio delle vittorie, lo Pseudofilippo riuscì anche ad annientare una legione romana.
Nel 148 Roma decise che era il momento di porre fine all'avventura di Andrisco. Fu inviato nella regione un grande esercito a capo di Quinto Cecilio Metello, e, malgrado all'inizio lo Psudofilippo riuscisse ad ottenere successi, alla fine dovette capitolare e venne fatto prigioniero. Fu condannato a Morte, dopo essere stato trascinato nel corteo celebrativo delle vittorie di Metello per le vie di Roma.
Metello, seguendo gli ordini di una commissione senatoriale, ridusse la Macedonia a provincia romana, assieme all'Illiria meridionale e all'Epiro (147 a.C.).
Sottomissione della Grecia
Sistemata la questione Macedone, Roma dovette affrontare la rivolta degli stati greci, come sempre rinvigoriti dai successi dello Pseudofilippo, che rinnovava lo spirito anti-romano e il desiderio di ribellione.
Sebbene Roma fosse occupata nella terza guerra punica e nella repressione delle rivolte in Spagna (147 a.C.), il senato dovette trovare in fretta una soluzione che rendesse stabile una volta per tutte la regione, e non potè far altro che aprire un nuovo fronte di guerra.
La lega Achea da tempo meditava di ridimensionare Sparta, già inglobata nel suo territorio, ma sempre pronta alla resistenza e alla lotta. La lega mandò a chiamare Roma per risolvere la questione diplomaticamente. Roma non se ne occupò subito, e la lega decise di attaccare Sparta di propria iniziativa.
Nel 147 a.C. una delegazione romana insediatasi a Corinto, decise che Sparta, Corinto stessa, Argo e altre città fossero rese indipendenti dalla lega Achea. Gli achei presenti reagirono arrestando gli spartani presenti in città e attaccando gli stessi ambasciatori, che riuscirono a malapena a salvarsi.
I capi della lega Achea, Critolao e Deleo decisero allora per la guerra contro Roma, ritenuta debole per via dei più fronti di battaglia che la vedevano impegnata in quel momento. Dalla parte della lega si schierarono anche la Beozia, la Locride, la Focide e la Calcidia.
Nel 146 a.C. ebbe inizio la guerra. L'esercito romano venne affidato al console Lucio Mummio, ma già contro le armate di Metello l'esercito greco, alla guida di Critolao, cominciò a subire le prime sconfitte. Mummio si vide così davanti l'esercito che Deleo aveva costituito con la popolazione del Pelopponeso, ed ebbe gioco facile nel vincerlo.
Nello stesso anno Mummio entrava a Corinto. La lega Achea si era arresa a Roma, come il resto degli alleati. Furono sciolte tutte le leghe e la Grecia venne incorporata nella provincia macedone. Furono abolite le garanzie democratiche e vennero rastrellati gli oppositori, costituendo un governo filo-romano basato sul censo.
La distruzione di Corinto
Come ulteriore rappresaglia, Roma decise di mostrare le maniere forti con Tiro, Calcide e soprattutto Corinto.
Alle prime due città vennero smantellate le mura e disarmata la popolazione, mentre Corinto, il principale centro della rivolta, venne rasa al suolo dalle fondamenta e venne proibito alla popolazione di tornare ad abitarvi, dichiarando il luogo maledetto (146 a.C.).
La ferocia romana si può interpretare in due modi:il primo interpreta la distruzione come un segnale di forza, un monito, una lezione che nelle intenzioni avrebbe dovuto far capire una volta per tutte che non era più conveniente ritentare nuove insurrezioni. La seconda interpretazione mette l'accento sul lato politico commerciale.
E' dello stesso periodo la distruzione di Cartagine e il ridimensionamento di Rodi. Queste due città, assieme a Corinto, costituivano in tre più grandi centri commerciali del Mediterraneo, esclusi i quali Roma diventava, anche attraverso il nuovo centro orientale di Delo, la potenza marittima più importante.
"Delenda Carthago"
Dopo la sconfitta di Zama, sebbene pesantemente ridimensionata nel territorio e nelle capacità militari, Cartagine si era risollevata dal punto di vista economico. L'economia era ritornata a fiorire, soprattutto via mare, e la classe dirigente, una volta scacciato Annibale e i seguaci della sua politica aggressiva, cercava di mantenere rapporti di pace sia con la Numidia che con Roma.
Tuttavia l'esistenza stessa della città che fino a poco tempo prima era stata una bellicosa nemica, non riusciva a tranquillizzare certi ambienti del senato, che ormai aveva inaugurato una politica estera piuttosto aggressiva.
E' importante ricordare il famoso episodio che vide protagonista Catone, celebre senatore conservatore, paladino della rigidità dei costumi.
Nel 153 a.C. egli fu ambasciatore a Cartagine, e questo gli permise di osservare da vicino la rinascita economica della città. Tornato a Roma si dice che, al termine di ogni discorso, qualunque argomento trattasse, pronunciasse le parole "ceterum censeo Carthaginem esse delendam", ovvero "d'altronde penso che sia necessario distruggere Cartagine".
Tale mantra non passò certo inosservato negli ambienti senatori, l'espansione in oriente aveva fatto capire a Roma che la supremazia nel Mediterraneo, anche economica, era a un passo dal compiersi, e l'unico ostacolo era Cartagine.
Il casus belli
Malgrado le intenzioni, i romani non se la sentivano di attaccare Cartagine senza addurre un casus belli. L'occasione la fornì la Numidia.
Il confine tra Cartagine e la Numidia non era stato definito in modo preciso dagli accordi di Scipione. Massinissa continuava ad attaccare i confini, e ogni volta, aprofittando del divieto cartaginese di attaccare senza il consenso romano, portava via una parte di territorio ai vicini. Malgrado le frequenti intercessioni romane per appianare le dispute, alla fine a Cartagine prevalse il partito dell'intervento.
Nel 150 a.C. un esercito cartaginese al comando dell'ennesimo Asdrubale attaccò Massinissa. Nonostante la sconfitta di Asdrubale, i romani approfittarono dell'incidente e si preparono ad intervenire, visto la violazione dei trattati stipulati nel 201.
Spaventati, i Cartaginesi si affrettarono a fare marcia indietro e ad addossare la colpa dell'agressione sul solo Asdrubale, che venne anche condannato a morte (ma riuscì a fuggire e organizzare un proprio esercito). Due ambascerie furono mandate a Roma per risolvere la questione, ma i romani avevano già deciso per la guerra, era il 149 a.C.
L'assedio di Cartagine
Sbarcati presso Utica, come nella precedente guerra, i romani intimarono la resa alla città, che non aveva, d'altronde, nessuna intenzione di sacrificarsi. Essi promisero poi la libertà e la conservazione del territorio cartaginese solo dietro consegna di 300 ostaggi, tutti bambini appartenenti alle famiglie diridenti, e anche questa condizione fu soddisfatta. Quando però i romani posero la terza condizione, i cartaginesi rifiutarono. Roma pretendeva che gli abitanti di Cartagine lasciassero la città per sempre, e che andassero ad abitare a non meno di 80 stadi (15 chilometri) dal mare, la stessa città sarebbe stata distrutta.
La città si preparò a resistere, mentre gli italici e gli ambasciatori che si trovavano a Cartagine vennero uccisi dalla folla inferocita.
Roma non attaccò subito Cartagine, sicura del successo di un eventuale assedio e impegnata, in quel periodo, su più fronti. La città potè riorganizzarsi. Asdrubale venne graziato e il suo esrcito chiamato a far parte della guardia cittadina, vennero forgiate armi, rinforzate le mura e fatta scorta di provviste.
Quando l'esercito romano si decise a muovere l'esercito, si trovò davanti ad una città arroccata. Dopo due anni di assedio, ancora non si era giunti a nessun risultato. Nel 149 a.C. era morto Massinissa, che non potè dare così alcun aiuto.
Nel 148 a.C., a capo dell'esercito, fu chiamato il capace Publio Cornelio Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna, e figlio adottivo di Scipione l'Africano.
Come sempre nei casi di lungo assedio, Emiliano epurò l'esercito dalle prostitute e diede una scossa all'eccessivo rilassamento che si era creato nelle sue file. Nel 147 riuscì a sconfiggere definitivamente gli eserciti campali cartaginesi e isolare così la città, impedendone i rifornimenti. La sua caduta era ormai vicina.
Caduta e distruzione
Nella primavera del 146, la città era ormai allo stremo, i suoi abitanti morivano di fame. I romani penetrarono oltre le mura senza quasi incontrare resistenza, e cominciarono a condurre una dura battaglia casa per casa, settore per settore, abbattendo muri e entrando dai tetti.
Dopo 6 giorni e 6 notti di combattimenti, i romani isolarono 50.000 abitanti sull'altura di Byrsa. Invocando pietà, essi si arresero e vennero fatti schiavi, tranne 300, in gran parte disertori romani, che vennero bruciati assieme alle costruzioni.
Malgrado Emiliano volesse risparmiare la città, il senato ne ordinò la distruzione dalle fondamenta, sulla terra vennero tracciati solchi con l'aratro e venne dichiarato il luogo maledetto. Era il 146 a.C.
Stessa sorte toccò alle città che avevano sostenuto la ribellione, Utica venne risparmiata perchè arresasi fin dall'inizio. Il territorio Cartaginese divenne la nuova provincia dell'Africa, mentre agli eredi di Massinissa vennero fatte concessioni territoriali.
Si chiudeva così definitivamente uno scontro iniziato quasi 120 anni prima. Cartagine era stata annientata, l'Egeo era sotto controllo romano (si vedano gli eventi in Grecia dello stesso anno e la ditruzione di Corinto), il Mediterraneo era ormai libero da concorrenti.
La situazione spagnola dopo la II° guerra punica
Come si ricorderà, la seconda guerra punica era stata combattuta anche sul suolo iberico, e parte di esso, la zona meridionale in particolare, era stato conquistato dai romani.
Attorno al 197 a.C. i territori erano stati divisi in due provincie, le prime di Roma al di fuori dei suoi confini: la Hispania citerior, comprendente la fascia costiera ad est dal basso corso dell'Ebro fino a Carthago Nova e la Hispania superior, che occupava la zona a sud-ovest. Le due provincie erano state affidate a due pretori con ampi poteri e con carica biennale.
Le popolazioni iberiche al di fuori del dominio romano, la maggioranza, erano ostili agli occupanti, e già fu necessario inviare, nel 195, l'energico console Marco Porcio Catone (lo stesso che predicava la distruzione di Cartagine) per sedare una prima grande rivolta.
Verso il 170 fu pretore della Spagna citeriore Tiberio Sempronio Gracco, che alla severità militaresca accompagnava un abile politica di distensione, diventanto popolare tra le popolazioni spagnole (fece in modo di far entrare la nobiltà celtibera nell'esercito romano, e fondò nuove comunità cittadine). Questo permise a Roma di mantenere una relativa pace per circa vent'anni.
La rivolta dei lusitani
Nel 154 a.C. la pace si spezzò. Una serie di comandanti romani iniqui e crudeli incoraggiò la rivolta che partì dalle terre lusitane (l'antico Portogallo) e si allargò ai celtiberi (zona centrale dell'Iberia). La rivolta era comandata da un abile comandante lusitano di orgini popolari di nome Variato.
La rivoltà si prolungò per ben otto anni, durante i quali i romani furono costretti a mandare annualmente un console in Spagna, senza impedire di venire ripetutamente sconfitti.
Nel 139, mentre Roma si apprestavano a sottoscrivere la pace, Variato venne ucciso nella sua tenda, da alcuni traditori pagati dagli stessi romani. L'insurrezione, mancato l'uomo guida, a poco a poco si spense.
La caduta di Numanzia
Ma i guai per Roma non si limitavano alla rivolta dei lusitani, fin dal 142 Cecilio Metello combatteva nel nord dell'Iberia e aveva conquista gran parte dei territori, ad eccezione di alcune città: tra queste la più importante era Numanzia, a sud del medio corso dell'Ebro. Nel 137 a.C., un grande esercito al comando del console Caio Ostilio Mancino fu circondato e costretto ad arrendersi, e per altri quattro anni la situazione non ebbe sviluppi significativi.
Nel 133 a.C., Roma decise di inviare nella regione Publio Cornelio Scipione Emiliano, l'eroe dell'ultima guerra punica ed esperto in assedi. Come era già successo in Africa, Emiliano restituì la disciplina e il vigore alle truppe e cominciò ad assediare Numanzia con una doppia linea di fortificazioni. Come sempre la città fu vinta riducendola alla fame. I suoi abitanti furono fatti schiavi e la città distrutta.
Con la caduta di Numanzia i romani posero fine alle rivolte ed estero il loro dominio in Spagna alle regioni del nord. Fu il termine del primo periodo di espansione che vide i romani acquisire una netta supremazia nel Mediterraneo trasformando profondamente le attitudini di una stato che fino a un secolo e mezzo prima estendeva i suoi domini alla sola Italia.
Situazione della società e dell'economia romana
nel periodo delle grandi conquiste
Il secolo di grandi conquiste che aveva visto Roma dominare al di fuori dei confini italici aveva portato grandi cambiamenti nella società e nell'economia. Ogni vittoria portava un bottino, sia monetario che umano: grandi quantità di schiavi affluivano sui mercati facendone crollare il prezzo, nelle ricche provincie conquistate esattori in appalto accumulavano grandissime ricchezze. L'economia romana, che prima delle conquiste era prevalentemente rurale, cominciò a dedicarsi maggiormente al commercio marittimo.
La classe dirigente senatoriale, l'oligarchia che di fatto governava Roma fin dalla nascita della Repubblica e che in passato aveva fatto della austerità il suo simbolo (in contrasto con l'abitudine al lusso dei greci), cominciò a venire a contatto con la ricchezza e si abituò piuttosto in fretta al nuovo clima di abbondanza.
I vertici del potere romano, ritenendosi giustamente i principali fautori delle fortune della nazione, avevano ridotto le assemblee popolari a mere spettatrici delle loro decisioni, i tribuni e gli strumenti di potere del popolo avevano delegato completamente il potere ai senatori (si ricordi che due delle più cocenti sconfitte della seconda guerra punica, quella del Trasimeno e soprattutto quella di Canne, furono colpa di consoli plebei e che dopo tali onte l'oligarchia patrizia aveva preso in mano la situazione, con il consenso della popolazione che non osava più avanzare pretese).
Questo contrastava con il peggioramento delle condizioni della plebe: l'allargamento dell'ager publicus, ovvero del terreno di proprietà statale acquisito in occasione delle innumerevoli vittorie su suolo italico, non comportò un conseguente miglioramento per i contadini perché lo stato preferiva vendere o affittare ai più ricchi, cosa che alla fine erose la piccola proprietà a scapito dei latifondisti, i quali avevano gli schiavi come forza lavoro a buon mercato.
Si aggiunga a questo che all'epoca l'arruolamento nell'esercito era in base al censo, e al crescente bisogno di soldati si contrapponeva l'impoverimento della popolazione.
I contandini arruolati, lungi dal trovare una ricompensa al loro ritorno, spesso si trovavano senza più terra e senza più una casa.
Inoltre si stima attorno ai 100.000 caduti il prezzo delle guerre nel secolo delle conquiste, ovvero circa 100.000 famiglie già allo stremo che perdevano il capo famiglia o la forza lavoro. In questa situazione i ricchi latifondisti avevano gioco facile a confiscare il terreno in forza dei debiti contratti dalle povere famiglie.
Questa situazionie portò le campagne a spopolarsi, e grandi masse di poveri affluire nelle vicinanze delle città per cercare lavori di fortuna. Ovviamente questa grande massa di disperati costituiva una potenziale fonte di instabilità, la società romana avrebbe dovuto affrontare di lì a poco le conseguenze di un forte squilibrio sociale tra la ricca classe dirigente e la povertà di una plebe sempre più vasta.
Il circolo degli Scipioni, la famiglia dei Gracchi
Nell'ambito della politica romana di quel periodo, aveva acquisito sempre più prestigio e potere il circolo degli Scipioni: questi erano un gruppo di persone che discendevano politicamente, e spesso anche in via parentale, da Scipione l'Africano e dal suo modo di intendere la politica.
Scipione, seppur militarista, fu da sempre attento alle istanze della popolazione e all'idea che la forza di Roma poggiasse soprattutto sul benessere della sua base sociale, ovvero i contadini, che costituivano anche la prima fonte di approviggionamento per l'esercito. Si poteva definire una forma democratica di gestione del potere, opposta a quei circoli che invece predicavano il mero militarisimo brutale della conquista e della distruzione. Per Scipione, anche in politica estera era importante creare equilibrio che evitasse l'ostilità aperta (si prenda come esempio il fatto che nella seconda guerra punica abbia garantito l'esistenza di Cartagine invece di sottometterla definitivamente).
Fu all'interno di questa corrente politica che si formò una famiglia molto importante per l'apporto che diede alle vicende immediatamente seguenti le conquiste.
Tiberio Sempronio Gracco, già pretore in Spagna, dove si distinse per la giustezza del suo operato (si veda il capitolo sulle rivolte in Spagna), aveva sposato Cornelia, la figlia di Scipione l'Africano. Di dodici figli ne sopravvissero però solo tre: Tiberio, Caio e Sempronia, poi sposatasi con Scipione Emiliano, vittorioso a Cartagine e a Numanzia.
Divenuta presto vedova, Cornelia dedicò la propria vita ai figli, rifiutando anche una proposta di matrimonio di Tolomeo IV d'Egitto. Questo episodio evidenzia il prestigio e la popolarità che in quel periodo godeva anche fuori dai confini di Roma la figlia di Scipione.
Ai suoi figli diede una esemplare educazione greca, come maestri ebbero Diofane di Mitilene e il filosofo di scuola stoica Blossio di Cuma e furono così sensibilizzati alle idee democratiche e "progressiste".
La riforma agraria di Tiberio
Nel 134 a.C. Tiberio divenne tribuno della plebe. Il suo cavallo di battaglia era stata la sua idea di riforma agraria.
I punti della riforma agraria di Tiberio erano sostanzialmente tre:
1. Ampliamento della precedente legge agraria Licinia-Sestia (tra l'altro, di fatto caduta in disuso da molto tempo). Ai proprietari terrieri statali (ager publicus) veniva garantito un limite non più di 500 jugeri (125 ettari) ma di 1.000 (250 ettari). La base era di 500 jugeri più 250 jugeri per ogni figlio, ma comunque il limite restava sempre 1.000.
2. L'ager publicus che non sarebbe stato assegnato perchè in avanzo, sarebbe stato riassegnato allo stato, che si sarebbe incaricato a redistribuirlo in piccoli appezzamenti di 30 jugeri ai più poveri, a titolo di affitto ereditario e senza possibilità di venderlo a terzi che non fossero i legittimi eredi. Questa norma andava nella direzione di impedire che i latifondisti più abbienti si impadronissero selvaggemente dei piccoli appezzamenti rovinando così la piccola proprietà.
3. La costituizione di una commissione di tre persone plenipotenziarie incaricate di attuare la riforma, elette da una assemblea popolare e rieleggibili annualmente.
Ovviamente la riforma incontrò l'ostilità del senato che cercò di mettergli contro anche un altro tribuno, Ottavio (lui stesso proprietario terriero), che pose il suo veto alla legge. Dopo aver convinto il popolo che un tribuno non poteva ostacolare decisioni in favore della plebe, Tiberio fece in modo di destituire Ottavio ottenendo così l'apprivazione della legge che passò con il nome di lex Sempronia (133 a.C.). Con l'approvazione Tiberio aveva forzato la prassi fin lì rispettata che non aveva mai visto i comizi tribuni legiferare, malgrado fosse previsto dalla legge.
Assassinio di Tiberio Gracco
Come attuatori della riforma Tiberio scelse due persone di fiducia oltre a se stesso: il suocero Appio Claudio, e suo fratello Caio.
Minacciato di morte e dovutosi procurare una scorta armata (mentre già larga parte della popolazione era già disposta a venire alle mani con gli scherani foraggiati dai senatori più conservatori), TIberio propose di confiscare le entrate tirbutarie della nuova provincia d'Asia (l'ex regno di Pergamo annesso come provincia nello stesso anno) per sovvenzionare l'acquisto degli strumenti di lavoro per i proprietari meno abbienti (spesso i poveri indicati dalla legge erano in realtà del tutto nullatenenti).
Il limite di sopportazione del senato era sempre più esiguo. Il protagonismo e l'attivismo esasperato di Tiberio, la sua determinazione, rischiava di spostare gli equilibri politici a scapito dell'antica dirigenza.
Il culmine si toccò quando Tiberio volle forzare ancora una volta la prassi e presentarsi per la rielezione a tribuno dell'anno successivo. Sebbene in passato alcuni tribuni fossero stati eletti per due anni di fila, per contrastare il pericolo che costituiva Tiberio e la sua legge, il senato prese a pretesto il fatto per accusare il tribuno di tendenza alla tirannide.
L'aristocrazia senatoriale decise di passare alle maniere forti. Riuniti un gran numero di sostenitori sul luogo dove si tenevano le assemblee popolari e dove Tiberio doveva presentare la sua rielezione, riuscirono a rinviare di un giorno l'assemblea.
Il giorno dopo anche i partigiani di Tiberio si erano riuniti attorno al loro rappresentante. Mentre l'assemblea popolare era in corso di svolgimento, la folla che stava con gli aristocratici, fomentata dal pontefice Scipione Nasica (sacerdote di un tempio lì vicino dedicato alla dea Fides) si gettò su Tiberio e la sua fazione. Lo stesso Tiberio e 300 dei suoi uomini morirono e vennero gettati di notte nel Tevere (era il 133 a.C.).
Situazione dopo l'assassinio di Tiberio
Il periodo che seguì l'assassinio di Tiberio fu naturalmente travagliato. Sull'onda dell'accaduto il senato e le sue ale più estreme ordinarono violente epurazioni degli oppositori e dei sostenitori di Tiberio (lo stesso Diofane di Mitilene fu condannato, mentre il filosofo Blossio riuscì a fuggire).
Tuttavia l'iniziale foga reazionaria non impedì il proseguimento dell'attuazione della legge agraria, al posto di Tiberio, nei triumviri, fu eletto Publio Licinio Crasso, che di lì a poco morì, come il suo collega Appio Claudio. Al loro posto, oltre a Caio Gracco, furono eletti Marco Fulvio Flacco e Caio Papirio Carbone.
La legge agraria proseguiva con difficoltà: finita la distribuzione dei terreni dei quali era certa la proprietà, cominciarono lunghe dispute legali relative a quei terreni che non avevano ben chiara l'origine. A questo si aggiunga che spesso, questi terreni contestati, appartenevano in parte agli alleati di Roma, e un eventuale esproprio avrebbe anche potuto creare lo scioglimento delle alleanze.
Nel 129 a.C., Scipione Emiliano, marito della sorella di Caio Gracco, fece in modo di togliere i poteri al triunvirato per assegnarli al solo console Caio Sempronio Tuditano. Questo era stato fatto per agevolare gli interessi degli alleati italici e per impedire che le dispute sui loro terreni non creassero inconvenienti politici. In realtà pare, da alcune fonti, che la commissione dei triumviri avesse continuato fino al 125 a svolgere il proprio operato.
Scipione morì di li a poco in circostanze misteriore nel suo letto. Alcuni vollero vederci un assassinio, forse tramato dalla moglie e dalla madre Cornelia, sostenitrice della riforma ideata da suo figlio TIberio, ma probanilmente Scipione morì di cause naturali.
Ma l'eventualità di estendere la cittadinanza romana anche agli alleati italici (ovvero la possibilità di risolvere le questioni dei terreni disputati cancellando la differenza tra ager publicus e territorio italico) creò nuovi malumori tra i senatori e i possidenti più abbienti (l'enstensione della cittadinanza avrebbe aumentato ancora di più gli aventi diritto a un pezzo di terreno). Quando la proposta avanzata da Fulvio Flacco fu bocciata, tra gli alleati italici vi furono insurrezioni, soprattutto a Fregelle (nella valle del Liri). La questione fu risolta dal pretore Lucio Opimio che distrusse la città.
Caio Gracco tribuno e sue riforme
Nel dicembre del 124 a.C. il fratello di Tiberio, Caio, riuscì a farsi eleggere tribuno della plebe. La sua fama si appoggiava a quella del fratello, il suo favore tra il popolo era indiscusso (era membro storico della commissione agraria) e di lì a poco sarebbero venute alla luce le sue grandi doti politiche.
Furono tre le riforme più importanti di Caio:
La lex agraria. Caio riprese ed ampliò la legge agraria del fratello, restituendo ai triumviri i pieni poteri sottratigli da Scipione Emilio e, per incentivare il coinvolgimento di tutti gli strati meno abbienti, abbinò alla riforma un ampio progetto di opere pubblliche, soprattutto strade.
La lex frumentaria. Per assicurarsi l'appoggio della plebe in modo definitivo fece approvare una legge che consentiva ai magazzini pubblici della città di distribuire il grano alla metà del prezzo di mercato, cosa che fu molto gradita dal popolo, ma che alla lunga avrebbe provocato la caduta del prezzo del grano sull'intero mercato nazionale.
La lex judiciaria. Con la legge giudiziaria Caio sottrasse ai senatori il potere giudiziario. Fino ad allora i tribunali erano in mano ai senatori, che potevano sfruttare così la loro influenza politica per determinare il corso dei processi. Caio assegnò il potere giudiziario agli equites (cavalieri), ossia a quel ceto sociale patrizio che non esercitava la politica per scelta personale . Pur essendo ricchi e quindi vicini ai senatori per interessi, gli equites garantivano quel minimo di imparzialità lontana dalla politica richiesta dalla natura del loro compito.
Con queste leggi il potere di Caio Gracco si rafforzò a tal punto che il senato sembrava quasi tagliato fuori dai giochi, un potere fondato sul consenso popolare che gli permise, senza che nessuno osasse contraddirlo, di proporre la sua rielezione a tribuno per l'anno successivo.
Legge sulle colonie
e sull'estensione della cittadinanza agli italici
Il problema più assillante era comunque l'esaurimento delle terre da distribuire. Per ovviare a questa situazione Gracco propose, tra la fine del 123 a.C. e l'inizio del 122, due altre riforme: una legge che approvasse la costituzione di nuove colonie latine sul suolo italico e anche estero (cosa del tutto nuova) e un'altra riforma che consentisse di estendere la cittadinanza romana a tutti i popoli italici alleati.
Nel periodo di Gracco furono fondate quattro colonie: una nel Bruzio (Minerva), una vicina a Taranto (Neptunia) e una forse nei pressi di Capua. La quarta colonia fu deciso di fondarla su territorio cartaginese: malgrado il suolo fosse stato maledetto, Caio riuscì ad ottenere una rogatoria. La colonia venne chiamata Giunonia.
L'estensione della cittadinanza agli italici vide invece una sorta di gioco al rialzo istigato dagli oppositori stessi di Caio. Per contrastare la popolarità di Caio, un tribuno suo oppositore (fomentato dal senato), decise di presentare due proposte di legge eclatanti: fondare 12 nuove colonie sul suolo italico composte da 3.000 uomini ciascuna e abolire ogni possibilità di punizioni corporali che i capi spedizione potevano infliggere ai coloni. Questa legge fu accolta con gran favore dalla plebe che la votò e la approvò (lex Livia).
La plebe di cittadinanza romana non vide più di buon occhio il fatto che anche gli altri cittadini italici potessero usufruire degli stessi diritti e così si cominciarono ad esasperare i toni dello scontro, dividendo al suo stesso interno il fronte popolare.
Morte di Caio Gracco e fine delle riforme
Nel 122 a.C. Gracco partì alla volta della colonia di Giunonia assieme al collega Fulvio Flacco. La sua partenza permise all'opposizione di organizzare una diffusa rivolta contro il suo operato.
L'opposizione cominciò a mettere in giro le voci di una presunta recrudescenza degli eventi nefasti a Giunonia e diffuse il timore che la nuova colonia potesse diventare una concorrente dei romani nel Mediterraneo. Dall'altro lato si spingeva sempre più per contrapporre il sentimenti della plebe romana a quelli degli altri italici. Si diceva che gli italici, una volta presa la cittadinanza, avrebbero occupato i posti migliori dell'amministrazione e dell'economia romana.
Quando Caio ritornò non potè impedire a Fulvio Flacco, su proposta del senato, di allontanare tutti i non-cittadini dalla città. Era il segno della nuova debolezza di Caio, il quale non era più sicuro di poter essere rieletto e non controllava nemmeno più i componenti della sua fazione.
Finito il tribunato di Caio nel dicembre del 122, il senato decise di accellerare le sorti dello scontro. I nuovi consoli, per conto dei senatori, decisero di smantellare la colonia di Giunonia, giudicata ormai gravata dallo sfavore degli dei.
Come era già successo per Tiberio, le due fazioni si riunirono al Campidoglio. I popolari, armati, si erano riuniti per decidere sulla sorte della colonia, gli aristocratici, anch'essi armati e comandati dal tribuno filo-senatoriale Lucio Opimio (lo stesso che aveva distrutto Fregelle) occuparono il tempio di Giove.
Un partigiano di Gracco uccise una guardia di Opimio, colpevole di avere ingiuriato i popolari. Il cadavere fu portato al senato, che decise di conferire ad Opimio poteri speciali per ristabilire l'ordine.
Nel frattempo Gracco, Flacco e i suoi erano stati chiamati di fronte al senato per rendere conto dell'incidente, ma timorosi della sorte che sarebbe loro toccata, decisero di occupare l'Aventino. Malgrado i popolari avessero proposto di risolvere la questione senza spargimenti di sangue, Opimio decise di attaccare il colle: Flacco e suo figlio morirono, Caio si lussò una gamba e implorò il servo di ucciderlo per non cadere in mani nemiche. Le teste di Caio e Flacco furono gettate nel Tevere, mentre nei giorni successivi furono uccisi 3.000 partigiani popolari (era l'inizio del 121 a.C.).
Con l'uccisione di Gracco e l'epurazione nelle sue file finirono anche le riforme. La riforma agraria sarebbe finita nel 119, con lo scioglimento della commissione, nessuna terra sarebbe stata più redistribuita. Il senato aveva sconfitto i nemici popolari.
Corruzione politica diffusa e rilassamento dell'esercito
Dopo la morte di Caio Gracco, il senato e l'oligarchia aristocratica presero in mano le sorti dello stato (l'opposizione non riuscì a risollevarsi per almeno una decina d'anni).
Il potere degli oligarchi non si fondava più sulle mere capacità politiche e amministrative, ma soprattutto e prevalentemente sulla corruzione, il nepotismo e l'esercizio incontrollato del potere di casta. Il potere indipendente dei cavalieri fu "ammorbidito" e piegato con la corruzione, senato e magistratura ormai "lavoravano" in coppia perseguendo gli stessi interessi.
Gli effetti della corruzione politica ebbero ripercussioni anche sull'esercito. Roma doveva ormai gestire un ampio territorio all'estero, e il piccolo esercito romano, fondato sull'arruolamento per censo e sulla ferma temporanea di contadini ormai ridotti allo stremo, era sempre meno numeroso e sempre meno efficiente. Spesso si assisteva a defezioni e diserzioni dei soldati, che si abbandonavano sempre più alle violenze e al saccheggio, mentre tra le file dell'esercito albergavano stabilmente mercanti, servi e prostitute. Era il segno di una indisciplina e di un rilassamento generale che ben presto avrebbe intaccato sul campo l'immagine vincente delle guarnigioni.
Giugurta
I problemi dell'esercito si resero evidenti quando si trattò di contrastare uno dei pretendenti al trono della Numidia, Giugurta. Nel 118 a.C. morì Micipsa, figlio di Massinissa, che lasciò in eredità il regno ai figli Aderbale, Iempsale e al nipote Giugurta. Il problema consisteva nel fatto che Micipsa non aveva previsto una divisione del territorio e inevitabilmente cominciarono le dipsute tra i tre beneficiari.
Il più agguerrito e dotato dei tre era Giugurta. Quando Marco Porcio Catone divise arbitrariamente il territorio con il pretesto di pacificare la situazione ma con l'intenzione di creare ulteriori dissensi tra gli eredi, Giugurta protestò e si ribellò. Fu il mandante dell'uccisione, di Iempsale, nel 117 a.C. Aderbale invase allora il territorio di Giugurta ma venne sconfitto, quindi si rifugiò a Roma dove chiese aiuto.
Giugurta mandò un'ambasciata carica di doni per le alte cariche dello stato romano, e conseguenza di ciò fu la decisione, da parte di una commmissione senatoriale guidata da Opimio, di dividere il territorio numida in due parti e perdonare l'aggressore: la parte occidentale, che includeva la capitale Cirta, andò ad Aderbale, la parte orientale a Giugurta.
Ma nemmeno questa divisione lo accontentò. Nel 113 a.C. invase il regno di Aderbale e assediò Cirta. La capitale della Numidia era abitata da molti mercanti italici, quando Aderbale chiese aiuto a Roma, questa mandò sul posto due commissioni. Giugurta ancora una volta ricorse alla tecnica della corruzione e così riusci a fare reimbarcare i delegati romani senza che questi avessero fatto nulla.
A questo punto, su insistenza dei mercanti italici che ormai erano allo stremo, Aderbale consegnò la città a Gugurta a condizione di risparmiare la popolazione. Giugurta non tenne fede al patto e uccise ogni abitante armato (tra i quali molti italici), mentre Aderbale venne crocifisso.
Roma dichiara guerra
Giugurta aveva oltrepassato il limite. Roma decise di dichiarargli guerra (111 a.C.).
Ma pur battendo Giugurta sul campo, il console L. Calpurnio Bestia, dopo essere stato corrotto per una cifra esigua dallo sconfitto, concesse la pace e permise a Giugurta di mantenere il regno.
A Roma i circoli democratici, opposto agli ottimati (il ceto aristocratico senatoriale, da optimus, ottimo), protestò vivacemente e cercò di rialzare la testa dopo anni di scarsa incisività. Un tribuno, Caio Memmio, sostenuto dagli equites, riuscì a trascinare Giugurta davanti a un tribunale romano... ma questi nel frattempo aveva corrotto l'altro tribuno, che pose il veto sull'interrogatorio.
Non contento di essere impunito in casa dei vincitori, Giugurta fece in tempo ad organizzare l'uccisione di Massiva, un altro nipote di Massinissa pretendente al trono che viveva a Roma, poi fuggì.
A Roma si gridava giustamente allo scandalo. Ogni limite era stato oltrepassato. Le operazioni in Africa ripresero, ma l'esercito allo sbando e privo di disciplina ottenne una sconfitta dietro l'altra, tanto che nel 109 a.C. Il generale Aulo Postumio dovette subire l'onta di concedere la pace su promessa di evaquare il territorio Numida per 10 anni, mentre già le tribù africane, rinfrancate dalle vittorie di Giugurta, cominciavano a rialzare la testa.
Cecilio Metello in Africa
Roma decise di mettere fine alla farsa, una volta per tutte. Fu inviato in Africa il capace e onorato console Quinto Cecilio Metello, uno dei pochi oligarchi a distinguersi per la sua onestà. Il senato aveva già annullato la pace conclusa da Aulio Postumio, e intendeva eliminare definitivamente la minaccia giugurtina.
Giunto in Africa, Metello ridiede disciplina alle truppe ed ebbe la meglio su Giugurta in una battaglia sul fiume Mutule (109 a.C.), riuscendo a scacciarlo dal suo regno. Questi non ebbe altra scelta che chiedere la pace, ma Metello questa volta non la concedette, imponendogli la resa incondizionata. A questo punto cominciò la guerriglia, che si prolungò per tutto il 108, come, in via straordinaria, anche il mandato di Metello.
Ascesa di Caio Mario
Nel frattempo a Roma i popolari accusavano l'ottimate Metello di prolungare la guerra con Giugurta intenzionalmente. Saputo che il senato intendeva prorogare i poteri di Metello ancora per il 107, per contrastarlo i popolari e gli equites proposero come secondo console Caio Mario.
Caio Mario proveniva dagli ambienti popolari: si era distinto, da semplice soldato, nell'assedio di Numanzia tanto da meritarsi la segnalazione di Scipione Emiliano. Nel 119 a.C. era diventato tribuno, nel 115 fu pretore e poi luogotenente in Spagna citeriore. La sua popolarità aumentava tra i democratici e anche tra il popolo, era davvero un valente soldato e la sua ambizione era quella di scalare le cariche dello stato grazie alle sue qualità militari. Infine, Metello lo aveva portato con sé come luogotenente in Africa, e, dopo esserci distinto nella battaglia del fiume Mutule, era praticamente diventato il suo vice.
Durante la campagna elettorale, Caio Mario attaccò Metello ed ottenne non solo la maggioranza dei voti, ma anche un mandato speciale per proseguire la guerra africana al suo posto. I senatori lasciarono che organizzasse da sé il reclutamento, con la speranza che tutto si spegnesse per l'impossibilità di trovare soldati a sufficienza, ma Mario riuscì ad ottenere l'arruolamento volontario di gente anche al di sotto della soglia minima di censo (fatto unico ai tempi), e così potè partire per l'Africa.
La fine della guerra
A Metello toccò l'onta di vedere il suo ex luogotenente soffiargli il comando delle operazioni. Mario cercò da subito di stanare Giugurta, se si fosse impossessato del nemico anche la guerriglia sarebbe cessata.
Accadde che il re della Mauritania, Bocco, accortosi che i romani stavano per prendere il controllo della situazione, decidesse di proporre uno scambio. Se i romani gli avessero inviato Lucio Cornelio Silla, ai tempi questore nell'esercito di Mario, avrebbe fatto in modo di consegnarli il genero Giugurta (questi ne aveva sposato la figlia).
Bocco era ancora indeciso se consegnare Giugurta a Silla o viceversa, ma alla fine la spuntò l'abilità politica ed oratoria di quest'ultimo. Silla convise Bocco a convocare il ribelle numida facendogli credere che fosse lui a dover essere consegnato a Giugurta.
Quando Giugurta si presentò disarmato, secondo gli accordi, i soldati di Bocco ebbero gioco facile nel consegnarlo a Silla, che lo fece prigioniero nel campo romano. Questo episodio segnò la fine della guerra giugurtina (105 a.C.).
Giugurta fu poi portato a Roma dove morì strangolato nel carcere Mamertino mentre Mario celebrava il trionfo (anche se per lenire l'onta della sostituzione, venne assegnato il titolo di Numidico a Metello). La Numidia orientale venne data a Gauda, altro discendente di Massinissa poco pericoloso e piuttosto incapace, la metà orientale venne consegnata a Bocco come premio per il suo aiuto.
Riforma militare, guerre contro i Cimbri e i Teutoni
(105 - 101 a.C.)
Riforma militare di Caio Mario
Come già detto, Caio Mario aveva raccolto il suo esercito per la spedizione in Africa affidandosi all'arruolamento volontario. Questa era il primo atto di una più vasta riforma militare che il console riuscì a portare a compimento attorno al 104 a.C.
Fino ad allora, l'esercito romano era stato una sorta di guardia cittadina: i soldati erano reclutati in base a un censo minimo fra la vasta popolazione contandina e terminata la campagna ritornavano alle loro occupazioni pre-belliche. Gli schieramenti sul campo di battaglia risentivano di questa organizzazione, l'esercito era solitamente schierato su tre linee: gli astati (fanteria popolare dotata di asta), i principi e i triari. Ovviamente, fra le tre file, i meno addestrati erano i contadini astati, che costituivano il grosso dell'esercito.
L'esercito di Mario era invece reclutato su base volontaria e non attingeva solo ai cittadini romani al limite di censo, ma anche alle popolazioni italiche alleate e ai proletari nullatenenti. I soldati erano così maggiormente vincolati alla loro paga e alla spartizione dell'eventuale bottino di guerra, il loro addestramento era più severo e più uniforme, indipendentemente dalla classe di provenienza.
Dalla divisione in astati, principi e triari, si passò allo schieramento fondato sulla coorte. Una coorte era formata da 600 uomini, suddivisa in 3 manipoli da 200 uomini, a loro volta formate da due centurie da 100. Una legione era formata da 10 coorti (6.000 uomini). Inoltre furono istituiti corpi scelti e altamente specilizzati, utilizzando le capacità delle popolazioni locali (ad esempio, gli arcieri delle Baleari).
Fu migliorato anche l'equipaggiamento. La fanteria fu dotata di pilum (un giavellotto leggero), in sostituzione dell'asta, e di gladio (spada corta a doppio taglio e da punta) e di un pugnale. La difesa era affidata ad uno scudo rettangolare ricurvo, mentre dopo le guerre con i Cimbri e i Teutoni si cominciò a fare uso delle spalliere in metallo.
I legionari vennero chiamati anche "muli di Mario", poiché portavano sulle spalle uno zaino in cui si trovava una sorta di dotazione di sopravvivenza (trovata rivoluzionaria ai tempi) e poiché erano spesso sottoposti a marce di addestramento e a lavori campali (nel gergo odierno si direbbero lavori da "genieri"). In questo modo le truppe erano costantemente occupate e preparate alla battaglia evitando così la possibilità di pericolosi rilassamenti fisici e mentali.
La riforma, oltre che a rafforzare la macchina da guerra romana, sortì un effetto particolare forse non del tutto previsto da Mario: con la specializzazione dell'esercito e la promessa del bottino di guerra, gli eserciti si vennero a legare sempre di più alla figura del proprio comandante, che poteva disporre così di un gruppo di uomini armati fedeli e allettati dalle promesse di bottino e di gloria, aspetto che di fatto indebolirà sempre di più il potere civile in favore di quello militare (la storia imperiale è infatti storia di generali diventati talmente potenti da cancellare il potere della classe senatoriale).
I Cimbri e i Teutoni
Le potenzialità del nuovo esercito di Mario furono messe subito alla prova da una serie di guerre contro i Cimbri e i Teutoni. Erano, questi due popoli, due tribù germaniche provenienti dal nord che fin dal 113 a.C. si erano affacciate ai confini alpini.
Erano popolazioni barbariche nomadi, la loro lunga carovana comprendeva donne e bambini, e gli uomini erano conosciuti per il furore e per il disprezzo della morte che mostravano in battaglia.
Per primi i Cimbri, nel 113, avevano sconfitto un esercito romano comandato da Gneo Papirio Carbone che, sottovalutandoli, li aveva attirati in un'imboscata. Nonostante la vittoria i Cimbri non penetrarono in Italia ma oltrepassarono il corso del Reno fino all'alto corso del Rodano, dirigendosi ad ovest. Contemporaneamente erano apparsi i Teutoni. Nel 109 a.C. questi sconfissero il console Marco Giunio Silano, inviato ai confini, fino in Gallia, per attaccarli.
Nemmeno i Teutoni mostrarono l'intenzione di invadere l'Italia, fino al 105 a.C., quando fu inviato per respingerli un esercito romano al comando di due generali in disaccordo fra loro (Gneo Mallio Massimo, popolare, e Quinto Servilio Cepione, nobile). Cepione, essendo proconsole, era tecnicamente un sottoposto di Massimo, e non voleva eseguire gli ordini di colui che non riteneva al suo stesso livello nobiliare. Conseguenza di ciò fu la rovinosa sconfitta di Arusio (Orange), dove i due eserciti romani furono sconfitti uno dopo l'altro.
Pur avendo vinto, i barbari non invasero comunque l'Italia, preferendo saccheggiare la terra degli Averniati (svizzeri). In seguito i Cimbri si diressero verso la Spagna del nord, dove incontrarono la forte opposizione dei Celtiberi, mentre i Teutoni si stabilirono nella Gallia settentrionale.
Aquae Sextiae: massacro dei Teutoni
La sconfitta di Arusio dette nuova forza al fronte democratico interno: Massimo e Cepione furono condannati, mentre Mario, reduce dal trionfo su Giugurta, fu rieletto di nuovo console e immediatamente mandato sul Rodano (104 a.C.).
Nel 102 a.C. i due popoli barbarici si riunirono nuovamente con l'intenzione, questa volta molto seria, di invadere l'Italia. I Cimbri, contrastati dai Celtiberi, si erano uniti in Gallia con i Teutoni, assieme avevano attaccato i Belgi, ma erano stati ricacciati. Il piano era il seguente: i Teutoni avrebbero invaso l'Italia da occidente (attraverso la costa ligure), mentre i Cimbri da oriente.
Mario, che si trovava a Roma, fu prontamente richiamato verso il confine occidentale, mentre Quinto Lutazio Catulo si diresse col suo esercito ad oriente, per contrastare i Cimbri.
Il primo scontro lo ebbe Mario contro i Teutoni. Attestatosi con il suo esercito di 30.000 uomini in un campo fortificato presso l'Isère, in una posizione strategica dalla quale poteva controllare i valichi sia alpini che costieri, Mario subì per tre giorni l'assalto teutonico, senza però cedere alla tentazione di attaccare il nemico di gran lunga superiore numericamente (la tribù barbara contava oltre 100.000 uomini). I Teutoni decisero così di aggirare la fortificazione romana e per altri sei giorni le guarnigioni assistettero all'esodo della tribù che lanciavano contro di loro ingurie ed urla feroci.
Appena terminato l'esodo, Mario lasciò il campo e cominciò ad inseguire i Teutoni utilizzando alcune scorciatoie che gli permisero di superare i barbari all'altezza di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence, a nord di Marsiglia), dove si accampò di nuovo. L'avanguardia teutonica, costituita dalla tribù degli Ambroni, non aspettandosi il grosso dell'esercito nemico che aveva appena lasciato alle spalle e credendo di trovarsi di fronte a guarnigioni di importanza secondaria, attaccò.
L'esercito di Mario sbaragliò gli Ambroni e sterminò due giorni dopo quel che restava dei Teutoni. Circa 100.000 guerrieri nemici caddero in battaglia, mentre le loro donne, uccisi prima i loro figli, si suicidarono in massa. La prima invasione venne così respinta.
A favore dei romani avevano giocato, oltre alle abilità militari del nuovo esercito, l'effetto sorpresa e le qualità strategiche superiori del proprio comandante, che aveva scelto la posizione di battaglia più elevata, cosicchè i Teutoni si trovarono ricacciati a valle e definitivamente sterminati da un ulteriore contingente nemico di 3.000 uomini che Mario si era premunito di mandargli alle spalle.
Campi Raudii : stessa sorte per i Cimbri
Nel 102 a.C. anche i Cimbri erano penetrati da oriente nella Gallia Cisalpina. Il console Catulo non era riuscito a contrastarne l'avanzata sul fiume Adige e aveva preferito ritirarsi ed aspettare il suo collega Mario. I Cimbri, in sostanza, occupavano indisturbati la pianura padana a nord del Po, mentre a sud, sfruttando il confine naturale tracciato dal corso del fiume, si era attestato Catulo in attesa.
Per tutto l'inverno del 102-101 a.C. le posizioni non si erano mosse. Mario fece in tempo a tornare a Roma per essere rieletto ancora una volta console e poi si diresse verso l'accampamento di Catulo per ricongiungere i due eserciti.
La battaglia decisiva si ebbe nel 101 a.C. ai Campi Raudii (per alcuni verso Vercelli, per altri verso Ferrara). Sfruttando ampiamente la cavalleria, Mario diresse personalmente l'attacco che vide la sconfitta dei Cimbri. Oltre 65.000 barbari morirono, i sopravvissuti furono fatti prigionieri, oltre a ciò si aggiunse l'ulteriore tragedia del suicidio in massa delle donne e dei loro figli, analoga a quella dei Teutoni. Anche i Cimbri erano stati annientati, le frontiere a nord erano ormai sicure.
Saturnino e Glaucia
(104 - 100 a.C.)
Saturnino e Glaucia - Fronte comune democratico - Legge agraria di Saturnino -
Uccisione di Saturnino
Saturnino e Glaucia
Sul fronte interno, con il rafforzarsi della figura di Mario, anche il partito democratico aveva rialzato la testa a scapito di quello aristocratico. La sorte dei due schieramenti politici era infatti sempre legata alle fortune dei singoli generali impegnati nelle battaglie di conquista. L'occupazione prevalente del partito democratico era quella di accusare e giudicare i molti condottieri incapaci e corrotti che provenivano dalla classe aristrocratica di quel periodo, forti dei successi e della gran popolarità raggiunta dal loro "condottiero di punta".
Oltre a Mario, all'interno del partito democratico si stavano facendo largo altri due personaggi: Lucio Apuleio Saturnino e Caio Servilio Glaucia.
Saturnino proveniva dalla classe aristocratica, ma era passato ai democratici in seguito a dissensi con il senato, che lo aveva destituito dalla carica di questore di Ostia, dove si occupava della gestione del rifornimento del grano. Il suo antagonismo alla classe senatoriale era quindi dettata da forti motivi personali.
Glaucia proveniva invece da ambienti prettamente popolari, era un plebeo, piuttosto energico, buon oratore e che godeva di grande popolarità grazie alla sua presenza di spirito e all'intelligenza acuta.
Nel 104 a.C. Glaucia fu eletto tribuno della plebe. A lui si deve la lex Servilia judiciaria, che ripristinava il potere giudiziario degli equites, messo in discussione nel 106 da quel Cepione che poi venne sconfitto ad Arusio, e la lex Servilia repetundarum, che rendeva i procedimenti nelle cause di corruzione più severi.
Nel 103 a.C. fu invece Saturnino ad essere eletto tribuno, appoggiato fortemente da Caio Mario. Probabilmente è dello stesso anno la lex Apuleia de majestate, la legge "sulle offese alla grandezza del popolo romano". Con questa legge si rendeva perseguibile penalmente qualsiasi persona che avesse recato danno al popolo di Roma attraverso il suo comportamento, in pratica si poteva punire chi perdeva una battaglia e chiunque si fosse opposto a qualsivoglia legge fatta in favore del popolo. Era, questa, una legge molto sfavorevole agli ottimati, che potevano così essere messi sotto processo per ogni eventuale obiezione politica o sconfitta sul campo di battaglia.
Fronte comune democratico
Il potere di Saturnino e Glaucia fu definitivamente rafforzato nel 102 e nel 101 a.C., al ritorno di Mario dalla campagna contro i Cimbri e i Teutoni. Con il loro appoggio era stato eletto console nel 102, subito prima di partire per Aquae Sextiae.
I due popolari avevano tutto l'interesse ad appoggiare la figura del trionfante condottiero, che dava così lustro e gloria al proprio partito, mentre Mario coltivava probabilmente il progetto di diventare dittatore militare, facendo affidamento, oltre che sulla popolarità, sulle pressioni che potevano esercitare i suoi veterani, una sacca di uomini affidabili sempre pronti a venire alle mani.
Nel 101 a.C. Saturnino, Glaucia e Mario stabilirono il loro piano d'azione: Questi puntava alla rielezione a console per la sesta volta nel 100 a.C., Saturnino puntava a diventare tribuno per la seconda volta consecutiva e Glaucia pretore.
Il loro piano andò a buon fine, nonostante l'accanita opposizione degli ottimati, grazie al gran numero di veterani accorsi al voto. Durante le elezioni, nel generale clima di violenza incoraggiata dalla "cricca" di Mario, uno dei candidati degli ottimati, Aulo Nunnio, fu ucciso selvaggiamente dalla folla.
Legge agraria di Saturnino
Appena eletto (100 a.C.), Saturnino propose la sua legge agraria: essa prevedeva la distribuzione delle terre ai veterani di Mario (coloro che avessero servito nell'esercito per almeno 7 anni, vale a dire dalla guerra giugurtina) nella misura di 100 jugeri e su territorio costituito esclusivamente dalle province conquistate, da trasformare in colonie.
Il fatto era che nell'esercito di Mario servivano non solo cittadini romani, ma anche italici. Le colonie che sarebbero state fondate avrebbero dato automaticamente la cittadinanza romana anche a chi non l'aveva. Con un sol colpo si univa l'idea della redistribuzione delle terre a quella dell'allargamento della cittadinanza.
Come era ovvio aspettarsi, la legge creò notevoli contrasti. Assieme ai senatori si schierarono gli equites, spaventati dai metodi sbrigativi e violenti dei veterani di Mario. Anche i cittadini romani plebei si schierarono contro la legge, come sempre contrari ad un allargamento dei diritti agli italici.
L'approvazione popolare non fu scontata. I tribuni imposero il veto, ma la legge passò, in una città che era stata di nuovo invasa dai veterani di Mario e anche dagli italici. I senatori dovvettero accettare la legge, spaventati dal clima intimidatorio. L'unico che non accettò fu Metello Numidico, che fu costretto all'esilio.
Disordini e repressione: uccisione di Saturnino
Come detto, la legge di Saturnino era un pò invisa a tutti. Il senato si incaricò di sabotarla con ogni mezzo. Caio Mario, che come militare era assai meglio che come politico, lasciò che della legge si occupassero i suoi colleghi di partito più demagoghi, disinteressandosi della questione.
Il comportamento di Mario divenne ancora più equivoco quando fu tempo di nuove elezioni. Saturnino pose la sua candidatura a tribuno per il 99 a.C. per la terza volta, come altro tribuno si candidò un certo Equizio, che millantava di essere figlio di Tiberio Gracco. Per il consolato si candidarono Glaucia e l'avversario ottimate Caio Memmio. La situazione precipitò ancora una volta quando questi venne ucciso dalla folla.
Il senato non poteva più assistere inerme alla gazzarra popolare. Decise di investire Mario di poteri straordinari, in qualità di console, e affidargli il compito di ristabilire l'ordine con la forza. Mario, capo carismatico del partito popolare, sei era quindi curiosamente incaricato di ridimensionare i candidati del suo stesso partito.
Il senato aveva mobilitato le forze armate, i senatori stessi si recarono al Foro armi in pugno. I seguaci di Saturnino, che nel frattempo si era proclamato re, imbracciarono anch'essi le armi, aiutati da carcerati e schiavi liberati per l'occasione.
Nel Foro si svolse una vera e propria battaglia. I seguaci di Saturnino si rifugiarono nel Campidoglio, dove, assediati, furono costretti ad arrendersi a Mario, che tagliò loro le condutture dell'acqua. Scortati dallo stesso Mario nella Curia per essere giudicati secondo legge, i capi della rivolta furono ugualmente uccisi da un gruppo di aristocratici che si erano arrampicati sul tetto dell'edificio e lo aveva scoperchiato. Saturnino e Glaucia morirono così sotto i colpi delle tegole di ardesia. Era il 10 dicembre del 100 a.C.
Il senato richiamò Metello dall'esilio, ora la sua sorte sarebbe toccata a Caio Mario. Il condottiero popolare non era certo gradito ai senatori, mentre anche tra il popolo non godeva più di grande stima dopo che si era incaricato di reprimere i disordini fomentati dal suo stesso partito. A Mario non restò che recarsi volontariamente in Asia Minore, con il pretesto di recarsi lì per un pellegrinaggio religioso (aveva fatto voto di ringraziare la "Grande madre degli dei" durante la guerra coi Cimbri e i Teutoni).
Marco Livio Druso
(91 a.C.)
Marco Livio Druso il giovane - Le proposte di legge -
Il patto di Druso con gli italici e suo assassinio
Marco Livio Druso il giovane
Nei dieci anni che seguirono la morte di Saturnino, il potere era stato gestito dal senato e dagli equites, prima alleati, e poi, terminata l'emergenza, ritornati antagonisti. Il fatto che il potere giudiziaro fosse in mano a una classe indipendente (che di fatto costituiva il terzo polo, l'ago della bilancia tra ottimati e democratici), aveva creato le condizioni per un nuovo uso della giustizia a scopi politici, fatto che contrastava apertamente con lo spirito originario per il quale i cavalieri erano stati costituiti.
Nel 91 a.C. salì agli onori della storia la figura di Marco Livio Druso, figlio di quel Marco Livio Druso che era stato avversario di Caio Gracco, nonchè fervente sostenitore della causa aristocratica.
Malgrado provenisse quindi da un ambiente prettamente aristrocratico, Druso riuscì a farsi eleggere come tribuno della plebe e inaugurò una politica piuttosto originale, che prendeva elementi della destra e del partito democratico. Il suo scopo era restaurare l'antico potere aristocratico fondandolo sul consenso popolare, nel tentativo di effettuare una sintesi che avesse accontentato entrambe le parti.
Le proposte di legge
Furono tre i punti essenziali della sua politica:
1. Una legge che riguardava la giustizia. Druso, per sanare una volta per tutte la frattura che si era venuta a creare fra ottimati e cavalieri, propose che le commissioni giudiziare fossero dovute passare per l'approvazione al senato, il senato stesso sarebbe stato allargato a 300 nuovi membri, da scegliersi tra i migliori equites.
L'intento di Druso era quello di restituire il potere giudiziario al senato e di portare dalla sua parte l'intera classe degli equites, allettati dalla proposta di diventarne parte integrante.
2. Una nuova legge sulla distribuzione a prezzi politici del grano e una nuova proposta di legge agraria, nella quale si proponeva di dividere quei territori appartenenti all'ager publicus che non erano ancora stati toccati (questi territori si trovavano principalmente in Campania e in Sicilia). Era una legge prettamente demagogica fatta per portare dalla propria parte la popolazione.
3. Una legge che estendesse la cittadinanza romana agli alleati italici (socii). Anche questa legge era ormai diventata un classico del repertorio politico romani, come si vede, ad intervalli periodici, venne proposta da ogni legislatore popolare, ed ora, a sorpresa, anche da Druso, che propriamente popolare non era.
Patto di Druso con gli italici e suo assassinio
Mentre le leggi dei primi due punti passarono, malgrado l'accanita opposizione degli equites alla legge che li riguardava, la terza proposta di legge incontrò come sempre gli sfavori del senato.
Druso e gli alleati italici avevano stretto un accordo segreto. Il tribuno si era impegnato attivamente per promuovere e fare approvare la legge sull'estensione della cittadinanza ai socii, e gli alleati si erano impegnati a costituire una sorta di fronte comune per promuovere uniti tale concessione.
Il senato però era ovviamente allarmato da tale possibilità. Valutata pericolosa l'eco dei legami di Druso con gli italici (del patto segreto era evidentemente trapelato qualcosa) e considerato che da esponente ottimate si stava trasformando in "capo popolo", i senatori abolirono le leggi con un pretesto formale. Lo stesso Druso, di lì a poco, sarebbe stato assassinato da un sicario sulla porta di casa (91 a.C.).
Terminava così l'ennesimo episodio della lotta interna, anche se l'uccisione di Druso fu la scintilla che provocò la rivolta degli alleati italici contro il potere romano.
La guerra sociale: la rivolta degli italici
(91-88 a.C.)
 
 
 
Sollevazione di Ascoli - I rivoltosi si organizzano - Primi anni di guerra -
Prime concessioni di cittadinanza agli alleati - Caduta del fronte settentrionale - Ridimensionamento del fronte meridionale
 
 
 

La sollevazione di Ascoli
 
Dopo la morte di Druso, i socii italici avevano capito che la questione della loro cittadinanza non sarebbe più stata combattuta sul solo piano politico. I tempi erano maturi per una rivolta generalizzata degli alleati italici contro Roma, la lega che era stata costituita fra gli alleati a scopi politici si tramutò in una organizzazione militare.
 
L'episodio che scatenò la guerra sociale accadde ad Ascoli Piceno nel 91 a.C. Il pretore Caio Servilio, venuto a sapere che Ascoli scambiava ostaggi con le città circostanti, si recò sul luogo con un piccolo reparto. Riuniti gli abitanti in un teatro, infiammò gli ascolani con un discorso dai toni ostili e minacciosi. Il clima era già teso, il discorso fu la goccia che fece traboccare il vaso: la platea assalì Servilio uccidendolo assieme al suo legato, successivamente, tutti i cittadini romani che si trovavano in città furono massacrati.
 

I rivoltosi si organizzano
 
La rivolta di Ascoli era il segnale che gli altri italici stavano aspettando. Si formarono due gruppi di rivolta:
 
1. Il fronte settentrionale, capitanata da Marsi e Piceni, oltre ad altre tribù satelliti quali i Peligni e i Vestini. Il capo de Marsi era Quinto Pompedio Silone, già amico di Druso, quello dei Piceni Caio Iudacilio. Silone e i Marsi, durante il conflitto, capitanarono le operazioni militari di questo gruppo.
 
2. Il fronte meridionale, capitanata da Sanniti e Lucani, i cui capi erano rispettivamente Caio Papio Mutilo e Ponzio Telesino. Papio Mutilo e l'agguerrita tribù sannitica furono al comando delle operazioni militari nel sud.
 
Con Roma rimasero L'Umbria e L'Etruria, oltre alle colonie greche del sud Napoli, Nola, Reggio e Taranto e le altre. Era una rivolta piuttosto pericolosa, all'interno della penisola, nel cuore stesso della società italico-romana. Inoltre i capi della rivolta, compresi gli uomini che avevano a disposizione, non erano certamente degli incapaci, essendo stati addestrati alla guerra proprio dai romani che se ne erano serviti in molte battaglie, a partire dalla riforma di Mario.
 
I rivoltosi potevano disporre di una forza di circa 100.000 uomini, erano addestrati, come si è già detto, equipaggiati con le stesse armi dei romani e forse maggiormente dediti alla causa per la quale combattevano rispetto ai nemici. I romani, per contro, mettevano sul piatto della bilancia lo stesso numero di uomini e potevano contare sull'appoggio delle proprie colonie, situate in posizioni strategiche su tutto il territorio italico.
 
Infine, la lega dei rivoltosi organizzò uno stato parallelo, con proprie leggi, proprie istituzioni, propri consoli e propri senatori, perfino una propria moneta (nella quale un toro, simbolo dei sanniti, prendeva a cornate la lupa capitolina!). La capitale dello stato italico fu Corfinio, nella regione dei Peligni, al centro della rivolta. Fu significamente ribattezzata "Italica".
 

I primi anni di guerra
 
Prima di attaccare, i rivoltosi fecero un ultimo tentativo di sistemare le cose inviando una delegazione a Roma nella quale si chiedeva la concessione della cittadinanza in cambio della pace. Il senato rifiutò. A ribadire la scelta, Quinto Vario, un tribuno della plebe sostenuto dagli equites, costituì una commissione incaricata di processare i traditori della patria. Druso fu accusato di aver innescato la rivolta degli italici, molti dei suoi sostenitori furono condannati.
 
La guerra ebbe inizio nel 91 a.C., lo stesso anno della sollevazione di Ascoli. I primi anni furono contraddistinti, per i romani, da numerosi insuccessi. Gli italici attaccarono dapprima le fortezze, dandosi all'azione di guerriglia, in un secondo momento cominciarono le battaglie campali vere e proprie.
 
Nel sud l'esercito romano era capitanato dal console Lucio Giulio Cesare (uno dei legati era Silla). Il tentativo di attaccare i sanniti portò ad una rovinosa sconfitta. I Romani persero l'importante citta di Venafro, sul confine sannitico, oltre ad arretrare in Campania, dove le città di Nola, Salerno, Pompei, Ercolano e Stabia passarono al nemico. Anche Isernia fu costretta alla resa dopo un assedio.
 
Al nord operavano per i romani il console Publio Rutilio Lupo, che aveva tra i suoi legati Caio Mario, ritornato dall'Oriente. Nel 90 a.C. i Marsi attaccarono l'esercito romano a sorpresa, presso il fiume Tolero, nel territorio degli Equi (interno del Lazio). Il console morì assieme a 8.000 soldati, solo Mario riuscì ad impedire la completa catastrofe continuando la resistenza sul quel fronte.
 
Lo sfavorevole volgere degli eventi ebbe come effetto un tentennamento degli alleati Umbri ed Etruschi: alcune comunità passarono con i rivoltosi, altre si mostravano indecise.
 

Prime concessioni di cittadinanza agli alleati
 
Per contrastare la pericolosa eventualità di un ampio isolamento, Roma decise di varare leggi speciali.
Alla fine del 90 a.C. il console Giulio Cesare decise di varare una legge che permetteva a quelle comunità che non erano ancora passate col nemico di acquisire la cittadinanza romana (lex Julia). Questa legge riuscì ad arrestare la rivolta in Umbria ed Etruria, dove le città ancora indecise ritornarono saldamente dalla parte di Roma.
 
Un altra legge successiva diede la spallata decisiva. All'inizio del 89 a.C. I tribuni Marco Pluzio Silvano e Caio Papirio Carbone vararono una legge che permetteva di estendere la cittadinanza romana a tutte le comunità che entro due mesi avessero manifestato a un pretore il desiderio di usufruire di tale diritto. La legge seminò grande discordia tra i ribelli italici, incrinandone l'iniziale compattezza d'intendi.
 
C'è da aggiungere che i nuovi cittadini non furono uniti alle tradizionali 35 tribù latine, ma furono divise in altre 8 tribù aggiuntive, piuttosto poche in rapporto al numero di nuovi cittadini, che pur essendo superiori di numero ai romani, avevano così minor rappresentanza nelle assemblee... ma comunque i primi passi in questa direzione erano stati fatti, e le prime conseguenze politiche non tardarono a ripercuotersi sulla compattezza dei nemici.
 
Sempre nell'89 infine, il console Strabone propose una legge speciale (lex Pompeia) che permetteva ai membri delle colonie della Gallia Cisalpina di acquisire la cittadinanza, oltre a quelle comunità latine al di là del Po che fossero rientrate nell'orbita romana.
 

La caduta del fronte settentrionale: la presa di Ascoli
 
Una volta pacificate Umbria ed Etruria, tra manovre politiche e battaglie minori, i romani sconfissero pesantemente i Marsi, che nel frattempo erano accorsi in aiuto degli Etruschi. Strabone e il suo esercito uccisero 15.000 avversari, spegnendo di fatto ogni velleità della tribù ribelle (89 a.C.).
 
Le operazioni si concentrarono quindi su Ascoli. La città venne assediata e vide la vittoria in battaglia dell'esercito romano, che però non potè subito entrare in città, occupata prontamente da Iudacilio, che ne era prontamente accorso in aiuto. L'assedio continuò ancora per qualche mese, finché i notabili della città decisero per la resa, con la disapprovazione di Iudacilio, che dopo averli condannati a morte, decise di suicidarsi col veleno. I Romani entrarono nella città, uccisero i notabili e deportarono la popolazione. Ascoli era caduta, e con lei Italica, che ritornò ad essere Corfinio (89 a.C.).
 
Tutto il fronte nord della ribellione crollò. Oltre ai Marsi e ai PIceni, si arresero anche i Vestini e i Peligni.
 

Ridimensionamento del fronte meridionale
 
All'inizio del'88 a.C. la capitale dei rivoltosi si era spostata ad Isernia, i Sanniti capeggiavano la rivolta.
 
Silla operava in Campania, mostrando oltre alla sua abilità militare anche la sua spietata crudeltà. Mentre un altro contingente romano aveva conquistato la Puglia, Silla invase la Campania meridionale riconquistando le città di Pompei, Ercolano e Stabia. Penetrò poi nel Sannio fino a raggiungerne la città più importante, Boviano, che costrinse alla resa.
 
A questo punto la rivolta si estendeva solo ad alcune regioni della Campania, della Lucania, del Sannio e del Bruzio (Calabria meridionale), oltre che a Nola. Il movimento meridionale, che pur continuò a combattere fino all'82 a.C. si era ormai molto indebolito. Fu per questo che cercò l'appoggio di Mitriade, re del Ponto, che nel frattempo si preparava a combattere i romani per motivi personali, e che non fece in tempo comunque a portare aiuto ai rivoltosi.
 
Proprio Silla, che nel frattempo aveva iniziato l'assedio di Nola, fu costretto a tornare a Roma per far fronte alle nuove minaccie provenienti dall'Oriente. Pur non considerandosi definitivamente sedata, la rivolta interna era ormai decisamente ridimensionata.
L'ascesa di Silla
(88-87 a.C.)
 
 
 
Publio Sulpicio Rufo - Silla marcia su Roma - Il nuovo ordine di Silla
 
 
 

Publio Sulpicio Rufo
 
I consoli eletti per l'88 a.C. furono Silla e Quinto Pompeo Rufo. Ma ad occupare la scena politica romana era soprattutto un tribuno della plebe, di estrazione aristocratica ma con idee popolari (similmente a Druso): Publio Sulpicio Rufo.
 
Il programma di Rufo si fondava su 4 punti: 1. Distribuire i nuovi cittadini italici fra tutte le tribù ed estendere il diritto anche ai liberti. 2. Destituire tutti i senatori che avessero contratto debiti superiori a 2.000 denari. 3. Permettere il ritorno a Roma di tutti gli esiliati per motivi politici. 4. Privare Silla del comando delle operazioni in Asia contro Mitridate e trasmetterle a Caio Mario.
 
I consoli e il senato erano naturalmente contro queste proposte, per prendere tempo e rimandarne la discussione fu deciso di approvare la sospensione dell'attività politica in occasione di una festa religiosa.
 
Rufo ovviamente prese la cosa piuttosto male. Egli, memore delle esperienze toccate ai suoi predecessori, disponeva di un esercito mercenario di 3.000 uomini armati, più una guardia personale di ben 600 giovani equites, noti con il nome di "antisenato". Quando Rufo pretese l'approvazione forzata delle sue leggi, cominciarono gli scontri, nei quali perse la vita il figlio del console Pompeo Rufo. A questo punto, di fronte alla violenza, il senato tolse la sospensione e approvò le leggi.
 

Silla marcia su Roma
 
Silla, pur essendo console, non si trovava a Roma, ma a Nola con il suo esercito. In seguito all'approvazione delle leggi di Sulpicio Rufo, giunsero presso il suo accampamento due tribuni militari che portavano l'ordine di consegnare l'esercito a Mario.
 
Silla riunì le sue legioni per tenere un discorso. Il comandante fece notare che Mario avrebbe certamente portato in Asia i suoi fidati veterani, mentre il ricco bottino asiatico che già i suoi uomini avevano pregustato si sarebbe volatilizzato. Silla intendeva ribellarsi alle decisioni di Rufo, e uscire una volta per tutte dall'ombra dell'ormai settantenne Mario. Per fare questo contava sulle sue legioni e sulla loro fedeltà (Come si è già detto la riforma militare di Caio Mario, con le sue promesse di bottino ai soldati, rafforzavano il legame delle legioni con il proprio comandante).
Le sei legioni di Silla seguirono il loro generale nella ribellione. I due tribuni militari furono lapidati.
 
Silla aveva un progetto. Con i suoi 30.000 uomini intendeva entrare a Roma e liberarla dal giogo di Rufo e dall'eccessiva influenza democratica. Era la prima volta, nella storia di Roma, che un esercito romano marciava sulla sua stessa città per occuparla militarmente, primo evidente effetto della riforma militare.
 
Roma accolse le legioni a sassate e a mattonate, mentre Mario e Sulpicio Rufo organizzavano la resistenza. Silla ebbe però gioco facile nell'occupare la città e vincere i suoi avversari. Sulpicio riuscì a fuggire, ma fu catturato e ucciso, la sua testa fu portata a Silla che decise di esporla nel Foro. Mario riuscì a riparare in Africa.
 

Nuovo ordine di Silla a Roma
 
Silla non voleva correre rischi. Il suo intervento in Asia era sempre più necessario, occorreva stabilire a Roma un ordine il più possibile stabile e duraturo, tale da permettergli di assentarsi senza che la situazione mutasse al suo ritorno.
 
Silla abolì le leggi approvate da Sulpicio Rufo, mentre il senato fu ampliato con nuovi 300 membri scelti fra i suoi più fidati sostenitori. Fu abolita la potestà dei comizi centuriati e fece in modo che ogni legge proposta dai tribuni passasse prima dal senato per l'approvazione. Di fatto venne abolito il potere legislativo dei tribuni.
 
Silla cercò anche di fare eleggere per l'87 a.C. due consoli di suo gradimento. Non vi riuscì completamente, visto che furono eletti consoli Gneo Ottavio, ottimate e Lucio Cornelio Cinna, democratico.
 
La questione asiatica era talmente impellente che a Silla toccò accettare l'elezione di Cinna, mentre già si apprestava a partire per la sua spedizione estera.
La guerra contro Mitridate
(88-85 a.C.)
 

Mitridate - L'invasione dei territori romani in oriente - Silla contrattacca: la presa di Atene -
Un secondo esercito romano - La battaglia di Orcomeno - Mitridate chiede la pace -
Restaurazione dell'ordine in Asia Minore
 
 
 

Mitridate
 
Il nemico che Silla si preparava a combattere era Mitridate VI Eupatore, re del Ponto (la costa nord della Turchia, che si affacciava sul Mar Nero).
 
Le sue origini erano greche-persiane, si narra che all'età di undici anni ereditò il regno dal padre morente, ma, non fidandosi della madre e dei suoi tutori, si nascose per 7 anni tra le montagne con un gruppo di fedelissimi. Raggiunti i 18 anni, tornò per esigere il regno, imprigionò la madre (che fece avvelenare in prigione) e si riprese ciò che già gli era dovuto.
 
Era un uomo carismatico, energico ma anche crudele, temprato dalla vita che aveva condotto nei boschi quando era giovane. Le sue origini greche non gli impedivano di apprezzare l'arte e la cultura, amando farsi circondare da pittori, storici, poeti e filosofi.
 
Le conquiste di Mitridate si ampliavano di continuo: si era impadronito del Bosforo, della Colchide (regione a nord sulle coste occidentali del Mar Nero) e dell'Armenia, che costituiva, nei suoi piani, una barriera tra sé e la pericolosa Persia. Di fatto aveva in pugno anche il regno di Cappadocia.
 
In ragione di questa espansione, Mitridate divenne l'ultimo e più pericoloso discendente degli stati ellenistici e il collettore di tutti i sentimenti anti-romani della regione, mirando a costituire un grande Regno Orientale che comprendesse l'intera Turchia odierna e le coste del Mar Nero.
 

L'invasione dei territori romani in oriente
 
Le vere ostilità con i romani cominciarono nell'88 a.C. quando Mitridate decise di invadere i possedimenti asiatici dei romani (la costa occidentale della Turchia).
 
La popolazione accolse Mitridate come liberatore. Molte città consegnarono a Mitridate i governanti romani in catene, gli stessi re della regione che appoggiavano Roma, come il re di Bitinia, preferì fuggire e lasciare il suo regno in mano al nemico. Furono massacrati in un solo giorno migliaia di civili romani e italici, uomini, donne e bambini.
 
Mitridate inaugurò poi una politica demagogica per assicurarsi l'appoggio delle popolazioni: liberò gli schiavi, estinse la metà dei debiti contratti da ogni singolo cittadino, esentò i territori occupati da ogni forma di tributo per 5 anni. Poi trasportò la capitale a Pergamo, mentre Cappadocia, Frigia e Bitinia erano state ridotte a regioni vassalle.
 
L'invasione raggiunse anche le coste europee: uno dei figli di Mitridate invase la Macedonia e provocò la sollevazione della Grecia. Atene insorse, guidata da un ex schiavo, il filosofo epicureo Aristione: venne proclamata la secessione da Roma, mentre anche gli altri stati della penisola seguivano il suo l'esempio.
 

Silla contrattacca: la presa di Atene
 
La situazione romana sembrava disperata: appena sedata la rivolta italica, Silla si trovava a fronteggiare con i suoi 30.000 uomini la sollevazione dell'intero oriente, mentre la situazione nell'Urbe era tutt'altro che stabile e le casse dell'erario vuote.
 
Ma Silla non si diede pervinto. Con la determinazione che sempre lo contraddistinse, decise di risolvere la situazione orientale, ben sapendo che solo dopo aver riportato la stabilità ai confini poteva dedicarsi con tutta calma a ristabilire l'ordine in patria.
 
Silla sbarcò in Epiro. Una volta incassato il rifiuto di Mitridate di ritornare allo status quo ante bellum, puntò in Beozia, dove sconfisse le armate di Archelao (stratega al soldo di Mitridate) e del tiranno di Atene Aristione. I focolai di rivolta in Grecia furono sedati, resistevano solo Atene e il Pireo, dove si erano rifiugati Aristione e Archelao: a Silla non restò altro che inziare l'assedio della città.
 
Per tutto l'inverno 87-86 le legioni romani tentatorono di abbattere le difese della città, che nel frattempo riceveva aiuti dal mare, che era in mano alle navi di Mitridate. L'assedio così si protrasse più del dovuto, mentre Silla non si faceva scrupolo di saccheggiare i tempi più rispettati e più ricchi della zona e ad abbattere gli storici boschi del Liceo e dell'Accademia per costruire le sue macchine d'assedio.
 
Solo quando Silla decise di attuare un blocco più stretto riuscì a far terminare i viveri alla città: era il primo marzo dell'86 a.C. quando riuscì ad entrare in città e a far fuggire Archelao, mentre i rivoltosi furono giustiziati. La città fu selvaggiamente saccheggiata, ma per rispetto delle sua storia, le fu permesso di mantenere la sua potestà e i suoi possedimenti. Il Pireo venne però distrutto, per privare la flotta di Mitridate di un importante porto strategico.
 

Un secondo esercito romano
 
Nel frattempo (86 a.C.) la situazione a Roma era di nuovo mutata: i seguaci di Caio Mario avevano di nuovo preso il sopravvento e si prestavano a mandare in Grecia un altro esercito al comando di Lucio Valerio Flacco, non senza aver destituito dall'incarico Silla, che peraltro non se ne curò troppo.
 
La guerra in oriente vide quindi il curioso spettacolo di due diversi eserciti romani, teoricamente antagonisti ma uniti contro il nemico comune. L'esercito di Flacco e di Silla ebbero occasione di incontrarsi in Tessaglia, tuttavia non entrarono in conflitto, un pò perchè Flacco non si sentiva per nulla sicuro di vincere lo scontro fratricida, un pò perchè lo spettacolo di due eserciti romani in conflitto fra loro non avrebbe di certo giovato alle sorti della guerra.
 
Silla sconfisse ugualmente le armate eterogenee e più disorganizzate di Mitridate, che si era presentato alle Termopili, con la temerarietà e la rapidità che lo caratterizzavano, mentre l'esercito di Flacco si diresse verso l'Asia Minore. La situazione di Silla era più che mai precaria, ma nulla poteva comunque distorglielo dai suoi piani, era più che mai deciso a ridurre le ambizioni di Mitridate, per dedicarsi al più presto alla situazione italica.
 

La battaglia di Orcomeno
 
Verso la fine dell'86 a.C. Silla si vide costretto a ingaggiare battaglia in Beozia, presso Orcomeno. Il numero dei soldati nemici era sempre e comunque superiore a quello dei suoi soldati, ma la battaglia passerà alla storia per il coraggio dimostrato dal comandante romano in battaglia.
 
Sotto i colpi della cavalleria nemica, la fanteria romana aveva cominciato a ritirarsi, quando Silla stessa scese da cavallo e brandì una bandiera, per gettarsi nella mischia. Si racconta che pronucniò queste frasi: "Io morirò qui di una bellissima morte, o Romani! E voi, quando vi chiederanno dove avete tradito il vostro comandante, non dimenticate di dire: sotto Orcomeno!".
Si racconta che la fanteria romana serrò nuovamente le sue fila e riuscì così a conquistare una brillante vittoria.
 

Mitridate chiede la pace
 
Nel frattempo, l'esercito di Flacco aveva occupato Bisanzio e aveva raggiunto l'Asia Minore: anche il Bosforo era in mano ai romani, la stessa posizione di Mitridate in Asia era compromessa, per non parlare della Grecia, che nel frattempo aveva visto bene di cambiare di nuovo la sua politica in favore dei romani, vista la nuova debolezza del re del Ponto.
La posizione filo-romana dei greci era soprattutto incoraggiata dagli strati più abbienti, mentre era la popolazione che ogni volta se ne presentava l'occasione vedeva nei tiranni orientali sempre e comunque dei liberatori, non rendendosi conto che, di fatto, nessuno era un liberatore ma piuttosto tutti erano dei conquistatori.
 
L'esercito di Flacco intanto era scosso dall'indisciplina e dalla rivolta. Il legato di Flacco, Caio Flavio Fimbria, fomentava di continuo i soldati contro il proprio comandante. Flacco non era un uomo forte e deciso come Silla, prova fu che ne fece le spese: i soldati lo uccisero per seguire Fimbria in veste di nuovo comandante.
 
Fimbria era un uomo capace. Il suo esercito riuscì a sconfiggere Mitridate costringendolo ad abbandonare Pergamo. A questo si aggiunse l'apparizione nell'Egeo di una flotta romana organizzata dai sostenitori di Silla al comando di Licinio Lucullo.
 
Mitridate chiese la resa. In un primo momento, non sapendo con chi trattare tra Fimbria e Silla, trattò con entrambi, ma poi capì che avrebbe dovuto trattare con il solo Silla. Per agevolare e accellerare le pratiche della resa, Silla pose condizioni piuttosto miti, in quel momento egli era consapevole che più del pericolo asiatico doveva guardarsi dalla pericolosa e incerta situazione italica.
A Mitridate furono revocate tutte le conquiste in Asia Minore, fu imposto il pagamento di un tributo di 3.000 talenti e la consegna di 80 navi da guerra. La pace fu conclusa personalmente con Silla nell'85 a.C., a Dardano, sull'Ellesponto.
 

Restaurazione dell'ordine in Asia Minore
 
L'esercito di Fimbra si trovava presso Pergamo quando incontrà quello di Silla. Tra le file del primo molti soldati disertarono per aggregarsi alle legioni del secondo, Fimbra decise allora di suicidarsi.
 
In Asia Minore Silla restaurò l'ordine, alla sua maniera: furono revocate le leggi di Mitridate, furono giustiziati tutti i sostenitori della rivolta contro Roma, i contribuenti furono obbligati a pagare tutte le tasse arretrate contratte durante lo svolgimento del conflitto. Fu imposto a tutte le provincie un astronomico tributo di guerra, ben 20.000 talenti (Mitridate ne aveva pagati appena 3.000... ).
Gli stati rimasti fedeli a Roma (Rodi, Licia e la Magnesia, in sostanza la costa meridionale della Turchia) furono adeguatamente ricompensati.
Nell'84 a.C. Silla si recò in Grecia, nell'83 sbarcò a Brindisi con un esercito di 40.000 uomini pronto ad affrontare la guerra civile sul suolo italico.
Dittatura di Cinna e guerra civile
(87-82 a.C.)
 
 
 
Lotta fra Cinna e Ottavio - Il ritorno di Mario - Cinna dittatore - Silla sbarca in Italia -
La guerra civile - Termine del conflitto: massacro dei Sanniti e caduta di Preneste
 
 
 
Lotta fra Cinna e Ottavio
 
Durante il periodo che vide Silla occupato in oriente molti fatti accadero a Roma in sua assenza.
Nell'87 a.C., appena partito Silla, i due consoli Cinna e Ottavio cominciarono a lottare sulle questioni dell'equa distribuzione dei cittadini nelle tribù. Cinna, appoggiato dai tribuni, propose leggi sulla maggiore eguaglianza possibile nella distribuzione, Ottavio, dalla parte del senato, cercò di impedirglielo.
 
Il giorno delle votazioni delle leggi proposte da Cinna vi fu nel Foro una sanguinosa battaglia tra i partigiani dei due consoli, si narra di 10.000 morti, una cifra enorme. Malgrado Cinna avesse aizzato contro il rivale gli italici e gli schiavi, Ottavio riuscì a vincere, costringendo Cinna a rifiugarsi a Nola. Il senato mise fuori legge i capi della rivolta e destituì il console democratico.
 

Il ritorno di Mario
 
L'esercito che assediava Nola era composto per lo più da italici favorevoli alla politica di Cinna. Altri capi democratici, fra i quali Quinto Sertorio e il tribuno Gneo Papirio Carbone, si distribuirono sul territorio italico chiamando a raccolta le popolazioni della penisola, mentre Caio Mario ritornava dall'Africa e sbarcava in Etruria con un esercito di volontari per unirsi alla rivolta democratica.
 
I diversi eserciti democratici si avvicinarono a Roma in una morsa di accerchiamento, mentre Mario assediava Ostia per interrompere i rifornimenti alla capitale. La città non potè far altro che arrendersi (87 a.C.).
 
In città si scatenò il terrore e la repressione più violenta. L'esercito di Mario ebbe una parte di primo piano nell'uccisione di Ottavio, Lucio Giulio Cesare e Quinto Lutazio Catulo, ovvero alcuni degli esponenti di spicco del potere senatoriale. Molti tra i conservatori e i loro sostenitori furono uccisi e leggi di Silla abrogate.
 

Cinna dittatore
 
Vennero eletti consoli per l'86 a.C. Mario e Cinna. Tuttavia Mario morì all'inizio dell'86 e i poteri vennero esercitati per i due anni successivi dal solo Cinna, che di fatto divenne dittatore dell'Urbe.
 
Dopo la morte di Mario e la repressione delle frange più violente dei suoi veterani, Cinna cercò di stabilizzare la situazione fermando la repressione e approvando leggi in favore della popolazione: fu stabilità l'eguale distribuzione dei cittadini nelle tribù, fu promossa una parziale riduzione dei debiti, fu inaugurata una riforma monetaria e aumentata la distribuzione gratuita del pane.
 
Ma la situazione non era comunque delle più rosee. Cinna e i suoi sostenitori erano largamente appoggiati dagli italici, i cittadini romani originari non erano del tutto contenti di una situazione così aperta e favorevole agli "stranieri". Inoltre la guerra con Mitridate era terminata e Silla si preparava al ritorno in patria, facendo sapere che avrebbe rispettato le nuove disposizioni democratiche.
 
L'immininete ritorno di Silla ridiede coraggio al movimento senatoriale più moderato, che auspicava un accordo con il vincitore della guerra in oriente. Cinna e Carbone invece preparavano ad Ancona una spedizione destinata a contrastare militarmente Silla (85-84 a.C.).
 

Silla sbarca in Italia
 
I piani dei due democratici fallirono quando l'esercito riunito ad Ancona, forse scontento per il profilarsi di una campagna invernale, uccise Cinna. Carbone non se la sentì di proseguire da solo e rinunciò alla spedizione, mentre a Roma furono eletti per l'83 a.C. due nuovi consoli, Caio Norbano e Lucio Cornelio Scipione.
 
Nell'83 anche Silla sbarcò in Apulia, senza trovare resistenza da parte dei democratici, non ancora pronti alla guerra. Dalla parte di Silla passarono subito esponenti di spicco del senato e anche personaggi appartenenti alla schiera democratica: Quinto Metello Pio, Marco Licinio Crasso, Lucio Marcio Filippo e Gneo Pompeo Strabone figlio.
 
I democratici potevano contare su una forza complessiva di circa 200.000 uomini, mentre Silla sulle sue sole 36.000 unità, comprensive di cavalleria. Tuttavia l'esercito di Silla era temprato dalla guerra in oriente e fedelissimo al suo comandante, disciplinato e affiatato, mentre le schiere democratiche erano più che mai eterogenee e meno abili in combattimento perchè non abituate allo scontro, situazioni che risulteranno determinanti per le sorti del conflitto.
 

La guerra civile
 
Silla si diresse verso la Campania per scontrarsi con l'esercito dei due consoli. Norbano fu facilmente sconfitto, mentre le truppe di Scipione passarono dalla parte di Silla.
Nell'82 a.C. nuovi consoli di Roma furono eletti Carbone e Caio Mario figlio. Questi attese Silla, che si stava dirigendo verso Roma, nel Lazio. Presso Sacriporto gli eserciti diedero luogo a una grande battaglia, terminata con la netta vittoria di Silla e la fuga di Mario a Preneste.
 
Mario diede ordine di abbandonare Roma, Silla la occupò senza troppa fatica. Ora il suo esercito poteva portarsi in aiuto alle truppe di Metello e Pompeo, impegnate sul fronte settentrionale dall'esercito di Carbone.
 
A questo punto entrarono in scena i Sanniti, forti di 70.000 unità e guidate dai due comandanti Ponzio Telesino e Marco Lamponio. I Sanniti erano in guerra contro Silla dal'88 a.C. (vedi la guerra sociale) per la questione italica, essi non potevano far altro che schierarsi dalla parte dei democratici, una vittoria di Silla avrebbe infatti bloccato per sempre le loro rivendicazioni.
 
Silla dovette di nuovo dedicarsi al fronte meridionale, lasciando al nord una parte dei suoi soldati in appoggio a Pompeo e Metello, che riuscirono ad ottenere importanti vittorie e provocare la fuga in Africa di Carbone. La sua fuga permise così di liberare il fronte ed intervenire in appoggio di Silla.
 
I Sanniti si erano uniti a Mario figlio a Preneste. Silla e i suoi uomini si erano già portati a ridosso della città. A questo punto i Sanniti tentarono una sortita a sorpresa verso Roma, Silla si mise in marcia per inseguirli. Nel novembre dell'82, presso la Porta Collina, vi fu lo scontro decisivo tra i due eserciti: la battaglia si protrasse fino al giorno seguente e terminò con la disfatta sannita, grazie al valido apporto degli uomini di Crasso, che intervennero in aiuto alle truppe di Silla, schiacciate contro le mura.
 

Termine del conflitto: massacro dei Sanniti e caduta di Preneste
 
Ponzio Telesino e i Sanniti sopravvissuti vennero fatti prigionieri e rinchiusi nel Campo Marzio. Qui le truppe di Silla massacrarono gli sconfitti su espresso ordine del loro comandante, che durante le esecuzioni teneva un discorso al Senato presso il Tempio di Bellona, dea della guerra, che si trovava adiacente ai Campi. Silla invitò i senatori a non porre attenzione alle grida, in quanto si stava solamente dando una lezione a un gruppo di miserabili. Roma era ormai sotto il giogo del terrore sillano.
 
Il massacro dei Sanniti fu seguito dalla capitolazione di Preneste. Mario si uccise, mentre la popolazione della città venne sterminata. Alle altre città oppostesi a Silla toccò la stessa sorte, Silla stesso organizzò una spedizione punitiva nel cuore del territorio sannita, ad Isernia, dove gli stermini di massa trasformarono la regione in un deserto. Carbone, che si trovava in Sicilia, fu catturato e giustiziato a Lilibeo. Tutte le regione italiche e le provincie estere furono progressivamente epurate dai sostenitori democratici, in Africa la rivolta fu sottomessa da Pompeo, in Sardegna da Lucio Filippo. In Spagna Quinto Sertorio, governatore democratico, dette momentaneamente rifugio ai resti dei sostenitori di Mario.
Terminava così la guerra civile tra Silla e i democratici. Roma si avviava verso una cupa dittatura.
La dittatura di Silla
(82-79 a.C.)
 
 
 
Le liste di proscrizione - La repubblica fantoccio - Le riforme sillane - Silla si ritira
 
 
 

Le liste di proscrizione
 
La dittatura di Silla passò alla storia per la ferocia. Nel biennio 82-81 a.C. Silla formò le cosidette liste di proscrizione (tabulae proscriptiones): erano delle liste nelle quali lo stesso Silla si produceva in un elenco di persone da eliminare, dichiarandole fuori legge e possibili di uccisione.
Il metodo era dei più brutali, un classico delle dittature più efferate: si dice che le liste avessero gettato nel terrore chiunque, compresi gli amici, che probabilmente non erano esclusi da qualche arbitraria menzione.
 
Silla condannò subito 40 senatori e circa 1.600 equites. Le esecuzioni avvenivano sul posto, dove il condannato si trovava al momento. I capi d'accusa erano fittizi o pretestuosi: una semplice conoscenza con alcuni oppositori, la presunta ospitalità a presunti nemici di Silla, e così via. Paralizzati dal clima di terrore, nessuno osava contrapporsi all'orgia di sangue.
Silla, Crasso e lo stesso liberto di Silla, Crisogino, beneficiariono in particolare delle uccisioni dei più ricchi notabili (erano in molti fra quelli proscritti) per inglobare il loro patrimonio. Stesso meccanismo fu allargato a tutti i suoi uomini di fiducia.
 
Silla affrancò poi 10.000 schiavi fra i puoi forti e abili, a suo tempo dichiarati fuori legge dai democratici, e ne fece la sua guardia personale, attribuendo loro il nome di Cornelii. Ai suoi 120.000 soldati riservò ampi appezzamenti di terra in tutta la penisola, un altro tassello nel reticolo di clientele che il dittatore stava formando nel tentativo di rendere stabile il suo potere.
 

La repubblica fantoccio
 
Silla fondò il suo potere dittatoriale rispettando giuridicamente la forma di stato repubblicana.
Visto che gli ultimi due consoli democratici erano morti, il potere passò momentaneamente nelle mani di Valerio Flacco, il senatore principe. Egli presentò ai comizi un pregetto di legge che nominava Silla dittatore a tempo indeterminato, in modo da permettergli di restituire l'ordine e il rispetto delle leggi. L'assemblea popolare, terrorizzata dalle incombenti liste di proscrizione, non osò opporsi, e in questo modo Silla divenne dittatore del tutto legalmente, in nome della Repubblica.
 
Di fatto, quindi, sebbene continuassero le elezioni annuali dei consoli (e lo stesso Silla fu nominato nell'80 a.C.) e sebbene tutti i meccanismi elettivi delle cariche accessorie fossero ancora in funzione, il potere supremo era sempre e comunque in mano al dittatore, che lo esercitava in nome di una legge approvata dal popolo stesso di Roma!
 
Ovviamente, le leggi democratiche di Cinna erano state abolite e il potere dei tribuni ridotto quasi a finzione. Essi potevano legiferare e deliberare, ma solo previa autorizzazione del senato.
 

Le riforme sillane
 
Molte furono le riforme portate a compimento da Silla. Le sue riforme miravano a costituire una nuova nobiltà e a ridare importanza al senato e ai suoi poteri.
 
Per venire incontro alle nuove esigenze amministrative (il territorio italico romano aveva bisogno di una sistemazione definitiva), Silla portò il numero dei pretori a 8 e quello dei questori a 20. Tutti i popoli italici furono iscritti egualmente nelle tribù: il partito democratico era stato sconfitto e non c'era più l'esigenza di combatterlo su questo versante, così Silla mise in atto le riforme che di fatto avevano scatenato l'ostilità dei democratici nei suoi confronti!
 
La penisola italica fu divisa in municipalità e in colonia dal sud fino al Rubicone (un corso d'acqua che scorre a nord di Rimini e sfocia nell'Adriatico). Dal Rubicone fino alle Alpi venne creata la provincia della Gallia Cisalpina, che comprendeva, oltre alle colonie e alle roccaforti romane storiche, le molte tribù galliche ormai non più ostili.
 
Sul fronte interno, Silla abolì la riforma giuridica di Caio Gracco e restituì i pieni poteri giudiziari ai senatori (abolendo di fatto la funzione di controllo degli equites, che vennero accorpati al senato nel numero di 300 nuovi membri). L'ampliamento del senato permetteva di eleggere nuovi rappresentanti tra i nobili in modo da rinnovare e ricostituire una classe dirigente nobiliare giovane e fedele a Silla.
 
Nel complesso le leggi di riforma di Silla avevano dato un minimo di stabilità all'Urbe dopo anni di sconvolgimenti politici e gettato le basi dell'assetto geo-politico penisulare che sarà poi definitivamente consolidato con l'avvento dell'Impero.
 

Silla si ritira
 
Come già detto, nell'80 a.C. Silla, pur restando dittatore, assunse anche la carica di console. L'anno successivo non presentò alcuna candidatura e si riritirò improvvisamente e del tutto inaspettatamente a vita privata nei suoi possedimenti campani. L'anno seguente, dopo essersi dedicato alla pesca e alla stesura delle sue memorie, morì di malattia.
Alcuni sostengono che il suo abbandono della vita politica fu conseguenza della sua malattia, altri invece sostengono che volle lasciare il potere all'apice del successo personale. Resta il fatto che l'influenza di Silla si fece sentire fino alla sua morte e negli anni successivi e che la sua dittatura, sebbene brutale e sanguinaria, aveva dato stabilità allo stato e alle sue istituzioni.
 
 Le rivolte di Lepido e Sertorio
(79-71 a.C.)
 
 
 
Marco Lepido - Quinto Sertorio
 
 
 

Marco Lepido: tentativo di rivolta a Roma
 
Morto Silla, il sistema dittatoriale mostrò tutta la sua debolezza, la dittatura aveva creato una frattura tra potere e società civile e aveva scontentato molte classi sociali. Coloro che avevano motivo di tramare contro il regime erano i veterani di Mario, i proprietari terrieri privati delle loro terre in favore dei coloni sillani, gli equites sopravvissuti alle repressioni e persino una parte della nobiltà romana senatoriale, non certo contenta di essere stata privata sostanzialmente di buona parte dei suoi poteri.
 
Chi incarnò il malessere delle classi scontente fu il console del 78 a.C. Marco Lepido. Sebbene appartente alla classe aristocratica, era stato constretto da circostanze personali a passare tra le fila dell'opposizione (per via di un tentativo di processo che lo vedeva coinvolto in saccheggi durante il periodo in cui rivestiva la carica di propretore della Sicilia).
 
Nonostante l'opposizione dell'altro console Quinto Lutazio Catulo (senatore sillano figlio del vincitore di Vercelli), Lepido cominciò a tessere le fila della rivolta chiamando a raccolta i dissidenti e i veterani di Mario, e riuscì a ripristinare l'uso democratico della distribuzione gratuita del grano, seppur in modo parziale.
 
L'occasione che portò allo scoperto i suoi piani fu tuttavia la rivolta dell'Etruria. In questa regione molte città erano insorte contro l'esercito sillano, per sedare l'agitazione il senato decise di inviare i due consoli. Lepido riunì il suo esercito e si recò sul posto, ma allo scadere del suo mandato si rifiutò di deporre le armi e di tornare a Roma: egli chiese invece al senato di restaurare l'antica costitituzione repubblicana, la potestà dei tribuni, il ritorno dei dissidenti e la sua rielezione a console. Il senato, per tutta risposta, lo dichiarò nemico della patria (77 a.C.).
 
Il compito di combattere Lepido venne affidato a Catulo e Pompeo. Pompeo si diresse nella valle del Po, dove ad attenderlo c'era un alleato di Lepido, quel Marco Giunio Bruto, sostenitore di Mario, che era il padre del futuro uccisore di Cesare. Bruto fu costretto a rinchiudersi a Modena, che venne assediata. Poco dopo la città si arrese, e Bruto venne giustiziato.
 
Sull'altro fronte Catulo si preparava a difendere Roma dal più minaccioso esercito di Lepido. I due eserciti si scontrarono presso il Campo Marzio, dove Lepido venne sconfitto. In seguito si ritirò in Etruria, poi, nuovamente sconfitto, trovò rifugio in Sardegna, dove morì poco dopo. I resti del suo esercito vennero condotti dal suo pretore, Marco Perperna, in Spagna, dove il governatore Sertorio già si preparava a una nuova rivolta contro il regime sillano.
 

Quinto Sertorio: tentativo di rivolta in Spagna
 
Già dal 79 a.C., in Spagna, si crearono i presupposti di una rivolta contro il potere romano. A capo di tale progetto fu il governatore romano dello Spagna, Quinto Sertorio.
Egli aveva già dato rifugio ai resti dell'esercito di Mario durante la presa di potere di Silla (si veda il capitolo sulla guerra civile), il suo piano era infatti raccogliere tutti gli elementi dissidenti romani in Spagna, nel tentativo di ricreare nella provincia un partito democratico forte e fare della penisola iberica la base dalla quale partire per riconquistare Roma.
 
La politica di Sertorio in Spagna si può dire "illuminata": per garantirsi il consenso strinse alleanze con le tribù iberiche, a Osca (Spagna settentrionale), dove pose la base del suo potere, creò persino una scuola per i figli dei capi locali, dove venivano insegnati il latino, il greco e le scienze. La sua guardia personale era composta da giovanissimi fanatici iberici, che aveva conquistato in virtù del suo prestigio e del suo carisma. A capo del suo esercito pose dei romani, scelti tra i dissidenti, e cercò di stringere alleanze con tutte quelle forze che contrastavano il potere di Roma, dai pirati della Cilicia a Mitridate, che al tempo si trovava ancora in lotta con l'odiato nemico italico.
 
Il progetto di Sertorio era insomma quello di romanizzare la Spagna, cercando di trovare la forza nel consenso e nella coesione sociale più che nell'uso del pugno di ferro e delle repressioni. In un primo momento sembrò riuscirci, poiché l'esercito di Pompeo, mandato in qualità di proconsole dal senato di Roma per distruggere il ben organizzato "sistema iberico", subì le prime inevitabili sconfitte (nel 75 Pompeo, ferito gravemente in battaglia, potè salvare se stesso e il suo esercito solo grazie al tempestivo intervento di Metello).
 
Per sconfiggere Sertorio si ricorse allora alla ben collaudata tattica della cospirazione interna. Malgrado tutto, l'equilibrio sociale creato da Sertorio era fragile: bastò una taglia messa sulla sua testa dal senato per disinnescare la sua politica.
Venuto a conoscenza della taglia, Sertorio allontanò da se tutti gli aiutanti romani, affidandosi alla sola guardia dei giovani e fidati iberici. Scoperta una prima cospirazione, giustiziò molti dei capi romani, questo non fece che peggiorare le cose. Nel 72 a.C., in occasione di un banchetto organizzato a Osca da Perperna e dai cospiratori, Sertorio e la sua guardia vennero pugnalati.
 
Perperna si mise a capo dell'esercito spagnolo, la coalizione si sfasciò, gli iberici non lo sostennero e gli stessi romani che avevano cospirato assieme a lui cominciarono ad osteggiarlo nella lotta al potere.
Per Pompeo fu facile sconfiggere questo esercito dilaniano al proprio interno, lo stesso Perperna venne catturato e ucciso e l'intera Spagna ritornò sotto il pieno controllo del senato romano nel 71 a.C. Terminava così il tentativo di rivolta della provincia iberica.
La rivolta di Spartaco
(73-71 a.C.)
 
 
 
Chi era Spartaco - Le origini della rivolta - La rivolta si estende - Cambio di rotta -
Crasso contro Spartaco - La fine di Spartaco
 
 
 
 
 

Chi era Spartaco
 
Le fonti che parlano della rivolta capeggiata da Spartaco sono scarse e povere. Tuttavia è bene testimoniare una delle più grandi rivolte di schiavi che mai Roma dovette affrontare: infatti, sebbene avvenimenti di questa natura fossero accaduti già in passato e sempre repressi dalle autorità romane (soprattutto in Sicilia), mai una rivolta di schiavi fu più pericolosa, se non altro per la sua importanza numerica.
 
Spartaco proveniva dalla Tracia, ci sono buoni indizi che lo vedono arruolato nelle truppe ausiliare romane e poi ridotto in schiavitù in seguito a una diserzione. Dotato fisicamente, venne addestrato come gladiatore. Si narra che fosse intelligente, acculturato e possedesse grandi doti umane, fatti che concordano storicamente, visto l'abilità con la quale seppe riunire e condurre il suo esercito di schiavi.
 

Le origini della rivolta
 
Tuttò parti nel 73 a.C. a Capua, in una scuola per gladiatori. Circa 200 gladiatori organizzarono un complotto che venne scoperto, solo 60-70 di essi riuscirono a fuggire, tra i quali Spartaco e i galli Crisso ed Enomao. Lungo la strada, il gruppetto di fuggitivi, si impadronì di un convoglio di armi destinate ai gladiatori e si rifugiò sul Vesuvio.
 
Successivamente il gruppetto si arricchì sempre di più in numero, alimentato dagli schiavi e dagli sbandati attirati dall'uso di Spartaco di dividere in parte uguale i bottini. Tutto questo si svolgeva nell'indifferenza di Roma.
 
In seguito a un conflitto con un piccolo gruppo di soldati romani, l'esercito di schiavi e gladiatori si impadronì di armi vere. Con queste sconfisse poi le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare la minaccia. Egli si attestò all'imbocco dell'unica strada che discendeva il Vesuvio, tuttavia Spartaco riuscì a colpire le legioni alle spalle, di sorpresa, calando i suoi uomini legati a delle corde giù per il declivio più scosceso. Questa fu la prima azione eclatante del suo esercito.
 
Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei cavalli e dei simboli littori dell'esercito.
 

La rivolta si estende
 
In breve tempo la rivolta si estese a gran parte del sud della penisola, coinvolte furono la Campania, la Lucania e forse l'Apulia. In questo periodo lo storico Sallustio parla del massacro indiscriminato dei padroni da parte degli schiavi, massacri ed efferatezze alle quali tento inutilmente di porre argine lo stesso Spartaco, il quale aveva piani ben più nobili.
 
Il piano di Spartaco era quello di risalire la penisola con il suo esercito e di oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi. Tuttavia non tutti erano d'accordo con il suo piano, nella sostanza, incruento. I galli capeggiati da Crisso decisero di staccarsi dall'esercito di Spartaco, quasi venendo alla lotta fratricida: si pensa che tale scissioni sia stata dovuta al fatto che Crisso intendeva combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire oltralpe. Spartaco sembrava invece di vedute più modeste e realistiche: difficilmente il suo esercito avrebbe potuto combattare frontalmente l'intero apparato statale di Roma.
 
Fu durante questa lotta interna al movimento ribelle che Roma decise di inviare contro i rivoltosi i due consoli del 72 a.C., Lucio Gellio e Gneo Cornelio Lentulo. I 20.000 galli di Crisso affrontarono l'esercito di Quinto Arrio, pretore di Gellio, presso il monte Gargano. L'esercito dei rivoltosi fu sconfitto e lo stesso Crisso morì.
 

Cambio di rotta
 
Sebbene la scissione e la sconfitta di Crisso avessero in parte indebolito l'esercito di Spartaco, egli riuscì ugualmente a manovrare i suoi uomini in modo da aggirare gli scontri con i due consoli: quando, risalito gli Appennini, giunse a Modena, il suo esercito contava circa 120.000 unità.
 
A questo punto però, con il suo obbiettivo ormai alle viste, Spartaco decise di ritornare verso sud: questa scelta, secondo gli storici, non fu dettata da un suo preciso volere, ma piuttosto dal volere e sotto la pressione del suo enorme seguito, che lo constrinse a restare in Italia per tentare, in un eccesso di euforia, di saccheggiare Roma. Pare quindi che Spartaco non riuscisse più a controllare l'enorme seguito di uomini che aveva raggruppato, dovette quindi cedere alla volontà del suo battaglione di schiavi.
 

Crasso contro Spartaco
 
Sebbene Spartaco, da uomo intelligente, si guardasse bene dall'avvicinarsi a Roma, i romani decisero ugualmente di affidare il compito di sconfiggere definitivamente la sua minaccia a Marco Licinio Crasso.
 
Egli intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente, Mummio, incaricano di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte e Spartaco potè dirigersi nel Bruzio, presso Turi. Qui, molti mercanti si erano radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco proibì che ricevesso in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi.
 
Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia attraverso lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando a Spartaco le navi, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate.
 
Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria) per confinare nella regione i nemici: egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km). Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti tentativi di forzare il passaggio, Spartaco riuscì a passare il vallo in una notte di tempesta.
 

La fine di Spartaco
 
A questo punto Crasso richiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe accorso Marco Licinio Lucullo.
 
Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I due capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse.
 
Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Qui si svolse la battaglia finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero 6.000 prigionieri. Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini, tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo. Terminava così la rivolta di Spartaco.

Continua