La leggenda delle origini:
Enea, Marte e la Lupa
La leggenda vuole che i latini siano in qualche modo discendenti di Enea,
fuggito dalle ceneri di Troia e approdato nel Lazio, dove si stabilì ed ebbe
abbondante discendenza.
Ora, alcune generazioni dopo, in una delle città fondate dalla sua stirpe
(Alba Longa), accadde che il buon re Numitore fosse usurpato dal fratello
malvagio, Amulio. Questi imprigionò il fratello e ne uccise la discendenza
maschile, costringendo l'unica figlia superstite a farsi vestale, titolo che
imponeva il voto di castità.
Rea Siliva, questo il nome della ragazza, era una bella e innocente
fanciulla, che commise però il fatale errore di addormentarsi distesa sulla riva
del fiume: la bella non passò inosservata agli dei, visto che di lì a poco passò
Marte e molto ellenicamente la fece sua.
Da questa unione nacquero due
gemelli, Romolo e Remo.
Amulio, venuto a sapere del fatto, fece uccidere Rea Silvia a bastonate e
ordinò ad un suo servitore di ucciderne i figli, ma il servitore si impietosì e
li abbandonò in un cesto di vimini in una secca, in balia del loro destino
fluviale.
La cesta si arenò, i due gemelli piangevano e il loro pianto giunse alle
orecchie di una Lupa che provvide a portare la cesta nella sua tana e a
svezzarne il contenuto.
Senonché Faustolo, un pastore di passaggio, impietosito, decise di portarsi
a casa gli infanti. Qui trovarono finalmente una mamma umana, Acca Larenzia, che
sembra fosse la vera e unica Lupa di tutta la storia (ovvero una prostituta),
con buona pace della corrente storico-animalista.
Romolo e Remo crebbero tra
i pastori e si distinsero per forza e coraggio (erano pur sempre figli del dio
della guerra). Venuti a sapere delle loro vere origini, si recarono ad Alba
Longa, fecero piazza pulita di Amulio e restituirono il trono al nonno
Numitore.
A questo punto i due fratelli decisero di tributarsi il giusto onore
fondando una città nel luogo del loro ritrovamento, e immancabilmente nacquero i
primi dissapori per la supremazia di quelle poche capanne che chiamavano città.
Romolo voleva chiamarla Roma, Remo invece Remuria, entrambi ispirandosi ai
rispettivi nomi. Romolo prevalse dopo essersi giocato il nome in una serie di
prove di abilità.
Trovato il nome occorreva fissare il quadrato delle mura: Romolo ebbe la
visione premonitrice di dodici avvoltoi roteanti sul suo capo (mentendo al
fratello che ne vide appena sei). Questo gli diede il diritto di tracciare il
solco con l'aratro e giurare davanti agli dei che nessuno lo avrebbe mai
oltrepassato senza il suo permesso. Accade però che il solco fu attraversato per
sfida proprio dal fratello, il quale venne ucciso da Romolo secondo
giuramento.
Così, secondo il mito, nacque Roma nel 753 a.C.
Il primo re fu naturalmente Romolo. Tracciato il solco ed eliminato il
fratello, il problema più incombente era di trovare le donne per la sua
compagine. Senza donne non era possibile alcuna discendenza e nessun futuro
glorioso avrebbe segnato la sorte di Roma.
A questo punto Romolo decise ancora una volta di risolvere la questione con
l'inganno: lo stratagemma passò alla storia come il ratto delle sabine. Il piano
era di invitare a una festa il vicino popolo dei sabini con le donne al seguito,
e al momento opportuno, sfruttando la sopresa, rapire quante più fanciulle
possibile. Il piano riuscì alla perfezione: il bottino fu di seicentottantatre
ragazze vergini, meno una, Ersilia, rapita per errore, che diventò la sposa di
Romolo.
Al ratto seguì l'inevitabile guerra tra romani e sabini che finì soltanto
grazie al provvidenziale intervento di Ersilia: ella si fece portavoce delle
sabine rapite supplicando i contendenti di mettere fine a quella inutile
carneficina che avrebbe rischiato di uccidere i padri dei loro figli. A quanto
pare le sabine si erano abituate (o rassegnate) ai rapitori.
Fatta la pace, Tito Tazio, re dei sabini, divenne monarca alla pari di
Romolo e si stabilì con il suo popolo sul Quirinale (Tito era originario di Curi
e i suoi vennero chiamati quiriti).
A Romolo si atrribuisce la prima divisione sociale delle genti romane: il
popolo venne diviso in tre etnie (o tribù): I Ramnes (o Ramini) di Romolo, I
Tities (o Tizi) di Tito Tazio e i Luceres (o Luceri), tribù che raggruppava le
genti di origine etrusca.
Romolo decise poi di formare un senato (Curia) composto da 100 (poi
ampliato a 200) patres (padri fondatori) nominati dal re, ad esclusione dei
Luceri.
Anche l'esercito fu diviso in milites e celeres, i primi fanti e i secondi
cavalieri.
I due reggenti decisero poi di bonificare l'area del Campidoglio e
costruire un Foro, ovvero uno spazio attorno al quale si sarebbero affaciati la
Curia, i templi delle divinità maggiori, i mercati e le botteghe degli
artigiani; il centro politico, religioso ed economico della città romana.
Accade però che Tito Tazio morì in seguito a un'imboscata forse tesagli da
qualche città sabina limitrofa e Romolo si trovò solo a fronteggiare una
popolazione spaccata in due: per arginare la crisi si profuse in una nuova
divisione della popolazione. Si decise di dividere i romani in patrizi (i
patres, i fondatori storici) e plebei (tutti gli altri). Ai primi spettavano i
compiti religiosi ed amministrativi, ai secondi l'artigianato, il commercio e il
lavoro nei campi. I matrimoni tra cittadini di classi diverse furono
proibiti.
La morte di Romolo è avvolta nel mito: scomparve in una notte di tempesta
durante un'eclissi, il suo corpo non fu mai ritrovato. Si dice che salì in cielo
sul carro di Marte per diventare il protettore dei romani col nome di Quirino
(ma forse fu solo vittima di un complotto).
II° Re: Numa Pompilio, il pio (716-672 a.C.)
Dopo la morte di Romolo seguì un periodo di confusione in cui si
susseguirono alla guida di Roma dieci patrizi, mentre le stirpi sabine e romane
lottavano tra di loro per la supremazia.
Alla fine si decise di eleggere a reggente Numa Pompilio, di stirpe sabina
e marito di Tazia, la figlia del defunto re sabino. Numa Pompilio era un uomo al
di sopra delle parti: era molto religioso e poco portato alla frenesia della
vita politica tanto che alla responsabilità del governo preferì in principio la
calma di Curi. Ma i romani lo convinsero dicendogli che governando avrebbe reso
un servizio a Dio.
Il suo regno fu contraddistinto dalle riforme religiose: introdusse riti
meno sanguinari, riformò il calendario portandolo da 10 a 12 mesi (aggiunse
Gennaio, in onore di Giano Bifronte, e Febbraio, in precedenza l'anno seguiva il
ciclo lunare e cominciava da Marzo, consacrato a Marte), i giorni dell'anno
passarono da 304 a 355.
A lui si attribuisce anche la fondazione del collegio
dei pontefici, massime cariche religiose, e la suddivisione della popolazione
per mestieri (fabbri, vasai, carpentieri e orefici). Fu un re ben voluto dalla
plebe e molto popolare.
Morì a ottantanni senza aver mai fatto una guerra, quando già le due stirpi
riappacificate gli avevano eretto un mausoleo sul Gianicolo.
III° Re: Tullo Ostilio, il distruttore di Alba (672-640 a.C.)
Tullo Ostilio, di origine latine, era assai diverso dal suo predecessore:
Il suo nome venne associato alla distruzione di Alba Longa.
Per avere un
casus belli che giustificasse la guerra come giusta agli occhi degli dei istituì
il collegio dei feziali, i quali avevano il compito di trovare un pretesto per
ogni belligeranza.
La guerra con Alba fu lunga e spietata (è qui che si
svolse l'episiodio degli Orazi e Curiazi). La città fu distrutta e la sua
popolazione deportata sul monte Celio; Il suo re, Mezio Fufezio, fu sventrato
atrocemente, legato mani e piedi a quattro quadrighe con cavalli partite in
direzioni opposte.
Gli ultimi anni del suo regno videro la costruzione di una nuova sede
senatoriale (Curia Hostilia) e la sconfitta degli Etruschi di Veio, nonche una
terribile epidemia di peste.
Mori' in un incendio provocato da un fulmine scagliato da Giove, il quale
pare non avesse gradito un rito sacro a lui dedicato.
IV° Re: Anco Marzio, il fondatore di Ostia (640-616 a.C.)
Anco Marzio, di stirpe sabina e marito di una figlia di Numa Pompilio,
divenne il IV° re di Roma.
Dopo aver conquistato il terreno che separava la
città dalla costa, fondò Ostia, così anche Roma, come si disse, potè avere il
suo Pireo (il porto di Atene).
Fornita Roma di uno sbocco marittimo e
migliorata la navigabilità del Tevere, aumentarono i commerci, sopratutto del
sale, per estrarre il quale si scavarono nuove saline e si costruirono per
conservarlo dei magazzini lungo il fiume. Il re ordinò poi la distribuzione
gratuita del prodotto, cosa che risultò gradita alla popolazione, che lo usava
per conservare i cibi.
Le barche risalivano il Tevere per portare il sale
alle zone piu' interne e scendevano cariche di legname, facendo aumentare gli
scambi e instaurando stabili rapporti d'affari con gli etruschi.
Al re si attribuisce poi la costruzione del primo ponte in legno sul
Tevere, il Sublicio, a sud della futura isola Tiberina, e la conquista, con
abituale deportazione delle popolazioni entro le mura della città, di numerose
tribù locali.
V° Re: Tarquinio Prisco e l'occupazione etrusca (616-578 a.C.)
Con Tarquinio Prisco inizia l'occupazione etrusca di Roma. Era figlio di
Demarato, un eminente greco fuggito da Corinto e stabilitosi a Tarquinia, città
etrusca. Tarquinio, che si chiamava ancora Lucumone, sposò Tanaquilla, raffinata
dama etrusca, che lo convinse a trasferirsi a Roma dove divenne il braccio
destro di Anco Marzio. Il re lo fece tutore dei suoi figli e lo iscrisse nella
tribù lucera.
Salito al trono col nome latino di Lucio Tarquinio Prisco, allargò il
numero dei patres della Curia introducendovi per la prima volte dei membri
etruschi.
Non contravennendo agli usi romani, intraprese una serie di
battaglie vittoriose nei confronti dei popoli vicini, continuando ad espandere
il territorio di Roma e formando una lega di stati etruschi con reciprochi
vincoli di non belligeranza.
Tarquinio introdusse nel protocollo di corte i fasci littori e le più
raffinate usanze etrusche, fece sfoggio di grande sfarzo durante le celebrazioni
e si circondò di guardie del corpo. La città di Roma venne ingrandita e
abbellita: si lastricarono le strade, si arricchì il Foro di nuovi tempi e nuove
strutture, si costruì il Circo Massimo e si iniziò la costruzione del tempio di
Giove Capitolino.
A Tarquinio si attribuisce il generale affinamento dei riti e delle
tradizioni romane sotto l'influenza della più raffinata civiltà etrusca.
Morì
ucciso da sicari assoldati dai figli di Anco Marzio, che lo accusavano di aver
conquistato il trono grazie al favore che godeva agli occhi del padre, nonchè
alle sue ricchezze.
VI° Re: Servio Tullio, il rifondatore (578-534 a.C.)
Servio Tullio, etrusco, era di orgini servili ma aveva preso in sposa
Tarquinia, una delle figlie di Tarquinio Prisco, e si era assai distinto in
battaglia come comandante di cavalleria.
Fu un re non eletto, in particolare si racconta che salì al trono grazie a
uno stratagemma escogitato assieme alla suocera. I due fecero credere alla
popolazione che Tarquinio Prisco fosse ancora vivo e che in punto di morte
avesse passato momentaneamente il regno nelle mani di Servio, carica che da
temporanea divenne definitiva.
Servio Tullio dovette domare le rivolte di Veio, Cere e Tarquinia, che non
riconscevano il lui il successore di Tarquinio e si rifiutavano di rispettare
gli accordi di non belligeranza firmati con il predecessore.
In ricordo delle
sue orgini fece una legge che permetteva a chiunque di poter scalare i livelli
sociali a dispetto delle origini di classe.
Servio venne ricordato per essere un grande riformatore, tanto da meritarsi
l''appellativo di rifondatore di Roma: per conoscere meglio la popolazione fece
indire un censimento generale, quindi passò a dividere le genti in cinque classi
secondo il censo.
A lui si devono le possenti mura di tufo che cinsero Roma
nel V° secolo (conosciute come serviane).
Servio assegno' poi ad ogni moneta
di bronzo una immagine di un capo di bestiame (pecus, da cui pecunia) in
rapporto al loro diverso valore.
La città venne divisa in quattro zone: la Palatina, L'Esquilina, la Collina
(o Quirinale) e la suburana (o Celio). Alle tre tribu' originarie (Ramini, Tizi
e Luceri), dette tribù urbane, venne aggiunta una quarta tribù, detta rustica,
composta da tutte quelle popolazioni che si erano aggregate alla città per vari
motivi (guerre, deportazioni e profughi di diversa natura) le quali prendevano
il nome dalla zona geografica di origine.
Il regno di Servio vide un periodo di pace, stabilità e concordia tra le
diverse stirpi romane. Sull'Aventino venne eretto, di comune accordo, un tempio
alla vergine dea Diana, divinità dei boschi cara alla plebe, agli schiavi e alle
donne.
Tutto ciò non impedì la morte violenta di Servio Tullio per mano della
figlia Tullia, che intendeva impossessarsi del regno assieme al cognato. La
leggenda vuole che, ucciso il padre, la figlia ne abbandonò il corpo esanime in
strada e vi passò sopra con il suo carro. Quindi, non paga, fece avvelenare il
marito, Arunte Tarquinio, per sposarne il fratello Lucio Tarquinio, che divenne
il nuovo re.
VII° Re: Tarquinio il Superbo, il tiranno (534-510 a.C.)
L'ultimo re di Roma fu ricordato per la sua tirannia e l'assoluta iniquità,
e per aver esasperato a tal punto il popolo romano da meritarsi l'appellativo di
Superbo, nonché la rivolta che lo scacciò.
Il Superbo sciolse il senato, ne vietò ogni riunione e uccise tutti coloro
che gli mostrarono opposizione. Impose poi nuove tassazioni, arricchendo il suo
patrimonio personale e distruggendo tutto l'impianto di riforme del suo
predeccessore, governando senza alcuna regola e a suo esclusivo
tornaconto.
L'episodio leggendario che provocò la caduta della monarchia e la scacciata
degli etruschi da Roma vede come protagonista Sesto, un figlio di Tarquinio.
Assieme ai fratelli Tito e Arunte e ad altri compagni di baldoria, ormai
ubriachi, proposero di vedere cosa mai stessero combinando in quel momento le
proprie mogli.
Giunti a casa, le trovarono con gran sorpresa tutte più o meno
affacendate in baccanali, tranne una, Lucrezia, la moglie di Lucio Tarquinio
Collatino, seduta al telaio. La cosa non finì qui.
Ospite di Tarquinio
Collatino, Sesto abusò sessualmente di sua moglie Lucrezia.
L'indomani
Lucrezia si precipitò dal padre e dal marito, e spiegando loro cosa era
successo, trasse da sotto le vesti un pugnale e si uccise.
Da questo suicido scaturì una furente sollevazione popolare guidata da il
padre di Lucrezia, Spurio Lucrezio, dal marito e dal figlio di una sorella di
Tarquinio il Superbo, Lucio Giunio Bruto, fino allora defilato ma destinato a
grandi cose. Egli portò il cadavere di Lucrezia al foro e giurò di vendicarne la
morte con l'aiuto dei romani e dell'esercito che ancora assediava Ardea.
Era
il 510 a.C. quando Roma scacciò la dinastia dei Tarquini, ormai completamente
screditata e divisa al suo stesso interno, liberandosi della dominazione etrusca
e dandosi una nuova forma di governo.
Tarquinio il Superbo fu costretto all'esilio e si rifugiò nella città
etrusca di Cere, mentre il figlio Sesto fu ucciso a Gabi. Così nasceva, secondo
la leggenda, la Repubblica dei consoli.
I Consoli: l'istituzione della Repubblica
Dopo l'esperienza della tirannide, Roma non volle più fidarsi della forma
di governo monarchica: Bruto decise che il potere sarebbe spettato d'ora in poi
a due praetores, poi divenuti consoles (consoli): nasceva così la Repubblica.
Essi avevano reciproco potere di veto sulle rispettive decisioni, dovevano
consigliarsi e sentire il parere del Senato su ogni questione, esercitavano la
loro carica un mese ciascuno e alla fine del mandato venivano confermati o
destituiti dopo aver reso conto del loro operato.
Era un cambiamento epocale per i romani: i patrizi continuarono ad
egemonizzare la vita politica, ma il potere non era più arbitrario e concentrato
nelle mani di una sola persona. Le decisioni divennero collegiali e, molto
modernamente, erano sottoposte a un continuo controllo in modo da impedire
cadute autoritarie.
I primi due consoli furono Lucio Giunio Bruto e Lucio Tarquinio Collatino,
vedovo di Lucrezia.
I figli di Bruto tramano contro il padre, epurazione e nuovo
consolato
Quanto la Repubblica fosse ancora fragile e poco salda lo dimostrarono le
circostanze che videro Bruto opposto ai figli.
Tarquinio il Superbo non aveva mai smesso, dal suo esilio, di sperare in un
suo ritorno. Egli cercava di farsi amici i senatori corrompendoli con il denaro
e continuava a seminare zizzania tra gli schieramenti politici, da un lato
mirava a ritornare dittatore e dall'altro si cospargeva il capo di cenere per
impietosire la popolazione romana.
La cosa divenne evidente quando si scoprì un tentativo di congiura ai danni
della neonata repubblica capeggiata nientemeno che dai figli dello stesso Bruto,
Tiberio e Tito. Essi non si erano mai convinti della bontà del nuovo ordinamento
politico, ma tutto saltò per la denuncia dello schiavo Vindicio, il quale
consegnò alcune loro lettere compromettenti al padre.
Bruto sottopose il caso al Senato, e, con una freddezza e un amor di patria
fuori dal comune, fece uccidere seduta state i figli, flagellandoli e tagliando
loro le teste. Fu chiaro a tutti che Bruto era l'uomo che non avrebbe mai
permesso un ritorno alla tirannide, aldilà di ogni considerazione.
L'epurazione che seguì comportò l'allontanamento del console Lucio
Tarquinio, colpevole di essere troppo compassionevole con i cospiratori, lo
sostituì Publio Valerio, che ben presto divenne popolare quanto Bruto.
I due consoli, oltre che premiare lo schiavo Vindicio con la cittadinanza e
un grosso conguaglio in denaro, promossero a patrizi tutti quei plebei che
contribuirono attivamente a scongiurare il colpo di stato, aumentando così
notevolmente la loro popolarità.
Selva Arsia: Morte di Bruto
Ma Tarquinio non demordeva. Egli continuamente riuniva fra loro gli
etruschi e tutti i nemici dell'Urbe. Accadde infatti che Tarquinia e Veia
scesero in guerra contro Roma: la battaglia che ne scaturì prese il nome di
Selva Arsia, dal bosco dove trovarono la morte, in duello, Bruto e Arunte,
figlio di Tarquinio.
La battaglia fu cruenta e caddero morti, oltre ai due capi, molti tra
romani ed etruschi. La leggenda narra che vinsero i romani per un morto in più:
caddero 13.000 etruschi e 12.999 romani.
Il cadavere di Bruto fu portato in trionfo per Roma fra il cordolio
generale della popolazione. Publio Valerio pronunciò una strepitosa orazione
funebre. Ora era il solo console, e attese qualche tempo prima di nominare suo
collega Spurio Lucrezio, il padre di Lucrezia, ma questi morì pochi giorni dopo.
Gli successe Marco Orazio Pulvillo.
Intanto Publio Valerio propose una legge in favore della popolazione che
gli valse il soprannome di Pubblicola (favorevole al popolo, appunto): egli
permise ai privati cittadini di poter citare in giudizio un magistrato che si
fosse reso responsabile di atti punitivi ingiustificati.
Porsenna, Publio Orazio, Muzio Scevola
Dopo Veio e Tarquinia fu la volta di Lars Porsenna, re di Chiusi, bellicoso
personaggio etrusco foraggiato dal mai indomito Tarquinio.
Egli occupò il Gianicolo e già premeva alle porte di Roma: la città si vide
in grave pericolo, si distribuì il grano ai più poveri, si alleggerirono le
tasse, si istituì il monopolio del sale per renderlo accessibile a tutti.
Ancora una volta la leggenda narra degli atti eroici di due personaggi:
Publio Orazio (discendente degli Orazi) e Muzio Cordo, detto poi Scevola.
Il primo tenne testa eroicamente all'intero esercito invasore ostruendo il
passaggio sul ponte Sublicio. Il suo temporeggiare permise ai romani di
distruggerlo ed osannare Publio, tornato a riva a nuoto, come un vero e proprio
salvatore della patria.
Il secondo si rese protagonista di uno strataggemma più complesso. Muzio
decise, nonostante il parere contrario del Senato, di infiltrarsi come disertore
nel campo nemico, in modo da uccidere Porsenna in persona e mettere fine
all'assedio. La sua era quasi un'impresa suicida, infatti riuscì solamente in
parte. Accadde che Muzio uccise sì un uomo, ma l'uomo sbagliato: egli non
pugnalò Porsenna ma il suo segretario.
Portato prigioniero di fronte al re
assediante, Muzio mostrò grande fermezza d'animo bruciando viva su un braciere
la mano che aveva sbagliato mira. Egli, mentendo, fece credere a Porsenna che
era solo il primo di trecento cospiratori pronti a toglierli la vita.
Di fronte alla minaccia della falsa congiura e rimasto colpito dal coraggio
dell'uomo, rimasto mancino (scevola), Il re di Chiusi vide bene di firmare la
pace con i romani, che da quel momento smisero di essergli nemici.
La Lega Latina contro Roma, l'isitutuzione della tirannide
Mai domo, Tarquinio cominciò a tessere la tela di una larga alleanza fra
popoli vicini e ostili ai romani. Tutti i popoli che speravano di poter
affrancarsi dall'egemonia di Roma e diventare essi stessi egemoni aderirono alla
Lega Latina.
Il pericolo per Roma era evidente, essa si trovava sola contro tutti. Nella
difficile situazione, l'Urbe cominciò a snervarsi in tutta una piccola serie di
guerre e scaramuccie che avevano il solo risultato di aumentare lo scontento tra
la popolazione plebea, costretta da sempre a reggere demograficamente il peso
dei conflitti.
Nella straordinaria congiuntura, il Senato decise di eleggere, per la prima
volta dall'istituzione della Repubblica, un tiranno, il quale avrebbe avuto
poteri straordinari per la durata dell'emergenza da affrontare. Si assistette
quindi al curioso spettacolo di un ritorno alla tirannide esercitata per il bene
del popolo e a tempo determinato (e si può dire che Roma riuscì a rispettare
questo precetto).
Il primo tiranno fu un ex-console, Tito Larcio. Oltre a revocare alcune
leggi fatte da Pubblicola, indì un censimento per appurare le disponibilità
militari della popolazione (l'arrualemento si effettuava secondo il censo,
ovvero secondo le disponibilità economiche, anche limitate, dei singoli). Egli
si dimise prima dello scadere del suo mandato. Al secondo tiranno, Aulo
Postumio, toccò vincere, in netta inferiorità numerica, la minaccia degli
eserciti avversari. Si dice che vinse la battaglia grazie all'intervento di
Castore e Polluce, di certo è che Aulo toccò la popolazione nel vivo del suo
orgoglio invitando a combattere contro il possibile ritorno del tiranno
tarquinio.
In seguito alla battaglia contro la Lega, venne sottoscritta la pace tra
romani e latini nel 493 a.C.
La crisi sociale, Menemio Agrippa, l'istituzione dei tribuni
Costretti da sempre a ogni sorta di guerra e sempre in prima linea, i
plebei cominciarono a manifestare un diffuso malcontento: nonostante essi
fossero il bracccio armato di Roma non ricevevano in cambio nulla che non fosse
il disprezzo dela patriziato e la persecuzione dei debiti e delle tasse. Nella
difficile situazione esterna, il peso della inevitabile crisi economica ricadeva
sopratutto sulla classe più debole.
La situazione era quantomai pericolosa, per la prima volta si assisteva
alla frattura di quella pace sociale che aveva fatto la forza di Roma. In più,
Volsci, Equi e Sabini continuavano a minacciare di assediare la città.
Il capo dei plebei era Sicinio Belluto. egli mise il senato di fronte al
rifiuto di obbedire a qualsiasi chiamata alle armi senza alcuna garanzia. I
plebei decisero dunque di abbandonare in massa la città, appoggiati da molta
parte dell'esercito, e rifugiarsi su una collina fuori da Roma, minacciando di
fondare su quel monte una città autonoma.
Fu il neo eletto console Menemio
Agrippa a prendere in mano la situazione. Egli portò le parti alla ragione
mediando tra l'apparente incomunicabilità che si era istaurata tra i due
schieramenti. Ai senatori fece capire che la plebe era indispensabile a Roma e
che qualcosa avrebbero dovuto concedere ad una popolazione che aveva contribuito
attivamente alla grandezza della città.
Recatosi poi sulla collina della
plebe, Agrippa tenne un memorabile discorso in cui paragonava lo stato romana
all'organismo umano. Ogni parte era indispensabile all'altra, senza un solo
organo, anche se apparantemente poco attivo, tutto avrebbe smesso di funzionare
e tutte le parti sarebbero morte.
I plebei chiesero allora garanzie politiche precise: fu così che si decise
di istituire i Tribuni della Plebe, ovvero due figure elette dal popolo durante
i comizi tribuni (plebisciti) da affiancare ai consoli. I tribuni si sarebbero
fatti portavoce delle istanze della plebe e avrebbero garantito sulla reale
attuazione della giustizia sociale. I tribuni erano inviolabili, ovvero
intoccabili per legge da eventuali colpi di mano dei patrizi, le loro case
dovevano essere aperte sia di giorno che di notte in modo da accogliere ogni
eventuale denuncia. Essi sedevano su semplici panche e non avevano la toga
orlata di rosso.
Il monte della plebe divenne sacro, come anche le leggi che sancivano, per
la prima volta nella storia di Roma, l'importanza capitale della plebe e dei
semplici cittadini di fronte al diritto e alla vita politica: era il 494 a.C.,
la prima elezione dei tribuni storicamente accertata è invece del 471 a.C.
Coriolano
Continuavano frattanto le infinite guerre con i popoli vicini. Una vittoria
molto importante fu ottenuta da Caio Marzio a Carioli sui volsci. Per questo il
generale fu portanto in trionfo e chiamato il Coriolano. Ma chi lo voleva
console dovette arrendersi alle sue poco diplomatiche dichiarazioni contro la
plebe. Egli era di origini patrizie e non aveva ancora digerito le concessioni
fatte sul Monte Sacro e l'istituzione dei tribuni.
I tribuni lo denunciarono, e nel processo che seguì fu messa a voto dalle
tribù la possibilità di un suo esilio, ciò che in realtà accadde.
Indignato dalla decisione, Coriolano si rifugiò ad Anzio per guidare un
esercito di Volsci contro la sua città. Narra la leggenda che solo l'intervento
della madre, cui il figlio era molto affezionato, riuscì ad impedire la
vendetta. Coriolano si ritirò a vita privata (alcuni dissero fosse stato ucciso
dai volsci sentitisi traditi). I romani, privati i nemici dell'abilità del
generale, ebbero gioco facile e sventarono l'ennesima minaccia.
La legge agraria
Nel 486 a.C. Spurio Cassio riformò i principi di distribuzione delle terre
conquistate. Prima di allora la divisione delle terre aveva favorito i patrizi e
il demanio a scapito della plebe. La legge di Spurio era stata ideata per una
più equa distribuzione delle terre, ma questo, non c'è da stupirsi, rese inviso
il legislatore ai patrizi e ai grandi latifondisti, motivo per cui venne gettato
dalla rupe Tarpea.
Il problema della distribuzione delle terre conquistate si trascinerà
ancora a lungo, e sarà il principale motivo di lotta tra plebei e patrizi,
assieme alla regolamentazione delle punizioni per i debitori (che prevedevano
per i colpevoli la schavitù, il carcere e la morte), fino alla progressiva
conquista della penisola che rese più abbondante il bottino da spartire e le
tensioni sociali meno evidenti.
I decemviri: le XII tavole
Nel 462 a.C., un tribuno della plebe, Caio Terentillo Arsa, propose una
legge che aveva il compito di limitare il potere dei consoli, i quali venivano
accusati di esercitare la giustizia e le leggi con troppa disinvoltura (da
ricordare che le leggi non erano ancora state codificate per iscritto e tutto si
fondava sulle sole consuetudini).
Il provvedimento di restrizione di
Terentillo fu oggetto di un accananito ustruzionismo senatoriale che di fatto
bloccò la contesa per cinque anni.
Alla fine si decise, nel 451, di dare pieni poteri legislativi a un
collegio composto di dieci patrizi, il decemvirato, i quali avrebbero elaborato
dieci tavole (poi divenute dodici), sulle quali si sarebbero messe per iscritto,
con qualche aggiunta, le leggi che fino allora erano state tramandate solo
oralmente (si narra che nel 454 vi fu un'ambasciata romana che si recò in Grecia
appositamente per studiare la legislazione di Solone).
Anche Roma avrebbe
quindi seguito la tradizione delle grandi repubbilche aristocratiche greche,
dove le leggi erano esposte per iscritto in pubblico come garanzia contro
possibili abusi.
I decemviri dovevano prendere le loro decisioni all'unanimità, ogni membro
aveva potere di veto. Il primo decemvirato venne sciolto dopo un anno, il
secondo venne eletto accogliendo tra i suoi membri alcuni esponenti plebei (ma
solo i più ricchi).
Malgrado ciò, il popolo romano si accorse che anche i
decemviri tendevano a legiferare contro la plebe (come, ad esempio, la ribadita
impossibilità di contrarre matrimoni tra le due classi).
Una rivolta popolare
destituì i dieci legislatori, dopo che la plebe era ritornata nuovamente sul
Monte Sacro e accentuando per l'ennesima volta la frattura sociale.
La legge di Valerio e Orazio
Ennesimo episodio della lotta tra patriziato e plebe sono le leggi emesse
dai due consoli che seguirono l'esperienza del decemvirato.
Nel 449, Valerio
Potito e Orazio Barbato, patrizi moderati, emisero una legge in favore del
popolo: ribadirono l'inviolabilità dei tribuni, sempre minacciata
dall'opposizione dei patrizi, stabilirino che le decisioni prese durante i
plebisciti fossero voncolanti per tutto il popolo e restauravano il diritto di
appello nel caso in cui un semplice cittadino fosse stato condannato a morte da
un alto magistrato (questo diritto era stato sospeso durante il
demvirato).
La caduta di Veio: la decandenza etrusca
La caduta di Veio è datata 396 a.C. Più volte Roma era entrata in contrasto
con la città etrusca, Veio contendeva all'Urbe le saline del Tirreno e si
intrometteva nelle regole di navigazione del Tevere, contrastandola in prestigio
e ricchezza.
La caduta definitiva della roccaforte è attribuita all'abilità del console
Marco Furio Camillo. La leggenda narra di un assedio decennale, volutamente
paragonato a quello di Troia, alla fine del quale la città etrusca venne rasa al
suolo e i suoi superstiti deportati.
Con la presa di Veio comincia il lento declino della civiltà etrusca. Già
dopo la battaglia di Cuma del 474, contro i siracusani, gli etruschi avevano
perso la supremazia marittima e si erano ritirati all'interno. Ora Roma si era
annessa il territorio laziale occupato dai veienti.
La decandenza etrusca è poi da imputare alla scarsa lungimiranza delle
città-stato, sempre in lotta tra loro, e alla pressione dei popoli galli scesi
dalle Alpi, che premevano a nord. L'Etruria si trovò così fatalmente schiacciata
tra l'ascesa romana a sud e le scorribande barbare nella pianura padana: una
morsa fatale.
L'invasione di Brenno, il sacco di Roma, le oche del Campidoglio
Nel 390 a.C. accadde un fatto inaspettato, una pagina tra le più vergognose
della storia di Roma (tanto che gli storici, pare, si affacendarono a indorare
la pillola assocciando al fatto gesta leggendarie ed eroiche che ne mitigassero
l'onta).
Accadde che una tribù di galli senoni, guidate dal valente e spietato
condottiero Brenno, attraversò, saccheggiandola, l'Etruria, fino a giungere ad
assediare la città di Chiusi.
I chiusini chiesero aiuto ai romani che
mandarono in città alcuni ambasciatori della stirpe dei Fabi. Di fronte ai
rifiuti dei galli di risolvere il conflitto con la mediazione, gli ambasciatori
mossero seduta stante guerra al popolo invasore, dando man forte algli
assediati.
I galli non presero bene la cosa, lasciarono Chiusi e decisero di marciare
direttamente su Roma. I romani tentarono di fermarli sul fiume Allia, ma la sola
cosa che ottennero fu una sonora sconfitta che gettò l'Urbe nel terrore.
A questo punto si consumò l'onta: Roma si era già svuotata, la sua
popolazione si era dispersa nelle città vicine nella sicurezza che nulla avrebbe
fermato la marcia dei barbari invasori (l'esercito sbaragliato non era riuscito
a riorganizzarsi). Brenno entrò in città senza colpo ferire. Roma fu
saccheggiata selvaggiamente, incendiate le case e distrutti i monumenti,
massacrati gli abitanti rimasti.
Nel fuggi fuggi generale si narra della leggendaria resistenza del
Campidoglio. Il luogo, che conservava i più importanti tempi delle divinità, era
sistemato su una collina che i galli strinsero d'assedio. La leggenda vuole che,
una notte, Brenno decise di risalire le pendici del colle per cogliere di
sorpresa gli assediati. Il piano falli perché le oche sacre a Giunone si misero
a starnazzare e svegliarono il console Marco Manlio, il quale diede l'allarme e
riuscì a respingere l'attacco con l'aiuto delle sentinelle.
La situazione di
stallo che si creò indusse i galli a chiedere un riscatto di 1.000 libbre d'oro.
Il riscatto fu pagato e i galli se ne andarono, non senza essere sbaragliati dal
console Furio Camillo, il conquistatore di Veio, il quale riuscì persino a
recuperare l'oro estorto (ma molto probablimente questa fu la versione storica
consolatoria).
Leggi Licinie-Sestie
Scacciati gli invasori barbari, Roma venne ricostruita in fretta e furia.
Si era anche pensato di abbandonare definitivamente la città e di edificarne
un'altra in un luogo diverso, ma una volta superato lo spavento, ricominciò lo
scontro interno tra patrizi e plebei. Le questioni sul tavolo erano la
spartizione delle terre sotratte a Veio, che i plebei rivendicavano, e la
possibilità per i plebei di accedere al consolato.
I tempi erano maturi perché due tribuni appartenenti ai ceti più abbienti,
Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano, facessero approvare alcune leggi
favorevoli al popolo. Con la prima si agevolava il pagamento dei debiti, con la
seconda si ponevano limiti alla grandezza dei terreni acquistabili e alla
dimensione delle greggi, in modo da lasciare spazio anche ai più poveri, e con
la terza si decise che uno dei consoli fosse sempre un plebeo.
Lo scontro al Senato fu durissimo e si protrasse per dieci anni. Fu il
solito stallo dei veti incrociati, sia da parte dei patrizi che da parte dei
tribuni, per cui sembrava che non si potesse prendere nessuna decisione, ma alla
fine le leggi furono approvate.
Nel 366 a.C., fu eletto il primo console plebeo, Lucio Sestio Laterano.
L'evento fu di portata storica e venne festeggiato istituendo i Giochi
Massimi.
Prima guerra sannitica
Risolta temporaneamente la questione interna, si presentò a Roma un nuovo
problema esterno. Giunsero a Roma alcuni ambasciatori campani venuti dalla città
di Capua, fiorente centro della Magna Grecia. Essi venivano ad invocare aiuto a
causa della minaccia dei sanniti, i quali stringevano d'assedio la loro città
per distruggerla.
I sanniti erano una assai bellicosa popolazione della Campania centrale con
la quale i romani avevano però stretto un patto di non belligeranza alcuni anni
prima. Di fronte al rifiuto del Senato di venire in aiuto di Capua, gli
ambasciatori, terrorizzati dalla sorte che li avrebbe attesi, non ci pensarono
su due volte a consegnare nelle mani di Roma la loro città.
A questo punto i romani saggiarono il terreno mandando un'ambasciata nel
Sannio. Gli ambasciatori proposero ai sanniti di abbandonare l'assedio di Capua
poiché era diventata di loro proprietà. I sanniti risero in faccia ai messi e
Roma non potè che dichiarare loro guerra nel 343 a.C.
Le sorti della guerra furono affidate a due consoli patrizi (contravvenedo
alle leggi Licinie-Sestie da poco approvate). In Campania fu inviato marco
Valerio Corvo, nel Sannio Aulo Cornelio Cosso.
Le sorti della guerra in Campania arrisero all'esercito di Valerio, che
sconfisse i sanniti abbastanza facilmente, mentre in aiuto di Cornelio Cosso,
impantanato tra le strette gole del Sannio e vittima della guerriglia e delle
imboscate, fu necessario il rinforzo di un tribuno militare plebeo, Publio Decio
Mure.
La guerra terminò dopo due anni, nel 341 a.C. sul campo di Suessola,
presso Capua. I romani considerarono giusto firmare un nuovo accordo di pace per
meglio concentrarsi sull'ennesima recrudescenza interna dello scontro
sociale.
Seconda guerra sannitica:
Le Forche Caudine
Ma i conti con i sanniti non erano ancora chiusi. Inevitabile fu lo scoppio
di una nuova serie di guerre nel 327 a.C.
Questa volta l'esercito romano fu affidato ai due consoli Tito Veturio e
Spurio Postumio. Le sorti della guerra erano alterne, ma accadde ugualmente un
fatto tra i più nefasti nella storia di Roma.
L'esercito romano decise di muovere da Capua a Benevento, si mise quindi in
marcia verso il Sannio. I sanniti idearono però uno stratagemma. Travestiti
alcuni soldati da pastori, indicarono all'esercito romano la strada di una
stretta gola montuosa. I romani, giunti nel luogo nominato come Caudio, si
resero conto di avere la strada sbarrata da tronci e massi, mentre dall'altra
parte lo sbarramento nemico, capeggiato da Gavio Ponzio, impedivano loro di
uscire dalla strettoia.
I sanniti lasciarono passare l'esercito, ormai minacciato dalla fame, ma
impose gravose condizioni di resa. Ogni soldato romano fu costretto a denudarsi
e passare sotto un arco di lancie nemiche, schernito e deriso dal nemico.
Inoltre, i romani furono costretti a lasciare in ostaggio ai sanniti la loro
cavalleria. L'episodio fu ricordato col nome di Forche Caudine.
Il ritorno a Roma dei due consoli fu mesto. Fu deciso di sostiuirli con il
patrizio Lucio Papirio Cursore e il plebeo Quinto Publilio Filone. Le condizioni
di resa non furono accettate e l'esercito romano, sotto la guida dei nuovi abili
generali, riuscì a ricambiare l'onta delle Forche Caudine vincendo in Apulia
(furono restituiti gli "onori" ai sanniti, ripetendo a parti inverse la farsa
delle Forche).
Malgrado i sanniti si fossero alleati con gli etruschi e con i popoli
latini e sabini sempre in lotta con Roma, dovettero definitivamente capitolare a
Boviano.
La seconda guerra sannitica terminava nel 304 a.C.
Terza guerra sannitica
Il terzo ed ultimo episodio della guerra sannitica si consumò a partire dal
298 a.C.
Questa volta i sanniti si erano alleati, oltre che con i sabini, umbri e
lucani, anche con i galli senoni, gli stessi che avevano saccheggiato Roma.
Nella pianura umbra di Sentino, nel 295, i romani vennero sorpresi da una
trovata dei Galli. Essi si gettarono sull'esercito romano con carri trainati da
cavalli, in ogni carro una legione barbara che scagliava freccie. Il fracasso
dei carri spaventò i cavalli romani, i quali batterono in ritirata.
Ma nemmeno questa trovata bastò. Publio Decio Mure, filgio dello stesso
Mure che era corso in aiuto delle legioni nella prima guerra, si immolò
abbattendosi contro i carri e perdendo la vita. Il suo sacrificio diede nuovo
vigore ai romani che sbaragliarono i Galli per l'ennesima volta.
Ad uno ad uno caddero anche gli alleati dei sanniti, e a questi indomabili
guerrieri non restò altro che firmare, questa volta definitivamente, la resa.
Questo accadde nel 290 a.C.
Con la vittoria sui sanniti i Romani
conquistarono una posizione di dominio in tutto il centro sud, conquista che
inaugurò storicamente l'ascesa militare romana sul suolo italico.
Il dominio dell'Italia centrale
Dopo le guerre sannitiche, Roma si trovava padrona dell'Italia centrale. Il
suo dominio si estendeva dall'Etruria al Sannio, ovvero dall'odierna Toscana
fino alle zone centrali della Campania. E' in questo periodo che viene costruita
la via Appia, destinata a unire l'Urbe a Capua, poi successivamente prolungata
fino a Brindisi.
A questo punto, la prossima avversaria da affrontare era Taranto. La città
della Puglia era considerata dai romani l'unico ostacolo verso lo Ionio. Ma con
Taranto si era stipulato un accordo di non belligeranza legato all'impossibilità
di penetrare nel golfo con navi da guerra. Nulla potè però impedire lo
scontro.
Pirro, Re dell'Epiro
Taranto, intuite le intenzioni romane, non restò inerme di fronte alla
minaccia. Per proteggersi cominciò a stringere alleanze, in particolare con
Pirro, Re dell'Epiro (regione a sud dell'odierna Albania).
Pirro era un personaggio di prim'ordine. Si diceva che fosse discendente di
Neottolemo, figlio di Achille (Neottolemo era chiamato Pirro perché il padre,
quando si nascose alla corte di Licomede, si era travestito da donna prendendo
il nome di Pirra, vedi La guerra di Troia). Si diceva anche che guarisse i
malanni con l'imposizione dell'alluce e che avesse parecchie concubine, seppur
sposato con Antigone, figliastra di Tolomeo d'Egitto.
Pirro mirava a
un'espansione verso occidente, attraverso l'Italia. Accettò da subito la
chiamata di Taranto e si preparò alla guerra.
Il casus belli che permise a Taranto di iniziare le ostilità venne fornito
dagli stessi romani. Nel 282 a.C. Turi, minacciata dai lucani, chiamò in aiuto
Roma. Per aiutare l'alleato a Roma toccò penetrare nel golfo con dieci navi da
guerra. I tarantini non ci pensarono due volte ad aprire le ostilità e delle
dieci navi nemiche ne furono affondate quattro e una quinta catturata
(trucidandone l'equipaggio), alle altre non restò che fuggire.
La guerra: le "vittorie" di Pirro
Il primo scontro tra i due eserciti si ebbe a Eraclea, in Lucania, nel 280
a.C.
Pirro recava con se delle macchine da guerra eccezionali che i romani
avrebbero imparato a conoscere ma che all'inizio sembrarono loro portentose: gli
elefanti.
Sfruttando l'effetto sopresa, Pirro riuscì a sbaragliare la cavalleria
romana, anche se in un secondo tempo i romani riuscirono a contrastare i
pachidermi con più efficacia (ferendone alcuni e provocando lo scompiglio tra le
file nemiche).
La battaglia di Eraclea si concluse con molte perdite da
entrambe le parti, per cui Pirro si ritirò ed ebbe un momento di tentennamento
pronunciando le frasi che resero famose le sue sofferte vittorie.
Considerata la forza dei romani, Pirro tentò di mandare a Roma uno dei suoi
più validi mediatori, Cinea. L'abile oratore era quasi riuscito a convincere i
romani ad abbandonare la guerra quando un senatore, Appio Claudio Cieco, non
volle accettare l'accordo.
Nonostante il parere contrario del suo ambasciatore, Pirro riprese la
guerra. Quasi giunto presso Roma, le sue schiere di elefanti vennero sbaragliate
grazie agli stessi stratagemmi che avevano usato i galli contro i romani: le
legioni costruirono carri muniti di lancie infuocate e palizzate mobili,
cosicché i pachidermi furono messi rovinosamente in fuga.
Un altro durissimo
scontro avvenne ad Asculum nel 278, dove vinse di misura Pirro. Il re dell'Epiro
ottenne altre vittorie, ma sempre al prezzo di gravi perdite (egli stesso venne
ferito).
La vittoria decisiva dei romani si ebbe a Maleventum nel 275 a.C. I due
consoli dell'Urbe erano il patrizio Lucio Cornelio Lentulo e il plebeo Mario
Curio Dentanto. Il patrizio marciava verso la lucania, il plebeo verso il
Sannio. Fu una perfetta mossa di accerchiamento.
Dentato respinse ancora una
volta sia soldati che elefanti nemici, grazie ai carri muniti di aste e torcie
infuocate, mentre gli arceri scagliavano dardi infuocati.
Pirro abbandonò
Taranto e si ritirò definitivamente nel suo regno al di là del mare. Taranto
cadde nelle mani dei romani.
Per l'occasione, Maleventum venne ribattezzata
Beneventum.
I romani avevano assunto così il controllo dell'intero
centro-sud. Sanniti, bruzi e lucani erano stati definitamente ridotti a
vassalli. Un nuovo tassello era stato aggiunto nella costruzione del mosaico
repubblicano.
Un nuovo nemico: Cartagine
Il dominio romano si estendeva ormai dall'odierna Emilia fino alla
Calabria, ma un nuovo nemico si stagliava all'orizzonte, una fiorente, ricca e
prestigiosa città punica costruita su uno sperone tunisino: Cartagine.
Con Cartagine erano già stati stipulati a più riprese accordi di non
belligeranza, la città africana aveva colonie in Sardegna e soprattutto in
Sicilia, dove si contendeva il dominio con le colonie della Magna Grecia.
Cartagine era stata fondata attorno all'800 a.C. da Didone, figlia del re
della Fenicia, Tiro. Cartagine significava Città Nuova (in fenicio, Qart
Chadasht). Cartagine aveva il dominio del commercio nel Mediterraneo e la sua
influenza, anche militare, dovuta al prestigio e alla forza della sua flotta
navale, era in forte ascesa.
Il casus belli
L'occasione che diede inizio alle ostilità fu l'occupazione di Messina da
parte di un gruppo di mercenari campani, i mamertini. Chiamati in un primo tempo
dal vecchio tiranno di Siracusa Agatocle per combattere i cartaginesi, essi si
erano impadroniti poi della rocca di Messina. Il nuovo tiranno siracusano,
Ierone, gli aveva costretti alla resa, tanto che i mamertini invocarono l'aiuto
di Cartagine e di Roma. Ma Cartagine fu più lesta e si impadronì facilmente di
Messina sconfiggendo Ierone.
A questo punto, fu chiaro ai romani che il dominio fenicio in Sicilia era
troppo pericoloso e strategicamente importante. Roma aspirava a controllare
l'intera penisola, e sud non poteva tollerare la presenza ingombrante dei
fenici.
La prima guerra punica
L'esercito romano era comandato dal console Appio Claudio, detto Caudex.
Nel 264 a.C. decise di attaccare i cartaginesi e conquistare Messina. L'impresa
andò a buon fine, e questo fu quanto mai sorprendente, poiché l'esercito
cartaginese era forte sia sui mari che sulla terra, potendo contare
sull'appoggio di collaudate truppe mercenarie.
I cartaginesi si insediarono ad Agrigento, colonia greca, e dovettero
subire un'altra sconfitta, poiché i romani, seppur i loro nemici si erano
alleati con i galli, gli iberici e i liguri, riuscirono a conquistare la città
dopo un assedio decennale finito nel 262 a.C.
I romani si rafforzarono anche sul mare: per contrastare la supremazia
cartaginese munirono le proprie navi di un rostro per abbordare le navi nemiche
e combattere così corpo a corpo (l'arrembaggio).
Al comando di Caio Duilio la nuova flotta affrontò i cartaginesi a Milazzo
nel 260 a.C. e li sbaragliò. Grande fu la sorpresa dei cartaginesi e lo stupore
degli stessi romani. Furono tributati gli onori dovuti a Caio Duilio e alla sua
flotta, venne eretta nel Foro una colonna costruita con i rostri delle navi
nemiche.
Nel 255 a.C. i romani decisero di approntare una flotta per dirigersi
direttamente in Africa e sbarcare le truppe. La nuova e grande flotta venne
affidata ai consoli Lucio Manlio Vulsone Longo e a Marco Attilio Regolo. La
flotta contava 230 navi da battaglia e 80 da trasporto, 100.000 uomini in
tutto.
La battaglia tra le due flotte (i cartaginesi contavano 200.000
uomini) avvenne al largo del capo Ecnomo, a sud della Sicilia. I romani vinsero
ancora, con gravi perdite per i loro nemici, e a questo punto alla stirpe
dell'Urbe non restò che dirigersi indisturbati verso le coste africane.
Facilitati dal fatto che i Cartaginesi non avevano approntato adeguate
misure terrestri, vista la fiducia che nutrivano nella loro flotta navale, i
romani conquistarono facilmente Aspis, ribatezzata Clupea, una città vicino a
Cartagine. Qui stabilirono la loro sede operativa.
Regolo marciò fino alle porte di Cartagine dove fu affrontato dall'esercito
nemico, dotato di elefanti, non sufficienti però a spaventare i romani, i quali
riuscirono a sopraffarli. A questo punto Attilio Regolo impose al nemico
durissime condizioni di resa: la cessione della Sicilia, della Sardegna, della
Corsica e delle Baleari.
Nell'attesa di una risposta, i cartaginesi riorganizzarono l'esercito con
l'aiuto di cavalieri della Numidia e mercenari iberici e greci. Il comando
dell'esercito fu affidato a Santippo, un mercenario spartano. Questa volta le
sorti della guerra girarono a favore dei cartaginesi che sbaragliarono
l'esercito romano e catturarono Regolo.
Quando il console potè tornare a Roma per trattare le condizioni di resa,
Regolo non volle sentire le ragioni dei senatori romani che lo invitavano
quantomeno alla prudenza e si apprestò a tornare in Africa per riconsegnarsi al
nemico a testa alta. I cartaginesi lo ripagarono gettandolo da una rupe dentro
una botte chiodata.
A questo punto i romani si concentrarono sulla Sicilia. Riuscirono a
battere i cartaginesi a Panormo (Palermo) nel 250. Ma nel 247 apparve nell'Isola
un agguerito e valente generale nemico, Amilcare Barca (Barca significava
Fulmine). Egli riuscì a sconfiggere i romani con continuità e a rinconquistare
quasi tutta la Sicilia, spingendosi ad insidiare anche Cuma, ma ben presto, per
mancanza di risorse, dovette cedere la riconquista.
L'ultimo atto della sanguinosa prima guerra punica fu un'ultima battaglia
navale al largo delle isole Egadi, nel 241 a.C. Vinsero i romani. Cartagine
questa volta chiese la resa e i romani furono più clementi. Chiesero L'abbandono
della Sicilia, la restituzione dei prigionieri e la copertura delle spese di
guerra.
Il bilancio della prima guerra
Oltre ad ottenere il possesso della Sicilia, i romani avevano conquistato
anche la Sardegna e la Corsica. Artefici di queste conquiste furono Cornelio
Scipione, Marco Claudio Marcello e Caio Flaminio, console plebeo, il quale, per
onorare la vittoria, fece costruire la via Flaminia che congiungeva Ariminum
(Rimini) all'Urbe romana.
I romani avevano poi imparato a navigare e avevano costruito in un lasso di
tempo relativamente breve una flotta navale in grado di battere la più
prestigiosa potenza del Meditterraneo. Conseguenza di ciò anche la nascita tra i
romani di un certo amore per il commercio, che trovava ormai sfogo nella
supremazia su quel mare che avrebbero in seguito chiamato nostrum.
Amilcare in Spagna
Amilcare Barca non si dava per vinto. Nel 237 a.C. convinse il re
cartaginese Annone il Grande a concedergli una spedizione in Spagna. Partendo
dalle colonie che già si trovavano nella penisola iberica, Amilcare intendeva
dominare quel territorio ricco di risorse naturali (oro, rame, ferro,
stagno).
In Spagna Amilcare otteneva un successo dopo l'altro, sia militare che
diplomatico, aveva portato con sè anche il figlio Annibale, al quale aveva fatto
giurare di fronte all'idolo Baal, che avrebbe odiato i romani per tutta la vita.
Amilcare si "portava avanti col lavoro", perché mentre si faceva sempre più
strada l'idea di invadere l'Italia, morì in un fiume a causa di un tranello, nel
229 a.C.
Il comando passò al genero Asdrubale. Egli fondò sulle coste del sud una
nuova colonia, Carthago Nova, che divenne la base cartaginese in Spagna.
Il compito di Asdrubale era quello di raggiungere le sponde del fiume Ebro,
confine dell'influenza cartaginese in Spagna, come accordi stipulati con Roma, e
poi da li prepararsi a invadere l'Italia.
Annibale Barca, l'assedio di Segunto
Alla morte di Asdrubale, nel 221 a.C., Annibale, appena venticinquenne,
divenne il generale in capo dell'esercito cartaginese.
Annibale era un uomo
deciso e spartano, personaggio dal grande carisma e dal grande coraggio in
battaglia, nelle quali mai si tirava indietro, all'occorenza si accontentava di
dormire per terra. Era crudele e sanguinario e aveva scarso rispetto per gli
Dei, in compenso non era uomo di parola, ciò che interessava più di tutto al
giovane generale era la sconfitta di Roma, come per rispettare la promessa fatta
al padre.
Nel 219 cominciò l'assedio di Sagunto, una città autonoma protetta da Roma,
e la espugnò dopo otto mesi di battaglia. I romani mandarono le loro ambasciate
sia in Spagna sia a Cartagine, pregando il nemico di rispettare i patti e
l'autonomia della città. Annibale continuò sanguinariamente ad attacare la
città, tanto che si narrà del suicidio volontario dei suoi abitanti.
A
Cartagine Annone il Grande, fautore della pace coi romani, era stato messo in
minoranza dalla potente famiglia dei Barca, i quali permisero agli ambasciatori
romani di ufficializzare formalmente il conflitto. Gli ambasciatori offrirono
ciò che i cartaginesi avrebbero chiesto, sia pace che guerra, e i Barca decisero
per la guerra.
Sagunto fu così il casus belli che diede inizio alla seconda guerra
punica.
L'Invasione dalle Alpi
Annibale si apprestava ad invadere l'Italia romana da nord, nel 218 a.C.
attraverso le Alpi. Il suo esercito era composto da 50.000 fanti e 90.000
cavalieri, nonché da trentasette elefanti. Passato l'Ebro, attraverso non senza
difficolta i Pirenei, e qui si trovò di fronte alle popolazioni galliche.
Il piano era quello di allearsi con loro per rinforzare l'esercito. I
volsci lo ostacolarono con le armi. Anche l'attraversamento del Rodano con gli
elefanti fu alquanto difficile, ma ormai l'obiettivo era stato fissato e nulla
poteva impedire di raggiungerlo.
Nel settembre del 218, Annibale giunse al passo del Monginevro. Attraversò
le Alpi con gli Elefanti e il suo esercito, in una lunga carovana, per sentieri
men che meno impervi e spaventosi, sotto le tormente di neve. Un'impresa
titanica anche ai giorni nostri (gli elefanti sulle Alpi!).
Moltissime furono le perdite tra gli elefanti e gli uomini dell'esercito,
nonostante ciò Annibale riusci nel suo intento di ridiscendere i monti e
affaciarsi sulla Pianura Padana.
Le sconfitte del Ticino, del Trebbia e del Trasimeno
Roma aveva affidato il comando delle operazioni a due consoli: Publio
Cornelio Scipione, patrizio, e a Tiberio Sempronio Longo, plebeo. Il Primo
doveva partire per la Spagna, il secondo sbarcare in Africa per colpire
Cartagine al cuore.
La notizia dell'invasione dalle Alpi fece saltare tutti i piani, e i due
eserciti dovettero frettolosamente ritornare in Italia quando già erano sulla
via dei rispettivi obiettivi (Longo era già arrivato a Malta).
Con sorpresa dei romani, che credevano i cartaginesi stanchi e malridotti
dall'attraversamento delle montagne, l'esercito di Annibale inflisse una sonora
sconfitta a quello di Scipione presso il Ticino, grazie all'aiuto di una
formidabile cavalleria.
Lo stesso generale romano fu salvato dal suo giovane
figlio diciassettenne, Publio Cornelio. Scipione, ferito, si ritirò a Piacenza e
aspettava di ricongiungersi con l'esercito di Longo, che proveniva da Ariminum
attraverso la Flaminia. 35.000 erano i romani, 20.000 i cartaginesi, con il loro
seguito di alleati.
Ma nel dicembre del 218 il gelo era tremendo. Con un tranello Annibale
attirò l'esercito romano in una trappola sul fiume Trebbia, gli elefanti
sbaragliarono i romani, la sconfitta fu disastrosa. A Roma cominciavano a temere
un invasione simile a quella subita da Brenno.
Nel frattempo, il fratello maggiore di Publio Scipione, Gneo, otteneva
buoni successi in Spagna, cercando idi interrompere i collegamenti tra Annibale
e la penisola iberica (si veda la III parte).
Intanto al comando dell'esercito romano era salito Caio Flaminio (il
costruttore della Flaminia), plebeo, a furor di popolo. Annibale era giunto in
Etruria e bisognava contrastarlo. La battaglia fu combatutta presso il lago
Trasimeno, nel giugno del 217. Il disastro romano fu assoluto. Flaminio morì,
15.000 romani vennero uccisi e altri 12.000 si erano frettolosamente
dispersi.
Le prime battaglie volsero decisamente a favore di Annibale: sotrasse ai
romani la Gallia Cisalpina (la Pianura Padana) e gettava scompiglio in Etruria.
Annibale stimava il sistema di alleanze create da Roma piuttosto debole, per
questo ad ogni popolo conquistato dichiarava di essere venuto a liberarlo dal
giogo dell'iniqua prepotenza romana.
Quinto Fabio Massimo, il temporeggiatore
Nel 217 i romani affidarono le sorti della città a un nuovo dittatore: il
generale Quinto Fabio Massimo, di discendenza patrizia e già vittorioso contro i
liguri. Egli non decise di attaccare Annibale, ma si limitò a fortificare le
mura della città.
Annibale, in conseguenza di ciò, decise di non attaccare subito Roma,
proseguendo nel suo piano di accerchiamento: egli intendeva conquistare i popoli
italici sia del nord che del sud, in modo tale da indebolire la supremazia
romana e schiacciarla nella morsa di una generale insurrezione popolare.
Incontrata una imprevista resistenza a Spoleto, saltò la città ostile e si
diresse verso l'Apulia (l'odierna Puglia). Le colonie romane di Lucera e Venosa
lo contrastarono però vigorosamente, cosicché decise di dirigersi verso la
Campania in direzione del Sannio.
Quinto Fabio Massimo adottava una tattica attendista. Il suo esercito
seguiva quello cartaginese da vicino, senza ingaggiare battaglia, nell'attesa di
trovarsi sul terreno favorevole per attaccare. Fatto sta che i cartaginesi
continuavano a saccheggiare i paesi che attraversavano, e lo scontento
cominciava a farsi largo tra il popolo.
Marco Minucio Rufo, detrattore di
Fabio Massimo, non perdeva occasione per cavalcare il malcontento popolare e
stigmatizzare la tattica "codarda" del generale romano.
In effetto un occasione si presentò a Fabio Massimo: l'esercito cartaginese
si era imbottigliato fra Teano e Cales. Fabio Massimo controllava l'uscita della
valle, ma Annibale, con uno stratagemma degno di Ulisse, riuscì a cavarsela
anche questa volta: ordinò di attaccare delle fascine sui fianchi di una mandria
di buoi e poi, appiccato il fuoco, la scagliò contro l'esercito romano. Lo
scompiglio fu tale che i cartaginesi ebbero il tempo di fuggire.
La sconfitta di Canne
Nella primavera del 216, scaduta l'investitura di
Fabio Massimo, furono eletti due nuovi consoli: Lucio Emilio Paolo, patrizio, e
Caio Terenzio Varrone, di "esemplare" estrazione plebea (figlio di un macellaio,
egli stesso in passato garzone).
La parola d'ordine era attaccare finalmente
Annibale per cancellare la "vergognosa" tattica attendista di Fabio
Massimo.
Lo scontro tra i due eserciti avvenne a Canne, sconosciuto villaggio nei
pressi del Gargano. I romani avevano a disposizione 50.000 fanti e 6.000
cavalieri, i cartaginesi 35.000 fanti e 10.000 cavalieri.
L'esercito romano era però gravato del disaccordo tra i due consoli, l'uno
era contro le decisioni dell'altro, il patrizio contro il plebeo. Annibale tese
inoltre una trappola: finta la diserzione di 500 numidi, giunti presso i romani,
i soldati sguainarono all'improvviso le spade contro i legionari.
Annibale
era strategicamente superiore ai due consoli, la polvere accecava l'esercito
romano e la cavalleria cartaginese accerchiò facilmente i nemici. Fu una
strage.
L'attacco romano fu deciso da Varrone all'insaputa del console
patrizio. I romani lasciarono sul campo 45.500 fanti 2.700 cavalieri. Morirono
Lucio Emilio Paolo e i tribuni militari Gneo Servilio Gemino e Marco Minucio
Rufo, oltre a ottanta senatori partiti come volontari. Varrone si rifugiò a
Venosa.
Canne fu la sconfitta più pesante della seconda guerra punica: la Gallia
Cisalpina era da tempo in rivolta, solo qualche avamposto romano ben difeso
presidiava le zone del nord, con la sconfitta di Canne anche il sud della
penisola era in balia dell'invasore, con Roma ora vi era solo l'Italia centrale,
ovvero l'Etruria, l'Umbria, il Piceno e il Lazio.
A Roma le donne piangevano i morti, il clima generale era di paura, se non
ti terrore: Annibale sembrava invincibile, e nulla sembrava impedire al generale
cartaginese di impadronirsi anche della capitale.
Il dopo Canne: le strategie puniche
Per perorare la causa della sua campagna di conquista agli occhi di Annone
il Grande, Annibale mandò in patria suo fratello Magone con una nave carica
degli anelli d'oro dei cavalieri romani uccisi in battaglia, l'impressione fu
grande, ma il re cartaginese continuava a ritenere una eventuale pace con Roma
più fruttuosa della guerra. Nonostante ciò Annibale ottenne rinforzi (4.000
numidi, 40 elefanti, oltre a 20.000 fanti e 40.000 cavalieri).
L'intenzione di Annibale era quella di rovesciare Roma attraverso la
perdita degli alleati italici. Il nord era già destabilizzato, il sud si avviava
ad esserlo, nell'Adriatico Annibale aveva mobilitato, grazie ad una alleanza, il
re Macedone, Filippo V (ma il nuovo fronte non fu mai in grado di impensierire i
romani). La guerra con Filippo viene definita dagli storici come "prima guerra
macedone", ben altre due guerre più impegnative vedranno protagonisti i due
regni in futuro.
Ora i punici puntavano alla Sicilia: nelle intenzioni l'isola doveva
diventare la base logistica per accogliere i rifornimenti dalla madre patria e
un territorio stragegico sicuro più vicino allo scenario bellico rispetto alla
Spagna. Se il suo piano fosse giunto a compimento, la Sicilia sarebbe diventata
il primo anello della conquista della penisola.
La guerra in Sicilia: l'assedio di Siracusa
A contrastare Annibale in Sicilia fu mandato il bellicoso generale Claudio
Marcello. Ma nonostante gli sforzi, le prime battaglie volsero ancora a favore
dei cartaginesi.
Il popolo siciliano fu quasi interamente dalla parte di Cartagine.
Agrigento fu occupata da Annibale.
Siracusa era passata al fianco del
generale cartaginese. Alla morte del suo tiranno Gerone II, grande amico di
Roma, il consiglio cittadino aveva deciso di schierarsi con Annibale. A Claudio
Marcello non restò altro che iniziare l'assedio della città: durò due anni, dal
213 al 211. Le sue truppe stringevano la città da mare e da terra, ma dovettero
subire il leggendario attacco delle geniali macchine di Archimede, ospite della
città (gli specchi ustori che affondavano le navi bruciandole e gigantesche
ancore-arpioni che penetravano gli scafi facevandoli rovesciare).
Nonostante ciò, Claudio Marcello ottenne la caduta di Siracusa, dopo una
lunga battaglia condotta quartiere per quartiere. Archimede stesso morì, e molti
tra i siracusani, accusati di tradimento, furono trucidati. La città stessa
venne saccheggiata per ridare fiato alle esauste casse romane. Siracusa era di
vitale importanza per tutta l'isola, anche Agrigento non poteva che arrendersi,
mentre già Annibale era a Taranto, consegnatasi al nemico in forza dell'ennesimo
tradimento.
La mancata conquista della Sicilia fu il primo duro colpo ai piani
cartaginesi. Ora i rifornimenti ad Annibale sarebbero dovuti arrivare ancora
dalla Spagna, lontana e sul fronte di guerra (si veda la parte III°).
Annibale alle porte di Roma, la caduta di Capua
Nel frattempo, nel 212, i romani, facendo appello ai cittadini perché
consegnassero gli averi alla patria e varando nuove tasse (la guerra aveva
esaurito l'erario), cominciarono ad assediare Capua, nella quale si trovava, tra
gli agi e le mollezze che la città offriva, lo stesso Annibale e il suo
esercito.
I romani impedivano sistematicamente ad Annibale di uscire dalla città,
avevano costruito tutto intorno un complesso sistema di macchinari d'assedio e
lottavano con vigore ogniqualvolta una spedizione nemica minacciava di sfondare
lo sbarramento.
Annibale decise di tentare la marcia su Roma, con la speranza che
l'esercito assediante seguisse l'esercito cartaginese e interrompesse l'assedio
di Capua.
Non fu così. Sebbene Annibale riuscisse ad uscire dalla città,
grazie all'ennesimo stratagemma (fece muovere l'esercito di notte dopo avere
accesso ingannevolmente le torcie nel suo accampamento), l'esercito assediante
non lo seguì, fatto che si dimostrò decisivo nello sviluppo successivo degli
eventi. Annibale ebbe quindi gioco facile nella sua marcia verso Roma, giungendo
alle sue porte senza incontrare resistenza.
Tutti pensarono che Annibale volesse sferrare l'attacco finale e la
popolazione già si preparava a subire le conseguenze del saccheggio nemico, ma
non fu così. Forse in considerazione del fatto che le mura delle città,
fortificate da Fabio Massimo, erano praticamente inespugnabili, che a Roma si
trovavano ancora quattro legioni e che alle spalle aveva Capua ancora assediata,
Annibale, dopo avere saccheggiato le campagne, decise di fare marcia indietro, e
dirigersi verso l'Apulia, abbandonando la stessa colonia campana al
nemico.
Per Capua fu il crollo (211). Senza i cartaginesi la città venne
occupata dai romani, che non ebbero molta pietà per coloro che consideravano
traditori (gli stessi capuani dovettero bere l'amaro calice del tradimento di
Annibale). I membri del senato capuano e i notabili furono condannati, parte
della popolazione ridotta in schiavitù. La stessa città perdette l'indipendenza
e fu nominato un pretore romano allo scopo di governarla come comunità in
sudditanza. Fu l'inizio della riscossa romana.
La guerra in Spagna
Dal 215 si trovavano sul fronte spagnolo i fratelli Scipione, Gneo e Publio
(già protagonisti della battaglia sul Trebbia). Publio era omonimo di quel
Publio Cornelio che più avanti sarebbe prepotentemente entrato nella
storia.
Lo scopo della spedizione romana era arginare i tentativi di invasione
cartaginesi e privare Annibale dei rinforzi. La Spagna era per i fratelli Barca
la base strategica della campagna europea, lì vi avevano fondato la loro citta,
Carthago Nova, nelle intenzioni e nel nome una seconda Cartagine, capitale del
futuro regno punico nel contintente. Del fronte spagnolo si occupavano Asdrubale
e Magone, i fratelli di Annibale.
I fratelli Scipione avevano passato l'Ebro ed erano vicini a Sagunto, la
città che fu il casus belli del conflitto. Presso Dertosa, assediata dai romani,
si svolse la prima battaglia con i cartaginesi. Vinsero gli Scipioni. La
vittoria permise di rallentare le mire espansionistiche cartaginesi e a far
cambiare orientamento politico alle tribù iberiche locali, oltre a provocare una
prima ondata di ottimismo in patria, a Roma.
Intanto Asdrubale dovette ritornare in Africa per sedare la rivolta di
Siface, re di Numidia, si dice "incoraggiato" alla rivolta dagli stessi Scipioni
(come sempre la guerra fu anche "diplomatica").
Nei tre anni che servirono ad Asdrubale per sconfiggere Siface, i fratelli
Scipione avevano riportato ulteriori succesi, tra i quali la riconquista di
Segunto, nel 212.
L'esercito cartaginese, riorganizzatosi, ingaggiò nel 211 la battaglia
decisiva. Asdrubale riuscì a dividere gli eserciti dei due fratelli Scipione per
poi affrontarli separatamente. I romani furono nettamente sconfitti, gli stessi
Scipioni morirono, e quel che restava dell'esercito romano si dovette ritirare
nuovamente oltre l'Ebro, dove mantenne, pur nelle dificoltà, le posizioni.
Il promettente Publio Cornelio Scipione
Già da tempo a Roma si stava facendo largo un giovane e promettente
condottiero, Publio Cornelio Scipione. Era un personaggio carismatico, si dice
fosse affabile nei modi, sicuro di sé e della sua futura gloria e avesse un
profondo sentimento religioso (nelle sue scelte si affidava al responso dei
sogni e degli dei), tra la popolazione godeva di gran favore, grazie anche
all'episodio che lo vide salvare la vita al padre nella battaglia del
Ticino.
Nel 211 il senato romano mandò sul fronte spagnolo il pretore Claudio
Nerone, ma la sua tattica "del temporeggiatore" ancora una volta non venne
gradita sia dai senatori che dal popolo. A questo punto si acclamava a gran voce
di sostituirlo con Scipione.
Pur essendo solo venticinquenne e non avendo ancora titoli, il senato lo
nominò proconsole e lo mandò sul fronte spagnolo con due legioni da aggiungere a
quelle che già vi si trovavano.
L'arrivo di Scipione in Spagna, nel 210, risollevò il morale alle truppe,
anche perché il generale riorganizzò l'esercito eliminando di fatto un certo
lassismo e una certa disorganizzazione che si era impossessata delle
legioni.
La presa di Carthago Nova
La prima impresa di Scipione fu quanto mai eclatante. Preso atto che le
legioni cartaginesi erano sparpagliate su tutto il territorio iberico, decise di
puntare direttamente su Carthago Nova.
La città sorgeva su un promotorio, da
un lato era difesa da mura, dall'altro un'impervia scogliera rendeva difficile
lo sbarco via mare. Scipione disponeva, oltre alle legioni, di un contigente di
navi.
In un primo momento l'esercito romano ingaggiò battaglia presso le mura in
modo da attirare l'attenzione della guardia verso terra. Sfruttando la bassa
marea, dal mare le navi sbarcarono 500 legionari muniti di scale, che ebbero
gioco facile nel risalire la scogliera e penetrare in città. La sorpresa fece
crollare le difese nemiche, ormai circondate. Ciò accadde nel 209.
Il crollo di Carthago Nova fu un durissimo colpo per i cartaginesi. Persa
la possibilità di stabilire una base in Sicilia, perdevano improvvisamente la
sede storica della loro invasione. Grosse quantità di provviste e di armi
passarono al nemico, nonché un certo numero di ostaggi.
Scipione dimostrò tutta la sua abilità politica e la sua nobiltà di
carattere quando si trattò di restituire alcuni ostaggi iberici, di fronte alle
offerte di riscatto, egli restituì gli iberi senza chiedere in cambio nulla.
Tutto ciò, unita alla presa di Carthago Nova, portò i favori della popolazione
spagnola verso Roma.
La battaglia del Metauro
Asdrubale, nel 207, decise di puntare verso l'Italia per congiungersi al
fratello, seguendo la stessa via da lui percorsa nel 218. La spedizione
consisteva in 20.000 uomini, ma contava di trovare altri soldati strada facendo,
soprattutto tra le popolazioni di Galli. Malgrado la presa di Carthago Nova,
Scipione venne meno così al suo compito, che era quello di impedire al fratello
di Annibale di lasciare la Spagna.
A Roma si corse ai ripari. Vennero eletti consoli Claudio Nerone e Marco
Livio Salinatore. Livio presidiò con il suo esercito il nord, mentre Claudio
Nerone ebbe il compito di tenere a bada Annibale che si trovava come sempre più
a sud, in Apulia.
Per informare il fratello dei suoi piani, Asdrubale aveva mandato alcuni
corrieri. Disgraziatamente questi caddero nelle mani di Claudio Nerone che venne
così a conoscenza dei piani di ricongiungimento.
Claudio prese una decisione improvvisa e coraggiosa. Lasciati sul posto
alcuni soldati a sorveglianza di Annibale, nottetempo partì con tutto il suo
esercitò verso nord, con l'intenzione di riunirsi alle legioni di Livio. Ora
Roma poteva disporre di un esercito riunito di 40.000 uomini.
Quando Asdrubale si accorse delle forze preponderanti romane, cercò di
aggirarle, ma alla fine dovvete affrontare la battaglia presso il fiume Metauro,
nel 207. La battaglia fu un trionfo romano, la spedizione cartaginese venne
annientata, lo stesso Asdrubale perse la vita in battaglia e i romani tagliarono
la testa al cadavere gettandola davanti all'accampamento di Annibale (in questo
non si mostrarono molto riconoscenti nei confronti del generale che aveva
accordato degna sepoltura a Claudio Marcello, vittorioso a Siracusa, caduto in
Puglia nel 208 dopo aver riconquistato Taranto nel 209: Annibale ordinò che il
suo corpo fosse seppellito con tutti gli onori militari).
La battaglia fu quanto mai decisiva per i romani. Con la morte di
Asdrubale, Annibale venne privato di qualsiasi possibilità di aiuto, e la sua
sorte, dopo 15 anni di vittorie sull'intero suolo italico, sembrava più che mai
segnata. Le popolazioni della penisola non appoggiavano più i cartaginesi, i
quali non godevano ormai di molte possibilità di vittoria. Annibale era ormai
solo.
La fine del domonio cartaginese in Spagna
Nel 207 Scipione attaccò l'esercito cartaginese a Silpia, presso il fiume
Baetis. In Spagna, per i punici, erano rimasti Magone e un altro Asdrubale,
figlio di Giscone. Sebbene Cartagine avesse mandato rinforzi, la vittoria fu
ancora una volta dei romani.
Magone con le truppe superstiti si ritirò a Cadice, e fece poi un tentativo
di rinconquistare Carthago Nova, ma fallì. Quando ritornò a Cadice, la città si
era già consegnata pacificamente ai romani. Magone non potè altro che tornare a
Cartagine.
Fu la fine del dominio cartaginese in Spagna, nel 206 la penisola
era definitivamente liberata.
Scipione sbarca in Africa
Il vittorioso Publio Scipione ritornò in patria da trionfatore. Nel 205 si
candidò per la carica di Console e fu eletto all'unanimità. Inutile dire che il
popolo era tutto dalla sua parte. L'altro console fu Publio Licinio Crasso,
ovviamente oscurato, agli occhi della storia, dalla fama del giovane
generale.
A questo punto Scipione propose al Senato l'idea di sbarcare in Africa per
sconfiggere il nemico sul suo stesso suolo definitivamente. Il Senato, guidato
dal prudente Fabio Massimo, in un primo momento si oppose, infine decise di
accontentare Scipione.
Vennero reclutati volontari dall'Etruria e construite
30 navi, mentre Scipione ottenne la Sicilia come provincia, col permesso di
reclutare altre legioni sul posto e di recarsi in Africa quando più lo ritenesse
opportuno.
Nel frattempo Magone sbarcò in Liguria dalle Baleari, nel tentativo di
ricongiungersi al fratello. Conquistò Genua (Genova) e tentò di portare dalla
sua parte la popolazione ligure, ma la lezione del Metauro aveva impaurito i
galli. Senza l'aiuto dei liguri, Magone non potè far altro che ritirarsi (203).
Egli stesso gravemente ferito, morì probabilmente durante il viaggio di ritorno
in patria.
Nella primavera del 204 Scipione partì da Lilibeo verso le coste africane.
Portava con sé 50 navi e un esercito di 25.000 uomini. Lo sbarco avvenne presso
Utica, senza incontrare alcuna resistenza. I romani allestirono il campo presso
la città.
Ora la minaccia per Cartagine era più che mai seria. La guerra aveva
cambiato corso: fino ad allora assedianti, i punici erano ora diventati gli
assediati.
Cartagine chiede l'armistizio, Annibale ritorna in patria
Scipione tentò subito di assediare Utica, ma dovette desistere. In Africa i
cartaginesi godevano dell'appoggio di Siface, re della Numidia occidentale, il
quale, assieme ad Adsdrubale di Giscone, tenne facilmente a bada, in un primo
momento, le mire di conquista di Scipione. Tuttavia quest'ultimo potè contare
sull'appoggio di Massinissa, re della Numidia orientale e nemico di
Siface.
Giunti a un punto di stallo, in cui entrambi gli eserciti non si sentivano
superiori all'altro, venne proposta la pace, con il ritorno allo stato "quo ante
bellum", ovvero allo stato di cose precedente alla guerra. Scipione, malgrado
non fosse per niente dell'idea, acconsentì, un pò per prendere tempo, e un pò
per raccogliere utili informazioni sullo stato delle forze avversarie.
Quando si sentì pronto, Scipione rifiutò l'armistizio, e mandò a dire a
Siface che, seppur personalmente contrario al conflitto, non lo era il suo
consiglio di guerra.
La stessa notte mandò Massinissa e il suo generale Caio
Lelio ad incendiare i campi numidi. Nel frattempo Scipione si schierava nei
presso del campo cartaginese. Il panico causato dagli incendi procurò gravissime
perdite agli eserciti nemici, per il fatto che i romani attendevano alle spalle
i fuggitivi per colpirli durante la ritirata.
Il tranello disorientò gli eserciti nemici. Rinforzate in tutta fretta con
mercenari celtiberi, le forze di Siface e Asdrubale si presentarono alla
battaglia presso i Campi Magni. I romani ebbero la meglio. Siface fuggì verso il
suo regno, Asdrubale di Giscone riparò a Cartagine. Massinissa seguì Siface e lo
fece prigioniero, diventando così l'unico re della Numidia.
Ai cartaginesi, perso l'appoggio numida, non restò che chiedere
l'armistizio. Era l'autunno del 203.
Le condizioni dettate da Roma furono le
seguenti: Cartagine perdeva tutti i possedimenti fuori dall'Africa, doveva
pagare un grosso tributo di guerra e consegnare quasi tutte le navi da guerra.
La Numidia venne riconsciuta come stato indipendente con re Massinissa.
Una
delegazione cartaginese consegnò il trattato a Roma, dove venne approvato dal
Senato e da una assemblea popolare.
In tutto questo, l'esercito romano rimaneva in Africa, Scipione operò per
sottomettere le città puniche attorno a Cartagine, mentre ad Annibale e a Magone
(che morì durante il viaggio) venne ordinato il ritorno in patria.
Così terminava la spedizione di Annibale in Italia, dopo quindici anni di
scorribande vittoriose e senza alcuna seria sconfitta. Da grande minaccia qual
era stato per tutto lo stato romano e per i suoi alleati, ora il forte
condottiero era costretto a difendere la patria dallo stesso nemico che aveva
quasi sconfitto e trascinato in un lungo e logorante conflitto.
La battaglia di Zama
Lungi dal sentirsi sconfitti, il ritorno in patria di Magone e Annibale
ridiede coraggio ai cartaginesi. Nel senato della capitale punica prevalse il
partito militare dei Barca e il sentimento di riscatto. I cartaginesi iniziarono
ad assalire le navi militari romane e a disturbare i rifornimenti alle truppe di
terra di Scipione.
Prima dell'inevitabile scontro, Annibale e Scipione si incontrarono faccia
a faccia per la prima volta per discutere una soluzione pacifica, entrambi erano
incerti sulle possibilità e la forza dei rispettivi eserciti. Ma non se ne fece
nulla.
I due eserciti si incontrarono a Zama, a sud di Cartagine, verso l'interno.
Potevano contare entrambi su una forza di 40.000 uomini. Quello di Scipione era
appoggiato da 4.000 cavalieri e 6.000 fanti numidi di Massinissa, l'esercito di
Annibale era composto da mercenari, dai veterani della spedizione italica, da
reparti della guardia cittadina di Cartagine e da soli 2.000 cavalieri numidi
ribelli, amici di Siface. Davanti allo schieramento erano stati schierati 40
elefanti.
I reparti di Scipione erano disposti su tre file, con ampi spazi
tra gli uni e gli altri per consentire il passaggio degli elefanti. La
cavalleria era come sempre piazzata ai lati dello schieramento.
Inizialmente le trombe di guerra dei romani spaventarono alcuni elefanti
che si rivolsero contro la propria cavalleria. Lo scompiglio creato permise alla
cavalleria romana di gettarsi sopra quella avversaria mettendola in fuga. I
fanti cartaginesi resistettero bene all'urto, ma non poterono fare nulla quando
la cavalleria romana ritornò colpendoli alle spalle. Le sorti della battaglia
arrisero a Scipione. Sul campo caddero 10.000 cartaginesi e altrettanti furono
fatti prigionieri, mentre le perdite romane furono di molto inferiori. Annibale
fuggì ad oriente e trovò rifugio ad Adrumento, con un piccolo contingente di
quella cavalleria che questa volta si era dimostrata di molto inferiore
all'avversaria. Era il 202 a.C.
Sebbene qualcuno pensasse di continuare a combattere, Annibale capì che era
giunto il momento di arrendersi.
Le condizioni della resa furono più dure
rispetto al precedente armistizio. Cartagine perdeva tutti i possedimenti non
africani, doveva consegnare l'intera numidia a Massinissa e pagare il
mantenimento delle truppe romane in Africa per tre mesi. Inoltre, oltre al
pagamento dei danni di guerra intercorsi tra il precedente armistizio e quello
nuovo, Cartagine era privata del diritto di dichiarare guerra senza il permesso
di Roma. A garanzia di tali condizioni, Scipione ottenne il diritto di scegliere
cento ostaggi.
Considerazioni finali
Il trionfo di Roma fu definitivo. A Scipione venne attribuito l'appellativo
di Africano. Con la fine della seconda guerra punica Roma divenne di fatto lo
stato più potente del Mediterraneo.
Le guerre puniche furono per Roma una valida scuola militare. Molti
miglioramenti erano stati apportati nell'equipaggiamento e nelle tecniche di
guerra, grazie alla necessità di contrastare avversarsi temibilissimi quali i
cartaginesi. grazie a tali conoscienze a a tale esperienza, Roma diventò quella
potenza in grado di contrastare e dominare il bacino del Mediterraneo per mezzo
secolo.
La guerra portò ai romani anche molti nuovi territori: la Corsica, la
Sardegna, la Sicilia, la penisola iberica meridionale, oltre a un'influenza
considerevole sulle coste africane cartaginesi e numidi. Per la prima volta
nella sua storia Roma si affacciava oltre le terre italiche. Altri trionfi
l'attendevano.
Guerra in Oriente
Mentre Cartagine e Roma erano intente a darsi battaglia nel Mediterraneo,
altri vicende avevano creato diversi rapporti di forza tra le potenze
orientali.
Le tre grandi potenze orientali attorno al 200 a.C. erano la Macedonia di
Filippo V, già intromessasi nelle vicende della guerra tra Roma e Cartagine con
azioni di disturbo nell'Adriatico (si veda la II° guerra punica), la Siria di
Antioco III e l'Egitto Tolemaico.
Mentre la Macedonia manteneva la sua influenza sull'Illiria e sulla Grecia,
la Siria era riuscita a reasturare la monarchia dei Seleucidi e occupava un
territorio che andava dal medio-oriente fino alla Persia, attraverso la
Mesopotamia. Per l'Egitto Tolemaico invece, si avviava una lenta e inesorabile
decadenza, il suo territorio era ambito sia dalla Macedonia che, soprattutto,
dalla confinante Siria.
Nel 203-202 a.C. Macedonia e Siria strinsero un accordo segreto contro
l'Egitto. Nel 201 Antioco invase la Siria meridionale e sconfisse l'esercito
egiziano, conquistando Gaza. Filippo V, invece, forse per doppio gioco (si dice
volesse risparmiare l'Egitto per ricavarne una futura alleanza contro la Siria)
attaccò le città indipendenti dell'Egeo, e dell'Ellesponto, allendosi con
Prusia, re di Bitinia (Turchia settentrionale).
Le città greche, indignate dall'efferatezza degli attacchi (distruzioni e
schiavismo), cominciarono ad allearsi tra loro: Rodi, Bisanzio, Chio e il regno
di Pergamo si unirono contro gli aggressori.
Filippo V fu validamente tenuto a bada dalle agguerrite flotte greche, e fu
costretto a ripararsi nella Caria meridionale (Turchia) per qualche tempo, prima
di fare ritorno in Macedonia, non sconfitto, ma nemmeno vincitore e dopo avere
inutilmente tentato di invadere Pergamo.
Roma scende in campo
Le città greche assalite non potevano certo sperare di resistere a lungo,
fu così che decisero di mandare un'ambasciata a Roma per cercarne
l'appoggio.
In quel momento Roma era appena uscita dalla seconda guerra punica:
l'economia italica era in ginocchio, la popolazione diminuita drasticamente e i
tributi chiesti alla popolazione avevano raggiunto cifre esorbitanti. Non
sembrava quindi possibile che l'Urbe decidesse per un intervento militare, si
trattatava pur sempre di una nuova campagna fuori dai confini.
Tuttavia Roma accettò di aiutare le città greche. Fu una decisione
lungamente ponderata. A favore dell'intervento aveva giocato il timore che la
Macedonia e la Siria, allenadosi, avessero potuto conquistare agevolmente gli
stati medio-orientali, nettamente più deboli e dar vita a un regno fin troppo
potente e potenzialmente pericoloso per gli interessi romani nel
mediterraneo.
La seconda guerra macedone
La diplomazia romana si mosse in due direzioni. Nella prima si faceva
pressione su Filippo per constringelo ad ingaggiare lotta, nella seconda si
cercava di mantenere la Siria neutrale, cosa che di fatto riuscì, vista l'antica
diffidenza di Antioco verso la Macedonia. Pur avendo stretto un alleanza,
Macedonia e Siria mai ebbero una politica comune, ognuno temeva che le vittorie
avrebbero rafforzato eccessivamente una parte a scapito dell'altra. Questo rese
debole da subito l'alleanza tra i due stati.
Nel 199 a.C. Publio Sulpicio penetrò in Macedonia attraverso l'Illiria.
Filippo si ritirò, temendo la superiorità numerica dei romani, mentre questi,
impossibilitati a ingaggiare battaglia, ritornarono ai loro accampamenti in
Illiria. Filippo ebbe il tempo di fortificarsi e rafforzare le difese ai valichi
fra l'Epiro e la Tessaglia, mentre respingeva gli attacchi di invasori Etoli e
Dardani.
Nel 198 il comando dell'esercito romano fu affidato a Tito Quinzio
Flaminino, valente generale dell'ambiente degli Scipioni. Egli era un abile
diplomatico e sognava di liberare la Grecia, della quale era un ammiratore, dal
gioco macedone.
Flaminino cominciò subito a tessere una rete di alleanze anti-macedoni.
Diede un ultimatum a Filippo: egli doveva liberare immediatamente le città
greche dall'assedio. Filippo, che si sentiva forte delle posizioni, non accettò.
Flaminino, con l'aiuto di guide locali, fu però talmente abile da aggirare le
fortificazioni macedoni e costrinse Filippo ad indietreggiare ancora di più
verso l'interno.
Intanto dalle parti di Roma si erano schierate anche le
città dell'Achea, fino ad allora alleate della Macedonia. Successivamente anche
Sparta e la Beozia cambiarono l'alleanza in favore dei romani. Filippo era
sempre più isolato. Contemporaneamente, la flotta alleata si era intanto
avvicinata a Corinto, importante centro sotto inluenza macedone.
Nel 197 a.C. la situazione era ormai matura per lo scontro diretto. Filippo
non poteva attendere oltre con il rischio di rimanere sempre più solo, Flaminino
temeva di essere sostituito alla guida dell'esercito.
Lo scontro avvenne in
Tessaglia, sulle colline dette Cinocefale ("teste di cane"). Filippo aveva
assoldato le riserve, tra loro anche ragazzi di sedici anni, entrambi gli
eserciti disponevano di circa 26.000 uomini. I romani vinsero infliggendo
pesanti perdite ai macedoni, che non avevano potuto sfruttare le qualità della
falange sul terreno collinare e scosceso.
I romani, temendo l'intervento siriano, si affrettarono a trattare
l'armisitizio. Si decise una tregua di quattro mesi e il pagamento di 400
talenti. Filippo doveva inoltre interrompere gli assedi alle città greche ed
evaquare quelle conquistate, oltre a consegnare la flotta militare.
Le
clausole non furono troppo severe perché già si pensava di guadagnarsi
l'appoggio di Filippo nella futura e ormai inevitabile guerra contro la
Siria.
La liberazione della Grecia
Sempre nell'ottica diplomatica di crearsi un largo consenso nelle regione
orientali, Roma e Flaminino dichiararono solennemente la libertà della Grecia.
Il testo del trattato recitava: "In generale, tutti gli Elleni, sia asiatici che
europei, saranno liberi e sottoposti a proprie leggi".
Polibio scrisse della dichiarazione in occasione dei giochi istmici
dell'estate del 196 a.C., riportando l'araldo: "Il senato romano e il comandante
con potere consolare, Tito Quinzio, che hanno vinto il guerra Filippo e i
Macedoni, donano la libertà ai Corinzi, ai Focesi, agli Egei, agli Achei Ftioti,
ai Magneti, ai Tessalici, ai Perrebi, permettendo loro di non mantenere
guarnigioni, di non pagare imposte e di vivere secondo la legge dei loro
padri".
Le città greche da sole non potevano ormai contrastare né i Macedoni, né
Roma, né tantomeno la Siria. Roma decise allora di stringere un accordo che in
termini moderni si definirebbe di "partnerariato", ben sapendo di essere il
soggetto più forte. Roma avrebbe quindi aiutato la Grecia, frammentata come
sempre in un'innumerevole sciame di città indipendenti e piccoli stati,
proteggendola con il suo prestigio politico e la sua forza militare.
In sostanza fu un'abile mossa diplomatica per garantirsi il favore di una
antica e onorata civiltà, se Roma non avesse dichiarato la libertà dei greci, lo
avrebbe fatto Antioco di Siria, con grave danno politico e strategico.
In realtà Flaminino mantenne a lungo guarnigioni romane in Grecia, che
ritirò solo sotto la pressione della popolazione, che già lamentava
l'occupazione romana e il tradimento dell'annuncio. I romani intendevano
ridisegnare la carta geo-politica di una regione ritenuta ancora instabile. In
vista di una invasione siriana, Flaminino e il consiglio dei dieci, incaricati
di vegliare sulla regione, cercarono di attirare a sé più alleati
possibili.
Il pericolo siriano
Mentre Roma e Macedonia erano intente a farsi la guerra, la Siria di
Antioco non era rimasta a guardare. Aveva conquistato, sfruttando la debolezza
egiziana, la costa meridionale dell'Asia minore, mentre già aveva varcato
l'Ellesponto e occupato alcune città della Tracia, precedentemete appartenute ai
macedoni. Era il 196 a.C. e la Siria per Roma si faceva quanto mai minacciosa
(la Tracia era praticamente adiacente alle città greche sotto la protezione
romana).
Benché Antioco volesse solo impadronirsi dei possedimenti traci, già
storicamente occupati e poi perduti, il consistente sbarco di truppe siriane in
Europa preoccuparono Roma che mandò in Tracia una prima ambasciata, con il
pretesto di farsi carico delle lamentele di alcune città libere greche. Roma
fece capire ad Antioco che non avrebbe tollerato l'eventualità di una sua
politica aggressiva, ma il re siriano rispose che non vedeva nessuno motivo per
il quale Roma dovesse intromettersi nella politica estera del suo regno.
Fu
l'inizio di una serie di eventi che avrebbe portato le due parti allo
scontro.
Annibale alla corte di Antioco
Nel frattempo Annibale era salito alla guida dello stato cartaginese e
stava cercando di risollevare il regno, soprattutto finanziariamente. Egli aveva
cercato di debellare la diffusa corruzione che albergava tra i membri del
consiglio della città, e questo, unito al timore che Annibale potesse acquisire
troppo potere ai loro danni, fece si che gli oligarchi dello stato punico
chiamassaro in aiuto proprio i nemici romani.
Con il pretesto di discutere
questioni riguardanti la Numidia, i membri del consiglio tramarono di nascosto
la consegna di Annibale agli ambasciatori, ma questi fiutò il pericolo e fuggì
nottetempo, diretto in Siria. Ciò accadde nel 195 a.C.
In Siria Annibale fu accolto con grandi onori, e questo, ovviamente, fu
motivo di nuova allarme per Roma. Se Antioco avesse abbandonato le coste
europee, Roma era disposta a lasciarle mano libera in Asia, ma Antioco non ne
voleva sapere di lasciare la Tracia, e, inevitabilmente, scoppiò la
guerra.
Malcontento e divisioni in Grecia
Nel 193 a.C. l'entusiasmo che aveva suscitato il proclama di liberazione
romano aveva lasciato il posto a un diffuso malcontento tra i litigiosi stati
della Grecia. Sebbene Roma avesse ritirato le sue guarnigioni sul territorio,
manteneva pur sempre la "mano pesante" nelle faccende politiche locali.
L'obiettivo romano, come si è detto, era quello di riorganizzare la mappa
geo-politica della Grecia, e per fare questo spesso favorì uno stato a scapito
dell'altro, sempre appoggiando gli elementi aristocratici e meno i sentimenti
della popolazione.
Sentendosi egemonizzati dalla prepotenza romana, tra i greci cominciò a
farsi largo lìidea che il solo e unico liberatore della Grecia potesse essere
Antioco, il solo in quel momento, ingrado di contrastare e battere Roma.
Soprattutto la lega Etolica spingeva nella direzione di fondare una
coalizione antiromana (agli Etoli non era piaciuta la divisione del "bottino" di
guerra macedone, dove avevano combattuto a fianco dei romani).
Assieme alla lega Etolica, alleata con la Siria, si schierò la Beozia,
l'Eubea, l'Elide e Messene, mentre con Roma si scherarono la lega Achea (che
aveva incorporato Sparta nel 192 a.C. grazie a una vittoria del famoso stratego
acheo Filopemene), Atene, ma soprattutto la Macedonia, ormai alleata di Roma,
che l'aveva esonerata dal pagamento del debito di guerra, restituito gli ostaggi
e promesso vantaggi territoriali in caso di vittoria.
Antioco sconfitto alle Termopili
Annibale, nella veste di consigliere militare, aveva proposto ad Antioco di
portare la battaglia direttamente sul suolo italico, ma il re siriano non
accolse i consigli del condottiero cartaginese in quanto non riteneva Roma
obiettivo principale della sua campagna. Ad Antioco interessava, come già detto,
l'Asia e, parzialmente, la Grecia, se non altro per la sua posizione strategica
sempre nell'ambito della scacchiera orientale.
Nel 192 a.C. Antioco sbarcò a Demetria, in Tessaglia, con solo 10.000
fanti, un piccolo reparto di cavalleria e 6 elefanti. Era evidente che contava
sull'appoggio dei suoi alleati greci, sopratutto gli Etoli, sopravvalutandone
però la forza.
Antioco e gli Etoli attaccarono i romani presso Delion, la
guerra era cominciata.
I romani avevano affrontato la guerra più metodicamente. Nel timore che i
siriani potessero sbarcare in Italia, una parte della flotta romana pattugliò
costantemente le coste, mentre un'altra parte, al comando del console Manio
Acilio Glabrione (del partito degli Scipioni), sbarcò in Illiria, ad Apollonia.
L'esercito romano contava 20.000 fanti, 2.000 cavalieri e 15 elefanti (i romani
ne avevano appreso l'uso durante le guerre puniche).
Nell'aprile del 191 a.C. Antioco già combatteva con i macedoni e alcuni
reparti romani in appoggio, quando l'arrivo dell'esercito di Acilio gli suggerì
di ritirarsi alle Termopili (già luogo di una famosa battaglia tra grechi e
persiani). Qui fu affrontanto dall'esercito romano e venne sonoramente
sconfitto.
Ad Antioco non restò altro che imbarcarsi in Eubea diretto verso
Efeso. Le regione greche alleate si arresero ai romani (con l'eccezione degli
Etoli).
Padroni dell'Egeo
Caduta la possibilità di una invasione siriana in Italia, la flotta a
guardia dei confini si diresse verso l'Egeo, al comando di Caio Livio
Salinatore. Al fianco della flotta romana si schierarono Rodi, Pergamo, Chio e
le più grandi isole greche.
Le flotte romane e siriane, comandate da Polissenida, si incontarono
davanti a Chio, presso il capo Corico, nell'estate del 191 a.C. Ancora una volta
i siriani vennero sconfitti, cosicché, di fatto, i romani divennero padroni
dell'Egeo, e già si pensava di sbarcare in Asia Minore (Turchia) e sconfiggere
Antioco sul suo stesso territorio.
Saputo della sconfitta, Antioco diede mandato ad Annibale di reclutare in
tutta fretta una nuova flotta navale, con equipaggi fenici reclutati per
l'occasione e scarsamente preparati. Nel 190 La flotta di Annibale si scontrò
con quella di Rodi presso le coste della Pamfilia (turchia meridionale) e perse
20 navi. Fu l'evento che segnò il definitivo abbandono della guerra da parte di
Annibale.
Antioco non si diede pervinto e organizzò sempre nello stesso anno un'altra
spedizione di 89 navi, tutta la flotta a guardia di Efeso. La flotta romana e
rodia, presso il capo Mionneso, affondò 40 navi nemiche. Fu l'evento che segnò
la definitiva sconfitta della marina siriana, che non sarebbe più scesa in campo
fino al termine del conflitto.
Intanto i romani avevano già occupato, con l'aiuto della flotta rodia,
Sesto, nell'Ellesponto. Con gli Etoli si era conclusa una tregua di sei mesi in
modo da permettere di concentrare l'esercito romano e quello macedone in Tracia,
in vista dell'invasione dell'Asia Minore.
La battaglia di Magnesia
In Asia Minore Antioco aveva riunito un grande esercito, composto da
soldati proveniente da ogni parte del regno. Malgrado ciò, dopo aver perso i
primi scontri, tentò di intavolare trattative di pace coi romani, non sentendosi
più sicuro della vittoria. I romani, al contrario, sentendosi forti, non
accettarono la proposta di Antioco di abbandonare l'Europa, ma pretesero che
abbandonasse invece tutta l'Asia Minore e pagasse le spese di guerra. Il re
siriano non accettò e gli scontri proseguirono.
Lo scontro decisivo avvenne presso Magnesia nel 189 a.C. I romani, guidati
dell'ex console Gneo Domizio (Scipione era ammalato) disponevano di 30.000
uomini, i siriani di 70.000 (16.000 fanti pesanti, le falangi, 12.000 cavalieri,
20.000 fanti leggeri, 54 elefanti e carri falcati, carri corrazzati con spuntoni
alle ruote).
Malgrado l'enorme divario di forze, i romani accettarono lo
scontro, ben informati sulla composizione quanto mai eterogenea dei nemici,
proveniente da ogni parte del regno selucida, dalle più remote parti
dell'oriente ad alcuni mercenari grechi e macedoni.
Fu proprio la scarsa
organizzazione dovuta alla diversità e alla poca esperienza dei reparti siriani
che giocò a sfavore per le sorti della battaglia.
Eumene, re di Pergamo, comandava il fianco destro romano. Egli sgominò il
reparto di carri falcati e attaccò le falangi sul lato scoperto con la
cavallieria, mentre i romani ebbero gioco facile contro elefanti (come al solito
spaventati) e fanteria leggera siriana, contro la quale scagliarono una pioggia
di giavellotti. Al termine della battaglia le perdite siriane furono circa
50.000, mentre quelle romane 300. Fu una delle più grandi vittorie di
Roma.
Il trattato di Apamea, l'egemonia politica romana
Antioco non potè che accettare la sconfitta. I termini della resa,
stipulata ad Apamea nel 188, furono così onerosi che da allora il regno siriano
non riuscì più a risollevarsi.
Antioco perse tutti i possedimenti dell'Asia
Minore (Turchia) e dovette pagare una cifra di 12.000 talenti in 12 anni, oltre
che a rinunciare agli elefanti e a smantellare la propria flotta navale,
mantenendo non più di 10 navi. Antioco stesso morì nel 187 nel tentativo di
sedare una rivolta nelle regioni del suo regno che ne avevano avvertito la
debolezza.
In Asia Minore il regno che ne trasse più vantaggio fu Pergamo, che divenne
lo stato più importante della regione. Anche Rodi allargò i propri territori,
mentre in Grecia a trarre più vantaggi fu la lega Achea (mentre gli Etoli
accettarono la resa con i romani e dovettero dare 40 ostaggi in garanzia).
Roma aveva esteso la sua influenza in oriente. Sebbene non occupasse
direttamente i territori, di fatto si era assicurata la presenza in quelle
regioni attraverso dei validi alleati quali Permago, Rodi e la lega Achea. La
sua influenza politica, inoltre, si faceva più che mai sentire, era ormai
diventata la più grande potenza del Mediterraneo, e nessuno stato poteva
dichiararsi guerra senza il parere dei romani.
La diplomazia romana ebbe cura di evitare qualsiasi pericolosa alleanze tra
gli stati ancora ostili, isolandoli, in modo da circoscriverne la forza, una
tattica, quella di spezzettare i nemici in piccoli stati deboli che aveva dato i
suoi frutti ed era stata sperimentata già in Italia attraverso la fitta rete di
stati alleati, colonie e vassalli.
Nuove politiche macedoni
Malgrado la Macedonia avesse combattuto validamente al fianco dei romani
nella guerra siriaca, nuove nubi si addensavano all'orizzonte. La Macedonia
aveva tratto molti vantaggi dalla vittoria sui siriani, il suo territorio si era
allargato a scapito della lega Etolica e della Tracia, dove aveva occupato le
città della costa precedentemente in mano alla Siria.
Filippo V già pensava di cambiare nuovamente linea politica, aspirando
all'egemonia sulla Grecia, che già tornava a lamentarsi del giogo romano e
vedeva la Macedonia come possibile liberatrice di turno.
Filippo aveva due figli, Perseo, il primogenito, e Demetrio. I romani
puntarono sul secondo in quanto aveva già abitato Roma in qualità di ostaggio, e
lo vedevano già alla guida della Macedonia, tuttavia, i contrasti e le tensioni
che ne derivarono all'interno della famiglia macedone ebbero come unico
risultato la condanna a morte di Demetrio nel 181 a.C.
I romani avevano già tentato per via diplomatica di far desistere la
Macedonia: le ordinarono di abbandonare immediatamente le coste della Tracia e
alcune zone della Grecia. Filippo sembrò abbandonare i propositi bellicosi
diretti e si concentrò sulla conquista delle zone interne della Tracia. Egli
aveva il progetto di formare una coalizione con gli stati barbari in grado di
sfidare i romani.
Nel 179 Filippo morì e il regno passò nelle mani del figlio Perseo. Questi
era nemico di Roma, anche se apparentemente manteneva la pace in modo da tessere
la tela delle alleanze anti-romane. Perseo puntava alla Grecia, lanciando una
campagna demagogica imponente per spingere sul malconento popolare e il
desiderio di liberazione dei greci.
La guerra: la battaglia di Pidna
Nemico di Perseo era Eumene, re di Pergamo e alleato dei romani. Nel 172
a.C. andò a Roma per presentare di persona le sue lagnanze: era preoccupato
dalla politica macedone in Grecia e in Tracia. I romani, che non erano ancora
pronti alla guerra, tergiversarono, in modo da organizzare meglio il conflitto,
Perseo non osò attaccare per primo, e quindi si arrivò a rinviare l'inizio del
conflitto nel 171.
La Grecia non era passata al fianco di Perseo, forse intimorita dalla
potenza romana e comunque non propriamente convinta della forza della Macedonia.
Gli Etoli si schierarono con Roma nella speranza di contrastare il troppo
potente regno ai suoi confini. Anche la lega Achea si schierava come sempre con
i romani, come Pergamo e Rodi. Perseo si trovò così isolato.
Le prime battaglie furono favorevoli a Perseo. I romani combattevano in
modo disorganizzato, abbandonandosi alle violenze verso le popolazioni locali.
Questo favorì un nuovo cambiamento negli umori dei greci, che sembrarono tornare
dalla parte della Macedonia. Tuttavia Perseo tendeva a non sfruttare lo slancio
delle vittorie, per timore di perdere poi rovinosamente (si dice fosse molto
avaro e quindi ossesionato dalla possibilità di perdere ciò che aveva
conquistato).
Nel 170 e nel 169, la Macedonia ebbe però importanti conferme dalle
battaglie navali nell'Egeo. Rodi, credendo che i romani non fossero in grado di
concludere il conflitto, chiese loro di intavolare trattative di pace col nemico
per salvaguardare gli interessi commerciali della sua flotta. Dicerie di palazzo
volevano persino Eumene di Pergamo in trattative segrete con Perseo.
Roma ruppe gli indugi. Nel 168 a.C. Lucio Emilio Paolo prese il controllo
delle operazioni, restituendo la displina perduta all'esercito. Egli riuscì con
il suo esercito a confinare Perseo nelle vicinanze di Pidna, in Tessaglia.
La battaglia vide in un primo momento il successo schiacciante della
falange macedone. La fanteria romana venne ricacciata quasi sulle alture che
attorniavano il campo di battaglia e paradossalmente fu proprio l'enorme forza
d'urto della falange a segnarne le sorti. L'attacco macedone era stato così
rapido che presto le falangi si ritrovarono disunite e vennero attaccate alle
spalle e ai fianchi dalla seconda linea romana, che la sbaragliò. La cavalleria
macedone, vista la sorte della falange, invece di attaccare si ritirò. A Perseo
non restò che fuggire a Samotrace con i suoi tesori. Sul campo restarono 20.000
macedoni, altri 11.000 vennero fatti prigionieri.
La battaglia di Pidna, oltre a segnare la definitiva scomparsa della
monarchia macedone, fu decisiva e importante in quanto segnò l'abbandono della
linea diplomatica romana a favore di una più energica politica di "annullamento"
degli sconfitti. Da Pidna in poi i romani avrebbero sistemato le faccende
orientali con mano decisamente più energica.
Nuovo ordine romano in Oriente
Dopo la fine della guerra, Roma decise di smembrare la Macedonia in quattro
parti, gli abitanti di ogni repubblica indipendente (così le avevano chiamate)
non potevano avere rapporti tra loro, praticare i commerci e perfino sposarsi
tra appartenenti a repubbliche diverse. Ai macedoni venne poi proibito di
lavorare i metalli e il tributo delle tasse sarebbe stato riscosso da Roma, a
capo di ogni repubblica venne insediata una dirigenza filo-romana.
Ora che nessuno più osava contrastarla militarmente, Roma non aveva più
bisogno di contrappesi in Asia Minore, e anche a Rodi e Pergamo toccò pagare per
le "strane comnistioni" con il nemico che le avevano viste protagoniste durante
la guerra macedone. Eumene di Pergamo si recò perfino a Roma per difendere la
sua innocenza, ma non venne ascoltato. I romani appoggiarono nel suo regno i
movimenti di rivolta e cercarono di contrapporli il fratello Attalo. Questa
volta nessuna concessione territoriale venne assegnata.
A Rodi vennero tolti buona parte dei possedimenti sulla terraferma e si
fece in modo che i suoi commerci marittimi, che la rendevano una delle più
importati città dell'Egeo, crollassero. Rodi non poteva più commerciare con la
Macedonia e in seguito alla decisione romana di rendere Delo porto franco
detassato, si vide ridurre la portata delle sue entrate da 1.000.000 di dracme
all'anno a 150.000. Per Rodi fu il crollo.
In Grecia continuò la politica della lunga mano negli affari politici. Fu
ridimensionata l'Etolia e anche la lega Achea venne punita, 10.000 nobili achei,
tra i quali Polibio, vennero deportati in Italia.
Anche la Siria, che, approfittando della guerra che teneva occupati i
romani, era arrivata fino alle mura di Alessandria, dovette restituire tutti i
territori conquistati ed evaquare l'Egitto entro il termine indicato dalla
diplomazia romana. Evidentemente tutti ormai temevano la forza di Roma.
Lo Pseudofilippo, la Macedonia provincia romana
La reazione Macedone venne convogliata nella figura dello Pseudofilippo, un
artigiano della Tracia di nome Andrisco che si era spacciato per il figlio di
Perseo, Filippo, in realtà morto in Italia a diciottoanni.
Questi era un
personaggio bizzarro, già fatto più volte prigioniero dalle autorità locali,
consegnato a Roma, dove ottenne, nel disinteresse generale, nuovamente la
libertà, Andrisco riuscì a farsi riconoscere dal alcuni principi macedoni come
vero figlio di Perseo.
Nel 149 a.C. si mise a capo di un esercito di macedoni e di traci,
riuscendo a conquistare quasi interamente la Tessaglia, grazie anche al fatto
che Roma ne aveva sottovalutato la forza. Sullo slancio delle vittorie, lo
Pseudofilippo riuscì anche ad annientare una legione romana.
Nel 148 Roma decise che era il momento di porre fine all'avventura di
Andrisco. Fu inviato nella regione un grande esercito a capo di Quinto Cecilio
Metello, e, malgrado all'inizio lo Psudofilippo riuscisse ad ottenere successi,
alla fine dovette capitolare e venne fatto prigioniero. Fu condannato a Morte,
dopo essere stato trascinato nel corteo celebrativo delle vittorie di Metello
per le vie di Roma.
Metello, seguendo gli ordini di una commissione senatoriale, ridusse la
Macedonia a provincia romana, assieme all'Illiria meridionale e all'Epiro (147
a.C.).
Sottomissione della Grecia
Sistemata la questione Macedone, Roma dovette affrontare la rivolta degli
stati greci, come sempre rinvigoriti dai successi dello Pseudofilippo, che
rinnovava lo spirito anti-romano e il desiderio di ribellione.
Sebbene Roma fosse occupata nella terza guerra punica e nella repressione
delle rivolte in Spagna (147 a.C.), il senato dovette trovare in fretta una
soluzione che rendesse stabile una volta per tutte la regione, e non potè far
altro che aprire un nuovo fronte di guerra.
La lega Achea da tempo meditava
di ridimensionare Sparta, già inglobata nel suo territorio, ma sempre pronta
alla resistenza e alla lotta. La lega mandò a chiamare Roma per risolvere la
questione diplomaticamente. Roma non se ne occupò subito, e la lega decise di
attaccare Sparta di propria iniziativa.
Nel 147 a.C. una delegazione romana insediatasi a Corinto, decise che
Sparta, Corinto stessa, Argo e altre città fossero rese indipendenti dalla lega
Achea. Gli achei presenti reagirono arrestando gli spartani presenti in città e
attaccando gli stessi ambasciatori, che riuscirono a malapena a salvarsi.
I capi della lega Achea, Critolao e Deleo decisero allora per la guerra
contro Roma, ritenuta debole per via dei più fronti di battaglia che la vedevano
impegnata in quel momento. Dalla parte della lega si schierarono anche la
Beozia, la Locride, la Focide e la Calcidia.
Nel 146 a.C. ebbe inizio la guerra. L'esercito romano venne affidato al
console Lucio Mummio, ma già contro le armate di Metello l'esercito greco, alla
guida di Critolao, cominciò a subire le prime sconfitte. Mummio si vide così
davanti l'esercito che Deleo aveva costituito con la popolazione del
Pelopponeso, ed ebbe gioco facile nel vincerlo.
Nello stesso anno Mummio entrava a Corinto. La lega Achea si era arresa a
Roma, come il resto degli alleati. Furono sciolte tutte le leghe e la Grecia
venne incorporata nella provincia macedone. Furono abolite le garanzie
democratiche e vennero rastrellati gli oppositori, costituendo un governo
filo-romano basato sul censo.
La distruzione di Corinto
Come ulteriore rappresaglia, Roma decise di mostrare le maniere forti con
Tiro, Calcide e soprattutto Corinto.
Alle prime due città vennero smantellate le mura e disarmata la
popolazione, mentre Corinto, il principale centro della rivolta, venne rasa al
suolo dalle fondamenta e venne proibito alla popolazione di tornare ad abitarvi,
dichiarando il luogo maledetto (146 a.C.).
La ferocia romana si può
interpretare in due modi:il primo interpreta la distruzione come un segnale di
forza, un monito, una lezione che nelle intenzioni avrebbe dovuto far capire una
volta per tutte che non era più conveniente ritentare nuove insurrezioni. La
seconda interpretazione mette l'accento sul lato politico commerciale.
E'
dello stesso periodo la distruzione di Cartagine e il ridimensionamento di Rodi.
Queste due città, assieme a Corinto, costituivano in tre più grandi centri
commerciali del Mediterraneo, esclusi i quali Roma diventava, anche attraverso
il nuovo centro orientale di Delo, la potenza marittima più importante.
"Delenda Carthago"
Dopo la sconfitta di Zama, sebbene pesantemente ridimensionata nel
territorio e nelle capacità militari, Cartagine si era risollevata dal punto di
vista economico. L'economia era ritornata a fiorire, soprattutto via mare, e la
classe dirigente, una volta scacciato Annibale e i seguaci della sua politica
aggressiva, cercava di mantenere rapporti di pace sia con la Numidia che con
Roma.
Tuttavia l'esistenza stessa della città che fino a poco tempo prima era
stata una bellicosa nemica, non riusciva a tranquillizzare certi ambienti del
senato, che ormai aveva inaugurato una politica estera piuttosto
aggressiva.
E' importante ricordare il famoso episodio che vide protagonista Catone,
celebre senatore conservatore, paladino della rigidità dei costumi.
Nel 153
a.C. egli fu ambasciatore a Cartagine, e questo gli permise di osservare da
vicino la rinascita economica della città. Tornato a Roma si dice che, al
termine di ogni discorso, qualunque argomento trattasse, pronunciasse le parole
"ceterum censeo Carthaginem esse delendam", ovvero "d'altronde penso che sia
necessario distruggere Cartagine".
Tale mantra non passò certo inosservato negli ambienti senatori,
l'espansione in oriente aveva fatto capire a Roma che la supremazia nel
Mediterraneo, anche economica, era a un passo dal compiersi, e l'unico ostacolo
era Cartagine.
Il casus belli
Malgrado le intenzioni, i romani non se la sentivano di attaccare Cartagine
senza addurre un casus belli. L'occasione la fornì la Numidia.
Il confine tra Cartagine e la Numidia non era stato definito in modo
preciso dagli accordi di Scipione. Massinissa continuava ad attaccare i confini,
e ogni volta, aprofittando del divieto cartaginese di attaccare senza il
consenso romano, portava via una parte di territorio ai vicini. Malgrado le
frequenti intercessioni romane per appianare le dispute, alla fine a Cartagine
prevalse il partito dell'intervento.
Nel 150 a.C. un esercito cartaginese al comando dell'ennesimo Asdrubale
attaccò Massinissa. Nonostante la sconfitta di Asdrubale, i romani
approfittarono dell'incidente e si preparono ad intervenire, visto la violazione
dei trattati stipulati nel 201.
Spaventati, i Cartaginesi si affrettarono a fare marcia indietro e ad
addossare la colpa dell'agressione sul solo Asdrubale, che venne anche
condannato a morte (ma riuscì a fuggire e organizzare un proprio esercito). Due
ambascerie furono mandate a Roma per risolvere la questione, ma i romani avevano
già deciso per la guerra, era il 149 a.C.
L'assedio di Cartagine
Sbarcati presso Utica, come nella precedente guerra, i romani intimarono la
resa alla città, che non aveva, d'altronde, nessuna intenzione di sacrificarsi.
Essi promisero poi la libertà e la conservazione del territorio cartaginese solo
dietro consegna di 300 ostaggi, tutti bambini appartenenti alle famiglie
diridenti, e anche questa condizione fu soddisfatta. Quando però i romani posero
la terza condizione, i cartaginesi rifiutarono. Roma pretendeva che gli abitanti
di Cartagine lasciassero la città per sempre, e che andassero ad abitare a non
meno di 80 stadi (15 chilometri) dal mare, la stessa città sarebbe stata
distrutta.
La città si preparò a resistere, mentre gli italici e gli ambasciatori che
si trovavano a Cartagine vennero uccisi dalla folla inferocita.
Roma non
attaccò subito Cartagine, sicura del successo di un eventuale assedio e
impegnata, in quel periodo, su più fronti. La città potè riorganizzarsi.
Asdrubale venne graziato e il suo esrcito chiamato a far parte della guardia
cittadina, vennero forgiate armi, rinforzate le mura e fatta scorta di
provviste.
Quando l'esercito romano si decise a muovere l'esercito, si trovò davanti
ad una città arroccata. Dopo due anni di assedio, ancora non si era giunti a
nessun risultato. Nel 149 a.C. era morto Massinissa, che non potè dare così
alcun aiuto.
Nel 148 a.C., a capo dell'esercito, fu chiamato il capace Publio
Cornelio Scipione Emiliano, figlio di Lucio Emilio Paolo, il vincitore di Pidna,
e figlio adottivo di Scipione l'Africano.
Come sempre nei casi di lungo assedio, Emiliano epurò l'esercito dalle
prostitute e diede una scossa all'eccessivo rilassamento che si era creato nelle
sue file. Nel 147 riuscì a sconfiggere definitivamente gli eserciti campali
cartaginesi e isolare così la città, impedendone i rifornimenti. La sua caduta
era ormai vicina.
Caduta e distruzione
Nella primavera del 146, la città era ormai allo stremo, i suoi abitanti
morivano di fame. I romani penetrarono oltre le mura senza quasi incontrare
resistenza, e cominciarono a condurre una dura battaglia casa per casa, settore
per settore, abbattendo muri e entrando dai tetti.
Dopo 6 giorni e 6 notti di combattimenti, i romani isolarono 50.000
abitanti sull'altura di Byrsa. Invocando pietà, essi si arresero e vennero fatti
schiavi, tranne 300, in gran parte disertori romani, che vennero bruciati
assieme alle costruzioni.
Malgrado Emiliano volesse risparmiare la città, il senato ne ordinò la
distruzione dalle fondamenta, sulla terra vennero tracciati solchi con l'aratro
e venne dichiarato il luogo maledetto. Era il 146 a.C.
Stessa sorte toccò alle città che avevano sostenuto la ribellione, Utica
venne risparmiata perchè arresasi fin dall'inizio. Il territorio Cartaginese
divenne la nuova provincia dell'Africa, mentre agli eredi di Massinissa vennero
fatte concessioni territoriali.
Si chiudeva così definitivamente uno scontro iniziato quasi 120 anni prima.
Cartagine era stata annientata, l'Egeo era sotto controllo romano (si vedano gli
eventi in Grecia dello stesso anno e la ditruzione di Corinto), il Mediterraneo
era ormai libero da concorrenti.
La situazione spagnola dopo la II° guerra punica
Come si ricorderà, la seconda guerra punica era stata combattuta anche sul
suolo iberico, e parte di esso, la zona meridionale in particolare, era stato
conquistato dai romani.
Attorno al 197 a.C. i territori erano stati divisi in
due provincie, le prime di Roma al di fuori dei suoi confini: la Hispania
citerior, comprendente la fascia costiera ad est dal basso corso dell'Ebro fino
a Carthago Nova e la Hispania superior, che occupava la zona a sud-ovest. Le due
provincie erano state affidate a due pretori con ampi poteri e con carica
biennale.
Le popolazioni iberiche al di fuori del dominio romano, la maggioranza,
erano ostili agli occupanti, e già fu necessario inviare, nel 195, l'energico
console Marco Porcio Catone (lo stesso che predicava la distruzione di
Cartagine) per sedare una prima grande rivolta.
Verso il 170 fu pretore della Spagna citeriore Tiberio Sempronio Gracco,
che alla severità militaresca accompagnava un abile politica di distensione,
diventanto popolare tra le popolazioni spagnole (fece in modo di far entrare la
nobiltà celtibera nell'esercito romano, e fondò nuove comunità cittadine).
Questo permise a Roma di mantenere una relativa pace per circa vent'anni.
La rivolta dei lusitani
Nel 154 a.C. la pace si spezzò. Una serie di comandanti romani iniqui e
crudeli incoraggiò la rivolta che partì dalle terre lusitane (l'antico
Portogallo) e si allargò ai celtiberi (zona centrale dell'Iberia). La rivolta
era comandata da un abile comandante lusitano di orgini popolari di nome
Variato.
La rivoltà si prolungò per ben otto anni, durante i quali i romani furono
costretti a mandare annualmente un console in Spagna, senza impedire di venire
ripetutamente sconfitti.
Nel 139, mentre Roma si apprestavano a sottoscrivere
la pace, Variato venne ucciso nella sua tenda, da alcuni traditori pagati dagli
stessi romani. L'insurrezione, mancato l'uomo guida, a poco a poco si
spense.
La caduta di Numanzia
Ma i guai per Roma non si limitavano alla rivolta dei lusitani, fin dal 142
Cecilio Metello combatteva nel nord dell'Iberia e aveva conquista gran parte dei
territori, ad eccezione di alcune città: tra queste la più importante era
Numanzia, a sud del medio corso dell'Ebro. Nel 137 a.C., un grande esercito al
comando del console Caio Ostilio Mancino fu circondato e costretto ad
arrendersi, e per altri quattro anni la situazione non ebbe sviluppi
significativi.
Nel 133 a.C., Roma decise di inviare nella regione Publio Cornelio Scipione
Emiliano, l'eroe dell'ultima guerra punica ed esperto in assedi. Come era già
successo in Africa, Emiliano restituì la disciplina e il vigore alle truppe e
cominciò ad assediare Numanzia con una doppia linea di fortificazioni. Come
sempre la città fu vinta riducendola alla fame. I suoi abitanti furono fatti
schiavi e la città distrutta.
Con la caduta di Numanzia i romani posero fine alle rivolte ed estero il
loro dominio in Spagna alle regioni del nord. Fu il termine del primo periodo di
espansione che vide i romani acquisire una netta supremazia nel Mediterraneo
trasformando profondamente le attitudini di una stato che fino a un secolo e
mezzo prima estendeva i suoi domini alla sola Italia.
Situazione della società e dell'economia romana
nel periodo delle grandi
conquiste
Il secolo di grandi conquiste che aveva visto Roma dominare al di fuori dei
confini italici aveva portato grandi cambiamenti nella società e nell'economia.
Ogni vittoria portava un bottino, sia monetario che umano: grandi quantità di
schiavi affluivano sui mercati facendone crollare il prezzo, nelle ricche
provincie conquistate esattori in appalto accumulavano grandissime ricchezze.
L'economia romana, che prima delle conquiste era prevalentemente rurale,
cominciò a dedicarsi maggiormente al commercio marittimo.
La classe dirigente senatoriale, l'oligarchia che di fatto governava Roma
fin dalla nascita della Repubblica e che in passato aveva fatto della austerità
il suo simbolo (in contrasto con l'abitudine al lusso dei greci), cominciò a
venire a contatto con la ricchezza e si abituò piuttosto in fretta al nuovo
clima di abbondanza.
I vertici del potere romano, ritenendosi giustamente i principali fautori
delle fortune della nazione, avevano ridotto le assemblee popolari a mere
spettatrici delle loro decisioni, i tribuni e gli strumenti di potere del popolo
avevano delegato completamente il potere ai senatori (si ricordi che due delle
più cocenti sconfitte della seconda guerra punica, quella del Trasimeno e
soprattutto quella di Canne, furono colpa di consoli plebei e che dopo tali onte
l'oligarchia patrizia aveva preso in mano la situazione, con il consenso della
popolazione che non osava più avanzare pretese).
Questo contrastava con il peggioramento delle condizioni della plebe:
l'allargamento dell'ager publicus, ovvero del terreno di proprietà statale
acquisito in occasione delle innumerevoli vittorie su suolo italico, non
comportò un conseguente miglioramento per i contadini perché lo stato preferiva
vendere o affittare ai più ricchi, cosa che alla fine erose la piccola proprietà
a scapito dei latifondisti, i quali avevano gli schiavi come forza lavoro a buon
mercato.
Si aggiunga a questo che all'epoca l'arruolamento nell'esercito era in base
al censo, e al crescente bisogno di soldati si contrapponeva l'impoverimento
della popolazione.
I contandini arruolati, lungi dal trovare una ricompensa
al loro ritorno, spesso si trovavano senza più terra e senza più una
casa.
Inoltre si stima attorno ai 100.000 caduti il prezzo delle guerre nel
secolo delle conquiste, ovvero circa 100.000 famiglie già allo stremo che
perdevano il capo famiglia o la forza lavoro. In questa situazione i ricchi
latifondisti avevano gioco facile a confiscare il terreno in forza dei debiti
contratti dalle povere famiglie.
Questa situazionie portò le campagne a spopolarsi, e grandi masse di poveri
affluire nelle vicinanze delle città per cercare lavori di fortuna. Ovviamente
questa grande massa di disperati costituiva una potenziale fonte di instabilità,
la società romana avrebbe dovuto affrontare di lì a poco le conseguenze di un
forte squilibrio sociale tra la ricca classe dirigente e la povertà di una plebe
sempre più vasta.
Il circolo degli Scipioni, la famiglia dei Gracchi
Nell'ambito della politica romana di quel periodo, aveva acquisito sempre
più prestigio e potere il circolo degli Scipioni: questi erano un gruppo di
persone che discendevano politicamente, e spesso anche in via parentale, da
Scipione l'Africano e dal suo modo di intendere la politica.
Scipione, seppur
militarista, fu da sempre attento alle istanze della popolazione e all'idea che
la forza di Roma poggiasse soprattutto sul benessere della sua base sociale,
ovvero i contadini, che costituivano anche la prima fonte di approviggionamento
per l'esercito. Si poteva definire una forma democratica di gestione del potere,
opposta a quei circoli che invece predicavano il mero militarisimo brutale della
conquista e della distruzione. Per Scipione, anche in politica estera era
importante creare equilibrio che evitasse l'ostilità aperta (si prenda come
esempio il fatto che nella seconda guerra punica abbia garantito l'esistenza di
Cartagine invece di sottometterla definitivamente).
Fu all'interno di questa corrente politica che si formò una famiglia molto
importante per l'apporto che diede alle vicende immediatamente seguenti le
conquiste.
Tiberio Sempronio Gracco, già pretore in Spagna, dove si distinse
per la giustezza del suo operato (si veda il capitolo sulle rivolte in Spagna),
aveva sposato Cornelia, la figlia di Scipione l'Africano. Di dodici figli ne
sopravvissero però solo tre: Tiberio, Caio e Sempronia, poi sposatasi con
Scipione Emiliano, vittorioso a Cartagine e a Numanzia.
Divenuta presto vedova, Cornelia dedicò la propria vita ai figli,
rifiutando anche una proposta di matrimonio di Tolomeo IV d'Egitto. Questo
episodio evidenzia il prestigio e la popolarità che in quel periodo godeva anche
fuori dai confini di Roma la figlia di Scipione.
Ai suoi figli diede una
esemplare educazione greca, come maestri ebbero Diofane di Mitilene e il
filosofo di scuola stoica Blossio di Cuma e furono così sensibilizzati alle idee
democratiche e "progressiste".
La riforma agraria di Tiberio
Nel 134 a.C. Tiberio divenne tribuno della plebe. Il suo cavallo di
battaglia era stata la sua idea di riforma agraria.
I punti della riforma agraria di Tiberio erano sostanzialmente tre:
1. Ampliamento della precedente legge agraria Licinia-Sestia (tra l'altro,
di fatto caduta in disuso da molto tempo). Ai proprietari terrieri statali (ager
publicus) veniva garantito un limite non più di 500 jugeri (125 ettari) ma di
1.000 (250 ettari). La base era di 500 jugeri più 250 jugeri per ogni figlio, ma
comunque il limite restava sempre 1.000.
2. L'ager publicus che non sarebbe stato assegnato perchè in avanzo,
sarebbe stato riassegnato allo stato, che si sarebbe incaricato a redistribuirlo
in piccoli appezzamenti di 30 jugeri ai più poveri, a titolo di affitto
ereditario e senza possibilità di venderlo a terzi che non fossero i legittimi
eredi. Questa norma andava nella direzione di impedire che i latifondisti più
abbienti si impadronissero selvaggemente dei piccoli appezzamenti rovinando così
la piccola proprietà.
3. La costituizione di una commissione di tre persone plenipotenziarie
incaricate di attuare la riforma, elette da una assemblea popolare e
rieleggibili annualmente.
Ovviamente la riforma incontrò l'ostilità del senato che cercò di mettergli
contro anche un altro tribuno, Ottavio (lui stesso proprietario terriero), che
pose il suo veto alla legge. Dopo aver convinto il popolo che un tribuno non
poteva ostacolare decisioni in favore della plebe, Tiberio fece in modo di
destituire Ottavio ottenendo così l'apprivazione della legge che passò con il
nome di lex Sempronia (133 a.C.). Con l'approvazione Tiberio aveva forzato la
prassi fin lì rispettata che non aveva mai visto i comizi tribuni legiferare,
malgrado fosse previsto dalla legge.
Assassinio di Tiberio Gracco
Come attuatori della riforma Tiberio scelse due persone di fiducia oltre a
se stesso: il suocero Appio Claudio, e suo fratello Caio.
Minacciato di morte e dovutosi procurare una scorta armata (mentre già
larga parte della popolazione era già disposta a venire alle mani con gli
scherani foraggiati dai senatori più conservatori), TIberio propose di
confiscare le entrate tirbutarie della nuova provincia d'Asia (l'ex regno di
Pergamo annesso come provincia nello stesso anno) per sovvenzionare l'acquisto
degli strumenti di lavoro per i proprietari meno abbienti (spesso i poveri
indicati dalla legge erano in realtà del tutto nullatenenti).
Il limite di sopportazione del senato era sempre più esiguo. Il
protagonismo e l'attivismo esasperato di Tiberio, la sua determinazione,
rischiava di spostare gli equilibri politici a scapito dell'antica
dirigenza.
Il culmine si toccò quando Tiberio volle forzare ancora una volta la prassi
e presentarsi per la rielezione a tribuno dell'anno successivo. Sebbene in
passato alcuni tribuni fossero stati eletti per due anni di fila, per
contrastare il pericolo che costituiva Tiberio e la sua legge, il senato prese a
pretesto il fatto per accusare il tribuno di tendenza alla tirannide.
L'aristocrazia senatoriale decise di passare alle maniere forti. Riuniti un
gran numero di sostenitori sul luogo dove si tenevano le assemblee popolari e
dove Tiberio doveva presentare la sua rielezione, riuscirono a rinviare di un
giorno l'assemblea.
Il giorno dopo anche i partigiani di Tiberio si erano
riuniti attorno al loro rappresentante. Mentre l'assemblea popolare era in corso
di svolgimento, la folla che stava con gli aristocratici, fomentata dal
pontefice Scipione Nasica (sacerdote di un tempio lì vicino dedicato alla dea
Fides) si gettò su Tiberio e la sua fazione. Lo stesso Tiberio e 300 dei suoi
uomini morirono e vennero gettati di notte nel Tevere (era il 133 a.C.).
Situazione dopo l'assassinio di Tiberio
Il periodo che seguì l'assassinio di Tiberio fu naturalmente travagliato.
Sull'onda dell'accaduto il senato e le sue ale più estreme ordinarono violente
epurazioni degli oppositori e dei sostenitori di Tiberio (lo stesso Diofane di
Mitilene fu condannato, mentre il filosofo Blossio riuscì a fuggire).
Tuttavia l'iniziale foga reazionaria non impedì il proseguimento
dell'attuazione della legge agraria, al posto di Tiberio, nei triumviri, fu
eletto Publio Licinio Crasso, che di lì a poco morì, come il suo collega Appio
Claudio. Al loro posto, oltre a Caio Gracco, furono eletti Marco Fulvio Flacco e
Caio Papirio Carbone.
La legge agraria proseguiva con difficoltà: finita la distribuzione dei
terreni dei quali era certa la proprietà, cominciarono lunghe dispute legali
relative a quei terreni che non avevano ben chiara l'origine. A questo si
aggiunga che spesso, questi terreni contestati, appartenevano in parte agli
alleati di Roma, e un eventuale esproprio avrebbe anche potuto creare lo
scioglimento delle alleanze.
Nel 129 a.C., Scipione Emiliano, marito della sorella di Caio Gracco, fece
in modo di togliere i poteri al triunvirato per assegnarli al solo console Caio
Sempronio Tuditano. Questo era stato fatto per agevolare gli interessi degli
alleati italici e per impedire che le dispute sui loro terreni non creassero
inconvenienti politici. In realtà pare, da alcune fonti, che la commissione dei
triumviri avesse continuato fino al 125 a svolgere il proprio
operato.
Scipione morì di li a poco in circostanze misteriore nel suo letto.
Alcuni vollero vederci un assassinio, forse tramato dalla moglie e dalla madre
Cornelia, sostenitrice della riforma ideata da suo figlio TIberio, ma
probanilmente Scipione morì di cause naturali.
Ma l'eventualità di estendere la cittadinanza romana anche agli alleati
italici (ovvero la possibilità di risolvere le questioni dei terreni disputati
cancellando la differenza tra ager publicus e territorio italico) creò nuovi
malumori tra i senatori e i possidenti più abbienti (l'enstensione della
cittadinanza avrebbe aumentato ancora di più gli aventi diritto a un pezzo di
terreno). Quando la proposta avanzata da Fulvio Flacco fu bocciata, tra gli
alleati italici vi furono insurrezioni, soprattutto a Fregelle (nella valle del
Liri). La questione fu risolta dal pretore Lucio Opimio che distrusse la
città.
Caio Gracco tribuno e sue riforme
Nel dicembre del 124 a.C. il fratello di Tiberio, Caio, riuscì a farsi
eleggere tribuno della plebe. La sua fama si appoggiava a quella del fratello,
il suo favore tra il popolo era indiscusso (era membro storico della commissione
agraria) e di lì a poco sarebbero venute alla luce le sue grandi doti
politiche.
Furono tre le riforme più importanti di Caio:
La lex agraria. Caio riprese ed ampliò la legge agraria del fratello,
restituendo ai triumviri i pieni poteri sottratigli da Scipione Emilio e, per
incentivare il coinvolgimento di tutti gli strati meno abbienti, abbinò alla
riforma un ampio progetto di opere pubblliche, soprattutto strade.
La lex frumentaria. Per assicurarsi l'appoggio della plebe in modo
definitivo fece approvare una legge che consentiva ai magazzini pubblici della
città di distribuire il grano alla metà del prezzo di mercato, cosa che fu molto
gradita dal popolo, ma che alla lunga avrebbe provocato la caduta del prezzo del
grano sull'intero mercato nazionale.
La lex judiciaria. Con la legge giudiziaria Caio sottrasse ai senatori il
potere giudiziario. Fino ad allora i tribunali erano in mano ai senatori, che
potevano sfruttare così la loro influenza politica per determinare il corso dei
processi. Caio assegnò il potere giudiziario agli equites (cavalieri), ossia a
quel ceto sociale patrizio che non esercitava la politica per scelta personale .
Pur essendo ricchi e quindi vicini ai senatori per interessi, gli equites
garantivano quel minimo di imparzialità lontana dalla politica richiesta dalla
natura del loro compito.
Con queste leggi il potere di Caio Gracco si rafforzò a tal punto che il
senato sembrava quasi tagliato fuori dai giochi, un potere fondato sul consenso
popolare che gli permise, senza che nessuno osasse contraddirlo, di proporre la
sua rielezione a tribuno per l'anno successivo.
Legge sulle colonie
e sull'estensione della cittadinanza agli
italici
Il problema più assillante era comunque l'esaurimento delle terre da
distribuire. Per ovviare a questa situazione Gracco propose, tra la fine del 123
a.C. e l'inizio del 122, due altre riforme: una legge che approvasse la
costituzione di nuove colonie latine sul suolo italico e anche estero (cosa del
tutto nuova) e un'altra riforma che consentisse di estendere la cittadinanza
romana a tutti i popoli italici alleati.
Nel periodo di Gracco furono fondate quattro colonie: una nel Bruzio
(Minerva), una vicina a Taranto (Neptunia) e una forse nei pressi di Capua. La
quarta colonia fu deciso di fondarla su territorio cartaginese: malgrado il
suolo fosse stato maledetto, Caio riuscì ad ottenere una rogatoria. La colonia
venne chiamata Giunonia.
L'estensione della cittadinanza agli italici vide invece una sorta di gioco
al rialzo istigato dagli oppositori stessi di Caio. Per contrastare la
popolarità di Caio, un tribuno suo oppositore (fomentato dal senato), decise di
presentare due proposte di legge eclatanti: fondare 12 nuove colonie sul suolo
italico composte da 3.000 uomini ciascuna e abolire ogni possibilità di
punizioni corporali che i capi spedizione potevano infliggere ai coloni. Questa
legge fu accolta con gran favore dalla plebe che la votò e la approvò (lex
Livia).
La plebe di cittadinanza romana non vide più di buon occhio il fatto che
anche gli altri cittadini italici potessero usufruire degli stessi diritti e
così si cominciarono ad esasperare i toni dello scontro, dividendo al suo stesso
interno il fronte popolare.
Morte di Caio Gracco e fine delle riforme
Nel 122 a.C. Gracco partì alla volta della colonia di Giunonia assieme al
collega Fulvio Flacco. La sua partenza permise all'opposizione di organizzare
una diffusa rivolta contro il suo operato.
L'opposizione cominciò a mettere in giro le voci di una presunta
recrudescenza degli eventi nefasti a Giunonia e diffuse il timore che la nuova
colonia potesse diventare una concorrente dei romani nel Mediterraneo.
Dall'altro lato si spingeva sempre più per contrapporre il sentimenti della
plebe romana a quelli degli altri italici. Si diceva che gli italici, una volta
presa la cittadinanza, avrebbero occupato i posti migliori dell'amministrazione
e dell'economia romana.
Quando Caio ritornò non potè impedire a Fulvio
Flacco, su proposta del senato, di allontanare tutti i non-cittadini dalla
città. Era il segno della nuova debolezza di Caio, il quale non era più sicuro
di poter essere rieletto e non controllava nemmeno più i componenti della sua
fazione.
Finito il tribunato di Caio nel dicembre del 122, il senato decise di
accellerare le sorti dello scontro. I nuovi consoli, per conto dei senatori,
decisero di smantellare la colonia di Giunonia, giudicata ormai gravata dallo
sfavore degli dei.
Come era già successo per Tiberio, le due fazioni si riunirono al
Campidoglio. I popolari, armati, si erano riuniti per decidere sulla sorte della
colonia, gli aristocratici, anch'essi armati e comandati dal tribuno
filo-senatoriale Lucio Opimio (lo stesso che aveva distrutto Fregelle)
occuparono il tempio di Giove.
Un partigiano di Gracco uccise una guardia di
Opimio, colpevole di avere ingiuriato i popolari. Il cadavere fu portato al
senato, che decise di conferire ad Opimio poteri speciali per ristabilire
l'ordine.
Nel frattempo Gracco, Flacco e i suoi erano stati chiamati di fronte al
senato per rendere conto dell'incidente, ma timorosi della sorte che sarebbe
loro toccata, decisero di occupare l'Aventino. Malgrado i popolari avessero
proposto di risolvere la questione senza spargimenti di sangue, Opimio decise di
attaccare il colle: Flacco e suo figlio morirono, Caio si lussò una gamba e
implorò il servo di ucciderlo per non cadere in mani nemiche. Le teste di Caio e
Flacco furono gettate nel Tevere, mentre nei giorni successivi furono uccisi
3.000 partigiani popolari (era l'inizio del 121 a.C.).
Con l'uccisione di Gracco e l'epurazione nelle sue file finirono anche le
riforme. La riforma agraria sarebbe finita nel 119, con lo scioglimento della
commissione, nessuna terra sarebbe stata più redistribuita. Il senato aveva
sconfitto i nemici popolari.
Corruzione politica diffusa e rilassamento dell'esercito
Dopo la morte di Caio Gracco, il senato e l'oligarchia aristocratica
presero in mano le sorti dello stato (l'opposizione non riuscì a risollevarsi
per almeno una decina d'anni).
Il potere degli oligarchi non si fondava più
sulle mere capacità politiche e amministrative, ma soprattutto e prevalentemente
sulla corruzione, il nepotismo e l'esercizio incontrollato del potere di casta.
Il potere indipendente dei cavalieri fu "ammorbidito" e piegato con la
corruzione, senato e magistratura ormai "lavoravano" in coppia perseguendo gli
stessi interessi.
Gli effetti della corruzione politica ebbero ripercussioni anche
sull'esercito. Roma doveva ormai gestire un ampio territorio all'estero, e il
piccolo esercito romano, fondato sull'arruolamento per censo e sulla ferma
temporanea di contadini ormai ridotti allo stremo, era sempre meno numeroso e
sempre meno efficiente. Spesso si assisteva a defezioni e diserzioni dei
soldati, che si abbandonavano sempre più alle violenze e al saccheggio, mentre
tra le file dell'esercito albergavano stabilmente mercanti, servi e prostitute.
Era il segno di una indisciplina e di un rilassamento generale che ben presto
avrebbe intaccato sul campo l'immagine vincente delle guarnigioni.
Giugurta
I problemi dell'esercito si resero evidenti quando si trattò di contrastare
uno dei pretendenti al trono della Numidia, Giugurta. Nel 118 a.C. morì Micipsa,
figlio di Massinissa, che lasciò in eredità il regno ai figli Aderbale, Iempsale
e al nipote Giugurta. Il problema consisteva nel fatto che Micipsa non aveva
previsto una divisione del territorio e inevitabilmente cominciarono le dipsute
tra i tre beneficiari.
Il più agguerrito e dotato dei tre era Giugurta. Quando Marco Porcio Catone
divise arbitrariamente il territorio con il pretesto di pacificare la situazione
ma con l'intenzione di creare ulteriori dissensi tra gli eredi, Giugurta
protestò e si ribellò. Fu il mandante dell'uccisione, di Iempsale, nel 117 a.C.
Aderbale invase allora il territorio di Giugurta ma venne sconfitto, quindi si
rifugiò a Roma dove chiese aiuto.
Giugurta mandò un'ambasciata carica di doni per le alte cariche dello stato
romano, e conseguenza di ciò fu la decisione, da parte di una commmissione
senatoriale guidata da Opimio, di dividere il territorio numida in due parti e
perdonare l'aggressore: la parte occidentale, che includeva la capitale Cirta,
andò ad Aderbale, la parte orientale a Giugurta.
Ma nemmeno questa divisione lo accontentò. Nel 113 a.C. invase il regno di
Aderbale e assediò Cirta. La capitale della Numidia era abitata da molti
mercanti italici, quando Aderbale chiese aiuto a Roma, questa mandò sul posto
due commissioni. Giugurta ancora una volta ricorse alla tecnica della corruzione
e così riusci a fare reimbarcare i delegati romani senza che questi avessero
fatto nulla.
A questo punto, su insistenza dei mercanti italici che ormai
erano allo stremo, Aderbale consegnò la città a Gugurta a condizione di
risparmiare la popolazione. Giugurta non tenne fede al patto e uccise ogni
abitante armato (tra i quali molti italici), mentre Aderbale venne
crocifisso.
Roma dichiara guerra
Giugurta aveva oltrepassato il limite. Roma decise di dichiarargli guerra
(111 a.C.).
Ma pur battendo Giugurta sul campo, il console L. Calpurnio
Bestia, dopo essere stato corrotto per una cifra esigua dallo sconfitto,
concesse la pace e permise a Giugurta di mantenere il regno.
A Roma i circoli democratici, opposto agli ottimati (il ceto aristocratico
senatoriale, da optimus, ottimo), protestò vivacemente e cercò di rialzare la
testa dopo anni di scarsa incisività. Un tribuno, Caio Memmio, sostenuto dagli
equites, riuscì a trascinare Giugurta davanti a un tribunale romano... ma questi
nel frattempo aveva corrotto l'altro tribuno, che pose il veto
sull'interrogatorio.
Non contento di essere impunito in casa dei vincitori, Giugurta fece in
tempo ad organizzare l'uccisione di Massiva, un altro nipote di Massinissa
pretendente al trono che viveva a Roma, poi fuggì.
A Roma si gridava giustamente allo scandalo. Ogni limite era stato
oltrepassato. Le operazioni in Africa ripresero, ma l'esercito allo sbando e
privo di disciplina ottenne una sconfitta dietro l'altra, tanto che nel 109 a.C.
Il generale Aulo Postumio dovette subire l'onta di concedere la pace su promessa
di evaquare il territorio Numida per 10 anni, mentre già le tribù africane,
rinfrancate dalle vittorie di Giugurta, cominciavano a rialzare la testa.
Cecilio Metello in Africa
Roma decise di mettere fine alla farsa, una volta per tutte. Fu inviato in
Africa il capace e onorato console Quinto Cecilio Metello, uno dei pochi
oligarchi a distinguersi per la sua onestà. Il senato aveva già annullato la
pace conclusa da Aulio Postumio, e intendeva eliminare definitivamente la
minaccia giugurtina.
Giunto in Africa, Metello ridiede disciplina alle truppe ed ebbe la meglio
su Giugurta in una battaglia sul fiume Mutule (109 a.C.), riuscendo a scacciarlo
dal suo regno. Questi non ebbe altra scelta che chiedere la pace, ma Metello
questa volta non la concedette, imponendogli la resa incondizionata. A questo
punto cominciò la guerriglia, che si prolungò per tutto il 108, come, in via
straordinaria, anche il mandato di Metello.
Ascesa di Caio Mario
Nel frattempo a Roma i popolari accusavano l'ottimate Metello di prolungare
la guerra con Giugurta intenzionalmente. Saputo che il senato intendeva
prorogare i poteri di Metello ancora per il 107, per contrastarlo i popolari e
gli equites proposero come secondo console Caio Mario.
Caio Mario proveniva dagli ambienti popolari: si era distinto, da semplice
soldato, nell'assedio di Numanzia tanto da meritarsi la segnalazione di Scipione
Emiliano. Nel 119 a.C. era diventato tribuno, nel 115 fu pretore e poi
luogotenente in Spagna citeriore. La sua popolarità aumentava tra i democratici
e anche tra il popolo, era davvero un valente soldato e la sua ambizione era
quella di scalare le cariche dello stato grazie alle sue qualità militari.
Infine, Metello lo aveva portato con sé come luogotenente in Africa, e, dopo
esserci distinto nella battaglia del fiume Mutule, era praticamente diventato il
suo vice.
Durante la campagna elettorale, Caio Mario attaccò Metello ed ottenne non
solo la maggioranza dei voti, ma anche un mandato speciale per proseguire la
guerra africana al suo posto. I senatori lasciarono che organizzasse da sé il
reclutamento, con la speranza che tutto si spegnesse per l'impossibilità di
trovare soldati a sufficienza, ma Mario riuscì ad ottenere l'arruolamento
volontario di gente anche al di sotto della soglia minima di censo (fatto unico
ai tempi), e così potè partire per l'Africa.
La fine della guerra
A Metello toccò l'onta di vedere il suo ex luogotenente soffiargli il
comando delle operazioni. Mario cercò da subito di stanare Giugurta, se si fosse
impossessato del nemico anche la guerriglia sarebbe cessata.
Accadde che il re della Mauritania, Bocco, accortosi che i romani stavano
per prendere il controllo della situazione, decidesse di proporre uno scambio.
Se i romani gli avessero inviato Lucio Cornelio Silla, ai tempi questore
nell'esercito di Mario, avrebbe fatto in modo di consegnarli il genero Giugurta
(questi ne aveva sposato la figlia).
Bocco era ancora indeciso se consegnare Giugurta a Silla o viceversa, ma
alla fine la spuntò l'abilità politica ed oratoria di quest'ultimo. Silla
convise Bocco a convocare il ribelle numida facendogli credere che fosse lui a
dover essere consegnato a Giugurta.
Quando Giugurta si presentò disarmato, secondo gli accordi, i soldati di
Bocco ebbero gioco facile nel consegnarlo a Silla, che lo fece prigioniero nel
campo romano. Questo episodio segnò la fine della guerra giugurtina (105
a.C.).
Giugurta fu poi portato a Roma dove morì strangolato nel carcere Mamertino
mentre Mario celebrava il trionfo (anche se per lenire l'onta della
sostituzione, venne assegnato il titolo di Numidico a Metello). La Numidia
orientale venne data a Gauda, altro discendente di Massinissa poco pericoloso e
piuttosto incapace, la metà orientale venne consegnata a Bocco come premio per
il suo aiuto.
Riforma militare, guerre contro i Cimbri e i Teutoni
(105 - 101
a.C.)
Riforma militare di Caio Mario
Come già detto, Caio Mario aveva raccolto il suo esercito per la spedizione
in Africa affidandosi all'arruolamento volontario. Questa era il primo atto di
una più vasta riforma militare che il console riuscì a portare a compimento
attorno al 104 a.C.
Fino ad allora, l'esercito romano era stato una sorta di guardia cittadina:
i soldati erano reclutati in base a un censo minimo fra la vasta popolazione
contandina e terminata la campagna ritornavano alle loro occupazioni
pre-belliche. Gli schieramenti sul campo di battaglia risentivano di questa
organizzazione, l'esercito era solitamente schierato su tre linee: gli astati
(fanteria popolare dotata di asta), i principi e i triari. Ovviamente, fra le
tre file, i meno addestrati erano i contadini astati, che costituivano il grosso
dell'esercito.
L'esercito di Mario era invece reclutato su base volontaria e non attingeva
solo ai cittadini romani al limite di censo, ma anche alle popolazioni italiche
alleate e ai proletari nullatenenti. I soldati erano così maggiormente vincolati
alla loro paga e alla spartizione dell'eventuale bottino di guerra, il loro
addestramento era più severo e più uniforme, indipendentemente dalla classe di
provenienza.
Dalla divisione in astati, principi e triari, si passò allo
schieramento fondato sulla coorte. Una coorte era formata da 600 uomini,
suddivisa in 3 manipoli da 200 uomini, a loro volta formate da due centurie da
100. Una legione era formata da 10 coorti (6.000 uomini). Inoltre furono
istituiti corpi scelti e altamente specilizzati, utilizzando le capacità delle
popolazioni locali (ad esempio, gli arcieri delle Baleari).
Fu migliorato anche l'equipaggiamento. La fanteria fu dotata di pilum (un
giavellotto leggero), in sostituzione dell'asta, e di gladio (spada corta a
doppio taglio e da punta) e di un pugnale. La difesa era affidata ad uno scudo
rettangolare ricurvo, mentre dopo le guerre con i Cimbri e i Teutoni si cominciò
a fare uso delle spalliere in metallo.
I legionari vennero chiamati anche "muli di Mario", poiché portavano sulle
spalle uno zaino in cui si trovava una sorta di dotazione di sopravvivenza
(trovata rivoluzionaria ai tempi) e poiché erano spesso sottoposti a marce di
addestramento e a lavori campali (nel gergo odierno si direbbero lavori da
"genieri"). In questo modo le truppe erano costantemente occupate e preparate
alla battaglia evitando così la possibilità di pericolosi rilassamenti fisici e
mentali.
La riforma, oltre che a rafforzare la macchina da guerra romana, sortì un
effetto particolare forse non del tutto previsto da Mario: con la
specializzazione dell'esercito e la promessa del bottino di guerra, gli eserciti
si vennero a legare sempre di più alla figura del proprio comandante, che poteva
disporre così di un gruppo di uomini armati fedeli e allettati dalle promesse di
bottino e di gloria, aspetto che di fatto indebolirà sempre di più il potere
civile in favore di quello militare (la storia imperiale è infatti storia di
generali diventati talmente potenti da cancellare il potere della classe
senatoriale).
I Cimbri e i Teutoni
Le potenzialità del nuovo esercito di Mario furono messe subito alla prova
da una serie di guerre contro i Cimbri e i Teutoni. Erano, questi due popoli,
due tribù germaniche provenienti dal nord che fin dal 113 a.C. si erano
affacciate ai confini alpini.
Erano popolazioni barbariche nomadi, la loro
lunga carovana comprendeva donne e bambini, e gli uomini erano conosciuti per il
furore e per il disprezzo della morte che mostravano in battaglia.
Per primi i Cimbri, nel 113, avevano sconfitto un esercito romano comandato
da Gneo Papirio Carbone che, sottovalutandoli, li aveva attirati in
un'imboscata. Nonostante la vittoria i Cimbri non penetrarono in Italia ma
oltrepassarono il corso del Reno fino all'alto corso del Rodano, dirigendosi ad
ovest. Contemporaneamente erano apparsi i Teutoni. Nel 109 a.C. questi
sconfissero il console Marco Giunio Silano, inviato ai confini, fino in Gallia,
per attaccarli.
Nemmeno i Teutoni mostrarono l'intenzione di invadere l'Italia, fino al 105
a.C., quando fu inviato per respingerli un esercito romano al comando di due
generali in disaccordo fra loro (Gneo Mallio Massimo, popolare, e Quinto
Servilio Cepione, nobile). Cepione, essendo proconsole, era tecnicamente un
sottoposto di Massimo, e non voleva eseguire gli ordini di colui che non
riteneva al suo stesso livello nobiliare. Conseguenza di ciò fu la rovinosa
sconfitta di Arusio (Orange), dove i due eserciti romani furono sconfitti uno
dopo l'altro.
Pur avendo vinto, i barbari non invasero comunque l'Italia, preferendo
saccheggiare la terra degli Averniati (svizzeri). In seguito i Cimbri si
diressero verso la Spagna del nord, dove incontrarono la forte opposizione dei
Celtiberi, mentre i Teutoni si stabilirono nella Gallia settentrionale.
Aquae Sextiae: massacro dei Teutoni
La sconfitta di Arusio dette nuova forza al fronte democratico interno:
Massimo e Cepione furono condannati, mentre Mario, reduce dal trionfo su
Giugurta, fu rieletto di nuovo console e immediatamente mandato sul Rodano (104
a.C.).
Nel 102 a.C. i due popoli barbarici si riunirono nuovamente con
l'intenzione, questa volta molto seria, di invadere l'Italia. I Cimbri,
contrastati dai Celtiberi, si erano uniti in Gallia con i Teutoni, assieme
avevano attaccato i Belgi, ma erano stati ricacciati. Il piano era il seguente:
i Teutoni avrebbero invaso l'Italia da occidente (attraverso la costa ligure),
mentre i Cimbri da oriente.
Mario, che si trovava a Roma, fu prontamente richiamato verso il confine
occidentale, mentre Quinto Lutazio Catulo si diresse col suo esercito ad
oriente, per contrastare i Cimbri.
Il primo scontro lo ebbe Mario contro i Teutoni. Attestatosi con il suo
esercito di 30.000 uomini in un campo fortificato presso l'Isère, in una
posizione strategica dalla quale poteva controllare i valichi sia alpini che
costieri, Mario subì per tre giorni l'assalto teutonico, senza però cedere alla
tentazione di attaccare il nemico di gran lunga superiore numericamente (la
tribù barbara contava oltre 100.000 uomini). I Teutoni decisero così di aggirare
la fortificazione romana e per altri sei giorni le guarnigioni assistettero
all'esodo della tribù che lanciavano contro di loro ingurie ed urla
feroci.
Appena terminato l'esodo, Mario lasciò il campo e cominciò ad inseguire i
Teutoni utilizzando alcune scorciatoie che gli permisero di superare i barbari
all'altezza di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence, a nord di Marsiglia), dove si
accampò di nuovo. L'avanguardia teutonica, costituita dalla tribù degli Ambroni,
non aspettandosi il grosso dell'esercito nemico che aveva appena lasciato alle
spalle e credendo di trovarsi di fronte a guarnigioni di importanza secondaria,
attaccò.
L'esercito di Mario sbaragliò gli Ambroni e sterminò due giorni dopo quel
che restava dei Teutoni. Circa 100.000 guerrieri nemici caddero in battaglia,
mentre le loro donne, uccisi prima i loro figli, si suicidarono in massa. La
prima invasione venne così respinta.
A favore dei romani avevano giocato, oltre alle abilità militari del nuovo
esercito, l'effetto sorpresa e le qualità strategiche superiori del proprio
comandante, che aveva scelto la posizione di battaglia più elevata, cosicchè i
Teutoni si trovarono ricacciati a valle e definitivamente sterminati da un
ulteriore contingente nemico di 3.000 uomini che Mario si era premunito di
mandargli alle spalle.
Campi Raudii : stessa sorte per i Cimbri
Nel 102 a.C. anche i Cimbri erano penetrati da oriente nella Gallia
Cisalpina. Il console Catulo non era riuscito a contrastarne l'avanzata sul
fiume Adige e aveva preferito ritirarsi ed aspettare il suo collega Mario. I
Cimbri, in sostanza, occupavano indisturbati la pianura padana a nord del Po,
mentre a sud, sfruttando il confine naturale tracciato dal corso del fiume, si
era attestato Catulo in attesa.
Per tutto l'inverno del 102-101 a.C. le posizioni non si erano mosse. Mario
fece in tempo a tornare a Roma per essere rieletto ancora una volta console e
poi si diresse verso l'accampamento di Catulo per ricongiungere i due
eserciti.
La battaglia decisiva si ebbe nel 101 a.C. ai Campi Raudii (per alcuni
verso Vercelli, per altri verso Ferrara). Sfruttando ampiamente la cavalleria,
Mario diresse personalmente l'attacco che vide la sconfitta dei Cimbri. Oltre
65.000 barbari morirono, i sopravvissuti furono fatti prigionieri, oltre a ciò
si aggiunse l'ulteriore tragedia del suicidio in massa delle donne e dei loro
figli, analoga a quella dei Teutoni. Anche i Cimbri erano stati annientati, le
frontiere a nord erano ormai sicure.
Saturnino e Glaucia
(104 - 100 a.C.)
Saturnino e Glaucia - Fronte comune democratico - Legge agraria di
Saturnino -
Uccisione di Saturnino
Saturnino e Glaucia
Sul fronte interno, con il rafforzarsi della figura di Mario, anche il
partito democratico aveva rialzato la testa a scapito di quello aristocratico.
La sorte dei due schieramenti politici era infatti sempre legata alle fortune
dei singoli generali impegnati nelle battaglie di conquista. L'occupazione
prevalente del partito democratico era quella di accusare e giudicare i molti
condottieri incapaci e corrotti che provenivano dalla classe aristrocratica di
quel periodo, forti dei successi e della gran popolarità raggiunta dal loro
"condottiero di punta".
Oltre a Mario, all'interno del partito democratico si stavano facendo largo
altri due personaggi: Lucio Apuleio Saturnino e Caio Servilio Glaucia.
Saturnino proveniva dalla classe aristocratica, ma era passato ai
democratici in seguito a dissensi con il senato, che lo aveva destituito dalla
carica di questore di Ostia, dove si occupava della gestione del rifornimento
del grano. Il suo antagonismo alla classe senatoriale era quindi dettata da
forti motivi personali.
Glaucia proveniva invece da ambienti prettamente popolari, era un plebeo,
piuttosto energico, buon oratore e che godeva di grande popolarità grazie alla
sua presenza di spirito e all'intelligenza acuta.
Nel 104 a.C. Glaucia fu eletto tribuno della plebe. A lui si deve la lex
Servilia judiciaria, che ripristinava il potere giudiziario degli equites, messo
in discussione nel 106 da quel Cepione che poi venne sconfitto ad Arusio, e la
lex Servilia repetundarum, che rendeva i procedimenti nelle cause di corruzione
più severi.
Nel 103 a.C. fu invece Saturnino ad essere eletto tribuno, appoggiato
fortemente da Caio Mario. Probabilmente è dello stesso anno la lex Apuleia de
majestate, la legge "sulle offese alla grandezza del popolo romano". Con questa
legge si rendeva perseguibile penalmente qualsiasi persona che avesse recato
danno al popolo di Roma attraverso il suo comportamento, in pratica si poteva
punire chi perdeva una battaglia e chiunque si fosse opposto a qualsivoglia
legge fatta in favore del popolo. Era, questa, una legge molto sfavorevole agli
ottimati, che potevano così essere messi sotto processo per ogni eventuale
obiezione politica o sconfitta sul campo di battaglia.
Fronte comune democratico
Il potere di Saturnino e Glaucia fu definitivamente rafforzato nel 102 e
nel 101 a.C., al ritorno di Mario dalla campagna contro i Cimbri e i Teutoni.
Con il loro appoggio era stato eletto console nel 102, subito prima di partire
per Aquae Sextiae.
I due popolari avevano tutto l'interesse ad appoggiare la figura del
trionfante condottiero, che dava così lustro e gloria al proprio partito, mentre
Mario coltivava probabilmente il progetto di diventare dittatore militare,
facendo affidamento, oltre che sulla popolarità, sulle pressioni che potevano
esercitare i suoi veterani, una sacca di uomini affidabili sempre pronti a
venire alle mani.
Nel 101 a.C. Saturnino, Glaucia e Mario stabilirono il loro piano d'azione:
Questi puntava alla rielezione a console per la sesta volta nel 100 a.C.,
Saturnino puntava a diventare tribuno per la seconda volta consecutiva e Glaucia
pretore.
Il loro piano andò a buon fine, nonostante l'accanita opposizione
degli ottimati, grazie al gran numero di veterani accorsi al voto. Durante le
elezioni, nel generale clima di violenza incoraggiata dalla "cricca" di Mario,
uno dei candidati degli ottimati, Aulo Nunnio, fu ucciso selvaggiamente dalla
folla.
Legge agraria di Saturnino
Appena eletto (100 a.C.), Saturnino propose la sua legge agraria: essa
prevedeva la distribuzione delle terre ai veterani di Mario (coloro che avessero
servito nell'esercito per almeno 7 anni, vale a dire dalla guerra giugurtina)
nella misura di 100 jugeri e su territorio costituito esclusivamente dalle
province conquistate, da trasformare in colonie.
Il fatto era che nell'esercito di Mario servivano non solo cittadini
romani, ma anche italici. Le colonie che sarebbero state fondate avrebbero dato
automaticamente la cittadinanza romana anche a chi non l'aveva. Con un sol colpo
si univa l'idea della redistribuzione delle terre a quella dell'allargamento
della cittadinanza.
Come era ovvio aspettarsi, la legge creò notevoli contrasti. Assieme ai
senatori si schierarono gli equites, spaventati dai metodi sbrigativi e violenti
dei veterani di Mario. Anche i cittadini romani plebei si schierarono contro la
legge, come sempre contrari ad un allargamento dei diritti agli italici.
L'approvazione popolare non fu scontata. I tribuni imposero il veto, ma la
legge passò, in una città che era stata di nuovo invasa dai veterani di Mario e
anche dagli italici. I senatori dovvettero accettare la legge, spaventati dal
clima intimidatorio. L'unico che non accettò fu Metello Numidico, che fu
costretto all'esilio.
Disordini e repressione: uccisione di Saturnino
Come detto, la legge di Saturnino era un pò invisa a tutti. Il senato si
incaricò di sabotarla con ogni mezzo. Caio Mario, che come militare era assai
meglio che come politico, lasciò che della legge si occupassero i suoi colleghi
di partito più demagoghi, disinteressandosi della questione.
Il comportamento di Mario divenne ancora più equivoco quando fu tempo di
nuove elezioni. Saturnino pose la sua candidatura a tribuno per il 99 a.C. per
la terza volta, come altro tribuno si candidò un certo Equizio, che millantava
di essere figlio di Tiberio Gracco. Per il consolato si candidarono Glaucia e
l'avversario ottimate Caio Memmio. La situazione precipitò ancora una volta
quando questi venne ucciso dalla folla.
Il senato non poteva più assistere inerme alla gazzarra popolare. Decise di
investire Mario di poteri straordinari, in qualità di console, e affidargli il
compito di ristabilire l'ordine con la forza. Mario, capo carismatico del
partito popolare, sei era quindi curiosamente incaricato di ridimensionare i
candidati del suo stesso partito.
Il senato aveva mobilitato le forze armate, i senatori stessi si recarono
al Foro armi in pugno. I seguaci di Saturnino, che nel frattempo si era
proclamato re, imbracciarono anch'essi le armi, aiutati da carcerati e schiavi
liberati per l'occasione.
Nel Foro si svolse una vera e propria battaglia. I seguaci di Saturnino si
rifugiarono nel Campidoglio, dove, assediati, furono costretti ad arrendersi a
Mario, che tagliò loro le condutture dell'acqua. Scortati dallo stesso Mario
nella Curia per essere giudicati secondo legge, i capi della rivolta furono
ugualmente uccisi da un gruppo di aristocratici che si erano arrampicati sul
tetto dell'edificio e lo aveva scoperchiato. Saturnino e Glaucia morirono così
sotto i colpi delle tegole di ardesia. Era il 10 dicembre del 100 a.C.
Il senato richiamò Metello dall'esilio, ora la sua sorte sarebbe toccata a
Caio Mario. Il condottiero popolare non era certo gradito ai senatori, mentre
anche tra il popolo non godeva più di grande stima dopo che si era incaricato di
reprimere i disordini fomentati dal suo stesso partito. A Mario non restò che
recarsi volontariamente in Asia Minore, con il pretesto di recarsi lì per un
pellegrinaggio religioso (aveva fatto voto di ringraziare la "Grande madre degli
dei" durante la guerra coi Cimbri e i Teutoni).
Marco Livio Druso
(91 a.C.)
Marco Livio Druso il giovane - Le proposte di legge -
Il patto di Druso
con gli italici e suo assassinio
Marco Livio Druso il giovane
Nei dieci anni che seguirono la morte di Saturnino, il potere era stato
gestito dal senato e dagli equites, prima alleati, e poi, terminata l'emergenza,
ritornati antagonisti. Il fatto che il potere giudiziaro fosse in mano a una
classe indipendente (che di fatto costituiva il terzo polo, l'ago della bilancia
tra ottimati e democratici), aveva creato le condizioni per un nuovo uso della
giustizia a scopi politici, fatto che contrastava apertamente con lo spirito
originario per il quale i cavalieri erano stati costituiti.
Nel 91 a.C. salì agli onori della storia la figura di Marco Livio Druso,
figlio di quel Marco Livio Druso che era stato avversario di Caio Gracco, nonchè
fervente sostenitore della causa aristocratica.
Malgrado provenisse quindi da un ambiente prettamente aristrocratico, Druso
riuscì a farsi eleggere come tribuno della plebe e inaugurò una politica
piuttosto originale, che prendeva elementi della destra e del partito
democratico. Il suo scopo era restaurare l'antico potere aristocratico
fondandolo sul consenso popolare, nel tentativo di effettuare una sintesi che
avesse accontentato entrambe le parti.
Le proposte di legge
Furono tre i punti essenziali della sua politica:
1. Una legge che riguardava la giustizia. Druso, per sanare una volta per
tutte la frattura che si era venuta a creare fra ottimati e cavalieri, propose
che le commissioni giudiziare fossero dovute passare per l'approvazione al
senato, il senato stesso sarebbe stato allargato a 300 nuovi membri, da
scegliersi tra i migliori equites.
L'intento di Druso era quello di
restituire il potere giudiziario al senato e di portare dalla sua parte l'intera
classe degli equites, allettati dalla proposta di diventarne parte
integrante.
2. Una nuova legge sulla distribuzione a prezzi politici del grano e una
nuova proposta di legge agraria, nella quale si proponeva di dividere quei
territori appartenenti all'ager publicus che non erano ancora stati toccati
(questi territori si trovavano principalmente in Campania e in Sicilia). Era una
legge prettamente demagogica fatta per portare dalla propria parte la
popolazione.
3. Una legge che estendesse la cittadinanza romana agli alleati italici
(socii). Anche questa legge era ormai diventata un classico del repertorio
politico romani, come si vede, ad intervalli periodici, venne proposta da ogni
legislatore popolare, ed ora, a sorpresa, anche da Druso, che propriamente
popolare non era.
Patto di Druso con gli italici e suo assassinio
Mentre le leggi dei primi due punti passarono, malgrado l'accanita
opposizione degli equites alla legge che li riguardava, la terza proposta di
legge incontrò come sempre gli sfavori del senato.
Druso e gli alleati italici avevano stretto un accordo segreto. Il tribuno
si era impegnato attivamente per promuovere e fare approvare la legge
sull'estensione della cittadinanza ai socii, e gli alleati si erano impegnati a
costituire una sorta di fronte comune per promuovere uniti tale
concessione.
Il senato però era ovviamente allarmato da tale possibilità. Valutata
pericolosa l'eco dei legami di Druso con gli italici (del patto segreto era
evidentemente trapelato qualcosa) e considerato che da esponente ottimate si
stava trasformando in "capo popolo", i senatori abolirono le leggi con un
pretesto formale. Lo stesso Druso, di lì a poco, sarebbe stato assassinato da un
sicario sulla porta di casa (91 a.C.).
Terminava così l'ennesimo episodio della lotta interna, anche se
l'uccisione di Druso fu la scintilla che provocò la rivolta degli alleati
italici contro il potere romano.
La guerra sociale: la rivolta degli italici
(91-88 a.C.)
Sollevazione di Ascoli - I rivoltosi si organizzano - Primi anni di guerra
-
Prime concessioni di cittadinanza agli alleati - Caduta del fronte
settentrionale - Ridimensionamento del fronte meridionale
La sollevazione di Ascoli
Dopo la morte di Druso, i socii italici avevano capito che la questione
della loro cittadinanza non sarebbe più stata combattuta sul solo piano
politico. I tempi erano maturi per una rivolta generalizzata degli alleati
italici contro Roma, la lega che era stata costituita fra gli alleati a scopi
politici si tramutò in una organizzazione militare.
L'episodio che scatenò la guerra sociale accadde ad Ascoli Piceno nel 91
a.C. Il pretore Caio Servilio, venuto a sapere che Ascoli scambiava ostaggi con
le città circostanti, si recò sul luogo con un piccolo reparto. Riuniti gli
abitanti in un teatro, infiammò gli ascolani con un discorso dai toni ostili e
minacciosi. Il clima era già teso, il discorso fu la goccia che fece traboccare
il vaso: la platea assalì Servilio uccidendolo assieme al suo legato,
successivamente, tutti i cittadini romani che si trovavano in città furono
massacrati.
I rivoltosi si organizzano
La rivolta di Ascoli era il segnale che gli altri italici stavano
aspettando. Si formarono due gruppi di rivolta:
1. Il fronte settentrionale, capitanata da Marsi e Piceni, oltre ad altre
tribù satelliti quali i Peligni e i Vestini. Il capo de Marsi era Quinto
Pompedio Silone, già amico di Druso, quello dei Piceni Caio Iudacilio. Silone e
i Marsi, durante il conflitto, capitanarono le operazioni militari di questo
gruppo.
2. Il fronte meridionale, capitanata da Sanniti e Lucani, i cui capi erano
rispettivamente Caio Papio Mutilo e Ponzio Telesino. Papio Mutilo e l'agguerrita
tribù sannitica furono al comando delle operazioni militari nel sud.
Con Roma rimasero L'Umbria e L'Etruria, oltre alle colonie greche del sud
Napoli, Nola, Reggio e Taranto e le altre. Era una rivolta piuttosto pericolosa,
all'interno della penisola, nel cuore stesso della società italico-romana.
Inoltre i capi della rivolta, compresi gli uomini che avevano a disposizione,
non erano certamente degli incapaci, essendo stati addestrati alla guerra
proprio dai romani che se ne erano serviti in molte battaglie, a partire dalla
riforma di Mario.
I rivoltosi potevano disporre di una forza di circa 100.000 uomini, erano
addestrati, come si è già detto, equipaggiati con le stesse armi dei romani e
forse maggiormente dediti alla causa per la quale combattevano rispetto ai
nemici. I romani, per contro, mettevano sul piatto della bilancia lo stesso
numero di uomini e potevano contare sull'appoggio delle proprie colonie, situate
in posizioni strategiche su tutto il territorio italico.
Infine, la lega dei rivoltosi organizzò uno stato parallelo, con proprie
leggi, proprie istituzioni, propri consoli e propri senatori, perfino una
propria moneta (nella quale un toro, simbolo dei sanniti, prendeva a cornate la
lupa capitolina!). La capitale dello stato italico fu Corfinio, nella regione
dei Peligni, al centro della rivolta. Fu significamente ribattezzata
"Italica".
I primi anni di guerra
Prima di attaccare, i rivoltosi fecero un ultimo tentativo di sistemare le
cose inviando una delegazione a Roma nella quale si chiedeva la concessione
della cittadinanza in cambio della pace. Il senato rifiutò. A ribadire la
scelta, Quinto Vario, un tribuno della plebe sostenuto dagli equites, costituì
una commissione incaricata di processare i traditori della patria. Druso fu
accusato di aver innescato la rivolta degli italici, molti dei suoi sostenitori
furono condannati.
La guerra ebbe inizio nel 91 a.C., lo stesso anno della sollevazione di
Ascoli. I primi anni furono contraddistinti, per i romani, da numerosi
insuccessi. Gli italici attaccarono dapprima le fortezze, dandosi all'azione di
guerriglia, in un secondo momento cominciarono le battaglie campali vere e
proprie.
Nel sud l'esercito romano era capitanato dal console Lucio Giulio Cesare
(uno dei legati era Silla). Il tentativo di attaccare i sanniti portò ad una
rovinosa sconfitta. I Romani persero l'importante citta di Venafro, sul confine
sannitico, oltre ad arretrare in Campania, dove le città di Nola, Salerno,
Pompei, Ercolano e Stabia passarono al nemico. Anche Isernia fu costretta alla
resa dopo un assedio.
Al nord operavano per i romani il console Publio Rutilio Lupo, che aveva
tra i suoi legati Caio Mario, ritornato dall'Oriente. Nel 90 a.C. i Marsi
attaccarono l'esercito romano a sorpresa, presso il fiume Tolero, nel territorio
degli Equi (interno del Lazio). Il console morì assieme a 8.000 soldati, solo
Mario riuscì ad impedire la completa catastrofe continuando la resistenza sul
quel fronte.
Lo sfavorevole volgere degli eventi ebbe come effetto un tentennamento
degli alleati Umbri ed Etruschi: alcune comunità passarono con i rivoltosi,
altre si mostravano indecise.
Prime concessioni di cittadinanza agli alleati
Per contrastare la pericolosa eventualità di un ampio isolamento, Roma
decise di varare leggi speciali.
Alla fine del 90 a.C. il console Giulio
Cesare decise di varare una legge che permetteva a quelle comunità che non erano
ancora passate col nemico di acquisire la cittadinanza romana (lex Julia).
Questa legge riuscì ad arrestare la rivolta in Umbria ed Etruria, dove le città
ancora indecise ritornarono saldamente dalla parte di Roma.
Un altra legge successiva diede la spallata decisiva. All'inizio del 89
a.C. I tribuni Marco Pluzio Silvano e Caio Papirio Carbone vararono una legge
che permetteva di estendere la cittadinanza romana a tutte le comunità che entro
due mesi avessero manifestato a un pretore il desiderio di usufruire di tale
diritto. La legge seminò grande discordia tra i ribelli italici, incrinandone
l'iniziale compattezza d'intendi.
C'è da aggiungere che i nuovi cittadini non furono uniti alle tradizionali
35 tribù latine, ma furono divise in altre 8 tribù aggiuntive, piuttosto poche
in rapporto al numero di nuovi cittadini, che pur essendo superiori di numero ai
romani, avevano così minor rappresentanza nelle assemblee... ma comunque i primi
passi in questa direzione erano stati fatti, e le prime conseguenze politiche
non tardarono a ripercuotersi sulla compattezza dei nemici.
Sempre nell'89 infine, il console Strabone propose una legge speciale (lex
Pompeia) che permetteva ai membri delle colonie della Gallia Cisalpina di
acquisire la cittadinanza, oltre a quelle comunità latine al di là del Po che
fossero rientrate nell'orbita romana.
La caduta del fronte settentrionale: la presa di Ascoli
Una volta pacificate Umbria ed Etruria, tra manovre politiche e battaglie
minori, i romani sconfissero pesantemente i Marsi, che nel frattempo erano
accorsi in aiuto degli Etruschi. Strabone e il suo esercito uccisero 15.000
avversari, spegnendo di fatto ogni velleità della tribù ribelle (89 a.C.).
Le operazioni si concentrarono quindi su Ascoli. La città venne assediata e
vide la vittoria in battaglia dell'esercito romano, che però non potè subito
entrare in città, occupata prontamente da Iudacilio, che ne era prontamente
accorso in aiuto. L'assedio continuò ancora per qualche mese, finché i notabili
della città decisero per la resa, con la disapprovazione di Iudacilio, che dopo
averli condannati a morte, decise di suicidarsi col veleno. I Romani entrarono
nella città, uccisero i notabili e deportarono la popolazione. Ascoli era
caduta, e con lei Italica, che ritornò ad essere Corfinio (89 a.C.).
Tutto il fronte nord della ribellione crollò. Oltre ai Marsi e ai PIceni,
si arresero anche i Vestini e i Peligni.
Ridimensionamento del fronte meridionale
All'inizio del'88 a.C. la capitale dei rivoltosi si era spostata ad
Isernia, i Sanniti capeggiavano la rivolta.
Silla operava in Campania, mostrando oltre alla sua abilità militare anche
la sua spietata crudeltà. Mentre un altro contingente romano aveva conquistato
la Puglia, Silla invase la Campania meridionale riconquistando le città di
Pompei, Ercolano e Stabia. Penetrò poi nel Sannio fino a raggiungerne la città
più importante, Boviano, che costrinse alla resa.
A questo punto la rivolta si estendeva solo ad alcune regioni della
Campania, della Lucania, del Sannio e del Bruzio (Calabria meridionale), oltre
che a Nola. Il movimento meridionale, che pur continuò a combattere fino all'82
a.C. si era ormai molto indebolito. Fu per questo che cercò l'appoggio di
Mitriade, re del Ponto, che nel frattempo si preparava a combattere i romani per
motivi personali, e che non fece in tempo comunque a portare aiuto ai
rivoltosi.
Proprio Silla, che nel frattempo aveva iniziato l'assedio di Nola, fu
costretto a tornare a Roma per far fronte alle nuove minaccie provenienti
dall'Oriente. Pur non considerandosi definitivamente sedata, la rivolta interna
era ormai decisamente ridimensionata.
L'ascesa di Silla
(88-87 a.C.)
Publio Sulpicio Rufo - Silla marcia su Roma - Il nuovo ordine di
Silla
Publio Sulpicio Rufo
I consoli eletti per l'88 a.C. furono Silla e Quinto Pompeo Rufo. Ma ad
occupare la scena politica romana era soprattutto un tribuno della plebe, di
estrazione aristocratica ma con idee popolari (similmente a Druso): Publio
Sulpicio Rufo.
Il programma di Rufo si fondava su 4 punti: 1. Distribuire i nuovi
cittadini italici fra tutte le tribù ed estendere il diritto anche ai liberti.
2. Destituire tutti i senatori che avessero contratto debiti superiori a 2.000
denari. 3. Permettere il ritorno a Roma di tutti gli esiliati per motivi
politici. 4. Privare Silla del comando delle operazioni in Asia contro Mitridate
e trasmetterle a Caio Mario.
I consoli e il senato erano naturalmente contro queste proposte, per
prendere tempo e rimandarne la discussione fu deciso di approvare la sospensione
dell'attività politica in occasione di una festa religiosa.
Rufo ovviamente prese la cosa piuttosto male. Egli, memore delle esperienze
toccate ai suoi predecessori, disponeva di un esercito mercenario di 3.000
uomini armati, più una guardia personale di ben 600 giovani equites, noti con il
nome di "antisenato". Quando Rufo pretese l'approvazione forzata delle sue
leggi, cominciarono gli scontri, nei quali perse la vita il figlio del console
Pompeo Rufo. A questo punto, di fronte alla violenza, il senato tolse la
sospensione e approvò le leggi.
Silla marcia su Roma
Silla, pur essendo console, non si trovava a Roma, ma a Nola con il suo
esercito. In seguito all'approvazione delle leggi di Sulpicio Rufo, giunsero
presso il suo accampamento due tribuni militari che portavano l'ordine di
consegnare l'esercito a Mario.
Silla riunì le sue legioni per tenere un discorso. Il comandante fece
notare che Mario avrebbe certamente portato in Asia i suoi fidati veterani,
mentre il ricco bottino asiatico che già i suoi uomini avevano pregustato si
sarebbe volatilizzato. Silla intendeva ribellarsi alle decisioni di Rufo, e
uscire una volta per tutte dall'ombra dell'ormai settantenne Mario. Per fare
questo contava sulle sue legioni e sulla loro fedeltà (Come si è già detto la
riforma militare di Caio Mario, con le sue promesse di bottino ai soldati,
rafforzavano il legame delle legioni con il proprio comandante).
Le sei
legioni di Silla seguirono il loro generale nella ribellione. I due tribuni
militari furono lapidati.
Silla aveva un progetto. Con i suoi 30.000 uomini intendeva entrare a Roma
e liberarla dal giogo di Rufo e dall'eccessiva influenza democratica. Era la
prima volta, nella storia di Roma, che un esercito romano marciava sulla sua
stessa città per occuparla militarmente, primo evidente effetto della riforma
militare.
Roma accolse le legioni a sassate e a mattonate, mentre Mario e Sulpicio
Rufo organizzavano la resistenza. Silla ebbe però gioco facile nell'occupare la
città e vincere i suoi avversari. Sulpicio riuscì a fuggire, ma fu catturato e
ucciso, la sua testa fu portata a Silla che decise di esporla nel Foro. Mario
riuscì a riparare in Africa.
Nuovo ordine di Silla a Roma
Silla non voleva correre rischi. Il suo intervento in Asia era sempre più
necessario, occorreva stabilire a Roma un ordine il più possibile stabile e
duraturo, tale da permettergli di assentarsi senza che la situazione mutasse al
suo ritorno.
Silla abolì le leggi approvate da Sulpicio Rufo, mentre il senato fu
ampliato con nuovi 300 membri scelti fra i suoi più fidati sostenitori. Fu
abolita la potestà dei comizi centuriati e fece in modo che ogni legge proposta
dai tribuni passasse prima dal senato per l'approvazione. Di fatto venne abolito
il potere legislativo dei tribuni.
Silla cercò anche di fare eleggere per l'87 a.C. due consoli di suo
gradimento. Non vi riuscì completamente, visto che furono eletti consoli Gneo
Ottavio, ottimate e Lucio Cornelio Cinna, democratico.
La questione asiatica era talmente impellente che a Silla toccò accettare
l'elezione di Cinna, mentre già si apprestava a partire per la sua spedizione
estera.
La guerra contro Mitridate
(88-85 a.C.)
Mitridate - L'invasione dei territori romani in oriente - Silla
contrattacca: la presa di Atene -
Un secondo esercito romano - La battaglia
di Orcomeno - Mitridate chiede la pace -
Restaurazione dell'ordine in Asia
Minore
Mitridate
Il nemico che Silla si preparava a combattere era Mitridate VI Eupatore, re
del Ponto (la costa nord della Turchia, che si affacciava sul Mar Nero).
Le sue origini erano greche-persiane, si narra che all'età di undici anni
ereditò il regno dal padre morente, ma, non fidandosi della madre e dei suoi
tutori, si nascose per 7 anni tra le montagne con un gruppo di fedelissimi.
Raggiunti i 18 anni, tornò per esigere il regno, imprigionò la madre (che fece
avvelenare in prigione) e si riprese ciò che già gli era dovuto.
Era un uomo carismatico, energico ma anche crudele, temprato dalla vita che
aveva condotto nei boschi quando era giovane. Le sue origini greche non gli
impedivano di apprezzare l'arte e la cultura, amando farsi circondare da
pittori, storici, poeti e filosofi.
Le conquiste di Mitridate si ampliavano di continuo: si era impadronito del
Bosforo, della Colchide (regione a nord sulle coste occidentali del Mar Nero) e
dell'Armenia, che costituiva, nei suoi piani, una barriera tra sé e la
pericolosa Persia. Di fatto aveva in pugno anche il regno di Cappadocia.
In ragione di questa espansione, Mitridate divenne l'ultimo e più
pericoloso discendente degli stati ellenistici e il collettore di tutti i
sentimenti anti-romani della regione, mirando a costituire un grande Regno
Orientale che comprendesse l'intera Turchia odierna e le coste del Mar
Nero.
L'invasione dei territori romani in oriente
Le vere ostilità con i romani cominciarono nell'88 a.C. quando Mitridate
decise di invadere i possedimenti asiatici dei romani (la costa occidentale
della Turchia).
La popolazione accolse Mitridate come liberatore. Molte città consegnarono
a Mitridate i governanti romani in catene, gli stessi re della regione che
appoggiavano Roma, come il re di Bitinia, preferì fuggire e lasciare il suo
regno in mano al nemico. Furono massacrati in un solo giorno migliaia di civili
romani e italici, uomini, donne e bambini.
Mitridate inaugurò poi una politica demagogica per assicurarsi l'appoggio
delle popolazioni: liberò gli schiavi, estinse la metà dei debiti contratti da
ogni singolo cittadino, esentò i territori occupati da ogni forma di tributo per
5 anni. Poi trasportò la capitale a Pergamo, mentre Cappadocia, Frigia e Bitinia
erano state ridotte a regioni vassalle.
L'invasione raggiunse anche le coste europee: uno dei figli di Mitridate
invase la Macedonia e provocò la sollevazione della Grecia. Atene insorse,
guidata da un ex schiavo, il filosofo epicureo Aristione: venne proclamata la
secessione da Roma, mentre anche gli altri stati della penisola seguivano il suo
l'esempio.
Silla contrattacca: la presa di Atene
La situazione romana sembrava disperata: appena sedata la rivolta italica,
Silla si trovava a fronteggiare con i suoi 30.000 uomini la sollevazione
dell'intero oriente, mentre la situazione nell'Urbe era tutt'altro che stabile e
le casse dell'erario vuote.
Ma Silla non si diede pervinto. Con la determinazione che sempre lo
contraddistinse, decise di risolvere la situazione orientale, ben sapendo che
solo dopo aver riportato la stabilità ai confini poteva dedicarsi con tutta
calma a ristabilire l'ordine in patria.
Silla sbarcò in Epiro. Una volta incassato il rifiuto di Mitridate di
ritornare allo status quo ante bellum, puntò in Beozia, dove sconfisse le armate
di Archelao (stratega al soldo di Mitridate) e del tiranno di Atene Aristione. I
focolai di rivolta in Grecia furono sedati, resistevano solo Atene e il Pireo,
dove si erano rifiugati Aristione e Archelao: a Silla non restò altro che
inziare l'assedio della città.
Per tutto l'inverno 87-86 le legioni romani tentatorono di abbattere le
difese della città, che nel frattempo riceveva aiuti dal mare, che era in mano
alle navi di Mitridate. L'assedio così si protrasse più del dovuto, mentre Silla
non si faceva scrupolo di saccheggiare i tempi più rispettati e più ricchi della
zona e ad abbattere gli storici boschi del Liceo e dell'Accademia per costruire
le sue macchine d'assedio.
Solo quando Silla decise di attuare un blocco più stretto riuscì a far
terminare i viveri alla città: era il primo marzo dell'86 a.C. quando riuscì ad
entrare in città e a far fuggire Archelao, mentre i rivoltosi furono
giustiziati. La città fu selvaggiamente saccheggiata, ma per rispetto delle sua
storia, le fu permesso di mantenere la sua potestà e i suoi possedimenti. Il
Pireo venne però distrutto, per privare la flotta di Mitridate di un importante
porto strategico.
Un secondo esercito romano
Nel frattempo (86 a.C.) la situazione a Roma era di nuovo mutata: i seguaci
di Caio Mario avevano di nuovo preso il sopravvento e si prestavano a mandare in
Grecia un altro esercito al comando di Lucio Valerio Flacco, non senza aver
destituito dall'incarico Silla, che peraltro non se ne curò troppo.
La guerra in oriente vide quindi il curioso spettacolo di due diversi
eserciti romani, teoricamente antagonisti ma uniti contro il nemico comune.
L'esercito di Flacco e di Silla ebbero occasione di incontrarsi in Tessaglia,
tuttavia non entrarono in conflitto, un pò perchè Flacco non si sentiva per
nulla sicuro di vincere lo scontro fratricida, un pò perchè lo spettacolo di due
eserciti romani in conflitto fra loro non avrebbe di certo giovato alle sorti
della guerra.
Silla sconfisse ugualmente le armate eterogenee e più disorganizzate di
Mitridate, che si era presentato alle Termopili, con la temerarietà e la
rapidità che lo caratterizzavano, mentre l'esercito di Flacco si diresse verso
l'Asia Minore. La situazione di Silla era più che mai precaria, ma nulla poteva
comunque distorglielo dai suoi piani, era più che mai deciso a ridurre le
ambizioni di Mitridate, per dedicarsi al più presto alla situazione
italica.
La battaglia di Orcomeno
Verso la fine dell'86 a.C. Silla si vide costretto a ingaggiare battaglia
in Beozia, presso Orcomeno. Il numero dei soldati nemici era sempre e comunque
superiore a quello dei suoi soldati, ma la battaglia passerà alla storia per il
coraggio dimostrato dal comandante romano in battaglia.
Sotto i colpi della cavalleria nemica, la fanteria romana aveva cominciato
a ritirarsi, quando Silla stessa scese da cavallo e brandì una bandiera, per
gettarsi nella mischia. Si racconta che pronucniò queste frasi: "Io morirò qui
di una bellissima morte, o Romani! E voi, quando vi chiederanno dove avete
tradito il vostro comandante, non dimenticate di dire: sotto Orcomeno!".
Si
racconta che la fanteria romana serrò nuovamente le sue fila e riuscì così a
conquistare una brillante vittoria.
Mitridate chiede la pace
Nel frattempo, l'esercito di Flacco aveva occupato Bisanzio e aveva
raggiunto l'Asia Minore: anche il Bosforo era in mano ai romani, la stessa
posizione di Mitridate in Asia era compromessa, per non parlare della Grecia,
che nel frattempo aveva visto bene di cambiare di nuovo la sua politica in
favore dei romani, vista la nuova debolezza del re del Ponto.
La posizione
filo-romana dei greci era soprattutto incoraggiata dagli strati più abbienti,
mentre era la popolazione che ogni volta se ne presentava l'occasione vedeva nei
tiranni orientali sempre e comunque dei liberatori, non rendendosi conto che, di
fatto, nessuno era un liberatore ma piuttosto tutti erano dei
conquistatori.
L'esercito di Flacco intanto era scosso dall'indisciplina e dalla rivolta.
Il legato di Flacco, Caio Flavio Fimbria, fomentava di continuo i soldati contro
il proprio comandante. Flacco non era un uomo forte e deciso come Silla, prova
fu che ne fece le spese: i soldati lo uccisero per seguire Fimbria in veste di
nuovo comandante.
Fimbria era un uomo capace. Il suo esercito riuscì a sconfiggere Mitridate
costringendolo ad abbandonare Pergamo. A questo si aggiunse l'apparizione
nell'Egeo di una flotta romana organizzata dai sostenitori di Silla al comando
di Licinio Lucullo.
Mitridate chiese la resa. In un primo momento, non sapendo con chi trattare
tra Fimbria e Silla, trattò con entrambi, ma poi capì che avrebbe dovuto
trattare con il solo Silla. Per agevolare e accellerare le pratiche della resa,
Silla pose condizioni piuttosto miti, in quel momento egli era consapevole che
più del pericolo asiatico doveva guardarsi dalla pericolosa e incerta situazione
italica.
A Mitridate furono revocate tutte le conquiste in Asia Minore, fu
imposto il pagamento di un tributo di 3.000 talenti e la consegna di 80 navi da
guerra. La pace fu conclusa personalmente con Silla nell'85 a.C., a Dardano,
sull'Ellesponto.
Restaurazione dell'ordine in Asia Minore
L'esercito di Fimbra si trovava presso Pergamo quando incontrà quello di
Silla. Tra le file del primo molti soldati disertarono per aggregarsi alle
legioni del secondo, Fimbra decise allora di suicidarsi.
In Asia Minore Silla restaurò l'ordine, alla sua maniera: furono revocate
le leggi di Mitridate, furono giustiziati tutti i sostenitori della rivolta
contro Roma, i contribuenti furono obbligati a pagare tutte le tasse arretrate
contratte durante lo svolgimento del conflitto. Fu imposto a tutte le provincie
un astronomico tributo di guerra, ben 20.000 talenti (Mitridate ne aveva pagati
appena 3.000... ).
Gli stati rimasti fedeli a Roma (Rodi, Licia e la
Magnesia, in sostanza la costa meridionale della Turchia) furono adeguatamente
ricompensati.
Nell'84 a.C. Silla si recò in Grecia, nell'83 sbarcò a Brindisi
con un esercito di 40.000 uomini pronto ad affrontare la guerra civile sul suolo
italico.
Dittatura di Cinna e guerra civile
(87-82 a.C.)
Lotta fra Cinna e Ottavio - Il ritorno di Mario - Cinna dittatore - Silla
sbarca in Italia -
La guerra civile - Termine del conflitto: massacro dei
Sanniti e caduta di Preneste
Lotta fra Cinna e Ottavio
Durante il periodo che vide Silla occupato in oriente molti fatti accadero
a Roma in sua assenza.
Nell'87 a.C., appena partito Silla, i due consoli
Cinna e Ottavio cominciarono a lottare sulle questioni dell'equa distribuzione
dei cittadini nelle tribù. Cinna, appoggiato dai tribuni, propose leggi sulla
maggiore eguaglianza possibile nella distribuzione, Ottavio, dalla parte del
senato, cercò di impedirglielo.
Il giorno delle votazioni delle leggi proposte da Cinna vi fu nel Foro una
sanguinosa battaglia tra i partigiani dei due consoli, si narra di 10.000 morti,
una cifra enorme. Malgrado Cinna avesse aizzato contro il rivale gli italici e
gli schiavi, Ottavio riuscì a vincere, costringendo Cinna a rifiugarsi a Nola.
Il senato mise fuori legge i capi della rivolta e destituì il console
democratico.
Il ritorno di Mario
L'esercito che assediava Nola era composto per lo più da italici favorevoli
alla politica di Cinna. Altri capi democratici, fra i quali Quinto Sertorio e il
tribuno Gneo Papirio Carbone, si distribuirono sul territorio italico chiamando
a raccolta le popolazioni della penisola, mentre Caio Mario ritornava
dall'Africa e sbarcava in Etruria con un esercito di volontari per unirsi alla
rivolta democratica.
I diversi eserciti democratici si avvicinarono a Roma in una morsa di
accerchiamento, mentre Mario assediava Ostia per interrompere i rifornimenti
alla capitale. La città non potè far altro che arrendersi (87 a.C.).
In città si scatenò il terrore e la repressione più violenta. L'esercito di
Mario ebbe una parte di primo piano nell'uccisione di Ottavio, Lucio Giulio
Cesare e Quinto Lutazio Catulo, ovvero alcuni degli esponenti di spicco del
potere senatoriale. Molti tra i conservatori e i loro sostenitori furono uccisi
e leggi di Silla abrogate.
Cinna dittatore
Vennero eletti consoli per l'86 a.C. Mario e Cinna. Tuttavia Mario morì
all'inizio dell'86 e i poteri vennero esercitati per i due anni successivi dal
solo Cinna, che di fatto divenne dittatore dell'Urbe.
Dopo la morte di Mario e la repressione delle frange più violente dei suoi
veterani, Cinna cercò di stabilizzare la situazione fermando la repressione e
approvando leggi in favore della popolazione: fu stabilità l'eguale
distribuzione dei cittadini nelle tribù, fu promossa una parziale riduzione dei
debiti, fu inaugurata una riforma monetaria e aumentata la distribuzione
gratuita del pane.
Ma la situazione non era comunque delle più rosee. Cinna e i suoi
sostenitori erano largamente appoggiati dagli italici, i cittadini romani
originari non erano del tutto contenti di una situazione così aperta e
favorevole agli "stranieri". Inoltre la guerra con Mitridate era terminata e
Silla si preparava al ritorno in patria, facendo sapere che avrebbe rispettato
le nuove disposizioni democratiche.
L'immininete ritorno di Silla ridiede coraggio al movimento senatoriale più
moderato, che auspicava un accordo con il vincitore della guerra in oriente.
Cinna e Carbone invece preparavano ad Ancona una spedizione destinata a
contrastare militarmente Silla (85-84 a.C.).
Silla sbarca in Italia
I piani dei due democratici fallirono quando l'esercito riunito ad Ancona,
forse scontento per il profilarsi di una campagna invernale, uccise Cinna.
Carbone non se la sentì di proseguire da solo e rinunciò alla spedizione, mentre
a Roma furono eletti per l'83 a.C. due nuovi consoli, Caio Norbano e Lucio
Cornelio Scipione.
Nell'83 anche Silla sbarcò in Apulia, senza trovare resistenza da parte dei
democratici, non ancora pronti alla guerra. Dalla parte di Silla passarono
subito esponenti di spicco del senato e anche personaggi appartenenti alla
schiera democratica: Quinto Metello Pio, Marco Licinio Crasso, Lucio Marcio
Filippo e Gneo Pompeo Strabone figlio.
I democratici potevano contare su una forza complessiva di circa 200.000
uomini, mentre Silla sulle sue sole 36.000 unità, comprensive di cavalleria.
Tuttavia l'esercito di Silla era temprato dalla guerra in oriente e fedelissimo
al suo comandante, disciplinato e affiatato, mentre le schiere democratiche
erano più che mai eterogenee e meno abili in combattimento perchè non abituate
allo scontro, situazioni che risulteranno determinanti per le sorti del
conflitto.
La guerra civile
Silla si diresse verso la Campania per scontrarsi con l'esercito dei due
consoli. Norbano fu facilmente sconfitto, mentre le truppe di Scipione passarono
dalla parte di Silla.
Nell'82 a.C. nuovi consoli di Roma furono eletti
Carbone e Caio Mario figlio. Questi attese Silla, che si stava dirigendo verso
Roma, nel Lazio. Presso Sacriporto gli eserciti diedero luogo a una grande
battaglia, terminata con la netta vittoria di Silla e la fuga di Mario a
Preneste.
Mario diede ordine di abbandonare Roma, Silla la occupò senza troppa
fatica. Ora il suo esercito poteva portarsi in aiuto alle truppe di Metello e
Pompeo, impegnate sul fronte settentrionale dall'esercito di Carbone.
A questo punto entrarono in scena i Sanniti, forti di 70.000 unità e
guidate dai due comandanti Ponzio Telesino e Marco Lamponio. I Sanniti erano in
guerra contro Silla dal'88 a.C. (vedi la guerra sociale) per la questione
italica, essi non potevano far altro che schierarsi dalla parte dei democratici,
una vittoria di Silla avrebbe infatti bloccato per sempre le loro
rivendicazioni.
Silla dovette di nuovo dedicarsi al fronte meridionale, lasciando al nord
una parte dei suoi soldati in appoggio a Pompeo e Metello, che riuscirono ad
ottenere importanti vittorie e provocare la fuga in Africa di Carbone. La sua
fuga permise così di liberare il fronte ed intervenire in appoggio di
Silla.
I Sanniti si erano uniti a Mario figlio a Preneste. Silla e i suoi uomini
si erano già portati a ridosso della città. A questo punto i Sanniti tentarono
una sortita a sorpresa verso Roma, Silla si mise in marcia per inseguirli. Nel
novembre dell'82, presso la Porta Collina, vi fu lo scontro decisivo tra i due
eserciti: la battaglia si protrasse fino al giorno seguente e terminò con la
disfatta sannita, grazie al valido apporto degli uomini di Crasso, che
intervennero in aiuto alle truppe di Silla, schiacciate contro le mura.
Termine del conflitto: massacro dei Sanniti e caduta di Preneste
Ponzio Telesino e i Sanniti sopravvissuti vennero fatti prigionieri e
rinchiusi nel Campo Marzio. Qui le truppe di Silla massacrarono gli sconfitti su
espresso ordine del loro comandante, che durante le esecuzioni teneva un
discorso al Senato presso il Tempio di Bellona, dea della guerra, che si trovava
adiacente ai Campi. Silla invitò i senatori a non porre attenzione alle grida,
in quanto si stava solamente dando una lezione a un gruppo di miserabili. Roma
era ormai sotto il giogo del terrore sillano.
Il massacro dei Sanniti fu seguito dalla capitolazione di Preneste. Mario
si uccise, mentre la popolazione della città venne sterminata. Alle altre città
oppostesi a Silla toccò la stessa sorte, Silla stesso organizzò una spedizione
punitiva nel cuore del territorio sannita, ad Isernia, dove gli stermini di
massa trasformarono la regione in un deserto. Carbone, che si trovava in
Sicilia, fu catturato e giustiziato a Lilibeo. Tutte le regione italiche e le
provincie estere furono progressivamente epurate dai sostenitori democratici, in
Africa la rivolta fu sottomessa da Pompeo, in Sardegna da Lucio Filippo. In
Spagna Quinto Sertorio, governatore democratico, dette momentaneamente rifugio
ai resti dei sostenitori di Mario.
Terminava così la guerra civile tra Silla
e i democratici. Roma si avviava verso una cupa dittatura.
La dittatura di Silla
(82-79 a.C.)
Le liste di proscrizione - La repubblica fantoccio - Le riforme sillane -
Silla si ritira
Le liste di proscrizione
La dittatura di Silla passò alla storia per la ferocia. Nel biennio 82-81
a.C. Silla formò le cosidette liste di proscrizione (tabulae proscriptiones):
erano delle liste nelle quali lo stesso Silla si produceva in un elenco di
persone da eliminare, dichiarandole fuori legge e possibili di uccisione.
Il
metodo era dei più brutali, un classico delle dittature più efferate: si dice
che le liste avessero gettato nel terrore chiunque, compresi gli amici, che
probabilmente non erano esclusi da qualche arbitraria menzione.
Silla condannò subito 40 senatori e circa 1.600 equites. Le esecuzioni
avvenivano sul posto, dove il condannato si trovava al momento. I capi d'accusa
erano fittizi o pretestuosi: una semplice conoscenza con alcuni oppositori, la
presunta ospitalità a presunti nemici di Silla, e così via. Paralizzati dal
clima di terrore, nessuno osava contrapporsi all'orgia di sangue.
Silla,
Crasso e lo stesso liberto di Silla, Crisogino, beneficiariono in particolare
delle uccisioni dei più ricchi notabili (erano in molti fra quelli proscritti)
per inglobare il loro patrimonio. Stesso meccanismo fu allargato a tutti i suoi
uomini di fiducia.
Silla affrancò poi 10.000 schiavi fra i puoi forti e abili, a suo tempo
dichiarati fuori legge dai democratici, e ne fece la sua guardia personale,
attribuendo loro il nome di Cornelii. Ai suoi 120.000 soldati riservò ampi
appezzamenti di terra in tutta la penisola, un altro tassello nel reticolo di
clientele che il dittatore stava formando nel tentativo di rendere stabile il
suo potere.
La repubblica fantoccio
Silla fondò il suo potere dittatoriale rispettando giuridicamente la forma
di stato repubblicana.
Visto che gli ultimi due consoli democratici erano
morti, il potere passò momentaneamente nelle mani di Valerio Flacco, il senatore
principe. Egli presentò ai comizi un pregetto di legge che nominava Silla
dittatore a tempo indeterminato, in modo da permettergli di restituire l'ordine
e il rispetto delle leggi. L'assemblea popolare, terrorizzata dalle incombenti
liste di proscrizione, non osò opporsi, e in questo modo Silla divenne dittatore
del tutto legalmente, in nome della Repubblica.
Di fatto, quindi, sebbene continuassero le elezioni annuali dei consoli (e
lo stesso Silla fu nominato nell'80 a.C.) e sebbene tutti i meccanismi elettivi
delle cariche accessorie fossero ancora in funzione, il potere supremo era
sempre e comunque in mano al dittatore, che lo esercitava in nome di una legge
approvata dal popolo stesso di Roma!
Ovviamente, le leggi democratiche di Cinna erano state abolite e il potere
dei tribuni ridotto quasi a finzione. Essi potevano legiferare e deliberare, ma
solo previa autorizzazione del senato.
Le riforme sillane
Molte furono le riforme portate a compimento da Silla. Le sue riforme
miravano a costituire una nuova nobiltà e a ridare importanza al senato e ai
suoi poteri.
Per venire incontro alle nuove esigenze amministrative (il territorio
italico romano aveva bisogno di una sistemazione definitiva), Silla portò il
numero dei pretori a 8 e quello dei questori a 20. Tutti i popoli italici furono
iscritti egualmente nelle tribù: il partito democratico era stato sconfitto e
non c'era più l'esigenza di combatterlo su questo versante, così Silla mise in
atto le riforme che di fatto avevano scatenato l'ostilità dei democratici nei
suoi confronti!
La penisola italica fu divisa in municipalità e in colonia dal sud fino al
Rubicone (un corso d'acqua che scorre a nord di Rimini e sfocia nell'Adriatico).
Dal Rubicone fino alle Alpi venne creata la provincia della Gallia Cisalpina,
che comprendeva, oltre alle colonie e alle roccaforti romane storiche, le molte
tribù galliche ormai non più ostili.
Sul fronte interno, Silla abolì la riforma giuridica di Caio Gracco e
restituì i pieni poteri giudiziari ai senatori (abolendo di fatto la funzione di
controllo degli equites, che vennero accorpati al senato nel numero di 300 nuovi
membri). L'ampliamento del senato permetteva di eleggere nuovi rappresentanti
tra i nobili in modo da rinnovare e ricostituire una classe dirigente nobiliare
giovane e fedele a Silla.
Nel complesso le leggi di riforma di Silla avevano dato un minimo di
stabilità all'Urbe dopo anni di sconvolgimenti politici e gettato le basi
dell'assetto geo-politico penisulare che sarà poi definitivamente consolidato
con l'avvento dell'Impero.
Silla si ritira
Come già detto, nell'80 a.C. Silla, pur restando dittatore, assunse anche
la carica di console. L'anno successivo non presentò alcuna candidatura e si
riritirò improvvisamente e del tutto inaspettatamente a vita privata nei suoi
possedimenti campani. L'anno seguente, dopo essersi dedicato alla pesca e alla
stesura delle sue memorie, morì di malattia.
Alcuni sostengono che il suo
abbandono della vita politica fu conseguenza della sua malattia, altri invece
sostengono che volle lasciare il potere all'apice del successo personale. Resta
il fatto che l'influenza di Silla si fece sentire fino alla sua morte e negli
anni successivi e che la sua dittatura, sebbene brutale e sanguinaria, aveva
dato stabilità allo stato e alle sue istituzioni.
Le rivolte di Lepido e Sertorio
(79-71 a.C.)
Marco Lepido - Quinto Sertorio
Marco Lepido: tentativo di rivolta a Roma
Morto Silla, il sistema dittatoriale mostrò tutta la sua debolezza, la
dittatura aveva creato una frattura tra potere e società civile e aveva
scontentato molte classi sociali. Coloro che avevano motivo di tramare contro il
regime erano i veterani di Mario, i proprietari terrieri privati delle loro
terre in favore dei coloni sillani, gli equites sopravvissuti alle repressioni e
persino una parte della nobiltà romana senatoriale, non certo contenta di essere
stata privata sostanzialmente di buona parte dei suoi poteri.
Chi incarnò il malessere delle classi scontente fu il console del 78 a.C.
Marco Lepido. Sebbene appartente alla classe aristocratica, era stato constretto
da circostanze personali a passare tra le fila dell'opposizione (per via di un
tentativo di processo che lo vedeva coinvolto in saccheggi durante il periodo in
cui rivestiva la carica di propretore della Sicilia).
Nonostante l'opposizione dell'altro console Quinto Lutazio Catulo (senatore
sillano figlio del vincitore di Vercelli), Lepido cominciò a tessere le fila
della rivolta chiamando a raccolta i dissidenti e i veterani di Mario, e riuscì
a ripristinare l'uso democratico della distribuzione gratuita del grano, seppur
in modo parziale.
L'occasione che portò allo scoperto i suoi piani fu tuttavia la rivolta
dell'Etruria. In questa regione molte città erano insorte contro l'esercito
sillano, per sedare l'agitazione il senato decise di inviare i due consoli.
Lepido riunì il suo esercito e si recò sul posto, ma allo scadere del suo
mandato si rifiutò di deporre le armi e di tornare a Roma: egli chiese invece al
senato di restaurare l'antica costitituzione repubblicana, la potestà dei
tribuni, il ritorno dei dissidenti e la sua rielezione a console. Il senato, per
tutta risposta, lo dichiarò nemico della patria (77 a.C.).
Il compito di combattere Lepido venne affidato a Catulo e Pompeo. Pompeo si
diresse nella valle del Po, dove ad attenderlo c'era un alleato di Lepido, quel
Marco Giunio Bruto, sostenitore di Mario, che era il padre del futuro uccisore
di Cesare. Bruto fu costretto a rinchiudersi a Modena, che venne assediata. Poco
dopo la città si arrese, e Bruto venne giustiziato.
Sull'altro fronte Catulo si preparava a difendere Roma dal più minaccioso
esercito di Lepido. I due eserciti si scontrarono presso il Campo Marzio, dove
Lepido venne sconfitto. In seguito si ritirò in Etruria, poi, nuovamente
sconfitto, trovò rifugio in Sardegna, dove morì poco dopo. I resti del suo
esercito vennero condotti dal suo pretore, Marco Perperna, in Spagna, dove il
governatore Sertorio già si preparava a una nuova rivolta contro il regime
sillano.
Quinto Sertorio: tentativo di rivolta in Spagna
Già dal 79 a.C., in Spagna, si crearono i presupposti di una rivolta contro
il potere romano. A capo di tale progetto fu il governatore romano dello Spagna,
Quinto Sertorio.
Egli aveva già dato rifugio ai resti dell'esercito di Mario
durante la presa di potere di Silla (si veda il capitolo sulla guerra civile),
il suo piano era infatti raccogliere tutti gli elementi dissidenti romani in
Spagna, nel tentativo di ricreare nella provincia un partito democratico forte e
fare della penisola iberica la base dalla quale partire per riconquistare
Roma.
La politica di Sertorio in Spagna si può dire "illuminata": per garantirsi
il consenso strinse alleanze con le tribù iberiche, a Osca (Spagna
settentrionale), dove pose la base del suo potere, creò persino una scuola per i
figli dei capi locali, dove venivano insegnati il latino, il greco e le scienze.
La sua guardia personale era composta da giovanissimi fanatici iberici, che
aveva conquistato in virtù del suo prestigio e del suo carisma. A capo del suo
esercito pose dei romani, scelti tra i dissidenti, e cercò di stringere alleanze
con tutte quelle forze che contrastavano il potere di Roma, dai pirati della
Cilicia a Mitridate, che al tempo si trovava ancora in lotta con l'odiato nemico
italico.
Il progetto di Sertorio era insomma quello di romanizzare la Spagna,
cercando di trovare la forza nel consenso e nella coesione sociale più che
nell'uso del pugno di ferro e delle repressioni. In un primo momento sembrò
riuscirci, poiché l'esercito di Pompeo, mandato in qualità di proconsole dal
senato di Roma per distruggere il ben organizzato "sistema iberico", subì le
prime inevitabili sconfitte (nel 75 Pompeo, ferito gravemente in battaglia, potè
salvare se stesso e il suo esercito solo grazie al tempestivo intervento di
Metello).
Per sconfiggere Sertorio si ricorse allora alla ben collaudata tattica
della cospirazione interna. Malgrado tutto, l'equilibrio sociale creato da
Sertorio era fragile: bastò una taglia messa sulla sua testa dal senato per
disinnescare la sua politica.
Venuto a conoscenza della taglia, Sertorio
allontanò da se tutti gli aiutanti romani, affidandosi alla sola guardia dei
giovani e fidati iberici. Scoperta una prima cospirazione, giustiziò molti dei
capi romani, questo non fece che peggiorare le cose. Nel 72 a.C., in occasione
di un banchetto organizzato a Osca da Perperna e dai cospiratori, Sertorio e la
sua guardia vennero pugnalati.
Perperna si mise a capo dell'esercito spagnolo, la coalizione si sfasciò,
gli iberici non lo sostennero e gli stessi romani che avevano cospirato assieme
a lui cominciarono ad osteggiarlo nella lotta al potere.
Per Pompeo fu facile
sconfiggere questo esercito dilaniano al proprio interno, lo stesso Perperna
venne catturato e ucciso e l'intera Spagna ritornò sotto il pieno controllo del
senato romano nel 71 a.C. Terminava così il tentativo di rivolta della provincia
iberica.
La rivolta di Spartaco
(73-71 a.C.)
Chi era Spartaco - Le origini della rivolta - La rivolta si estende -
Cambio di rotta -
Crasso contro Spartaco - La fine di Spartaco
Chi era Spartaco
Le fonti che parlano della rivolta capeggiata da Spartaco sono scarse e
povere. Tuttavia è bene testimoniare una delle più grandi rivolte di schiavi che
mai Roma dovette affrontare: infatti, sebbene avvenimenti di questa natura
fossero accaduti già in passato e sempre repressi dalle autorità romane
(soprattutto in Sicilia), mai una rivolta di schiavi fu più pericolosa, se non
altro per la sua importanza numerica.
Spartaco proveniva dalla Tracia, ci sono buoni indizi che lo vedono
arruolato nelle truppe ausiliare romane e poi ridotto in schiavitù in seguito a
una diserzione. Dotato fisicamente, venne addestrato come gladiatore. Si narra
che fosse intelligente, acculturato e possedesse grandi doti umane, fatti che
concordano storicamente, visto l'abilità con la quale seppe riunire e condurre
il suo esercito di schiavi.
Le origini della rivolta
Tuttò parti nel 73 a.C. a Capua, in una scuola per gladiatori. Circa 200
gladiatori organizzarono un complotto che venne scoperto, solo 60-70 di essi
riuscirono a fuggire, tra i quali Spartaco e i galli Crisso ed Enomao. Lungo la
strada, il gruppetto di fuggitivi, si impadronì di un convoglio di armi
destinate ai gladiatori e si rifugiò sul Vesuvio.
Successivamente il gruppetto si arricchì sempre di più in numero,
alimentato dagli schiavi e dagli sbandati attirati dall'uso di Spartaco di
dividere in parte uguale i bottini. Tutto questo si svolgeva nell'indifferenza
di Roma.
In seguito a un conflitto con un piccolo gruppo di soldati romani,
l'esercito di schiavi e gladiatori si impadronì di armi vere. Con queste
sconfisse poi le legioni di Caio Clodio, giunto sul posto per contrastare la
minaccia. Egli si attestò all'imbocco dell'unica strada che discendeva il
Vesuvio, tuttavia Spartaco riuscì a colpire le legioni alle spalle, di sorpresa,
calando i suoi uomini legati a delle corde giù per il declivio più scosceso.
Questa fu la prima azione eclatante del suo esercito.
Altra importante vittoria fu quella ottenuta contro il pretore Publio
Varinio e i suoi luogotenenti: Spartaco riuscì a impadronirsi persino dei
cavalli e dei simboli littori dell'esercito.
La rivolta si estende
In breve tempo la rivolta si estese a gran parte del sud della penisola,
coinvolte furono la Campania, la Lucania e forse l'Apulia. In questo periodo lo
storico Sallustio parla del massacro indiscriminato dei padroni da parte degli
schiavi, massacri ed efferatezze alle quali tento inutilmente di porre argine lo
stesso Spartaco, il quale aveva piani ben più nobili.
Il piano di Spartaco era quello di risalire la penisola con il suo esercito
e di oltrepassare le Alpi, in modo da rendere la libertà agli schiavi. Tuttavia
non tutti erano d'accordo con il suo piano, nella sostanza, incruento. I galli
capeggiati da Crisso decisero di staccarsi dall'esercito di Spartaco, quasi
venendo alla lotta fratricida: si pensa che tale scissioni sia stata dovuta al
fatto che Crisso intendeva combattere Roma a viso aperto, piuttosto che fuggire
oltralpe. Spartaco sembrava invece di vedute più modeste e realistiche:
difficilmente il suo esercito avrebbe potuto combattare frontalmente l'intero
apparato statale di Roma.
Fu durante questa lotta interna al movimento ribelle che Roma decise di
inviare contro i rivoltosi i due consoli del 72 a.C., Lucio Gellio e Gneo
Cornelio Lentulo. I 20.000 galli di Crisso affrontarono l'esercito di Quinto
Arrio, pretore di Gellio, presso il monte Gargano. L'esercito dei rivoltosi fu
sconfitto e lo stesso Crisso morì.
Cambio di rotta
Sebbene la scissione e la sconfitta di Crisso avessero in parte indebolito
l'esercito di Spartaco, egli riuscì ugualmente a manovrare i suoi uomini in modo
da aggirare gli scontri con i due consoli: quando, risalito gli Appennini,
giunse a Modena, il suo esercito contava circa 120.000 unità.
A questo punto però, con il suo obbiettivo ormai alle viste, Spartaco
decise di ritornare verso sud: questa scelta, secondo gli storici, non fu
dettata da un suo preciso volere, ma piuttosto dal volere e sotto la pressione
del suo enorme seguito, che lo constrinse a restare in Italia per tentare, in un
eccesso di euforia, di saccheggiare Roma. Pare quindi che Spartaco non riuscisse
più a controllare l'enorme seguito di uomini che aveva raggruppato, dovette
quindi cedere alla volontà del suo battaglione di schiavi.
Crasso contro Spartaco
Sebbene Spartaco, da uomo intelligente, si guardasse bene dall'avvicinarsi
a Roma, i romani decisero ugualmente di affidare il compito di sconfiggere
definitivamente la sua minaccia a Marco Licinio Crasso.
Egli intendeva circondare gli schiavi nel Piceno, ma il suo luogotenente,
Mummio, incaricano di aggirare il nemico con le sue legioni, disobbedì agli
ordini e attaccò Spartaco. Le legioni romane vennero ancora una volta sconfitte
e Spartaco potè dirigersi nel Bruzio, presso Turi. Qui, molti mercanti si erano
radunati per commerciare il bottino dei beni raccolti dagli schiavi, ma Spartaco
proibì che ricevesso in cambio oro e argento: i suoi uomini dovevano accettare
solo ferro e rame, necessari per forgiare nuove armi.
Il piano di Spartaco diventò allora quello di sbarcare in Sicilia
attraverso lo stretto, in modo da ravvivare nell'isola la rivolta di schiavi mai
completamente sopita. Non vi riuscì a causa del tradimento dei pirati, che si
misero probabilmente d'accordo con Verre, governatore della Sicilia, rifiutando
a Spartaco le navi, mentre già le coste della Sicilia erano presidiate.
Crasso intanto sopraggiungeva alle spalle di Spartaco, ed ebbe l'idea di
sfruttare la conformazione del Bruzio (la Calabria) per confinare nella regione
i nemici: egli fece costruire un vallo presidiato dalla costa ionica a quella
Tirrenica, lungo 300 stadi (55 km). Nell'inverno del 72-71 a.C, dopo ripetuti
tentativi di forzare il passaggio, Spartaco riuscì a passare il vallo in una
notte di tempesta.
La fine di Spartaco
A questo punto Crasso richiese aiuto al senato che gli inviò Pompeo. Egli
doveva rientrare in tutta fretta dalla Spagna, dove aveva posto fine alla
rivolta di Sartorio, mentre dalla Macedonia, sbarcando a Brindisi, sarebbe
accorso Marco Licinio Lucullo.
Il cerchio si stringeva attorno a Spartaco, il quale decise di dirigersi
verso Brindisi, forse nel tentativo disperato di oltrepassare l'Adriatico. A
questo punto, l'ennesima scissione degli schiavi galli e germani, capeggiati da
Casto e Giaunico, indebolì questa volta decisivamente il suo esercito. I due
capi ribelli mossero contro Crasso, che li sconfisse.
Saputo dell'imminente arrivo di Lucullo a Brindisi, Spartaco tornò indietro
e si diresse in Apulia, verso le truppe di Pompeo. Qui si svolse la battaglia
finale: 60.000 schiavi, tra i quali Spartaco, morirono (ma il corpo del
condottiero non fu mai trovato). I romani persero solo 1.000 uomini e fecero
6.000 prigionieri. Altri reparti dell'esercito ribelle, circa 5.000 uomini,
tentarono la fuga verso nord, ma vennero raggiunti e annientati da Pompeo.
Terminava così la rivolta di Spartaco.