E, parlando a tal guisa, Paola versava lacrime ardenti ed amare, il suo
corpo flessibile aveva una mestizia impossibile a descriversi. Dei suoi
abiti di frate non aveva serbata che la tonaca di lana bianca, e siccome i
suoi capelli, che non erano stati altrimenti tagliati da otto giorni erano
un poco cresciuti, la sua fisionomia aveva subito un notevole cambiamento.
A vederla così vezzosa e delicata, e tuttavia imponente per l'abitudine che
aveva presa al comando, l'osservatore rimaneva indeciso, non indovinava il
suo sesso al primo sguardo. Era Paola, e pure era ancora Josè: un misto
singolare di grazia e di forza, d'energia e di tenerezza.
Quella povera donna semplice e gentile, che ancor sì giovane aveva tanto
imparato dalle cose della vita, aveva un incanto doloroso e commovente.
Piegati sui gradini dell'altare, in faccia agli strumenti di tortura che il
giorno successivo dovevano rompere le sue membra, somigliava a tenero
arboscello inchinato sull'abisso che deve inghiottirlo, quasi per
intenerirlo e piegarlo.
Ma era vano volgersi a tutte le cose che la circondavano; nulla poteva
rispondere ai bisogni della sua anima, né al presente, né all'avvenire.
Allora, come viaggiatore che si smarrisce e ritorna sul cammino che ha già
percorso, Paola fece ritorno al passato. Retrocedette lentamente sulla sua
vita, avendo cura di sfogliarne ad una ad una le pagine per non lasciarne
sfuggir nulla.
Leggendo così nel libro della sua memoria, si rivide fanciulla candida e
pura, che scherzava sotto gli aranci fioriti dell'Alhambra, e sognava già
nella sua anima ardente e fiera l'amore di un nobile e valoroso cavaliere,
il quale posava sulla sua fronte la bianca corona delle vergini.
Poscia rivide quelle vaste chiese, magnifiche moschee convertite in templi
cattolici dalla religiosa Isabella: monumenti di poesia cristiana aggiunti
alla poesia orientale.là vide passare come in un sogno tutte quelle
fantasmagorie del culto romano che avevano in quei tempi eccitate in lei
sante e dolci emozioni, lunghe processioni di frati, le cui teste bianche
perdevasi in nuvole d'incensi, le stole e le cappe ricamate in oro, le
bianche cotte dei diacono, e la tunica ricamata dell'arcidiacono, ed i
calici coperti di gemme, ed i larghi ostensorii d'oro, e gli arcangeli
d'argento
colle ali spiegate, e i reliquiari, e i mazzetti di gioie, corone offerte
dalla regina di Spagna alla Regina del paradiso.
Così riconobbe tutte le chiese di Granata, bazar orientale; dove venivano a
far mostra di sé, sotto mille forme, le ricchezze del Messico.
Confrontando le semplici sensazioni d'allora, la sua candida ammirazione per
tutte quelle meraviglia terrestri, coll'amaro scetticismo d'ora, Paola
comprese perché il clero voleva ad ogni costo prolungare l'ignoranza del
popolo. Poi domandò a sé medesima, se non era cosa grandemente iniqua
l'impiegare
mezzi così terrestri per fare amare ed adorare il Re del cielo.
Ma Paola, che aveva potuto osservare minutamente tutte le iniquità di
quell'anime
pretesche, sapeva bene che la gloria di Dio non era che il pretesto, e non
lo scopo delle loro miserabili ciurmerie.
Non ostante provò un soave e tenero incanto nel richiamare alla memoria i
suoi giorni d'ignoranza e di schietto abbandono alla fede che le veniva
inspirata, i suoi trasporti di gioia e di estasi quando inginocchiata
davanti ad una grande immagine di Cristo, che versava lagrime nel tempo
della sua passione[44], le sembrava di veder piangere il Salvatore medesimo,
di cui le era stata narrata la storia pietosa e sublime. Quei tempi avevano,
per il contrasto colla sua vita presente, un riflesso dorato; che illuminava
d'un ultimo splendore la sua fronte, già coperta d'un ombra mortale.
Poscia si rivide orfana, raccolta da quella nobile famiglia dei Cazzalla, sì
santa, sì pura; si trovò presso al suo vezzoso fidanzato, al suo dolce ed
adorato Fernando.Ma a quel quadro, sì splendido in lontananza, venivano a
mescersi bentosto colori sinistri, morti profanati, vivi perseguitati e
condannati, il suo Fernando trascinato al supplizio, ed essa tessa.
Oh!, a quella rimembranza terribile, l'anima sua si gonfiò di amarezza, e
contò ora per ora, minuto per minuto per minuto, i giorni che aveva passati
portando la catena del suo servaggio, baciando i piedi della belava che
aborriva, velando i suoi occhi pieni di lacrime con un sorriso ipocrita, la
sua fronte abbattuta con un'aureola di gioia, rinunziando anco alla
preghiera pel timore di profanarla, inventando ad ogni ora una nuova
malizia, immergendosi con disgusto in un abisso di bassezze e di lussurie in
cui vivevano i preti di Cristo, facendo plauso ai loro vizi, favorendoli
talvolta, e tutto questo per assopire, per estinguere la disperazione
incommensurabile dell'anima sua.Poi, finalmente, dolce, gentile, timorosa,
armava la sua debole mano del pugnale, ed appié dell'altare immolava colui
che l'aveva perduta.Lo rivedeva cogli occhi feroci, colla gola insanguinata,
pronunziando queste ultime parole nel suo ultimo respiro: - Dio è giusto.-
Sì, Dio è giusto! - esclamò Paola, alzandosi con atto energico, Dio è giusto
e mi perdonerà. - Oh! - proseguì con un grido d'inesprimibile angoscia, - il
martirio non è un battesimo?, e non compirò il mio su questa croce?.
Volgendosi indietro Paola aveva veduto gli strumenti del suo supplizio, e,
lungi dallo spaventarsi alla vista di quegli oggetti terribili, provò una
gioia indicibile e crudele, calcolando gli orribili dolori che dovea
sopportare, perciocché più le sembravano spaventevoli e intollerabili, più
diceva a sé medesima che ciò basterebbe ad espiare le sue colpe; e più le
pareva facile d'ottenere il perdono da Dio.
Ora Paola non voleva che una cosa, essere ricongiunta a Fernando.
La porta della cappella si aprì, e due signori spagnuoli, membri della Pace
e Carità, domandarono con tutta la possibile cortesia, se la condannata
aveva bisogno di nulla.
"Nulla per questa vita, signori," rispose Paola, con angelico sorriso, "ma
per l'altra."
"Si avrà cura anco di questa," soggiunsero i gentiluomini, avvicinandosi a
Paola; "faremo pregare e dire delle messe per il riposo della vostr'anima."
"Signori," disse Paola, "non preghiere di preti, ve ne supplico; le vostre
parole sole, che non saranno venali ed ipocrite.e poi."
"Fanciulla," interruppe uno dei signori, "siate, ve ne prego, più moderata
nelle vostre parole; i preti sono guide delle anime nostre."
"Oh li conosco meglio di voi," disse Paola con accento breve, "ma le
credenze sono libere, signore, e poiché volete compiere gli ultimi desiderii
d'una moribonda, incaricatevi di questo: datela alla più povera fanciulla
della Spagna per maritarla.
Dicendo ciò la condannata aveva tratto dal seno una croce di diamante; erano
gioie di gran valore avute da sua madre.
"Voi farete questo, signore, non è vero?" soggiunse Paola.
"Ve lo prometti," disse il gentiluomo.
"Grazie, signore; è l'unico bene che mi rimane, serva almeno di far
qualcheduno felice."
"Questo è tutto?" dimandò il fratello della Pace e Carità.
"V'è ancora un'altra cosa," disse Paola alquanto dubbiosa.
"Parlate; tutto ciò che dipenderà da noi vi sarà accordato."
"Nel venir qui, signori," rispose Paola, "avete incontrato per certo una
povera donna vestita di nero, che piangeva forse sotto il suo velo,
guardando verso la prigione. Questa donna è mia madre, è dessa che mi ha
nutrita. Non si ricusa ai condannati la grazia di abbracciare un'altra volta
coloro che hanno amato; ebbene!, fate venire questa donna, e pregate che la
si lasci giungere fino a me."
"I vostri voti saranno esauditi," rispose uno dei signori.
Ed uscì col fratello ch'era venuto con lui.
In quel momento un secondo prete dell'Ordine degli Agonizzanti surrogava
quello che aveva ricevuta la confessione di Paola.
Egli si avvicinò alla fanciulla, le continuò le solite esortazioni del
primo. Sarebbesi detto che ciascuno di quei preti venisse a ripetere una
lezione imparata a memoria.
E sulla loro fisionomia, distratta od annoiata mentre adempivano quel
religioso dovere, vedevasi chiaramente tutta l'aridità della loro anima.
Quegli uomini avevano generalmente cuori di bronzo e salute di ferro.
Paola lo lasciò parlare senza rispondergli; essa pregava internamente, e non
colle labbra, per implorare il perdono dal Dio di misericordia, in ciò non
aveva bisogno d'intermediario; questi avrebbe raffreddato il suo fervore
piuttosto che riscaldarlo.
Rimase adunque taciturna e raccolta, aspettando l'adempimento della promessa
del gentiluomo, mentre il frate, comodamente seduto nella sua poltroncina,
aveva piegato la testa sul petto, ed erasi leggermente addormentato
recitando le litanie.
Paola aveva gli occhi rivolti verso la porta; la sua anima non poteva essere
distratta dalla speranza che aveva concepita di veder la sua nutrice
un'altra
volta. La sua aspettativa non andò delusa; il gentiluomo tornò bentosto
seguito da quella donna vestita di nero che Paola gli aveva indicata, e che
avea, infatti, incontrata all'ingresso della prigione.
Ritrovandosi Paola e la sua nutrice, non ebbero parole; ma la condannata si
strinse al seno quella che l'aveva nutrita, e là, per la prima volta dopo
molti anni, pianse senza ritegno.
Per rispetto a quest'ultimo abboccamento, i fratelli di Pace e Carità si
erano ritirati.
Era costumanza pure che il prete lasciasse il condannato, e questi si
trattenesse liberamente con coloro ai quali premettevasi di visitarlo. Il
monaco dell'Ordine degli Agonizzanti non fece motto; al giungere di Giovanna
riaprì a metà i suoi occhi, poi continuò a recitare le sue orazioni a voce
bassa.
Quando Paola ebbe versato nel seno della sua nutrice tutte le lacrime da
tanto tempo raccolte, alzò il capo, e fissando i suoi occhini neri su quelli
della sua vecchia nutrice, le disse con ineffabile tenerezza:
"Tu pure vuoi dunque morire?"
"Dopo di te solamente," rispose Giovanna.
"Hai ragione," disse Paola con un amaro disprezzo della vita; "Che faresti
tu sola quaggiù?"
"Non è vero?" disse Giovanna, come se per quelle due donne che avevano
vissuto soltanto di affezione e d'amore, la vita terrestre non fosse niente
senza quella dell'anima, e non fossero state create che per vivere quaggiù,
come gli arcangeli, d'estasi.
Poscia rimasero in silenzio l'una al fianco dell'altra, con le mani
teneramente strette, assaporando la felicità di vedersi ancora avanti la
loro separazione d'un giorno.
Esse non avevano più nulla da dirsi, la terra non esisteva più per loro;
andavano a morire ed a ricongiungersi.
Avevano così passato un'ora insieme senza contarne i minuti, un birro entrò
nella cappella per avvertirle che era tempo di separarsi.
Solamente allora il dubbio che l'aveva tormentata tornò ad agitare lo
spirito di Paola, e quando la sua nutrice le distese le braccia per
istringerla in ultimo amplesso, le disse con angoscia:
"Non è vero che Iddio mi riceverà nel suo seno, e che mi ha perdonata?"
"Povera vittima," rispose Giovanna; "sii tranquilla, noi ci rivedremo."
Un raggio celeste risplendette a quelle parole sul viso di Paola.
Presentò il suo bel volto al bacio della sua madre adottiva; Giovanna la
baciò teneramente in fronte, ed uscì dicendole:
"Tra breve."
Paola rimase immersa in un'estasi celeste, che durò fino a giorno.
XLIX. Il supplizio della ruota.
Erano sei ore del mattino.
Un uomo entrò nella cappella in cui era Paola.
Quest'uomo era il carnefice.
Nel vederlo la prima impressione che provò Paola fu di terrore, la seconda
di gioia; avvicinavasi alla morte!. Ma, suo malgrado, all'aspetto dell'uomo
che doveva torturarla non aveva potuto reprimere un primo sentimento di
orrore; istinto della natura fisica, che non cede che dopo la riflessione
all'influenza del sentimento morale.
"Sono pronta," disse la giovine, alzandosi.
Il carnefice allora si avvicinò, e pose la sulla testa della condannata una
calotta verde, ornata di croce bianca. Quella calotta aveva la forma di un
berretto greco.
Quindi spogliando Paola della sua tunica di flanella bianca, il carnefice la
coprì di una veste metà rossa e metà nera. Il color nero era quello dei
parricidi, il rosso indicava il sacrilegio.
Paola lasciò fare con indifferenza; poco si curava dell'abito col quale
racavasi alla morte.
Quando il carnefice ebbe finito:
"Null'altro?" gli domandò essa.
"Null'altro per ora," replicò quell'uomo.
"Quando deggio morire?"
"Non ancora." "Oh mio Dio!" disse Paola con impazienza.
Il carnefice la guardava con istupore; non comprendeva come un condannato
fosse impaziente di morire.
"Fate i vostri ultimi atti di contrizione."
Paola si gettò in ginocchio, volgendo nuovamente a Dio la sua solita
preghiera:
- "Deh! Che io sia riunita a Fernando!" -
Un prete entrò allora nella cappella per esortare un'ultima volta la
condannata, ma essa non gli rispose, continuò ad implorare Dio nel suo
animo. E siccome quegli insisteva, gli rispose con dolcezza:
"Iddio mi ha perdonato, mia madre me lo ha detto." Il prete credé che il
timore del supplizio avesse fatto smarrire la sua ragione.
In quel momento venivano a cercarla.
Essa si alzò con un grido di gioia, e si slanciò verso la porta; ma siccome
il calice del dolore non era per essa stato riempito, le vennero prese le
mani e legate con delle corde, come se fosse stato necessario trascinarla a
forza a quel supplizio che reclamava con tanto ardore.
Ma la rassegnazione di Paola non aveva più limiti: pareva quasi felice di
soffrire.
Essa uscì dalla cappella.
Quando, dopo aver traversato i corridoi oscuri della prigione, si trovò
nella strada, il sole illuminò il suo pallido volto. Abbagliata da quella
luce subitanea, Paola chiuse gli occhi un istante.
Quando un poco abituata a quella luce viva, li riaprì e guardò intorno a sé,
videsi circondata da soldati, da persone pie, che con un cero in mano
l'accompagnavano
devotamente al supplizio, e dai monaci dell'ordine degli Agonizzanti,
schierati in due file, i quali recitavano con tuono lamentevole le preghiere
che precedono l'ultimo istante.
Uno di essi stava di continuo al fianco della condannata, esortandola a
morire religiosamente.
Quindi misti agli Agonizzanti, i fratelli di Pace e Carità, ultimi amici dei
condannati al supplizio, accompagnavano l'oggetto delle loro cure, quasi
diremmo del loro culto, antitesi vivente della legge umana, la confraternita
di Pace e Carità era l'interprete fedele della clemenza del divin Salvatore.
Le persone del popolo, sempre avide di spettacoli orribili accorrevano in
folla sulle tracce del condannato. Molte di esse rimanevano sorprese nel
veder quel giovane e vezzoso sembiante, che pareva appartenere ad un donna o
ad un arcangelo.
Ma, poiché il giudizio di Paola pronunziato a porte chiuse non aveva
lasciato nulla divulgare di quanto era accaduto, fuorché la condanna a morte
dell'assassino, tutti ne ignoravano il vero sesso; s'immaginavano un uomo
terribile e colossale! L'assassino d'un grande inquisitore non poteva essere
che un uomo straordinario, ed ecco comparire un individuo gracile, pallido,
soave e vezzoso, una creatura quasi ideale.
Durante quell'orribile pellegrinaggio, Paola fu l'oggetto d'una ardente
curiosità, e di una pietà incredibile. Il popolo, che la credeva sempre un
fraticello, sentivasi, suo malgrado, intenerito in favore di tanta
giovinezza, e la memoria esosa di Pietro Arbues aumentava pure quella
disposizione all'indulgenza verso il suo uccisore.
Il corteggio arrivò fino alla piazza maggiore.
Al rivedere quel luogo in cui, l'ultima volta che eravi venuta, il giorno
cioè dell'atto-di-fede, Pietro Arbues aveva fatto immolare tante vittime,
il cuore di Paola si commosse di sdegno, volse lo sguardo verso la sua
esistenza terrestre, ormai venuta al suo termine. Chinò la testa sul suo
petto, ed attese che la morte venisse a cercarla.
Guardò, senza impallidire, gli strumenti del suo supplizio, e salì sul palco
con passo fermo.
Un monaco dell'Ordine degli Agonizzanti salì con essa.quando fi giunta, si
gettò in ginocchio alzando gli occhi al cielo, e dal profondo del suo cuore
implorò per l'ultima volta la sua misericordia. Poi si rialzò ed attese.
Ma in quel momento i suoi occhi si fermarono sulla folla che circondava il
palco, fra tutti quei visi sconosciuti vide una bianca e dolce figura che
stava a pié del suo calvario, come la madre di Cristo sotto la croce del
Salvatore degli uomini.
Era la buona e coraggiosa Giovanna.
In quell'istante supremo voleva ancor fortificarla con la sua presenza, e le
aveva detto il cuore di venire ad assistere al suo supplizio.
Paola le volse un sorriso impercettibile, poi le mostrò il cielo con uno
sguardo.
Allora Giovanna fece scendere la sua mantiglia sul volto, e subito la rialzò
per dirle ancora una volta in linguaggio simbolico: - la nostra separazione
non è che d'un giorno. -
Il sacerdote che assisteva la condannata le presentò allora da baciare un
Cristo d'argento che aveva in mano, Paola accostò religiosamente le labbra
alla sacra immagine.
Il prete allora la benedisse, ed il popolo entusiasmato alla vista di una sì
toccante rassegnazione, si esaltò per il reo che morva in un modo sì santo.
L'esecuzione stava per cominciare.
V'era sul palco una croce di sant'Andrea, una mazza di ferro, un'ascia ed un
ceppo.
Il carnefice sciolse le mani della condannata, prese la sua mano destra per
il pugno, la posò sul ceppo e volle legarvela.
"E' inutile," disse Paola, "fate!"
Il carnefice alzò la sua ascia.
Paola seguiva coll'occhio tutti i suoi moti.
Ma più rapida del pensiero, l'ascia piombò sibilando, e quella mano bianca e
pallida balzò dal ceppo inondata da torrenti di sangue che scorrevano dalle
arterie tagliate.
Con un sol colpo il carnefice l'aveva separata dal braccio.
Un lungo grido d'orrore mandò il popolo. Paola solamente non aveva detto
nulla, il suo viso però era divenuto più pallido, ed un leggiero tremito
nervoso si era impadronito di lei.
Il carnefice volle fermare il sangue che usciva dalla ferita.
"Lasciate," disse Paola, "finiremo più presto."
Essa impallidiva a vista d'occhio, è, malgrado la immensità del suo
coraggio, il dolore atroce che provava e la grande quantità di sangue che
scorreva dal suo braccio mutilato l'avevano indebolita di tal guisa che
poteva appena sostenersi.
Volse i suoi occhi verso la croce dove terminar doveva il supplizio, e nella
sua inesprimibile avidità di riposo, sorrise a quel letto di dolore su cui
il suo corpo stava per appoggiarsi; ed indirizzandosi al carnefice, con voce
supplichevole gli disse:
"Terminate."
il carnefice aiutato da un servo, l'alzò bentosto con le sue braccia
robuste, la dispose sulla croce, avendo cura che ciascuno de' suoi membri
corrispondesse a ciascuna delle sue braccia, in guisa che, situato in tal
modo, il corpo aveva la figura di una X. Legò quindi le gambe e le braccia
della vittima, e quando tali operazioni furono finite, quell'uomo
impassibile alzò la sua mazza di ferro come avrebbe potuto fare una macchina
vivente.
La mazza ripiombò con tutto il peso della forza erculea di quell'uomo sopra
un braccio debole, che ruppe come il vetro. Era quello che aveva già subita
la pena dei parricidi.
Un gemito sordo, prolungato, involontario venne a morire sulle labbra dalle
sventurata. Un fremito orribile di dolore correva per le ossa di Paola.
Era uno spettacolo orribile.
La folla, cupa e taciturna, assisteva fremendo a quel dramma spaventevole.
Malgrado i lacci che la trattenevano su quella croce di agonia, le membra di
Paola erano agitate da terribili convulsioni, e, malgrado il calore della
giornata, i suoi denti battevano come se avesse avuto freddo. Il sangue
continuava ad uscire, ed essa tacevasi ognora più debole
Tre colpi di mazza, simili ap rimo, terminarono di rompere quel corpo sì
bello, creato per tutte le delizie della vita, ed ogni volta i gemiti di
Paola divenivano più sordi e più indistinti.
All'ultimo colpo i gemiti furono appena sensibili.gli occhi della vittima,
già offuscati e velati, terminarono di chiudersi, le loro lunghe palpebre
nere si abbassarono sulle guancie come un'ombra leggiera; la sua fronte
impallidì, la sua bocca si contrasse sui suoi denti, come un ultimo sorriso,
ed una leggiera convulsione sollevò per l'ultima volta il suo petto.poi
tutto fu finito.
Il sangue cessò di scorrere dalle arterie inaridite. Paola non soffriva più.
Il carnefice posò la mano sul cuore della condannata, che non aveva più
pulsazioni.
"E' morta, padre," disse quell'uomo al frate che l'aveva accompagnata fino
sul palco.
"Dio faccia misericordia all'anima sua;" rispose il frate, volgendosi verso
il popolo: "preghiamo, fratelli per la vittima che è spirata."
A quelle parole Giovanna, che in tutto il tempo che era durato quello
spaventevole giudizio, era rimasta appié del palco, soffocando i suoi
singhiozzi o divorando le sue lacrime, Giovanna, mandò un gran sospiro, come
se un peso orribile fosse stato tolto dal suo petto.
Sua figlia che non aveva potuto salvare, aveva almeno cessato di soffrire.
V'era gran silenzio nella folla; quella terribile esecuzione era stata sì
rapida, la paziente vittima, forte e rassegnata, aveva sì poco cercato
d'intenerire
il popolo in suo favore, aveva mostrato un coraggio talmente eroico, che
quel popolo spagnuolo, amante come era di ogni grandezza, si sentiva
trascinato da una ammirazione illimitata verso il frate parricida. Se avesse
saputo che quel frate era una donna. quanto maggiore sarebbe stata la sua
ammirazione!
Ma per un calcolo della giustizia quel segreto rimase sempre ignorato;
temevasi che, divulgandolo, non si desse così luogo ad indovinare la vera
cagione della morte di Pietro Arbues.
Ora questo non era il divisamento della Chiesa romana, che voleva fare
dell'inquisitore
un santo ed un martire.
Il carnefice ed i suoi assistenti scesero dal palco.
Il popolo si ritirava lentamente, ciarlando a modo suo su quell'avvenimento
straordinario di uno inquisitore messo a morte per avere assassinato un
altro inquisitore, perciocché Paola era sempre per lui un ufficiale
dell'Inquisizione.
Bentosto non rimasero più intorno al palco che le sentinelle incaricate di
guardare il corpo fino all'ora in cui il carnefice venisse a dividerlo. Ciò
doveva essere fatto la stessa notte.
Giovanna fu l'ultima a ritirarsi, ma si tenne un poco lontana dalla piazza,
nel fondo di una chiesa vicina, la missione non era ancora compiuta.
Di quando in quando alcuni curiosi si avvicinavano attorno al palco, si
alzavano sulla punta dei piedi, e guardavano il cadavere del condannato,
bello ancora, malgrado tante mutilazioni, ma le sentinelle allontanavano i
curiosi; perocché erasi ordinato che nessuno potesse accostarsi troppo da
vicino.
La piazza maggiore era deserta; soltanto alcuni garduni la traversavano di
tanto in tanto silenziosi, coi piedi nudi, e camminando con un passo sì
leggiero che sarebbesi detto augello che lambisse il suolo.
Passavano di là come per caso e senza intenzione, non accostandosi neppur al
palco; ma in realtà quegli uomini erano in sentinella per sorvegliare il
rapimento del cadavere di Paola dopo che il carnefice l'avesse diviso. Colei
che non aveva cessato di vegliare su quella sventurata fanciulla in sua
vita, la nobile e fedele Giovanna, vegliava ancora sulla sua spoglia
mortale; coll'oro e le gioie che le rimanevano aveva comperato quegli uomini
cui l'allettamento del guadagno aveva sempre il potere di sedurre, e dai
quali, in causa dei loro rapporti intimi coll'Inquisizione, l'impunità era
quasi sempre assicurata.
Quando suonarono dieci ore, il carnefice, seguito da un aiutante, ritornò
sul luogo dell'esecuzione. Egli aveva in mano un sottilissimo coltello, e
l'altro
portava spiedi di ferro acuminati.
Giunto sul palco il carnefice cominciò a sciogliere il cadavere che era
rimasto attaccato alla croce, era ancora tiepido, e le membra non avevano
perduto che pochissimo della loro elasticità.
Il carnefice divise sul dorso la tonaca della quale Paola era vestita, e
pose a nudo quel corpo bianco e puro, di una forma incantevole.
Quindi alla luce di una torcia di ragia, la cui fiamma vacillante proiettava
su quelle carni scolorite un rosso vivo mescolato a grandi ombre nere, il
carnefice si mise a fare la dissezione del corpo; con incredibile destrezza
recise i muscoli ed i nervi; tagliò prestamente i tendini, e dopo aver
perfettamente disgiunte le ossa, li disarticolò l'uno dopo l'altro, finì di
recidere i muscoli, e separò le membra dal tronco.
Ciò fatto, tagliò bravamente la testa, e la pose allato delle membra.
Mentre terminava questa operazione, un fratello maggiore di Pace e Carità si
avanzò verso il palco, e reclamò il tronco del cadavere per seppellirlo. Era
questo un diritto della confraternita, ed essa si affrettava a farlo valere.
Il tronco fu religiosamente raccolto in una cassa di legno di quercia, ed i
confratelli, impadronendosi di quella preziosa spoglia, gettarono uno
sguardo di rancore sulle membra abbandonate che rimanevano in balia del
carnefice. Tuttavia il corpo non fu rilasciato alla confraternita di Pace e
Carità che sotto giuramento di non rivelare il sesso di Paola.
Ma bisognava che la giustizia avesse il suo corso.
Il carnefice prese dunque le membra e la testa; le riunì e le legò in un
sacco di tela, pieno di crusca, e ognor seguito da' suoi accoliti,
s'incamminò
verso la strada di Cadice, dall'altro lato del quartiere di Triana.
I garduni il seguirono da lungi per vedere quale strada prendessero.
Quando furono giunti ad una mezza lega circa da Siviglia, gli esecutori
piantarono in terra cinque spiedi di ferro, ve li fissarono solidamente con
un grosso martello; poscia il carnefice pose ed infisse egli stesso sulla
punta degli spiedi che erano fuori di terra, le membra e la testa di Paola,
che rimasero così esposte alla vista dei passeggeri ed alla voracità degli
animali selvaggi.
Dopo di che gli esecutori si ritirarono; la loro missione era intieramente
compiuta.
I garduni eransi tenuti nascosti a qualche distanza.
"A noi, ora," dissero quando videro gli esecutori molto lontani.
"Sì, e sbrighiamoci," soggiunse uno dei garduni, "affinché la tigre non
vanga a sorprenderci in un simile ecclissamento."
"Il cielo ne liberi! Amerei meglio esser sorpreso eclissando la mitra
dell'arcivescovo."
Nello stesso tempo i due figli della Garduna si avvicinarono insieme agli
spiedi dov'erano esposte le membra di Paola.
Uno di quegli uomini distese, per i quattro angoli, un gran quadrato di tela
bianca, mentre l'altro, togliendo ad uno ad uno le membra e la testa della
giustiziata, li deponeva nel quadrato di tela.
Pochi minuti bastarono a quella operazione. Poi, carichi del loro prezioso
fardello, i garduni ripresero il cammino del palazzo, che fortunatamente era
poco lontano.
Niuno s'incontrò per la strada, e la loro spedizione notturna rimase
perfettamente nascosta.
Mandamiento li attendeva nella sala della deliberazione.
"Ecco, maestro," dissero giungendo, " il nostro dovere è compiuto."
"Non ancora," rispose Mandamiento, "seguitemi."
E li condusse nel sotterraneo ove avevano abbruciato il cadavere del
governatore di Siviglia.
Là Giovanna attendeva.
Una cassa foderata di seta bianca, era nel mezzo del sotterraneo, a lato di
una fossa che vi si era scavata.
Vedendo giungere i garduni, Giovanna si alzò.
Andò incontro ad essi, e prese dalle loro mani le membra mutilate della sua
figlia, quindi disse a Mandamiento:
"Lasciatemi sola alcuni istanti: seppellirò io stessa la mia figliuola."
Mandamiento ed i garduni si ritirarono.
Giovanna distese per terra la tela che conteneva gli avanzi di Paola,
quelli, almeno, che la Pace e Carità non aveva potuto seppellire.
All'aspetto di quel nobile capo, che essa aveva tanto amato, il coraggio
della vecchia sembrò abbandonarla un momento. S'inchinò su quelle labbra
fredde e scolorate che avevano succhiato il suo latte quando Paola era
bambina, e versò le sue ultime lacrime, lacrime di madre.
Ma quell'anima forte e piena di fede non poteva lasciarsi abbattere
lungamente, guardò quegli occhi spenti da cui la vita erasi ritirata, e loro
disse, baciandoli un'ultima volta:
"Inviluppo mortale dell'anima della mia Paola, torna alla terra, aspettando
l'eterna resurrezione! Paola non è più, Paola è nel cielo, ed io andrò a
raggiungerla."
Asciugò le sue lacrime, depose coraggiosamente le gelide membra nel feretro
che le attendeva, le cuoprì d'un gran velo, e s'inginocchiò pregando appiè
del feretro stesso.
L. L'addio.
In uno dei numerosi alberghi che costeggiano il molo ove vanno a mangiare i
marinai che da tutte le parti del mondo approdano nel porto di Cadice, tre
persone erano riunite in una sala a terreno.
Intorno ad essi, su delle panche ordinarie, erasi disposto qualche oggetto
indispensabile per un viaggio oltremare: due piccole valige ed una sacca di
lana serrata dai cordoni in modo di poter essere portata a mano, e salvata
eziandio in caso di fuga.
Le tre persone che occupavano quella sala erano il conte di Vargas, la
giovane contessa e Giovanni d'Avila.
Già da quindici giorni Estevan e Dolores, arrivati sani e salvi a Cadice,
per grazia della Garduna, aspettavano l'adempimento della promessa di Josè.
L'Apostolo che li aveva preceduti di qualche giorno, aspettava con essi,
aiutandoli a sopportare con pazienza quei momenti di penosa ansietà che
precedono il compiersi di un atto decisivo della vita.
Tuttavolta l'impazienza cominciava a vincerli.
Oltracciò, malgrado il loro incognito e la precauzione che avevano avuto i
giovani sposi di conservare abiti popolari, Giovanni d'Avila non era
tranquillo; temeva per essi le persecuzioni del Sant'Uffizio.
I tre amici erano seduti da qualche minuto, senza parlare, parevano essere
in preda ad una grande preoccupazione.
"Padre mio," disse finalmente il conte, "sono quasi venti giorni che abbiamo
lasciato Siviglia; il bastimento olandese che deve trasportarci può partire
da un momento all'altro, ed io temo di esporre Dolores a qualche pericolo,
soggiornando più lungamente in Ispagna. Pensate voi che don Josè venga a
raggiungerci come ha promesso? Non ho più a temere."
"Che so io?" rispose il monaco; "la di sparizione di Giovanna mi sembra
strana; la fuga di questa donna nasconde certamente un mistero, però non
posso credere ."
"Oh no!, no!" esclamò la semplice Dolores, "Josè ha cuore angelico, martire
come noi, chi sa quale sventura lo avrà colpito. v'era qualche cosa di
fatale in lui."
"Io non ho mai avuto intiera confidenza in quel Domenicano," replicò
Estevan.
"L'Inquisizione nasconda tanti segreti singolari e terribili!" osservò
Giovanni d'Avila.
"Ma infine, Padre mio," continuò Estevan, "la nostra sicurezza esige che noi
partiamo al più presto; debbo io, per ubbidire ad una parola data in
ricambio di una prodezza incerta, compromettere la sicurezza di quella che
m'è
più cara della vita?"
"Due giorni ancora," disse dolcemente la contessa, "due giorni solamente,
mio Estevan; se dopo questo termine Josè non sarà venuto.ebbene! Partiremo,"
aggiunse con un sospiro, come se, al momento di lasciarla, avesse dato una
memoria di tenerezza e di cordoglio alla sua diletta Spagna.
In quel momento un uomo del naviglio sul quale dovevano imbarcarsi, venne ad
avvertirli che si metteva alla vela la sera stessa.
"Come!, sì presto?" esclamò vivamente Dolores.
"Il vento è favorevole, o signora," rispose il marinaio. Queste parole
troncarono ogni questione.
Dolores abbassò mestamente la testa, e non parlò più.
"Lo vedete, padre mio?" disse Estevan; "è impossibile aspettare di più,
bisogna partire, partire in questo stesso giorno."
"E' vero, disse Giovanni d'Avila, commosso per la tristezza di Dolores;
"imperiosa necessità lo vuole, bisogna ubbidirle. Finalmente," soggiunse,
"questa è per certo la volontà di Dio."
"Ebbene," disse Estevan al marinaio, mostrandogli le due valigette;
"prendete queste, e recatele a bordo. Stasera ci porteremo sul naviglio."
Il marinaio ubbidì e si ritirò.
Dolores tolse il sacchettino di lana, e ne passò il suo braccio nei cordoni.
Quel sacco conteneva le ceneri di suo padre.
Il tempo era caldissimo, Estevan uscì un momento dall'albergo per respirare
l'aria fresca che sorgeva dal mare. Fece alcuni passi sul molo, lungo le
mura che circondavano il seno dov'era situato il porto di Cadice.
Quell'antica
fortezza, quella città inespugnabile, circondata da una duplice cinta
d'acqua
e di pietra, aveva un aspetto cupo e funesto.
Il sole cadeva direttamente sull'infocato terreno, le strade erano deserte,
e non udivasi al di fuori che il rumore dei flutti, i quali percuotevano il
piede delle mura, od i passi delle sentinelle di fazione alla porta di Mare.
- "Questa sera, - disse finalmente don Estevan, parlando fra sé medesimo, -
questa sera adunque lascerò la Spagna!. oh! Che il cielo le sia propizio! -
esclamò volgendosi verso il nord, come per dare un ultimo sguardo d'amore e
d'ineffabile mestizia a quella terra diletta. Possa Iddio deviare da lei il
flagello delle sue maledizioni, e renderla ad una vita novella. Orsù, -
soggiunse sospirando profondamente, - per me l'ultimo sacrificio è fatto.
Bisogna fuggirla, poiché non posso fare nulla per lei.-
Mentre terminava queste parole, vide venir verso di sé, dal lato della via
di terra, cinque persone che portavano il vestimento dei Sivigliani. Allora
tornò indietro, e rientrò prudentemente nell'albergo; perciocché tremava ad
ogni stante che alcuno venisse sulle loro traccie, e che li scoprisse
innanzi che avessero potuto imbarcarsi.
Ma aveva chiusa appena la porta della sala ov'erano Dolores e Giovanni
d'Avila,
che fu picchiato fortemente a quella porta.
Estevan trasalì e stette alquanto in dubbio.
"Che cos'è," domandò Dolore stupefatta.
"Apriteci, signor Estevan," gridò nello stesso tempo una voce che i tre
amici riconobbero subito. Era quella di Gioachino.
"E' Josè che giunge!" esclamò Dolores.
Estevan, alquanto rassicurato, aveva aperta la porta. Ma non era Josè: era
Gioachino, la sua sorella, Manofina e la Sirena, condotti da uno dei garduni
della confraternita di Cadice, i quali avevano ricevuto Estevan e Dolores al
loro arrivo, e li avevano raccomandati alla padrona dell'albergo ov'erano
alloggiati.
Grande fu la sorpresa di Dolores, d'Estevan e di Giovanni d'Avila.
"Che siete venuti a fare a Cadice, figli miei?" domandò loro l'Apostolo.
"Siamo venuti a cercare il signor Estevan e la signora Dolores, per servirli
e seguirli ovunque andranno," rispose la Sirena.
"Grazie della vostra affezione," rispose la contessa intenerita; "non è la
prima volta che la conosco; ma sapete bene, amici miei, che chi volete
seguire sono poveri esiliati che avranno appena da darvi di che vivere?"
"Noi lavoreremo per soccorrerli," risposero nello stesso tempo le due donne.
"Il lavorare non ci costerà pena, riprese Gioachino; "ma, grazie al cielo,
le signorie loro non avranno bisogno del nostro misero soccorso."
"E don Josè1, che è stato di don Josè?" esclamò Dolores con ansietà; "non mi
avete ancora parlato di lui, Gioachino."
Al nome di Josè, Gioachino abbassò mestamente il capo, Manofina rimase
interdetto, e le donne si posero a piangere.
"Che è stato?, che gli è accaduto?" domandò la contessa de Vargas.
Allora con voce trista, commossa, interrotta, il fedel taverniere raccontò
il terribile scioglimento della tragedia che aveva avuto luogo in Siviglia.
Giovanni d'Avila, Estevan e Dolores ascoltarono con profonda stupefazione
quello spaventevole racconto; e quando Gioachino, nel suo linguaggio animato
e pittoresco, venne a descrivere gli ultimi momenti di Josè:
"Oh!" esclamò la contessa versando copiose lacrime, "sapeva ben io che Josè
era un martire!"
"Ciò non è tutto, signora," aggiunse Gioachino traendo fuori il portafogli
che Paola aveva con tanta cura sigillato il giorno in cui essa lasciò il
palazzo inquisitoriale: ecco un deposito che don Josè mi ha consegnato per
voi; prendete, signora, questo vi appartiene."
"A me?" disse Dolores stupefatta.
"A voi, figlia mia," disse Giovanni d'Avila," poiché è il legato d'un
moribondo."
Dolores prese allora il portafogli con tremula mano, l'aprì, poi lo diede ad
Estevan. Essa non comprendeva il valor di quantità di pezzi di carta coperti
di scarabocchi, e chiusi nelle pieghe del marrocchino.
Miglior conoscitore di tal sorta di oggetti, Estevan, dopo avervi gettato un
rapido sguardo, disse a Dolores:
"Nobile Josè! ei non ha voluto che coloro che amava avessero a soffrire la
miseria; qui vi sono copiose ricchezze."
"Povero Josè!" esclamò Dolores, più commossa per la morte orribile del loro
amico e per l'affetto loro aveva manifestato, anco morendo, che per il
miglioramento portato da quella considerevole somma nella loro presente
situazione.
Nello stesso tempo vide nel portafogli una carta di una dimensione maggiore
delle cambiali, diligentemente piegata e sigillata.
Sull'inviluppo Paola aveva di proprio pugno tracciato le linee seguenti:
Alla contessa Dolores de Vargas, quando sarà in sicurezza fuori della sua
patria.
"Questa non dev'essere ancor letta, disse Dolores; e la ripose nel
portafogli.
La giornata passò rapidamente, il sole volgeva all'occaso, il moto e la vita
cominciavano a tornare nella città.
Il marinaio che già un volta era venuto ad avvertire i viaggiatori, entrò
nuovamente nell'albergo.
"Signore," disse ad Estevan, "una barca aspetta alla porta di Mare per
condurvi al bastimento."
"Partiamo," disse Estevan, "partiamo; poiché bisogna partire, è meglio
presto che tardi."
Dolore allora avvicinassi a Giovanni d'Avila, e colla sua voce dolce e
penetrante, il cui incanto era irresistibile:
"Padre," gli disse, "voi ci seguite?"
"No," rispose Giovanni d'Avila, "no, figlia mia, non vi seguirò, io non
appartengo a me stesso, appartengo alla Spagna, i miei poveri e i miei
afflitti mi reclamano, e debbo tornare da loro."
"Ditemi almeno che penserete a noi," soggiunse la contessa.
"Dolores," disse Giovanni d'Avila, "lasciatemi almeno il merito del
sacrificio. Io sono uomo, e il mio cuore è accessibile al dolore ed
all'affanno;
ma innanzi tutto sono ministro di Gesù Cristo, il ministro deve vincere.
Degl'infelici hanno bisogno di me, io appartengo a quest'infelici."
"E' vero," disse Dolores, "tornate presso di loro, che non possono far senza
di voi. Voi siete per essi il rappresentante di Dio, che sa cangiare il male
in bene, mentre l'Inquisizione cambia in male il bene più perfetto."
"Ecco perché non posso seguirvi," rispose Giovanni d'Avila.
"Padre," ella disse, "non voglio distogliervi da questo sublime sacrificio.
Ubbidite alla voce del cielo, ma da lungi il vostro spirito vegli sopra di
noi: stiamo uniti in eterna e santa amicizia."
"Non è forse questa la vera comunione dello spirito annunziata
dall'uomo-Dio?"
rispose l'Apostolo, "sì, figlia mia: io sarò sempre unito a voi col
pensiero."
"Oh!" disse Dolores, "da lungi ancora mi sembra che rimarrò sotto
l'influenza
della vostra onnipotente protezione."
"Voi sarete sotto l'occhio e sotto la mano di Dio," rispose Giovanni
d'Avila;
"di che temete?."
I viaggiatori uscirono allora dall'albergo. Giovanni d'Avila volle
accompagnarli fino al bastimento.
Montarono in due scialuppe che gli attendevano alla riva; i marinai
agitarono i loro remi, ed in pochi minuti furono sotto il vascello olandese
che doveva trasportarli; massa enorme dal ventre largo e rotondo, colosso
lento, ma infaticabile, che sembrava sfidare la tempesta. Fu gettata loro
una scala che doveva aiutarli ad entrare nel vascello.
Gioachino e sua sorella, Manofina e la Sirena salirono per primi.
Estevan e Dolores erano rimasti nella prima scialuppa con Giovanni d'Avila.
"Fate presto, signori," gridò il pilota; "il vento rinfresca, ed ora si
mette alla vela."
Estevan prese la mano di Dolores per aiutarla a salire; Giovanni d'Avila si
alzò.
"Addio, Padre mio," gli disse la contessa, trattenendo una lacrima;
"addio.pregate per noi."
"Addio, figlia mia," rispose il santo con voce commossa, "addio. non obliate
che non v'è che una felicità al mondo, ed è quella dei cuori puri ed
amanti."
"Padre mio," rispose Dolores a voce bassa, "non v'è felicità per gli esuli!"
E si slanciò leggera e rapida sulla scala e raggiunse bentosto il ponte del
vascello.
"Addio, Padre mio," disse a sua volta Estevan; "se mai la Spagna si ridesta,
ricordatevi d'uno dei suoi figli, che condurrà lungi da essa vita languida
ed infelice."
"Estevan," rispose Giovanni d'Avila; "i veri figli di Dio non han che una
patria, la terra! e da qualunque punto del globo una voce calda e potente
faccia udire l'inno e eterno della verità, essa porta una pietra
all'edifizio
della sociale felicità. Io ve l'ho detto, non si rigenera un popolo colla
spada, ma colla parola, e questa va a rimbombare invisibile, ma frequente,
alle estremità del mondo. Andate, siate tranquillo, fermo nella via in cui
vi siete impegnato, e ricordatevi che per cangiare la faccia del mondo non
sono abbisognati che dodici apostoli, dodici uomini semplici ed umili di
cuore, ma animati da fede inalterabile; anco lontano potete cooperare alla
rigenerazione della Spagna."
Estevan pure salì sul bastimento. Tutti erano a bordo. Si alzò la scialuppa
sul vascello; e quella che conteneva Giovanni d'Avila si allontanò a forza
di remi.
Appoggiati alla cannoniera, Estevan e Dolores fecero un ultimo segno d'addio
al loro santo amico. Giovanni d'Avila alzò la mano destra, e mostrò loro il
cielo, quasi per dire:
- Lassù ci rivedremo. -
Sul naviglio era un insolito agitarsi; i marinai spiegavano le vele, e
lasciavano in balia del vento quelle bianche tele tessute nella flemmatica
Olanda. Il bastimento, quella massa enorme, quasi fosse impaziente di
riveder la sua patria, sembrava agitarsi sull'instabile onda, un fremito
sordo correva per gli ampi suoi fianchi, e pareva vivere della vita di che
s'agitava
nel suo seno.
Nel momento di partire, i passeggeri serbavano profondo silenzio.
Non si udiva che la voce dei capi che pronunziavano i loro ordini in sillabe
brevi e sonore, e i passi frettolosi dei marinai, intenti alla manovra,
impazienti di lasciare la terra, la terra in cui il marinaio non sa che
annoiarsi.
Manofina e la Sirena, Gioachino e sua sorella, da veri andalusiane fedeli ai
loro costumi di gitani, ernasi coricati sul ponte, e guardavano con occhi
umidi l'orizzonte turchino sparso di punti luminosi.
Estevan e Dolores in piedi, vicini all'albero maestro, contemplavano con
entusiasmo misto a tristezza gli splendori di quella magnifica serata.
Il sole discendeva all'orizzonte, e diviso in innumerevoli raggi prismatici,
somigliava a largo opale in mezzo ad una legatura di gemme di tutti i
colori.
Dal punto in cui trovavansi, gli esuli ammiravano Cadice, la città
inespugnabile, Cadice dalle cupole di pietra, cinta dal mare come da una
cintura verde, e prolungata all'est dal Trocadero, d'immortale memoria.
Poscia, al di là, era la terra di Spagna, la bella Valenza, Granata, la
figlia prediletta dei Mori, malaga dai vini deliziosi, e più lungi,
finalmente, Siviglia, la patria d'Estevan e Dolores.
Tutto il tempo che durarono i preparativi della partenza, i due esuli
rimasero cupi e silenziosi, cogli occhi fissi a quell'orizzonte lontano,
pieno, per loro, di rimembranze inebrianti e di vedute incantevoli.
I dolori che avevano provato scomparivano in quel momento, non si
rammentavano più che del loro amore per la bella Spagna, che scompariva per
sempre ai loro occhi. Bentosto si scossero, Dolores si appoggiò al braccio
d'Estevan
per sostenersi. Resi tolta l'ancora.
Il bastimento, trascinato dal suo peso enorme, era balzato sull'acqua come
un toro selvaggio, e dopo alcuni minuti, fremé con un ondulamento graduato,
che s'andava sempre più facendo minore: poi, finalmente, scorse dolcemente
sul mare piano, lasciando dietro di sé un largo solco.
Le onde leggiere, sollevate intorno ai loro larghi fianchi, andavano e
venivano cingendolo di schiuma. Il vento gonfiava le vele, che al suo soffio
mandavano un mormorio lieve, quasi armonioso, la prua solcava il mare, ed a
poco a poco Cadice si perdeva, ed appariva come un punto nero agli occhi dei
passeggeri immobili sul cassero.
Il sole erasi immerso nei flutti: larghe strisce di porpora e d'oro
correvano come nastri di fiamme da un capo all'altro di quel vasto
orizzonte, e la notte scendeva lentamente a coprire la faccia della terra.
Le stelle cominciavano a risplendere nel cielo.
Allora Estevan guardò la sua compagna.
Immobile e taciturna, cogli occhi invincibilmente fissi verso il punto
impercettibile che per essa rappresentava Siviglia, Dolore pareva immersa in
estasi religiosa e profonda.
La sua fronte, colorata dall'ultimo raggio del sole, risplendeva come bronzo
scolpito da Fidia. Le sue narici dilatate aspiravano ancora l'aria
vivificante, e ovunque carica di profumi d'aranci e di rose, che le giungeva
da terra.e le sue labbra avide e frementi, somigliavano alle labbra della
Sibilla, semiaperte per un fatidico canto.
"Io ti saluto!" esclamò finalmente, con voce a cui l'inspirazione prestava
un incanto ed una potenza quasi sovrumana; "ti saluto! madre degli eroi,
amante del poetico libero e del Goto selvaggio, terra amata dal cielo, che
nel tuo seno hai sempre saputo cambiare in oro puro il vile metallo, ti
saluto! o tu, che hai dato nascita al divino Pelagio e ad Alfonso il
Magnanimo, il più savio, il più filosofo dei re[45]. Regina che hai posato
sulla tua fronte le più ricche corone del mondo, tu hai veduto brillare sul
tuo manto di porpora i diamanti del Messico e le palme del deserto. Tutto vi
riunì per contribuire alla tua gloria; i Goti ti hanno dato la loro audacia,
il loro coraggio, la loro lealtà, i Mori, la poesia, che inebria
l'incivilimento,
che addolcisce i costumi, e da questi due contrapposti, la religione divina
di Cristo ha fatto la Spagna cavalleresca e cristiana, la Spagna savia
quantunque conquistatrice, la Spagna terra di felicità e di gloria, che
aveva per tutti i suoi figli latte di nutrice e viscere di madre.
Oh! Sublime unione della religione e della filosofia! Ossifero splendido
trionfo della religione consolante e materna!.non abbiamo noi veduto
sottomettersi alle leggi di una regina dolce, religiosa e tollerante[46] i
fieri discendenti degli Abencerragi, razza eroica, di cui il più umile aveva
sangue reale nelle vene?
Non è la tolleranza, non è la dolcezza, che ha fatto cadere le mura di
Granata, scosse dalla crudeltà de' suoi tiranni?
La notte scendeva più rapida, un velo stendevasi sull'immensità dell'oceano,
il cielo si popolava di stelle brillanti, e Cadice perduta nell'oscurità,
era intieramente disparsa! Nell'orizzonte lontano scorgevasi vagamente
alberi o montagne, immagini informi le quali si perdevano ad un ad una nelle
tenebre.
Dolores continuò il suo canto inspirato, ed a misura che si allontanavano i
rumori della terra, la voce della giovane si faceva più forte, come quella
del vento nel silenzio della solitudine.
"Spagna! Spagna!" esclamò essa, " oh! Quanto eri bella nei giorni del tuo
immacolato splendore, quando i tuoi figli, tanto liberi quanto coraggiosi,
avevano il diritto di dire ciò che loro piaceva, e quando l'ultimo degli
Spagnuoli, eguale a' suoi re per l'inalterabile amore che legava tra loro i
regnanti ed il popolo, osava lagnarsi di un'ingiustizia reale, o dopo aver
detto al re: - Tu hai fatto male, - non restava meno suddito fedele, che
figlio affezionato[47]!
Oh! allora era bello il pronunziare la sacra parola di patria, perciocché la
patria era veramente custode della felicità d'ognuno, e l'esistenza era
dolce nel suo seno; allora c'era sostegno per il debole, gloria per il
forte, giustizia per tutti: allora la spagna era veramente libera e felice,
perciocché la libertà e la felicità sono una stessa cosa.
Allora, aprendo ogni giorno il seno di questa terra feconda, lo spagnuolo
poteva dire con orgoglio:
- E' per me che queste messi si maturano, per me, che queste vigne si
coprono di grappoli dorati.per meglio dire per tutti, poiché la Spagna
formava una grande famiglia di fratelli. -
I partigiani di Roma, insaziabili vampiri, non erano ancor venuti nella
notte a suggere il sangue generoso di coloro che dormivano, affinché nel dì
seguente non si trovassero che cadaveri senza forza.
Allora quei medesimi che facevano la guerra erano magnanimi e valenti, e si
poteva esser sicuri del proprio nemico come dell'amico più tenero[48].
"Oh!" proseguì abbassando la voce, poiché la notte era surta, ed un fremito
glaciale era corso in tutti i suoi nervi; "oh1, perché su questo fertile
suolo, coperto di ricchezza dalla mano generosa dell'Eterno, perché quei
volti grami e sinistri! Qual lugubre sudario involge la testa reale di
quella regina schiava ed oppressa? Quali sono queste mani avide, dalle
unghie di avvoltoio che prendono le sue mammelle per seccarle e per
lacerarle?. il suo pallore è profondo, la sua debolezza completa, le sue
carni rilassate come quelle d'un agonizzante.la sua voce, sì piena e sì
forte, non manda più che ad intervalli un prolungato grido d'agonia,
interrotto dai canti sinistri, rauchi come lo stridere della sega sul ferro,
affliggenti come il rumor del martello che chiude una tomba.
"Spagna! Spagna! Che sei divenuta? Qual verme divoratore ti ha così ferita
nel cuore, ed ha cangiato la tua potente energia in una atonia mortale?.
Coraggio! Non odi tu risuonar da lungi la voce dei tuoi trionfi? Tu stendi
ad un tempo il tuo dominio sulle quattro parti del globo.un re conquistatore
è assiso sul trono, ove vegliano eternamente i tuoi temuti leoni, e la voce
della fama va ovunque ripetendo questi due magici nomi: - Spagna! Carlo V! -
Sì! Io ti odo rispondermi con voce lamentevole:
- Il re fa tutto per la sua gloria, nulla per la sua patria! E mentre il
mondo corona Carlo V, io rimango schiava ed oppressa, e la mia voce si perde
senz'eco nell'immenso deserto dell'egoismo reale!. quando io, affannosa ed
abbattuta, avida di un istante di riposo, grido: Gloria! Libertà! Filosofia!
Mi risponde: Conquiste! Ricchezze! Dispotismo!
L'ignoranza ha coperto la mia fronte di tenebre, e la sola luce che si
lascia arrivare sino a me, è quella dei roghi che divorano le mie
viscere[49]. - Pertanto son chiamata grande perché in lontani paesi ho
guerrieri che regnano in mio nome, e perché la mia bandiera sventola sui
mari dei due mondi; son chiamata forte perché sono paziente e tranquilla, e
perché si ha cura di gettare ogni giorno sulle mie ferite che gemon sangue,
un manto d'orgoglio e di menzogna per coprirle.poiché si estinguono sotto la
tortura i miei lunghi ed angosciosi lamenti.
- Oh! Vivere, vivere e respirare un sol giorno l'aere puro delle libertà!
Vivere e proceder sola nella mia forza verso l'avvenire! -
Così parla la Spagna alquanto rianimata; ma al rumore della sua lamentevole
voce io vedo i vampiri avanzarsi nell'ombra; spingerla di nuovo nella sua
tomba umida, orridamente accosciati sul magro suo petto aprire coi loro
denti le vene dove alcune goccie di sangue circolano ancora. Oh! Pietà per
essa.non terminate di spegnere la sua ultima scintilla di vita! Lasciatela
tornare un momento all'esistenza.lasciatele il tempo di riparare tutto il
sangue che ha perduto!.
Ma no. i vampiri non hanno pietà, la loro vittima, spossata e morente, ha
perduto eziandio quell'ultimo soffio, quell'apparenza di vita che le davano
le vittorie di Carlo V. Uno spettro del re succede al re conquistatore.
Questo spettro regna nella notte e nel nulla.i vampiri, suoi fidi satelliti,
si schierano in ordine attorno a lui, e colle loro scarne mani terminano di
spingere nella tomba il cadavere della Spagna.
E la Spagna, stanca della lotta, si raccoglie in un riposo che somiglia alla
morte. Si è gettato nuovamente su di lei il sudario che separa dalla vita; e
sul suo corpo, assiderato e quasi insensibile, si agitano nel torpore della
loro vita claustrale tutti i membri di Roma. Su quel cadavere inerte si
versa sangue. sangue a torrenti; ed ogni giorno migliaia di roghi divorano
qualche frammento di quel cadavere immobile.
Il cadavere diviene scheletro. Pertanto tutto non è ancor detto!.La cenere,
la cenere feconda può ancora rianimarsi.qual luce benefica e lontana brilla
ad un tratto su di lei?.la polvere si risveglia e ritorna uomo.la Spagna no
era che addormentata.
Ma, ohimé1 quel lungo sonno durerà forse dei secoli, e noi non vedremo i bei
giorni che devono sorgere per la patria.per noi v'è l'esilio, l'esilio dal
pane amaro, e la lotta, la lotta eterna.perciocché quelli che allora non
saranno più, avranno pur fatto la loro parte di questa grand'opera.essi pure
avranno aiutato alla rigenerazione."
Dolores cessò di parlare; dalla sua fronte colava il sudore, e tutto il suo
corpo, agitato da un tremito convulsivo, sembrava pronto a venir meno;
chiuse gli occhi e si lasciò cadere ai piedi di Estevan.
Egli la prese fra le braccia, si assise e, postala sulle sue ginocchia,
appoggiò sul suo petto la bella testa di Dolores.
E la giovane, stanca di mozione e per fatica, s'addormentò sul seno di colui
che amava.
In quel momento si entrava in alto mare: il vento più fresco gonfiò con
nuova forza le vele del naviglio. La luna, mostrando nel cielo la sua faccia
argentina, illuminò con dolce riflesso il bel viso di Dolores.
Silenzio solenne e religioso regnava in quella vasta solitudine dell'oceano,
ed il vascello scorrendo sull'acqua come rapido strale, portava gli esuli
verso quella terra lontana, ove già brillava l'aura della libertà.
LI. Distruzione del Sant'Uffizio.
Ora ci sia permesso domandare al lettore se è buono e saggio pensiero quello
che ci ha guidati nella redazione di questo libro. E' esso una satira
ingiuriosa e di mala fede lanciata contro l'Inquisizione, od è un racconto
fedele, un'esposizione imparziale dei fatti avvenuti in quell'epoca
memorabile e sanguinosa?
Oh! È pure una storia terribile! Quei drammi interessanti, le cui varie
circostanze, rigorosamente conformi alla realtà, sorpassano di gran lunga
tutti i sogni della immaginazione! Quanti tenebrosi e spaventevoli misteri!
Quanti obbrobri e sacrilegii! Quanta vergogna e quanto sangue.
Questa storia ci ha iniziati completamente ai costumi vergognosi, ai
disordini infami degli alti dignitari del Sant'Uffizio, al fanatismo stupido
e barbaro dei subalterni, agli orribili supplizi che i genio infernale e
l'ascetismo
feroce dei monaci sapevano immaginare. Quei supplizi producevano troppo
buoni risultati a vantaggio degli insaziabili monaci, perché essi
consentissero a rinunziarvi. Quante confessioni strappate in tal guisa alla
sofferenza! Quante ricchezze e potenze estorte legalmente! Quante
confessioni immaginarie dettate dal terrore! Quante bugiarde rivelazioni a
profitto della politica e degli odii inquisitoriale! Quante vittime immolate
per l'edificazione del mondo cristiano, per la propagazione della fede
cattolica e per maggior gloria di Dio!
E potrebbe credersi che tali obbrobri siansi perpetuati per molti secoli? Fu
il 4 dicembre 1808 che Napoleone, approfittando dei suoi diritti di
conquistatore, decretò a Chamartin, villaggio vicino a Madrid, la
soppressione dei tribunali del Sant'Uffizio, come ostili alla sovranità.
Quando Giuseppe fu riconosciuto re di Spagna, tutti i processi criminali, ad
eccezione di quelli che potevano appartenere alla storia per importanza e
celebrità, o per la qualità delle persone, furono arsi per suo ordine; ma si
conservarono intieramente i registri delle deliberazioni del Consiglio, le
ordinanze reali, le bolle ed i brevi di Roma, gli affari relativi al
tribunale, e tutte le informazioni relative alla genealogia degl'impiegati
del Sant'Uffizio.
Quasi tutti gli stabilimenti appartenenti all'inquisizione furono, in
quell'epoca,
demoliti senza contrasto e senza sparger sangue.
Per citare un esempio, lasceremo parlare il colonnello polacco Lamanuski,
incaricato dal maresciallo Soult di distruggere l'Inquisizione a Madrid.
"Essendo, nel 1809, a Madrid, la mia attenzione si portò sul palazzo del
Sant'Uffizio. Napoleone aveva già pubblicato un editto per la soppressione
di questa istituzione dovunque giungevano le sue armi vittoriose. Rammemorai
questo decreto al maresciallo Soult, allora governatore; in conseguenza di
che mi ordinò di mettermi in istato di distruggere l'Inquisizione. Gli feci
osservare che il mio reggimento era insufficiente per un tal servizio, ma
gli dissi che, se ve ne aggiungeva due altri, l'avrei intrapreso. Egli
approvò la mia domanda.
Uno di questi reggimenti era sotto gli ordini del colonnello di Lilla. con
queste truppe mi misi in cammino verso l'Inquisizione. La fabbrica era
circondata da un muro fortissimo e guardato da circa quattrocento soldati.
giunto sotto le mura, m'indirizzai ad una delle sentinelle, ed intimai ai
Padri d'arrendersi all'esercito imperiale ed aprire le porte
dell'Inquisizione.
La sentinella, che stava in piedi sul muro parve trattenersi pochi istanti
con qualcheduno nell'interno, dopo di che fece fuoco su di noi, ed uccise
uno dei miei uomini. Fu questo il segnale d'attacco ed ordinai alle mie
truppe di far fuoco su quelli che comparissero sul muro. Divenne bentosto
evidente che il combattimento era ineguale.
Le mura dell'Inquisizione erano coperte di soldati del Sant'Uffizio: v'era
pure un parapetto sul muro, dietro cui si nascondeano, non uscendo che in
parte mentre scaricavano i loro fucili. Le nostre truppe erano in una
pianura aperta ed esposte ad un fuoco micidiale: non avevamo neppure un
pezzo d'artiglieria, non potevamo nemmeno scalar le mura, e le porte
resistevano con successo a tutti i nostri sforzi per isfondarle. Vidi che
era necessario di cambiare modo d'attacco, e feci tagliare degli alberi che,
portati sul luogo stesso, dovevano servire a guisa d'ariete.
Due di queste macchine furono messe nelle mani di tanti uomini quanti erano
necessari per lavorare con vantaggio, ed incominciarono a dare grandi colpi
raddoppiati contro il muro senza curarsi della grandine di palle che vedeasi
piovere su di essi. Bentosto le mura cominciarono a tremare, e sotto gli
sforzi perseveranti e ben diretti dell'ariete fu fatta una breccia, e le
truppe imperiali si slanciarono nell'Inquisizione.
Qui noi avemmo un saggio di ciò che può essere la sfacciataggine gesuitica.
L'inquisitor generale ed i Padri confessori, coi loro abiti sacerdotali,
uscirono dai loro ritiri mentre noi ci aprivamo una via nell'interno
dell'Inquisizione:
e con visi allungati e le braccia incrociate sul petto, come se, nulla
avendo udito del rumore cagionato dall'attacco e dalla difesa, venissero a
domandare ciò che accadeva, si indirizzarono con accento di rimprovero ai
loro soldati, dicendo: "Perché vi battete con i Francesi, nostri amici?"
Pareva che la loro intenzione fosse di farci credere non aver essi in alcun
modo autorizzato la difesa, nella speranza, persuadendoci che erano nostri
amici, di poter profittare più agevolmente della confusione e del saccheggio
dell'Inquisizione per fuggirsene. Li feci guardare a vista, e tutti i
soldati dell'Inquisizione furono fatti prigionieri. Cominciammo allora ad
esaminare quella prigione d'inferno. Traversammo camere dopo camere:
trovammo altari, crocifissi e ceri in abbondanza, ma non potemmo scoprire
alcuna traccia dell'iniquità che dovevano esercitarvi in quel luogo, nessuna
di quelle cose straordinarie che ci attendevamo di trovare in un palazzo
dell'Inquisizione. Vi si vedeva la bellezza, lo splendore, l'ordine più
perfetto. L'architettura, le proporzioni, tutto era ammirabile. I soffitti
ed i pavimenti erano lucidi e puliti. L'impiantito di marmo era di un gusto
squisito. Vi si trovava tutto ciò che può piacere all'occhio e ad uno
spirito coltivato, ma dov'erano quegl'istrumenti di tortura di cui c'era
stato parlato? Dov'erano quelle torri in cui dicevasi esservi uomini
seppelliti vivi? Noi le cercavamo invano. I santi Padri ci assicuravano
d'essere
stati calunniati, e che noi avevamo veduto tutto.
Io mi preparava ad abbandonare le mie ricerche, lasciandomi persuadere che
quest'Inquisizione fosse diversa da quelle delle quali c'era stato parlato,
ma il colonnello di Lilla, non potendo rinunziare sì facilmente a tali
ricerche, mi disse: - Colonnello, voi oggi comandate, e tutto quello che
ordinate devesi fare: ma se volete seguire il mio consiglio, fate prima
esaminare questo impiantito di marmo, fateci versar sopra dell'acqua, e
vedremo se siavi qualche punto nel quale scoli più agevolmente.- Gli
risposi: - Colonnello, fate come vi piace.- E feci portare dell'acqua.
Le lastre di marmo erano grandi e superbamente pulite. Gettandovi sopra
dell'acqua,
con grande malcontento degl'inquisitori, esaminammo accuratamente tutte le
fessure per vedere se l'acqua vi s'infiltrava. Poco dopo il colonnello di
Lilla gridò che aveva trovato quello che cercava. Al lato di una di quelle
lastre di marmo l'acqua scolava molto presto, come se al di sotto vi fosse
un vuoto. Tutte le mani allora si posero all'opera per fare maggiori
scoperte; gli ufficiali colle loro spade ed i soldati colle loro bajonnette
cercavano di sollevare la lastra. Altri la percossero, a colpi raddoppiati,
coi calci dei loro fucili, procurando di romperla, mentre i sacerdoti
esclamavano contro la profanazione della loro bella e santa casa. Tutto ad
un tratto un soldato batté una molla col calcio del fucile, e la lastra si
alzò; allora i volti degl'inquisitori divennero pallidi,e, simile a Baltazar
quando la mano scrivente apparve sul muro, quegli uomini di Belial
cominciarono a tremare in tutte le loro membra.
Guardammo sotto la lastra fatale, che era alquanto sollevata, e vedemmo una
scala. Mi avvicinai alla tavola, e presi da uno dei candelabri un cero di
quattro piedi di lunghezza che ardeva, affine di esplorare la nostra
scoperta. Mentre io me ne impadroniva, fui fermato da uno degl'inquisitori,
il quale, ponendo dolcemente la mano sul mio braccio, mi disse con sembiante
devoto: - Figlio mio, questo è sacro, voi non lo potete toccare colle vostre
mani insanguinate. - Bene, gli risposi, - ho bisogno d'un lume sacro per
scandagliare l'iniquità. Ne prendo la responsabilità su me stesso. - Presi
il cero, discesi la scala, e scoprii allora perché l'acqua ci avesse
scoperto il passaggio. Sotto l'impiantito v'era un soffitto ben congiunto,
eccettuato là dove trovatasi la botola. Da ciò il successo dell'espediente
del colonnello di Lilla.
Giunti appié della scala entrammo in una gran sala quadrata, chiamata sala
del giudizio. Nel mezzo trovatasi un grosso ceppo, a cui era fissata una
seggiola, ivi tenevano l'accusato legato al suo seggio. Da un lato della
camera era un altro seggio elevato, chiamato trono del giudizio. Questo era
occupato dall'inquisitore generale. Tutto attorno eranvi seggi meno elevati
per i padri, quando trattatavasi d'affari della santa Inquisizione. Da
questa sala passammo a destra, e trovammo delle piccole celle che si
estendevano per tutta la lunghezza dell'edificio; ma quale spettacolo si
offrì al nostr'occhio! Quelle celle servivano di celle solitarie, ove le
infelici vittime dell'odio inquisitoriale erano rinchiuse finché la morte
venisse a liberarle dai loro carnefici. Vi si lasciavano i loro corpi fino
alla decomposizione, e le carceri erano allora occupate da altri. Affinché
ciò non incomodasse gl'inquisitori, v'erano dei tubi assai grandi per
trasportare l'esalazione infetta dei cadaveri.
In quelle celle trovammo i residui di alcuni uomini che erano morti da poco
tempo, mentre in altre non si trovavano che scheletri incatenati al palco.
In alcune trovammo vittime viventi d'ogni età e d'ambo i sessi, dal giovane
alla fanciulla a' vecchi di settant'anni, tutti spogliati intieramente dei
loro abiti.
I nostri soldati si occuparono immediatamente a sciogliere quei prigionieri
dalle loro catene, e si tolsero una parte dei loro abiti per coprire quelle
infelici creature: essi desideravano vivamente di condurle alla luce del
giorno, ma riconoscendo il pericolo che v'era in far ciò, mi vi opposi, ed
insistei perché si desse loro primieramente quello di cui potevano aver
bisogno, e perché non si facesse veder loro la luce che in una maniera molto
graduata. Avendo visitate tutte quelle celle, ed aperte le porte delle
prigioni a color che ancor vivevano, andammo a visitare un'altra camera a
sinistra, dove trovammo tutti gli strumenti di tortura che il genio degli
uomini, o dei demoni, ha potuto inventare.
Alla loro vista il furore dei nostri soldati non poté più contenersi;
gridarono che ciascuno degl'inquisitori, monaci e soldati dello stabilimento
meritava d'esser messo alla tortura. Noi non tentammo di trattenerli.
Incominciarono immediatamente ad applicare la tortura sulla persona dei
Padri. Vidi agire quattro specie differenti di tortura, poi mi ritirai da
quell'orribile spettacolo, che durò fintanto che vi fu un solo individuo
abitante quell'anticamera dell'inferno, sul quale potessero i soldati
esercitare la loro vendetta.
Appena le povere vittime uscita dalle celle dell'Inquisizione poterono
essere, senza pericolo, ricondotte dalla loro prigione alla luce del giorno
(erasi sparsa la notizia che un gran numero d'infelici erano stati salvati),
videsi giungere tutti coloro a cui il Santo Uffizio aveva strappato degli
amici; venivano a vedere se v'era qualche speranza di trovarli in vita. Oh!,
quale incontro fu quello! Cento persone circa, che erano state seppellite
per molti anni, venivano rese alla società dei loro simili; molti trovarono
qua un figlio, là un figlia: qua una sorella, là un fratello. Alcuni;
ohimé!, non ritrovarono i loro amici. È impossibile descrivere una tal
scena!
Volendo terminare l'opera incominciata, mi recai a Madrid, ed ottenni una
grande quantità di polvere, che posi sotto l'edifizio e nei suoi
sotterranei. Migliaia di spettatori stavano attenti a veder mettere il
fuoco. Le mura e le torri dell'orgoglioso edifizio saltarono in pezzi.
L'Inquisizione
a Madrid non esiteva più."
La soppressione dei tribunali dell'Inquisizione era stata nuovamente
pronunciata il 12 febbraio 1813 dalle Cortes generali straordinarie di
Spagna, come incompatibili colla nuova costituzione politica della
monarchia: ma il 21 luglio 1814 furono ristabiliti per ordine di Ferdinando
VII, rientrato in Spagna in conseguenza del trattato di Valencay. Francesco
Miere Campillo, vescovo d'Almeria, fu il decimoquinto inquisitore generale,
nominato dal medesimo re. Nelle ordinanze di questo nuovo inquisitore
trovansi delle massime tanto contrarie ai veri interessi dello Stato, quanto
a quelli della religione, e benché la tortura dovesse essere abolita in
quell'epoca per forza delle circostanze, nei tribunali dell'Inquisizione la
si vide rinascere nel 1813 con un atto-di-fede per cagione dell'eresia.
Giuseppe Mario Morellos fu una delle ultime vittime.
L'Inquisizione non fu definitivamente abolita in Ispagna che nel 1821. Oggi
essa non esiste più: e grazie ai progressi dell'umana ragione, si
teneterebbe indarno di ricostruire questo sanguinoso edifizio dei tempi
passati. Tuttavolta gl'inquisitori hanno lasciati numerosi successori delle
loro mostruose dottrine, preti fanatici, avidi com'essi di ricchezze e di
dominio, audaci soldati della fede, ardenti famigliari della Santa Sede,
fieri giannizzeri del papa, che vogliono tutto governare ed invadere in nome
della religione, astuti casisti che trovano scuse per tutti i delitti,
professando l'abominevole massima che il fine giustifica i mezzi, e che,
decisi ad osar tutto, si avanzeranno senza mai indietreggiare alla conquista
dell'assoluta possanza per fas e per nefas.
Questi perigliosi eredi della Inquisizione hanno, come essa, numerosi ed
influenti aiuti; formano in tal guisa una vasta società sparsa su tutto il
globo, che può disporre d'immense risorse, che agisce ora col terrore, ora
colla seduzione, ora colla forza, ora col denaro; che ubbidisce alla volontà
di un solo servilmente e macchinalmente, come un cadavere (perinde ac
cadaver) e cammina tutta verso il medesimo scopo come un sol uomo. Questa
società rialza la testa con arroganza pronta a strappare il potere dalle
mani dei deboli che non san custodirlo; è dessa che ha per tanto tempo
turbato, desolato gli Stati, dividendo per regnare; seminando la discordia e
l'anarchia per raccogliere il dominio; è dessa che, anco adesso lacera
l'Italia,
minaccia la Prussia, fa schiavo il Belgio, ha fatto versare tanto sangue a
Lucerna, e si mantiene liberamente in Francia malgrado le leggi d'espulsione
che vengono a frangersi ai suoi piedi. Stiamo in guardia, e non ci
stanchiamo di resistere, poiché questi fanatici settari non si stancheranno
di combattere, e non si riposeranno nella vittoria che quando avranno
assolutamente riconquistata la sovranità spirituale e temporale come al
tempo dell'Inquisizione!
FINE DEL VOLUME QUARTO ED ULTIMO.
Commento postumo del trascrittore.
E' stata per me un'autentica scoperta questo libro, ed un vero piacere il
lavoro per trascriverlo. Ciò mi ha permesso di assimilarlo a lungo e
vagliarlo attentamente.
Invero, di storie sull'Inquisizione se ne conoscono tante, più o meno
credibili, più o meno gonfiate da aggiunte fantasiose da imprecisioni e
anche da malafede.
Io non sono e non sarò mai uno storico, ed il mio è semplicemente un parere
"tecnico" o "clinico" se preferite, ma riterrei proprio che l'autore di
questo prezioso volume, probabilmente non scevro del tutto da una qualche
influenza di impulso riformista, amante grande e sincero del proprio popolo
e della propria nazione, abbia voluto rendere un quadro assai fedele e
documentato di cose che molti altri, invece, anche nell'era odierna, cercano
di sfumare in ogni modo per tentare nascondere qualcosa che essi stessi,
forse, non riescono nemmeno a riconoscere come un possibile prodotto
figliale del loro comune spirito.
E' stata, per me, anche una grande soddisfazione, dopo l'avvenuta stesura e
pubblicazione del mio libro, il Canto della Sorgente, lo scoprire che due
secoli prima già qualcuno, che, a differenza mia, aveva a disposizione ben
più diretti mezzi documentali, ha fatto praticamente le stesse
considerazioni e mosso gli stessi rilievi verso quella genia spiritualmente
immutabile, particolare che è l'obiettivo conoscitivo e difficile di cui
trattano questi due lavori, assai simili e generalmente concordi fra loro
malgrado i secoli che li separano ed il diverso metodo espositivo. Non
saranno infatti sfuggiti al lettore i numerosi dialoghi di genuina dottrina
cristiana intessuti ovunque nella trama di questo romanzo e puntualmente
contrapposti, in confronto, al falso modo di intendere e praticare il
Messaggio evangelico proprio del clero di Spagna e dalla grande e scadente
massa, seppur numerosa e forte, di tutti i suoi accoliti.
Visti i risultati odierni, oserei affermare che De Fréréal ha guardato
avanti con sguardo profetico e cattolico, mentre convengo pienamente con lui
nel ritenere che la radice sommersa di questo male oscuro dell'umanità sia
oggi tutt'altro che estinta[50]. Io ritengo anzi che sia sul punto di
maturare il suo frutto più grande, tristo ed ingannevole (avendo mutato
drasticamente la propria forma esteriore, ma non avendo rinunziato in nulla
alla propria intenzione fondamentale), prima di venire sradicata per sempre.
Certo, non sarà un giudizio o un castigo umano ad operare questa
purificazione indispensabile dell'umanità (e come potrebbe.), ma l'eterna
sapienza e giustizia di Dio a cui ogni vero cristiano e figlio suo si affida
ora e per sempre. A noi spetta tuttavia il dovere di sapere, di prevedere,
di avere coscienza esatta e piena, per non essere travolti da eventi
inaspettatamente più grandi del nostro limite di intelligenza delle cose.
E' poi da notare un fatto particolare. L'accusa di voler dominare il mondo,
che l'autore di Misteri dell'Inquisizione rivolge esplicitamente al clero
romano in questi volumi, e nella parte finale specialmente, viene
praticamente ripresa e rivoltata, meno di un secolo dopo da un libro
comparso nell'anno 1905 in tutt'altra parte del globo, cioè in Russia. Sto
parlando dei Protocolli dei savi anziani di Sion che, stranamente,
dimostrerebbero come siano i Giudei a voler occultamente dominare il mondo e
non più i figli di Roma. Così, anche, vengono designati i capri espiatori;
ed infatti Hitler farà di questo libro uno dei suoi vangeli, a motivare lo
sterminio di quel popolo.
Le tesi avanzate in questi protocolli, che gli studiosi di oggi ritengono
essere un falso, apparirebbero in seguito riprese completamente in alcuni
editoriali dei Gesuiti[51]: ad es., La Civiltà Cattolica, Roma, 12 ottobre
1922, LXXIII, vol. IV, quad. 1736, pp. 111-121 - La Civiltà Cattolica, Roma,
2 aprile 1938, a. 89, vol. II, quad. 2107, pp. 76-82. per rientrare,
apparentemente, solo dopo la promulgazione delle leggi razziali in Italia .
cioè ad esito avvenuto cfr.: LA CIVILTÀ CATTOLICA, anno 89 - Vol. IV, 1°
ottobre 1938, quad. 2119.
La "cantilena", a quanto pare è sempre la stessa, sia che provenga dalla
Spagna sotto la sferza dell'Inquisizione, sia che appaia in Russia, sia che
venga dall'indottrinamento romano, sia dalle apparizioni mariane. Un odio
totale contro i figli di Dio, a cominciare da quelli che lo sono per
genetica diretta e per scelta dello stesso Dio, un odio omicida, brutale e
cieco pari a quello di Caino per Abele che viene da un solo spirito già
maledetto in eterno ed al quale è meglio non appartenere in nessun risvolto
e a nessuna condizione.
Questi sono solo collegamenti logici personali che il trascrittore fa, in
base alla propria esperienza, di elementi che sono casualmente pervenuti
nelle sue mani e come tali vengono, dopo analisi, esposti. Ad ognuno dunque
spetta il compito di sviluppare giustamente la propria coscienza della
realtà, ma senza mai assumere toni assoluti in quanto la giustizia di tale
coscienza, ove raggiunta, deve bastare a sé stessa; al resto provvederà
certamente Colui che, onnipotente, conosce precisamente ogni verità ed ogni
cosa nascosta. [1] Di tutti i mezzi che il clero ed i monaci di Spagna hanno
adoperato
contro i Francesi durante la guerra dell'indipendenza, il più sicuro è stato
sempre la confessione. Il confessionale è stato sempre per i preti e per i
monaci un'arte di perfidia, di un mezzo ad eccitare le passioni del popolo.
Anco ai nostri giorni il confessionale è quello che si oppone maggiormente
al progresso della ragione e dei lumi. A un sermone, a uno scritto, a un
discorso si può rispondere con altro sermone, con altro scritto, con altro
discorso. Ma che si risponderà a tutte le tenebrose insinuazioni elaborate e
sparse con tanta profusione nei cinquecentomila confessionali d'Europa?.
[2] Ho già detto che la Garduna aveva un capo a cui ubbidivano tutti i capi
di provincia. Questi erano ugualmente ubbiditi dai capi di distretto. La
Garduna era organizzata molto meglio di qualunque altra amministrazione di
quell'epoca, e sì bene organizzata, che distrutta in Spagna nel 1822, è
andata a riorganizzarsi nell'America Meridionale, dove ora esiste. Al
Brasile, nella Colombia, nella repubblica Argentina, al Perù, all'Avana ed
al Messico si può far assassinare un uomo con alcuni dollari. Solamente, i
Garduni d'oltremare sono mulatti e neri liberati, invece di essere gitani o
moreschi.
[3] San Matteo.
[4] Massime dei monaci durante le dispute del cattolicismo e del
protestantismo. (Meiners, Storia della Riforma).
[5] I carbonai della città in cui era il tribunale inquisitoriale avevano il
diritto di far parte del corteggio che formava le processioni negli
atti-di-fede, ma questo diritto imponeva loro un dovere, cioè di fornire
gratis tutta la legna necessaria per l'atto-di-fede. Si vede che la santa
Inquisizione sapeva fare i suoi affari.
[6] Il vestimento dei Domenicani, che molti han confuso con quello dei
Carmelitani e dei Trinitari, era simile a quello di tali Ordini; vale a dire
tonaca bianca, scapolare e mantello neri, cappuccio rotondo e nero,
foderato di bianco; nondimeno i Domenicani si distinguevano per la croce che
molti di questi ordini portavano sui loro scapolari. Questa croce è di seta
bianca e rossa per i Trinitari; rossa e bianca, cioè il tronco rosso e i
bracci bianchi, per i monaci della Mercede, e bianca per i Domenicani; i
Carmelitani non avevano croce.
[7] Non bastava all'Inquisizione l'abbrutire il popolo, ridurlo alla
mendicità, farne un gregge di schiavi; voleva renderlo infame. Per riuscirvi
l'Inquisizione cominciò dal parlare e dall'agire in nome d'Iddio, poi volle
che ogni cittadino divenisse una spia; ma gli spagnuoli ricusarono di
avvilirsi a tal punto; amavano meglio lasciarsi bruciare come eretici, che
accettare l'ignobile parte di delatore. Allora l'Inquisizione, sempre
feconda in espedienti quando trattatasi di fare del male, trovò il mezzo di
nobilitare e di santificare la delazione. Fece accordare dai papi molte
indulgenze a coloro che avessero la virtù, di denunziare al Santo Uffizio i
nemici della fede; l'indulgenza plenaria ed anco il cielo erano offerti a
chiunque fosse tanto buon cristiano da denunziare il proprio parente, il
figlio, il fratello ed anche il padre e la madre, oltracciò l'Inquisizione
domandò ai re, che non osarono rifiutare, privilegi ed onori per i loro
famigliari. Così Carlo V esentò da ogni carica municipale e da ogni tributo
od imposta chiunque avesse denunziato dieci eretici o si facesse arrolare
nella milizia di Cristo, finalmente giunse un tempo in cui un gran signore
sarebbe stato considerato come sospetto se direttamente o indirettamente non
fosse appartenuto all'Inquisizione. Questa spinse tant'oltre la propria
audacia, che domandò ed ottenne per la casa di Medina-Coli da papa Adriano
l'onorevole
titolo di porta-stendardo della fede, ed il privilegio di portar questo
stendardo sinistro negli atti-di-fede solenni, cioè in quelli a cui
assisteva il re. La casa di Medina-Coli era ed è anche oggi quella che più
si avvicina al trono; in mancanza di principi del sangue la corona verrebbe
al primogenito dei Medina-Coli.
[8] I soldati di Cristo, gli arcieri della Santa Hermendad e alcuni grandi
signori che per fanatismo o per paura eransi dedicati all'Inquisizione,
costituivano quello che l'autore chiama famigliari affezionati; venivano poi
gli sgherri, che si occupavano poco di denunziare, ma che arrestavano
spietatamente quelli che l'Inquisizione ordinava loro di arrestare.
[9] Il lettore sa che ogni persona la quale era condannata a portare il
sanbenito rimaneva eternamente inetta ad ogni impiego civile e ad ogni
ufficio pubblico, e che questa inettitudine si estendeva a tutta la
posterità.
[10] Coloro che l'Inquisizione puniva leggermente e condannava a portare il
sanbenito erano, dopo l'atto-di-fede, condotti in una casa o in un convento
ove si pretendeva d'istruirli affine di fortificare la loro fede, ed alcuni
mesi dopo si rendeva loro la libertà, dopo aver loro fatto giurare sul
Vangelo di non rivelar mai né per iscritto, né con la parola, né col mezzo
di figure, ciò che avevano visto nell'interno dell'Inquisizione. Non era
così degl'infelici condannati alla frusta o alle galere. I primi rimanevano
presso le prigioni del Sant'Uffizio, ove morivano; gli ultimi erano obliati
generalmente nelle galere, ed ivi pure il sanbenito che portavano li rendeva
l'oggetto del disprezzo dei loro compagni d'infortunio; perciocché, un
assassino, un falsario, un miserabile che aveva meritato la corda, e che,
grazie alla venalità d'uno scrivano, era andato alle galere, non avrebbe
voluto associarsi con un insanbenitato.
[11] L'Inquisizione faceva bruciare le ossa di quelli che lasciava morire
nelle carceri.
[12] San Matteo.
[13] Questa manovra del Bravo è la stessa che impiegavano gli Andalusiani
per uccidere i corazzieri francesi durante la guerra d'indipendenza.
[14] Pietro Arbues è un personaggio perfettamente storico di cui parleremo
lungamente quando ci porgerà il destro, le sue crudeltà han fatto sollevare
il popolo contro di lui per varie volte. Temendo d'essere assassinato,
portava in fatti un giaco di maglia sotto la sua veste ed una specie di
casco di ferro sotto il suo berretto. (Storia dell'Inquisizione, parteIII,
cap.12.)
[15] Il giorno precedente all'atto-di-fede, una processione composta di
carbonai, di domenicani e di famigliari partiva dalla chiesa
dell'Inquisizione,
e si recava sulla piazza dove il giorno successivo doveva compiersi la
cerimonia; ivi giunta, si avvicinava ad un altare, eretto perché i monaci
potessero dirvi delle messe per l'anima di coloro che si stava per dare alle
fiamme; e alla sinistra dell'altare piantatasi una croce verde, circondata
da un velo nero. Questa croce era un segno che indicava ai passeggeri il
lutto della Chiesa per la perdita delle anime degli eretici ostinati. Una
volta piantata la croce, la processione, meno i Domenicani, tornava
indietro. I monaci passavano la notte sulla piazza a dir salmi e messe.
[16] Alcuni storici, e fra questi Edgardo Quinet, pretendono che
gl'inquisitori
fossero piuttosto fanatici, che perversi. Questo giudizio fa l'elogio del
cuore delle persone che l'hanno emesso, ma per me, che sono nato in Spagna,
e sono stato nel caso di conoscere bene i monaci e gl'inquisitori; per me,
che mi sono nutrito della storia del mio paese, ed ho sfogliato le vecchie
cronache, che ora niuno legge, la pietà che simulavano gl'inquisitori per le
loro vittime, e le cure che sembravano prendere per l'anima di coloro che
immolavano all'ambizione dei re e dell'insaziabile avarizia di Roma, non
erano che un calcolo più iniquo, più crudele delle stesse loro crudeltà.
Agendo così gettavano al pubblico la polvere negli occhi, e gl'impedivano di
prendere in considerazione quegli sventurati che mandavano a morte.
Gl'inquisitori
ed i monaci spagnuoli sono stati infami ed ipocriti, non già fanatici. I
fanatici hanno generalmente costumi puri; ora sono mai esistiti al mondo
esseri più lussuriosi, più sozzi, più corrotti degl'inquisitori, dei monaci
di Spagna e del clero romano?..
[17] L'autore fa allusione a Boabdil el Chico, ultimo re moro di Granata,
nel momento in cui quel re si fermò sopra una collina in faccia alla città,
e versò lacrime, di che lo rimpocchiò la madre con queste parole: "Piangi
come donna il bene che non hai saputo difendere come uomo?" Il luogo dove
pianse Boabdil si chiama anche oggi l'ultimo sospiro del Moro.
[18] Il frammento di sermone che l'autore fa pronunziare ad un monaco
Domenicano in quest'atto-di-fede, sembrerà strano ai lettori, tanto è
ridicolo e sconveniente. Tuttavia i monaci dicevano cose ancor più ridicole
e più sconvenienti in certe solennissime circostanze, in cui la gravità, la
scienza e sopratutto il buon senso avrebbero dovuto esser di rigore. Così
nel 1546, nella prima seduta del Concilio di Trento, il vescovo di Bitonto,
per provare la necessità dei Concilii narrava che molti Concilii avevano
scacciati re ed imperatori. "Nell'Eneide," diceva sua Grandezza, "Giove ha
adunato il Concilio degli dei; nel momento della creazione dell'uomo e della
costruzione della torre di Babele, Iddio diedesi all'opera dopo un
Concilio." Di che Sua Grandezza traeva questa conclusione: "Che tutti i
prelati debbono recarsi a Trento come nel cavallo di Troja." Finalmente a
forma di perorazione Sua Grandezza aggiungeva: "Che la porta del Concilio e
quella del paradiso erano la stessa cosa; che l'acqua viva ne sgorgava, e
che i preti dovevano bagnarne il loro cuore come aride terre; senza di che
lo Spirito Santo aprirebbe loro la bocca come a Balaamo e a Caifas. Questo
vescovo di Bitonto, detto fra Cornelio Musso, era un monaco del Milanese.
(Meiners, Storia della Riforma.)
[19] Così si chiamavano i capi tormentatori.
[20] La confessione d'Ausburg è una professione di fede che i protestanti di
Germania fecero alla dieta d'Augusta che ebbe luogo il 15 giugno 1530.
questa confessione fu difesa da Melantone, contemporaneo e discepolo di
Martin Lutero.
[21] Nell'atto-di-fede che ebbe luogo a Vallaloid nel 1636, gl'inquisitori
offrirono a Filippo IV, che vi assiteva con tutta la sua famiglia, un nuovo
genere di supplizio, a cui costrinsero dieci Israeliti, consistente
nell'inchiodar
loro una mano sopra una gran croce di Sant'Andrea, ed a farla tenere in
quello stato durante la lettura della sentenza che li condannava.
[22] L'Inquisizione non perseguitava solamente i secolari. Ogni
ecclesiastico che non secondasse i suoi atti d'iniquità, o che si rifiutasse
a propagandare le dottrine inquisitoriali, dottrine che tendevano tutte ad
abbrutire la specie umana ed a spogliare i popoli a profitto di Roma, in una
parola ogni ecclesiastico onesto, diveniva l'obbietto delle persecuzioni del
Sant'Ufficio. L'Inquisizione ha fatto bruciar vivi centinaia di monaci e di
monache, come si può leggere in tutti gli scritti che parlano di questa
instituzione.
[23] Adriano Florencio e, dopo di lui, Alfonso Manriquez, hanno grandemente
ingannato Carlo V intorno all'Inquisizione, del rimanente è a presumersi che
tutti gl'inquisitori abbiano ingannato i re su tale argomento: altrimenti,
come qualificare i sovrani che lasciano così decimare la Spagna, l'Italia,
il Portogallo, l'India, l'America, e che lungi dall'opporvisi, come
avrebbero potuto, aiutavano il Sant'Uffizio con tutta la loro possa? Nerone
sarebbe stato un buon re paragonato a questi sovrani cattolici.
[24] Negli atti-di-fede l'inquisitor generale della provincia pronunziava
l'assoluzione
di tutti quei condannati che, avendo confessato, rientravano nel grembo
della Chiesa, a questa sssoluzione però non teneva dietro il perdono; essa
non serviva che a togliere la scomunica che colpiva ogni persona accusata
d'eresia,
e ad aprire le porte del cielo a quelli che morivano da buoni cattolici,
vale a dire si strangolavano prima di darli alle fiamme.
[25] Abbiamo già detto che una donna erasi uccisa nelle carceri del
Sant'Uffizio
tagliandosi la gola colle sue cesoie. Questo suicidio non è il solo che
abbia avuto luogo nelle carceri stesse. Molti infelici, per sfuggire
all'infamia
del sanbenito od alle torture, si rompevano il cranio contro le mura, altri
si asfissiavano aspirando a grandi tratti i gas mefitici che esalavano dai
vasi pieni d'escrementi ch'erano in ogni carcere, e che si mutavano ogni
otto giorni.
[26] Leggesi in Llorente. "la grande quantità di condannati che si facevano
morire bruciati, fu causa che il prefetto di Siviglia si vedesse nella
necessità di far costruire, fuori della città un palco permanente di pietra,
sul quale si elevarono quattro grandi statue di terracotta, vuote al di
dentro. Nel vuoto medesimo si chiudevano vivi gli eretici, per farli morire
lentamente col mezzo di una orribile combustione. Questo palco, chiamato
Quemadero, esisteva ancora poco tempo fa. Che cosa potevasi aspettare da un
tribunale che incomiciava così? (Storia dell'Inquisizione, parte III, cap.
1)." Il Quemadero di Siviglia fu costruito a cominciare dal secolo
decimoquinto. Gli avanzi esistevano ancora nel 1823.
[27] "Il licenziato don Antonio Herrezuelo, avvocato della città di Toro, fu
condannato come luterano, e morì sul rogo senza mostrare il minimo
pentimento. Mentre rea condotto al supplizio, il dottor Cazzalla, altro
condannato, gl'indirizzò alcune esortazioni, ma indarno. Antonio si burlò
dei discorsi del dottore, anco dopo essersi veduto attaccare al palo, nel
mezzo della legna che cominciava ad ardere. Uno degli arcieri
dell'Inquisizione,
infuriato nel veder tanto coraggio, immerse la sua lancia nel corpo di
Herrezuelo, il cui sangue sgorgava ancora quando fu attaccato dalle fiamme."
(Storia dell'Inquisizione).
Don Antonio Herrezuelo morì, senza proferire lamento, nell'atto-di-fede che
ebbe luogo a Valladolid, sotto gli occhi del principe Carlo e della
pincipessa Giovanna. Nel medesimo atto-di-fede perirono il dottor Agostino
Cazzalla de Vibero, prete e canonico di Salamanca, elemosiniere e
predicatore di Carlo V, il qual dottore fu strangolato innanzi d'essere
bruciato, Francesco Cazzalla, fratello del precedente, curato del villaggio
d'Hormigos bruciato vivo, donna Beatrice de Vivero y Cazzalla, sorella dei
due antecedenti, strangolata prima d'essere bruciata, Alfonso Perez prete di
Palencja, dottore in teologia, degradato e strangolato innanzi d'essere
arso, ed altre nove persone, niuna della quali aveva dommatizzato, e molte
eransi convertite e domandavano di vivere da buoni cattolici. Ma
l'Inquisizione
amò meglio supporre che il loro pentimento avesse per cagione il timore
della morte. Oltre le vittime condannate la rogo, molte altre furono
riconciliate, cioè condannate a perdere i loro beni e la loro libertà (era
il meno che pretendeva l'Inquisizione). Fra queste ultime distinguevasi due
membri della famiglia d'Agostino Cazzalla, Giovanni Vibero Cazzalla,
condannato come eretico, a portare il sanbenito perpetuo, e donna Costanza
Vibero y Cazzalla, condannata alla stessa pena. Quest'ultima lasciò
quattordici orfani!!!
[28] Si sa che la cambiale è stata immaginata dagli Ebrei, ma quello che
forse non si sa è che fu in Ispagna che, per garantire le loro sostanze
dall'avarizia di Ferdinando d'Aragona e dalla rapacità dell'Inquisizione,
gl'Israeliti
crearono la cambiale, col mezzo della quale eglino ed i Moreschi mandavano i
loro capitali all'estero avanti di lasciare la Spagna. Così questa carta, la
quale oggi è una delle cose che fanno maggiormente prosperare il commercio,
facilitandone le operazioni, fu nel secolo decimosesto un istrumento di
ruina per la Spagna, che, grazie all'insaziabile avarizia di Roma ed alla
crudeltà con cui l'Inquisizione la secondava, vide passare la maggior parte
delle sue ricchezze in Francia, in Germania ed in Olanda.
[29] Giovanni d'Avila rimase infatti cinque anni nelle carceri
dell'Inquisizione,
come vedremo più innanzi.
[30] Lo scopo dei crociati era l'estirpazione dell'eresia dovunque poteva
raggiungerla. Essi formavano una confraternita, alla quale erano affigliate
persone di tutte le condizioni, monaci, preti, vescovi, arcieri, cardinali,
grandi signori, mendicanti, persone tutte piene di fanatismo. Questa
confraternita aveva sua sede in Portogallo.
[31] L'Inquisizione non aveva solamente la tortura e le parole melate per
strappare delle confessioni a coloro ch'essa voleva salvare dalle pene
eterne; ma come la polizia dei nostri giorni aveva dei demoni tentatori i
quali, sotto pretesto di consolare i prigionieri, li visitavano e cercavano
di ottenere da essi dei segreti che andavano subito a comunicare
all'Inquisizione.
Questi agenti del Sant'uffizio si chiamavano probadores.
[32] Quando in rare occasioni l'Inquisizione aveva l'audacia di giudicare in
pubblico, accadeva talvolta che un accusato aveva il coraggio di difendersi
con energia e senza riguardi; in questo caso l'Inquisizione rimandava
l'accusato
nelle prigioni sotto pretesto che il tribunale aveva bisogno d'illuminarsi
onde fare giustizia. Questo invio non era che una vendetta degna di Nerone;
l'accusato che osava sfidare l'Inquisizione sfuggiva talvolta alle fiamme,
ma si sottoponeva a tutte le torture, e terminava col morire nelle carceri
colle membra rotte e l'anima piena di disperazione. Alcuni anni dopo la sua
morte si terminava il suo processo, l'accusato era dichiarato colpevole
d'eresia,
e come si supponeva morto impenitente si dissotterrvano le sue ossa, e si
bruciavano nel prossimo atto-di-fede: la sua memoria era colpita fino nella
sua posterità, ed i suoi beni divenivano preda dell'Inquisizione. Llorente
riporta più d'un esempio di questa iniqua maniera di procedere, quasi tutti
coloro di cui si bruciavano le effigie e le ossa, erano già vittime di quel
processo tutto inquisitoriale.
[33] San Giovanni d'Avila nacque nel 1504 ad Almodovar del Campo, piccola
città della diocesi di Toledo, da perenti ricchi e assai considerati nel
paese. Studiò dapprima il diritto civile e canonico all'università di
Salamanca, secondando il desiderio dei suoi parenti, che lo destinavano
all'avvocatura,
ma la sua vocazione per il sacerdozio era irresistibile: Iddio lo chiamava
alle alte funzioni di predicatore. I suoi parenti, non volendo contrariare
le sue tendenze, vedendo svilupparsi in lui un uomo virtuoso, un ministro di
Dio secondo il Vangelo, lo mandarono ad Alcalà d'Henares, ove studiò
teologia con ardore.
Appena ebbe ricevuti gli ordini sacri, Giovanni d'Avila volle partire per le
Indie Occidentali, ove diceva esservi ampia messe da raccogliere. Con questo
scopo si recò a Siviglia, ove innanzi d'intraprendere il suo viaggio
consultò Alfonso Manriquez, allora arcivescovo di quella città, e poscia
inquisitore generale, che lo consigliò di rinunziare al suo progetto, e di
dedicarsi alla predicazione. San Giovanni seguì questo consiglio, dopo aver
lungo tempo lottato contro la sua propria modestia; ma appena ebbe
incominciato a predicare, i suoi discorsi furono sì sublimi, le sue dottrine
sì evangeliche, il suo linguaggio sì eloquente, la sua vita s' santa, che
Siviglia, e poco a poco tutta la Spagna, lo salutò con nome di Apostolo
dell'Andalusia.
Ma né la santità della sua vita, né l'eloquenza della sua parola, né la
purezza delle sue dottrine, poté difenderlo contro l'invidia degli altri
monaci, che lo denunziarono all'Inquisizione. Questo tribunale qualificò
d'eresia
la tolleranza di Giovanni d'Avila; e siccome non volle mai nei suoi discorsi
né maledire, né anatomizzare moreschi, ebrei, né eretici, l'Inquisizione lo
mise in stato d'accusa, e lo perseguitò come scismatico. Finalmente,
nonostante la protezione di Alfonso Manriquez, divenuto inquisitore
generale, Giovanni d'Avila fu rinchiuso nelle prigioni del Sant'Uffizio nel
1528, e vi rimase fino al 1534, epoca in cui, grazie ad un difetto di forma,
nel suo processo, fu messo in libertà nonostante l'accusa di luteranismo e
d'illuminismo
che gravava sopra di lui. Nell'accusarlo l'Inquisizione aveva trascurato di
farne parte al Consiglio della Suprema. San Giovanni d'Avila morì a Montilla
nel 1569, all'età di sessantacinque anni. Ha lasciato un gran numero di
lettere dirette a San Giovanni di Dio, a fra Luigi di Granata e molti altri
discepoli; queste lettere, sono altrettante epistole apostoliche. Ha scritto
pure molti sermoni di cui un solo volume è stato stampato in Olanda nel
1617. Io ho letto questo volume alla biblioteca dei Gesuiti di Siviglia nel
1817. Ora più non esiste, avendolo bruciato la plebaglia nel 1823 sulla
piazza maggiore, ad istigazione dei Domenicani, che han sempre chiamato
eretico l'Apostolo dell'Andalusia.
[34] Quando un cittadino , accusato o solamente sospetto d'eresia lasciava
la Spagna, tutti i suoi beni venivano immediatamente confiscati a profitto
del re e dell'Inquisizione; ma poiché l'Inquisizione andava avanti al re,
questi non aveva che il quarto dei beni confiscati. E' vero che in questi
furti giuridici, l'Inquisizione guadagnava la sua parte intentando un
processo all'esule, facendo bruciare la sua effigie, e perseguitando tutti i
suoi parenti ed eziandio i suoi amici.
[35] I garduni e, dopo la loro distruzione, i famosi banditi di Spagna,
avevano ed hanno ancora in quasi tutte le città e nella maggior parte degli
alberghi isolati sulle grandi strade, degli assicuratori, autorizzati a
prendere una certa contribuzione sui viaggiatori, e a dar loro in cambio una
parola d'ordine che li mette al coperto da ogni attentato in un raggio di
tante leghe. Nel 1823 ogni viaggiatore che non voleva essere molestato da
Madrid a Cadice, bastava che viaggiasse in una delle carrozze di Pedro Ruiz;
solamente i posti si pagavano tre volte più che nella diligenza, di più il
cinque per cento su tutti i valori che uno aveva seco. I ladri non
attaccavano mai le carrozze di Pedro Ruiz. Nell'Estremadura, a Merida,
l'oste
delle Tre Croci vi dava per quaranta franchi una parola d'ordine. Giunti al
Confessionale, luogo dove si può essere uccisi senza veder l'assassino, i
banditi si presentano a voi, vi prendono in mira col fucile e vi domandano
la borsa o la vita, nell'intenzione di prendervi l'una e l'altra. Ma no
temete nulla se avete la parola d'ordine; appena pronunziata vedrete tutti
quei furfanti levarsi il cappello e dirvi con tutta gentilezza: -Vos
signoria vada con Dio.- Nel 1822, io stesso ho pagato quaranta franchi a
papà Alessi, che mi diede due parole latine: Vade retro; queste due parole
cambiarono quattro brutti grugni, che mi si presentarono al Confessionale,
in quattro contadini più inoffensivi degli agnelli.
[36] Pietro Arbues è un personaggio storico ed il carattere che gli
attribuisce l'autore non è esagerato: solamente l'autore, usando di una
licenza permessa dalla specie della sua opera, ha commesso un anacronismo
volontario facendo vivere Pietro Arbues sotto Carlo V, e facendolo
contemporaneo di Alfonso Manriquez, di Giovanni d'Avila, di Saavedra e di
molti altri personaggi che figurano in quest'opera. Pietro Arbues non ha
regnato in Siviglia, non è stato ucciso da un favorito; il personaggio di
Josè è di pura invenzione; è la personificazione del popolo spagnuolo che
sopporta l'Inquisizione per molti secoli, ma sempre odiandola ed aspettando
con pazienza il momento di colpirla mortalmente. Questo momento giunse nel
1829. Pietro Arbues, mentre è un personaggio storico, è la personificazione
del Sant'Uffizio. Le sue lascivie, le sue crudeltà, le sue debolezze, le sue
iniquità e la sua ipocrisia sono il quadro fedele delle lascivie, delle
crudeltà, delle debolezze, delle iniquità e dell'ipocrisia della maggior
parte degli inquisitori e di un gran numero di preti.
Pietro Arbues, canonico della cattedrale di Saragozza ed inquisitor generale
del regno d'Aragona, ha vissuto nel 1483, sotto Ferdinando d'Aragona ed
Isabella la Cattolica, e sotto il primo grande inquisitore di Spagna,
Tommaso di Torrequemada. Nel 1483 gli Aragonesi, i cui privilegi erano ad
ogni istante calpestati dall'Inquisizione d'Aragona, sotto la direzione di
Pietro Arbues, temerono di veder rinnovare presso di loro le scene che
accadevano ogni giorno in Castiglia e nelle altre provincie della Spagna,
dove il Sant'Uffizio, stabilito solamente da tre anni, aveva già immolato
migliaia di vittime. In questo stato di cose, e vedendo che i passi fatti
verso il papa e verso il re non avevano alcun risultamento, un gran numero
dei principali signori di Saragozza si unirono contro l'Inquisizione, e
decisero di sacrificare l'inquisitore Arbues, il quale erasi già fatto
odiare per la sua crudeltà e per la sua mala condotta, onde forzare così gli
altri membri dell'Inquisizione d'Aragona a rinunziare alla loro missione.Ma
Pietro Arbues fu avvertito del disegno dei congiurati, che però non gli
furono nominati. Non potendo agire contro i suoi nemici, volle almeno
garantir sé medesimo dagli attacchi dei congiurati; a tal effetto armossi di
un giaco di maglia e d'una specie di casco di ferro che portava sotto il suo
berretto. Mercé queste precauzioni, i congiurati fallirono il colpo diverse
volte; tuttavia un giorno uno di essi avvicinò Pietro Arbues, nel momento in
cui faceva la sua preghiera appié dell'altar maggiore della cattedrale di
Saragozza, e gli diede un colpo di spada nel collo; la ferita di Pietro
Arbues fu sì profonda che ne morì due giorni dopo, cioè il 17 settembre
1485. In seguito all'assassinio del grande inquisitore, i vecchi cristiani
eccitati dai frati si sollevarono, e violenti sommosse ebbero luogo a
Saragozza; la conseguenza di queste sommosse sarebbe stata terribile, dice
Llorente, se la moltitudine fanatica non fosse stata contenuta dalla
promessa fattale di punire con l'estremo supplizio i rei di quell'attentato.
Frattanto si onorò la memoria di Pietro Arbues con una specie di solennità,
che contribuì molto a farlo passare per santo. Arbues fu l'oggetto di un
culto particolare nelle chiese, e poco mancò che questo Domenicano non fosse
riconosciuto come protettore dell'Inquisizione. Ciò non per tanto si
contentarono di fargli far dei miracoli, e di preparare così la sua
beatificazione, che ebbe luogo nel 1664, sotto il pontificato di Alessandro
VII.
Non è molto tempo che vedevasi nella cattedrale di Saragozza un epitaffio in
lingua latina sulla tomba di Pietro Arbues fatta erigere da Ferdinando
d'Aragona
ed Isabella di Castiglia.
[37] Il sistema della legislazione spagnuola è una conseguenza del suo
sistema politico. Avanti la costituzione del 1812 ogni casta aveva i suoi
privilegi, i suoi giudici, i suoi tribunali e le sue prigioni, alcune pure
si sottraevano alla legge. Così un nobile non era giudicabile da alcun
tribunale, ammenoché non avesse ucciso un altro nobile, avesse commesso un
delitto di lesa maestà, od un sacrilegio, nel primo caso cadeva sotto la
giurisdizione dei tribunali ordinari; nel secondo i Consiglieri del re lo
condannavano alla decapitazione o allo strangolamento o alla perdita dei
beni; in caso di sacrilegio se ne impadroniva l'Inquisizione, che procedeva
a suo modo. Dicasi lo stesso per il resto dei cittadini. I popoli senza
privilegi e senza franchigie, come gli abitanti delle due Castiglie, della
Manica, della Alcaria, dei quattro regni dell'Andalusia, dell'Estremadura,
non che quello della Galizia e di Leon, eran giudicati dagli alcadi
ordinari. Gli abitanti dell'Aragona, delle provincie Vasche, quelle del
principato di Catalogna e di Navarra erano giudicati dal loro pari conforme
ai loro privilegi. Ma in tutta la Spagna erano, oltre il tribunale
dell'Inquisizione
ed i tribunali ordinari, due altri tribunali, uno chiamato Giustizia dei
privilegiati, e l'altro tribunale ecclesiastico. Il primo intendeva a tutti
i delitti commessi dai servitori del palazzo reale e degli impiegati del
governo. Il secondo intendeva ai delitti dei preti e dei frati, quando
questi delitti non avevano colore d'eresia. Nel caso di furto a mano armata
o di assassinio tutti gli spagnuoli cadevano sotto il dominio della
giustizia ordinaria, cioè di un alcade e dei suoi assessori, che li
condannavano e li mettevano in libertà secondo le ispirazioni della loro
coscienza, o troppo spesso secondo che il colpevole aveva o no di che
comprare l'impunità. Allora pure ogni cittadino era rinchiuso nella prigione
destinata agl'individui della sua casta. Se era un plebeo, si poneva nelle
carceri della città; se era nobile in quelle della corte, se ecclesiastico
in quelle della Corona, o della Tonsura, perché in spagnolo Corona significa
pure Tonsura. Credo inutile aggiungere che i militari erano giudicati dai
Consigli di guerra. Oggi questi diversi tribunali, tutte queste diverse
prigioni che una volta esistevano in tutte le città di Spagna, non esistono
più che di nome, perché ricevono egualmente ogni specie di persona.
[38] In Spagna gli accusati giuravano sul Vangelo di dire la verità anco
contro sé medesimi. Nel 1812 un articolo della costituzione elaborata dalle
Cortes proibì ai giudici di far giurare gli accusati.
[39] In Francia l'accusato è supposto innocente finché la legge l'abbia
condannato. In Spagna ogni accusato era chiamato reo. Quest'uso si è
perpetuato fino ai giorni nostri quantunque la costituzione del 1812 e
quella del 1843 abbia vietato ai giudici di seguirlo.
[40] Leggesi nel capitolo primo, parte V della Storia dell'Inquisizione di
Llorente: "Donna Eleonora de Vibero y Cazalla, sposa di Pietro Cazalla, capo
della contabilità delle finanze del re, possedeva una cappella sepolcrale
nella chiesa di Sanbenito di Valladolid; eravi stata sotterrata come
cattolica senza che mai fosse sorto il minimo dubbio contro la sua
ortodossia; nonostante, fu in seguito accusata dall'avvocato generale
dell'Inquisizione
come seguace del luteranismo, e dichiarata morta nell'eresia, quantunque
innanzi di morire avesse ricevuto tutti i Sacramenti. L'avvocato generale
appoggiò la sua accusa sulle deposizioni di testimoni allora prigionieri
dell'Inquisizione e sottoposti alla tortura a quest'effetto, dalle quali
risultò che la casa di donna Eleonora de Vibero aveva servito di tempio ai
luterani di Valladolid. Donna Eleonora fu dichiarata morta nell'eresia, la
sua memoria fu condannata all'infamia fino nella sua posterità, e tutti i
suoi beni confiscati. L'Inquisizione ordinò inoltre che il suo cadavere
fosse dissotterrato e dato alle fiamme, che la sua casa fosse rasa con la
proibizione di ricostruirla, e che un monumento fosse elevato sulla piazza,
ove prima era la casa, sul quale monumento un'iscrizione perpetuasse la
memoria di quell'avvenimento. Tali disposizioni furini tutte eseguite."
[41] Nell'atto-di-fede generale che ebbe luogo a Valladolid in aprile 1559,
in presenza del principe don Carlo e della principessa Giovanna.
[42] In ottobre 1559.
[43] L'Inquisizione non condannava solamente i giudaizzanti e gli ebrei, la
possessione di un libro proibito, d'una Bibbia, d'un esemplare dei Vangeli
in lingua volgare, ed anco di un libro inglese bastava per mandare al rogo
tutta una famiglia, specialmente se questi libri appartenevano ad una
persona ricca.. La missione del Sant'Uffizio non era veramente ad esirpar
l'eresia,
ma di spogliare il mondo cristiano a profitto di Roma, a profitto dei re che
la proteggevano, ed a vantaggio degl'inquisitori. Ecco perché l'Inquisizione
era spietata.
[44] Verso la metà del secolo passato eravi in Aurillac, nel dipartimento
del Cantal, un convento di Carmelitani che possedeva una statua della
Maddalena che piangeva il giorno della festa di quella santa. Lo stesso
convento possedeva pure un Cristo che nella settimana di passione versava
lacrime abbondanti. Ecco come si ottenevano questi miracoli:
la statua della Maddalena era di maiolica, vuota internamente, e conteneva
uno scaldavivande sul quale, dopo avervi acceso del fuoco, i frati mettevano
un apparecchi a forma di lambicco, il collo del quale s'innalzava fino alla
testa della santa. Quall'apparecchio conteneva dell'acqua, che, ridotta in
vapore per mezzo del calorico, si condensava nella testa della statua, donde
per due piccoli tubi cadeva dopra una spugna posta dietro gli occhi, aventi
alla lor parte inferiore molti forellini: un volta bene imbevuta, questa
spugna rigettava l'acqua sovrabbondante per i fori degli occhi della statua,
la quale pareva versasse lacrime naturali.
Quanto al Cristo, era semplicemente addossato ad un muro, dietro al quale
trovatasi un pergolato. Tutti sanno che la vite piange al cominciar della
primavera verso la fine di quaresima.
Profittando di questa osservazione, i frati avevano fatto passare a
traverso al muro due rami tagliati di fresco che andavano a terminare ai due
angoli degli occhi del Cristo, e producevano così quelle lacrime miracolose,
che il popolo, credulo, veniva a raccogliere con grande venerazione, e in
cambio delle quali non mancava mai di deporre la sua offerta nel piatto
d'argento
posto ai piedi del Cristo.
[45] Alfonso il Magnanimo o Alfonso il Savio dotò per il primo la Spagna
d'un
codice regolare di leggi, il quale è un monumento della sapienza di quel re
e della rettitudine dei suoi consiglieri e fa onore al carattere spagnuolo.
[46] Isabella di Castiglia, moglie di Fernando d'Aragona.
[47] Qui cade acconcio il considerare che in tutti i tempi e sotto tutti i
governi, anco sotto il dispotismo dei re e le crudeltà dell'Inquisizione,
ogni volta che le assemblee nazionali hanno avuto luogo liberamente in
Spagna, vi sono stati Spagnuoli i quali superati gli ostacoli che si
opponevano al loro buon senso ed alla loro filosofia naturale, si sono
elevati al di sopra del loro secolo, hanno strappato con mano ardita il velo
che nascondeva gli errori ed i pregiudizi, ed hanno fatto sentire ai popoli,
ai re ed agl'inquisitori la voce della ragione e della verità.
Così le Cortes d'Aragona, di Castiglia e di Catalogna, riunite nel 1510-1512
per domandare al reggente Ferdinando ed al papa la riforma
dell'Inquisizione;
la Giunta cattolica convocata a Burgos nel 1508 per giudicare i prigionieri
dell'Inquisizione di Cordova, nella promozione del grande inquisitore Ximens
Cisneros, e la gran Giunta formata sotto Carlo II nel ministero
dell'inquisitore
Rocaberti, dal 1695 al 1699, per porre un termine ai conflitti che avevano
luogo ogni giorno fra l'Inquisizione ei giudici reali; questi tre colpi a
lunghi intervalli, e sotto l'influenza di avvenimenti diversi, hanno
condannato gli atti dell'Inquisizione e del dispotismo. Nelle tre assemblee
si sono trovati uomini i cui principi filosofici e le vaste idee umanitarie
avrebbero fatto onore ai filosofi più distinti del nostro secolo. Che
dobbiamo conchiudere con tutto ciò? Che Dio ha messo nel cuore dell'uomo
idee di libertà e di progresso, che queste idee, nate coll'uman genere, sono
state soffocate o represse nel santuario della coscienza dei popoli, e che
verun dispotismo o niuna tortura potrà estinguerle intieramente.
[48] Spesso sono stati tacciati gli spagnuoli di tradimento; questa è forse
la più ingiusta di tutte le accuse mosse contro di essi dagli stranieri. Gli
spagnuoli sono sì lontani dall'esser traditori, che il solo delitto che non
perdonano ad un nemico, e che vieta loro di riconciliarsi con esso, è il
tradimento. Se sono esistiti traditori in Spagna, non sono stati che frati,
preti venduti a Roma od all'Inquisizione, o famigliari del Sant'Uffizio.
[49] La Spagna poteva ben dire che i roghi divoravano le sue viscere quando,
nello spazio di trecentotrenatanove anni trentaquattromila e
seicentoquarantotto spagnuoli sono stati bruciati vivi dall'Inquisizione, e
diciottomila e quarantanove bruciati in effigie, senza contare duecentovento
mila e duecentoquattordici condannati alle galere ed alla perpetua
prigionia, e più di ducentomila che condannati a portare il sanbenito per un
dato tempo o a vita, furono disonorati fino nella loro posterità. Queste
cifre sono storiche. Del resto ecco un quadro che togliamo testualmente
dalla Storia dell'Inquisizione di Llorente e che trovasi pure nella Storia
della rivoluzione di Spagna nel 1820.
Ricapitolazione generale delle vittime che l'Inquisizione ha sacrificato in
Spagna dal 1481 fino al 1808, sotto il ministero di quarantacinque
inquisitori generali.
Bruciati viviBruciati in effigieCondannati alle galere ed alla prigionia
Dal 1481 al 1498, sotto il ministero di Tommaso di Torrequemada, primo
inquisitore generale 10,220
6,840
67,371
Dal 1498 al 1507, sotto Deza, secondo inquisitore
generale 2,59282832,952
Dal 1507 al 1517, sotto Ximenes Cisneros, terzo inquisitore
generale 3,5642,23248,059
Dal 1517 al 1521, sotto Adriano Florencio, quarto
inquisitore 1,62056021,835
Dal 1521 al 1523, interregno 3241124,881
Dal 1523 al 1538, sotto Alfonso Manriquez, quinto inquisitore
generale 2,2501,12511.250
Dal 1538 al 1545, sotto Tabera, sesto inquisitore
generale 8404206,250
Dal 15454 al 1546, sotto Loalisa, settimo inquisitore, e dal 1546 al 1556
durante il resto del regno di Carlo V 1,320
660
6,600
Dal 1597 al 1597, sotto la reggenza di Filippo
II 3,9901,84518,450
Dal 1597 al 1621, sotto il regno di Filippo
III 1,84069210,761
Dal 1621 al 1665, sotto Filippo IV 2,8521,42814,080
Dal 1665 al 1700, sotto Carlo II 1,6325406,512
Dal 1700 al 1746, sotto Filippo V 1,6007609,120
Dal 1746 al 1759, sotto Ferdinando VI 105170
Dal 1759 al 1788, sotto Carlo III 4056
Dal 1788 al 1808, sotto Carlo IV 0142
Totale34,65818,049228,214
In questo quadro non è compreso il regno di Ferdinando VIII, durante il
quale più di centomila persone hanno subito la prigionia, la galera o
l'esilio;
bisognerebbe aggiungervi il numero incalcolabile delle vittime che
l'Inquisizione
di Spagna ha sacrificate nella Sicilia, nella Sardegna, in Fiandra, in
America e nelle Indie, per comprendere la forza delle parole che l'Autore fa
pronunziare alla Spagna desolata. Oltre a ciò, cinque milioni d'abitanti
hanno abbandonato il bel suolo di Spagna per sottrarsi alla crudeltà del
Sant'Uffizio. Cos' questo bel paese, che al tempo dei Mori contava
trentacinque milioni d'anime, è stato ridotto a dieci milioni. E' questa la
missione che Cristo ha lasciato ai suoi discepoli e questi i preti della
Chiesa romana? E' così che i successori degli Apostoli seguono il sublime
precetto del Signore: "Crescete e moltiplicate?" e quello di Cristo.
"Amatevi gli uni cogli altri?" Ebbene, udite i preti Romani. Eglino vi
diranno che la religione non è più rispettata, che vengono calpestati e
calunniati i ministri di Dio! Ah! Rispondete a costoro quello che Gesù
rispondeva agli Scribi ed ai Farisei: "Guai a voi, Scribi e Farisei
ipocriti; perciocché voi divorate le case delle vedove: e ciò sotto specie
di fare lunghe orazioni! Guai a voi, Scribi e Farisei ipocriti, perciocché
voi nettate al di fuori della coppa e del piatto: ma dentro quelli son pieni
di rapina e d'intemperanza."
E' vero che spinto dallo scandalo che davano i frati ed alcuni preti nel
secolo decimosesto, il papa ordinò agl'inquisitori di Spagna di "Processare
tutti i preti e tutti i frati che la voce pubblica accusasse."
Ma a quell'epoca era cosa pericolosa il ventilare questa specie di affari in
un paese che cominciava a sentire odio profondo e disprezzo verso i frati, e
verso quella sorta di preti ignoranti e viziosi dei quali non è stata mai
penuria in Spagna; di più, i Luterani non avrebbero mancato di trarre armi
terribili contro la confessione auricolare da tutti quei processi che
sarebbe stato mestieri intentare alla maggior parete dei preti e dei frati
spagnuoli. Così l'Inquisizione, sempre abile quando si trattava di eseguire
i propri voleri, eziandio contro quelli del re e dei pontefici,
l'Inquisizione
trovò il mezzo di non sapere quello che accadeva all'interno dei numerosi
conventi di monache che riempivano il paese.
Tuttavolta, ecco una storia che l'Inquisizione non potè ignorare, tanto fu
scandalosa.
Un Cappuccino, confessore di diciassette pinzochere riunite in un convento
di Cartagine, aveva saputo inspirare alle sue penitenti tanta fiducia, che
avevano finito per riguardarlo come un santo. Il santo personaggio finse
tutte le virtù per qualche tempo: ma tosto che pensò che la sua reputazione
di santità fosse bene stabilita fra le sue pecorelle, profittò dei frequenti
abboccamenti che avea con esse al confessionale, per insinuar loro le sue
perniciose dottrine. Ecco il discorso che tenne a ciascuna di esse in
particolare. "Il nostro signore Gesù Cristo ha avuto la bontà di lasciarsi
vedere a me nell'ostia sacra, e mi ha detto: Quasi tutte le donne che tu
dirigi in questo convento mi sono gradite perciocché ahhno vero amore per la
virtù, e si sforzano di camminare verso la perfezione. Una tale,
specialmente (e qui il direttore nominava quella che voleva sedurre), ha
l'anima
sì pura e sì forte, che ha già vinto tutte le affezioni terrestri ad
eccezione di una sola, la sensualità. Questa passione la tormenta molto,
essendo presso di lei potentissimo il demone della carne, in causa della
salute, della sua gioventù, e delle grazie naturali, che l'eccitano
vivamente al piacere. E' per ciò che, onde ricompensare le sue virtù e
perché possa unirsi più perfettamente al mio amore, e servirmi con una
tranquillità di cui essa non gode, ed è tuttavia meritevole, t'incarico di
accordare in mio nome la dispensa di cui a bisogna per il suo corpo,
dicendole che possa soddisfare la sua passione carnale, purchè ciò sia
espressamente con te, e che, per evitare lo scandalo, serbi il puù
scrupoloso secreto su tutto quello che avverrà fra te e lei, e di ciò non
dovrà parlare neppure ad altro confessore, poiché dessa non farà peccato con
la dispensa che le accordo, per il santo fine di veder cessare tutte le sue
inquitudini; e perché faccia nuovi progressi nella via della santità.
Col mezzo di questo discorso, ripetuto a ciascuna pinzochera, il degno
cappuccino ebbe bentosto un serraglio, perocché sopra a diciassette donne
riunite in quel convento, tredici si diedero a lui, bramose, senza dubbio,
di fare dei progressi nella via della salute, e di domare il demone della
carne col metodo naturalissimo del fortunato direttore.
Sventuratamente per il confessore e per le sue pecorelle, una di queste
vittime, dell'età di venticinque anni, cadde pericolosamente malata, e
domandò un altro confessore, il quale, dopo aver saputo da lei tutto quello
che era accaduto, l'impegno a dichiarar tutto al Sant'Uffizio nel timore che
il cappuccino avesse ingannato altre penitenti. Questa donna ricuperò la
salute, e subito lo denunziò all'Inquisizione, e narrò che per tre anni di
seguito aveva avuto commercio col suo confessore: aggiunse che in sua
coscienza non aveva mai creduto che Gesù Cristo fosse apparso al cappuccino,
e se aveva finto di credrlo, l'aveva fatto per poter soddisfare senza
vergogna i desiderii carnali.
Dopo un'investigazione, il Sant'Uffizio acquistò la certezza che lo stesso
eccesso era stato commesso con altre dodici donne nel medesimo convento, e
che le altre quattro, rispettate dal confessore, erano o vecchie o
bruttissime.
Bentosto le pinzochere furono sparse in diversi conventi; ma si temé di
commettere un'imprudenza, facendo arrestare il loro confessore. Si ebbe
paura che il popolo disprezzasse i frati più di qello che già faceva. Per
troncare ogni difficoltà si scrisse al Cosiglio della Suprema, che chiamò il
cappuccino a Madrid, e gli accordò tre udienze ordinarie. Ma la sua audacia
agguagliò il suo linguaggio.
Interrogato sui fatti narrati, rispose senza sconcertarsi, la sua coscienza
nulla rimproverargli che concernesse l'Inquisizione, ed essere molto
sorpreso di vedersi suo prigioniero. Gli fu obbiettato essere incredibile
che Gesù Cristo gli fosse comparso nell'ostia per dispensarlo dal sesto
precetto del Decalogo. Rispose che Dio aveva dispensato Abramo dal quinto,
ordinandogli di sacrificare il suo figlio Isacco; e che lo stesso potevasi
dire del settimo comandamento, poiché Dio aveva permesso agli Evrei di
derubare gli effetti degli Egiziani.
Gli fu fatto considerare che nei due casi da lui citati trattatasi di
misteri favorevoli alla religione. Replicò che in ciò che era accaduto fra
lui e le sue penitenti, Iddio aveva avuto il disegno di tranquillizzare
tredici anume virtuose e di condurle a perfezione.
Uno degli interrogatori, avendogli risposto essere cosa singolarissima che
tanta virtù si fosse trovata in tredici donne giovani e belle, e non nelle
altre quattro, di cui tre erano vecchie ed una bruttissima, il cappuccino
rispose freddamente col passaggio della Santa Scrittura: Lo Spirito santo
soffia dove vuole.
Tali furono le risposte del confessore libertino nelle due prime udienze;
giunse finalmente la terza che doveva essere l'ultima, accordatagli innanzi
di giudicarlo. Il cappuccino persisté dapprima nel suo sistema di difesa, ma
pensando che poteva essere bruciato vivo, sollecitò una nuova udienza, che
gli fu accordata. Questa volta dichiarò con finta umiltà che credeva di
essersi ingannato, che lo spirito maligno l'aveva accecato al punto di
fargli riguardare come certa l'apparizione di Gesù Cristo nell'ostia, e che
vedeva bene di essere stato la vittima di una illusione, ma vedendo che
gl'inquisitori
erano inclinati a salvarlo, confessò finalmente con franchezza la sua
ipocrisia, e tutti i suoi delitti, e si sottomise a tutte le penitenze che i
giudici vollero imporgli.
In vece di condannarlo a morte come sacrilego, ipocrita, lussurioso,
seduttore e spergiuro, gl'inquisitori si contentarono di condannarlo ad una
prigionia di cinque anni in un convento del suo Ordine, ove questo
miserabile morì dopo tre anni che vivera entrato.
[50] Se qualcuno ha dei dubbi, ancora, dovrebbe leggersi semplicemente un
libro sconvolgente: L'arcivescovo del genocidio, dello storico Mario Aurelio
Rivelli (isbn 88-7953-079-8) sul genocidio balcanico.
[51] Le citazioni di Civiltà Cattolica, mi vengono dall'aver consultato, a
suo tempo, un sito del fu Gent.mo Sig. Andrea Tournoud. Il sito, che era
veramente semplice e prezioso, ora sarebbe stato chiuso per volontà
indipendenti da quelle del creatore e dei suoi eredi del Centro
Documentazione Ebraica Contemporanea: CDEC. Il Sig. Tournod mi fece anche
sapere che tali articoli sarebbero protetti da diritto d'autore e per
consultarli o pubblicarli è necessaria l'autorizzazione dei Gesuiti di Roma.
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