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STORIA DEL DIRITTO ROMANO

STORIA DELLE ISTITUZIONI DEL DIRITTO ROMANO

STORIA DEL DIRITTO ROMANO
 
Lo studio della storia del diritto romano, argomento che compare ora, non casualmente, tra gli esami complementari, permette di individuare il diritto di una società per certi aspetti addirittura superiore alla nostra.
Per esempio, si può ricordare che Roma non aveva una razza propria, e per questo non fu mai razzista, al contrario della maggioranza degli stati di oggi.
Esisteva, è vero, la pena di morte, ma non fermiamoci alle apparenze: in Roma repubblicana la pena di morte non ha mai ucciso nessuno, perché dopo la condanna a questa pena il condannato poteva scegliere tra la morte e l’esilio.
Distinguiamo il termine imperium, che indica il potere del magistrato, dall’impero, che designa il territorio.
Scienza importante per lo studio del nostro argomento è l’ermeneutica, cioè la scienza dell’interpretazione: per esempio, tutti conoscono la leggenda secondo la quale Romolo e Remo sarebbero nati da una lupa, ma non tutti sospettano che forse il termine “lupa” indica che Romolo e Remo nacquero in realtà da una prostituta (nella storia ci sono vari esempi di ciò, per esempio nacque da una prostituta anche Luigi XIV, il Re Sole).
Il diritto può essere visto come il voler essere di una società in un determinato luogo ed in un determinato momento: questa definizione determina, del diritto, la sua:
·  relatività, infatti il diritto è diverso da società a società
·  storicità, tanto che il diritto è individuato storicamente
Allora come ora, la norma non era assoluta ed immutabile, essendo essa concepita da un legislatore che agisce in base alle esigenze della società; pensiamo alla nostra legge sui pentiti: dietro di essa c’è uno stato incapace di perseguire i crimini.
Il diritto non può dunque essere un mondo di astrazioni a cui una logica razionalità immanente dà stabilità ed immutabilità; esso non può nemmeno essere legge naturale, né è legge morale, poiché la morale riguarda il singolo, il gruppo politico ecc., e le morali sono diverse tra di loro; esso non è il prodotto della classe dirigente (come sosteneva Marx).
Il diritto si può intendere anche come un compromesso per garantire la pace ed evitare l’homo homini lupus di hobbesiana memoria.
Ulpiano, giurista del 200 d.C. ucciso da Caracalla per non aver avallato il fratricidio di Caracalla stesso, disse che il diritto può non essere l’arte del buono e dell’equo (ut eleganter Celsus definit, ius est ars boni et aequi), che la giustizia è la volontà di attribuire a ciascuno il suo (ma si può essere disonesti pur rispettando il diritto) e che la giurisprudenza è la cognizione delle cose umane e divine.
Giulio Paolo, anche lui come Domizio Ulpiano prefetto del pretorio sotto Alessandro Severo (e da questo ucciso anche lui per la sua integrità morale; l’età dei Severi va dal 193 al 235 d.C, ed è detta anche “età degli Imperatori Africani e Siriani”), dice che il ius pluribus modis dicitur (può essere definito in diversi modi): uno modo è quello del diritto naturale, altero modo è di affermare che il ius civile è quel diritto utile a tutti o ai più, dunque vedeva, come Cicerone, il diritto come utile, ma se fosse così non ci sarebbero contese.
Paulus libro quarto decimo ad Sabinum. Ius pluribus modis dicitur: uno modo, cum id quod semper aequum ac bonum est ius dicitur, ut est ius naturale. altero modo, quod omnibus aut pluribus in quaque civitate utile est, ut est ius civile. (D 1, 1, 11).
Nel Medioevo sull’argomento si affermava che non est in iure quod non est in lege, e che summum ius, summa iniuria.
La storia dello studio del diritto romano inizia dopo la morte di Giustiniano (avvenuta a Costantinopoli nel 565): i barbari scelgono per sé il diritto romano, gli arabi dall’VIII secolo in poi trascrissero, nell’ombra dei monasteri, tutto ciò che era loro pervenuto, e nel XII secolo a Bologna, quando si fonda l’università, esistevano solo 2 materie: Teologia e Legge (quest’ultima era quasi interamente diritto romano).
I glossatori, studiando il diritto romano, ne rispettano la lettera, e si permettono dei piccoli ritocchi per adattare il diritto romano alla loro epoca (nel XII secolo: Sacro Romano Impero), i due principali giuristi di allora sono Irnerio ed Accursio.
Il diritto comune era quel diritto al quale si ricorreva nel XIII secolo quando i diritti particolari (diritto delle corporazioni e diritto dei comuni, poi delle signorie) non servivano.
I glossatori iniziarono poi a commentare gli scritti, spesso travisandoli.
Durante l’Umanesimo si riscoprono gli scrittori greci e romani.
Andrea Alciato, giureconsulto milanese (1492-1551), nominato senatore da Francesco Sforza, chiamato da Francesco I, nel 1529, a professare a Bourges, docente a Pavia ed a Bologna, fu il primo ad insegnare il diritto romano secondo il metodo storico: reagendo contro i bartolisti (dal nome del loro caposcuola, Bartolo da Sassoferrato), propugnò un diritto improntato a criteri storicistici e filologici: è considerato il fondatore della “Scuola del Culto”.
Ci furono in seguito la scuola dei:
·  giusnaturalisti, che pensa il diritto romano essere quello più vicino al diritto di natura, ed ha tra i massimi esponenti Grozio (Huig van Grotius; Delft, Olanda, 1583-1645);
·  giusrazionalisti, che vede il diritto romano come ratio scritta, ed ha come esponenti, tra molti, Spinoza e Kant (il diritto per Kant è una costruzione della ragion pratica).
Dalla razionalizzazione nacquero poi i codici, diversi dal sistema della Common Law: i primi danno la certezza del diritto e cristallizzano il voler essere della società in un determinato momento, il secondo si fonda sui giudicati dei tribunali e tiene sempre sotto controllo la società.
Il Folksgaist, lo spirito del popolo, è ciò che il diritto romano diventa per l’Europa.
I pandettisti sono studiosi della seconda metà dell’800 che non studiano la storia del diritto romano, ma solo come applicarlo: nacque così il codice italiano del 1865, il “Codice Zuppetta” (dal nome di Luigi Zuppetta, insegnante di diritto penale all’Università di Napoli, 1810-1889); il loro nome deriva da pandectae, traduzione greca del termine digestum.
Le interpolazioni sono le modifiche che Giustiniano ordinò ai suoi legislatori di compiere sugli scritti dei primi giuristi: ciò da luogo al pensiero degli:
·  interpolazionisti, che affermano le interpolazioni essere solo formali, linguistiche;
·  anti-interpolazionisti, che pensano che le interpolazioni siano di fondo, che cambino il significato.
I dogmatici pensano che il diritto romano debba entrare in vigore nella nostra società, mentre gli anti-dogmatici ritengono che lo studio del diritto romano sia utile, ma non per applicare lo stesso.
Al di là di queste questioni, lo studio del diritto romano rimane sicuramente utile, perché:
·  viviamo in una tradizione romanistica;
·  tutti i concetti che abbiamo sono stati costruiti sul diritto romano (es.: il concetto di obbligazione)
·  il diritto romano è il padre di molti diritti attualmente in vigore, e non solo del nostro: la Scozia, per esempio, per distinguersi dall’Inghilterra ha adottato il diritto romano, così come lo Sri-Lanka, la Louisiana, la Namidia, lo Zimbabwe, ...
Il diritto romano va studiato in toto, anche quando non sembra essere di immediata utilità: per esempio, oggi (ufficialmente) non c’è più la schiavitù, presente all’epoca dei romani; lo schiavo non era considerato solo res, ma strumento pensante del padrone, ed è grazie a questa figura che nasce l’istituto della rappresentanza.
Parlando delle fonti di cognizione del diritto, distinguiamo tra:
·  tecniche (sono poche), sono documenti scritti da giuristi per altri giuristi; quelle del diritto romano che abbiamo oggi sono quelle giustinianee (probabilmente inficiate dalle interpolazioni);
·  atecniche (scritte per vari motivi), sono fonti eterogenee: ci sono fonti letterarie (come Livio, Sallustio, Cicerone, Dionigi, ...), archeologiche e numismatiche: visto però che non sono state scritte da giuristi per giuristi, si pongono problemi di veridicità.
Per quanto riguarda le fonti di produzione, in Roma essere erano date da:
·  l’imperatore;
·  la giurisprudenza;
·  il senato;
·  gli usi;
·  i documenti pubblici;
·  i fasti consulares, una lista ufficiale dei magistrati dal 508 a.C. al 13 d.C.
·  i fasti trionfali, che elencano i trionfi di Roma (la politica estera, insomma)
La tradizione prima del II secolo a.C. era determinata dagli annalisti (sia della famiglia dei Fabi che della gens Claudia) e dai carmi (come l’Odissea).
Esistono 4 categorie con cui giudicare la tradizione: una afferma, la iper-critica, che la tradizione delle età più antiche è tutta falsa; un’altra dice che essa è verità assoluta; i giuristi dicono che essa è una miniera da cui estrarre ciò che serve, altri ancora che essa va accertata con metodi interni ed esterni (cioè con le altre scienze, come la numismatica, l’epigrafia, ...).
Sallustio e Cicerone, per esempio, hanno scritto entrambi sulla congiura di Catilina, ma le loro versioni sono diverse per cui dobbiamo conoscere i fini degli autori e poi confrontarli.
L’epigrafe contiene fatti che i contemporanei ad essa potevano vagliare, quindi difficilmente le epigrafi mentono; esse illustrano i periodi più recenti della storia di Roma.
Un’epigrafe del 186 parla del Senatus consultum de Baccanalibus; altra testimonianza è la Tabula Alimentaria, datata all’anno 101 d.C.: essa elenca i fondi e i proprietari ai quali era stata concessa, per volontà dell'imperatore Traiano (52-117; successe nel 98 a Nerva, che lo aveva adottato), una somma di denaro in prestito, all’interesse del 2,50% (quindi bassissimo): il ricavato degli interessi andava a favore dei fanciulli poveri, assicurandone gli alimenti (da qui il nome della tabula).
Abbiamo ancora un’epigrafe di Augusto che parla delle proprie res gestae, a Pompei furono trovate poi altre tavole che parlano di contratti ecc.
Un’altra grande fonte è data dai papiri, frequenti in Egitto, grazie ad essi conosciamo, per esempio, gli atti dei martiri cristiani; altri sono frammenti di giurisprudenza altrimenti ignota, come la Constitutio Antoniniana (di Antonio Caracalla, che nel 212 d.C. concesse anche ai provinciali, salvo, forse,  i dediticii, cioè i prigionieri, la cittadinanza romana, ebrei inclusi)
L’archeologia, altra scienza utile per il nostro studio, fu considerata fino a poco tempo fa inattendibile (anche dal grande Teodoro Mommsen), è stata recentemente rivalutata, grazie alle tecniche di datazione (soprattutto quella del carbonio 14).
Per esempio, nel punto più alto del Palatino ci sono buchi scavati nella roccia, ed in questi buchi ci sono frammenti di legno fossile, datati al 750 a.C.: questa è una prova dell’esistenza dei primi villaggi romani (i frammenti di legno erano quelli dei pali delle capanne).
Per contro, il carbonio 14 fu usato male, per esempio, con la Sindone: per datare un oggetto con certezza non bisogna alterarne le caratteristiche, mentre la Sindone ha subito davvero di tutto.
Il simbolo del potere di Roma, i fasci littori, sono di origine etrusca: infatti a Vetulonia, nella tomba del littore, si rinvenne il più antico fascio; esso è formato dalle verghe, che simboleggiano i 12 popoli etruschi, dai lacci di cuoio, ad indicare i patti e gli accordi tra questi popoli, e l’ascia bipenne, che indica il potere, ma anche l’esecuzione capitale (il taglio della testa).
La numismatica ci è utile spesso per avere informazioni sulla vita degli imperatori e sulle loro imprese, così come sullo stato dell’economia (sappiamo che anche lo Stato coniava monete false, monete in bronzo che di oro ed argento erano solo rivestite).
La glottologia ci istruisce sui nomi di cosa latini, sabini ed etruschi, per esempio, “Roma” deriva da ruma, una parola etrusca che significa “mammella” (=> ancora la lupa): dei nomi di persona si occupa la toponomastica.
Altre scienze per noi utili sono l’urbanistica e l’etnologia, che studia i popoli attuali (e ci dice, per esempio, che i romani di oggi non sono geneticamente vicini a quelli di Roma imperiale, a causa delle varie dominazioni).
Perfino la botanica può aiutarci (sappiamo, per esempio, che sulla Sindone ci sono 47 specie diverse di pollini, dunque...).
 
LE ORIGINI DI ROMA
 
Volendo fare un accenno all’aspetto giuridico, sappiamo che i Romani crearono un diritto perfetto ed una civiltà unica, e c’è chi porta a giustificazione di ciò od il genio latino (inesistente), o la Divina Provvidenza (ma pare che Dio lasci spazio al libero arbitrio), in realtà il motivo principale che portò a questi risultati  fu che Roma nacque da una mescolanza di vari popoli diversi tra di loro, ognuno depositario di una tradizione.
I popoli erano gli Etruschi, i Villanoviani, i Sabini, i Latini, i Volsci e gli Equi: per poter stare insieme c’era dunque necessità di norme di convivenza che fossero chiare, eque e soddisfacenti per tutti.
Roma poi, come abbiamo già accennato, seppe trarre dalla multietnicità degli effetti chiaramente positivi: essa non conobbe mai né il razzismo, né il nazionalismo, né l’apartheid.
Un solo imperialismo si avvicina all’impero romano: l’Impero Austro-Ungarico.
Durante l’età del rame, 3000-2000 a.C., i popoli iniziano a diventare sedentari, con conseguenze di connotati etnico-giuridici; arrivarono poi in Italia i protolatini, pastori rigidamente patriarcali.
Durante l’età del bronzo, 1300 a.C., ci sono grandi spostamenti, e possiamo oggi immaginare almeno 2 cause:
·  l’invasione degli Achei, che si scontrano con la società pacifica dei cretesi minoici;
·  eruzione di Santorini.
 
I VILLANOVIANI E GLI ETRUSCHI
 
I Villanoviani sono gli antenati degli Etruschi, le caratteristiche e l’area di espansione delle due culture è la stessa; sull’origine degli Etruschi Erodoto disse che essi venivano dalla Lidia (l’attuale Turchia).
I Villanoviani risalgono circa al 1000 a.C. (età del ferro) e si trovavano in Emilia Romagna, in Toscana, nel Lazio, a Capua (=> Campania), a Salerno e nel Piceno; conoscevano l’urbanesimo (la struttura razionale della città), perciò superarono la condizione del villaggio; conoscevano la navigazione, a differenza delle altre popolazioni; conoscevano il metallo, e lo sapevano estrarre dalle miniere (sfruttavano le miniere dell’Elba e della costa prospiciente); si servivano del carro e del cavallo da guerra.
Erano portati sia per l’arte che per il commercio: sono questi due gli elementi determinanti per la loro espansione in Italia: erano anche militarmente superiori, ma la loro espansione fu data più dal commercio che dalla potenza militare.
Dal punto di vista giuridico, non conoscevano il concetto di stato nazionale, ma di stato città, e la federazione di città, detta dodecapoli, perché in genere constava di 12 centri.
Si organizzavano assemblee composte dai capi delle famiglie, i lucumoni (laucme, in etrusco; infatti il primo re etrusco di Roma si chiamava Lucio Tarquinio Prisco, dove Lucio è la contrazione di laucme), che nei momenti decisivi (riti religiosi, guerre, ...) eleggevano un prius inter pares, quindi un capo non assoluto ma relativo.
 
I SABINI
 
Altro popolo nato intorno al 1000 a.C. è quello dei Sabini, che fanno parte del gruppo etnico della famiglia italica; quello dei Sabini era un popolo indoeuropeo, diverso dai Villanoviani; essi erano agricoltori, guerrieri accaniti e molto religiosi.
Varrone dice che tutte le divinità erano di origine sabina (come Vesta, dea della fertilità, od il dio dei giuramenti, Semo Sanco, da cui deriva “sancire”).
Strutture politiche dei sabini:
·  potere delle famiglie (civiltà oligarchica gentilizia), che però eleggevano un capo, il rex inauguratus, così chiamato perché scelto dai capi delle famiglie ed approvato dalle divinità attraverso il rito dell’inauguratio;
·  matriarcato, cioè la donna vista come punto di riferimento giuridico (infatti la dea principale era Vesta), non significa “governo delle donne” (che si chiama invece ginecocrazia); il matriarcato sarà trasfuso nel diritto romano, che è fortemente patriarcale ma contiene degli altrimenti inspiegabili inserti matriarcali;
·  intestazione della proprietà: i beni erano intestati alle donne, poiché la civiltà era una civiltà guerriera, e gli uomini potevano morire facilmente, mentre le donne davano più stabilità ai rapporti giuridici.
Periodicamente i gruppi Sabini cacciavano l’eccedenza di popolazione, nel periodo della Ver Sacrum, cioè della primavera sacra: questi giovani divennero delle vere e proprie mine vagantes per i popoli vicini, e fu proprio uno di questi gruppi che ben presto si interessò a Roma...
 
I LATINI
 
I latini derivano dai pastori protolatini, il loro nome originario è albenses, erano in condizione di grande arretratezza, poiché non conoscevano né il ferro né l'uso del cavallo; il luogo dove essi si erano stabiliti era uno dei meno adatti all'insediamento, essendo una zona paludosa dalla quale emergevano sì dei colli, ma erano anch'essi poco salubri.
C’erano comunque dei vantaggi per la zona tiberina, come la posizione geografica: la zona dove sorse Roma distava 25 km. di fiume (navigabilissimo) dal mare, non esiste per 300 km. un’insenatura, quindi il porto acquistava grande importanza, l’unico sicuro era la foce del Tevere, una foce, tra l’altro, ricca di saline.
Il Tevere era anche una strada naturale che dal Lazio portava alla Toscana, il punto in cui nacque Roma poi era facilmente guadabile, anche se quando Roma iniziò le guerre puniche (prima guerra punica: 264-241 a.C.; seconda guerra punica: 218-202 a.C.; terza guerra punica: 151-146 a.C.) non sapeva navigare e dovette inventare per l’occasione i rostri.
 
RIASSUNTISSIMO DI STORIA ROMANA
 
L’età regia va dal 753 al 510 a.C., ed è, secondo la tradizione, l’età dei 7 re (Romolo, Numa Pompilio, Tullo Ostilio, Anco Marcio, Lucio Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo); si hanno durante questo periodo delle dominazioni ed influenze, prima dei Villanoviani, poi dei Sabini, infine degli Etruschi.
L’età della Repubblica inizia con la fine dell’età regia quando nel 509 c’è la cacciata degli Etruschi, e si instaura un regime repubblicano, con la presenza dei magistrati.
Le lotte tra patrizi e plebei determinano l’equilibrio della Repubblica, che fa di Roma una domina gentium.
Alla fine del II secolo a.C. abbiamo già i germi della decadenza, è il periodo dei Gracchi, dei grandi conflitti sociali: quest’età finisce nel 27 a.C., con Ottaviano Augusto prende forma il principato (età che va dal 27 a.C. al 284 d.C.), che inaugura un periodo di pace.
È durante quest’età che nacque Gesù: si stima che la sua nascita avvenne, paradossalmente, nel 6-7 a.C.: il fatto che Dionigi il Piccolo abbia sbagliato a collocare la data della nascita di Cristo lo ricaviamo dal fatto che il censimento a Roma avveniva ogni 4 anni.
Si distinguono gli imperatori “maledetti”, con potere autocratico, come Nerone, Commodo e Caligola, da altri come Tiberio, Claudio, Nerva, Traiano e Marco Aurelio; l’imperatore tende a diventare Dominus et Deus, ad essere lui stesso fonte del diritto, e con Diocleziano, nel 284, inizia il dominato: l’imperatore si legittima da solo, non è più prius inter pares.
L’impero entra in crisi, si eliminano le istituzioni repubblicane e si fonda l’apparato repubblicano, e quindi le tasse per mantenerlo: ogni cittadino si sente nemico dello Stato, quindi se può lo imbroglia (è un clima molto simile a quello di adesso); i Romani avvertono il vuoto spirituale, incrementato dalle persecuzioni, poiché il Cristianesimo viene visto dagli imperatori (Diocleziano, Giuliano l’Apostata) come un nemico dello Stato.
In seguito giunsero i vandali e nel 476 cade l’Impero Romano d’Occidente.
 
L’ETÀ REGIA
 
Durante quest’età il regime monarchico si identifica in soli 70 anni; quest’età si divide in:
·     fase villanoviana, con ordinamento gentilizio, autonoma, autarchica (cioè si manteneva da sola); dura più o meno per tutto il VIII secolo;
·     fase sabina: i Sabini si insediano in Roma e vi portano la loro costituzione: è questa l’unica fase monarchica dell’età romana, il periodo è il VII secolo a.C., che vede nascere la prima, timida costituzione; i re Sabini sono Numa Pompilio, Tullo Ostilio ed Anco Marcio;
·     fase etrusca: siamo nell’epoca della signoria, che va dal 600 al 510 a.C. (in realtà questa fase non si interrompe bruscamente ma continua anche dopo la cacciata degli etruschi).
 
FASE VILLANOVIANA
 
Per quanto riguarda la prima fase, la fase villanoviana, si è scoperta sull’area dei 7 colli una necropoli che risale all’VIII secolo, dove le tombe sono tutte tombe a cremazione: seppellire le ceneri è un rito tipico delle civiltà patriarcali, mentre le civiltà matriarcali seppelliscono i corpi.
In essa sono stati ritrovati anche oggetti villanoviani, tra i quali non vi erano armi: ciò indica che la popolazione era pacifica, mentre la sua tendenza al commercio è testimoniata dalla presenza di oggetti che provenivano da lontano, come i braccialetti in pasta vitrea (tipici dei Fenici).
I Villanoviani vivevano sul Palatino.
Abbiamo oggi le prove dell’esistenza di villaggi e necropoli sparsi sui 4 monti.
Ogni villaggio ospitava una gens, e le gentes erano diverse tra di loro; alcune gentes celebravano, l’11 dicembre, il Settimonzio: si riunivano le genti dei monti, non dei 7 colli:
·  sulle 3 cime del Palatino: Palazio, Germalo e Velia;
·  sulle 3 alture dell’Esquilino: Cispio, Oppio (vi era coltivato l’oppio) e Fagutal (vi si coltivava il farro);
·  sul Cèlio.
I villaggi erano detti vici (vīcus, i, m.) ed erano composti da domi (dŏmŭs, ūs, f. locativo i, dat. ŭi, acc. um, abl. o, raro ū, gen. pl. ŭum e ōrum, acc. pl. os e us, dat. e abl. pl. ibus,) che ospitavano le familiae.
La gens (gens, gentis, f.) era un gruppo di familiae discendenti da un capostipite remoto, o addirittura mitico (es.: la gens Iulia pretendeva di discendere da Venere); essa prevedeva una relativa omogeneità di sangue: forse non erano tutti legati da parentela, ma ci si avvicinava al “tutti”.
I motivi di unione erano anche economici, di solidarietà, religiosi: infatti ogni gens aveva i propri sacra ed una propria costituzione, fatta di mores (es.: la gens Fabia imponeva di sposarsi appena puberi, cioè alle donne ai 14 anni ed agli uomini a 12 anni: ciò riflette una crisi demografica; la gens Cornelia, quella di Lucio Cornelio Silla, imponeva di inumare interamente i morti, senza bruciarli; tra l’altro fu proprio Silla a trasgredire per primo questa regola, poiché decise di farsi bruciare per non lasciar traccia di una malattia che gli aveva deturpato il viso).
I vari pater familias eleggevano un capo, detto princeps gentis.
La familia era un gruppo parentale, quindi aveva salde fondamenta; il legame poteva essere reale, cioè tramite discendenza per generazione, o giuridico, attraverso una discendenza per adozione; questo istituto ha un pater familias vivente, quindi non è un istituto acefalo; il pater familias è una struttura autoritaria che esercita l’auctoritas:
·  sui figli (patria potestas);
·  sulla moglie, sua e dei figli (manus);
·  sugli schiavi (mancipium)
Cicerone ci avverte che il diritto di vita e di morte fu applicato solo 3 volte, ed ogni volta si trattò di casi leggendari (es.: quello degli Orazi e Curiazi).
Facevano parte del consilium domesticum i parenti, gli amici ed i vicini di casa.
Ogni gens aveva dei propri vassalli, dei tributari, detti clientes: nasce così l’istituto della clientela (che non è la bruttura dei nostri giorni), un istituto giuridico che comporta diritti e doveri sia da parte dei clienti che da parte del patrono.
Il voto era inizialmente palese, divenne segreto coi Gracchi.
 
L’ETÀ SABINA
 
La tradizione parla di scontri tra Sabini e Latini in cui risultarono vincitori sempre i Sabini tranne nell’ultima battaglia, dove “stranamente” vinsero i Latini; la tradizione si inventa anche il ratto delle sabine per giustificare la presenza di elementi sabini in Roma (come la dea Vesta).
I Sabini seppelliscono i propri morti sull’Esquilino, monte fuori dall’abitato (infatti “inquilino” indica colui che abita dentro casa).
Il re sabino arrivava al trono con modalità che coinvolgono tutti gli elementi della costituzione sabina, che consta di 4 elementi: re, popolo, collegi religiosi e consilium regis (o consilium patrum, o Senato).
Il re è l’elemento più appariscente, ma non il più importante; per la sua nomina occorrono il consiglio, il popolo ed i sacerdoti; quando un re moriva il potere passava al consilium regis, che lo deteneva fino a che non fosse scelto un nuovo re: il periodo di detenzione da parte del consilium regis si chiamava interregnum.
Questo istituto dell’interregnum nominava 10 patres (senatori), ognuno dei quali governava per 5 giorni: è questa la prima carta vincente di Roma (Marziale disse che per i Romani il potere era come il pesce, dopo pochi giorni puzza).
Il consilium sceglie il re tra i discendenti in linea matriarcale, quindi non sceglieva il figlio del re, ma il figlio della figlia, era ex filia e non ex filio.
Una volta individuato, il re veniva portato sul Campidoglio, affinché venisse celebrata l’inauguratio (ricordiamoci che il rex era definito inauguratus): i sacerdoti chiedevano agli dei (forse Giove) di mandare un segno di favore o sfavore, e qui sappiamo che la religione veniva strumentalizzata (mentre gli Etruschi credevano davvero ai loro dei, i Romani, se ricevevano un segno sfavorevole, lo interpretavano come favorevole, in base ai loro scopi): il segno di favore era scelto dal sacerdote, solo dopo che questo era stato ricevuto, quindi non era obiettivo.
Dopo questa cerimonia, il rex doveva presentarsi davanti al popolo, all’assemblea (=> comizio curiato), il quale con la lex curiata de imperio si vincolava e sottoponeva al re, che ora è tale a tutti gli effetti; attenzione: è sbagliato dire che il re si presenta al popolo per venire approvato, perché il re era già stato approvato (dal dio).
Il re aveva funzioni militari, giurisdizionali civili (decideva le cause tra privati) e giurisdizionali criminali (nasce così il diritto criminale romano): quest’ultimo riguarda gli atti illeciti lesivi soprattutto di un interesse pubblico, quelli che ancor oggi sono perseguibili d’ufficio, e questi crimina sono perciò diversi dai delicta, illeciti che ledono un interesse prevalentemente personale e perciò perseguibili a querela di parte
Il re per contrastare i particolarismi evitava la vendetta: grazie a ciò non si uccisero cittadini romani dal 300 circa fino al 27 a.C.
Esisteva però la pena di morte per due crimina gravissimi:
·  il parricidium (uccisione di un pater familias), che veniva punito con il culleus, il sacco nel quale il parricida veniva cucito, dopo essere stato percosso dalle verghe dei littori (di ciò ci informa Modestino), assieme ad un gallo, una vipera, una scimmia ed un cane e poi buttato da un ponte, (il Sublicio?).
Il sacco nel quale il condannato veniva chiuso era a tenuta stagna, a significare che il parricida non poteva avere contatti con l’esterno e che una volta morto non avrebbe potuto contaminare nulla; sempre a causa della paura della contaminazione, veniva incappucciato (perché non contaminasse con la vista) e gli venivano messi zoccoli di legno ai piedi (perché non contaminasse la terra).
Anche gli animali avevano un preciso valore: il cane è considerato un animale immondo e viene accomunato alle divinità infere, così come la scimmia genera repulsione per la sua umanità deforme; il serpente è da sempre l'animale per eccellenza del regno dei morti, e il gallo è associato a sua volta alle regioni sotterranee.
·  il perduellio (tradimento) o collusione: la parola viene da cum + ludere, “giocare con” (il nemico), cioè tradire lo Stato.
C’erano delle persone che aiutavano il re in queste nere vicende: i quaestores ed i duòviri (“per due uomini”).
Il re poteva fare anche ordinanze (le “leggi” sono quelle fatte dal popolo); nel V secolo il pontefice Papirio compilò lo Ius Papirianum, nel quale leggiamo che una legge attribuita a Numa Pompilio afferma che la donna che beve vino dev’essere uccisa, così come la donna che ruba le chiavi della cantina, inoltre si dava ai parenti il ius osculi: quando essi avevano il sospetto che la donna avesse bevuto, potevano baciarla (per verificare).
Non tutti i cittadini fanno parte del populus, ma solo i maschi atti a portare le armi e che discendevano dai patres: nasce così il concetto di patrizi.
Il comizio curiato si fonda sulla discendenza dei patres, delle genti primitive; la parola “curiato” deriva da curia, l’unità di voto in cui sono inseriti i cittadini.
C’erano 30 curie, divise in 3 tribù: nasce il concetto ternario di tribù, che la dottrina più recente identifica nelle 3 tribù che contribuirono alla fondazione di Roma, e che sono:
Tìties, i Sabini;
Ràmnes, che non indica i Romani ma deriva il nome da Ravenna, “rasnes”, infatti la “m” si legge “s” nelle lingue orientali (come il greco antico);
Lùceres, gli abitanti dei boschi, cioè i Latini, che abitavano le foreste dei colli Albani.
Nascono gli istituti dell’adrogatio, l’adozione di un pater familias, e la detestatio sacrorum, il rifiuto dei propri sacri: il pater familias che veniva adottato non poteva più adorare i propri sacri, che o si estinguevano o venivano assunti dal pater familias adottante.
Il consilium regis era l’espressione della struttura aristocratica gentilizia, che non sopportava i tentativi di costruire uno stato unitario; in seguito divenne il Senato, ed aveva 4 poteri:
·  potere consultivo: i re sabini ed i loro ausiliari devono chiedere il parere del consilium;
·  interregnum;
·  auctoritas: consisteva nella ratifica che il consilium faceva di ogni atto pubblico, senza l’auctoritas del consilium l’atto non aveva efficacia;
·  collegio sacerdotale: ogni atto pubblico prevede un sacrificio agli dei ed un auspicio.
I Sabini inventarono le divinità personificate, ognuna con un proprio collegio sacerdotale.
I Sabini sistemano il centro del potere in un’area circoscritta, e lì vi collocano il tempio di Vesta; il loro villaggio stava sul Quirinale, mentre l’acropoli stava sull’Esquilino.
Coi Sabini, soprattutto con Tullo Ostilio, Roma si espande.
I Sabini inseriscono l’elemento matriarcale a Roma, che si incastona malamente nel patriarcale diritto romano; gli istituti di diritto pubblico e privato che riflettono la linea matriarcale sono la successione al trono (i re sabini discendono ex filia) ed uno dei modi d’acquisto della manus (potere sulla moglie):
·  coemptio, cioè l’applicazione della mancipatio: la donna è acquistata (tracce del patriarcato);
·  usus: in seguito alla coabitazione (con rapporti sessuali) per due anni, a meno che la donna non si allontanasse per tre notti (=> trinoctia), essa veniva “usucapita”;
·  confarreatio: i nubendi si scambiano il consenso matrimoniale davanti ad un sacerdote ed il marito diventa tale dopo aver spezzato una focaccia (=> ricorda l’Eucaristia) di farro (grano duro); questo istituto è completamente diverso dagli altri;
·  cognatio: parentela per via femminile.
I patrizi sono coloro che discendono dai patres, i primi arrivati a Roma, => coloro che occuparono le poche terre.
I plebei derivano il loro nome dal greco plebseo, “moltitudine”, “massa” (il popolo è il “démos”), e sono plebei tutti coloro che non sono patrizi, quindi la maggioranza.
La diversità tra patrizi e plebei è stata giudicata anche come diversità socio-economica, dicendo cioè che i patrizi sono i ricchi ed i plebei sono i poveri che per questi ricchi lavoravano.
I plebei chiedevano sempre di partecipare al potere, ed un po’ di terra, appena due iùgeri (bina iugera), in modo da poter entrare nei congressi riservati a chi possedeva la terra.
Si pone fino ab origine come un contrasto tra due ordinamenti, non tra due classi.
I plebei hanno i propri magistrati: gli edìli (da aedes, tempio) ed un’assemblea , il concilium, ma non avevano il connubium, cioè non potevano sposarsi in maniera legittima né coi patrizi né tra di loro, la loro unione era considerata more ferarum, alla maniera delle bestie.
Sulle origini della plebe abbiamo varie ipotesi:
·  Teodoro Mommsen dice che la plebe nasce dalla disgregazione delle genti, dalla clientela;
·  Vincenzo Arangio-Ruiz dice che i plebei erano latini ed i patrizi etruschi;
·  Rosenberg dice che i patrizi erano gli ariani ed i plebei tutti gli altri.
La plebe è una moltitudine avventizia, che viene dopo i patrizi, attirata dal commercio, e multietnica, costituita da piccoli nuclei familiari, ma ad un certo punto i plebei diventeranno così potenti che i patrizi chiederanno la transictio ad plebem, chiederanno cioè di diventare essi stessi plebei.
 
LA FASE ETRUSCA
 
Gli Etruschi abbiamo detto essere figli dei Villanoviani, essi non poterono essere cancellati dagli autori latini.
Come i Villanoviani, non conoscevano lo stato unitario, ma si espandevano con le città; fu un popolo prevalentemente pacifico.
Tarquinio Prisco, Servio Tullio e Tarquinio il Superbo erano etruschi.
Furono gli Etruschi a fare la cloaca massima e a pavimentare il Foro: costruiscono, pur sapendo che devono morire (infatti quasi tutto il loro lavoro è scomparso); furono sempre gli Etruschi, e non i Latini, ad impostare il diritto romano.
La tradizione dice che il loro arrivo a Roma fu “indolore”: sembra che Tanaquilla abbia suggerito al marito Lucio Tarquinio di arrivare al potere uccidendo il re; un’altra ipotesi della tradizione dice che Tarquinio Prisco lottò coi Sabini e li spazzò via.
Gli Etruschi erano molto superstiziosi, e sapevano di dover morire: è per questo che le loro costruzioni non durano nel tempo, i loro templi sono in tufo.
Nel 600, in uno dei due modi affermati dalla tradizione, gli Etruschi pervennero a Roma e vi portarono alcuni istituti:
·  il concetto di stato-città;
·  l’urbanistica: Micene è la più antica città greca, e non ha una struttura urbanistica ortogonale, ad angoli retti; alcuni attribuiscono tale struttura ad Ippòdamo (nato a Mileto, geometra e urbanista, diresse la costruzione del Pireo ad Atene), che però visse nel V secolo a.C., quindi non fu lui il primo ad utilizzarla.
·  l’imperium, concetto fondamentale che comprende simboli e contenuti; è un potere assoluto, che si esplica su tutto e su tutti, unitario, non tollera frazionamenti, è originario, superiorem non recognoscit, non deriva da nessuno la propria efficacia; è illimitato (mentre quello dei Sabini aveva dei limiti) ed ha simboli etruschi (il fascio, l’ascia bipenne, ...) che oltre a simboleggiare il potere lo quantificano, infatti il numero dei fasci era direttamente proporzionale al potere; altri simboli di potere erano la sedia curule (il trono), dove si sedeva il signore etrusco quando dettava giustizia, e la toga praetesta.
Gli Etruschi impongono la loro costituzione a quella precedente, senza che nessuno se ne accorga, senza spargimenti di sangue: formalmente è tutto come prima, quindi c’è un’idea di continuità: è questa un’altra carta vincente di Roma.
Esaminiamo meglio come avviene questa trasformazione:
·  potere sacerdotale: gli Etruschi non potevano permettere che un augure giocherellasse sulla loro testa guardando i segni celesti, ma nemmeno uccidono gli auguri: semplicemente affermano che per i re etruschi valgono i segni degli antenati etruschi, e non di quelli romani, così, mentre i Romani ebbero gli auguri, gli Etruschi introdussero per le decisioni gli aruspici.
Il popolo che avesse osservato un augure non avrebbe notato nulla di diverso, poiché egli avrebbe continuato a guardare il cielo in attesa dei segni divini;
·  il rex inauguratus non viene eliminato, ma continua a vivere, addirittura sempre nella reggia, ma le sue funzioni sono ridotte ai sacra, a funzioni religiose: il re non faceva più molto, ma ancora una volta il popolo, affacciandosi, avrebbe visto il proprio re ancora vivo e comodamente alloggiato nella reggia;
·  i patres, i patrizi, nel Senato, non vengono né uccisi né sostituiti, poiché gli Etruschi avrebbero poi avuto contro tutta la vecchia aristocrazia, ma estraggono dalla plebe (estranea alle gentes, ai patrizi) un numero di persone uguale a quello dei senatori e li pongono in Senato.
Ciò non basta: per far passare l’inganno e far credere ai patrizi di essere ancora padroni della situazione, chiamano i nuovi senatori pedarii, ed a questi non viene riconosciuto il diritto di parola, ma solo di esprimere il loro voto con un sì o con un no, spostandosi a destra o a sinistra dell’aula (ire pedibus in sententiam): ai vecchi senatori rimaneva l’“onore” della discussione, e ciò bastava per ingannarli; i pedarii esistono ancora oggi, e sono detti peones.
·  Comizio curiato: il popolo era raccolto in curie a seconda della tribù, dove ci si iscriveva in base all’origine etnica o di sangue: agli Etruschi ciò dava fastidio, perché ostacolava il loro inserimento nella popolazione, allora, senza eliminare i comizi curiati (così salvano, ancora una volta, le apparenze), dividono Roma in 4 tribù, la Palatina, la Collina, l’Esquilina e la Succusana (la parte più bassa dei colli, quindi quella più umile): in questo modo c’è unità di voto, unità di leva ed unità fiscale, ma non c’è più unità di sangue: si scardina così l’elemento unificante dei Latini, dei Sabini ecc., ma soprattutto dei patrizi e dei plebei.
Gli Etruschi creano anche l’ordinamento centuriato (qualcosa di simile stava avvenendo, contemporaneamente, anche ad Atene), dove il titolo di partecipazione del cittadino non è più dato dal sangue ma dalla ricchezza; quest’ordinamento è la struttura degli Etruschi, l’esercito che diventerà assemblea politica (100-150 anni dopo).
L’esercito ha struttura oplitica, quella precedente era fatta di manipoli isolati, le curie, guidati dai capi di famiglia che facevano un po’ ciò che volevano loro, rivelando spesso anche un odioso egoismo.
Innanzitutto va precisato che i trombettieri, al contrario di quanto si vede oggi nei film, stavano in fondo, mai davanti; chi guidava l’esercito andava a piedi, per essere un tutt’uno con l’esercito.
Stava in prima fila chi poteva permettersi lancia e scudo, mentre i poveri stavano nelle file dietro, tanto che fino al 109 a.C. nessun povero morì mai in guerra (se non per caso): è un mito da sfatare, quello secondo il quale Roma costruì la sua fortuna sul sangue della povera gente.
L’ordine centuriato è un’altra carta vincente di Roma: tutto ha inizio nel III secolo a.C., quando Roma si trovò davanti la formazione compatta, che non poteva aprirsi, dell’esercito di Pirro (re dell'Epiro, nipote di Alessandro Magno e discendente, diceva lui, di Achille), e ne fu sconfitta due o tre volte.
Una leggenda afferma che il primo ad uccidere un elefante sia stato un antenato di Cesare, e “cesare” deriverebbe da una parola fenicia che vuol dire “elefante”.
L’esercito era formato da 5 classi di soldati a piedi precedute da 18 centurie di cavalieri patrizi, c’erano infine 5 classi di nullatenenti, i capiti censi (cioè contati, considerati, solo perché avevano la testa, quindi perché esistevano).
La I classe contava 80 centurie, 40 di iūnĭōres (dai 17 ai 45 anni) e 40 di sĕnĭōres (dai 40 ai 60 anni).
La II, la III e la IV classe contavano 20 centurie, 10 di iūnĭōres e 10 di sĕnĭōres.
La V classe contava 30 centurie, 15 di iūnĭōres e 15 di sĕnĭōres.
Quando l’ordinamento divenne comizio, la centuria fu un’unità di voto; le centurie vedevano al loro interno i fabri aerari (operai del metallo), gli artigiani, i fabri tiniari (operai del legno), i tibìcines (suonatori di tuba, di tromba), i cornìcides (suonatori di corno) e gli accensi velati, così chiamati perché portavano un velo (c’è chi dice che fossero dei portabagagli, altri pensano che fossero becchini incaricati di raccogliere i morti sul campo).
È un ordinamento oligarchico, o, per meglio dire, aristocratico, dove governano i migliori.
Altra carta vincente di Roma è la gerontocrazia, cioè il governo degli anziani (dai 46 anni in su): in Roma ci fu sempre il principio che l’anziano doveva contare, perché depositario non tanto di saggezza, quanto di esperienza (infatti “Senato” deriva da senes).
La I classe era costituita dagli astati, nome derivante dalla lunga e pesante lancia; costoro avevano un’armatura, un elmo, lo scudo, la spada e gli schinieri (parastinchi), non avevano grande mobilità e gomito a gomito sopportavano il primo urto provocato dall’esercito nemico.
Dietro di questi venivano i principes, che sopportavano il secondo urto: questi avevano la stessa armatura degli astati, ma non la corazza.
In genere queste prime due classi bastavano a risolvere la battaglia.
La III classe era quella dei triari, muniti di elmo, scudo e spada.
La IV classe comprendeva i veliti, muniti di lance e giavellotti.
La V classe era quella dei funditores, armati con fionde e pietre; sembra che fossero temuti anche dalle prime file dell’esercito, oltre che dal nemico, perché poteva accadere che i funditores colpissero per sbaglio i soldati del proprio esercito.
I ricchi avevano perciò più poteri dei poveri, ma dovevano anche sopportare maggiori rischi.
Gli Etruschi affermano un principio nuovo anche per la successione imperiale: non instaurano una monarchia, ma una signoria, in cui il signore è dominus: si ha perciò una successione dinastica.
Gli Etruschi nel 503 stipularono coi Cartaginesi un patto di amicizia in cui si divisero le aree di influenza commerciale.
Le fonti del diritto in età regia sono i mores maiorum (distinti dalla consuetudine), che comprendevano all’inizio sia norme religiose, fas, che le norme civili, ius, ed i pontefici, che sono i primi interpreti, pieni di segretezza; anche il re, abbiamo visto, poteva fare qualcosa: le ordinanze, leges regiae, non leggi, alcune delle quali vennero poi raccolte dal pontefice Papirio nel V secolo.
 
PASSAGGIO DALLA MONARCHIA ALLA REPUBBLICA
 
Precisiamo innanzitutto la differenza tra Monarchia e Repubblica: essa è una sola, e semplicissima, ed afferma che una Repubblica sussiste quando la carica più alta non è a vita, mentre si parla di Monarchia quando la carica è vitalizia.
La tradizione afferma che gli Etruschi furono cacciati da Roma nel 509 a.C., poiché il figlio di Tarquinio il Superbo si sarebbe invaghito di una sua cugina, Lucrezia, sposata con Tarquinio Collatino (corna in famiglia, dunque!), l’avrebbe violentata e lei si sarebbe suicidata, per la vergogna: la data è riportata nei Fasti Consulares.
È però un falso, come accade spesso quando la tradizione parla di donne violentate, senza contare poi che Livio afferma ciò essere avvenuto nel 502, mentre Diodoro Siculo dice che queste cose avvennero nel 501.
La tradizione dice poi che Tarquinio, cacciato, ricevette aiuto per rientrare in Roma da re Porsenna (che non è un nome proprio, ma vuol dire “re” in etrusco): la verità è forse che Porsenna sia stato l’ottavo re di Roma.
È a questo punto che la tradizione inserisce tre episodi leggendari, quello di Orazio Coclite, quello di Muzio Scevola e quello di Clelia.
 
 
Leggenda di Orazio Còclite. L’avanzata degli etruschi fu inesorabile e gli stessi riuscirono a penetrare nel territorio romano fino ad occupare il Gianicolo, sulla sponda destra del Tevere: per attraversare questo fiume i Romani avevano costruito un solo ponte: il ponte Sublicio.
Gli uomini di Porsenna già stavano per attraversarlo, quando tra le schiere romane si fece largo un giovane, gridando: “Tagliate il ponte!”.
Era Publio Orazio detto il Còclite (perché cieco da un occhio: cŏclēs, ĭtis, m., cieco di un occhio). Egli avanzò, solo, sul ponte e, con incredibile audacia e coraggio, tenne testa a tutti gli Etruschi, impedendo loro il passaggio. Nel frattempo i Romani, dietro di lui, abbatterono il ponte con grandi colpi di scure.
All’improvviso si udì uno schianto di assi e di travi spezzate: il ponte crollò, trascinando con sé Orazio ed alcuni soldati etruschi.
Il Romano era un buon nuotatore e riuscì a porsi in salvo, raggiungendo le rive di Roma liberata: Roma gli dimostrò la sua gratitudine dedicandogli una statua e regalandogli un appezzamento di terreno.
Porsenna però non si ritirò e pose l’assedio alla città, con la speranza che i Romani si arrendessero vinti dalla fame.
Leggenda di Muzio Scevola. A Roma già cominciavano a scarseggiare i viveri quando un giovane aristocratico romano, Muzio Cordo, propose al Senato un piano che prevedeva l’uccisione del lucumone etrusco. Ottenuta l’autorizzazione passò immediatamente all’azione: armato di un pugnale, penetrò nelle linee nemiche fino a raggiungere l’accampamento dove Porsenna, assistito dal suo segretario, era intento a distribuire la paga ai soldati. Muzio aspettò che l’operazione finisse e quando il suo obiettivo rimase solo lo uccise con un colpo di pugnale. Ma il suo era stato un tragico scambio di persona: aveva ucciso il segretario del re. Catturato dai soldati e portato al cospetto di Porsenna, l’aristocratico romano non tentennò neanche un attimo: “Ero qui per uccidere te. Sono romano e il mio intento era quello di liberare la mia patria, ma ho fallito e quindi punisco quella parte del mio corpo resasi colpevole di questo imperdonabile errore”. Così dicendo mise la sua mano destra in un braciere dove ardeva il fuoco dei sacrifici e non la tolse fino a che non fu completamente consumata.
Da quel giorno e per l’eternità questo coraggioso nobile romano avrebbe assunto il nome di Muzio Scevola (il mancino: scaeva, ae, m., un mancino [raro]). Porsenna rimase molto impressionato da questo gesto, che faceva il paio con il comportamento di Orazio Coclite, e decise di liberarlo. Fu allora che Muzio inventò una storia destinata a cambiare il destino di Roma, dimostrando di essere anche molto astuto oltre che coraggioso. “Per ringraziarti della tua clemenza, voglio rivelarti che 300 giovani nobili romani hanno solennemente giurato di ucciderti. La sorte aveva stabilito che io fossi il primo e ora sono qui davanti a te perché ho fallito. Ma prima o poi qualcuno degli altri 299 riuscirà nell’intento”. Questa falsa rivelazione spaventò molto il principe etrusco ed anche suo figlio, il meno convinto di quella spedizione. Lo stesso affermò che era molto più importante salvaguardare il futuro del re di Chiusi piuttosto che preoccuparsi del destino dei Tarquini.
Fu così che Porsenna prese la decisione di intavolare trattative di pace con i romani, della cui valenza era rimasto particolarmente colpito.
Per dare inizio alle trattative chiese in cambio degli ostaggi tra i quali si trovava la giovane Clelia
Leggenda di Clelia. Dopo aver tolto l’assedio alla città di Roma ed essersi ritirato dal presidio sul Gianicolo, Porsenna strappò ai Romani l’obbligo di consegnare a lui degli ostaggi. Come si usava a quei tempi furono date agli Etruschi delle fanciulle. Tra queste vi era Clelia che, non volendo rimanere tra i nemici, convinse le sue compagne a tentare la fuga con lei. Era ormai l’alba, quando le nove fanciulle raggiunsero il Tevere. Avevano camminato tutta la notte. L'unico ponte sul Tevere, il Sublicio, era stato distrutto quando Orazio Coclite aveva affrontato da solo i soldati di Porsenna. “Non ci resta che attraversare il fiume a nuoto” - disse Clelia alle compagne. “Avanti, allora!” - disse. E le nove ragazze, si gettarono nell’acqua gelida, nuotando verso l’altra riva. “Chi è là?” - gridò dopo qualche momento una sentinella. Accorse un ufficiale, e presa una tromba lanciò l’allarme. La sponda romana si riempì di soldati. Pronti ad accogliere il nemico con le spade, tutti si stupirono quando si accorsero che si trattava, invece, di fanciulle.
“Chi siete?” - chiese l’ufficiale. “Siamo romane” - rispose Clelia. “Eravamo prigioniere di Porsenna e siamo fuggite”. Quando questa fuga fu riferita a Porsenna, in un primo momento mandò dei parlamentari a Roma per chiedere la restituzione degli ostaggi (un atto particolarmente doloroso anche per Publicola, considerando che tra le ragazze c’era anche sua figlia Valeria); ma poi, preso dall’ammirazione, disse che quell’impresa era superiore a quelle di Coclite e Muzio. I Romani vollero rispettare i patti e restituirono gli ostaggi al re etrusco, il quale, colpito dalla fierezza della fanciulla, non solo la liberò, ma le fece scegliere altre cinque fanciulle da condurre con sé a Roma. Clelia le scelse tra le più giovani. E quella sera stessa le sei fanciulle giunsero a Roma. Ristabilita la pace i Romani premiarono quest’atto di coraggio con una statua equestre che fu innalzata all’inizio della via Sacra.
 
 
Nel 524 a.C. gli Etruschi furono sconfitti a Cuma, nel 504 arrivò a Roma un sabino, Appio Claudio, con 5000 clientes (5000 ≡ 6000, numero di persone necessarie per formare una legione), => tentativo di attacco; nel 474, sempre a Cuma, Gerone di Siracusa distrugge la flotta etrusca.
Rimase comunque una sorta di potere tirannico.
Roma è una città aperta, e perciò vista con occhio avido dai popoli vicini, soprattutto dai Sabini: Livio dice che nel 470 un sabino, Appio Eridonio, occupa il Campidoglio, ma non ci dice perché: questa è probabilmente un’altra reticenza della tradizione di Roma per celare un’effettiva occupazione etrusca.
È certo però che la nuova magistratura è patrizia, vi accedono solo i discendenti delle antiche gentes.
Gli studiosi hanno formulato l’ipotesi, studiando il periodo di storia romana che va dal 474 al 367 (quando si ebbe una costituzione ben delineata), che Roma abbia proceduto per tentativi nella costruzione della sua costituzione; per almeno 90 anni ci furono altre magistrature al posto dei consoli, comparsi di sicuro solo nel 367.
La magistratura consolare è inconcepibile anche da un altro punto di vista: essa è un organo collegiale, dove ogni ministro ha la propria competenza, ma in Roma la collegialità indica la detenzione per l’intero del potere da parte di ognuno dei due consoli, e ciò era pericoloso per una Repubblica senza apparato costituzionale (pensiamo a cosa sarebbe accaduto, per esempio, se un console avesse dichiarato guerra ai Sabini e l’altro, contemporaneamente, agli Etruschi).
È legittimo invece pensare che i Sabini usassero la loro magistratura originaria, che era sì collegiale, ma diversa: esisteva un praetor maximus (meddix tuticus, capo del popolo), ed un praetor minor (meddix minive).
La prima magistratura prevedeva dunque un dictator, “colui che dice” (qual è il diritto che detta la legge), ed un magister equitum, (capo della cavalleria), ma questa magistratura non soddisfò Roma, e soprattutto la parte plebea di essa, che rimaneva esclusa dalla politica, e del resto gli Etruschi si erano appoggiati proprio ai plebei, quindi la loro condizione peggiorò quando gli Etruschi furono cacciati (la plebe comunque aveva già fatto due importanti conquiste, quella dell’ordinamento centuriato e quella dei senatori pedarii).
I plebei vollero il connubium, cioè il diritto di potersi sposare tra di loro e con i patrizi, e vollero poi che fosse eliminata la prigionia per debiti, imposta dai mores e dallo ius civile.
I plebei, comunque, non erano tutti poveri, erano proprietari di una ricchezza mobiliare.
I plebei vollero anche la certezza del diritto, che allora non esisteva: esistevano, è vero, i mores, ma come potevano essere applicati? E chi li poteva interpretare? I gelosi patrizi, che imponevano il loro diritto.
C’erano anche motivi di ordine politico: i plebei desideravano poter accedere alle magistrature ed avere delle garanzie contro gli abusi dei patrizi.
C’erano, infine, motivi apparentemente economici: i plebei volevano, come abbiamo già visto, la terra, ma solo per poter partecipare alla nuova assemblea: la discriminazione avversa a chi non possedeva la terra era stata un’altra mossa dei patrizi per escludere i plebei.
Scoppiò così, inevitabilmente, il conflitto, manifestatosi in forme anche spettacolari: la plebe inventa lo sciopero, detto “secessione” (sēcessĭo, ōnis, f., l’azione di separarsi, l’appartarsi, il ritirarsi; secessione, rottura politica, scissione, rivolta), che prevede il ritiro in un posto appartato di Roma.
La prima, leggendaria secessione avvenne nel 494 sul monte Sacro, e vide l’apologo di Menénio Agrippa (era un patrizio): i plebei non lavoravano più, in modo da non nutrire più i patrizi.
La secessione vera avvenne nel 472, è la seconda ma è anche quella storica: i plebei si ritirano sul monte Aventino ed impongono la loro volontà ai patrizi dopo essersi riuniti in concilium ed aver imposto un trattato, sotto ricatto, ai patrizi stessi.
Impongono un’istituzione, il tribunato della plebe, per curare e proteggere gli interessi della plebe
Struttura del tribunato della plebe:
·  in origine i tribuni della plebe erano 2, poi diventarono 4, poi 5... fino ad essere 10: questo era uno svantaggio per i plebei, perché i patrizi trovavano sempre, in questo modo un tribuno da corrompere (infatti i Gracchi furono neutralizzati da un collega interno);
·  i patrizi ottengono che i magistrati non rappresentino tutto il popolo, ma solo la plebe, infatti i tribuni della plebe non hanno né l’imperium (il comando militare) né la facoltà di interrogare gli dei;
·  i plebei ottengono che i tribuni siano sacrosanti (non “sacri” e basta), protetti dalla divinità, perciò chi offendeva il tribuno poteva essere ucciso impunemente da chiunque, anzi chi uccide l’offensore del tribuno non solo non subisce alcun danno, ma si prende anche metà del patrimonio dell’offensore;
·  i plebei danno ai patrizi la garanzia che il tribuno eserciti il suo potere solo fino al pomerium (9 metri fuori dalle mura);
·  il tribuno doveva sempre lasciare aperta, di notte, la porta della propria casa aperta, per essere sempre a disposizione (infatti qualche tribuno verrà ucciso proprio di notte, trovato morto nel suo letto al mattino);
·  i tribuni, sempre perché dovevano rimanere a disposizione, non potevano mai uscire dalla città.
Poteri dei tribuni della plebe:
·  ius auxilii: potere di aiutare la plebe, od anche un singolo plebeo;
·  intercessio, inventato nel 471 a.C., riscoperto recentemente (1948) da Fritz Schulz, membro del consiglio dell’O.N.U.: era il potere di paralizzare qualunque atto pubblico, anche quelli del Senato (perciò in teoria i tribuni avrebbero potuto condizionare pesantemente la vita politica dentro la città);
·  summa coercendi potestas, il massimo potere di polizia, perciò multare, imprigionare e citare in giudizio di fronte ai concili della plebe;
·  ius agendi cum plebe, il diritto di convocare e presiedere l’assemblea della plebe e di proporre plebisciti che poi la plebe è chiamata ad approvare.
Sarebbero bastati questi poteri a dare la supremazia della plebe sulla cittadinanza, ma c’erano due deterrenti, il primo era quello della collegialità (=> intercessio dei poteri), il secondo era ideologico: il popolo dava fiducia ai magistrati affinché questi agissero per l’utilitas publica, perciò i magistrati si sentivano impediti ad agire in malafede (non come i politici di oggi, che non si fanno di questi problemi).
C’erano degli ausiliari dei tribuni, gli edili, i vecchi custodi dei templi di Cerere, Libero, Libera e Diana, che avevano ora un potere non solo religioso ma anche politico.
Terentillo Arsa nel 462 fece un primo tentativo di nominare una commissione per la redazione di un codice, mentre Appio Claudio mandò in Grecia un’ambasciata di 10 patrizi (decemviri) affinché redigessero un codice di leggi: essi in 3 anni di lavoro produssero 10 tavole, integrate nel 450 con altre 2 tavole: 10 + 2 = lex duòdeum tabularum.
Tre dei 10 commissari erano plebei; 2 tavole furono considerate inique, poiché prevedevano il divieto di connubio, che prima esisteva, ma stava tra i mores (quindi non codificato), e la prigionia per debiti: proprio i due elementi che la plebe voleva eliminare!
Il secondo decemvirato finisce in modo leggendario: la tradizione dice che Appio Claudio si invaghì di una certa Virginia, figlia di un plebeo, e che la volle per sé, allora attivò un proprio cliente, che aveva dei crediti verso il padre di Virginia, affinché la facesse schiava: il padre uccise la propria figlia (esercitando il ius vitae ac necis).
È la solita storiella che racconta la tradizione: questa Virginia non vi ricorda un po’ troppo Lucrezia?
Senza contare poi che la rivolta sarebbe stata guidata dai patrizi, e ciò non quadra assolutamente.
Le XII tavole contengono istituti impossibili nel V secolo a.C., come l’intercalazione (l’anno bisestile col giorno in più a febbraio), che è del 191.
Polibio (storico e generale greco di Megalopoli in Arcadia, comandò la cavalleria della Lega Achea; 205-125/120 a.C., autore delle “Storie” in 40 libri, di cui ci rimangono solo i primi 5), poi, ci avverte che solo nel 229 a.C. un romano mise piede in Grecia, quindi prima non poteva esserci stata l’ambasciata di cui parla la tradizione.
Si parla poi di moneta, che però comparve solo alla fine del IV secolo a.C.; si parla anche del comizio centuriato, introdotto 450 anni dopo.
I Romani dissero poi che le XII tavole furono distrutte, ma è la solita tradizione che cerca di imbrogliare, poiché non è possibile che ci fosse solo una copia delle XII tavole.
Le XII tavole dovevano essere un codice, quindi dovevano essere esaurienti, solo che, per esempio, non risolvevano ma complicavano il problema del connubio e dei debiti.
Bàis (è un italiano) pensa che le XII tavole siano una duplicazione di eventi occorsi nel 304, quando Appio Claudio Cieco (discendente dell’Appio Claudio di cui prima) ordinò a Cneo Flavio di redigere dei “formulari processuali” (leges actiones).
Lambert (è un belga, quindi non si legge la “t” finale) dice che le XII tavole sono un’antologia (quindi c’è una scelta) di mores e consuetudini raccolte in un unico corpo da un giurista, Sesto Elio Peto Cato (così come Cicerone era chiamato così a causa di un porro, un cicer, sul naso, Cato era così chiamato a causa di un nauseante vizio; Sesto Elio Peto Cato fu, oltre che oratore e giurista, console nel 198 a.C.): tale corpo fu detto Tripertita, il primo libro del quale sarebbe stato composto dalle XII tavole.
Non c’è traccia, però, di contratti o negozi.
Ci sono nuovi crimini (ricordiamoci la differenza tra crimina e delicta: i crimina sono quegli atti illeciti che ledono un pubblico interesse, perseguibili d’ufficio): la collusione del giudice con la parte, nella quale il iudex qui litem suam fecit viene punito con la morte, poiché fa venir meno la fides pubblica.
Anche la falsa testimonianza veniva punita con la morte, poiché lo Stato veniva leso nella sua filosofia.
Vengono considerati crimina anche tutti gli atti che ledevano le attività agricole, come l’incendio delle messi, crimine punito col bruciare poi l’incendiario.
Compare qui un’altra carta vincente di Roma: si protegge soprattutto chi è furbo, chi è intelligente e per primo si difende.
Per esempio, viene punito con la morte il pascolo notturno abusivo, cioè sul terreno altrui, questo perché si “consente” che di notte il proprietario del terreno dorma.
Invece il pascolo abusivo che avviene di giorno non è punito, perché il proprietario del terreno dev’essere furbo abbastanza da saperlo proteggere.
Venivano puniti poi anche coloro che maledicevano i raccolti o facevano incantesimi per attirare a sé i beni del vicino.
Oggi la legge protegge anche i meno furbi: basti pensare al caso di Vanna Marchi, la “maga” che assieme alla figlia Stefania ed al “mago” brasiliano Mario Pacheco Do Nascimiento ha truffato oltre 300.000 clienti per 33 milioni di euro in 5 anni: perché il Codice Penale non prevede per la truffa (reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa da 51 euro a 1.032 euro; articolo 640 del Codice Penale) sanzioni dello stesso livello di quelle comminate per l’omicidio o la violenza carnale?
Perché i truffatori truffano chi si lascia truffare, non esercitano una violenza al pari degli altri due crimini.
In una puntata di “Mi manda Raitre” Piero Marrazzo trattava il caso di un’universitaria sposata che continuava a ricevere telefonate dalla sua maga, dopo aver rotto i rapporti con lei: Marrazzo esordì dicendo “Allora, secondo me si può credere o non credere ai maghi, per me va bene tutto...” e poi andò avanti, mentre avrebbe dovuto dire “Signora, ma non si vergogna lei, un’universitaria, sposata e madre di una bambina, alla sua età e con la sua cultura, di essersi fatta fregare da una maga?”: un ritorno al diritto romano, in questo senso, aumenterebbe di sicuro l’I.Q. di certe persone.
Un altro crimine era l’usura, punita col quadruplo dell’eccedenza di interessi.
Tra i delicta si annoverava invece la violenza fisica, che poteva essere di due tipi: l’os fractum (non “sfractum”, e del resto il romano non conosce lo sfratto), secondo il quale se una persona rompe un osso ad un’altra deve risarcirla (300 assi se essa è libera e 150 se la sua condizione è di schiavo), ed il membrum ruptum, che prevede la legge del taglione per la lesione di un organo qualsiasi.
Un altro delitto era il furto: c’era il furtum manifestum, quello che avveniva di notte e con un ladro armato, e per il quale l’uccisione del ladro veniva considerata legittima, ed il furtum non manifestum, per il quale il derubato poteva solo denunciare il ladro.
Dopo il decemvirato accadono due fatti importanti e nuovi:
·  il plebiscito canuleio, un atto della plebe, unilaterale, accettato dai patrizi (sempre col ricatto), che affermava la liceità del connubio; è del 445, e toglie l’impedimento fondamentale che i plebei avevano per accedere alla magistratura;
·  si crea una magistratura, il tribunato militare con potestà consolare (tribuni militum consulari potestate), accessibile ai plebei; questa magistratura ci fu sempre, con qualche pausa, dal 445 fino al 367.
All’inizio questi magistrati erano 3, poi il loro numero aumenta ogni lustrum: forse questo aumento coincide con l’aumento di guerre, o forse durante il tribunato militare nasce la funzione (non l’istituto) della censura, perciò i nuovi tribuni accedevano alle funzioni censitarie.
I motivi del censimento sono principalmente 3: contare i cittadini per conoscere il potenziale esercito, verificare la residenza dei cittadini e valutare il patrimonio dei cittadini per inserirli nell’ordinamento centuriato.
Si verifica un frazionamento della magistratura: il magistrato non fa tutto, ma inizia a delegare (per esempio, l’attività del censo, divenuta indispensabile per sapere di quanti uomini si sarebbe potuti disporre per un’eventuale guerra, e per valutarne il patrimonio, e quindi il ruolo militare e, in seguito, ance il ruolo politico, quando l’ordinamento centuriato diventa comizio centuriato).
I concilia plebis tributa e i comizi tributi sono due assemblee alle quali si partecipa in virtù della residenza e dell’ubicazione dei beni immobili.
Dopo il tribunato militare c’è un breve periodo di anarchia, e nel 367 la Costituzione romana si precisa e nasce quasi d’un colpo (alcuni suoi principi potrebbero essere validi ancor oggi).
Nel 367 con le leges Liciniae Sextiae si giunge ad un accordo tra patrizi e plebei: queste leges stabiliscono anche chi governa in Roma, e cioè i consoli: nasce così il consolato, istituzione nella quale almeno uno dei due consoli dev’essere plebeo (potrebbero essere anche tutti e due plebei, ma non entrambi patrizi).
Le leges istituiscono e fan sì che il pretor urbanus diventi uno specialista di giurisdizione, poiché egli ius dicit, dice qual è la regola applicabile al caso concreto (non dà giudizi però: questo compito spetta sempre al giudice).
Si può dunque dire che dal 367 esiste una Costituzione romana, non scritta ma comunque consolidata, formata da magistratura, popolo e Senato.
 
LA MAGISTRATURA
 
La magistratura è un ufficio politico in forza del quale il titolare ha un potere, ma per la prima volta anche un dovere, di esercitare in nome della res publica funzioni efficaci per tutti i cittadini (invece i tribuni della plebe solo in nome ed in favore dei plebei).
I magistrati possono differenziarsi in varie categorie:
·  magistrature ordinarie e magistrature eccezionali: le prime reggono la Repubblica in condizioni normali, sono i consoli, i pretori, gli edili ed i questori (in ordine decrescente di importanza), ricorrono ogni anno e perciò è dubbio se inserire o meno anche i censori, poiché essi non si rinnovano ogni anno; le magistrature eccezionali hanno vigore in situazioni di guerra o comunque altre situazioni straordinarie, e sono quelle della dittatura, del triumvirato, dei tribuni militum;
·  magistrature cum imperium e cum potestate (o sine imperium): le prime avevano il diritto, noto in età etrusca (originario, unitario ed illimitato), avevano il potere militare, la iurisdictio, il ius dicendi (emanare editti programmatici), il ius agendi cum populo (diritto di convocare e presiedere il popolo), il ius agendi cum patribus (diritto di convocare e presiedere il senato), la coercitio (potere di “polizia”, di sanzione), il ius auspicandi (diritto di trarre auspìci, ricordiamoci che non si compiva alcun atto senza chiedere il parere degli déi, parere che riceveva la risposta desiderata da coloro che traevano gli auspìci, addirittura nel caso in cui si fosse avuto un segno evidentemente contrario si faceva un “controauspicio”); i magistrati cum imperium erano i consules, i preatores e i dictatores.
I magistrati sine imperio hanno funzioni delegate, e sono i censori, gli edìli ed i questori;
·  magistrati curùli e magistrati non curùli: i primi erano le magistrature straordinarie, i consoli, i pretori e, eccezionalmente, gli edìli patrizi; i secondi erano gli edìli plebei, i questori ed i censori;
·  magistrature maiores e minores: le prime erano in “diretto” contatto con gli déi, con Giove, e quindi ad essi la divinità diceva sempre il vero, erano anche quelli cum imperio; gli auspìci dei secondi sarebbero stati ritenuti validi solo se non contrastanti con gli auspìci dei magistrati maiores.
I Romani per indicare la situazione di una persona che rimaneva per troppo tempo al potere usavano l’espressione adfectatio regni (adfectātĭo, ōnis, f., aspirazione; regnum, i, n., potere regio, tirannide).
La censura dura 18 mesi.
Caratteristiche della magistratura sono:
·  collegialità: il magistrato romano non è mai solo, detengono il potere più persone, non è però la collegialità moderna, dove il potere viene diviso ed ognuno ha il proprio potere.
La collegialità romana è comunque pericolosa perché ogni membro può agire in contrasto con gli altri (per esempio, un console può dichiarare guerra ai Sabini mentre l’altro vuole fare pace con loro), da qui nasce l’istituto del veto, che però crea un nuovo problema, la paralisi, dovuta al fatto che i consoli possono darsi il veto a vicenda.
Esiste un solo collegio così concepito al mondo: il consiglio di sicurezza dell’O.N.U. (il veto fu riesumato da Fritz Schulz);
·  gratuità: le magistrature sono honores, e quindi non prevedono compenso, retribuzione: la politica è un mestiere dal 1946; ciò crea un vantaggio indiretto, il fatto che il magistrato si paga i propri subalterni (gli scribi, i lictores, ...), e quindi diventa oculato nelle assunzioni.
Si potrebbe criticare la necessità di essere ricchi per essere magistrati in Roma, ma bisogna considerare che in genere è ricco chi si dà da fare;
·  temporaneità: ci si potrebbe chiedere come si può in un anno realizzare un programma, ma dobbiamo tener presente che il Senato dà continuità ai progetti impostati dai magistrati;
·  inviolabilità: durante l’anno in carica, il magistrato viene lasciato lavorare, per eventuali indagini e processi si aspetta la fine della carica;
I Romani eleggevano tutti i magistrati, tranne il dittatore, per eleggere il quale non c’era tempo.
Requisiti per accedere alle magistrature erano l’ingenuità (l’essere nati liberi), l’età di 27 anni (10 anni di servizio militare, dai 17 ai 27) ed il sesso maschile.
Nel 197 a.C. le donne si ribellano e vincono contro il requisito del sesso maschile.
Un’altra rivolta delle donne accadde quando Antonio Lépido ed Ottaviano manifestarono l’intenzione di tassare, avendo necessità di soldi, 1000 matrone romane: queste si ribellarono e grazie ad un avvocato il numero di matrone tassate fu solo di 300.
Ancora, un’ultima rivolta femminile avvenne quando Catone il Censore stabilì che le donne non potevano vestirsi elegantemente.
Regole della magistratura sono:
·  divieto di cumulo: non si poteva assumere più di una magistratura;
·  divieto di continuazione: non si poteva rimanere in carica oltre il termine stabilito;
·  divieto di iterazione: non si poteva rimanere in carica oltre il termine stabilito nemmeno se rieletti;
·  cursus honorum: la Lex Villia Annalis (180 a.C.) fissa la carriera dei magistrati col cursus honorum, che prevedeva al primo gradino la questura, alla quale si accedeva a 27 anni, al secondo l’edilità, a cui si aveva accesso 2 anni dopo, od in alternativa, per i plebei, il tribunato della plebe, al terzo gradino c’era la pretura, che è la prima magistratura cum imperio, veniva poi il consolato e, al grado più alto, la censura (alla quale si accedeva, di solito, dopo i 40 anni)
I rapporti tra le magistrature sono regolate dal principio per cui una magistratura maggiore vale più di una magistratura minore (“Par maiorve potestas plus valeto”, letteralmente “una potestà pari o maggiore vale di più”).
 
LA CENSURA
 
Quando nasce la censura? L’esigenza nasce coi tribuni militum consulari potestate, perciò la censura nasce dal tribunato, la tradizione ci informa poi che nel 33 esistevano due censori.
La Lex Aemilia de potestate censoria nel 434 fissa la durata della censura in 18 mesi e l’elezione dei censori ogni 5 anni.
Compiti dei censori sono:
·  dar da mangiare alle oche del Campidoglio;
·  riverniciare di rosso la statua di Giove Capitolino (il rosso per gli Etruschi era il simbolo della vita);
·  contare i cittadini;
·  valutare le capacità patrimoniali dei cittadini per inserirli nelle centurie;
·  registrare l’ubicazione dei beni dei cittadini per inserirli nelle tribù territoriali;
·  giudicare i cittadini secondo la morale romana, diversa da quella di oggi: essa era più che altro una morale civica (il cittadino paga le tasse? Educa i figli? ...), ne consegue che i censori potevano annullare politicamente una persona.
Da notare che nella dichiarazione del reddito a noi contemporanea c’è il rischio che una persona dichiari di meno, allora c’era il rischio contrario, poiché ciò determinava una migliore posizione nell’esercito: è vero che così facendo si sarebbero pagate tasse più alte, ma in guerra il denaro perduto si sarebbe recuperato molto facilmente
Esisteva anche il rischio che il giudizio dei censori fosse fazioso (come ad esempio quello di Catone il Censore su Scipione);
·  lectio senatus, la nomina del senatore è un compito attribuito ai censori tra il 319 ed il 312 dal plebiscito Ovinio; prima che ciò avvenisse la nomina dei senatori avveniva inizialmente coi patres, e poi coi pedarii degli Etruschi (i senatores pedarii furono poi scelti dai Consoli).
Abbiamo detto che i censori potevano annullare politicamente una persona: ciò era possibile perché i censori sceglievano i senatori tra gli ex-magistrati secondo un giudizio de moribus, quindi potevano aspirare al Senato solo gli optimi, i migliori, gli irreprensibili;
·  concedere gli appalti (il più redditizio era l’appalto delle imposte delle province): i Censori avevano la Cura viarum (dovevano mantenere le strade percorribili), la Cura aquarum, la cura dell’Ager publicus e la Cura Alvei Tiberis (la cura dell’alveo del Tevere).
 
LA DITTATURA
 
Il processo inizia col passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, dove la dittatura era una magistratura ordinaria (mentre qui è ora una magistratura straordinaria), evoca nella quantificazione del potere la regalità, è simile al Re, quindi quest’istituzione fu circondata da precauzioni per impedire l’adfectatio regni.
Il dittatore non era eletto ma nominato dai consoli in carica, sarà eletto dai comitia centuriata solo a partire dal 217 a.C., ma ormai non ce ne sarà più bisogno, poiché Roma s’appresterà a diventare Domina mundi.
Il dittatore veniva nominato oriens nocte silentio: guardando verso oriente (=> ispirazione), di notte ed in silenzio (=> i cittadini Romani rimanevano più tranquilli, non s’accorgevano di nulla).
Il dittatore non poteva salire a cavallo (forse per essere un tutt’uno con l’esercito) e non poteva stare in carica per più di 6 mesi: la sua carica sarebbe poi potuta finire anche prima nel caso in cui egli avesse adempiuto al suo compito, (fosse morto) o, addirittura, elemento questo che ci mostra il timore dei Romani, qualora fosse scaduto l’anno di carica del console che l’aveva nominato.
Il dittatore, dopo essere stato nominato, sceglieva un collaboratore, nomato magister equitum.
Quello descritto fino ad ora è il dictator optima lege creatus, ma esistevano anche altre dittature, definite imminuto iure (per fatti semplici):
·  dictator comitiorum habendorum causa: è il dictator che in mancanza del console convoca le assemblee (è il console che ha il ius agendi cum populo);
·  dictator clavi figendi causa: è il dictator che il primo gennaio di ogni anno conficcava un chiodo di oro nella porta del tempio di Giove Capitolino;
·  dictator ludorum faciendorum: è il dictator che pagava di tasca propria i giochi del circo;
·  dictator feriarum costituendarum: è il dictator che decideva quali fossero i giorni di lavoro e quali quelli di festa;
·  dictator senatu legendo: è il dictator che sceglieva i senatori tra gli ex-magistrati se il numero dei senatori era basso e la magistratura ordinaria non poteva provvedere a ciò.
 
IL CONSOLATO
 
Il consolato, la più importante magistratura ordinaria, nasce nel 367 con le leges Liciniae Sextiae; i consoli sono due e vengono eletti prima del 31 dicembre di ogni anno dai comitia centuriata; fino all’assunzione del ruolo sono detti designati, ed assieme ai designati veniva nominato anche un consul suffectus, affinché sostituisse uno dei designati in caso di morte; qualora i designati fossero morti entrambi, ci sarebbe stato l’interregnum.
 
SALTATA LA LEZIONE DEL 5-2-2003
 
Il diritto che applica il pretore peregrino non è mai il diritto romano, anche quando sono in gioco interessi romani (=> altruismo), si crea il ius gentium, comune a tutti i popoli
I 4 istituti del ius gentium sono la compravendita, la locazione, il mandato e la società
Pur potendo il console dare il veto al pretore, ciò non accadde mai.
Abbiamo 3 tipi di processo:
1.il processo per legislationes, che domina fino alla fine del II sec. a.C.;
2.il processo formulare, o per formulas, che trionfa nel 130 a.C. (ma esisteva già da prima);
3.il processo della cognitio extra ordinem, o processo libellare.
Per quanto riguarda il processo per legislationes, diciamo subito che le legislationes sono schemi verbali fissi e tassativi, mediante i quali si possono far valere diverse ragioni in giudizio; le legislationes sono 6, ed evocano una fase di ordalia (il giudizio divino, già usato dai Sumeri quando non c’era altro mezzo per determinare la colpevolezza dell’accusato, un esempio di ordalia dei Sumeri è quella del fiume: l’accusato veniva gettato in acqua, e se il fiume lo avesse rimandato a riva ciò avrebbe significato che gli dei lo consideravano innocente, e l’accusatore veniva condannato perché aveva accusato ingiustamente una persona la cui innocenza era attestata dagli dei. Se la persona fosse annegata, sarebbe stata ritenuta colpevole).
Abbiamo:
legis actiones di cognitione:
·  la legis actio sacramento in rem (es.: rivendica di uno schiavo);
·  la legis actio sacramento in personam;
·  la legis actio per iudicis arbitrive postulationem (è laica, non c’è più il sacramento, non ci sono più elementi che ricordano l’ordalia);
·  la legis actio per condictionem;
2 legis actiones di esecuzione:
·  la legis actio per manus iniectionem;
·  la legis actio per pignoris capionem (per prensione di pegno).
Ci sono due fasi del processo: la fase in iure e la fase apud iudicem.
Nella fase in iure attraverso la pronunzia di parole determinate, solenni e immodificabili, si fissavano i termini della controversia in modo che il magistrato nominasse il giudice privato (dare iudicem) e autorizzasse le parti a proseguire la causa (dare actionem); prima di lasciare il tribunale le parti stesse invitavano i presenti a ricordare quanto avvenuto (testes litis estote): ciò costituiva la litis contestatio e da tale formalità deriva già nelle legis actiones il principio bis de eadem rem ne sit actio.
Nella fase apud iudicem si era per l’appunto dinanzi ad un privato cittadino nominato dal magistrato su indicazione delle parti che poteva essere iudicem o arbiter (qualora dovesse avere particolari conoscenze, es. agrimensore); nelle cause di libertà erano chiamati a giudicare invece i decemviri stlitibus iudicandis e nelle cause ereditarie i centumviri.
Solo nella fase in iure era richiesta la presenza di entrambe le parti; nella fase apud iudicem valeva il principio per cui post meridiem litem presenti addicito: passato mezzogiorno senza che una delle due parti si presentasse, la lite era vinta dalla parte presente.
La causa iniziava senza l’intervento dello Stato (=> non c’era invadenza statale).
Nel processo per formulas, la formula è uno schema processuale previsto dal pretore nell’editto che egli stesso emanava ogni anno, ed al contenuto del quale si impegnava (lui, non il cittadino!).
Valeva il principio per cui praetor ius facere non potest (il pretore formalmente non può costruire il diritto): l’editto è solo un programma.
L’editto aveva una parte detta edictum tralaticium, ogni pretore poteva emettere quotidianamente l’editto repentino, perciò la situazione poteva sempre essere aggiornata, non c’era bisogno di aspettare un nuovo pretore per far fronte ai problemi che potevano nascere: il pretore poteva emanare all’istante quest’editto subito dopo aver sentito le parti
Da tutto ciò nacque il ius honorarium, che le fonti ci dicono essere subordinato al ius civile.
Il ius honorarium vive fino ad Adriano, il quale, verso il 130 d.C. ne constata (non “ne decreta”) la fine: nessuno va più dal pretore, ed i pretori stessi emanavano editti sempre uguali ai precedenti.
Gli edìli erano i custodi del tempio di Cerere, Libero e Libera (e Diana sull’Aventino), divinità plebee.
Nel 367 diventano magistratura dello Stato, magistratura ricoperta da 2 plebei e 2 patrizi, detti curùli
I plebei venivano eletti dai concilia plebis, i patrizi dai comizi tributi; gli edìli non hanno l’imperium, e la loro carica durava un anno.
L’edìle si preparava, grazie alle sue funzioni, a diventare pretore.
Esistevano 3 funzioni dell’edìle, 3 curae:
·  cura urbis: potere di polizia in città, vigilanza sui luoghi pubblici (lupanari compresi); erano anche pompieri;
·  cura annonae: riguardava l’approvvigionamento della città per tutto l’anno;
·  cura ludorum: spettava all’edìle indire e pagare di tasca propria i giochi.
Gli edìli curùli potevano applicare multe ed anche arrestare.
Esistevano due formule processuali:
·  l’actio redhibitoria, quando la cosa venduta (anche l’uomo) aveva dei difetti, es.: compro un cavallo per correre e poi scopro che è un cavallo da tiro: uso l’actio redibitoria perché il cavallo è inutilizzabile;
·  l’actio quanti minoris (o aestimatoria), quando la cosa serve ma vale di meno, per esempio, un vassoio di ottone anziché d’oro.
Un problema irrisolto è quello di un uomo che compra una schiava di 40 anni pensando che ne abbia solo 20: che actio si sarebbe dovuta usare (da sottolineare che l’uomo non desiderava una qualsiasi schiava giovane, ma una schiava che avesse esattamente 20 anni)?
 
IL POPOLO
 
Il secondo elemento della costituzione repubblicana è il popolo, che acquista nuovo significato a partire dal 367.
Il popolo aveva un’assemblea, il comizio curiato, strutturata in 3 tribù.
Il comizio curiato aveva 3 funzioni principali:
·  la lex curiata de imperio;
·  il testamento;
·  l’adrogatio, che portava con sé la detestatio sacrorum (abbandono da parte dell’adottato dei propri sacra).
Il diritto ad un certo punto introdusse il testamento per aes et libram.
Il nuovo popolo, che comprende tutti i cittadini, patrizi e plebei, atti a portare le armi, si riunisce in 2 assemblee.
Abbiamo già parlato dell’esercito, ed ora si deve aggiungere che la I classe aveva la maggioranza assoluta, al punto che le elezioni si interrompevano quando si raggiungeva questa maggioranza (al romano non interessava perdere tempo); una caratteristica dell’ordinamento centuriato è l’esser timocratico (timé = ricchezza), gerontocratico ed oligarchico.
Livio ci informa che ad un certo punto il comizio divenne più democratico, ma non sappiamo esattamente come intervenne una eventuale riforma.
Caio Gracco volle che non si votasse dall’alto verso il basso, in modo da interrompere subito le elezioni: il risultato in questo modo non sarebbe cambiato, ma almeno si sarebbe saputo quanto fosse consistente l’opposizione.
Le funzioni del comizio centuriato sono:
·  legislativa;
·  elettorale;
·  giurisdizionale: tutto passa dal popolo (=> sembra quasi democrazia);
·  lex de bello indicendo;
·  lex centuriata de potestate censoria: con questa legge il popolo elegge i censori.
Vediamo ora la lex publica: come si fanno le leggi a Roma?
L’iter legis inizia con la rogatio, testo che prepara il magistrato: egli ha l’iniziativa legislativa (non il potere legislativo); la rogatio si chiama così perché si chiede appunto al popolo se esso voglia approvare la legge.
La rogatio è presentata in Senato, e si hanno così due atti:
·  senatum consultum, cioè il parere del Senato, che non è un atto obbligatorio (il magistrato non è obbligato a chiedere) né vincolante (il magistrato non è obbligato ad obbedire);
·  auctoritas: è un atto obbligatorio e vincolante; in genere segue l’atto, tanto che in italiano è detta “ratifica”; Livio ci dice che essa è preventiva, ma che “vale di meno” (perché poi il popolo può bocciarla).
La lex Publilia Philonis del 339, di Licinio Stolone e Sestio Laterano, affermava che uno dei due censori doveva essere plebeo, e gli autori di questa legge vollero fare altrettanto per le funzioni religiose, riuscendo ad attuare ciò solo per il minor collegio dei duoviri sacris faciundis, che divennero in tale occasione decemviri; la lex Publilia Philonis è una conquista della plebe, perché indebolire l’auctoritas vuol dire indebolire i patrizi.
La promulgatio non è quella del nostro Presidente della Repubblica, per Roma è quella del magistrato, è l’atto col quale tutto il popolo conosce la legge; la promulgatio è il termine a partire dal quale decorre un periodo di tempo, il trinùndinum, letteralmente significa “tre mercati”, e ciò significa che la legge rimaneva esposta per la durata di tre mercati (circa 21 giorni), affinché fosse conosciuta e discussa: a tal proposito precisiamo che chi parlava a favore della legge era detto suasor, e chi parlava contro dissuasor.
Quanto durasse il periodo di trinundinum non lo sappiamo con esattezza; comunque anche allora il mercato si teneva ogni 7 giorni.
Durante il trinundinum avvenivano sì mercationes, ma anche pestaggi ed omicidi; si arrivava fino alla sera prima delle elezioni e, come per tutti gli atti pubblici, il magistrato raccoglieva gli auspìci ed i banditori convocavano il popolo per una certa ora; il simbolo del popolo in assemblea era la bandiera rossa.
Il primo sistema di votazione è quello orale, i cittadini vengono chiamati uno per uno, dovevano salire su un ponte in modo da essere visibili a tutti, e soprattutto dal patrono, che poteva così controllare che il cliente votasse come lui aveva stabilito (e dargli l’altra metà della moneta con cui lo ricompensava di ciò).
L’elettore, domandatogli se approvasse o no la legge, avrebbe potuto rispondere:
·  uti rogas (sì, come mi chiedi);
·  antiqua probo (no, approvo la legge precedente);
·  non liquet (mi astengo, perché non mi è chiara questa legge).
Dopo la votazione avveniva la diribitio, lo spoglio dei voti, e poi la renuntiatio, la proclamazione dei risultati.
Non esisteva la vacatio legis, che invece esiste oggi.
Il cittadino ha il diritto e dovere di votare.
Non è vero che con la renuntiatio la legge entra in vigore.
Prima della Lex Publilia Philonis (339) occorreva l’auctoritas patrum.
I Gracchi lottarono e vinsero per avere il voto scritto e segreto: nel 131 con la Lex Papiria si inventò la tabella (la scheda) elettorale, e nacque anche l’urna; la votazione avveniva sempre con le formule di cui sopra (uti rogas, antiqua probo e non liquet).
Roma conobbe 700 leggi in 600 anni; una legge interrotta non poteva essere più proposta, ma quando una legge poteva essere interrotta? Ciò avveniva:
·  se il magistrato ritirava la proposta;
·  se veniva data l’intercessio del collega o del tribuno (che poteva essere opposta finché non era interrogato il primo votante);
·  per ostacoli religiosi (cioè se contro gli auspici; ciò non avvenne quasi mai);
·  per tutto il I secolo a.C., se cadeva la bandiera rossa (perché finché essa era fissata, i Romani non erano attaccati, mentre se non appariva, i Romani potevano essere attaccati);
·  per morbus comitialis, cioè l’attacco epilettico: l’epilessia era considerata un segno negativo di Giove (naturalmente ci furono alcune occasioni in cui delle persone finsero degli attacchi epilettici, ed altrettante brave persone le “curarono” istantaneamente!).
Una volta approvata, la legge constava di tre parti:
·  praescriptio: sono i “dati anagrafici” della legge, comprende il nome del proponente, la data ed il nome del cittadino che aveva votato per primo, e si accennava brevemente il contenuto;
·  rogatio: era il testo della legge;
·  sanctio: non è la “sanzione”, ma l’apparato protettivo della legge, ciò che fa sì che la legge sia rispettata.
Colui che obbediva alla legge nuova trasgredendo quella vecchia (che non veniva mai abrogata) poteva avere dei problemi: la sanctio contiene il caput tralaticium de impunitate, il capitolo sull’impunità.
 
MANCA LA LEZIONE DI MERCOLEDÌ 19-2-2003
 
Il comizio tributo sfrutta un’entità creata dagli Etruschi, le tribù territoriali, per frenare la timocrazia: si bada non più alla ricchezza, ma a dove essa stava, a dov’era ubicata la casa od il campo.
Le tribù territoriali (che sono quattro: la Palatina, la Collina, l’Esquilina e la Succusana) sono diverse dalle tribù genetiche.
In seguito agli incrementi territoriali nacquero le tribù rustiche, ma l’oligarchia e la timocrazia si manifestarono comunque.
Nelle tribù rustiche vigeva la democrazia? No, astrattamente il voto del piccolo agricoltore era uguale a quello del grande proprietario terriero, ma, per esempio, il primo poteva essere un cliente del secondo, perciò avrebbe dovuto votare come lui.
I comizi tributi sono convocati dai magistrati cum imperio, come i comitia centuriata si riuniscono nel Campo Marzio, ed hanno gli stessi poteri dei comitia centuriata:
·  elettorale: eleggono i questori e gli edìli curuli;
·  legislativa: alla pari coi centuriati, salvo due leggi:
·  la lex de potestate censoria e la lex de bello indicendo;
·  giurisdizionale: si occupano della provocatio invocata dagli accusati dei reati minori (quelli che comportavano multe).
 
I CONCILIA PLEBIS TRIBUTA
 
Sono assemblee dello Stato; nel 287 la lex Hortensia attribuì ai plebisciti valore di legge (Livio: quod tributim plebs iussisset populum teneret), si verifica l’exequatio legibus plebiscitorum.
La plebe è l’organo legislativo per eccellenza della Repubblica, gli altri magistrati avevano altro da fare (i consoli nelle guerre, i pretori in tribunale, ...); ad un certo punto si chiese addirittura la transictio ad plebem (il passaggio alla plebe).
Essi hanno funzione:
·  elettorale: eleggono gli edili curuli ed i plebei;
·  giurisdizionale: hanno la summa coercendi potestas.
 
IL SENATO
 
È il terzo elemento della Costituzione romana, secondo i Romani esso era prerogativa degli anziani: la gerontocrazia è un’altra carta vincente di Roma.
La storia ci consegna come senatori romani consulenti dei Goti Severino Boezio e Cassiodoro.
I primi patres si riunivano nel numero di 100, erano patrizi ed avevano funzione consultiva, di auctoritas e di interregnum.
Gli Etruschi in seguito inserirono i pedarii, in età repubblicana si includono anche i conscripti.
Il plebiscito Ovinio affida ai censori la scelta dei senatori (tra gli ex magistrati).
Anticamente i patres avevano diritto di sedere in Senato con funzioni importanti:
·  l’auctoritas, che conservano fino al 339 come ratifica, in seguito divenne funzione preventiva;
·  interregnum (10 patrizi con turni di 5 giorni ognuno).
Fra i patres patrizi si eleggeva il princeps senatus: il termine sembrerebbe indicare che è colui che presiedeva il Senato, ma ciò è sbagliato: era invece colui che parlava per primo (se era un abile oratore, perciò, poteva convincere gli altri), in genere era il più anziano.
Oltre a parlare per primo, il princeps senatus aveva anche il potere dell’ostruzionismo, quello di sfruttare pratiche “ritardanti” fino al tramonto: ciò comportava l’estinzione del progetto, che non può più essere riproposto: questo strumento è pericoloso, ma come tutti gli strumenti pericolosi fu da Roma usato pochissime volte (sembra soltanto due; un’occasione famosa fu quella di Catone, che fece respingere un provvedimento che avrebbe potuto salvare Scipione; l’altra fu quello di Catone l’Uticense contro Cesare).
Se non si fosse raggiunto il numero di Senatori necessari (300), si sarebbero potuti eleggere, a partire dalla Lex Atinia del 102 a.C., magistrati minori, perciò tutti i magistrati potevano aspirare a diventare senatori.
L’ordine di voto è lo stesso del cursus honorum, quindi votava per primo il princeps senatus, poi gli ex censori, gli ex consoli, gli ex pretori, gli ex edili e gli ex questori.
Con Silla il numero dei Senatori da 300 viene portato a 600, e con Cesare a 900 (Cesare limitava in realtà il potere del Senato, rendendo l’assemblea meno funzionale).
Ogni magistrato aveva:
·  una tunica, il laticlavio (laticlavia tunica, da lātĭclāvĭus, a, um: guarnito d’una striscia di porpora);
·  un anello d’oro, l’anulus aureus;
·  una specie di mocassino, il calceus senatorius, rosso per i patrizi e nero per i plebei.
Sede del Senato era la Curia Hostilia (come l’assemblea delle gentes), il pubblico non era ammesso alle udienze, ma si doveva lasciare la porta aperta.
Il Senato ha l’obbligo di intervenire alle sedute, pena la multa; se assente per due volte di seguito si dava luogo al pignoramento di tutti i suoi beni.
La seduta era valida solo se era presente il 50% + 1; il magistrato che la presiedeva faceva una relatio, e poi si votava.
C’erano due modi di voto:
·  per discessionem, il più veloce: un esempio è che chi vota a favore va a destra e chi vota contro va a sinistra, in silenzio;
·  per singulorum sententiam: il voto è singolo e motivato.
Il Senatus consultum in età repubblicana non ha valore di legge: dà “solo” un parere autorevolissimo.
Era una funzione del Senato anche l’annullamento delle leggi per la loro forma (non per la sostanza).
Il Senato aveva anche competenza religiosa (es.: Senatus consultum de Baccanalibus); Roma accolse tutte le divinità e religioni, tranne il Cristianesimo ed i culti bacchici, perché:
·  il fedele è in rapporto diretto con la divinità, non ci sono intermediari (ma Roma aveva i sacerdoti);
·  nei culti bacchici saltavano tutte le gerarchie della società romana, nelle feste bacchiche tutti erano uguali, liberi e schiavi, uomini e donne;
·  dopo i culti bacchici (leggi “dopo aver bevuto”) le persone incendiavano ciò che vedevano (motivo di ordine pubblico).
Era il Senato a trattare con gli Stati esteri; infine il Senato si arrogò due misure eccezionali:
·  iustitium: il Senato sospende tutte le magistrature ed affida il governo, col
·  senatus consultum ultimum, ad una persona, secondo la formula “caveant consules ne quid res publica detrimenti capiat” (provvedano i consoli perché la Repubblica non abbia alcunché di danno, dalla situazione): la persona aveva perciò licenza di agire, uccidere e mandare a morte i cittadini senza le garanzie costituzionali.
 
LA COSTITUZIONE REPUBBLICANA
 
Polibio dice che la Costituzione romana è l’esempio di costituzione più perfetto che sia conosciuto e che non sarà mai superato; essa viene descritta come una costituzione mista, nella quale convivono in armonia tre tipi di costituzioni diverse:
·  la monarchia, rappresentata dai consoli, che però poteva degenerare in tirannide;
·  l’aristocrazia, rappresentata dal Senato, che però poteva degenerare in oligarchia;
·  la democrazia, rappresentata dalle assemblee, che però poteva degenerare nell’oclocrazia (governo di una massa licenziosa, come quella che mandò a morte Socrate).
Questi principi, ci avvisa sempre Polibio, non convivono bene in Roma, poiché spicca l’oligarchia: per esempio, il popolo non poteva auto-convocarsi, era qui condizionato dall’oligarchia senatoriale.
Antonio Guarino confutò questa tesi, affermando che la costituzione romana è democratica, ma per confutare questa tesi basti solo pensare alla clientela (non l’avevano certo i poveri).
Costantino Mortati pensa che la costituzione vada guardata anche in senso materiale, dunque non giudica in astratto, ma quando essa è in vigore.
C’è disinteresse romano al concetto di democrazia.
Fonti del diritto in età repubblicana sono il ius civile, il ius legitimum, il ius honorarium, il ius gentium (che nasce nel tribunale del pretore peregrino) ed i plebiscita.
La nuova fonte del periodo è la giurisprudenza laica.
Publio Muzio Scevola è tra i fondatori del ius civile, scrive i Decem Libelli; non c’è diritto pubblico.
 
L’ESPANSIONISMO DI ROMA
 
Dal villaggio di paglia che era, Roma in 200 anni diventa domina gentium; c’è chi ha visto nella sua storia l’intervento della Provvidenza, chi dice che il successo di Roma fu dovuto tutto al suo genio militare, ma quest’ultima ipotesi è sbagliata, poiché in generale Roma una guerra prima la perde e poi impara le tecniche per vincerla.
Dopo la cacciata degli Etruschi Roma è in mano ai Latini, è stretta da tutti i lati e si rende conto che non può sopravvivere: a Sud premevano gli Equi, i Volsci ed i Sabini.
Nel 442 Roma vince un’importante battaglia ed occupa il Lazio, che le basta, ma Roma è a contatto ora con Veio, una grande potenza etrusca, che vinse nel 396.
Abbiamo dunque a Nord gli Etruschi ed a Sud i Sanniti, sconfitti nel 295.
Roma egemonizza, senza occuparla, tutta l’area sannita; Roma aveva sconfitto i Latini al lago Regillo, e nel 493 a.C. aveva raggiunto con essi un accordo, detto Foedus Cassianum (dal nome del console che firmò il trattato, Spurio Cassio Vercellino; l’altro console era Postumio Cominio Aurunco), nel 338 Roma divide l’alleanza tra Sanniti e Latini facendo trattati bilaterali.
Conquistando Sannio, Roma si trova di fronte Taranto, e quest’ultima chiama in proprio soccorso Pìrro, che Roma sconfigge nel 272 a Maleventum (poi Benevento): si crea ora il contatto tra Roma e Cartagine; mentre Roma aveva egemonizzato la Magna Grecia, Cartagine aveva egemonizzato la Sicilia.
La prima guerra punica (264-241) è vinta da Roma grazie a due invenzioni: il rostro (che sfondava la nave nemica) ed il corvo (un ponte per passare sulle navi nemiche, che permetteva perciò di combattere in mare una battaglia terrestre, modello di battaglia nel quale i Romani erano abilissimi); Sicilia, Sardegna e Corsica diventano province romane.
La seconda guerra punica (218-202) vede un Annibale potente, che in Italia sbaraglia più volte gli eserciti di Roma: i Romani sono vinti sul Ticino, sulla Trebbia, sul Trasimeno ed a Canne.
A Roma nasce Scipione, che si serve della stessa tattica di Annibale: Scipione attacca Annibale nelle sue terre, prima in Spagna e poi in Africa, e lo batte nel 202 a Naraggara, presso Zama.
La terza guerra punica (149-146) fu scatenata da Marco Porcio Catone, il quale chiedeva continuamente la distruzione di Cartagine (in Senato chiudeva ogni sua orazione con “ceterum censeo Carthaginem esse delendam”, “tra le altre cose penso che Cartagine debba essere distrutta”), che divenne infine una provincia romana.
Tra il 90 e l’88 a.C. Roma conquista l’Italia.
 
L’IMPERIALISMO DI ROMA
 
C’è una differenza tra i Romani e le potenze imperialiste: certo anche Roma seminò morte e si immischiò indebitamente nelle vicende altrui, ma essa non fece annientamento etnico come fecero gli spagnoli, che in America annientarono anche artisticamente i popoli sottomessi (per esempio, fondendo gli oggetti d’oro per ricavarne monete).
Roma vuole diffondere la civiltà (non per forza la propria: anche quella greca, quella egiziana, ...), l’attitudine del romano non è di oppressione ma di assimilazione.
I Romani usano la lingua dei popoli sottomessi.
Spesso Roma lascia i governi che trova, nemmeno controllati strettamente (infatti alcuni si ribellano).
Roma non conobbe nazionalismo, né razzismi; lasciò fiorire arte e letteratura in tutto l’Impero, e la maggior parte non fu di matrice italiana (come persino la maggior parte degli imperatori), ogni angolo dell’Impero è segnato dalle opere di Roma.
Alle Terme, per esempio, si poteva andare qualunque fosse la condizione ed il colore della pelle.
Non possiamo dunque chiamare l’espansione di Roma “imperialismo tradizionale”.
Roma non costruisce un diritto internazionale (quello che oggi sta fallendo), essa è duttile, empirica, modifica senza vergogna i propri princìpi.
Altra caratteristica di Roma è la tecnica del divide et impera: Roma la attuò sia all’interno che all’esterno.
Una carta vincente di Roma fu il rispetto sincero delle autonomie.
Materie riservate al potere centrale erano la politica estera e la politica militare.
Anche il municipio (munus capere: assumersi dei doveri) implica autonomia: per esempio, le tasse riscosse a Milano servivano poi a Milano.
Il ius belli ac pacis è sottoposto dal punto di vista consultivo al Senato, dal punto di vista esecutivo al popolo.
I Romani intendono la guerra “giusta” come il processo, non dal punto di vista sostanziale ma dal punto di vista formale: vanno rispettate certe regole (non “limiti”); non è considerata giusta la guerra dichiarata ad un popolo inerme o con scarse difese.
La dichiarazione di guerra avviene dopo che il popolo emana la lex de bello indicendo, i feziali (“coloro che parlano”) erano capeggiati dal pater patratus, che dopo alcune cerimonie si mascherava da Giove Feretrio (che scaglia fulmini) e con una lancia di legno saltava i confini dello stato avversario e diceva al feziale del popolo nemico le richieste, la repetitio (“richiesta di avere indietro”, magari i prigionieri o delle terre): i nemici hanno 30 giorni di tempo per soddisfare le richieste.
Nel caso in cui le richieste non vengano soddisfatte, il feziale romano scagliava una lancia ai piedi del nemico, e la guerra era così sanzionata e giusta: la situazione era quindi o di guerra o di pace, non potevano esserci situazioni intermedie, inoltre questo procedimento escludeva la cosiddetta “guerra lampo”.
Anche la pace era protetta da Giove, essa infatti comportava un giuramento “per Iovem Lapidem” (non sappiamo perché fosse chiamato così invece di “per Iovis lapidem”) ed il sacrificio di un capretto.
Roma regolava le conquiste con quattro sistemi, non tutti ebbero successo:
1.sistema federativo: comporta l’alleanza;
2.sistema dell’incorporazione diretta: Roma fa suo il territorio della popolazione conquistata, è detto anche “sistema municipale”;
3.sistema coloniale;
4.sistema provinciale: si rivelò un fallimento.
Il sistema federativo prende nome da foedus, rito col quale si conclude la pace; questo concetto ha un’evoluzione, diventa istituto federativo della societas.
Ci sono tre possibilità di pace:
1.amicitia: è la pace fra stati che riguarda i singoli abitanti degli stati, non lo stato in sé;
2.hospitium: è un istituto non solo romano, è sempre un accordo che tutela i singoli cittadini, ma in modo preciso, non vago come l’amicitia, poiché garantisce:
·  il locus, cioè l’abitazione:
·  i lautia, cioè il vitto;
·  i munera, cioè dei doni;
3.societas: si chiamerà poi foedus, è un’alleanza tra stati che comporta alleanza militare e pace “finché cielo e terra saranno”.
Il Foedus Cassianum (firmato nel 493 a.C.) è il protòtipo delle alleanze, e prevedeva 7 clausole:
·  sia pace finché saranno cielo e terra;
·  non si può guerreggiare;
·  non chiamare nemici interni, o comunque non favorirli;
·  bisogna aiutarsi reciprocamente nel caso che uno dei contraenti sia attaccato (l’aiuto militare dunque era dovuto solo in caso di guerra difensiva);
·  il bottino va diviso in parti uguali;
·  qualunque vertenza contrattuale dev’essere risolta entro 10 giorni nel tribunale del luogo nel quale la vertenza è nata;
·  le parti si impegnano a non modificare il testo del trattato, se non d’accordo tra di loro.
Si distinguevano:
·  foedera aequa: i contraenti sono sullo stesso piano;
·  foedera iniqua: i contraenti non sono sullo stesso piano.
Roma concesse un “pacchetto di diritti” ai Latini, detto Ius Latii:
·  ius commercii: non è il diritto di commerciare, ma di applicare il diritto romano, di negoziare con le regole del diritto romano (=> garanzia dell’esito del contratto);
·  connubium: potestà di sposarsi secondo il diritto romano;
·  ius migrandi: i Latini potevano trasferirsi a Roma, avere la cittadinanza;
·  ius suffragii: è il diritto di voto nei comizi tributi romani, non in tutte e 35 le tribù, ma solo in una, estratta a sorte;
·  ius civitatis per magistratum: è un diritto riconosciuto solo più tardi ai Latini, fa sì che i magistrati delle città latine per il solo fatto di rivestire la magistratura acquistino la cittadinanza.
Altro grande foedus fu stretto con gli Italici, nel 326 a.C., a Napoli: questi però ebbero solo il ius commercii ed il connubium.
Perché Roma privilegia la federazione? Perché non ha impegni col governo del popolo, non deve mandare né eserciti né magistrati.
Sistema municipale: Roma accede a questo sistema per avere lo spazio vitale (che troverà conquistando il Lazio); il territorio nemico diventa ager publicus, le città indigene (come Anzio, Lavinio, ...) diventano municipi ed i cittadini di quelle città diventano cittadini romani, e vengono iscritti in una tribù rustica.
Roma teme l’afflusso incontrollato e vasto di nuovi cittadini, perché essi, immessi nei comizi, rischiano di essere più importanti dei Romani, inoltre partecipano ai benefici delle conquiste: per questo Roma è contro l’estensione della cittadinanza.
Ed i municipia?
Hanno posizione diversa, ci sono:
1.municipia optimo iure: sono pochi, i cittadini hanno piena cittadinanza romana ed una larghissima autonomia soprattutto giurisdizionale; la giurisprudenza nei municipi spettava ad una coppia di magistrati, i quattuorviri:
·  iure dicundo, magistrati uniti collegialmente preposti alla giurisdizione, hanno la iuris dictio;
·  aedilicia potestate, hanno le funzioni degli edìli a Roma (cura urbis, cura ludorum, cura annonae).
Il municipio aveva un’assemblea, il comizio tributo, che eleggeva i magistrati.
C’era un Senato detto Ordo decurionum: ad esso si partecipava in base al census, occorrevano 100.000 sesterzi di patrimonio, ed aveva le stesse funzioni del Senato romano.
Un cittadino doveva rivolgersi al Senato di Roma per cause dal valore maggiore di 15.000 sesterzi.
Si poteva andare in Gallia Cisalpina dal praefectus iure dicundo (a Modena, a Milano, ...).
Secondo il Mommsen questa struttura è l’eredità più feconda che Roma ci abbia lasciato.
Il municipio non decideva sulla politica estera, né su quella militare.
Le tasse del municipio, come abbiamo detto, venivano spese per il municipio stesso.
Roma sceglie questa struttura non per ideale, ma per avere un disimpegno amministrativo.
Roma è empirista, quando per far funzionare un impero troppo grande inventerà la burocrazia, un apparato amministrativo che prima non esisteva, l’Impero annullerà le autonomie, chiederà soldi alle province, e questo sarà un motivo per cui inizierà la decadenza del diritto romano;
2.i municipia sine suffragio: impedivano che i cittadini turbassero gli assetti politici: mancava solo il diritto di voto, ma gli altri benefici c’erano (autonomia ecc.).
Roma è dura coi due municipi a lei vicini;
3.i municipia caerites: hanno autonomia amministrativa e finanziaria molto più limitata;
4.i municipia aeraria: dovevano pagare tributi a Roma e non avevano autonomia.
Ci sono enti parastatali minori, come gli òppida, vecchie capitali indigene, in genere situate in altura (come Bergamo, Brescia, Pavia, ...), i castella, luoghi di culto in alto alle colline, in pianura c’erano i vìci, villaggi, lungo le strade i fora, luoghi di mercato (Forlì deriva da “Forum Livii”, fondata da un certo Livio dunque).
I conciliabula erano i luoghi di riunione dei cittadini romani.
Il sistema coloniale esiste da sempre, ed è tutt’ora esistente; esistono vari tipi di colonia:
·  la colonia greca è uno stanziamento di persone in territorio straniero che danno vita a comunità assolutamente indipendenti dalla madrepatria;
·  la colonia fenicia è anch’essa uno stanziamento di persone in territorio straniero, ha evidenti interessi commerciali, ed anche qui non si rileva nessun legame con la madrepatria;
·  la colonia moderna cambia tutto: non sono più stanziamenti di persone, ma territori di una potenza straniera, che ha su quel popolo un potere assoluto, che implica completo assoggettamento e sfruttamento, sono possedimenti;
La colonia romana è diversa, e si rivela una carta vincente di Roma: essa è uno stanziamento di Roma, prevede persone mandate in un territorio in seguito ad una legge di Roma (è questa l’assoluta novità), la terra viene assegnata ai coloni in piena proprietà.
La colonia è una comunità con propria costituzione, collegata a Roma politicamente (si può andare a Roma per votare), giuridicamente (per le cause fino a 15.000 sesterzi il cittadino poteva rivolgersi ai quattuorviri iure dicundo) e militarmente.
Perché le fondano? Per diversi motivi:
·  motivo militare: la colonia è un avamposto di Roma, esistono anche colonie marittime, per combattere i pirati;
·  motivo economico: la colonia crea nuovi spazi per sfamare il proletariato urbano, potenziale turbatore dell’ordine pubblico;
·  motivo politico: si mandava via il potenziale turbatore dell’ordine pubblico,
·  motivo demografico;
·  motivo remunerativo: si davano terre ai vecchi soldati.
Le colonie sono di tue tipi: romane e latine; il numero dei colòni varia (e quindi anche i lotti di terreno) da 300 a 6.000.
La lex coloniaria descrive il tipo di colonia, il luogo dove essa sarà fondata, il numero di coloni, l’estensione del terreno da assegnare in proprietà ai coloni, i nomi dei magistrati che provvedevano alla fondazione (detti trèsviri coloniae deducendae) ed il termine per la fondazione.
Partivano per le colonie anche le persone che non volevano più essere nullatenenti.
Como era una colonia fondata da Cesare.
Approvata la lex coloniaria, si esponevano nel Foro gli albi dove gli aspiranti coloni potevano iscriversi: raggiunto il numero richiesto dalla legge, si chiudevano le liste e si pensava a fondare la colonia: non si mandavano allo sbaraglio gli uomini, ma c’erano strutture ed infrastrutture (canali, porti, strade, bonifiche) predisposte per tempo: si mandavano dei tecnici, gli agrimensori (geometri greci detti gromatici perché usavano la groma, uno strumento per misurare il terreno, come il nostro teodolìte) che eseguivano la centuriazione, la divisione del terreno in parcelle quadrate di 700 metri di lato; i limiti di queste parcelle erano strade e canali.
C’erano anche ingegneri ed architetti, che costruivano le strade, i ponti, gli acquedotti e soprattutto la città.
Prima della città i sacerdoti sacrificavano gli animali per ingraziarsi gli dei e vedere se il posto era salubre (per esempio, l’erba medica fa morire gli animali).
Le strade principali sono dette càrdo (da Nord a Sud) e decumàno (da Est ad Ovest); una volta tracciate, occorreva l’inaugurazione, il cònditor con l’aratro tracciava il solco su cui sarebbero sorte le mura.
Le colonie latine sono un po’ come le città della Lega Latina, esse hanno gli stessi diritti dei Latini; sono nomate “latine”, ma a fondarle possono essere stati dei romani che rinunciavano allo stato di cives.
Roma predilige questa colonia, perché si libera dalle persone pericolose.
Le colonie romane sono più pericolose, perché un nullatenente poteva diventare votante: esse furono centellinate e la terra assai limitata (10 iùgeri).
Quando i colòni si accorsero che non riuscivano a coltivare tutti gli iùgeri, e che potevano essere attaccati, esercitarono il ius migrandi: Roma per limitare poi il ius migrandi disse che bisognava lasciare in colonia moglie e figli.
Alla fine della Repubblica in Italia settentrionale c’è un nuovo tipo di colonia, che deriva dalla “colonizzazione fittizia”: non si inviano più coloni, ma si dà il titolo di colonia ad una comunità indigena già esistente (es.: Milano).
Roma non riuscì ad inventare per i grandi territori un sistema efficace: la provincia, intesa come circoscrizione territoriale situata all’esterno dell’Italia peninsulare, era governata da un magistrato munito d’imperium che normalmente si chiamava proconsole o propretore, ed era soggetta ad un tributo variabile.
Come nel municipio, la creazione della provincia implica l’annessione del territorio.
Nei confronti del territorio i provinciales sono possessori, la proprietà era dei Romani (differenza col municipio).
Per la creazione di una costituzione adeguata, Roma andò avanti per tentativi: iniziò facendo governare la provincia a chi l’aveva conquistata, poi si volle far governare la provincia a dei pretori creati apposta, ma ciò poteva funzionare con poche province, perché con molte province si sarebbero avuti molti pretori che sarebbero poi tornati a Roma per le elezioni: si passò così al sistema peggiore: si mandano i vecchi magistrati (proconsole e propretore) che governano per un anno e poi si prorogava il tempo di governo: si creava così la temibile situazione di adfectatio regni.
Questo sistema durò fino a Silla, che risolse la questione (ma ormai era troppo tardi): egli stabilì che i magistrati all’uscita della carica dovevano andare a governare una provincia per un solo anno: c’era così un ricambio annuale automatico.
 
CRISI DELLA REPUBBLICA
 
Si può parlare di crisi nella storia? Marx lo negava: per esserci crisi dev’esserci un giudizio di valori (per esempio, qualcosa che io ritengo esemplare, e ad un certo punto no c’è più, ma sono io che lo ritengo esemplare!).
Una persona può dire che un periodo è critico dal punto di vista della morale, dell’economia ecc.; in genere chiamiamo crisi un periodo di trasformazione.
Il periodo che consideriamo va dal 146/150 a.C. fino al 27 d.C. (Augusto risolverebbe la crisi fondando il Principato), e lo distinguiamo in diverse fasi:
1.fase tribunizia: vede protagonisti i fratelli Gracchi (arriva fino all’88 a.C.);
2.fase senatoria, o periodo sillano: Silla voleva rivitalizzare il Senato (muore nel 79 a.C.);
3.fase del potere personale, che vide tra gli altri Cesare e Pompeo (68 a.C.-27 d.C.).
La conquista delle grandi province che producono derrate alimentari (Sicilia, Sardegna, Africa) ha provocato un afflusso di prodotti in Roma, a prezzi politici (cioè sottocosto), od addirittura gratis (se erano, per esempio, dati come tasse; Flavio Giuseppe nel Bellum Judaicum dice che ai suoi tempi Roma era nutrita per 2/3 dai raccolti inviati come tributi dall’Egitto e dalla Provincia d’Africa): ciò determinò una crisi nera dei piccoli e medi proprietari terrieri romano-italici, che non potevano certo dare gratis i loro prodotti, e non riescono a cambiare coltura, devono perciò vendere la terra, e per poco, al ricco latifondista.
Venduta la terra, il contadino o trovava un nuovo lavoro (ma c’erano già tantissimi schiavi) o andava a Roma e diventava un cliente: coloro che seguirono questa strada saranno poi proletariato.
Fu una classe sociale il proletariato? No, perché non c’è un elemento unificante, tanto che i proletari servivano diversi padroni e non avevano rappresentanti od assemblee.
Il proletariato viveva di espedienti, prendeva gli avanzi delle offerte nei templi e prendeva il grano gratis.
La nobilitas comprende magistrati ed ex-magistrati, essa ha in mano la magistratura e si arricchisce coi bottini, con le tasse delle province e l’attività agraria.
Una legge impedì alla nobilitas i commerci (impediva, più specificamente, di tenere navi oltre 300 anfore, quelle che sarebbero bastate cioè per cibo ed equipaggio).
L’ordo equester era un’altra classe sociale: i cavalieri si riconoscono in una nuova entità, che pretende dallo Stato dei riconoscimenti, quantomeno un titolo, quello di cavaliere appunto; questa classe era spesso in contrasto con la nobilitas perché le fonti di guadagno erano più o meno le stesse.
Le societates publicanorum (si parla sempre di cavalieri) avevano gli appalti.
Lo Stato-Città è ormai inadeguato, i comizi non rappresentano più tutti i cittadini, ma solo pochi romani; lo Stato emana due leggi:
·  de vi: sulla violenza pubblica e privata;
·  de ambitu: sull’illecita propaganda elettorale.
Effetto che l’esproprio ha sui contadini e sull’esercito:
·  i contadini, vendendo i loro campi, non votano più nelle tribù rustiche,
·  i contadini non votano più nelle classi del comizio centuriato;
·  l’esercito si spopola di colpo, e le guerre sono condotte dai ricchissimi e dagli alleati latino-italici.
Se si addormentano mentre sono di guardia, gli equites possono venire uccisi subito, senza possibilità di provocatio ad populum.
I Romani diffidano ora della propria religione, viene meno l’entità della famiglia, ci si disperde in culti esoterici, i Romani non lavorano più, si vive di espedienti, non esiste più il contadino-soldato.
L’edonismo, l’egoismo e l’individualismo si manifestano: pochi si sposano, e molti divorziano (il primo divorzio Roma lo conobbe nel 22 a.C.).
Ci sono tre fasi durante le quali i Romani cercano di risollevarsi.
 
FASE TRIBUNIZIA
 
Nel 133 sale al tribunato Tiberio Gracco, è un nobile (figlio di Tiberio Sempronio Gracco, console nel 177 e censore nel 169, e di Cornelia, figlia di Scipione l’Africano, => Circolo degli Scipioni: Polibio, Parmenide, ...); Polibio insegna ai Gracchi come dev’essere una costituzione.
Nel 133 sono consoli Publio Muzio Scevola, un patrizio reazionario, e Publio Licinio Crasso, un plebeo ricchissimo.
Tiberio, tornato dalla Spagna, vede le campagne dell’Etruria spopolate, e si propone una riforma agraria per ridare la terra ai contadini.
La rogatio agraria s’ispira alle leges Liciniae Sextiae (367) per distribuire l’ager publicus, il territorio di proprietà del popolo romano, che prima del 367 i censori distribuivano arbitrariamente: ad ogni famiglia potevano essere assegnati non più di 500 iùgeri se non aveva figli, se aveva un figlio 750 iùgeri, se aveva due o più figli 1000 iùgeri.
I capi famiglia con 1000 iùgeri, dice la legge, dovevano dare ciò che avevano in più, nella misura di 30 iùgeri, ai contadini nullatenenti: questi 30 iùgeri sono inalienabili e tassabili, i vecchi 1000 iùgeri invece non sono né alienabili né tassabili.
Perché Tiberio propone quest’idea? I 1000 iùgeri sono inalienabili, perciò non si può tornare nella condizione di prima (il contadino li avrebbe venduti perché non sarebbe riuscito a coltivarli).
Si prevede un indennizzo per i pater familias espropriati degli iùgeri oltre i 1000.
Si prevede la nomina di tre magistrati, i tresviri agris dandis, adsignandis, iudicantis, incaricati di dare i terreni, costituire un titolo formale e giudicare nelle eventuali controversie.
Per risolvere la crisi Tiberio punta sulla plebe, potendo controllarla (essendo tribuno).
Tiberio si oppose sistematicamente al Senato; presenta la legge ai 10 tribuni ed Ottavio, tribuno corrotto, pone il veto: più volte Tiberio cerca di far passare la legge, ma più volte fu posto il veto.
Tiberio minaccia di chiedere alla plebe di togliere la carica ad Ottavio perché questi non aiuta la parte umile: Ottavio pose il veto e Tiberio lo destituì.
Tiberio fu accusato di perduellio e si difese così:
·  argomento della sovranità popolare: Tiberio ricorda che quodcumque postremum populus iussisset, ita ius ratumque esset (ciò che il popolo da ultimo avrà comandato, sarà ratificato: cita le XII tavole), ma il Senato ribatte che la plebe non è il popolo;
·  Tiberio afferma allora che per la plebe non vale la regola per l’irresponsabilità dei magistrati, anche perché non si può mantenere come tribuno un uomo che sta dalla parte dei patrizi.
Tutte le tribù, dunque, votano a favore della legge.
Tiberio si autonomina membro della commissione: il Senato tenta una contestazione, ma Tiberio controbatte.
Attalo III, re di Pergamo, muore (133 a.C.) e lascia in eredità il suo regno ai Romani; il Senato vuole organizzarsi per gestire l’eredità, ma Tiberio lo ferma affermando che l’erede è il popolo romano, perciò dev’essere il popolo romano a scegliere come gestire l’eredità.
I Senatori sfruttano allora un potentissimo strumento, quello dei rumores (dicerìe, voci), spargendo la voce che Tiberio mira all’adfectatio regni: quest’accusa trova conferma in un atto di Tiberio: verso la fine del 133 si devono indìre le elezioni per il 132, e Tiberio si candida per la seconda volta: avrebbe potuto farlo solo 10 anni dopo, in base alla Lex Villia Annalis, inoltre c’era divieto di iterazione (si candida due volte di seguito; non è “continuazione”, che si ha quando una persona rimane al potere senza nemmeno farsi rieleggere).
Tiberio non poteva però essere ucciso, poiché era tribuno e sacrosanto; il Senato vuole indire allora il Senatus consultum ultimum, pressa i Consoli affinché facciano in modo che la Repubblica non abbia danni dalla situazione.
I consoli Publio Muzio Scevola e Crasso dubitano della legittimità del senatus consultum (ma quando Tiberio sarà morto Scevola dirà che tutto è avvenuto optimo iure); Scipione Nasìca si dichiara disponibile a provocare Tiberio, quest’ultimo viene dichiarato hostis rei publicae e, provocato sul Campidoglio, viene ucciso con un colpo di sedia curùle in testa.
Dove sbagliò Tiberio? Egli fece almeno tre errori:
1.ritenne che puntando su uno degli istituti repubblicani, il tribunato, potevano essere risolti tutti i problemi di Roma;
2.nei concilia plebis tributa dominava non la plebe povera, ma la plebe proprietaria terriera: i ricchi diedero retta a Tiberio per un po’, ma poi lo abbandonarono (e Tiberio non aveva previsto ciò);
3.Tiberio si sarebbe dovuto procurare degli alleati, mentre era rimasto solo.
Nella commissione incaricata di distribuire gli iùgeri ci fu il fratello di Tiberio, Caio Gracco, che cercò fin troppo di farsi alleati, e nel distribuire le terre decise di non prendere quelle dei Romani, ma quelle degli alleati Italici: Scipione l’Emiliano difende gli alleati Italici e viene ucciso, così come Fulvio Flacco, console nel 125: questi propone di estendere la cittadinanza a tutti gli Italici, e viene anch’esso ucciso (viene mandato a combattere contro i Lìguri).
Gli Italici insorgono: la città di Fregelle fu rasa al suolo dal pretore Lucio Opimio.
Caio Gracco propone il suo programma, troppo lungimirante:
·  potenziare la sovranità popolare (concilia plebis);
·  potenziare il tribunato;
·  combattere il Senato;
·  trovarsi degli alleati (è questa la novità).
Caio Gracco propone 5 gruppi di leggi:
1.elimina gli ostacoli che avevano intralciato l’opera del fratello:
·  permette l’iterazione;
·  dichiara illegittimo il senatus consultum ultimum;
·  dichiara illegali le sentenze dei tribunali straordinari senza provocatio che avevano condannato i seguaci di Tiberio;
2.emana leggi ispirate a principi poco nobili, utilitaristici:
·  assistenzialismo (non “assistenza”): fa beneficenza per ingraziarsi la parte più turbolenta della popolazione, con la lex frumentaria le persone potevano comprare a prezzo politico le derrate alimentari (erano più di 400.000 queste persone), ma così:
·  i cittadini italici non vendevano più nulla;
·  si spremevano le province, alle quali si chiedeva una produzione ancora maggiore;
3.favorisce indirettamente gli equites e supera lo Stato-Città:
·  prevede la fondazione di tre colonie: Taranto, Capua e Cartagine (quest’ultima è straordinaria, poiché il terreno era stato consacrato agli dei);
·  legge viària: Caio Gracco perfeziona la rete viaria, fa strade ottime, ben organizzate e custodite, con stazioni di posta (Cesare per andare dal Rubicone, quindi da Rimini, fino a Roma, impiegò circa 6 ore; il percorso è di circa 405 Km.): in questo modo favorisce indirettamente gli equites;
4.il IV gruppo di leggi è decisamente a favore dei cavalieri:
·  si assicura la simpatia dei cavalieri con la lex de provincia Asia a censoribus locanda (legge che riguarda la provincia d’Asia che doveva essere data in locazione dai censori): prima di questa legge il Senato prendeva tributi dalle città senza curarsi di chi effettivamente pagava, ora Caio Gracco offre l’appalto alle societas publicanorum: i pubblicani chiedono ai contribuenti molto di più di quanto era dovuto, per pagare Roma e tenersi la differenza, perciò le province erano spremute fino all’osso;
·  per ovviare agli illeciti delle province, Roma inventa il tribunale che disciplina le repetundae (es.: concussione), a giudicare prima erano i Senatori (che non si condannavano tra di loro!), Caio Gracco li sostituisce coi cavalieri;
·  lex Acilia repetundarum: aumenta le pene previste per le repetundae.
Cicerone quasi 100 anni dopo definirà perniciose queste leggi; il Senato fa circolare lo stesso rumor che usò contro il fratello di Caio Gracco, e quest’ultimo:
5.colpisce il Senato ed i nobiles, emanando:
·  la lex de provinciis, con la quale toglie al Senato il potere di assegnare la provincia agli ex-magistrati: impone il sorteggio;
·  la lex de comitiis: tenta di spezzare l’egemonia delle prime classi di votanti: fa sorteggiare le centurie nelle votazioni, in questo modo il risultato non cambia, ma si vede anche l’opposizione.
Sicuro di avere il consenso di populares ed equites, con una legge moderna prevede di dare la cittadinanza a tutti i Latini ed il ius Latii agli Italici: è un progetto senza doppi fini questo, vuole rendere romana tutta l’Italia.
A questo punto però tutte le componenti della società romana si ribellano:
·  i nobiles non vedono di buon occhio un flusso di nuovi cittadini romani;
·  gli equites volevano che pochi romani godessero dei diritti dei romani, questa lex avrebbe inserito gli Italici nel mondo del commercio;
·  i populares non vogliono dividere il bottino e le derrate alimentari con nessuno.
Caio Gracco si candida alle elezioni e non viene eletto; il Senato sceglie allora il tribuno Marco Livio Druso, che fa concorrenza a Caio Gracco sul suo stesso piano, poiché Druso:
1.propone 12 colonie (Caio Gracco solo 3);
2.propone le frumentationes gratis (Caio Gracco a prezzo politico);
3.toglie la vectigal, la tassa sugli iùgeri distribuiti.
A questo punto il Senato dichiara Caio Gracco sacrilego, poiché aveva fondato una colonia su terreno consacrato (quella di Cartagine): un uomo sacrilego è senza protezione, e Caio Gracco, chiamato a giustificarsi dinanzi al popolo, si fa uccidere dal suo liberto più fedele.
Caio Gracco concepì lucidamente che:
·  lo Stato-Città non poteva resistere;
·  il Senato era portatore di princìpi MANCA;
·  occorreva movimentare la vita politica.
Caio Gracco giustamente si cercò alleati, ma questi erano una faccia della stessa medaglia: la classe egèmone (una faccia era la nobilitas, l’altra gli equites).
Cosa succede dopo i Gracchi?
Avviene la trasformazione dell’ordinamento militare: c’è lo spopolamento dell’esercito, poiché i contadini hanno venduto i loro campi, perciò non partecipano più al comizio centuriato, possono essere solo capiti cènsi; c’è la guerra contro Giugurta, si spezza l’unità del cittadino.
Come risolvere il problema? Caio Mario nel 107 istituzionalizza la leva militare volontaria, il servizio militare diventa un mestiere, nasce il soldato professionista, che si lega al proprio generale, che gli deve assicurare bottino, salvezza ed un’indennità per quando finisce il servizio.
Nascono le guerre civili.
I generali sovvertono impunemente le regole più democratiche della costituzione romana, soprattutto l’annualità della magistratura, c’è iterazione e continuazione:
·  Mario si fa eleggere per 5 anni console;
·  Silla si fa eleggere per 6 anni proconsole;
·  Cesare si fa eleggere per 10 anni proconsole.
 
FASE SENATORIA
 
La nobilitas è convinta di riuscire a controllare gli imperatori, ammazza tribuni vari (per esempio, Saturnino), emana varie leggi, per esempio gli Italici ed i Latini avevano partecipato varie volte alle elezioni, nel 95 una lex Licinia Mucia caccia tutti gli “immigrati”.
Livio Druso, figlio di quel Marco Livio Druso nemico di Caio Gracco, difende Latini ed Italici, proponendo di concedere loro la cittadinanza, ma viene ucciso.
A questo punto possiamo chiederci quali fossero i rapporti tra i Romani ed i Latini e gli Italici: questi ultimi due popoli trovarono per quattro volte un alleato in Roma: Scipione l’Emiliano, Flavio Flacco, Caio Gracco e Livio Druso figlio.
Una lex Varia del 91 (90, dice l’Arangio-Ruiz) condanna a morte tutti coloro che avevano parteggiato per gli Italici: scoppia la rivolta detta “guerra sociale”, o Bellum Italicum, o Bellum Marsicum, per avere gli stessi diritti dei Romani (come la cittadinanza): Roma perse tutte le battaglie.
Nel 90 una lex Iulia de civitate Latinis (et sociis) danda promette la cittadinanza a tutti gli Italici che non erano ancora entrati in guerra (gli Etruschi, per esempio, ci stavano ancora pensando): 3/4 dei rivoltosi accetta, ma rimangono degli irriducibili; la legge offriva la cittadinanza a comunità intere, non ai singoli: una lex Plautia Papiria dell’89, invece, offre la cittadinanza ai singoli cittadini delle città ribelli che ne avessero fatto richiesta entro 60 giorni al pretore: all’interno delle città ribelli si creano contrasti:
·  i ricchi hanno idee nazionaliste;
·  i populares non vogliono morire;
·  i commercianti volevano la cittadinanza (il motivo è fin troppo evidente!).
Si fa dunque una terza legge, la lex Pompeia de Transpadanis, che concede alle genti del Nord i diritti dei Latini (come il ius civitatis per magistratum): Roma vince la guerra.
È vero, Roma dà ai Latini ed agli Italici la cittadinanza, paga quindi un prezzo, ma i nuovi cittadini sono iscritti in sole 10 tribù (contro le 35 romane).
Servio Sulpicio Rufo nell’88 promuove la lex Sulpicia, con la quale propone l’iscrizione di Italici e Latini in tutte e 35 le tribù: il Senato chiama Lucio Cornelio Silla, che stava combattendo nel Pònto contro Mitridàte: egli fa la prima marcia su Roma e vi lascia Cinna, che comanda per 4 anni, e torna nel Ponto.
Silla torna nell’83 ed impone la sua riforma costituzionale: inizia così la seconda fase della costituzione sillana.
Silla inventa le proscriptiones: si affiggevano nel Foro gli albi sui quali tutti potevano scrivere chi era contrario a Silla, e per incentivare quest’attività Silla offre parte del patrimonio della persona denunciata.
In queste liste compariva anche il nome di un diciassettenne, Giulio Cesare, che non fu eliminato da Silla perché di buona famiglia: Cesare ritenne comunque opportuno scappare e se ne andò in Oriente.
Silla diventa legalista: vuole legittimare il suo potere, con l’interregnum: l’interrex Valerio convoca i comizi e nomina, nell’82, Silla come dittatore, con una lex Valeria de Sylla dictatore creando et rei publicae constituendae.
Silla si dimette nel 79.
 
COSTITUZIONE SILLANA
 
Distinguiamo ciò che Silla fece dall’88 all’83 e poi dall’82 al 79.
Nell’88 Silla cercò di restaurare la costituzione romana:
1.riguardo ai comizi, toglie la legge di Caio Gracco e ripristina il vecchio modo;
2.ripristina le regole dell’iter legis: i proponenti delle leggi devono rispettare il Trinundinum (che negli ultimi anni non era stato considerato), sottopone i plebisciti al senato consulto (perciò neutralizza il suo nemico tribunato);
3.aumenta il numero dei Senatori, che porta da 300 a 600.
Nell’82 Silla:
1.con la lex Cornelia de tribunicia potestate prevede che:
·  solo i Senatori possano essere eletti tribuni;
·  i Senatori che avessero comunque voluto diventare tribuni, non avrebbero poi potuto continuare il cursus honorum;
·  il veto viene consentito solo per i casi singoli, ed anche questo elimina un po’ di forza del tribunato.
2.Con la lex de magistratibus disciplina le regole del cursus honorum e ripristina l’intervallo tra magistrature uguali (10 anni);
3.si rende conto che ci vuole stabilità: la burocrazia è una funzione specializzata, e Silla con una legge inventa 20 questori;
4.sopprime le frumentationes, indifferente al consenso del popolo;
5.con una lex de provinciis, fissa una regola secondo la quale dopo un anno di carica a Roma i pretori sarebbero dovuti andare a governare le province;
6.trasforma il processo penale, abolisce la provocatio ad populum, istituzionalizza il regime delle quaestiones perpetuae: ogni crimine è attribuito ad un tribunale, ed i crimina precisati sono:
·  le repetundae;
·  la vis (violenza);
·  l’ambitus (illecita propaganda elettorale);
·  il falso;
·  l’omicidio (violento o subdolo: quest’ultimo è attuato col veleno);
·  la quaestio de maiestate (alto tradimento).
Come funzionano le quaestiones?
La giuria di questi tribunali è composta da un certo numero di persone estratte da Senatori e Cavalieri; il pretore fissa un elenco di 450 persone, che viene pubblicato all’inizio dell’anno: l’accusatore ne sceglie 100, e l’accusato 50 tra questi ultimi.
Il processo è ispirato alle regole più pure del processo accusatorio, i vantaggi sono che ogni giuria è specializzata (nella provocatio ad populum il popolo era poco informato), e che si sottrae il processo all’imperium del magistrato, ma ci sono anche degli svantaggi: non c’è l’appello (perciò la condanna è in un solo grado) ed il processo accusatorio favorisce le parti più ricche (chi era più ricco poteva andare, per esempio, da Cicerone).
Un’altra legge di Silla ci fa capire i suoi fini: Silla distingue l’imperium domi e l’imperium militiae: il potere militare è esercitato da proconsoli e propretori solo sulle province, ed hanno come limite il Rubicone.
Silla probabilmente voleva dar forza al Senato, che non ha eserciti tra i piedi in Italia.
Nel 79 Silla, nel pieno del suo potere, non costretto da nessuno, si dimette; Plutarco ci dice che fece ciò perché aveva una malattia della pelle (e Silla morì l’anno dopo, ma è improbabile che fosse per questa malattia).
 
FASE DEL POTERE PERSONALE
 
Cicerone escogita la teoria del princeps, colui che conduce la Repubblica scelto dai Senatori e pari a loro (prius inter pares).
Pompeo, figlio di Pompeo Strabone, tratta col Senato: a Pompeo vengono conferiti poteri inusitati, gli viene conferito l’imperium senza che egli abbia percorso il cursus honorum; nel 77 a.C. Pompeo sconfigge Quinto Sertòrio, uno dei legati di Caio Mario che aveva assunto il controllo della Spagna Citeriore; nel 73, tornando dalla Spagna, Pompeo si trova di fronte ciò che rimane dell’esercito una volta considerato invincibile di Spàrtaco, e lo sconfigge: ciò generò una fortissima inimicizia fra Pompeo e Crasso, dovuta all’invidia di quest’ultimo.
C’era anche una terza guerra che i Romani non riuscivano a vincere, quella contro i pirati, ed il tribuno Gabinio con una lex Gabinia de bello piratico del 67 (va specificata la data perché c’era stata un’altra lex Gabinia, che nel 139 stabiliva la segretezza del voto nei comizi elettorali) si conferisce a Pompeo l’incarico di sconfiggerli e l’imperium pro consulare maius (maius non è un superlativo ma un comparativo), potere che aveva il proconsole sulla provincia, potere maggiore, appunto, di quello degli altri consoli; questo potere a Pompeo fu esteso oltre le 50 miglia (perché? Perché va considerata la costa!): Pompeo vince anche la guerra conto i pirati.
Nel 65 la lex Manìlia de imperio gli conferisce il potere per la guerra contro Mitridàte.
Cicerone si fa amico Pompeo, e Cesare decide di appoggiare Pompeo: Crasso cerca di coinvolgere Cesare in due piani contro Pompeo:
1.organizza la rivolta dei Transpadani per la cittadinanza, ma rinuncia quando capisce che sarebbe stato un fallimento;
2.organizza la congiura di Catilina.
Cicerone chiede la testa dei catilinari e Cesare con un’orazione abilissima tenta di salvare la vita a Catilina ed ai suoi: si procura le simpatie sia degli oligarchi (perché riconosce i meriti di Cicerone) che dei democratici.
Ortensio si innamora di Marcia, moglie di Catone: Catone gliela offre (una specie di squallido “comodato”) e quando Ortensio muore se la riprende.
Pompeo chiede al Senato più potere, ma questi glielo nega a causa di Catone l’Uticense.
Pompeo, Cesare e Crasso costituiscono il I triumvirato nel 60 a.C. (il primo ha l’esercito, il secondo l’intelligenza, il terzo la ricchezza): si macchiarono di illeciti: captatione dei voti, repetundae ecc.
Pompeo voleva che per legge gli fossero poi sanati gli illeciti, Crasso, desideroso di nuove ricchezze, chiede un proconsolato in Siria, Cesare afferma di essere nato nel 100 a.C. (anzi, nel 653 ab urbe condita, visto che la fondazione di Roma risale al 753 a.C.), mentendo sulla propria età forse perché gli pesava essere arrivato tardi al consolato).
La lex Iulia de actis Pompei confirmandi conferma appunto la legittimità delle azioni di Pompeo.
Un’altra lex di Cesare risolve il problema agrario, vuole ridare la terra ai contadini Italici: Cesare dà la terra non a tutti, ma solo agli ex-soldati, e dà loro le migliori terre d’Italia (l’Ager Campanus), togliendole non ai poveracci ma ai Senatori, e dà loro anche gli instrumenta fundi.
Una terza legge di Cesare, la lex de repetundis, contrasta la corruzione ed amplia le figure di illecito: questa legge si è perpetuata da noi fino al 1865, ed ancor oggi i reati contro la pubblica amministrazione sono quelli individuati da Cesare.
Una lex Vatinia assicura a Cesare la provincia, una volta scaduto l’anno di carica (le province, ricordiamolo, venivano prima attribuite discrezionalmente dal Senato, poi sorteggiate con Caio Gracco).
Cesare chiede come provincia la Cisalpina ed il terreno (poco fertile) dell’Illirio: sono pretese modeste, che rassicurano i preoccupati Senatori.
Uno solo si accorse dell’abilità delle scelte di Cesare: Catone il Censore, infatti:
·  Cesare scelse la Cisalpina per aggirare la legge di Silla che distingueva l’imperium domi da quello militiae: il Rubicone separava le province dall’Italia e Cesare era perciò vicino a Roma, senza trasgredire la legge;
·  Cesare aveva bisogno di trionfi: a Nord delle Alpi c’erano i Galli ed i Celti, dei quali si esaltava (a torto o a ragione) il valore (i Celti capirono, comunque, il valore di Roma);
·  la Cisalpina era la base ideale per reclutare uomini e disporre di derrate alimentari (per sostenere l’esercito in Gallia).
Nel 56 a.C. i triùmviri rinnovano i patti, a Lucca: Cesare chiede anche la cura annonae, mentre Crasso desidera rimanere in Siria (e muore quasi subito, nel 55).
Cesare dà in moglie a Pompeo la propria figlia Giulia, che però muore poco dopo (ed anche questo probabilmente è alla base del futuro contrasto tra i due).
Il Senato approva il consolato senza collega di Pompeo e chiede a Cesare di dimettersi dal proconsolato prima dello scadere della carica; Catone dice che Cesare vuole marciare su Roma e lo presenta come hostis rei publicae.
Nel gennaio del 49 Cesare passa il Rubicone e sconfigge le forze pompeiane in 10 giorni e concede la cittadinanza agli abitanti della Cisalpina (mantenendo una sua antica promessa).
Nel 48 a Farsàlo sconfigge Pompeo, che viene ucciso dagli egiziàni.
Cesare riforma lo stato:
·  porta il numero dei Senatori a 900;
·  limita le frumentationes;
·  emana una lex sumptuaria (sumptŭs, ūs, m., lusso, dispendio) per limitare il lusso: non è la ricchezza che offende il popolo, ma la sua ostentazione gratuita: Cesare punisce i banchetti con numero di persone superiore a 9;
·  emana una legge per risolvere il problema delle giurie (Gaio aveva privilegiato i cavalieri, Silla i Senatori): metà sono Cavalieri e metà sono Senatori;
·  calmiera i prezzi delle pigiòni;
·  inventa il nostro calendario (detto Gregorianum, entrato in vigore nel 1582);
·  crea 8 funzionari, detti prefetti: lo stato richiede infatti un apparato di funzionari specializzati (prima c’erano i magistrati, che cambiavano attività ogni anno), e che occorre la burocrazia lo aveva intuito già Silla;
·  concepisce per primo un codice (le XII Tavole non possono considerarsi un codice perché non sono complete).
Cesare amava il potere non in sé, ma come mezzo per diffondere la civiltà romana.
Cesare bonifica per 3/4 le paludi pontine (il rimanente quarto fu bonificato poi dal fascismo), prosciugò il Fùcino e creò un canale da Roma a Terracìna.
Il 15-2-44, durante una processione dei Lupercàli, Antonio gli offre per due volte la corona di re, e Cesare la respinge entrambe le volte (la seconda, però, tentennando).
Cesare fa spargere la voce che la Sibilla aveva predetto che solo lui avrebbe potuto sconfiggere i Pàrti.
Il 15-3-44 Cesare va in Senato per esporre il suo progetto, e viene assassinato: Cesare sapeva del suo destino, e sapeva perfino i nomi dei congiurati, ma andò comunque incontro alla morte, probabilmente perché era già condannato da un tumore all’intestino.
Nel 43 Antonio pensa di associarsi col ricco Lèpido e con Ottaviano: questo II triumvirato fu un triumvirato palese (quello di prima era stato segreto), Ottaviano chiede ai colleghi che l’accordo sia approvato dal popolo: presentano dunque la lex Titia de triumviris reipublicae constituendae per ratificare l’accordo.
I repubblicani vengono sconfitti a Filìppi.
Lepido muore ed Antonio viene scelto da Cleopatra, la quale vuole spostare la capitale dell’Impero da Roma ad Alessandria d’Egitto.
Ottaviano sfrutta la debolezza di Antonio: fa pubblicare il presunto testamento in cui Antonio dispone il trasferimento della capitale, perciò quest’ultimo viene visto come nemico, ed il Senato conferisce i poteri ad Ottaviano, che il 2-9-31 ad Azio vince la flotta di Antonio: Antonio e Cleopatra si uccidono.
 
ETÀ DEL PRINCIPATO
 
Ottaviano instaura dal 28 il Principato; Ottaviano è console per la sesta volta con Agrippa, àbroga le misure eccezionali e rinuncia al titolo di triumviro, scrive le res gestae, nelle quali mostra tendenze legalistiche (“ho trasferito la Repubblica nelle mani del potere discrezionale del popolo e del Senato”): il Senato, rassicurato, offre ad Ottaviano il titolo di princeps senatus e gli dà il titolo di Imperàtor: è il comandante militare per antonomasia.
Gli viene concessa l’inviolabilità e poi l’imperium pro consulare maius su tutti i territori appartenenti a Roma.
Ottiene infine il titolo di Augustus, titolo che evocava prestigio e potere (augĕo, es, auxi, auctum, ēre, 2 tr.: accrescere, arricchire; augŭrĭum, ĭi, n.: interpretazione dei segni della volontà degli dei; evoca anche l’auctoritas, il potere del tutore, dove il tutore è qui Augusto ed il minore la Repubblica).
Nel 23 nasce formalmente il Principato, il quale prevede due poteri:
·  tribunicia potestas: Augusto ha il potere dei tribuni, pur senza essere tribuno: può porre il veto, convocare la plebe, ha la tribuna coercendi potestas, è inviolabile;
·  imperio pro consulare maius et infinitum: il comando militare tipico dei consoli, maius rispetto a quello degli altri consoli, infinitum perché è senza confini: abbiamo già detto che è superiore a quello degli altri consoli, ma in Italia, per esempio, i consoli non potevano andare (Augusto invece sì).
Augusto vuole far soldi con la cura annonae (come Pompeo nel 53), l’approvvigionamento alimentare di Roma e dell’Italia.
Nel 12 a.C. gli fu conferita la somma dignità sacerdotale, il titolo di pontifex maximus: voleva ripristinare integralmente il potere giurisprudenziale dei pontefici.
Nasce il ius respondendi ex auctoritate principi, strumento di controllo della giurisprudenza romana; fino ad Augusto, il richiedente riceveva risposta dal giurista, ora il giurista ha paura di contraddire il principe.
Capitòne aveva questo ius: fondava diritto; il grande Labeòne invece non lo aveva, perciò non poteva fondare diritto: questo perché le idee moderniste di Labeone non erano gradite ad Augusto; Labeone fondò poi la scuola dei Proculiàni.
Augusto escogita il sistema del consors imperii: si associa ad una persona che vuol vedere nell’esercizio delle funzioni di comando: in questo modo può vedere come se la cava e, se questa persona fallisce, può sostituirla con un altra.
Nomina consors imperii Agrippa, che però muore; nomina allora Druso nel 12 a.C., ma Druso muore nel 9; nomina quindi Tiberio, da cui però poi si sente deluso, e non appena a sua figlia Giulia nascono due figli, li sceglie al posto di Tiberio, ma i due figli muoiono anch’essi (Gaio Cesare nel 3 a.C. e Lucio nell’1 d.C.): nomina allora la moglie Livia, che lo uccide col veleno.
Per quanto riguarda la legislazione di Augusto, egli emana la lex Iulia iudiciorum privatorum e la lex Iulia iudiciorum publicorum per regolare il processo civile e penale; cerca di arginare l’immoralità e soprattutto l’adulterio: la lex Iulia de adulteris coercendi prevede la pena di morte per gli adulteri colti in flagrante, e stabilisce che essi siano o uccisi o denunciati dal marito o dal pater familias, in caso contrario il marito od il pater familias stesso sono denunciati di lenocinium (ruffianeria).
I formalisti guardavano alla forma, i sostanzialisti alla sostanza dei poteri di Augusto i primi consideravano il Principato come una Repubblica rinnovata, i secondi, come Strabone, dicevano che Augusto era un monarca (costituzionale, non assoluto).
Dice Augusto: “sopravanzai tutti in prestigio, quanto a potestas, non ne ebbi di più di coloro che mi furono colleghi nella magistratura”: è ipocrita perché la prima parte è vera, ma la seconda no: Augusto ha sì la tribunicia potestas, ma non è tribuno, perciò la sua volontà non può essere paralizzata.
Teodoro Mommsen parlò di diarchia: augusto comanda sull’Impero ed il Senato sulla Città.
Arangio-Ruiz parla di un protettorato, ma per far ciò occorrono due stati diversi, che allora non c’erano.
La tesi migliore è probabilmente quella di de Francisci, che è anche quella di Strabone.
Dopo Augusto il suo “pacchetto di poteri” viene istituzionalizzato e trasferito in blocco ai suoi successori.
C’è una nuova struttura: la burocrazia, una costruzione gerarchica piramidale con dei funzionari che dipendono tra di loro gerarchicamente.
La burocrazia fu intuita da Silla, applicata da Cicerone e perfezionata da Costantino.
Confrontiamo il magistrato ed il funzionario:
·  il magistrato viene eletto nei comizi; il funzionario viene nominato dall’imperator;
·  il magistrato rimane in carica un anno (il censore 18 mesi ed il dittatore non più di 6), il funzionario rimane in carica finché non si ritira;
·  il magistrato ha competenze previste dalla costituzione, il funzionario ha come competenze per tutta la vita ciò che gli è stato commissionato, perciò diventa competente in materia (come i Ministri di oggi);
·  il magistrato ha un ufficio gratuito, il funzionario è retribuito.
Dai funzionari dipendeva l’efficienza dell’Impero, per questo se avessero commesso errori troppo gravi potevano essere condannati alla deportatio in insulam, o ad bestias oppure ad metalla (damnare in o ad metalla: condannare al lavoro delle miniere); la piramide è così strutturata:
·  trecenari: percepiscono 300.000 sesterzi all’anno;
·  duecenari: percepiscono 200.000 sesterzi all’anno;
·  centenari: percepiscono 100.000 sesterzi all’anno;
·  sexagenari: percepiscono 60.000 sesterzi all’anno.
I funzionari più importanti sono:
·  praefectus praetorio: svolge una funzione giurisdizionale, è competente in materia penale oltre le 100 miglia fuori da Roma;
·  praefectus urbi: ha funzioni giurisdizionali entro le 100 miglia da Roma;
·  praefectus annonae: è incaricato all’approvvigionamento;
·  praefectus vigilum: è preposto alla sicurezza pubblica.