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STORIA DELLA
CHIESA, RIFORME - MATTHEW HENRY
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VITA ED OPERE DI
MATTHEW HENRY - PIETRO VERMIGLI MARTIRE |
La vita esemplare e le opere di Matthew Henry
Riassunto della sua
vita Biografia più dettagliata I decreti di uniformità PREFAZIONE
SCRITTA DALLO STESSO MATTHEW HENRY
Matthew Henry
(1662-1714)
Commentatore ed espositore della Bibbia. Figlio di un
ministro evangelico della Chiesa di Inghilterra, nacque poco dopo che suo
padre fu espulso dal ministero come conseguenza del Decreto di Uniformità.
Ragazzo studioso, la sua conversione avviene nel 1672. Studia a Londra, in
un'accademia nonconformista, e poi diventa professore di Legge a Gray Inn.
Considera poi di diventare ministro della Chiesa di Inghilterra, ma poi
decide di essere un nonconformista e viene privatamente consacrato ministro
presbiteriano. Il suo primo pastorato è a Chester (1687-1712) e poi a Hackney
(1712-1714). Molto influenzato dai Puritani, egli fa dell'esposizione biblica
il centro del suo ministero. Cominciava a lavorare ogni giorno alle 4 o alle
5 della mattina, e intendeva usare appieno per lo studio tutte le ore
disponibili. Nel 1704 cominciò a comporre quella che sarebbe stata l'opera
per la quale ancora oggi è conosciuto: il Commentario alla Bibbia. Riesce
però ad arrivare solo alla fine del libro degli Atti. Il resto verrà composto
dai suoi amici nel ministero, sulla base delle sue note e scritti. Il suo
stile di esposizione biblica, molto dettagliato e spiritualizzato, ha
influenzato da allora tutto il mondo evangelico. C. H. Spurgeon riconobbe la
sua dipendenza da Henry, molti altri gli hanno negato questa cortesia.
I problemi di critica testuale non rientravano nella sua sfera di
interesse. Basti pensare che poteva scrivere 190 parole di commento, incluso
uno schema di sermone in tre parti, su un versetto come: "Quando Esaù
ebbe quarant'anni, prese per moglie Judith, figlia di Beeri, lo Hitteo
e Basemath, figlia di Elon, lo Hitteo. Esse furono causa di profonda
amarezza a Isacco e Rebecca". Matteo Henry
(1662-1714)
Commentatore ed espositore presbiteriano della
Bibbia. Figlio di un ministro
evangelico della Chiesa di Inghilterra,
nacque poco dopo che suo padre fu espulso dal ministero come conseguenza del
Decreto di Uniformità. Matteo Henry nasce a Broad Oak, fattoria gallese ad
Iscoid, Flintshire, il 18 ottobre 1662. Suo padre, Filippo Henry, rinomato
ministro della Chiesa di Inghilterra, era uno delle migliaia che avevano
rassegnato le dimissioni o erano stati espulso perché avevano "dissentito"
alle condizioni imposte dal Decreto di Uniformità, ed erano stati così
chiamati "dissenzienti". Sua madre era di antica e onorevole famiglia. Aveva
una modesta eredità, cosi Filippo Henry fu in grado di vivere a Broad Oak ed
esercitare un ministero senza compenso fra la gente del distretto. Matteo era
il loro secondo figlio - così fragile alla nascita che era stato battezzato
ad un giorno solo di vita per timore che non sopravvivesse una settimana.
Come ragazzo era fisicamente debole, ma mentalmente e spiritualmente molto
forte e si dimostra studente abile e diligente. Di lui si dice che abbia
letto ad alta voce un capitolo della Bibbia quando aveva solo tre anni! La
sua conversione avviene nel 1672. A Broad Oak, Filippo Henry
frequentemente ospitava ed istruiva un candidato al ministero, che lo
ripagava fungendo da tutore per i figli dello Henry. Uno di questi studenti,
un certo William Turner, ispirò a Matteo passione per la lingua latina, e nel
suo commentario troviamo diverse citazioni da classici. Fino all'età di 18
anni, la sua educazione fu supervisionata dal padre, studioso ed insegnante
molto valente. A causa di un sempre più grande lassismo nelle università di
Oxford e Cambridge, Matteo fu inviato, nel 1680 all'accademia di Islington, a
Londra (le "Accademie dissenzienti", stabilite nel 1662 e negli anni
seguenti, mantenevano un alto grado accademico proprio quando le antiche
università inglesi avevano tradito la loro fiducia e pregiudicatisi il
rispetto degli educatori più seri, che desideravano libertà intellettuale).
Ad Islington era preside il famoso Thomas Doolittle, e suo assistente Thomas
Vincent. Come altri accademici, egli fu forzato, dalla persecuzione, a
trasferirsi altrove per cinque volte ma, nonostante le interruzioni, questa
era considerata la maggiore accademia presbiteriana. A Broad Oak, sebbene
fosse di aiuto considerevole a suo padre nell'opera pastorale, egli si rese
conto che vi erano scarse possibilità di ricevere "la vocazione" ad un
pastorato stabilito. Il villaggio era remoto, severe erano le restrizioni per
i ministri dissenzienti, e non aveva alcuna voglia di rimanere relativamente
inattivo. Decide cosi di ritornare a Londra, al Gray Inn e studiarvi legge.
Fu subito evidente che la sua considerevole memoria e la facile eloquenza gli
avrebbero riservato un futuro di rilievo. A quel tempo era largamente
influenzato dalla predicazione del dott. Stillingfleet e dal dott. Tillotson
al Lawrence Jewry. In quel tempo egli pure aveva raccolto alcuni suoi amici
in un piccolo gruppo che si incontrava per la preghiera e lo studio biblico,
proprio come più tardi i Wesley avrebbero fondato lo Holy Club a
Oxford. Ritornando a Broad Oak, egli cominciò a predicare come candidato per
il ministero. La gente che lo udiva a Chester era così impressionata da lui
da chiedergli di diventare loro pastore. Dopo molto esame di sé stesso,
egli decise di rispondere a questa "chiamata". Alcuni ministri di Londra
lo consacrarono così privatamente il 9 maggio 1687, ma solo nel 1702
egli ottenne un documento per certificare la regolarità della sua
ordinazione presbiteriana 15 anni prima. Fu pastore a Chester dal 1687 al
1712. La sua prima moglie Katherine Hardware, muore di vaiolo dando alla luce
un bambino. Più tardi sposerà la nipote del giudice Peter Warburton.
Sebbene tre dei loro nove figli muoiono da piccoli, questo matrimonio è
felice come il primo. Nessuna tragedia domestica poteva pregiudicare la
bellezza della sua vita familiare. Essa era modellata secondo quanto aveva
avuto esperienza a Broad Oak, dove la casa di suo padre era chiamata "una
casa di Dio ed una porta del cielo". A Chester Matteo Henry conduceva la
preghiera in casa sua all'inizio ed alla fine della giornata. Al mattino
esponeva l'Antico Testamento, alla sera il Nuovo. Queste esposizioni,
probabilmente, emendate dalle domande e commenti della sua famiglia e dei
vicini, furono alla base del suo commentario. Nei culti pubblici egli di
solito pregava per mezz'ora, predicava per un' ora, e cantava Salmi, da una
selezione preparata da lui stesso. I suoi sermoni erano espositivi, mai
politici, ma sempre pratici nella loro applicazione ai problemi della vita
quotidiana. Frequentemente contenevano riferimenti alla condizione della
gente nelle Chiese riformate del continente, che soffrivano di dure
persecuzioni. Il sabato egli teneva lezioni di catechismo per bambini, in
preparazione alla loro partecipazione alla Cena del Signore che, come lui
sottolineava, era il compimento del loro patto battesimale. Sebbene avesse
forti opinioni personali su dottrine cardinali, egli non era intollerante, e
visitava tutti coloro che erano nel bisogno, non importa a quale
denominazione appartenessero. Predicava sei giorni la settimana in diverse
comunità in un raggio di trenta miglia, ma non voleva mai mancare dal suo
pulpito la domenica a Chester. La sua influenza in città crebbe rapidamente,
e fu costruito un nuovo locale di culto per ospitare la vasta assemblea che
ora si riuniva per ascoltarlo. Dopo essere guarito da una seria malattia nel
1704, egli comincia le sue Note al Nuovo Testamento, base del suo
commentario, che si concludevano come sempre faceva nel suo diario, con la
frase: "Il Signore mi aiuti ad avere in tutto questo sempre grande umiltà".
Riesce però ad arrivare solo alla fine del libro degli Atti. Il resto verrà
composto dai suoi amici nel ministero, sulla base delle sue note e scritti.
Il suo stile di esposizione biblica, molto dettagliato e spiritualizzato, ha
influenzato da allora tutto il mondo evangelico. I problemi di critica
testuale non rientravano nella sua sfera di interesse. Basti pensare che
poteva scrivere 190 parole di commento, incluso uno schema di sermone in tre
parti, su un versetto come: "Quando Esaù ebbe quarant'anni, prese per moglie
Judith, figlia di Beeri, lo Hitteo e Basemath, figlia di Elon, lo Hitteo.
Esse furono causa di profonda amarezza a Isacco e Rebecca". Molto influenzato
dai Puritani, egli fa dell' esposizione biblica il centro del suo
ministero. Sei anni più tardi, nel 1710, una "chiamata" gli pervenne da una
comunità in Silver Street, Hackney, Londra. Era riluttante a lasciare
Chester, ma sentiva che la sua opera sul commentario avrebbe avuto grande
beneficio dall 'aver accesso a Londra a molta letteratura. "Mi rattristo
molto a lasciare Chester", diceva, "ma guardo a Te, o Signore". Cominciava
a lavorare ogni giorno alle 4 o alle 5 della mattina, e intendeva usare
appieno per lo studio tutte le ore disponibili. Non sorprende che il voler
adempiere ad una vasta opera di ministero e, al tempo stesso, di scrivere un
grande commentario sull'intera Bibbia, lo avessero molto provato fisicamente.
Era preoccupato per la scarsa qualità della vita religiosa in Inghilterra, e
questo aumentava la sua debolezza. Nel 1714, visitando a Chester un suo
amico, morì di apoplessia a Nantwich. Aveva solo 52 anni, e questa sembrava
una tragica fine, ma uno dei suoi parenti disse: "Io credo che gli sia stato
molto gradevole avere un così breve passaggio dal suo lavoro alla sua
remunerazione finale". Avere esercitato un ministero così vigoroso ed
intenso, essere stato pastore con tale introspezione nei problemi della
gente, ed avere prodotto una tale opera monumentale come il suo Commentario,
sono realizzazioni stupefacenti. Per circa tre secoli innumerevoli persone
sono state illuminate ed ispirate dalla sua interpretazione delle Scritture.
Le sue parti essenziali sono passati indenni allo scorrere del tempo, come
pure al test dell'umana esperienza. La spiegazione di tutto questo certamente
sta nella sua comunione con il Maestro e il suo costante interesse per i
bisogni più profondi di coloro che gli erano stati affidati. C. H. Spurgeon
riconobbe la sua dipendenza da Henry, molti altri gli hanno negato questa
cortesia. Dal diario di Matteo Henry, 1 gennaio 1704 riprendiamo questo
testo, che testimonia dello spirito con cui visse ed operò. "Questo primo
giorno dell'anno, in cui io pur mi sento debole e afflitto da molte
infermità, sulle mie ginocchia io torno a consacrare me stesso nuovamente,
con tutto me stesso, tutto ciò che io sono, tutto ciò che io possiedo, tutto
ciò che io posso fare, a Dio il Padre, al Figlio, ed allo Spirito Santo, il
mio Creatore, Padrone, Reggitore e Benefattore. Che tutti i miei sentimenti
siano governati dalla grazia divina, e tutti i miei affari determinati dalla
divina Provvidenza, tanto che io giammai venga meno nel glorificare Iddio in
questo mondo, e nell'essere glorificato con Lui in un mondo
migliore. Confermando e ratificando ogni mia passata consacrazione di me
stesso a Dio, lamentando quanto il mio cuore e la mia vita non ne sia stata
all'altezza, dipendendo dai meriti del Redentore per rendere questo come ogni
altro servizio, a Lui accettevole, e dalla grazia del Santificatore che sola
mi può mettere in grado di onorare questi impegni, io torno a legare la
mia anima con un vincolo al Signore, dedicandomi interamente a Lui,
soprattutto perché, per quanto riguarda gli eventi dell'anno che sto per
entrare, non conosco ciò che mi potrà avvenire. Se quest'anno sarà per me
un anno di salute e conforto, io mi affido alla grazia di Dio affinché essa
mi preservi dalla sicurezza carnale, per essere in grado, in tempo di
prosperità, di servire Iddio con gioia. Se le opportunità d'essere ministro
dovessero quest'anno continuare, io affido i miei studi ed opera
ministeriale, in casa e fuori, alla benedizione di Dio, avendoli nuovamente
consacrati al Suo servizio ed onore, desiderando di tutto cuore, per la
misericordia del Signore, essere in essi fedele e coronato da successo. Se
quest'anno io dovessi essere in qualsiasi modo tentato da dubbi al riguardo
del mio dovere, io mi affido alla conduzione divina, con desiderio sincero,
pregando a che Iddio mi faccia conoscere ciò che debbo fare, e con la
determinata risoluzione, per la grazia Sua, di seguire ogni Sua direttiva con
integrità di cuore. Se quest'anno io dovessi essere afflitto nel mio corpo,
famiglia, nome o condizione, io affido tutto a ciò che Dio disporrà. Che la
volontà di Dio sia fatta. Prego solo che la grazia di Dio possa accompagnarsi
alla divina provvidenza in tutte le mie afflizioni, affinché io sopporti ed
usi bene ogni cosa. Se quest'anno dovesse essere disturbato e molestato
nell'esercizio del mio ministero, se dovessi essere messo a tacere, o dovessi
in qualche modo soffrire per avere bene operato, io affido la mia anima alla
protezione di Dio, mio fedele Creatore, dipendendo da Lui affinché mi guidi
nella mia vocazione a soffrire, e risolva ogni problema, preservandomi da
ogni trappola che mi possa confondere. Dipenderò da Lui affinché mi sostenga
e mi conforti nelle mie sofferenze, e che da esse Egli possa trarne
maggiore gloria. Io accetterò tutto quanto la Sua volontà vorrà
stabilire". Caratteristiche del commentario di Matteo Henry Il commentario
sulla Bibbia, di Matteo Henry è, in molti sensi, unico nel suo genere. Ha
continuato ad essere utile per circa tre secoli e, nonostante che le
conoscenze siano aumentate, le sue introspezioni nelle verità spirituali ed
eterne continuano a rendere quest'opera essenziale ed inestimabile per
l'insegnamento. E' un'opera pratica e devozionale, scritta da un uomo che è
stato considerato come fra i più grandi commentatori di tutti i tempi. Non è
stata prodotta da un uomo chiuso nel suo studio ed interessato solo a
questioni accademiche, ma è il risultato di esperienze pastorali e personali.
Nei culti di famiglia in casa di suo padre, e più tardi nelle sue
preghiere quotidiane con la propria famiglia, come pure in casa dei suoi
vicini, egli non solo studiava le Scritture, ma imparava come applicarle nel
migliore dei modi a giovani ed anziani, ricchi e poveri. Matteo Henry
descrisse così la sua opera: "esposizioni metodiche e pratiche. in abito
semplice e domestico". Suo scopo, diceva, era "di promuovere la conoscenza
delle Scritture, al fine di riformare il cuore e la vita degli uomini".
Riconoscendo i problemi testuali e cronologici implicati, non era dogmatico
nelle sue interpretazioni, ma concordava con Agostino che la Parola di Dio
"ha abbastanza in essa di facile comprensione da nutrire anche il più incolto
e condurlo a vita eterna", ma abbastanza pure da richiedere l 'industriosità
e l'umiltà del più grande fra gli studiosi. Scriveva con fiducia e autorità
sui principi base di fede e di condotta, ma con tale modestia da guadagnarsi
il generale rispetto. "Io non basto a me stesso", diceva, "ma per la grazia
di Dio io sono quel che sono, e confido che quella grazia continuerà ad
essere sufficiente anche per me". Affrontando questo compito immane,
adempiendo nello stesso tempo, un'intensa vita pastorale, egli chiedeva ai
suoi amici di pregare affinché "gli potesse essere data intelligenza. tanto
da essere trovato come fedele servitore di Gesù Cristo, perché sono l'ultimo
che possa chiamarlo Maestro". Con un profondo senso di vocazione egli aveva
intrapreso quest'opera non come uno che voglia essere ricordato dai posteri
come studioso - sebbene avesse familiarità con i classici e la patristica -
ma piuttosto come pastore ansioso di guidare il suo gregge. Ecco perché
l'opera è di grande valore, non solo storicamente come descrittiva del punto
di vista puritano, ma come un'esposizione stimolante della misericordia e
giustizia di Dio, e come affidabile guida per la condotta di tutti coloro che
vogliono seguire la Sua volontà. Sorprende forse che George Whitefield
avesse letto quattro volte questo commentario - letteralmente in ginocchio -
e parlasse sempre de "il grande Matteo Henry", a cui doveva così tanto.
L'influenza diretta dei suoi scritti sui leader religiosi del 18° secolo era
sentita indirettamente da molte delle grandi personalità del periodo ed essa
a loro volta è passata fino a noi. Gli inni di William Cowper, per esempio,
erano stati indubbiamente ispirati dallo spirito e persino dal frasario di
Matteo Henry. Nel leggere il commento di Matteo Henry a Le. 8:35, si possono
riconoscere le parole che Charles Wesley più tardi usò nel suo grande inno:
"A charge to keep I have". Persino diverse frasi del commentario di Henry
sono diventate epigrammi popolari nella lingua inglese. Ciò che però più
conta è che la sua interpretazione della Parola di Dio ha aiutato a creare ed
a rafforzare gli standard di moralità mediante i quali il cristiano modella e
dirige la sua vita.
I decreti di Uniformità (Acts of
Uniformity)
Misure prese dal parlamento inglese in materia
ecclesiastica. Sono da considerarsi in numero di quattro. 1) Il decreto
del 1549. Questo statuto di Edoardo VI impone alla Chiesa di Inghilterra
l'uso del primo Book of Common Prayer (libro di liturgia). Per il clero che
non vi si sarebbe conformato, erano imposte diverse sanzioni: multa ed
imprigionamento per la prima infrazione, sospensione del salario
ed imprigionamento per la seconda, e prigione a vita per la terza. Il
decreto pure dichiarava che tutti i culti (eccetto che nelle università e
nella devozione privata) dovessero svolgersi il lingua inglese. 2) Il
decreto del 1552. Altro statuto di Edoardo VI, ma emanato sotto
il protettorato di Northumberland in un tempo di crescente
conservatorismo politico e religioso. Stabiliva l'obbligo di usare il Book of
Common Prayer in versione riveduta, ed estendeva le sanzioni del decreto
precedente fino ad includere l'assenza dai culti e la partecipazione a
conventicole private. I decreti del 1549 e del 1552 furono entrambi abrogati
dalla regina cattolica Maria di Tudor, nell'ottobre 1553. 3) Il decreto
del 1559. Stabiliva il compromesso adottato dalla regina Elisabetta sulla
situazione religiosa e regolò la disciplina della Chiesa di Inghilterra per i
prossimi 90 anni. Abrogava tutta la legislazione della regina Maria, che
aveva ristabilito il Cattolicesimo, e stabiliva l'uso di un'edizione
leggermente modificata del Book of Common Prayer del 1552. Le sanzioni
venivano ristabilite, e i paramenti sacri dovevano essere quelli stabiliti
nel 1549. La regina stessa veniva stabilita come Capo della Chiesa,
riservandosi il privilegio di introdurre ulteriori necessarie cerimonie e
riti - provvedimento questo poi fortemente contestato dai puritani. 4) Il
decreto del 1662. La più importante delle leggi che ristabiliva
l' istituzione della Chiesa di Inghilterra, stabilito dal parlamento
dei cavalieri di Carlo II, in seguito alla Restaurazione, e il primo di
questi atti fu il decreto di repressione sistematica conosciuto come il
Clarendon Code. Imponeva l'universale adozione di una forma leggermente
riveduta del Prayer Book elisabettiano, ricevendo il consenso regale il 19
maggio. Prima del giorno di S. Bartolomeo (24 agosto) tutti i ministri di
culto dovevano pubblicamente dovevano dare il loro "consenso ed assenso non
finto" al Prayer Book, e ricevere la consacrazione da parte del vescovo, se
questa non era ancora stata per loro eseguita. Doveva pure essere fatto un
giuramento di fedeltà e di ripudio del National Covenant. Questi
provvedimenti condussero alla grande espulsione (Great Ejection) di circa
2000 ministri presbiteriani, indipendenti e battisti, il che condusse alla
definitiva separazione fra Anglicani e Puritani, e la susseguente nascita
del Nonconformismo inglese. Per quanto riguarda i dissenzienti, l'atto fu
reso praticamente non operativo dall'Atto di Tolleranza di William e Mary
(1689), ma rimaneva in vigore per la Chiesa di Inghilterra, sebbene fosse più
tardi modificato in diverse direzioni - in modo particolare durante
l'episcopato di A. C. Tait. Storicamente, gli ecclesiastici "aperti" lo hanno
valorizzato come base di unità e pluralismo all'interno della Chiesa
stabilita, e gli evangelici lo hanno considerato una salvaguardia dei 39
articoli. I ministri della "Chiesa alta", specialmente i più estremisti, lo
trovavano però vessatorio e restrittivo.
Il codice di Clarendon Il
parlamento, detto Cavalier o dei Pensioner si riunì la prima volta l'8 maggio
1661. Emanò una serie di severi statuti conosciuti appunto come il Codice di
Clarendon. Essi erano il Corporation Act (1661), il Act of Conformity(1661),
il Conventicle Act (1664) e il Five Mile Act (1665). Loro scopo era quello di
rimuovere dal ministero della Chiesa, come pure dai governi nazionale locale,
tutti coloro che non sottoscrivessero alla liturgia e dottrina della Chiesa
di Inghilterra. Il suo nome deriva dal principale proponente, Sir Edward
Hyde, Earl of Clarendon (1609-74), che fu Lord Cancelliere sotto Carlo II, ma
che comunque non ne è il solo responsabile. PREFAZIONE SCRITTA DALLO
STESSO MATTHEW HENRY
Sebbene la mia principale preoccupazione sia
di poter dare buona testimonianza di me stesso a Dio ed alla mia stessa
coscienza, ci si aspetta forse che io offra al mondo qualche spiegazione
circa quest'ardita impresa. Mi sforzerò di farlo con chiarezza, come colui
che crede che se in quel grande giorno si chiederà conto d'ogni oziosa o
malvagia parola che gli uomini avranno detto, a maggior ragione si chiederà
conto d'ogni oziosa o malvagia riga che avranno scritto. E forse sarebbe
utile, in primo luogo, esporre i grandi e sacri principi sui quali mi fondo e
dai quali sono governato in questo sforzo di spiegare e valorizzare i sacri
scritti; sforzo che offro umilmente al servizio di coloro che con me sono
d'accordo su questi sei principi (credendo che in effetti esso sarà gradito
solo a loro): I. Che la religione è la sola cosa utile; e che conoscere,
amare e temere Dio Creatore, osservando i suoi comandamenti (Ec 12:15) con
ogni devoto sentimento e con una sana condotta, è il tutto dell'uomo. Questa
è la conclusione del ragionamento (il quod erat demostrandum di tutto
il discorso) cui giunge il più saggio fra gli uomini, nel suo Ecclesiaste,
dopo stringenti ed ampie riflessioni. Mi si consenta, quindi, di porre
questa affermazione come un postulatum, una premessa non discutibile, il
fondamento di tutta l'opera. In generale, è utile, per l'umanità, che nel
mondo ci sia la religione: essa è assolutamente necessaria alla tutela
dell'onore degli esseri umani e, cosa non meno importante, alla conservazione
dell'ordine delle loro società. La pietà è necessaria anche a ciascuno di noi
in particolare; altrimenti non corrisponderemmo all'obiettivo della
nostra creazione, non otterremmo il favore del nostro Creatore, non potremmo
vivere bene adesso, e felici per sempre. Un uomo che pur essendo fornito
della forza della ragione, tramite la quale può conoscere, servire,
glorificare, e gioire del suo Fattore, vive senza Dio nel mondo (Ef 2:12), è
sicuramente l' essere più spregevole e miserabile sotto il cielo. II. Che
la divina rivelazione è necessaria alla vera religione, alla sua esistenza ed
al suo sostegno. La fede, senza la quale è impossibile piacere a Dio, non può
raggiungere alcuna perfezione solo nella contemplazione delle opere di Dio:
essa deve provenire dall'ascolto della parola di Dio (Ro 10:17). Senza quel
soprannaturale disvelamento che egli fa di se stesso, dei suoi pensieri e
della sua volontà, l'anima razionale, avendo ricevuto il fatale colpo della
caduta, non riesce a produrre e a nutrire una corretta conoscenza del grande
autore della sua stessa esistenza, né può provare la giusta riverenza o
manifestare la giusta fede in lui, cose che sono insieme il suo dovere e la
sua gioia. Fino al punto in cui può giungere, la luce naturale è senz'altro
di grande utilità, ma la divina rivelazione è necessaria a correggere i suoi
errori, ovviare alle sue insufficienze, aiutare laddove la conoscenza
naturale non può più soccorrere. Questo vale soprattutto per quello che
riguarda la via ed il modo attraverso il quale l' uomo si rialza dallo stato
della caduta, riguadagnando il favore del suo Creatore; favore che non può
non essere consapevole di aver perduto, realizzando per triste esperienza che
il suo stato presente è peccaminoso e miserabile. La ragione ci mostra la
ferita, ma nulla di meno della divina rivelazione potrà rivelarci il rimedio
nel quale possiamo confidare. L' esempio e la natura di quelle nazioni della
terra che (a parte qualche piccola reminiscenza della divina istituzione dei
sacrifici trasmessa loro attraverso i padri) non possono affidare le loro
pratiche religiose che al governo della luce naturale, mostrano chiaramente
quanto la divina rivelazione sia il necessario fondamento della religione.
Infatti, coloro che non ebbero la parola di Dio ben presto hanno persero Dio
stesso, diventando insensati nei loro ragionamenti su di lui, ed
incredibilmente indegni ed assurdi nell'adorazione e nel culto. È vero, gli
ebrei, che avevano il beneficio della rivelazione divina, caddero talvolta
nell' idolatria, e consentirono corruzioni molto grossolane; tuttavia, con
l'aiuto della legge e dei profeti, si ravvidero e si riformarono. Al
contrario, la migliore e più osannata filosofia dei pagani nulla poté contro
la volgare idolatria, nonostante si proponesse di abolire almeno qualcuno di
quei riti barbari e ridicoli, scandalo e condanna del genere umano. Che gli
uomini, dunque, deisti o atei, affermino ciò che vogliono: coloro che
osannando quelli della ragione, disprezzano gli oracoli di Dio e li
reputano superflui, minano le fondamenta d'ogni religione, e fanno tutto ciò
che possono per interrompere il dialogo fra l'uomo e il suo Creatore,
ponendo quella nobile creatura allo stesso livello delle bestie che
periscono. III. Che la divina rivelazione non può essere rinvenuta né può
trovare coerenza che nelle e con le pagine dell'Antico e del Nuovo
Testamento, dove, in effetti, essa si trova. È vero, anche prima della parola
scritta c'era una religione ed una divina rivelazione; ma argomentare per
questo che le Scritture non siano adesso necessarie, sarebbe assurdo come
affermare che il mondo potrebbe benissimo fare a meno del sole, visto che
nella creazione quello fu formato, come la stessa luce, tre giorni prima di
questo. Nel momento in cui furono date, le divine rivelazioni ricevettero
conferma per mezzo di visioni, miracoli e profezie; ma era necessario che
fossero trasmesse, insieme alle prove ed alle dimostrazioni che le
accompagnavano, a luoghi remoti ed alle età future, e che ciò avvenisse per
mezzo della forma scritta, il più sicuro sistema di comunicazione, attraverso
il quale è preservata e propagata la conoscenza d'ogni cosa memorabile.
Abbiamo motivo di ritenere che anche i dieci comandamenti, sebbene promulgati
con tanta solennità sul Monte Sinai, sarebbero stati perduti e dimenticati
già da molto tempo, se fossero stati affidati solo alla tradizione e non
fossero mai stati messi per iscritto: ciò che rimane è ciò che viene scritto.
La Scrittura non è redatta come un sistematico trattato di teologia,
secundum artem - secondo i canoni, ma sfruttando molte forme letterarie
(storie, leggi, profezie, canti, lettere, ed anche proverbi), in tempi
diversi e da molte mani, come la Divina Saggezza ritenne opportuno. Lo scopo
viene di fatto raggiunto; alcune cose vengono senz'altro date per presupposte
e scontate, ed altre sono specificatamente rivelate e rese note. Tutto
l' insieme ci trasmette sufficiente conoscenza circa le verità e le leggi
della santa dottrina che dobbiamo professare e dalla quale dobbiamo
essere diretti. È certo che ogni scrittura è ispirata da Dio (2 Ti 3:16) e
che degli uomini hanno parlato da parte di Dio, perché sospinti dallo
Spirito Santo (2 P 1:21), ma chi può pretendere di spiegare l'ispirazione?
Nessuno conosce le vie dello Spirito, né come si formarono i pensieri nei
cuori di coloro che furono ispirati, non più di come possiamo conoscere il
modo in cui l'anima vive nel corpo, o di come si formino le ossa in seno alla
donna incinta (Ec 11:5). Possiamo tuttavia essere certi del fatto che non
solo il benedetto Spirito preparò e qualificò per tale servizio i redattori
di quelle pagine, mettendo nel loro cuore il proponimento di scriverle,
ma venne anche in soccorso della loro intelligenza e memoria, quando
dovettero registrare le cose delle quali avevano conoscenza diretta,
proteggendo efficacemente dagli errori e dalle sviste. Per quanto riguarda i
fatti che essi stessi non potevano conoscere se non per rivelazione (vedi, ad
esempio, Ge 1 e Gv 1), lo stesso benedetto Spirito ne diede loro chiara
e soddisfacente conoscenza. E non v'è dubbio che quando ciò si rese
necessario per il fine prefissato, essi furono diretti dallo Spirito anche
nella scelta del linguaggio e delle espressioni da usare. Infatti, si
trattava di parole insegnate dallo Spirito (1 Co 2:13) e Dio stesso disse al
profeta: «Riferisci loro le mie parole» (Ez 3:4).Tuttavia, quando ci
accostiamo alla legge, non è essenziale per noi discernere quanta libertà ci
si prese, dal punto di vista letterale, nel redigerla: una volta ratificata,
la norma diventa atto del legislatore, ed obbliga i suoi destinatari ad
osservarne il vero scopo e significato. La Scrittura dimostra la propria
autorità ed origine divina sia ai savi che agli ignoranti. Ai meno saggi ed
eruditi, tali caratteri vengono ampiamente palesati dai miracoli narrati da
Mosè e dai profeti, da Cristo e dagli apostoli, prodigi che confermano la
sua autenticità e la validità delle norme che essa contiene: immaginare che
il sigillo divino sia stato apposto sopra una bugia sarebbe
un'intollerabile affronto alla Verità eterna. Ma ai più saggi ed avveduti, ai
più prudenti e riflessivi, essa raccomanda se stessa per le sue innate
eccellenze: caratteri che servono a dimostrarne l'origine divina. Se
guardiamo con attenzione, coglieremo facilmente l'impronta di Dio ed il
sigillo suo. Una mente correttamente disposta in umile e sincera soggezione
al proprio Fattore scoprirà senza difficoltà l'impronta della sapienza di
Dio, nelle meravigliose profondità dei suoi misteri; l'impronta della sua
sovranità, nell'autorevole maestà dello stile; l'impronta dell'unità,
nella meravigliosa armonia e simmetria delle varie parti; l'impronta
della santità, nella purezza senza macchia dei suoi precetti; e l'impronta
della sua bontà, nel chiaro disegno complessivo, inteso al benessere ed
alla felicità dell'umanità in questo e nell'altro mondo. In altre parole, è
un' opera che si raccomanda da sé. Quindi, sia atei che deisti, anche se
si vantano orgogliosamente della loro ragione, come se la saggezza
dovesse morire con loro, incorrono nella più grossolana e disonorevole
assurdità che si possa immaginare. Infatti, se la Scrittura non è la parola
di Dio, non v' è alcuna divina rivelazione nel mondo, né alcun disvelamento
dei pensieri di Dio riguardo ai nostri doveri ed alla nostra felicità: e
quindi, per quanto un uomo possa essere desideroso ed ansioso di fare la
volontà del suo Creatore, sarà irrimediabilmente destinato a perire
ignorandola, visto che non c'è altro libro che si assuma il compito di
esporla. Questa è una conclusione che in nessun modo possiamo conciliare con
l'idea che abbiamo della divina bontà. Oltre a ciò (ed anche questa non è
assurdità meno grossolana) se le Scritture non sono la divina rivelazione,
allora sono sicuramente un grande inganno tramato ai danni di tutto il mondo.
Ma un tale pensiero non avrebbe alcun fondamento. Infatti, degli uomini
malvagi non avrebbero mai scritto un libro tanto buono, né Satana poteva
essere così astuto da aiutare a cacciare Satana; e uomini sinceri non
avrebbero mai fatto una cosa tanto empia, quale quella di contraffare il
sigillo celeste, usandolo per legittimare il prodotto dei propri pensieri,
per quanto santi tali pensieri protessero essere. No, queste non son parole
di un indemoniato (Gv 10:21). IV. Che le scritture dell'Antico e del
Nuovo Testamento sono state specificamente pensate per il nostro
insegnamento. Se fosse stata una rivelazione utile solo a quelli nelle cui
mani fu data da principio, noi, che, che ne siamo così lontani, non dovremmo
più preoccuparcene. Al contrario, quelle parole furono sicuramente intese ad
essere d'utilità e ad avere valore normativo nei confronti di tutti quelli
che, in ogni luogo ed età, ne fossero venuti a conoscenza, anche fino agli
estremi confini del mondo (Vedi Ro 15:4). Sebbene non ci troviamo sotto la
legge (in tal caso, essendo colpevoli, dovremmo inevitabilmente perire per
effetto della sua maledizione), non si tratta di statuti superati. Al
contrario, è la permanente dichiarazione della volontà di Dio riguardante il
bene ed il male, il peccato ed il dovere. La sua pretesa d'ubbidienza è come
sempre pienamente in vigore. A noi come a loro (cui all'inizio fu trasmessa)
è stata annunziata una buona novella (quella della legge rituale), in
maniera molto più chiara (Eb 4:2). I racconti dell'Antico Testamento furono
scritti per nostra ammonizione e direzione (1 Co 10:11), e non solo per
nostra informazione o per il diletto dei curiosi. I profeti, anche se sono
morti da così lungo tempo, continuano a profetizzare, attraverso i loro
scritti, sopra molti popoli e nazioni (Ap 10:11), e le esortazioni di
Salomone parlano a noi come ai suoi stessi figli. Il soggetto della Sacra
Scrittura è universale e perpetuo, e quindi, è di interesse generale. Il
suo scopo è: 1. Ridare vita alle leggi di natura, universali e perpetue, le
cui vestigia (o meglio, rovine) che si trovano nella coscienza naturale ci
esortano a ricercarne altrove una più evidente esposizione. 2. Rivelare
la legge della grazia, universale e perpetua, nella quale abbiamo motivo di
sperare, se consideriamo la generale benevolenza usata da Dio nei confronti
dei figli degli uomini, manifestata nel fatto di averli posti in una
situazione migliore di quella in cui si trovano i demoni. Allo stesso modo,
la divina autorità, che in questo libro comanda la nostra fede ed ubbidienza,
è universale e perpetua, e non conosce limiti, né di tempo, né di spazio. Da
questo deriva che ogni nazione ed età cui questi sacri scritti vengono
trasmessi è obbligata a riceverli con la stessa venerazione e lo stessa pia
considerazione che essi comandavano quando furono introdotti la prima volta.
Sebbene Dio, in questi ultimi giorni, abbia parlato a noi mediante il suo
Figliuolo, non dobbiamo tuttavia pensare che quello che egli disse in molte
volte e in molte maniere ai padri (Eb 1:1) non sia più di alcuna utilità per
noi, o che l'Antico Testamento non sia altro che una vecchia storia senza
attualità. No. Noi siamo stati edificati sul fondamento dei profeti, così
come su quello degli apostoli, essendo Cristo Gesù stesso la pietra angolare
(Ef 2:20), nella quale si incontrano ed uniscono entrambi i lati di questo
benedetto edificio. Cristo e gli apostoli fecero spesso riferimento e si
appellarono a quelle istituzioni dell'antica comunità ebraica, ordinandoci di
investigarle e tenerle presenti. Come i funzionari di Giosafat (2 Cr 17:9), i
predicatori del vangelo portavano con sé questo libro della legge dovunque
andassero, e se ne servivano ampiamente quando parlavano a coloro che avevano
conoscenza della legge (Ro 7:1). La famosa traduzione dell'Antico Testamento
in lingua greca, realizzata dai Settanta, fra 200 e 300 anni prima della
nascita di Cristo, fu per le nazioni una felice preparazione al vangelo,
realizzata tramite la diffusione della conoscenza della legge. Infatti, così
come il Nuovo Testamento spiega e completa l'Antico, e quindi lo rende più
utile a noi di quanto non fosse alla comunità ebraica, allo stesso modo,
l'Antico Testamento conferma ed illustra il Nuovo e mostra che Gesù Cristo è
lo stesso ieri, oggi e per sempre. V. Che le Sacre Scritture non furono
pensate solo per il nostro insegnamento, ma costituiscono il corpo delle
regole stabilite per governare la nostra fede e la nostra vita pratica,
quelle norme dalle quali, al tempo presente, dobbiamo essere diretti, e fra
breve, giudicati. Questo non è solo un libro di generiche meditazioni (tali
possono essere gli scritti degli uomini saggi e buoni), ma è un'autorità
sovrana e normativa, lo statuto del regno di Dio, che dobbiamo osservare in
virtù del patto di fedeltà che abbiamo giurato a lui, nostro Signore supremo.
Sia che ascoltiamo, sia che non ascoltiamo (Ez 2:5), occorre che ci si dica
che questo è l'oracolo che dobbiamo consultare e dal quale dobbiamo essere
condotti, la pietra di paragone che ci misura e che prova le nostre dottrine,
la regola alla quale dobbiamo guardare per adeguare ad essa ogni sentimento e
condotta e per prendere tutte le decisioni. Questa è la testimonianza, la
legge chiusa e sigillata fra i discepoli, quella parola che, se non parliamo
in accordo ad essa, è perché non vi è per noi alcuna aurora (Is 8:16,20 -
trad. King James). Farci governare dalla luce interiore, che per natura non è
che tenebra, e che quando sia toccata dalla grazia non può che essere una
copia della parola scritta, alla quale deve conformarsi, sarebbe come porre
il giudice al di sopra della legge. Lasciare che le tradizioni della
chiesa rivaleggino con le Scritture non sarà certo meglio: sarebbe come se
si permettesse all'orologio, che ognuno può regolare avanti o indietro
a proprio piacimento, di correggere il sole, fedele misuratore del tempo e
dei giorni. Se tali assurde posizioni prendono piede, migliaia di persone
le abbracciano, come ben sappiamo per nostra triste esperienza. VI. Che
per tali ragioni è dovere di tutti i cristiani studiare con diligenza le
Scritture, ed è compito dei ministri guidarli ed assisterli in questo. Questo
libro di libri, per quanto possa essere utile in se stesso, non produrrà
alcun bene a noi, se non acquistiamo familiarità con esso, leggendolo e
meditandolo giornalmente, in modo da comprendere in esso i pensieri di Dio,
applicando a noi stessi le cose che apprendiamo, per nostra direzione,
rimprovero, conforto, secondo l'occasione. È nel carattere dell' uomo santo e
felice di trovare diletto nella legge del Signore. A riprova di questo, egli
si intrattiene con essa come col suo abituale compagno, e ne trae
suggerimenti come dai suoi più saggi e fidati consiglieri. Infatti, su quella
legge medita giorno e notte (Sl 1:2). Ci dobbiamo preoccupare di essere
versati nelle Scritture e di renderci tali attraverso la lettura costante e
l'attento studio, rivolgendo a Dio fervide richieste per ricevere il dono
promesso dello Spirito Santo, il cui ufficio è di rammentarci tutte le cose
dette da Cristo (Gv 14:26), di modo che possiamo avere a portata di mano
l'una o l'altra buona parola, che ci sia utile nel parlare a Dio,
nelle conversazioni con gli uomini, nel resistere a Satana e nella
meditazione personale. In tal modo saremo resi capaci, insieme al buon
padrone di casa, di tirar fuori da questo tesoro, cose nuove e cose vecchie
(Mt 13:52), per la gioia e l'edificazione nostra e degli altri. Se c'è
qualcosa che può rendere l'uomo di Dio, compiuto in questo mondo, che possa
perfezionare un semplice cristiano o un ministro, che possa appieno fornirlo
per ogni opera buona (2 Ti 3:17), non può che essere questa. Dobbiamo anche
preoccuparci di essere potenti nelle Scritture proprio come era Apollo (At
18:24). Questo vuol dire che dobbiamo avere piena dimestichezza con il loro
vero scopo e significato, in modo da comprendere ciò che leggiamo, senza
interpretarlo o applicarlo male, ma, attraverso la guida del benedetto
Spirito, essendo condotti in tutta la verità (Gv 16:13), attendendo a queste
cose con fede e con l'amore (2 Ti 1:13), intendendo ogni parte della
Scrittura secondo lo scopo per cui fu concepita. Senza lo Spirito, la
lettera, della legge o del vangelo, giova a ben poco. I ministri di Cristo,
quindi, sono ministri dello Spirito per il bene della chiesa; il loro
servizio consiste nello spiegare ed applicare correttamente le Scritture.
Perciò, essi devono affinare la loro conoscenza, le loro dottrine, devozioni,
direzioni, ammonizioni, e dunque il loro stesso linguaggio e la loro
attitudine. Nei primi e più puri anni della chiesa, spiegare le Scritture era
il modo più frequente di predicare. Che cosa dovevano fare i leviti, se non
insegnare gli statuti a Giacobbe (De 33:10), e cioè, non solo leggerli, ma
anche darne il senso, per far capire al popolo quel che s'andava leggendo
(Nehemia 8:8) E come avrebbero potuto capire, senza alcuno che li guidasse
(At 8:31) Così come i ministri saranno difficilmente creduti, se dietro di
loro non c'è la Bibbia, allo stesso modo, difficilmente si potrà comprendere
la Bibbia, se non ci sono ministri che la spiegano; ma se pur disponendo di
entrambi, periamo nell'ignoranza e nell'incredulità, il nostro sangue ricadrà
sul nostro stesso capo. Essendo quindi profondamente convinto di queste
cose, ne concludo che qualunque aiuto offerto ai buoni cristiani nel loro
studio delle Scritture è un servizio che in verità viene reso alla gloria di
Dio e a vantaggio del suo regno fra gli uomini. Questo è ciò che mi ha
indotto a questa impresa, nella quale sono andato avanti con debolezza, con
timore e con gran tremore (1 Co 2:3), temendo di trattare cose troppo alte
per me, e che un'impresa tanto lodevole dovesse ricevere danno da una
maldestra gestione. A chi voglia sapere come mai mi sia avventurato in un
lavoro così imponente, io, così basso ed oscuro, inferiore al minino di tutti
i servi del mio Signore per istruzione, giudizio, felicità d'espressione ed
ogni altra dote necessaria a questo genere di fatica, non posso dare altra
spiegazione che questa: è sempre stata mia abitudine, nel poco tempo che mi
rimane libero dalla preparazione per il pulpito, di dedicarmi al commento di
varie parti del Nuovo Testamento, non solo per mia utilità, ma ancor più per
mio diletto. Non saprei, infatti, come impiegare in modo più soddisfacente
i miei pensieri ed il mio tempo. Trahit sua quemque voluptas - Ogni
studioso ha qualche materia prediletta, che gli dà gioia al di sopra d'ogni
altra. E questa è la mia. È quell'apprendimento che era la mia felicità sin
da quando, ragazzo, ero educato dal mio onorato padre, la cui memoria mi
sarà sempre molto cara e preziosa: egli mi ricordava spesso che un
buon conoscitore dei testi sacri è un buon teologo, e che dovevo leggere
gli altri libri sempre sotto la luce di questo, in modo da essere quanto
più possibile capace di comprendere ed applicare la Scrittura. Mentre
ero intento in tali cose, fu pubblicato il commentario del signor Burkitt
(prima dei Vangeli, poi degli Atti degli Apostoli), che ebbe molto successo
fra le persone avvedute e che sicuramente continuerà, per la benedizione di
Dio, a rendere un grande servigio alla chiesa. Poco dopo che egli aveva
finito quel lavoro, piacque a Dio di chiamarlo presso il suo riposo. A
seguito di ciò, fui incoraggiato da parte di alcuni amici, mentre io stesso
v'ero propenso, a tentare analoga impresa con l'Antico Testamento, nella
forza della grazia di Cristo. Questo commento che riguarda il Pentateuco
viene umilmente offerto come un saggio. Se troverà favore e sarà ritenuto in
qualche modo utile, è mio proponimento, in dipendenza dell'aiuto divino,
continuare, fino a quando Dio mi darà vita e salute, secondo quello che mi
sarà consentito dagli altri miei impegni. So che nella nostra lingua abbiamo
molti sussidi di questo genere, che abbiamo ogni motivo di apprezzare e per i
quali dobbiamo essere molto grati a Dio: ma la Scrittura è un soggetto che
non può mai essere esaurito. Semper habet aliquid relegentibus - ogni volta
che la leggiamo, troviamo sempre qualcosa di nuovo. Dopo che Davide ebbe
ammassato un grande tesoro per la costruzione del tempio, disse tuttavia a
Salomone: «Tu ve ne potrai aggiungere ancora» (1 Cr 22:14). La conoscenza
della Scrittura è un tesoro tale da poter sempre essere incrementato, fino
a quando tutti noi non giungiamo alla perfezione. La Scrittura è un campo,
o una vigna, che richiede il lavoro di molte mani ed intorno alla quale si
può impiegare una grande diversità di doni e di operazioni, ma, notiamo,
sempre per il medesimo Spirito (1 Co 12:4,6) e per la gloria di un
medesimo Signore. Gli studiosi di lingue e degli antichi usi sono stati molto
utili alla chiesa (la benedetta affittuaria di questo campo) con le
loro approfondite e complesse ricerche circa i vari prodotti, la
conformazione delle piante, gli interessanti studi che hanno prodotto al
riguardo. Per la fede, la critica filologica è stata molto più utile della
filosofia delle accademie teologiche, ed ha gettato, sulle sacre verità,
molta più luce di quanto quella non abbia fatto. Anche i dotti polemisti
hanno reso un grande servizio, nel difendere il giardino del Signore contro i
violenti attacchi delle potenze delle tenebre, sostenendo vittoriosamente la
causa delle Sacre Scritture contro gli oltraggiosi cavilli degli atei e dei
deisti, e le beffe profane di questi nostri ultimi giorni. È giusto che
costoro siano onorati e lodati, come in effetti sono, in tutte le chiese.
Tuttavia, la fatica dei vignaioli e dei contadini, i poveri del paese, coloro
ai quali viene affidata la terra per raccoglierne i frutti (1 R 25:12), non è
meno necessaria e di beneficio alla casa di Dio, in quanto consente che
ciascuno riceva la sua giusta porzione, a suo tempo, del prezioso prodotto
della conoscenza. Questa è la fatica alla quale ho posto mano, secondo la
mia capacità. E così come i semplici predicatori e i divulgatori non diranno
mai degli eruditi che non c'è bisogno di loro, così, si spera che quegli
occhi e quei capi non diranno alle mani e ai piedi: «Non ho bisogno di voi»
(1 Co 12:21). Ultimamente, gli studiosi hanno ricevuto grande utilità nei
loro studi su questa parte dei sacri scritti, in virtù dell'eccellente e
validissimo lavoro di quell'uomo grande e buono, il vescovo Patrick, al quale
le età future non mancheranno di attribuire un posto fra i tre più
grandi commentatori, in forza della sua vasta cultura, del solido giudizio e
della felicissima applicazione di tali virtù agli studi, continuata anche
quando era già avanzato di età e di onori. Dio sia benedetto per lui. Le
"English Annotations", del sig. Pool (che contenendo così tante impronte
diverse, possiamo supporre siano il prodotto di molte mani) sono di
ammirevole utilità, specialmente nella spiegazione di certe espressioni
scritturali, di cui aprono il senso, facendo i riferimenti ai passi
paralleli, ed eliminando le difficoltà che possono sorgere. Quindi sono stato
conciso su tutti quei punti che sono già stati ampiamente discussi, e mi sono
impegnato, per quanto ho potuto, a non includere quello che si poteva trovare
in quelle fonti. Infatti, non volevo actum agere - fare quello che già era
stato fatto, né (se m'è consentito prendere in prestito le parole
dell'apostolo), gloriarmi . di cose bell'e preparate (2 Co 10:16). Quelle
"annotazioni" sono di più facile consultazione quando si utilizzano, secondo
l'occasione, per spiegare l'una o l'altra delle parole o frasi alle quali si
riferiscono e che ci si propone di approfondire, ma un'esposizione come la
presente, posta sotto forma di discorso continuo ed organizzato per capitoli,
è più facile e pratica da leggere di seguito, sia per lo studio personale,
sia per l' insegnamento. Credo che il tener conto della connessione di
ciascun capitolo (là dove possibile) con quello che precede, l'esposizione
dello scopo generale e dello sviluppo del racconto o del discorso, il
compendio delle varie parti fatto in modo che si possano tutte abbracciare
con una sola occhiata, saranno caratteristiche che contribuiranno molto alla
comprensione e daranno piena percezione del proposito generale, anche se qua
e là ci possono essere parole ed espressioni difficili che neppure i
migliori esperti riescono bene a spiegare. Questo è quello che ho cercato di
fare. Tuttavia, noi non ci preoccupiamo solamente di capire quello che
leggiamo, ma anche di utilizzarlo per qualche buon fine, di esserne toccati
e trasformati. La parola di Dio è destinata ad essere non solo una lampada
al mio piè, ossia, l'oggetto della nostra contemplazione, ma anche una luce
sul mio sentiero (Sl 119:105), per dirigerci sulle vie del dovere ed
impedirci di allontanarcene per via. Quindi, mentre studiamo le Scritture,
non dobbiamo solo domandarci «Che significa questo?», ma anche «Che
significa questo per noi?». Quale buon uso possiamo farne? Come possiamo
applicarlo a qualcuno degli scopi di quella vita divina e celeste che, per la
grazia di Dio, abbiamo deciso di vivere? È a domande di questo genere che mi
sono proposto di rispondere. Giacché la pietra è stata rimossa dalla bocca
del pozzo, attraverso la spiegazione letterale del testo, ci sono poi quelli
che vogliono bere essi stessi ed abbeverare le loro greggi? O si lamentano
che il pozzo è profondo e che non hanno nulla per attingere e quindi non
possono avere cotest'acqua viva (Gv 4:11) Forse alcuni di loro qui
potrebbero trovare una secchia, o dell'acqua già attinta per loro. In quanto
a me, sarei ben felice di avere solo il compito dei Gabaoniti: attingere
acqua per tutta la raunanza, dal pozzo della salvezza (Gs
9:21). L'obiettivo della mia esposizione è di dare quello che ritengo il
senso vero, e di renderlo quanto più possibile accessibile a tutti, non
mettendo in difficoltà i miei lettori con le diverse vedute degli scrittori,
il che sarebbe stato come riproporre la "Latin Synopsis" del sig. Pool, dove
tutto questo è ampiamente fatto, per nostra soddisfazione ed utilità. Per
quanto riguarda le osservazioni pratiche, non mi sono obbligato a tirar
fuori dottrine da ogni versetto o paragrafo, ma mi sono sforzato di inserire
nella spiegazione quegli appunti o quelle note che ho ritenuto utili a
insegnare, a riprendere, a correggere, a educare alla giustizia (2 Ti 3:16),
cercando, in ogni cosa, di promuovere la santità pratica e di evitare
accuratamente materie di contrasto o dispute di parole. Solo il successo
della potenza della religione nei cuori e nelle vite dei cristiani riuscirà a
fare piazza pulita dei nostri mormorii, trasformando il deserto in campo
fruttifero. E poiché il nostro Signore Gesù Cristo è il vero tesoro nascosto
nel campo dell'Antico Testamento, ed è l'Agnello ucciso sin dalla fondazione
del mondo (Ap 13:18 - trad. King James), sono stato attento ad osservare cosa
Mosè, cui tante volte egli si appellò, scrisse di lui. Negli scritti dei
profeti ci imbattiamo nella maggior parte delle promesse più chiare ed
esplicite riguardanti il Messia e la grazia del vangelo, ma qui, nei libri di
Mosè, troviamo una maggiore quantità di tipi, oggetti o persone che
rappresentano colui che doveva venire, ombre raffiguranti la realtà
dell'essenza di Cristo (Ro 5:14). Coloro che vivono in Cristo vi troveranno
cose molto istruttive e coinvolgenti, che saranno di grande impulso alla
fede, all'amore, alla santa gioia. Questo è quello che soprattutto cerchiamo
nelle Scritture: la loro testimonianza di Cristo e della vita eterna (Gv
5:39). Né si può dubitare della correttezza di quest'applicazione delle
istituzioni rituali a Cristo ed alla sua grazia, argomentando sul fatto che
coloro alle quali tali cose furono primieramente date non potevano
discernerne il senso o l'utilità. Semmai, questa è una ragione per cui
dovremmo essere molto grati, giacché il velo che era davanti a loro quando
leggevano l'Antico Testamento è stato abolito in Cristo (2 Co 3:13:14:18).
Sebbene essi non potessero fissare lo sguardo nella fine di ciò che doveva
sparire, questo significa solo che noi, essendo stati felicemente forniti di
una chiave che ci consente di penetrare questi misteri, possiamo contemplare
come in uno specchio, la gloria del Signore. E tuttavia, forse, nei loro
rituali i giudei pii videro del vangelo molto più di quello che noi stessi
possiamo pensare. Se non altro, essi vissero la generale attesa di
benedizioni che dovevano ancora venire, contando sulle promesse fatte ai
padri, con una fede simile a quella che noi oggi viviamo riguardo alla
felicità del cielo. Tutto ciò, anche se di queste cose non potevano avere una
percezione molto più chiara e distinta di quella che noi stessi possiamo
avere del mondo a venire. Le nostre idee circa lo stato futuro sono forse
altrettanto scure e confuse, con così poca verità e alquanto lontane d'essa,
come quelle che essi stessi coltivavano circa il regno del Messia. Ma Dio
richiede soltanto una fede proporzionata alla rivelazione che egli dà. Ad
essi, dunque, non si può chiedere conto, se non per la luce che hanno
ricevuto, mentre da noi si può pretendere di più, in ragione della luce ben
più grande che abbiamo nel vangelo, per effetto del quale, possiamo trovare
di Cristo, anche nell'Antico Testamento, molto di più di quello che essi
stessi poterono riconoscere. Se qualcuno pensa che talvolta le nostre
osservazioni possano prendere spunto da particolari troppo minuti, ricordi
quella massima rabbinica: Non est in lege vel una liters a qua non pendent
magni montes - La legge non contiene una sola lettera che non possa sostenere
il peso di una montagna intera. Siamo certi che nella Bibbia non c'è una sola
parola oziosa. Vorrei che il lettore non solo leggesse il testo biblico, per
intero, prima di leggere il commento, ma, riguardasse di nuovo i vari
versetti ai quali via via si fa riferimento nell'esposizione, per avere una
migliore comprensione di quello che va leggendo. E se ne avrà il tempo,
troverà utile andare a guardare i passi ai quali talvolta, per amore di
brevità, si fa soltanto un semplice riferimento, confrontando cose spirituali
a cose spirituali. Lo scopo dichiarato dalla Mente Eterna, in tutte le
operazioni dei suoi proponimenti e della sua grazia, è di rendere la sua
legge grande e magnifica (Is 42:21), o meglio, di magnificare la sua parola
oltre ogni rinomanza (Sl 138:2), di modo che quando preghiamo «Padre,
glorifica il tuo nome», intendiamo dire, fra l'altro «Padre, magnifica le
Sacre Scritture». Possiamo essere certi che ad una tale preghiera, fatta con
fede, sarà data la stessa risposta che il nostro benedetto Salvatore
ricevette quando egli stesso pregò similmente, avendo particolare riguardo
all'adempimento delle scritture che riguardavano la sua passione: E l'ho
glorificato, e lo glorificherò di nuovo (Gv 12:28)! A questo grande progetto
desidero umilmente essere in qualche modo utile, nella forza della grazia in
virtù della quale sono quello che sono, sperando che tutto ciò che potrà
essere fatto per rendere la lettura delle Scritture più facile, piacevole ed
utile, sarà benevolmente accettato da colui che sorrise ai due soldi gettati
dalla vedova nella cassetta. E se l'obiettivo non fosse raggiunto che per
pochi, riterrei i miei sforzi ampiamente ricompensati, anche se da parte di
altri il mio lavoro dovesse essere disprezzato e vilipeso. Non ho altro da
aggiungere, se non raccomandare me stesso alle preghiere dei miei amici, e
raccomandare loro alla grazia del Signore Gesù, mentre indegnamente riposo su
di essa, aspettando, per suo mezzo, la gloria che ha da essere
rivelata. Chester, 2 ottobre 1706 M.H.
La vita e il tempo di Pietro Martire Vermigli, riformatore
italiano
Fra i teologi riformati del XVI secolo, che possono
essere considerati padri della Riforma protestante, si ricordano generalmente
quelli francesi, svizzeri, e tedeschi. Non molti sanno, però, che fra di essi si
possono ricordare anche molti italiani, figure niente affatto marginali nella
storia del movimento protestante e che anzi hanno esse stesse influito
sull’opera dei "grandi Riformatori". Fra questi è importante ricordare Pier
Martire Vermigli, di cui ricorre nel 1999 il 500° anniversario della sua nascita
e che ha riscontrato un rinnovato interesse fra gli studiosi proprio in questi
ultimi decenni. Non che essi abbiano improvvisamente scoperto la sua esistenza,
ma essi hanno cominciato ad apprezzare il suo significato vitale per comprendere
il ramo riformato del Protestantesimo e la teologia riformata. Qualcuno, anzi, è
giunto ad affermare che Pier Martire Vermigli sia stato ancora più influente che
Calvino. Pier Martire Vermigli incarnò una rara combinazione nell’Europa del
16° secolo: un teologo cattolico-romano italiano che divenne uno dei maggiori
riformatori protestanti del suo tempo. Nessun altro teologo del 16° secolo si
distinse in modo così marcato in entrambi i campi. La sfera di influenza del
Vermigli si estese ad alcuni fra i maggiori centri del movimento di Riforma: la
Strasburgo di Bucero, l’Oxford dell’arcivescovo Cranmer (dove fu regio
professore di teologia dal 1547 al 1553) e la Zurigo del Bullinger. La sua
importanza fu tale che uno dei suoi contemporanei protestanti, Giuseppe Giusto
Scaligero, poteva dire: "I due più eccellenti teologi dei nostri tempi sono
Giovanni Calvino e Pietro Martire". Oltre a Calvino e a pochi altri, Vermigli è
ora riconosciuto come uno dei "codificatori" della teologia
riformata. Infanzia e gioventù Pier Martire Vermigli nacque a Firenze l’8
settembre 1499. Il fatto che il suo nome comprenda il termine "martire", non è
da intendersi nel significato corrente della parola, benché le tribolazioni a
cui dovette sottostare nei conflitti religiosi del suo tempo lo possano far
considerare anche tale. Il nome "Pier Martire", abbastanza comune fra gli
agostiniani, lo assunse egli stesso nel 1518, quando entrò nell’ordine dei
Canonici lateranensi. Si sa poco dei suoi primi anni della sua vita, eccetto
il suo persistente attaccamento alla Bibbia. Riflettendo sulla sua gioventù,
nella sua prolusione inaugurale a Zurigo nel 1556, Vermigli rivela: "Persino
nella mia gioventù, quando vivevo in Italia, c’era una sola cosa alla quale io
prestassi attenzione, oltre ad ogni arte ed ordinanza umana se non primariamente
imparare ed insegnare le Sacre Scritture, né io ebbi altro proposito di
conseguire". Seguendo questa convinzione, sebbene andasse contro la volontà
del padre, Vermigli si associò nel 1514 alla Congregazione Lateranense dei
Canonici Regolari di S. Agostino. Accademicamente precoce, il giovane
fiorentino fu mandato a studiare all’università di Padova, dove visse una
duplice esistenza intellettuale. Da un canto, nella facoltà di teologia
all’università, era sommerso da Aristotele; d’altro canto, nel suo monastero di
S. Giovanni di Verdara si era impregnato di umanesimo rinascimentale. I suoi
anni di studio a Padova culminarono nella sua ordinazione sacerdotale ed in un
dottorato in teologia (1526) e fu nominato predicatore agostiniano. Vermigli
come eminente teologo cattolico Durante la fase italiana della sua carriera
egli si distinse come eminente teologo, eloquente predicatore e riformatore
della morale. In tutte le città che visitava l’uditorio ammirava l’efficacia
della sua eloquenza. Già allora Vermigli credeva nella forza educatrice della
Parola. Non sorprende, perciò, l’insistenza con cui lamenta, già nel primo
scritto, proprio questo aspetto: "La predicazione è oggi messa da parte, benché
questo sia il principale ufficio apostolico… onde il gregge di Cristo o muore di
fame o è solo stentatamente e mal pasciuto. Si predica solo il breve e picciol
tempo della Quaresima… ma poi tutto il rimanente dell’anno si pensa solo a
passeggiare, gridare, cantare, sonare, senza udir parola che possa il misero
popolo edificare". Divenne il confessore di potenti prelati sotto Papa Paolo
III, probabilmente pure consulente del "Consilium de emendanda ecclesia" del
1537 e fu incaricato dal cardinale riformista Contarini, alla prima delegazione
che cercò la riconciliazione con i protestanti al Colloquio di Worms nel 1540.
Erano infatti quelli, anni di tensione e di rivolgimento all’interno della
Chiesa. Nell’Europa centrosettentrionale, da oltre un decennio, clero e laici si
trovavano in aperto dissidio con Roma. E in seno alla stessa Curia molti
auspicavano una riforma che emendasse i costumi, pur senza toccare la dottrina.
A queste forze rinnovatrici Vermigli si ricollegava, come predicatore prima e
come abate e priore poi. Nel frattempo aveva studiato a fondo il greco e,
cosa piuttosto rara a quei tempi, l’ebraico, completando il bagaglio culturale
che gli permetteva l’accesso diretto all’Antico e al Nuovo Testamento. Il
periodo a Napoli La trasformazione teologica del Vermigli iniziò durante il
periodo trascorso in un’abbazia di Napoli sotto l’influenza del riformatore
spagnolo Juan Valdés. Fu nel circolo napoletano del Valdés che Vermigli incontrò
il movimento italiano di riforma, e dove lesse per la prima volta riformatori
protestanti come Martin Bucero e Zwingli. Questo contribuì a riorientare in
senso evangelico-riformato le sue convinzioni e lì abbracciò per la prima volta
la dottrina fondamentale della giustificazione per sola fede. Il periodo a
Lucca Evidenze del suo riorientamento teologico si manifestarono a Lucca,
dove, nominato priore del convento di S. Frediano, in cui avevano già attecchito
le idee della Riforma, egli contribuì a farne, anche se solo per breve tempo,
"la più protestante città d’Italia" e dove stabilì, secondo Philip McNair, "la
prima ed ultima facoltà teologica riformata nell’Italia pre – tridentina". Non
si limitò, infatti, a richiamare i canonici all’osservanza della regola, ma si
dedicò intensamente all’educazione dei novizi. La sua scuola, frequentata anche
da eminenti cittadini laici, divenne un seminario di predicatori evangelici e un
centro di rinnovamento culturale. L’urto con Roma divenne inevitabile. Dopo
la bolla papale del luglio 1542 Licet ab initio fu ristabilita l’inquisizione
romana sotto il pugno di ferro del Cardinale Caraffa. Accusato di eresia e
invitato a discolparsi davanti al capitolo del suo ordine, piuttosto che
rimanere stritolato dagli ingranaggi dell’Inquisizione, preferì fuggire a nord,
oltre le Alpi, presso il nascente Protestantesimo Strasburgo, Zurigo ed
Oxford Quasi immediatamente dopo la sua apostasia della dottrina cattolica
nell’estate del 1542, fu catapultato in una posizione di preminenza come
studioso della Bibbia e teologo riformato. Assunse stabilmente la funzione di
teologo a Strasburgo e a Zurigo, ma i suoi quasi sei anni in Inghilterra furono
i più fruttuosi della sua carriera. Preceduto dalla sua fama di professore
erudito ed abile controversialista, accolse l’invito di trasferirsi ad Oxford,
in Inghilterra. L’arcivescovo Thomas Cranmer incaricò il Vermigli ad assumere la
cattedra di Regius Professor di Teologia all’università di Oxford (1547-1553).
Sostenne vigorosamente la dottrina eucaristica protestante nella famosa disputa
di Oxford nel 1549, si consultò con il vescovo Hooper nella controversia del
1550, assistette Cranmer nella revisione del Prayer Book del 1662, partecipò
alla formulazione dei 42 Articoli di Religione nel 1553, ed ebbe parte
prominente nel formulare le leggi ecclesiastiche inglesi, le cosiddette
Reformatio Legum Ecclesiasticarum negli anni 1551-1553 contribuendo in modo
decisivo alla riforma della Chiesa di Inghilterra. Numerosi allievi del Vermigli
divennero più tardi vescovi anglicani e i suoi scritti divennero punti
fondamentali di riferimento dei susseguenti teologi puritani. Vermigli,
teologo zurighese Il nome di Vermigli sarebbe stato oggi meglio conosciuto se
il suo soggiorno in Inghilterra non fosse stato troncato improvvisamente
dall’ascesa di Maria Tudor al trono nel 1553. La reazione seguita alla
restaurazione cattolica lo costrinse a fuggire a Strasburgo, dove giunse "come
scampato dalle fauci del leone". Qui l’atmosfera era profondamente mutata. La
corrente luterana aveva preso il sopravvento ed all’interno dell’università egli
si sentì sempre più emarginato. L’invito a trasferirsi a Zurigo, nella primavera
del 1556, gli parve una liberazione. Zurigo rappresentò per Vermigli il suo
punto di arrivo, l’ultima tappa del suo travagliato pellegrinaggio. Nel pieno
della maturità, circondato dalla massima stima, Vermigli lasciò forse qui le
tracce più profonde. Prossimo ormai ai 60 anni, malgrado la salute malandata,
insegna all’Università, si occupa delle comunità riformate italiana e inglese,
intrattiene un’intensa corrispondenza con Calvino e con i riformatori svizzeri,
tedeschi, francesi e polacchi. La sua presenza a Zurigo portò ad un crescente
ravvicinamento di questa chiesa con Ginevra, culminato nella Seconda Confessione
Elvetica del 1566, nelle cui formulazioni riaffiora qui e là, il pensiero del
Vermigli. La sua influenza La sua influenza non cessò con la sua morte,
sopravvenuta nel 1562. Continuarono ad operare i suoi scritti, che per oltre un
secolo conobbero una straordinaria diffusione. Si calcola che tra il 1533 e il
1656 siano apparse oltre 110 edizioni delle sue opere, che con l’eccezione del
giovanile "Catechismo" sono tutte in latino, intese, cioè, potremmo dire, ad
educare l’Europa. E continuarono ad operare gli allievi formatisi alla sua
scuola, convinti dalla parola del predicatore o educati nel paziente, assiduo
lavoro del maestro. Mancò forse al Vermigli un punto focale sul quale
concentrare la sua influenza, come l’ebbero Calvino a Ginevra o Bullinger a
Zurigo. Benché non dotato di grande originalità, egli merita di figurare tra i
grandi riformatori del XVI secolo come "il teorizzatore più sistematico e
conseguente delle dottrine zwingliano-calviniste". Di lui scrive lo storico
Cesare Cantù: "Non ebbe il fuoco di un Farel, non contribuì quanto Lutero,
Calvino o Bullinger a formare la Chiesa; ma… con la sua rara superiorità
sviluppò l’insegnamento e rese grandi servigi per lungo tempo a tutte le chiese
riformate, in ogni parte d’Europa": Piccolo di statura, gracile di
costituzione, viso rincagnato, carattere schivo, aveva tutti i punti per finire
inosservato i suoi giorni, senza lasciare tracce nella storia. E invece ne ha
lasciate, e profonde. Mite di carattere, amante della pace, gli eventi lo
portarono a vivere in mezzo a controversie e conflitti. Ebbe il coraggio di non
tirarsi indietro. Nel suo agire fu coerente e sincero. Soprattutto fu, come
scrive di lui il Ruffini, "la testa teologica forse più forte di tutta
l’emigrazione italiana". Contributi alla teologia riformata Possiamo
citare in particolare: il suo ruolo nella formulazione della dottrina della
giustificazione, della predestinazione e della Santa Cena, nel rapporto fra
filosofia e teologia, la sua influenza nella revisione del Prayer Book
anglicano, sulla teologia dell'Alleanza e sui susseguenti sviluppi del
Puritanesimo.
Opere di riferimento (in inglese) 1. Early
Writings.: M. Di Gangi, Joseph C. McLelland, Philip McNair Early
Writings-biographica1 essay by Philip M. J. McNair; The Apostles' Creed; Theses
for Debate, propositions on the Pentateuch prepared for his students at
Strasbourg, 1543-45; and The True Church (On Schism), an apologia for Martyr's
1542 flight into exile. 2. Dialogue on the Two Natures in Christ. John
Patrick Donnelly, S.J. Dialogue on the Two Natures in Christ--first Engligh
translation of a polemical work from the Reformed-Lutheran debate on Ubiquity
(vs. John Brenz). 3. Prayers from the Psalms. John Patrick Donnelly, S.J.
Prayers from the Psalms--Martyr's prayers on the Psalter display two sides,
Old Testament scholar and spiritual director. 4. Philosophical
Treatises.Joseph C. McLelland Philosophical Treatises--scholia on knowledge
of God, visions, human being, providence, and free will. 5. Justification
and Predestination. Frank A. James, III Justification and
Predestination--show Martyr's place in the complex debates on both justification
and predestination, particularly his debt to the schola Augustiniana moderna,
e.g. Gregory of Rimini. 6. Letters and Sermons.John Patrick Donnelly, S.J.
Letters and Sennons-conespondence with other Reformers as well as political
figures in England and Poland. Sermons and addresses on biblical and theological
subjects. 7. Commentary on Aristotle's Ethics. Emidio Campi, L. Wysocki
Commentary on Aristotle's Ethics--his Strasbourg lectures on the Nicomachean
Ethics illustrate the relation between philosophy and theology, and enlighten
the debate on "Reformed Aristotelianism." 8. Commentary on
Lamentations.Daniel J. Shute Commentary on Lamentations--as Old Testament
scholar, Martyr used Hebrew text and rabbinic commentary, providing a fresh look
at a little explored area ofRenaissance and Reformation. 9. Commentary on
Romans.Frank A. James, III Commentary on Romans-an influential text in 16th
and 17th centuries, with numerous scholia on disputed points of doctrine.
10. Oxford Disputation and Treatise.Joseph C. McLelland Oxford
Disputation and Treatise--the 1549 debate and the treatise written immediately
after. Illustrative of the position guiding Cranmer in his Prayer Book revision.
11. Commentary on I Corinthians.Marvin W. Anderson, et al. Commentary on
I Corinthians--Martyr' s lectures at Oxford during the 1549 Prayer Book
controversy. Key to his eucharistic exegesis. 12. Commentary on Judges.
Robert C. Culley, Joseph C. McLelland Commentary on Judges--significant for
the typological exegesis and theology of history characteristic of covenant
theology and Puritan developments.
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