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STORIA DELLA
CHIESA - RIFORME
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RIFORME VARIE NELLA
STORIA DELLA CHIESA |
RIFORMA IN BREGAGLIA Prefazione La presente esposizione si articola in tre
parti: • Un percorso lungo varie stazioni, da San Gaudenzio presso
Gasacela fino l confine con l’Italia • Un’esposizione nella chiesa di
Castasegna e • Un’esposizione a Chiavenna. Le varie stazioni del
percorso illustrano temi diversi, senza tenere conto dell’insieme. Lo
svolgimento storico potrebbe cosi essere un po’ confuso. Con il presente saggio
tentiamo quindi di dare una visione d’insieme sulla storia della Valle e delle
sue chiese, dalla Riforma in poi. Speriamo che i diversi aspetti
dell’esposizione possano cosi ordinarsi più facilmente nell’insieme. Che
cos’è la Riforma? Il termine “Riforma” indica bene il suo significato: si
tratta della vera forma che la chiesa deve ritrovare. Cristo è il centro al
quale essa sempre deve riferirsi. Spesso la sua forma è invece alterata da
desideri umani, troppo umani. Bisogna quindi riportare la chiesa a Cristo,
perché le dia la forma che Lui ha voluto. “Il più gran pregio della chiesa è che
essa non può mai disfarsi del suo fondatore” (Peter Bichsel). Gesù Cristo è
l’unica sorgente di salvezza: questo e il messaggio della Riforma. Chi vuole
reggere al cospetto di Dio, non può fare affidamento sulle sue forze, ma deve
affidarsi a Cristo. Qual e la tua unica consolazione in vita e in morte? Che
il corpo e l’anima mia, in vita e in morte, non appartengono a me, ma sono del
mio Salvatore, Gesù Cristo... (Dal Catechismo riformato di Heidelberg, dom.
1). I riformatori non ebbero mai l’intenzione di fondare una nuova chiesa.
Essi speravano che, proprio quella chiesa alla quale essi appartenevano dalla
nascita, potesse rinnovarsi. La scissione avvenne contro la loro volontà.
Riformare era per loro il compito d’ogni cristiano. Questo compito resta più che
mai attuale: confrontati con le sfide del nostro tempo, tutti noi siamo chiamati
a riformare la chiesa. “La vera unione trova in Te, Signore, il suo principio
e il suo fine. Ogni volta che ci hai dato pace e concordia Ti sei anche rivelato
come l’unico vincolo d’unione” (Giovanni Calvino). Come riconoscere la vera
forma della chiesa? I riformatori hanno indicato tre aspetti: Pregare insieme
di essere illuminati dallo Spirito Santo ascoltare la Parola di Dio quale e
testimoniata nelle Sacre Scritture rievocare Cristo mediante la Santa
Cena, La chiesa è una comunità che riunisce uomini e donne con doti diverse.
Ognuno dà il suo contributo. Le decisioni sorgono dal dialogo e dallo scambio
d’idee e non vanno prese dal singolo, bensì dalla comunità. Il fine e sempre
quello di dare alla chiesa la sua vera forma. La chiesa può sbagliare: ha
commesso degli errori e può tornare a commetterne. Essa, però, ha la promessa
che “Dio è fedele”. Egli porterà sempre la Sua Parola a manifestarsi. La chiesa
vive di risurrezioni. Confini, comuni e tribunali L’attuale confine fra la
Bregaglia e l’Italia, che corre lungo due affluenti della Maira a Castasegna,
risale all’imperatore Ottone I. Per assicurarsi il passaggio del Settimo, nel
960 egli assegnò il territorio superiore alla sovranità del vescovo di Coira.
Fino allora la Bregaglia aveva fatto parte della diocesi di Como, che mette
lungamente in questione questo confine, senza ottenerne però la rimozione. Il
vescovo delegava i diritti sulle strade a famiglie della Valle: ai Prevosti,
Torriani, Castelmur e Salis. Questi dovevano impegnarsi a garantire il transito
sul valico del Settimo. Un contratto del genere venne per esempio stipulato nel
1387 con la famiglia Castelmur. Il territorio si suddivide in due parti:
Sopraporta e Sottoporta. Il nome Porta designa la strozzatura fortificata sopra
Promontogno, dove una volta si riscuotevano i pedaggi stradali. Nel corso dei
secoli la Bregaglia acquistò una certa indipendenza nei confronti del vescovo di
Coira. A partire dal 14° secolo venne governata da un podestà locale. La regione
formava dapprima un’unica circoscrizione; nel 15° secolo questa si suddivise in
due comuni. Il comune di Sottoporta ebbe il suo tribunale amministrativo
indipendente. Il tribunale penale restava invece unificato ed aveva la sua sede
nel pretorio di Vicosoprano. Nel medioevo la Bregaglia formava un’unica
parrocchia. Nossa Donna a Castelmur, il promontorio che divide Sopraporta da
Sottoporta, era la chiesa madre della Valle. Vi risiedeva un arciprete, nominato
dal vescovo di Coira. Nei singoli villaggi esistevano piccole chiese o cappelle,
servite da cappellani. Nel 1520 ce n’erano otto. La Riforma portò profondi
cambiamenti nella struttura ecclesiastica. Il comune di Sopraporta s’apre per
primo ai moti riformatori. Già nel 1532 Bartolomeo Maturo vi fonda una comunità
riformata. Sottoporta aderisce alla nuova fede soltanto venti anni dopo. La
grande importanza che la Riforma attribuiva alle comunità locali, contribuisce
a dare loro una maggiore importanza. Nei singoli villaggi si nominarono dei
parroci; ci furono ben presto tre parroci a Sopraporta ed altrettanti a
Sottoporta. Nel 17° e nel 18° secolo si costruirono nuove chiese a Castasegna,
Stampa, Borgonovo, Vicosoprano e Gasacela. Il santuario di San Gaudenzio e la
chiesa parrocchiale di Nossa Dona vengono invece abbandonate e cominciano ad
andare in rovina. Solo nel 19° secolo rinacque l’interesse per i vecchi edifici.
Nel 1839 il barone Giovanni de Castelmur acquistò la zona fortificata della
Porta e la fece restaurare quale simbolo della Valle. La Riforma in
Bregaglia Fin da tempi remoti la Bregaglia e stata una via di comunicazione.
La strada che proviene da sud si biforca a Chiavenna: a sinistra conduce a nord
sopra il valico dello Spluga, a destra sopra il Settimo o il Maloja. I due
tracciati confluiscono a Coira per proseguire verso Zurigo e il Lago Bodanico.
Già nel quarto secolo la vai Bregaglia era percorsa da una strada romana ed essa
restò per secoli uno dei principali passaggi sopra le Alpi. La storia della
Bregaglia e indissolubilmente legata alla storia della sua strada. La Valle e
sempre stata aperta agli influssi provenienti sia da sud che da nord. Il
cristianesimo giunse in Bregaglia da sud (4° secolo). Uno dei più importanti
evangelizzatori fu Gaudenzio, vescovo di Vercelli, nell’Italia settentrionale.
Più strano è il fatto che pure la Riforma entrò in Valle da sud. La conversione
avvenne nella prima meta del 16° secolo ad opera di profughi italiani che erano
passati alla nuova fede. Il contatto con la Riforma a nord delle Alpi (Coirà,
Zurigo e Ginevra) si stabili solo in un secondo momento. All’epoca della Riforma
l’attuale Grigioni formava uno stato autonomo (Rezia) che comprendeva tré leghe:
la Lega Caddea, la Lega delle dieci Giurisdizioni e la Lega Grigia. Dall’inizio
del 16° secolo la Rezia dominava sulle terre soggette di Chiavenna, Bormio e
Valtellina. Le grandi potenze dell’epoca, sia la Spagna e l’Austria che la
Francia e Venezia, sollecitavano l’alleanza della Rezia per assicurarsi il
passaggio sulle Alpi. Nel 16° secolo la crescente repressione dei moti
riformatori in Italia spinse molti esuli verso la Repubblica retica. Il
messaggio della Riforma trovò un’eco, sia nelle Valli meridionali come pure nei
paesi soggetti; richiamò pero sempre maggiormente in causa anche le forze della
Controriforma. Nel corso dei torbidi dei Grigioni (1618-1639) la Rezia dovette
cedere temporaneamente alla Spagna il dominio sulle terre soggette; lo
riconquistò con il Capitolato di Milano (1639) a condizione che la pratica della
confessione riformata vi restasse vietata. Nell’era napoleonica il dominio
della Rezia su Chiavenna, Bormio e la Valtellina andò perso per sempre. Le terre
soggette passarono alla Repubblica Cisalpina per fare poi parte dell’attuale
Italia. Soltanto allora il confine a Castasegna divenne frontiera statale. La
Bregaglia si orienta sempre più verso nord. Quando il Grigioni entrò a far parte
della Confederazione (1803) la situazione cambia di nuovo: la capitale dove si
prendevano le decisioni di politica estera non era più Coira, bensì la lontana
Berna. Con l’apertura del Gottardo, i valichi del Settimo e del Maloja perdono
gran parte della loro importanza. La Bregaglia divenne sempre più una valle
periferica fuori mano. Gli esuli italiani A partire dal 1540 furono sempre
più numerosi i profughi che cercarono asilo a Chiavenna. Fra questi c’era
Agostino Mainardi (1482-1536), il quale guidò per oltre due decenni la comunità
riformata nella città. Il numero dei seguaci andò man mano aumentando e negli
anni successivi le comunità, in città e nei dintorni, diventarono cinque. Nei
primi decenni di Riforma quasi tutti i parroci delle comunità evangeliche di
Bregaglia, provengono dall’Italia. A conferma citiamo qualche esempio: Tommaso
Casella, già monaco carmelitano, da Genova; Guido Zonca daVerona e Giovanni
Antonio Cortese (Gasacela); Baitolomeo Maturo, già frate dominicano, da Cremona;
Giulio della Rovere da Milano; Pier Paolo Vergerio da Capodistria; Aurelio
Scitarca dal Veneto e Luca Donato da Firenze (Vicosoprano); Lorenzo Martinengo e
suo figlio Alberto dalla Dalmazia (Stampa); Girolamo Turriani da Cremona
(Bondo); Giovanni Marra da Napoli (Castasegna); Lattanzio da Bergamo;
Michelangelo Florio e Giovanni Marci da Siena (Soglio). Molti di questi esuli
italiani avevano appartenuto ad un ordine monastico ed erano stati portati dal
loro studio personale ad abbracciare la Riforma. Spesso erano entrati in
conflitto con le autorità ecclesiastiche. Alcuni erano strati denunciati
all’Inquisizione e condannati. Qualcuno di loro aveva percorso un lungo cammino,
prima di giungere nella libera Repubblica reta. La diversità della loro
provenienza comportava che gli esuli italiani rappresentassero un ampio spettro
di correnti teologiche. Gli uni confessavano la fede evangelica classica: questi
venivano assunti dalla chiesa ufficiale quali predicatori. Gli altri sostenevano
opinioni ritenute eretiche: erano battisti, anti-trinitari oppure convinti di
avere ricevuto dallo Spirito Santo una particolare illuminazione. I conflitti
furono inevitabili. A Chiavenna ci furono polemiche su polemiche e il Sinodo
retico nutriva spesso dei dubbi sulla professione di fede dei parroci italiani.
Come a Coira, cosi pure nei centri riformati di Zurigo e Ginevra, questi erano
guardati con sospetto. Ma nel contempo il loro impegno personale era tenuto in
grande considerazione. Molti di loro proseguirono presto il loro cammino verso
Zurigo, Basilea, Ginevra, Lione, Strasburgo, Heidelberg, Francoforte, Anversa e
Londra. Alcuni dei dissidenti si rifugiarono in Polonia. I predicatori
s’impegnarono a promuovere la cultura nelle Valli grigionitaliane. Le loro
prediche e l’insegnamento che impartivano diedero a tutti la possibilità di
leggere la Bibbia. Consolidarono cosi l’uso dell’italiano quale lingua scritta e
diffusero la conoscenza sia dell’antichità che della cultura italiana. Pier
Paolo Vergerio (1498-1565): nunzio pontificio, vescovo, riformatore
religioso Pier Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1498. Dopo gli studi
giuridici a Padova entra nella magistratura veneziana. Mortagli la moglie, Diana
Contarmi, si pose al servizio della chiesa. Fu nunzio pontificio a Vienna e in
Germania nel 1535, con l’incarico di convincere i principi protestanti tedeschi
a partecipare al concilio. Per i servizi resi venne ricompensato con la nomina a
vescovo di Modrus in Croazia e quindi di Capodistria, sedi vescovili povere di
risorse economiche. Disilluso da tale trattamento, accettò l’ospitalità di vari
principi italiani e del re Francesco I di Francia, per incarico del quale
partecipa al colloquio di religione di Worms-Ratisbona (1540-1541). In questo
periodo entra in contatto con influenti prelati come i cardinali Gasparo
Contarini e Reginaid Pole, che nutrivano la tenace speranza di una graduale
riforma della chiesa. Conobbe inoltre personalità di spicco del
protestantesimo come Filipppo Melantone, Martin Bucero. Rientrato nella diocesi
di Capodistria, vi iniziò una vigorosa riforma dottrinale, morale e disciplinare
che gli procurò l’accusa di eresia. Con abili manovre legali riuscì a sfuggire
al processo, ma braccato dall’inquisizione, abbandonò l’Italia nel maggio
1549. Dopo brevi soggiorni a Chiavenna, Coira, Poschiavo e Basilea, nel
gennaio 1550 Vergerio accettò l’invito della comunità riformata di Vicosoprano
di diventarne il pastore. Nei tre anni e pochi mesi trascorsi a Vicosoprano la
sua eloquenza, la fama delle prestigiose cariche rivestite e di cui si era
volontariamente spogliato per abbracciare la fede evangelica attrassero una
quantità di persone dai villaggi vicini e facilitarono l’evangelizzazione della
Valtellina e dell’Engadina. Egli mise inoltre la sua vasta cultura e i suoi doni
di polemista al servizio del popolo di montanari che lo ospitava. Scrisse non
meno di quaranta trattati divulgativi ed opere di controversia, tra cui: Uno
brieve et semplice modo per informar li fanciulli nella religione christiana
fatto per uso delle chiese di Vicosoprano ed altri luoghi di Valle Bregaglia”
(1551) e la ‘Historia di M. Francesco Spiera’ (1551), opera che gli procuro fama
europea. Il suo stesso zelo di propaganda religiosa nella zona di Bondo, Soglio,
Casaccia e fino a Chiavenna lo portò a voler assumere una posizione di
preminenza. Agiva come un vescovo, stabilendo nuovi pastori nelle località
evangelizzate, si ingeriva nella vita delle chiese di lingua italiana nei
terrori soggetti alle Tre Leghe, provocando l’irritazione non soltanto dei
pastori locali ma anche dei dirigenti ecclesiastici, a cominciare dall’influente
Gallicius di Coira. Consapevole del suo crescente isolamento, Vergerio non si
trattenne più a lungo in questo campo di lavoro che fu certo fecondo, anche se
non privo di dolorose esperienze. Nella primavera del 1553, Vergerio accettò
l’invito del duca Cristoforo del Wuerttemberg di trasferirsi a Tubinga come
consigliere. Intraprese vari viaggi in Germania, Austria e fino in Polonia per
pacificare il protestantesimo polacco travagliato dai dissensi suscitati dagli
esuli italiani. Né meno intensa fu la sua attività di pubblicista. In
collaborazione con l’esule sloveno Primus Trubar organizzò una tipografia ed un
istituto per la traduzione, la pubblicazione e la diffusione della Bibbia in
sloveno e croato, oltre che di numerosi testi della Riforma, tra cui il Piccolo
catechismo di Luterò e il Beneficio di Cristo’, il gioiello teologico della
Riforma italiana. Vergerio mori il 4 ottobre 1565, all’età di 67 anni. La
Riforma a Soglio Soglio era la sede dalla famiglia Salis e, come tale,
rivestiva una particolare importanza per la Valle. Mentre il comune di
Sopraporta era passato alla Riforma, il villaggio di Soglio restava ancora
fedele alla vecchia confessione. Alcuni membri della famiglia Salis avevano
abbracciato la nuova fede, in particolar modo Èrcole Salis (1503-1578) che si
era fatto uno dei principali promotori della Riforma a Chiavenna. Altri
rappresentanti della famiglia restavano indecisi; essi erano in buoni rapporti
con la Curia romana. Ancora nel 1568 Battista Salis ricevette dal papa il titolo
di “cavaliere dell’Ordine dello sprone d’oro” e lo stesso privilegio venne
concesso tre anni dopo anche al suo figlioletto Battista. La spinta verso la
Riforma provenne invece dal popolo. Il 2 gennaio 1553 Pier Paolo Vergerio
scriveva al riformatore zurighese Heinrich Bullinger: “In Bregaglia c’è un paese
di nome Soglio. Vi abitano molti potenti sostenitori del papa. Ma Dio e stato
più potente di loro, perché da otto giorni e stata abolita la messa. E
l’iniziativa e venuta dalla povera gente, quella che agli occhi del mondo conta
poco. Prodigioso e il nostro Dio.” Che cosa era avvenuto? Con il suo
comportamento, il prete di Soglio aveva suscitato il risentimento della
popolazione, specialmente di donne e madri. Si era levato un grido che
chiedeva un cambiamento radicale. La famiglia Salis acconsenti infine a lasciare
la decisione alla comunità. Incoraggiata dalle donne, la gioventù indisse una
riunione. Il giorno di Natale 1552 essa decise di assumere un predicatore. Come
in tanti altri posti, anche a Soglio il passaggio alla Riforma scaturì da un
moto del popolo. Anche qui le donne ebbero un ruolo determinante. L’iniziativa
della gioventù fu onorata da un mandato: fra i cinque giurati che Soglio mandava
al tribunale penale, uno doveva essere reclutato fra i giovani (iuventutis
iudex). Nei decenni seguenti anche la famiglia Salis passò alla Riforma.
Grande sensazione suscitò la conversione di Battista von Salis. Scosso dalla
grave malattia di suo figlio e poi dalla propria, egli trovò sostegno nella fede
riformata e rinunciò a tutti i privilegi papali (1572). La sua tomba si trova
nel coro della chiesa. Da allora la famiglia fu una delle maggiori promotrici
della chiesa riformata. In questo contesto sono soprattutto da nominare Battista
junior e sua moglie Barbara von Meiss da Zurigo. Fin da giovane egli aveva
rivestito importanti cariche. Quando nel 1621 truppe spagnole e austriache
invasero i paesi soggetti, egli assunse il comando della difesa. Gli
spagnoli riuscirono comunque ad occupare sia Chiavenna che la Bregaglia. Sembro
allora che la Riforma potesse essere repressa nella Valle. Il palazzo Salis a
Soglio fu distrutto. Battista Salis e sua moglie fuggirono verso Avers,
valicando il passo Bregalga, e raggiunsero Zurigo. Ma la guerra si decise infine
in loro favore. Battista e sua moglie tornarono a Soglio, dove vissero fino al
1538. Sono loro che fecero costruire l’attuale palazzo “Casa Battista”.
Decenni di guerre, torbidi e violenza In Italia i riformati erano esposti
a persecuzioni; per questo motivo essi fuggivano dal loro paese. Gli esuli
giungevano da noi per vie malfide; qualcuno di loro aveva subito il carcere;
tutti avevano patito molti disagi. Un numero considerevole di riformati non
faceva invece in tempo a sfuggire alle condanne dell’Inquisizione e veniva
giustiziato. Con il consolidarsi della scissione s’inasprirono pure i conflitti
fra le confessioni. Per i riformati grigioni si trattava di guadagnare alla
nuova fede altri tenitori, cioè i paesi soggetti; i cattolici, da parte loro,
cercavano in tutti i modi di arginare almeno “l’eresia riformata”, se non era
possibile di estirparla completamente. Nel contrasto fra le confessioni si
insinuavano interessi politici. Anche i conflitti per il controllo dei valichi
assumeva un aspetto religioso. L’Austria e la Spagna, che dominava allora su
Milano, sostenevano il partito cattolico; Venezia e la Francia cercavano di
rafforzare la parte riformata. Per la Spagna soprattutto si trattava di
assicurare sia il passaggio sui valichi che la salvezza della anime. A partire
dal 1618 si ebbero tempi funesti. Il tribunale penale dei Grigioni a Thusis
indisse pene tremende a parecchie persone sospettate di cospirare con la Spagna.
In queste condanne i pastori riformati ebbero un ruolo nefasto. L’arciprete
Nicolo Rusca di Sondrio mori sotto tortura. Fra i condannati per cospirazione ci
fu anche Prevosti, una stimata personalità evangelica di Bregaglia. Due anni
dopo, nel luglio del 1620, avvenne il .massacro di Valtellina’. In varie
località della valle bande di eccitati assassinarono circa 300riformati. Un
grido d’orrore corse per l’Europa. Vincenzo Parivacini, più tardi parroco a
Bondo e Castasegna, dette un’estesa descrizione del massacro in un testo
stampato a Zurigo e poi tradotto in varie lingue. Questi fatti richiamarono alla
memoria di molti evangelici la notte di San Bartolomeo a Parigi. Il ricordo di
tali violenze ha avvelenato a lungo le relazioni fra le due
confessioni. Negli anni seguenti i conflitti armati ebbero fortune alterne.
Quando la Bregaglia venne temporaneamente occupata e devastata da truppe
spagnole, sembrò che la Valle potesse venire ricondotta al cattolicesimo.
L’accordo fra i contendenti giunse nel 1639 con il Capitolato di Milano. La
Spagna riconobbe alla Rezia il dominio sulle terre soggette, a condizione che vi
fosse però riconosciuta la sola religione cattolica. Si determinavano cosi dei
confini confessionali. Nei paesi soggetti i riformati erano tollerati come
persone, ma non potevano celebrare il loro culto. Il parroco di Castasegna
divenne quindi responsabile anche dei riformati di Chiavenna. Caccia alle
streghe in Bregaglia La credenza che certe disgrazie e malattie siano opera
di stregoneria e diffusa in molte culture. Nell’Europa del 15° secolo, alle
soglie dell’era moderna, tale credenza suscitò una vera ossessione delle
streghe, ossessione che doveva protrarsi per più secoli. Anche la chiesa
riformata ne fu contagiata. Quando una malattia sconosciuta colpiva gente o
bestiame si sospettava che il danno fosse stato perpetrato da uomini, ma
soprattutto da donne, che si servivano di forze occulte. Si era ampiamente
diffusa tutta una serie di credenze. Si sosteneva che le streghe avessero
commercio con il diavolo, che partecipassero alle tregende (“barioni”), che
fossero state dotate dal diavolo di ogni genere di forze sovrannaturali. Il
sospetto di stregoneria ricadeva spesso su persone emarginate dalla
società. In Bregaglia i processi alle streghe iniziarono soltanto nella
seconda meta del 17° secolo. Vi furono giustiziati complessivamente più di venti
streghe e stregoni: decapitati o arsi sul rogo. Le confessioni venivano di
solito estorte con la tortura. In questo modo gli accusati finivano con
l’ammettere quello che i giudici volevano sentire. Alcuni accusati morivano
sotto tortura. Secondo gli atti del tribunale di Vicosoprano, in data di agosto
1669 Catarina Sollara confessava di aver partecipato ad un barlot, durante il
quale il diavolo l’aveva sposata ad un uomo di nome Giacomo, il quale le aveva
dato un anello d’oro che si era poi rivelato semplice paglia intrecciata.
Confessava di avere avuto commercio sessuale con il diavolo, di non aver provato
però nessun piacere, contrariamente a quanto avveniva con suo marito. Confessava
inoltre di avere ricevuto dal diavolo un bastone e un vaso con un unguento nero
e maleodorante per contaminare uomini e bestiame. Una prima serie di processi
ebbe luogo negli anni 1654/55, una seconda nel biennio 1668/69. Un processo
n’attirava un altro perché, sotto tortura, l’accusato denunciava presunti
complici. L’ultimo processo si celebra nel 1688. Le streghe erano condannate da
tribunali civili: la chiesa non era direttamente coinvolta. Ma all’epoca stato e
chiesa non erano nettamente distinti. Autorevoli rappresentanti del clero
ritenevano che lo sterminio delle streghe fosse opera giusta e pia. Ancora nel
1742 Nicolin Sererhard, uno stimato parroco grigione, scriveva: “Gente che si
crede saggia... afferma che la stregoneria non sia che immaginazione... In
verità le autorità ecclesiastiche farebbero molto bene di appuntare, più
energicamente di quanto non faccia, le loro spade contro tale gente perniciosa e
pericolosa: questo contribuirebbe a mettere fine al regno di Satana per la
gloria di Dio”. Verso la fine del 17° secolo l’opposizione ai processi alle
streghe si fece sempre più decisa, anche da parte delle chiese. Nel 18° secolo
si ebbe soltanto qualche processo isolato. Tre diverse personalità
ecclesiastiche Giacomo Picenino (1654-1714) II suo impegno si rivolse
tanto alla purezza della dottrina quanto alla profondità della devozione. Nato
in Engadina, Giacomo Picenino studiò per tre anni filosofia e teologia
all’università di Basilea. Fu parroco a Sils, Gasacela e per molti anni a Soglio
(1679-1714). Egli deve la notorietà specialmente ai suoi trattati sistematici in
difesa della fede riformata, criticata dai gesuiti. I titoli ne indicano
chiaramente il contenuto: Apologia per i riformati e per la religione riformata
contro le invettive di F. Panigarola e Paolo Segneri (1706) e Trionfo della vera
religione contro le invettive diAndrea Semery Gesuita (1712). Questi trattati
furono molto apprezzati nei circoli riformati. Il secondo fu stampato a Ginevra
e Benedici Pictet, rettore dell’Accademia teologica in quella città, recensì
l’opera con grande elogio. Ortensia von Salis inviò un esemplare dell‘Apologia
con dedica personale al borgomastro di Basilea. Picenino non si occupava però
soltanto di ortodossia. Nella prefazione rivolta alle Tré Leghe si legge:
«Felici pure chiese riformate, se alla verità della dottrina aggiungete la
santità della vita, alla riformazione degli errori la riformazione dei vizi.” In
breve questo significa: Io credo che la Parola di Dio sia la regola del credere
e dell’operare. Picenino non professava quindi una rigida ortodossia formale.
Egli s’impegnò per un approfondimento della devozione, promuovendo il
raccoglimento e la preghiera domestica. Già da giovane aveva tradotto dal
tedesco un libro di preghiere dal titolo “Sospiri spirituali”. Mori nel 1714 e
venne sepolto nella chiesa di Soglio, Gian Battista Frizzoni
(1727-1800) Una personalità del tutto diversa fu Gian Battista Frizzoni,
rappresentante del pietismo, vale a dire di quel fervore che consisteva
soprattutto nell’approfondire l’esperienza interiore della redenzione in Cristo.
Anch’egli proveniva dall’Engadina. Dopo aver studiato a Ginevra e Zurigo, fu
assunto quale precettore dal luogotenente Rudolf von Salis a Soglio e, all’età
di 21 anni, fu nominato parroco a Bondo. Le sue prediche, ma specialmente la sua
gran devozione, fecero un’impressione profonda e provocarono delle conversioni.
La sua fama oltrepassò i confini della Valle. Nel 1757 egli ricevette la visita
di David Cranz, un pietista inviato dal grande centro Herm-hut in Germania, che
percorreva il Grigioni alla ricerca di spiriti affini. Anche Cranz restò
profondamente impressionato da Frizzoni. Ma, non da ultimo a causa sua, nacquero
presto dei malumori nel villaggio. Mettendo l’accento sulla redenzione in Cristo
e soprattutto sulla conversione personale, Frizzoni destò in alcuni
l’impressione che egli distinguesse i cristiani in due classi e dividesse cosi
la comunità. Frizzoni fu energicamente sostenuto da Cranz e i “risvegliati”
si riunirono in particolari assemblee (cosiddette conventicole). Scoppiò allora
una vera lite. Ai pietisti si rimproverava di riternersi gli unici veri
cristiani e di disprezzare quelli che non erano passati per il risveglio. Ma
l’amore di Dio e l’annuncio della giustificazione per fede non erano forse
rivolti ad ognuno? Si formarono partiti opposti e le turbolenze non accennavano
a sedarsi. Si narra che gli avversari di Frizzoni fecero venire da Soglio una
banda di picchiatori, che questi però, dopo aver assistito alla predica di
Frizzoni, passarono dalla sua parte: “Adesso abbiamo sentito noi stessi la sua
predica. Voi non meritate un pastore tanto valido.” Il Consiglio ecclesiastico
licenziò comunque Frizzoni. Egli lasciò Bondo e trascorse il resto della sua
vita quale parroco a Celerina. Frizzoni coltivava molti interessi. Aveva per
esempio anche delle conoscenze in medicina. La sua grande vocazione era però il
canto ecclesiastico. Già a Bondo cominciò a tradurre in italiano inni
pietistici e a farli cantare dalla comunità. A Celerina tradusse poi molti inni
in romancio. Nel 1789 pubblicò un libro di canto dal caratteristico titolo
“Testimoniaunza dall’amur stupenda da Gesù Cristo vers pchiaduors umauns”
(Testimonianza dell’amore miracoloso di Gesù Cristo per i peccatori umani). Una
riedizione dei salmi di Davide, uscita nel 1790 a Vicosoprano, fu ampliata con
34 inni sacri, tutti composti da Frizzoni. Anche se allontanato da Bondo, restò
sempre fedele alle comunità evangeliche di lingua italiana. Petrus Dominicus
Rosius a Porta (1733-1806) La figura di a Porta rappresenta una direzione
spirituale ancora diversa. Profondamente dedito alla tradizione riformata, egli
assunse un ruolo di mediatore fra le diverse tendenze delle chiese nel Grigioni.
Fu influenzato dall’illuminismo e si adoperò per la tolleranza. Per tutta la
vita si preoccupò dei diritti delle minoranze, soprattutto di quelle riformate
nei paesi soggetti. La giustizia fu il metro delle sue azioni. Senza essere lui
stesso pietista, cercò delle mediazioni nel cosiddetto contrasto di Hermhut,
scoppiato attorno alla figura di Gian Battista Frizzoni. Il suo merito maggiore
risiede però nella storiografia. Dal 1771 al 1777 pubblicò la Historia
Reformationis Ecclesiarum Rheticarum, la prima storia coerente delle chiese
riformate nel Grigioni. Fu infaticabile nel raccogliere il materiale necessario
e quest’opera resta determinante fino al giorno d’oggi. Anche se il suo punto di
vista riformato traspare ovunque, è evidente che egli si preoccupava di dare
sempre un giudizio equo. La sua opera, scritta in latino, era evidentemente
destinata agli studiosi e non al popolo. Rosius a Porta proveniva da una stimata
famiglia della Bassa Engadina. I suoi studi lo portarono prima a Berna, in
seguito anche in Ungheria e in Olanda. Parlava, o almeno capiva, otto lingue. Le
esperienze dei suoi anni di studio furono decisive. Il destino dei riformati in
tutta Europa gli stette sempre a cuore e specialmente di quelli in Ungheria. I
suoi colleghi lo chiamavano “l’Ungherese”. Nel 1756 entrò in servizio delle
chiese retiche. Dal 1781 al 91 fu parroco a Castasegna, dove era pure
responsabile dei riformati di Chiavenna. Fu poi per dieci anni a Soglio, nel
periodo movimentato in cui i Grigioni persero i paesi soggetti. Era parroco a
Zuoz, quando morì nel 1806. Hortensia Gugelberg von Moos nata von Salis
(1659-1715) Nel 1695 Hortensia Gugelberg von Moos pubblicò a Zurigo una
disputa teologica, scritta in tedesco. La traduzione approssimativa del titolo
e: Dichiarazione di fede di una nobile dama evangelica riformata, stesa su
cortese richiesta di un distinto ecclesiastico di fede cattolico romana;
esaminata e discussa in 8 capitoli nel presente nuovo libretto chiamato
“Messblum”. Editore era un noto teologo zurighese, Johann Heinrich Schweizer
(1646-1733). “Messblum” fece una certa sensazione, soprattutto perché si
trattava di una donna che osava esprimersi su argomenti teologici e lo faceva
addirittura pubblicamente. Da queste riserve l’autrice si difese pubblicando
una “Risposta scritta”. Sostenne il suo diritto personale, come pure quello
delle donne in generale, di esprimere pubblicamente la loro opinione. Esordi
concedendo: “So bene che noi dobbiamo essere brave casalinghe, che il nostro
compito e quello di filare e cucire e che non dobbiamo occuparci dell’inutile
erudizione, che suscita più domande che edificazione religiosa”, per presentare
poi, una dopo l’altra, una serie di donne bibliche che illustrano come
l’erudizione si addica invece alle donne. Lei stessa era straordinariamente
dotta per la condizione femminile del suo tempo. Di lei si conoscono solo poche
pubblicazioni: la Dichiarazione di fede (1695), i Colloqui conversazioni (1696),
le Meditationes recentemente scoperte (1715), tre poesie stampate ed alcune
lettere in vari archivi. Hortensia nacque nel 1659 quale primogenita di
Gubert von Salis-Soglio e di Ursula von Salis-Maienfeld. A 23 anni sposò il
cugino Rudolf Gugelberg von Moos, capitano al servizio della Francia. Restata
vedova senza prole, continuò a vivere nella casa del marito a Maienfeld (GR).
Diverse fonti testimoniano che era versata in medicina, che curò molti malati e
che si guadagnò la reputazione di esperta terapeuta ben oltre gli stretti
confini della sua patria. Hortensia Gugelberg mori a 56 anni. Le poesie stampate
in appendice all’orazione funebre sono numerose ed elogiano con enfasi barocca
la sua erudizione. In esse Hotensia viene detta “gloria della patria / lode
delle donne / il più bei fiore della chiesa / eccellente d’intelletto / di
grande spirito e temperamento / edotta in tutte le scienze / miracolo del nostro
tempo / famosa e conosciuta dagli studiosi d’ogni dove.” Si fanno i nomi di
Galene, Cicerone, Fiatone, addirittura di Cartesio e la si paragona ad Anna
Schurmann e Madeleine de Scudery, con le quali però non condivide oggi la
gloria. Sulla storia del canto ecclesiastico in Bregaglia II canto ebbe un
ruolo importante nelle comunità evangeliche. Fin dagli inizi della Riforma gli
inni costituirono una parte integrante del culto. Sia Martin Lutero che Ulrico
Zwingli composero dei testi per gli inni da cantare in chiesa. Anche Giovanni
Calvino riservava molto spazio al canto. A Ginevra si musicarono testi biblici,
cioè Salmi e altri testi in forma metrica. Le parole erano composte soprattutto
da Clement Marot e Theodore de Beze, le melodie da Louis Bourgeois e Claude
Goudimel. Il Salterio ginevrino diventò in molti paesi il segno distintivo delle
chiese riformate. In ogni innario si trova tutt’ora almeno una scelta di questi
salmi. I salmi ginevrini furono tradotti anche in italiano e vennero sicuramente
cantati pure in Bregaglia. Nel 18° secolo si fecero nuove traduzioni che si
stamparono in Valle o almeno a questa si destinarono. I libri di canto venivano
messi a disposizione di ogni membro della comunità. Nel 1740 usci a Strada in
Engadina il Salterio ginevrino tradotto da Andreas Planta, parroco a Castasegna
dal 1736 al 1745, poi emigrato in Inghilterra. Il libro e dedicato alla
Bregaglia: “Mi spinse, O mia Pregallia! Amore e fede /Dopo lunga fatica, e
molti stenti / A darti in stampa i Salmi susseguenti / Opra, ch’a la tua salute
Eterna riede. Nel 1750 segui il salterio del “signor Casimiro” di Chiavenna.
Poco dopo, nel 1753, usci una riedizione del salterio con un’aggiunta di canti
sacri. Fu stampato a Soglio dal tipografo ambulante Jacob Nuot Codino, su
commissione della famiglia Salis. Nel 1790 un altro tipografo ambulante,
Gisep Bisca, stampo a Vicosoprano un nuovo salterio: “I salmi di Davide in metro
toscano”. Anche in questo libro la raccolta di salmi e seguita da “inni
moderni”. La traduzione degli inni e dovuta a Gian Battista Frizzoni. Fin da
quando era parroco a Bondo, questi aveva iniziato a tradurre nuovi inni in
italiano. Le esigenze che questi salteri ponevano al coro della comunità erano
molto alte. I salmi ginevrini erano musicati a quattro voci e bisogna supporre
che venissero cantati in questo modo. Gli inni sacri, che interrompevano la
prevalenza dei salmi, erano invece a tre voci. Questo nuovo modo di cantare era
stato sviluppato in Germania non senza l’influsso delle arie d’opera. Un
libro di canto completamente rinnovato usci nel 1865, su iniziativa del barone
Giovanni de Castelmur. Fu redatto dal parroco Giovanni Pozzi di Poschiavo. La
tradizione dei salmi si è ora affievolita. Attualmente l’interesse della chiesa
e più rivolto ai problemi connessi alla fede e alle varie situazioni della vita
cristiana. II barone e la baronessa de Castelmur Dalla strada a ovest di
Stampa si scorge, sul lato opposto della valle, il palazzo Castelmur; un
imponente edificio rossastro fiancheggiato da due torri merlate. Il passante si
chiederà da dove provenga quel corpo estraneo nel paesaggio della Bregaglia. Lo
strano edificio venne eretto dal barone Giovanni de Castelmur. Nel 1827 egli
acquistò una casa patrizia a Coltura e la trasformò nell’attuale castello. Al
suo interno il vecchio edificio resta ben riconoscibile. Chi era il barone
Giovanni de Castelmur? I Castelmur erano un vecchio casato bregagliotto. La
famiglia di Giovanni si era stabilita da generazioni a Marsiglia e si era
arricchita con la gestione di una pasticceria. Lui stesso era nato in quella
città nel 1800 e vi aveva trascorso la fanciullezza; parlava perfettamente
francese. Restò però per tutta la vita profondamente legato ai Grigioni e alla
Bregaglia. Ricevette da Napoleone III il titolo di barone per meriti
filantropici. Sua moglie Anna, nata nel 1813, pure una Castelmur, era sua cugina
di primo grado. Si sposarono nel 1840 e non ebbero figli. La lapide funebre a
Nossa Dona denomina la baronessa .moglie dell’avventuroso Giovanni de
Castelmur’. L’epiteto e appropriato nel senso che Giovanni fu uno spirito molto
versatile e intraprendente. Impiegava le sue forze e i suoi averi per il bene
pubblico ed era conosciuto come benefattore. Sostenne la scuola pagando vario
materiale ed anche la retta scolastica dei bisognosi. Partecipò al finanziamento
di una stazione telegrafica a Castasegna e fece migliorare a proprie spese la
strada che porta da Stampa a Coltura. Finanziò la stampa di un nuovo libro di
canto per la parrocchia riformata. Nel già menzionato restauro della chiesa di
Nossa Dona investì somme considerevoli. Da giovane Giovanni de Castelmur
pubblicò in francese e italiano il trattato Alcune riflessioni politiche (1830),
dove il barone enuncia un suo programma. Lo spirito che lo pervade viene
espresso nella prefazione: “Elettrizzato del sentimento che ci rende cittadini
della confederazione e non di un distretto, d’un comune, d’una valle, d’un
cantone, sentimento che ci unisce quando respiriamo e ci fa portare su tutti i
mèmbri della nostra bella patria quello sguardo filantropico”. La sua critica
alle condizioni vigenti, spesso condotta con toni aspri, sollevò delle
opposizioni che lo costrinsero a ritirare la pubblicazione. Nel 1844 fu eletto
podestà della valle. Morì nel 1871 a Nizza e venne sepolto nella chiesa di Nossa
Donna. La vedova prosegui l’opera sua. Come prima cosa istituì un legato per
permettere agli insegnanti bregagliotti di approfondire lo studio della lingua
in Italia. Nel 1873 creò una fondazione per il mantenimento della zona
fortificata della Porta. Grazie ad una sua generosa offerta fu possibile
edificare l’asilo di Flin, presso Spino. on l’eredita lasciata alla sua morte
si costruì il ponte che congiunge Coltura alla strada principale, ancora oggi
chiamato “ponte della Baronessa”. Venne sepolta pure lei nella chiesa di Nossa
Dona. “Ho sempre più il bisogno di venire in aiuto al povero e bisognoso;
questa e la mia precisa volontà e credo anche il mio dovere.” Giovanni Andrea
Scartazzini (1837-1901) Pastore evangelico e studioso di Dante Nella sua
giovinezza Scartazzini ebbe consuetudine con due libri: la Bibbia, che il padre
gli aveva insegnato a leggere fin da bambino e la Divina Commedia regalatagli
dal padrino. Questi due libri l’accompagnarono per tutta la vita. All’età di 19
anni Giovanni Andrea Scartazzini lasciò Bondo per studiare all’Istituto delle
missioni evangeliche di Basilea. Ben presto aderì alle tendenze liberali della
teologia dell’epoca. Prosegui gli studi alla facoltà di teologia di Basilea e
Berna. Dopo essersi candidato invano per un posto di parroco a Bondo, assunse
successivamente le parrocchie di Twann, Ablandischen, Melchnau e, nel 1875,
quella di Soglio. A causa di liti lasciò la Bregaglia nel 1884. Passò il resto
della sua vita quale parroco a Fahrwengen, nel cantone di
Argovia. Scartazzini aveva un temperamento battagliero. Già nel suo periodo
bernese partecipò attivamente ai contrasti teologici che sconvolgevano allora la
chiesa riformata, sostenendo con scritti polemici e mordaci la corrente
liberale. Sia come parroco che come dantista egli non rifuggiva dai conflitti. A
questo proposito va ricordata la sua partecipazione, quale corrispondente della
“Neue Zuercher Zeitung”, al processo di Stabio nel 1880. Le sue sfuriate contro
la politica tradizionale e i giudici ticinesi gli procurarono aspre critiche.
Egli continuò pero imperturbato a dare la sua versione dei fatti. La fama di
Scartazzini e legata ai suoi studi su Dante. Si dice che egli sapesse tutta la
Divina Commedia a memoria. Nel 1869 usci in tedesco Dante Alighieri, il suo
tempo, la sua vita e le sue opere, studio qualificato poi da lui stesso quale
.opera giovanile’. Fecero seguito numerosi altri studi monografici sul grande
poeta. Nel 1874 usci a Lipsia il primo volume della sua edizione della Commedia,
seguito negli anni successivi da altri due volumi. I suoi lavori vennero
dapprima accolti, soprattutto in Italia, con un certo scetticismo, ma furono a
poco a poco riconosciuti quali fondamentali. La sua edizione commentata della
Commedia resta a tutt’oggi un testo di riferimento essenziale. Scartazzini
era conscio di muoversi in due mondi diversi. Non cedette mai alla tentazione di
fare di Dante un precursore della Riforma. Ammise anzi che, in coerenza al suo
pensiero, Dante non avrebbe avuto altra scelta che di dannare Lutero, Melantone,
Zwingli e tutti gli altri riformatori nei sepolcri ardenti del sesto cerchio del
suo Inferno poetico. Nei due diversi mondi egli si muoveva con uguale passione.
La cura e il grande amore con il quale egli si avvicinava al poema di Dante gli
venneroriconosciuti già dai contemporanei. Il re di Sassonia gli conferì per
esempio il cavalierato. Per quanto riguarda la religione, il suo sguardo era
rivolto verso il futuro. Il continuo rinnovamento morale della vita personale e
pubblica gli stava molto a cuore. In una predica troviamo il seguente pensiero:
“Un popolo che si preoccupa di quello che serve alla sua pace ha posto i
fondamenti più fermi e sicuri per il suo bene... Possano il nostro popolo e la
nostra patria riconoscere in tempo quello che serve alla pace”. La
stria II ricordo dei processi alle streghe, celebrati nel 17° secolo, si e
mantenuto vivo a lungo. Nel 1875 si rappresentò per la prima volta la
tragicommedia La stria (La strega) di Giovanni Andrea Maurizio. Scritta in
dialetto bregagliotto, La stria conquistò il cuore della popolazione. Venne
rimessa più volte in scena (l’ultima nel 1979) con la partecipazione di numerosi
dilettanti locali. Giovanni Andrea Maurizio nacque a Vicosoprano nel 1815.
Studiò teologia a Zurigo, ma dovette interrompere gli studi per motivi di
salute. Durante un soggiorno a Cracovia imparò polacco e russo. Dopo ulteriori
studi a Firenze insegnò in vari istituti, fra l’altro alla Scuola evangelica di
Schiers. Sempre per motivi di salute dovette però lasciare l’insegnamento. Si
ritiro allora nella valle nativa, dedicandosi all’agricoltura. Fu nominato
landamano di Bregaglia. Nel 1865 pubblicò uno scritto polemico “Zeitgeist”
(Spirito del tempo), un attacco all’atteggiamento materialistico e mercantile
che si accompagnava al progresso tecnico. Dopo aver ripreso l’insegnamento per
qualche anno, morì a Vicosoprano nel 1885. G. A. Maurizio era profondamente
legato alla tradizione riformata e nel contempo convinto fautore della
tolleranza fra le confessioni. L’epilogo di La stria e costituito da una voce
celeste che esorta all’umiltà sia i cattolici che i riformati e li incita a fare
pace fra loro. Maurizio ritiene che anche la credenza alle streghe sia frutto
dei tempi bui dell’intolleranza e l’ossessione possa essere superata dalla forza
dell’amore. L’opera e intessuta di molte scene che rappresentano vita,
tradizioni e parlata dei diversi villaggi. La trama si può cosi
riassumere: Tumee, giovane di buona famiglia, ama Anin, una fanciulla povera.
Questo suscita la gelosia della giovane Menga che, per distogliere Tumee dalla
rivale, la calunnia di essere una strega. Anin e arrestata ed interrogata. Sotto
tortura la poveretta confessa e viene condannata a morte. Tumee perdura però nel
suo amore e tenta di farla evadere dal carcere. Nel contempo Menga, rosa dal
rimorso, smaschera la sua calunnia e Anin viene graziata. Anche se nel 16°
secolo non vi furono processi alle streghe in Bregaglia, Maurizio ambienta la
vicenda nell’epoca della Riforma. Questo gli da l’opportunità di mettere in
scena i riformatori della Valle Bartolomeo Maturo e Pier Paolo Vergerio, come
pure i difensori della “vecchia fede” e di dare voce ai loro messaggi. La
liberazione di Anin e la sua felice unione con Tumee sono d’auspicio per una più
vasta unione oltre i confini confessionali, nella tolleranza e
nell’amore. Silvia Andrea (1840-1935) Scrittrice Silvia Andrea (pseudonimo
di Johanna Garbald-Gredig) elaborò il suo intenso interesse per la storia dei
Grigioni, facendo confluire le sue ricerche d’archivio in tre racconti, ognuno
dei quali rappresenta un diverso periodo di storia retica: l’avvento del
cristianesimo all’epoca dell’occupazione romana (Un apostolo), il declino del
feudalesimo nell’alto medioevo (Donat von Vaz) e gli inizi della Riforma nel 16°
secolo (Incontro alla luce). Riuniti sotto il titolo “Erzahlungen aus
Graubuendens Vergangenheit“ (Racconti sul passato dei Grigioni), questi tre
testi formano il primo libro di Silvia Andrea, pubblicato nel 1888. Dopo il
romanzo Faustine (1889), usci nel 1905 il romanzo storico Violanta Prevosti. La
vicenda e ambientata nei torbidi dei Grigioni, all’inizio del 17° secolo, e si
condensa attorno a due avvenimenti traumatici: lo scoscendimento di Piuro, che
seppellì la ricca cittadina sopra Chiavenna nel 1618, causando un migliaio di
morti, e il massacro di Valtellina del 1620, in cui perirono circa 300
riformati. Con il più famoso libro sui torbidi dei Grigioni, Juerg Jenatsch
di Conrad Ferdinand Meyer, il romanzo di Silvia Andrea ha poco in comune,
eccetto il contesto storico. Il motivo principale non e l’eroismo virile
esaltato in una figura storica, bensì la vicenda di un personaggio femminile
che, in quanto fittizio, esula dalla storiografìa. Nel romanzo Violanta,
l’immaginaria nipote di Giovanni Battista Prevosti di Vicosoprano (personaggio
storico), viene coinvolta attivamente negli eventi politici del suo tempo.
L’autrice riunisce cosi in questo romanzo due temi centrali della sua opera
letteraria: la storia dei Grigioni e la situazione della donna di talento, alla
quale la società stenta a riconoscere le sue esigenze spirituali. Fra i
libri di Silvia Andrea, Violanta Prevosti e quello che ha ottenuto il maggior
successo: tradotto in italiano nel 1910, ristampato nel 1920 e nelle riedizione
in reprint del 1996. Accanto alle sue opere di argomento storico, per le quali
venne lodata ed ammirata ovunque, Silvia Andrea scrisse poesie e numerosi
racconti, che apparvero in noti giornali e riviste. Quantunque fosse di lingua
materna romancia, Silvia Andrea compose tutte le sue opere letterarie in
tedesco. Nata nel 1840 a Zuoz, a 22 anni sposò il ricevitore di dogana Agostino
Garbald e si trasferì con lui a Castasegna, il villaggio di confine in
Bregaglia, dove visse fino alla morte nel 1935. Cominciò a pubblicare soltanto a
40 anni. Scrisse ininterrottamente anche nel periodo in cui allevava i suoi tre
figli. Nel 1877 era nato il primogenito Andrea, nel 1880 segui la figlia
Margherita e nel 1881 il secondo figlio Augusto. Nota e celebre ben oltre i
confini della sua stretta patria, Silvia Andrea continuò a scrivere fino alla
veneranda età di novant’anni. Augusto Giacometti (1877-1947) II maestro
dei colori “Il mattino della Risurrezione”, che orna il coro della chiesa di
San Pietro, venne dipinto nel 1914 da Augusto Giacometti, che riprese un
progetto di dieci anni prima. Un dipinto in una chiesa riformata? La Riforma si
concentrava sull’annuncio della Parola. Le immagini, che erano spesso oggetto
di devozione, furono asportate dalle chiese. Contro la volontà dei riformatori,
certe opere furono distrutte dal furore iconoclasta. Verso la fine del 19° e
l’inizio del 20° secolo si guardò alle immagini con un atteggiamento nuovo: il
quadro venne riscoperto quale “lode di Dio attraverso gli occhi”. Invece di
distoglierci da Cristo, l’immagine può anche guidarci a Lui. In questo
rivolgimento Augusto Giacometti ha avuto un ruolo determinante. La sua
Risurrezione fu una delle prime opere figurative ad essere accolta in una chiesa
evangelica non dei Grigioni soltanto, ma della Svizzera in generale. Non per
niente si attesero allora dieci anni, prima di eseguire il lavoro progettato.
L’opera si presenta come un affresco, e però in realta un dipinto ad olio su
tela. Anche questa scelta può essere stata dettata dalla precauzione di
garantire un facile allontanamento del dipinto nel caso non venisse accettato.
Negli anni successivi s’aprì ad Augusto Giacometti un vasto campo d’azione:
egli ricevette incarichi per affreschi e vetrate in parecchie chiese nei
Grigioni (a Coira, Davos, Klosters) e soprattutto a Zurigo. Nella chiesa di
San Pietro sono esposte le fotografie di alcune sue grandi opere. ugusto
Giacometti, cugino di secondo grado del pittore Giovanni Giacometti, nacque a
Stampa nel 1877 e trascorse gli anni giovanili a Zurigo e Coira. Dopo aver
concluso la scuola d’arte e mestieri di Zurigo, nel 1897 si recò a Parigi, dove
segui i corsi d’arte decorativa di Eugene Grasset. Nel 1902 si stabili a
Firenze, la citta alla quale si seno sempre più legato che a qualsiasi altra.
Nella sua autobiografia scrive: “So che nell’intimo io ero sempre per Firenze,
per questa città discreta e tranquilla, che non fa chiasso, che non si mette in
mostra. Al suo confronto Roma e più pompa che contenuto”. Fra Angelico
soprattutto era per lui fonte d’ispirazione. Dal 1915 fino alla sua morte visse
a Zurigo. Nel 1934 venne accolto quale membro nella Commissione svizzera d’arte
e nel 1939 ne diventò presidente. In tutte le fasi della sua vita mantenne vivo
il legame con la Bregaglia. Alla sua morte nel 1947 venne sepolto nel cimitero
di San Giorgio presso Borgonovo con gran partecipazione della popolazione
locale. La sua arte nasce nell’ambito dello stile floreale, ma questo viene
superato dal suo straordinario senso del colore. Non per nulla le vetrate
costituiscono una parte cosi importante della sua opera. “Da sempre - egli
scrive – il colore e tutto ciò che e colorato mi ha fatto grande impressione...
Quando da bambini guardavamo attraverso vetri colorati, eravamo tutti d’accordo
nel trovare che il mondo sarebbe stato meraviglioso se fosse sempre stato cosi,
sempre tutto rosso o sempre tutto giallo o sempre tutto azzurro...”. Una
valle in evoluzione La Bregaglia sta subendo mutamenti profondi. Negli ultimi
50 anni le cose sono cambiate come forse mai prima. Il turista può avere
l’impressione che qui sia tutto rimasto come una volta. Ma quest’impressione e
ingannevole: in pochi decenni si e formata una situazione completamente nuova.
Alcuni dati illustreranno questo fatto; 1. La popolazione sta regredendo
considerevolmente. Nel 1910 si contavano 1826 abitanti, nel 1990 erano ancora
soltanto 1434. Anche prima si erano comunque già verifìcati dei cali
demografici. Nel 1850 per esempio c’erano in Bregaglia soltanto 1536 abitanti.
Un altro dato e ancora più rilevante. Nel 1910 le persone che vivevano
dell’agricoltura erano 600; nel 1990 si erano ridotte a 50. L’agricoltura non e
più l’occupazione primaria in Valle. In concomitanza e aumentato il numero di
persone attive nel settore dei servizi. Spesso i giovani emigrano; si possono
incontrare dei bregagliotti in quasi ogni città svizzera. 2. Negli anni
cinquanta la costruzione degli impiantì idroelettrici della città di Zurigo ha
dato inizio ad una nuova era. Le acque dell’Albigna vengono ora ritenute da una
diga. La cascata sul gradino di confluenza e scomparsa. Il progetto ha inglobato
la valle in tutta la sua estensione, dagli alti bacini sopra Lòbbia fino a
Castasegna. Si sono cosi creati nuovi posti di lavoro e nuove entrate. Gli
impianti hanno inoltre ridotto il pericolo delle inondazioni, che nei secoli
passati devastavano periodicamente il fondovalle, 3. Mentre nei secoli
passati la Valle era più rivolta a sud, essa e oggigiorno caratterizzata dal suo
orientamento verso nord. L’influsso della Svizzera tedesca e dominante,
soprattutto nell’economia. 4. Si sono diffusi nuovi modi di vivere. Le poche
aziende agricole hanno adottato metodi moderni. Vettura privata, televisione e
computer sono entrati a far parte della vita quotidiana. Le strade vengono
adattate alle necessita del traffico moderno. Il percorso del Maloja e
migliorato, senza riconquistare però l’importanza di trasversale alpina che una
volta gli competeva. I villaggi di Vicosoprano, Borgonovo, Promontogno e
Castasegna hanno una circonvallazione che li libera dall’inquinamento
atmosferico e fonico. Il traffico di transito attraversa ora la valle senza
toccare i villaggi. 5. La Bregaglia sta trasformandosi sempre più in zona di
vacanze estive e autunnali. Il numero degli alberghi e aumentato; le case
contadine abbandonate sono state trasformate in case di vacanza. La Bregaglia
attira soprattutto quei turisti che cercano quiete e rilassamento in escursioni
nella natura. I nuovi compiti delle chiese Ci sono stati dei mutamenti
pure nelle chiese. La tradizione ecclesiastica non e più un dato scontato
neanche per la Bregaglia. Il messaggio biblico deve oggi essere diffuso tenendo
conto delle trasformazioni avvenute. La nuova situazione e caratterizzata fra
l’altro dalla mescolanza confessionale. Durante la Riforma l’intera Bregaglia
era passata al nuovo credo. In seguito all’immigrazione dall’Italia, dalla fine
del 19° secolo si andò formando, talvolta osteggiata dalla popolazione locale,
una minoranza cattolico-romana. Questa rappresenta oggi circa il 25% della
popolazione. Su iniziativa di Don Luigi Guanella, nel 1903 sorse a Bondo la
prima chiesa cattolica della Valle. Più tardi si aggiunse una seconda chiesa, di
dimensioni maggiori, a Vicosoprano. Il movimento ecumenico e il Concilio
Vaticano II hanno offerto, sia alla Chiesa cattilico-romana che a quella
riformata, nuove prospettive di convivenza. Si fa strada l’idea che ogni chiesa
debba piuttosto annunciare il fondamento della sua fede, invece di insistere
sulle diversità che tradizionalmente la separano dall’altra. In vasti
ambienti il messaggio della chiesa viene sempre più apertamente messo in dubbio.
Le trasformazioni portate da scienza e tecnica non riguardano solo l’esterno
della società, bensì anche i suoi fondamenti interni. In un’epoca in cui si
aprono all’uomo continue possibilità di sviluppo, non sembra più esserci posto
per la fede in Dio. Nel contempo crescono però sempre più anche l’insicurezza e
la paura. Dove ci stiamo dirigendo? Quale senso ha la nostra vita davanti
all’incertezza con la quale ci troviamo confrontati? Questa domanda non può
essere elusa a lungo. Si può dare una valida risposta soltanto
concentrandosi sul contenuto essenziale della tradizione biblica. Dio e amore e
noi siamo chiamati a darne testimonianza, in modo che l’amore ci faccia reagire
alla crescente indifferenza e crudeltà della moderna società. In questo la
Riforma può esserci d’esempio. Invece di perdersi in mille domande
marginali, i riformatori si concentrarono a rendere evidente il nucleo del
Vangelo. Il passato e sorgente d’ispirazione. Il messaggio evangelico deve però
essere portato nel nostro tempo. In riferimento alla Bregaglia si pongono le
seguenti domande: Cosa significa nella vita quotidiana, dare la priorità
all’amore di Dio? Cosa significa per noi essere testimoni dell’amore di Dio in
un mondo di povertà, ingiustizia e violenza? Come possiamo contribuire a rendere
la Bregaglia non solo posto di vacanze rilassate, ma anche luogo di ripresa
spirituale? La domanda si rivolge anche al lettore. In che modo si può
veramente rinnovare la testimonianza cristiana? LA BREGAGLIA La nostra
valle Articoli sulla cultura e tradizioni della Bregaglia Di Paolo
Castellina o d'altra fonte, pubblicati soprattutto su
http://www.valchiavennaonline.it
LA CHIESA EV. RIFORMATA DI SAN MARTINO A
BONDO Far tesoro della sapienza antica: saggezza popolare bregagliotta
(seconda serie) Le chiese evangeliche di VIcosoprano, accenni di storia
degli edifici La chiesa riformata di S. Giorgio, Borgonovo Scuole di
Maloggia: verso il conformismo? La Chiesa di S. Pietro a Coltura (Stampa)
La canzun da Ruticc: Canti tradizionali ...ormai da seppellire? Pier
Paolo Vergerio (1498-1565) Augusto Giacometti (1877-1947). Il maestro dei
colori. La stria, di Giovanni Maurizio, tragicommedia nazionale bregagliotta
Caccia alle streghe in Bregaglia: episodi di un triste passato da non
dimenticare Carnefice offresi: Un carnefice grigionese (del 1700) offre i
suoi servizi ai chiavennaschi! Giovanni Andrea Scartazzini (1837-1901)
La valutazione delle donne secondo vecchi proverbi bregagliotti
Picenino, Frizzoni, Rosio: Tre personalità illustri della Bregaglia
riformata nel 17mo e 18mo secolo Silvia Andrea (1840-1935) Scrittrice La
Riforma a Soglio Nei secoli una valle vitale - Da sempre palestra di libera
circolazione di idee Usanze bregagliotte della fine e dell'inizio dell'anno
Tradizioni natalizie in Bregaglia Un confine ...discutibile Il
palazzo Castelmur di Stampa Una nuova rubrica sulla Bregaglia svizzera
LA CHIESA EV. RIFORMATA DI SAN MARTINO A BONDO
Note storiche
La chiesa di S. Martino fu inaugurata il 30 gennaio 1250. Il 15 agosto
1552 la Comunità di Bondo aderì alla Riforma in seguito alla predicazione di
Pier Paolo Vergerio, già vescovo di Capodistria. Le mura perimetrali della
chiesa, l’abside e la parte inferiore del campanile sono romaniche e datano del
1250.
La chiesa subì poi un importante restauro nel 1617; un
soffitto a volte a botte poggianti su pilastri sostituì il vecchio soffitto a
cassettoni in legno; furono modificate le finestre e aperto il rosone sulla
facciata. La sacrestia accanto al campanile è del 1687. Le due porte con profili
in granito risalgono al restauro del 1763. Il campanile fu sopraelevato alla
fine del XV secolo. Porta tre campane, fuse negli anni 1523, 1717 e 1783.
L’ultimo restauro data del 1960/1961. In questa occasione furono scoperti e
restaurati gli affreschi interni ed esterni, eseguiti intorno al 1485/1500 da
artisti lombardi.
Sulla facciata principale sono raffigurati S.
Cristoforo e S. Martino di Tours. Sopra la porta d’entrata, Maria con il bambino
Gesù, i discepoli Giovanni e Giacomo, Sant’Antonio. All’interno, sulla
parete a nord della navata, è raffigurata la Santa Cena. La scena è interrotta
da un pilastro sovrapposto durante il restauro del 1617. Si possono facilmente
identificare Gesù, i discepoli Giovanni e Giuda. La mensa è riccamente imbandita
(vino, pane, agnello pasquale, pesci, carciofi, gamberi). Nell’abside,
racchiuso nella mandorla, domina la figura del Cristo Pantocrator (Signore
dell’universo) che regge un libro con la scritta ’Io sono la luce del mondo, la
via, la verità e la vita’. Alla sua destra, i simboli degli Evangelisti Matteo e
Marco. Sopra la finestra, Giovanni Battista e di fronte a lui, Maria. A sinistra
del Cristo i simboli di Giovanni e Luca. Sopra la finestra, di fronte a Giovanni
Battista Nell’arco vi sono dei tondi inframmezzati da rappresentazioni
decorative. Al centro l’agnello, simbolo di Gesù; ai due lati il re Davide, il
profeta Ezechiele, Mosè e il profeta Daniele.
FAR TESORO DELLA
SAPIENZA ANTICA
Saggezza popolare bregagliotta (seconda serie)
L’antica saggezza popolare ha lasciato anche in Bregaglia, nei
proverbi che si sono tramandati, le proprie tracce. Nient’affatto da trascurare
neppure oggi, anche noi abbiamo bisogno del “saper vivere” che insegnano. Dopo
quelli sulle donne, di qualche articolo fa, ve ne propongo una seconda serie,
riservandomi, se lo gradite, anche altre “puntate”.
“Al mond l’è radond,
e ci nu sa navigär, va a fond” [Il mondo è rotondo e chi non sa navigare, va a
fondo!]. E’ vero, bisogna sapersi arrangiare in ogni circostanza aguzzando
l’ingegno senza mai darsi per vinti. Il mondo è un mare, infatti, e spesso in
tempesta! Spesso, però, per realizzare anche cose buone, servono i soldi, e
molti, e “An à daplü in teista cu in gaiofa” [Ce n’è di più in testa che in
tasca!]: molte di più, infatti, sono le idee che le risorse per realizzarle!
In ogni caso, meglio agire …senza troppo “rompere le scatole” alla
gente: “As a da vivar, ma är da lasciär vivar” [Bisogna vivere, ma anche lasciar
vivere!]. Questo succede anche quando qualcuno vorrebbe farla da maestro in
ambiti nei quali non ha titolo né competenza. Allora è vero: “Calgair, fa al tè
masteir” [Calzolaio: fa’ il tuo mestiere!].
Sei scoraggiato e triste
perché non riesci a realizzare ciò che vorresti? Ti lamenti di questo e di
quello? Piangere e lamentarsi, però, non risolve il problema, difatti: “Cent agn
da malinconia nu pagan ün quatrin da debit” [Cent’anni di malinconia non pagano
un quattrino di debiti]. Bisogna rassegnarsi, o meglio, darsi da fare! Non
siamo, però, troppo ambiziosi, chi troppo vuole nulla stringe! “Ci c’à ciäsa e
ort, l’è ric, e nu’s n’acordg” [Chi ha casa ed orto è ricco, e non se ne
accorge!]. Se non sai apprezzare quel che hai rischi di perdere anche quello! In
ogni caso, è bene prendersi cura anche di quel poco che s’ha: “Ci ca ciüra la si
pel, ciüra ün bel castel” [Chi si cura della propria pelle, si cura d’un bel
castello!]. La parsimonia e la sobrietà è una virtù antica: “Ci ca viv da
caparizi, paga da borza” [Chi vive di capricci, paga di tasca sua].
C’è
poi chi crede di guadagnare disonestamente, ma non è mai soddisfatto: “Ci ca
roba par mangär, à sempar fam; ci ca roba par beivar, à sempar seit, e ci ca
roba pas vastir, è sempar nüd” [Chi ruba per mangiare ha sempre fame, chi ruba
per bere ha sempre sete, chi ruba per vestirsi è sempre nudo!]. E’ saggio chi
riflette bene prima d’agire: “Ci pruma nu penza, dopo suspira” [Chi non pensa
prima, poi sospira!]. Il saggio, poi, parla poco: “Dascor poc e dascor ben, par
ca la giustizia la väda ben” [Parla poco e parla bene, affinché la giustizia
vada bene], difatti: “In boca saräda nu entran mosca” [In una bocca chiusa non
entrano le mosche!]. Per il momento ce n’è già abbastanza su cui riflettere.
Un’idea: fare una bella passeggiata rimuginando fra sé e sé questi proverbi e
vedendo come si potrebbero applicare alla nostra vita!
Continueremo fra
un po’ con altri proverbi. Naturalmente queste sono le interpretazioni che io do
a questi proverbi. Ne avete altre? LE CHIESE EVANGELICHE DI
VICOSOPRANO
accenni di storia degli edifici
Chiesa
evangelica San Cassiano Situata in posizione dominante l’antico villaggio di
Vicosoprano, per molti secoli capitale giuridica della Val Bregaglia. A una
chiesa di San Cassiano si accenna nel 1355. Data l’importanza di Vicosoprano
doveva però esistere già prima. Nel 1452 venne inaugurato un altare laterale,
dedicato a San Sebastiano e nel 1491 ebbe luogo un’altra inaugurazione,
probabilmente del coro. L'edificio attuale, divenuto dal 1530 chiesa riformata,
ebbe come primi predicatori Bartolomeo Maturo (1526-1547), già Priore domenicano
a Cremona; Giulio della Rovere (1547) da Milano e il “riformatore” della
Bregaglia Pier Paolo Vergerio (1550-1553) , già Vescovo di Capodistria e profugo
per motivi religiosi. Nel 1679 furono impostate le volte e la cantoria e
rialzato il campanile. L'orologio del campanile è del 1747. La chiesa fu
rimaneggiata ulteriormente nel 1864 e restaurata l'ultima volta nel 1954. In
quest'occasione fu installato nel coro un bell' Organo del Toggenburg del 1811,
dipinto con fiori blu : possiede canne di peltro e di legno, un manuale e 5
registri. Sobria costruzione con coro poligonale con volta a botte
impostata su segmenti di cornicione e navata a tre campate con volte a crociera.
Sul lato occidentale, cantoria barocca su colonne e piccole volte, alla quale si
accede dalla navata mediante una scala in pietra.. Nel coro si trova anche
un fonte battesimale di marmo nero su piedestallo. Pure nel coro, a sinistra, è
situato l'elegante pulpito poligonale in legno, costruito nel 1680 con colonne e
intarsi, con piccola antica clessidra. Sulla facciata sopra la porta di
ingresso, meridiana con la scritta "È tempo di cercare l'Eterno". Il
campanile isolato, a nord della navata, ha un nucleo ancora romanico (si notano
le aperture ad arco tondo murate) e un tetto a piramide ottagonale. Nella cella
campanaria vi sono tre campane del 1681, 1754 e 1871.
Chiesa
evang. S. Trinità, Vicosoprano Chiesa evangelica S.TrinitàLa chiesa riformata
di Vicosoprano, insieme con quella di Castasegna, fu costruita in periodo
riformato, quindi non poteva portare il titolo di un santo. Ambedue furono
quindi dedicate alla Santa Trinità. Questo edificio fu eretto nel 1758/61,
secondo i piani dell’Architetto G. Solari, dal Capomastro Pietro Martocco e fu
solennemente inaugurato nel 1761. Costruzione tardo-barocca di notevoli
dimensioni (la più grande delle chiese della Val Bregaglia) priva di campanile,
con pareti esterne articolate da lesene e concluse da un coro pentagonale , con
finestra esagonale; portale in granito profilato, culminante in un timpano
spezzato. Navata unica a tre campate, articolate da lesene che interrompono
il cornicione sul quale sono impostate le volte a crociera e la volta a
ventaglio del coro.Ampie finestre rettangolari si aprono sulle pareti lunghe.
Sopra il portale d'ingresso, elegante rosone con contorni in granito.
Pavimentazione originale in lastre di granito. Mensa del 1760 con piano
ottagonale in marmo nero, zoccolo ricurvo in marmo nero, giallo rosso e grigio,
opera di Baldassarre Calvasino di Varenna. Il grazioso pulpito rococò a
baldacchino, con rocailles intagliate e bande dipinte da J. Robustiano Cassina,
di Como, è coevo. Ottimo il restauro eseguito nel 2001. Anche il rivestimento
ligneo della navata e del Coro, nonché le ampie panche con schienale, risalgono
al tempo della costruzione. L'organo attuale è stato installato nel 1974, è
laccato e dorato analogamente al pulpito e possiede 1 manuale, 12 registri e 660
canne. L’edificio è stato radicalmente restaurato nel 1972 ed è stato
classificato come monumento di interesse culturale
nazionale.
LA CHIESA RIFORMATA DI S. GIORGIO,
BORGONOVO
Accenni di storia dell'edificio
Continuiamo, con
questo articolo, la descrizione sommaria degli edifici del culto riformato in
Bregaglia, molti dei quali sono riconosciuti dalla Confederazione svizzera,
monumenti nazionali da proteggere. Parliamo ora di S. Giorgio, a Borgonovo, la
chiesa visibile subito dalla strada cantonale, prima del paese, sulla destra,
dopo il distributore Esso. Continueremo poi, le prossime volte, con gli altri
villaggi.
Una Cappella facente parte della chiesa madre di S. Maria di
Castelmur è documentata fin dal 1327 nella località denominata “Sangiorz”. Era
probabilmente già allora dedicata a San Giorgio, martire cristiano di origine
greca martirizzato al tempo dell’imperatore Diocleziano verso il 284. Se ne ha
ancora notizia nel 1496, a proposito di un lascito per le messe. Quando, nel
1550, la Comunità abbracciò la Riforma, questo edificio esisteva ancora e fu
usato fino al 1693, quando fu abbattuto per consentire la costruzione
dell'attuale edificio di maggiori dimensioni.
L'edificio
attuale fu costruito nel 1694 nella medesima località, mantenendo la dedica
preesistente. È in stile barocco, con navata a due campate, con volte a crociera
ed a vasca, impostate su pilastri sostenenti il cornicione perimetrale. Le
finestre si aprono nelle lunette delle volte. Il rivestimento ligneo delle
pareti e le panche sono originali. Un arco poggiante su forti lesene divide il
coro rettangolare dalla navata. Accanto al portale di ingresso, una scala in
pietra porta alla cantoria. Sul muro di sostegno della scala sono murate due
lapidi tombali con iscrizioni in latino. La pavimentazione della navata e del
coro è in lastre di granito. Accanto alla base del campanile, piccola stanza
mortuaria (unico esempio in Bregaglia).
Il pulpito poligonale ligneo,
sul lato destro, accanto alla porta che immette al campanile, è decorato con
fregi scolpiti e porta la data 1695. La Mensa sorretta da piede marmoreo
ricurvo in marmo nero, rosso, giallo e bruno, e tavolo ottagonale in marmo nero,
fu eseguita da un artista italiano ed è databile intorno al 1760.
Di
grande interesse artistico è la finestra del Coro, dipinta nel 1935 dall'artista
di Stampa Augusto Giacometti “L’ingresso di Gesù a
Gerusalemme”.
SCUOLE DI MALOGGIA: VERSO IL CONFORMISMO?
Da “Il
Grigione italiano” del 4.3.04, di M. Picenoni
La discussione
sul futuro della scuola a Maloja verte su due aspetti diversi, sul numero
precario di allievi e sulle ripercussioni culturali ed economiche
dell'insegnamento linguistico. In tutt'e due i casi l'introduzione di una scuola
bilingue sembra offrire una soluzione soddisfacente, poiché la scuola bilingue
dovrebbe, si spera, stimolare giovani famiglie tedescofone a stabilirsi nel
villaggio e al tempo stesso favorire il contatto dei bambini di lingua italiana
con il tedesco. Oltre a ciò, si vuole mantenere l'italiano quale lingua della
cultura legittimata dal principio di territorialità. Ci si può chiedere però se
questa soluzione riesca effettivamente a risolvere i problemi sollevati o se il
compromesso linguistico non possa anzi avere degli esiti negativi per il
villaggio.
Da un'analisi differenziata dei due aspetti emerge infatti il
seguente quadro. Il problema vero e proprio sta nel calo degli allievi, che
mette a rischio il futuro dell'asilo dell'infanzia e più tardi quello della
scuola elementare e del villaggio intero poiché un villaggio senza scuole non
attrae nuove famiglie. Questo problema è però di carattere politico e non
linguistico. Una famiglia sceglie Maloggia perché le viene offerto un
appartamento a prezzi moderati e non perché si impara italiano e tedesco anziché
retoromancio e tedesco, come è prassi in molti comuni engadinesi.
Riguardo all'aspetto culturale ed economico è luogo comune sostenere che
una scuola bilingue costituisca un arricchimento culturale. Questo concetto va
bene per un luogo in cui si parla una lingua sola, ma Maloggia è un caso davvero
eccezionale. Appartiene ai pochi villaggi privilegiati che possono mandare i
propri allievi in una scuola secondaria di lingua italiana e che imparano
successivamente il tedesco nella scuola professionale, raggiungendo un livello
di bilinguismo che li distingue e favorisce sul mercato del lavoro.
A
rischio è proprio questo vantaggio. Con l'introduzione della scuola bilingue ne
consegue un peggioramento dell'italiano e quindi un orientamento verso gli
istituti engadinesi di lingua tedesca, dove si impara l'italiano come lingua
straniera, conformemente alla politica linguistica cantonale. In altri
termini, con l'introduzione di una scuola bilingue Maloggia rischia di perdere
un vantaggio culturale e soprattutto economico, in un cantone che non a caso si
è fortemente aperto all'italiano negli ultimi anni.
Proprio nel settore
economico più importante di Maloggia, il turismo, si ò osservare questa tendenza
al conformismo. Sulle insegne Maloja si definisce 'familienfreundlich'. Mi sia
concessa la domanda: quale villaggio turistico non lo è o non lo vorrebbe
essere? Sembra che la politica linguistica si stia muovendo nella stessa
direzione e miri a un appiattimento della sua peculiarità linguistica
allineandosi allo standard cantonale.
LA CHIESA DI S. PIETRO A
COLTURA (STAMPA)
Appunti di storia dell'edificio.
In
occasione del 450mo della Riforma protestante in Bregaglia, nel 2002, si è
provveduto ad apporre in ogni locale storico di culto della valle, una targa
bilingue che ricorda le tappe della sua storia. Gradita ai visitatori, che così
possono avere maggiore consapevolezza del luogo in cui si trovano, questi brevi
testi vorremmo riproporli gradualmente ai lettori di ValChiavennaOnLine insieme
ad alcune foto. Cominciamo con Stampa, la chiesa di S. Pietro.
Esisteva già prima della Riforma - probabilmente dal 1518 - un edificio
ecclesiastico in località “Motta”, una collina in amena posizione ad ovest del
villaggio Coltura (ove sono state trovate tracce di insediamento dell'epoca
romana). Nel 1525 esisteva una chiesa che nel 1530 doveva essere abbattuta
perché in cattivo stato. Passata la comunità alla Riforma, la chiesa rimase
ancora alcuni anni in funzione, ma verso la fine del XVII secolo cadde in disuso
perché semidiroccata. Sappiamo che nel 1741 la Comunità riformata di Stampa
dovette decidere se restaurare questo edificio o costruirne uno nuovo al centro
del villaggio di Coltura. Si decise di restaurare il vecchio edificio, ma
sappiamo da un Verbale del 24 maggio 1741 che si dovette abbattere completamente
questa costruzione per far posto al nuovo tempio. I lavori di costruzione furono
portati a termine in due anni dalle squadre di Borgonovo e Coltura e nel 1744
venne inaugurata. Nella tradizione popolare ha conservato il titolo del Patrono
della chiesa preesistente, San Pietro.
Si tratta di un
edificio barocco di notevoli dimensioni, a un sola navata su due campate
articolate da lesene e terminante con un Coro rettangolare, secondo il gusto
barocco, che può accogliere circa 200 persone. Sull’architrave del portale
occidentale, in granito, è incisa la data 1743, come pure sulla Mensa in
serpentino verde. Il pulpito ligneo poligonale, con intarsi ed ornamenti, era
stato recuperato nella vecchia chiesa. Fu più volte restaurato nel corso di
questi due secoli e mezzo, ma senza subire alcuna trasformazione. L'ultimo
restauro risale agli anni 1972/73. Il campanile si trova a sud del Coro, con
entrata indipendente. Nella cella campanaria si trovano tre campane, risalenti
al 1492 (conservata dalla prima chiesa), al 1630 e al 1717.
Di grande interesse il dipinto ad olio su tela “Il mattino
della Risurrezione”, eseguito nel 1915 dal pittore bregagliotto Augusto
Giacometti, e posto sul lunotto dell’abside.
LA CANZUN DA
RUTICC
Canti tradizionali ...ormai da seppellire? La
Bregaglia. La cultura popolare bregagliotta conosce molti canti tradizionali
che (stavo per dire) si tramandano di padre/madre in figlio/a, ma che oggi mi
sembra che la più gran parte dei bambini, ragazzi e giovani non conosca più. Li
cantano gli anziani nei loro incontri, qualche volta pure le due corali di
valle. Perché oggi gli insegnanti non li insegnano più come una volta? Anche qui
da noi ho l'impressione che si pensi sempre di più che la cultura tradizionale
"ormai debba morire". Allora a scuola si insegnano le canzoni dei cantautori più
di moda e "i classici" dei Beatles, ma perché non, ad esempio, "La canzun da
Ruticc"? Si pensa: "I ragazzi ridono di queste cose e non le vogliono più
cantare", "Vogliono essere moderni" e allora "buttiamo a mare" (o nella Maira)
tutta la nostra cultura locale e diventiamo anche noi dei bravi globalizzati! Ci
guadagneremo da questo? Ne dubito. I nostri figli diventeranno tutti bravi
consumatori di quello che ci propinano le multinazionali... Certo saranno
"integrati", ma saranno solo "bravi sudditi" dei "potenti" di turno e delle
ideologie prevalenti. Gli insegnanti sono educatori o "servi del sistema"? Mi
chiedo se sia questo che vogliamo!
Ogni tanto, così, vorrei proporre il
testo (e la musica) di qualche canto tradizionale bregagliotto. Chissà se vi
sarà qualche giovane che avrà "il coraggio" di cantarlo!
Propongo oggi
"La canzon da Ruticc", con una melodia popolare bregagliotta, armonizzazione:
Oreste Zanetti, 1970 udibile cliccando qui.
La canzun da Ruticc
E sün quela mota da quel bel Ruticc, O ch'in vöi 'na bela o ch'i
nu'n vöi brich.
E sün la muntagna al cresc erba e flur, E giò la
planüra 'l sta 'l me ciär amur.
O ve' giò Magreta e giüdum fär cun fen,
Ca quistan l'è l'an ca ie 't vöi tant al ben.
O ve' giò Magreta e
giüdum sagazär, Ca quist an l'é l'an ca ie 't vöi maridär.
E da
tantan bora ca i'à mess in vöga, E la pü pitina la m'à inganà.
E da
tantan bora ca i'à vugagià, E la pü pitina m'à tocà al man.
Quela
bela mata ca ià avdü da nöiv, L'era giò la stala c'la bavräva i böiv.
La bavräva i böiv e la bavräva lan vaca, La spaciäva al spus câl
gniss cun la fugacia.
La bavräva lan vaca, la bavräva i böiv, La
spaciäva al spus c'al gniss cun i anei.
E par fär pulenta ai vol aua e
farina, E par fär l'amur ai vol 'na balarina.
E par fär lasciva ai
vol 'na buna plata, E par fär l'amur ai vol 'na bela mata.
E par fär
lasciva ai vol aua e saun, E par fär l'amur ai vol e fär dal bun.
E
par fär lasciva ai vol üna caldeira E par fär l'amur ai vol e veir
maneira.
PIER PAOLO VERGERIO (1498-1565)
Da nunzio pontificio e
vescovo a riformatore protestante della Bregaglia Fra i personaggi che
hanno segnato la storia della Bregaglia, non possiamo dimenticarci di Pier Paolo
Vergerio (1498-1565). Certo, non era un bregagliotto, ma è stato fra i primi e
più illustri predicatori dell'Evangelo che hanno condotto i cristiani di questa
valle a riformare la loro fede secondo i dettami della Parola di Dio,
respingendo, come spesso è scritto nelle nostre chiese, "gli errori e le
superstizioni umane".
Già nunzio pontificio e vescovo della chiesa
romana, egli rinuncia a queste cariche e (costretto dalla persecuzione) accetta
l'esilio, diventando (come pure era successo agli antichi apostoli) strumento
nelle mani di Dio per la diffusione della verità evangelica in diverse nazioni,
e non solo in Bregaglia! Possiamo veramente dire, anche nel suo caso, che "le
vie della provvidenza sono infinite" davvero, e che Dio usa i Suoi servitori ben
al di là delle loro intenzioni! I cristiani della Bregaglia possono essere
riconoscenti a Dio per uomini così!
Le seguenti note biografiche sono di
Emidio Campi, professore alla Facoltà di Teologia dell'Università di Zurigo.
Pier Paolo Vergerio nacque a Capodistria nel 1498. Dopo gli studi
giuridici a Padova entra nella magistratura veneziana. Mortagli la moglie, Diana
Contarmi, si pose al servizio della chiesa. Fu nunzio pontificio a Vienna e in
Germania nel 1535, con l’incarico di convincere i principi protestanti tedeschi
a partecipare al concilio. Per i servizi resi venne ricompensato con la nomina a
vescovo di Modrus in Croazia e quindi di Capodistria, sedi vescovili povere di
risorse economiche. Disilluso da tale trattamento, accettò l’ospitalità di vari
principi italiani e del re Francesco I di Francia, per incarico del quale
partecipa al colloquio di religione di Worms-Ratisbona (1540-1541). In questo
periodo entra in contatto con influenti prelati come i cardinali Gasparo
Contarini e Reginaid Pole, che nutrivano la tenace speranza di una graduale
riforma della chiesa.
Conobbe inoltre personalità di spicco del
protestantesimo come Filipppo Melantone, Martin Bucero. Rientrato nella diocesi
di Capodistria, vi iniziò una vigorosa riforma dottrinale, morale e disciplinare
che gli procurò l’accusa di eresia. Con abili manovre legali riuscì a sfuggire
al processo, ma braccato dall’inquisizione, abbandonò l’Italia nel maggio 1549.
Dopo brevi soggiorni a Chiavenna, Coira, Poschiavo e Basilea, nel
gennaio 1550 Vergerio accettò l’invito della comunità riformata di Vicosoprano
di diventarne il pastore. Nei tre anni e pochi mesi trascorsi a Vicosoprano la
sua eloquenza, la fama delle prestigiose cariche rivestite e di cui si era
volontariamente spogliato per abbracciare la fede evangelica attrassero una
quantità di persone dai villaggi vicini e facilitarono l’evangelizzazione della
Valtellina e dell’Engadina. Egli mise inoltre la sua vasta cultura e i suoi doni
di polemista al servizio del popolo di montanari che lo ospitava. Scrisse non
meno di quaranta trattati divulgativi ed opere di controversia, tra cui: Uno
brieve et semplice modo per informar li fanciulli nella religione christiana
fatto per uso delle chiese di Vicosoprano ed altri luoghi di Valle Bregaglia”
(1551) e la ‘Historia di M. Francesco Spiera’ (1551), opera che gli procuro fama
europea. Il suo stesso zelo di propaganda religiosa nella zona di Bondo, Soglio,
Casaccia e fino a Chiavenna lo portò a voler assumere una posizione di
preminenza.
Agiva come un vescovo, stabilendo nuovi pastori nelle
località evangelizzate, si ingeriva nella vita delle chiese di lingua italiana
nei terrori soggetti alle Tre Leghe, provocando l’irritazione non soltanto dei
pastori locali ma anche dei dirigenti ecclesiastici, a cominciare dall’influente
Gallicius di Coira. Consapevole del suo crescente isolamento, Vergerio non si
trattenne più a lungo in questo campo di lavoro che fu certo fecondo, anche se
non privo di dolorose esperienze.
Nella primavera del 1553, Vergerio
accettò l’invito del duca Cristoforo del Wuerttemberg di trasferirsi a Tubinga
come consigliere. Intraprese vari viaggi in Germania, Austria e fino in Polonia
per pacificare il protestantesimo polacco travagliato dai dissensi suscitati
dagli esuli italiani. Né meno intensa fu la sua attività di pubblicista. In
collaborazione con l’esule sloveno Primus Trubar organizzò una tipografia ed un
istituto per la traduzione, la pubblicazione e la diffusione della Bibbia in
sloveno e croato, oltre che di numerosi testi della Riforma, tra cui il Piccolo
catechismo di Luterò e il Beneficio di Cristo’, il gioiello teologico della
Riforma italiana. Vergerio mori il 4 ottobre 1565, all’età di 67 anni.
AUGUSTO GIACOMETTI (1877-1947)
II maestro dei colori.
Continuiamo con la presentazione di personaggi che, nel corso della
storia, hanno fatto della Bregaglia una ricca fucina di uomini e donne che,
nonostante la ristrettezza geografica della valle, hanno dato un contributo
rilevante alla cultura non solo europea. "Il mattino della
Risurrezione", di A. Giacometti (Chiesa di S. Pietro a Coltura, Stampa). Oggi
vorrei parlare di Augusto Giacometti (1877-1947).
“Il mattino della
Risurrezione”, che orna il coro della chiesa di San Pietro, venne dipinto nel
1914 da Augusto Giacometti, che riprese un progetto di dieci anni prima. Un
dipinto in una chiesa riformata? La cosa è abbastanza curiosa. La Riforma si
concentra, infatti, sull’annuncio della Parola e sul rispetto dei comandamenti
che, nel secondo, afferma: "Non farti scultura, né immagine alcuna delle cose
che sono lassù nel cielo o quaggiù sulla terra o nelle acque sotto la terra. Non
ti prostrare davanti a loro e non li servire, perché io, il SIGNORE, il tuo Dio,
sono un Dio geloso" (Esodo 20:4). Ecco così che le immagini, che erano spesso
oggetto di devozione, furono asportate dalle chiese. Contro la volontà stessa
dei riformatori (che le volevano semplicemente rimosse ed eventualmente
vendute), certe opere furono distrutte dal furore iconoclasta.
Verso la
fine del 19° e l’inizio del 20° secolo, in corrispondenza ad un affievolimento
della considerazione della Bibbia come regola di fede e di condotta, si guardò
alle immagini con un atteggiamento più liberale. La presenza di quadri venne
reinterpretata quale “lode di Dio attraverso gli occhi”. Invece di distoglierci
da Cristo, si affermava, l’immagine può anche guidarci a Lui. In questo
rivolgimento Augusto Giacometti ha avuto, così, un ruolo determinante. La sua
Risurrezione fu una delle prime opere figurative ad essere accolta in una chiesa
evangelica non dei Grigioni soltanto, ma della Svizzera in generale. Non per
niente si attesero allora dieci anni, prima di eseguire il lavoro progettato.
L’opera si presenta come un affresco, e però in realta un dipinto ad olio su
tela. Anche questa scelta può essere stata dettata dalla precauzione di
garantire un facile allontanamento del dipinto nel caso non venisse accettato.
Negli anni successivi s’aprì ad Augusto Giacometti un vasto campo d’azione: egli
ricevette incarichi per affreschi e vetrate in parecchie chiese nei Grigioni (a
Coira, Davos, Klosters) e soprattutto a Zurigo. Nella chiesa di San Pietro sono
esposte le fotografie di alcune sue grandi opere. Augusto
Giacometti. Augusto Giacometti, cugino di secondo grado del pittore Giovanni
Giacometti, nacque a Stampa nel 1877 e trascorse gli anni giovanili a Zurigo e
Coira. Dopo aver concluso la scuola d’arte e mestieri di Zurigo, nel 1897 si
recò a Parigi, dove segui i corsi d’arte decorativa di Eugene Grasset. Nel 1902
si stabili a Firenze, la città alla quale si seno sempre più legato che a
qualsiasi altra. Nella sua autobiografia scrive: “So che nell’intimo io ero
sempre per Firenze, per questa città discreta e tranquilla, che non fa chiasso,
che non si mette in mostra. Al suo confronto "Roma è più pompa che contenuto”.
Fra Angelico soprattutto era per lui fonte d’ispirazione. Dal 1915 fino alla sua
morte visse a Zurigo. Nel 1934 venne accolto quale membro nella Commissione
svizzera d’arte e nel 1939 ne diventò presidente. In tutte le fasi della sua
vita mantenne vivo il legame con la Bregaglia. Alla sua morte nel 1947 venne
sepolto nel cimitero di San Giorgio presso Borgonovo con gran partecipazione
della popolazione locale.
La sua arte nasce nell’ambito dello stile
floreale, ma questo viene superato dal suo straordinario senso del colore. Non
per nulla le vetrate costituiscono una parte cosi importante della sua opera.
“Da sempre - egli scrive – il colore e tutto ciò che e colorato mi ha fatto
grande impressione... Quando da bambini guardavamo attraverso vetri colorati,
eravamo tutti d’accordo nel trovare che il mondo sarebbe stato meraviglioso se
fosse sempre stato cosi, sempre tutto rosso o sempre tutto giallo o sempre tutto
azzurro...”.
LA STRIA, DI GIOVANNI MAURIZIO
La 'tragicommedia
nazionale bregagliotta'.
II ricordo dei processi alle streghe,
celebrati nel 17° secolo, si e mantenuto vivo a lungo. Nel 1875 si rappresentò
per la prima volta la tragicommedia La stria (La strega) di Giovanni Andrea
Maurizio. Scritta in dialetto bregagliotto, La stria conquistò il cuore della
popolazione. Venne rimessa più volte in scena (l’ultima nel 1979) con la
partecipazione di numerosi dilettanti locali. Giovanni Andrea Maurizio nacque a
Vicosoprano nel 1815. Studiò teologia a Zurigo, ma dovette interrompere gli
studi per motivi di salute. Durante un soggiorno a Cracovia imparò polacco e
russo. Dopo ulteriori studi a Firenze insegnò in vari istituti, fra l’altro alla
Scuola evangelica di Schiers. Sempre per motivi di salute dovette però lasciare
l’insegnamento. Si ritiro allora nella valle nativa, dedicandosi
all’agricoltura. Fu nominato landamano di Bregaglia. Nel 1865 pubblicò uno
scritto polemico “Zeitgeist” (Spirito del tempo), un attacco all’atteggiamento
materialistico e mercantile che si accompagnava al progresso tecnico. Dopo aver
ripreso l’insegnamento per qualche anno, morì a Vicosoprano nel 1885. G. A.
Maurizio era profondamente legato alla tradizione riformata e nel contempo
convinto fautore della tolleranza fra le confessioni.
L’epilogo di La
stria e costituito da una voce celeste che esorta all’umiltà sia i cattolici che
i riformati e li incita a fare pace fra loro. Maurizio ritiene che anche la
credenza alle streghe sia frutto dei tempi bui dell’intolleranza e l’ossessione
possa essere superata dalla forza dell’amore. L’opera e intessuta di molte scene
che rappresentano vita, tradizioni e parlata dei diversi villaggi. La trama si
può cosi riassumere:
Tumee, giovane di buona famiglia, ama Anin, una
fanciulla povera. Questo suscita la gelosia della giovane Menga che, per
distogliere Tumee dalla rivale, la calunnia di essere una strega. Anin e
arrestata ed interrogata. Sotto tortura la poveretta confessa e viene condannata
a morte. Tumee perdura però nel suo amore e tenta di farla evadere dal carcere.
Nel contempo Menga, rosa dal rimorso, smaschera la sua calunnia e Anin viene
graziata.
Anche se nel 16° secolo non vi furono processi alle streghe in
Bregaglia, Maurizio ambienta la vicenda nell’epoca della Riforma. Questo gli da
l’opportunità di mettere in scena i riformatori della Valle Bartolomeo Maturo e
Pier Paolo Vergerio, come pure i difensori della “vecchia fede” e di dare voce
ai loro messaggi. La liberazione di Anin e la sua felice unione con Tumee sono
d’auspicio per una più vasta unione oltre i confini confessionali, nella
tolleranza e nell’amore.
CACCIA ALLE STREGHE IN BREGAGLIA
episodi
di un triste passato da non dimenticare.
...rimanendo in tema
"horror" (vedi l'articolo precedente "Carnefice offresi"), un aspetto della
storia antica della Bregaglia riguarda la "caccia alle streghe". Era un
fenomeno, evidentemente, presente anche altrove, ma che ha avuto in Bregaglia
tristi episodi. Nel "pretorio" di Vicosoprano, i visitatori possono ancora
vedere strumenti di tortura, e un episodio di "caccia alle streghe" è passato
alla memoria attraverso "La Stria", il famoso testo teatrale di Giovanni
Maurizio.
La credenza che certe disgrazie e malattie siano opera di
stregoneria e diffusa in molte culture. Nell’Europa del 15° secolo, alle soglie
dell’era moderna, tale credenza suscitò una vera ossessione delle streghe,
ossessione che doveva protrarsi per più secoli. Anche la chiesa riformata ne fu
contagiata. Quando una malattia sconosciuta colpiva gente o bestiame si
sospettava che il danno fosse stato perpetrato da uomini, ma soprattutto da
donne, che si servivano di forze occulte.
Si era ampiamente diffusa
tutta una serie di credenze. Si sosteneva che le streghe avessero commercio con
il diavolo, che partecipassero alle tregende (“barioni”), che fossero state
dotate dal diavolo di ogni genere di forze sovrannaturali. Il sospetto di
stregoneria ricadeva spesso su persone emarginate dalla società.
In
Bregaglia i processi alle streghe iniziarono soltanto nella seconda meta del 17°
secolo. Vi furono giustiziati complessivamente più di venti streghe e stregoni:
decapitati o arsi sul rogo. Le confessioni venivano di solito estorte con la
tortura. In questo modo gli accusati finivano con l’ammettere quello che i
giudici volevano sentire. Alcuni accusati morivano sotto tortura. Secondo gli
atti del tribunale di Vicosoprano, in data di agosto 1669 Catarina Sollara
confessava di aver partecipato ad un barlot, durante il quale il diavolo l’aveva
sposata ad un uomo di nome Giacomo, il quale le aveva dato un anello d’oro che
si era poi rivelato semplice paglia intrecciata. Confessava di avere avuto
commercio sessuale con il diavolo, di non aver provato però nessun piacere,
contrariamente a quanto avveniva con suo marito. Confessava inoltre di avere
ricevuto dal diavolo un bastone e un vaso con un unguento nero e maleodorante
per contaminare uomini e bestiame.
Una prima serie di processi ebbe
luogo negli anni 1654/55, una seconda nel biennio 1668/69. Un processo
n’attirava un altro perché, sotto tortura, l’accusato denunciava presunti
complici. L’ultimo processo si celebra nel 1688. Le streghe erano condannate da
tribunali civili: la chiesa non era direttamente coinvolta. Ma all’epoca stato e
chiesa non erano nettamente distinti. Autorevoli rappresentanti del clero
ritenevano che lo sterminio delle streghe fosse opera giusta e pia. Ancora nel
1742 Nicolin Sererhard, uno stimato parroco grigione, scriveva: “Gente che si
crede saggia... afferma che la stregoneria non sia che immaginazione... In
verità le autorità ecclesiastiche farebbero molto bene di appuntare, più
energicamente di quanto non faccia, le loro spade contro tale gente perniciosa e
pericolosa: questo contribuirebbe a mettere fine al regno di Satana per la
gloria di Dio”.
Verso la fine del 17° secolo l’opposizione ai processi
alle streghe si fece sempre più decisa, anche da parte delle chiese. Nel 18°
secolo si ebbe soltanto qualche processo isolato.
Carnefice
offresi… Un carnefice grigionese (del 1700) offre i suoi servizi ai
chiavennaschi! Ho ritrovato recentemente un documento originale della fine
del 1700, in cui un carnefice (un boia) grigionese, Giovanni Krieger,
“stipendiato dell’Eccelsa Repubblica Reta”, …evidentemente disoccupato, offre il
suo “ferro benefico” alle autorità di Chiavenna per ristabilirvi l’ordine e la
giustizia pregiudicata, a suo dire, dalla “pestilenziale” tolleranza e clemenza
verso i criminali introdotta nel chiavennasco dall’influenza del pensiero del
lombardo Cesare Beccaria. Vero e proprio dépliant pubblicitario del tipo
“Carnefice offresi”, egli afferma: “…mio impegno sarà vibrare il colpo salutare,
o stringere il nodo dell’onorevole fune con destrezza e maestria, e di porre in
opera a Vostro sollievo, i più ascosi raffinamenti della confortatrice mia
professione”. Se le autorità di Chiavenna permetteranno al succitato di
risiedere in città, egli potrà persino far risparmiare loro di dover stipendiare
chirurghi e levatrici (!), nelle cui arti, egli sarebbe altrettanto esperto:
“Colmato d’un benefizio sì segnato, quale non deve essere la mia gratitudine! Io
non posso che offerirvi tutto me stesso, ed accertarvi con ingenuità, che
allora, quando sarò trapiantato tra voi, come lo spero, avrete in me un
indefesso Cooperatore, un docile Cittadino, ed un Amico sincero. Di più a Vostro
pro impiegherò pure le estese cognizioni, di cui sono fornito nell’arte
Chirurgica, e particolarmente nella parte ostetricia”! Insomma: con lui “prendi
tre e paghi uno”! Qual era la situazione dell’ordine pubblico a Chiavenna che
dovesse richiedere la ferma e risolutoria mano di un carnefice? Probabilmente il
quadro fosco che descrive era teso solo a promuovere la sua assunzione...
“Scorgevo, che un popolo, per lo più sitibondo d’umano sangue per sfogo di
vendetta e di livore, inventore di monopoli e d’usure, nemico dell’ordine,
speculatore di tradimenti, schiavo vile della superstizione e del fanatismo, ha
d’uopo di doppio freno e di pesanti catene, che un popolo dall’educazione
disposto (…) Vedevo, in somma, con orrore, che le suddite Province presentavano
alle confinanti nazioni li originali modelli della sfrenatezza e dell’empietà, e
che una feudale Anarchia dava il potere a pochi nazionali usurpatori, consacrati
o al Tempio o al Foro, d’impunemente assassinare l’utile, ma sventurato
Contadino”. Di fronte a tutto questo era utile la clemenza e la tolleranza?
No, secondo il nostro carnefice: “Voi dimostraste con chiari e convincenti
argomenti, che l’Assessore è l’unico vindice e custode della civile libertà e
che non sono mai soddisfatte le Leggi, se non allora, quando esso, ed il mio
braccio, con inalterabile armonia, si consociano ad immolare la vittima (…) “se
la benefica arte di Galeno prescrive talvolta l’ustione o taglio d’un membro
infetto per conservare la macchina, la vera arte politica insegna del pari di
svellere dalla Società gli individui infesti a fine non si corrompa l’intera
massa”. Il ragionamento non fa’ una grinza. O no? Certo, il Beccaria …andava
contro i suoi interessi, ma l’aveva veramente compreso? Cesare Beccaria nacque a
Milano da una famiglia nobile nel 1738. Dopo aver studiato a Parma presso i
gesuiti ed essersi laureato in legge all'Università di Pavia, nel 1760
interruppe qualsiasi rapporto con i genitori e con il suo ceto, in parte perché
nauseato dall'ambiente della nobiltà. Si convertì all'Illuminismo e si avvicinò
ai fratelli Verri. Nel 1764, in seguito all'uscita del suo "Dei delitti e delle
pene", si ritrovò al centro dell'interesse degli illuministi e delle polemiche
reazionarie, sia di tipo religioso, sia di tipo morale. Per quell'epoca, "Dei
delitti e delle pene" fu un opera di capitale importanza tanto da un punto di
vista contenutistico quanto da un punto di vista formale, un'opera che al rigore
logico univa il pathos umanitario e che avallava le esigenze dello stato
illuminato. Partendo dal "contratto sociale" di J. J. Rousseau, Beccaria afferma
la necessità che le leggi si conformino al minimo di severità necessaria ad
ottenere lo scopo. Non punizione, ma autodifesa della società: di qui la
condanna della tortura e della pena di morte. L'opera ebbe uno strepitoso
successo di pubblico e fu immediatamente tradotta in molte lingue, ma fu anche
messa nell'Indice dei libri proibiti dalla Chiesa nel 1766. All'opera si ispirò
la riforma penale del Granducato di Toscana promulgata nel 1786 da Pietro
Leopoldo. Nel 1766 fu accolto con esultanza a Parigi, dove si era recato insieme
con Alessandro Verri, ma non vi si trattenne a causa del suo carattere schivo e
della preoccupazione che nutriva verso la giovane moglie Teresa, rimasta a
Milano. Questo fatto causò la rottura dei suoi rapporti con i Verri. Morì a
Milano nel 1794.
Il documento originale Molto reverendi e nobili
signori deputati di Valtellina e della civile criminale giurisdizione di
Chiavenna! Io non ho provato momento più consolante di quello, in cui,
riscossa dalla serie di tanti misfatti l’Eccelsa Repubblica con supremo
spontaneo Rescritto ridonò alli Statuti e Capitolato di Milano la primiera
energia. La molteplicità delle grazie emanate dalla Pretoriale clemenza,
congiunte alle frequenti criminali transazioni, mi avevano quasi determinato
d’abbandonare i Reti lidi, e cercare sott’altro Cielo men tollerante, i mezzi
della giornaliera mia sussistenza. Fremevo, lo confesso, allora quando le
Chimere, ed i Sogni di certo Beccarla ed altri deboli Novatori, dopo avere
sfibrato il Codice penale nella limitrofa Lombardia, cominciavano anche fra Voi
a spargere il pestilenziale veleno, ed a formarsi dei seguaci, che, diffendendo
i rei sfrontatamente, impugnavano alla giustizia i veri e sacri suoi diritti.
Prevedevo, che la dolcezza delle pene avrebbe resi sempre più scellerati i
Vostri Concittadini. Comprendevo a pieno, che la letterale esecuzione degli
Statuti di Valtellina, segnatamente nei capitoli 49, 53, 55, 56, 57, 60, 62, 64,
65, 67, e di Chiavenna nei Capitoli 36, 38, 42, 53, 47, 49, 50, 52, 63 […] era
l’unico attivo caustico, con cui impedire i progressi della totale Cancrena.
Scorgevo, che un popolo, per lo più sitibondo d’umano sangue per sfogo di
vendetta e di livore, inventore di monopoli e d’usure, nemico dell’ordine,
speculatore di tradimenti, schiavo vile della superstizione e del fanatismo, ha
d’uopo di doppio freno e di pesanti catene, che un popolo dall’educazione
disposto, e per ereditaria indole pronto a vilipendere le Leggi, e con religioso
furore, sacrificare i suoi simili, come ce ne fanno fede i patri Annali, è un
torrente rovinosi cui debbonsi apporre argini sodi e robusti che un popolo
finalmente, quale, immerso nei pregiudizi, adora come Oracoli dal Dio della
verità, fra tuoni e fulmini, trasmessi, le massime riprovate de’ sacri suoi
Ministri, quantunque testimonio oculare della loro ingordigia e corruttela, mal
si conduce all’adempimento dei sociali doveri, coll’uso delle grazie, e cola
mitezza dei castighi. Vedevo, in somma, con orrore, che le suddite Province
presentavano alle confinanti nazioni li originali modelli della sfrenatezza e
dell’empietà, e che una feudale Anarchia dava il potere a pochi nazionali
usurpatori, consacrati o al Tempio o al Foro, d’impunemente assassinare l’utile,
ma sventurato Contadino. Si, comprendevo tutto ciò, ma l’abiezione, in cui era
in quei tempi d’oscurità il mio offizio, non mi permetteva d’inoltrare fino al
trono le profonde mie riflessioni, ed i giusti miei richiami. Ora però, che
codeste utili verità vennero nei supremi Comizi opportunamente penetrati, mercé
la benefica opera Vostra Molto Reverenti e Nobili Signori Deputati! E che i
coraggiosi Vostri movimenti furono il Tuba avventuroso della mia voce:
permettete che unisca i miei sentimenti di riconoscenza, ed ingenui applausi a
quelle dei pochi onesti Cittadini, che allora, quando dominava la criminale
tolleranza, gemevano oppressi, ed erano vittima di tanti malvagi. Voi, aborrendo
gli empi principi d’una stolida Filosofia, destè il primo urto al pernicioso
simulacro della clemenza. Voi, da saggi ben comprendeste, ch’io sono l’unico, e
vero Beccarla, dalle di cui frequenti operazioni, può solo sperarsi il
desiderato cambiamento dei costumi. Voi, anche di fresco, sempre prodi e sempre
fermi nelle lodevoli vostri piani, con stabilimento comunicativo faceste
comprendere ai Pretori, che essi sono investiti dell’eminente autorità, solo per
letteralmente eseguire le patrie Leggi, e che per l’avvenire altro non saranno
che organi materiali della municipale volontà. Voi dimostraste con chiari e
convincenti argomenti, che l’Assessore è l’unico vindice e custode della civile
libertà e che non sono mai soddisfatte le Leggi, se non allora, quando esso, ed
il mio braccio, con inalterabile armonia, si consociano ad immolare la
vittima. So benissimo che le anime deboli, e l’invidia degli arrabbiati
vostri emuli, forse vi rimprovereranno, che codesta provvida concordia
dell’Assessore e del Carnefice, in una nazione composta da tanti eroni, e con un
corpo di Leggi sì severe, produrrà rapidamente una sensibile diminuzione di
popolo, e rimarranno fra pochi lustri quasi inospite le vostre Contrade. Ma chi
non vede, che quanto accade nei corpi fisici, succede purtroppo nei corpi
morali; e che, se la benefica arte di Galeno prescrive talvolta l’ustione o
taglio d’un membro infetto per conservare la macchina, la vera arte politica
insegna del pari di svellere dalla Società gli individui infesti a fine non si
corrompa l’intera massa. Io la Dio mercé gustai di già li preziosi frutti di
questo salubre criminale cambiamento. Dopo l’emanazione del commendevole
Decreto, in tutto conforme ai vostri puri voti, già tre volte discesi dall’Alpi
nelle amene pianure delle suddite provincie, per fare sentire all’empio li utili
effetti della pubblica sanzione. Con tali caparre, pieno di esuberante gioia,
preveggo che, ove non venga alterato l’introdotto sacro sistema, dovrà l’Eccelsa
Repubblica concedermi di stabilire il mio domicilio fra di voi. Fra Voi, cui mi
trovo unito con sempre più indissolubili nodi; fra Voi, il di cui natio genio, e
morale carattere cotanto al mio si somiglia. La Religione a ciò non si
opporrà certamente, non potrà l’articolo 33 del Capitolato di Milano
coll’imperiosa sua Voce arrestarmi sul Vestibolo delle vostre deliziose
provincie, giacché per somma mia sorte, professo con voi li stessi puri Dogmi.
Non temiate già, che la Rezia Dominante resista alla mia volontaria emigrazione.
Essa non ha, direi, quasi d’uopo del mio ministero per proteggere la pubblica
salute. Ivi l’universale semplicità di costumi, l’orrore per l’umano sangue,
quando non abbiasi a spargere per la difesa dei patri Lari ed imperturbabili
diritti, la buona fede da voi reputata melensaggine, la costante concordia da
Voi sconosciuta, ove non si tratti di inalberare il micidiale stendardi delle
scongiure e cospirazioni, la benefica umanità, che si diffonde sopra tutti gli
esseri, la docile subordinazione alli sociali doveri, succhiata fra le fasce, ed
instillata loro dei Ministri ortodossi ed eterodossi dall’Altare, trionfano
senza il terribile soccorso delle leggi penali, a dispetto di quella
consolatrice facoltà dataci dalla natura per operare a seconda dei nostri
qualunque siansi desideri, cui nell’illuminata vostra provincia ergete templi ed
offrite incensi. Ivi credetelo pure, sono nomi ignoti li omicidi proditori, gli
incesti, le rapine, gli assassini, di cui fanno quasi pompa gli Vostri popoli, e
senza cui monotona li sembra l’esistenza, ed impossibile l’acquisto d’una vera
felicità. Colmato d’un benefizio sì segnato, quale non deve essere la mia
gratitudine! Io non posso che offerirvi tutto me stesso, ed accertarvi con
ingenuità, che allora, quando sarò trapiantato tra voi, come lo spero, avrete in
me un indefesso Cooperatore, un docile Cittadino, ed un Amico sincero. Di più a
Vostro pro impiegherò pure le estese cognizioni, di cui sono fornito nell’arte
Chirurgica, e particolarmente nella parte ostetricia, e mi accontenterò di
quella mercede che dal Collegio dei Vostri Ippocrate verrà stabilita. Così non
avrete da essere doppiamente scorticati da coloro, che di estera nazione dopo
avere nelle vostre opulente province ammassati tesori, o sdegnano di prestare
l’opera, o prestandola, esigono un’usuraria rimunerazione. Quantunque poi
insignito d’una carica altrevoltre spregevole, ed ora luminosa, mercé i
brillanti raggi che voi ricevete dal Vostro astro, non aspirerò ad eguagliarmi
pienamente a Voi, e nelle pubbliche solenni comparse non pretenderò di essere
sopra Voi distinto, purché, tanto nella Valtellina, quanto in Chiavenna, possa
immediatamente seguirvi, avente da un lato pendente il mio ferro benefico, e
dall’altro il Nobile togato signor Assessore, giacché noi soli possiamo
legalmente integrare il Magistrato. Persuadetevi finalmente, cari ed amati
futuri CONCITTADINI! Che eterna sarà la mia riconoscenza; ed allora quando gli
esimi Vostri meriti, e sparsi sudori per la Patria vi condurranno al più alto
seggio della Gloria, mio impegno sarà vibrare il colpo salutare, o stringere il
nodo dell’onorevole fune con destrezza e maestria, e di porre in opera a Vostro
sollievo, i più ascosi raffinamenti della confortatrice mia professione. Il
regolatore dei destini avvicini un giorno per me sì lieto, a fine possa dare
prove indubitate della sincerità dei miei sentimenti, e tributare all’eroismo un
omaggio reale di quella sentita Venerazione con cui sarò fino alle
ceneri. Delle Signorie Vostre Molto Reverendi e Nobili. Devotissimo ed
obbligatissimo Servitore, e Confederato affezionatissimo Giovanni Krieger,
carnefice, stipendiato dell’Eccelsa Repubblica Reta. GIOVANNI ANDREA
SCARTAZZINI (1837-1901)
Pastore evangelico e studioso di Dante
Nella sua giovinezza Scartazzini ebbe consuetudine con due libri: la
Bibbia, che il padre gli aveva insegnato a leggere fin da bambino e la Divina
Commedia regalatagli dal padrino. Questi due libri l’accompagnarono per tutta la
vita. All’età di 19 anni Giovanni Andrea Scartazzini lasciò Bondo per studiare
all’Istituto delle missioni evangeliche di Basilea. Ben presto aderì alle
tendenze liberali della teologia dell’epoca. Prosegui gli studi alla facoltà di
teologia di Basilea e Berna. Dopo essersi candidato invano per un posto di
parroco a Bondo, assunse successivamente le parrocchie di Twann, Ablandischen,
Melchnau e, nel 1875, quella di Soglio. A causa di liti lasciò la Bregaglia nel
1884. Passò il resto della sua vita quale parroco a Fahrwengen, nel cantone di
Argovia.
Scartazzini aveva un temperamento battagliero. Già
nel suo periodo bernese partecipò attivamente ai contrasti teologici che
sconvolgevano allora la chiesa riformata, sostenendo con scritti polemici e
mordaci la corrente liberale. Sia come parroco che come dantista egli non
rifuggiva dai conflitti. A questo proposito va ricordata la sua partecipazione,
quale corrispondente della “Neue Zuercher Zeitung”, al processo di Stabio nel
1880. Le sue sfuriate contro la politica tradizionale e i giudici ticinesi gli
procurarono aspre critiche.
Egli continuò pero imperturbato a dare la
sua versione dei fatti. La fama di Scartazzini e legata ai suoi studi su Dante.
Si dice che egli sapesse tutta la Divina Commedia a memoria. Nel 1869 usci in
tedesco Dante Alighieri, il suo tempo, la sua vita e le sue opere, studio
qualificato poi da lui stesso quale .opera giovanile’. Fecero seguito numerosi
altri studi monografici sul grande poeta. Nel 1874 usci a Lipsia il primo volume
della sua edizione della Commedia, seguito negli anni successivi da altri due
volumi. I suoi lavori vennero dapprima accolti, soprattutto in Italia, con un
certo scetticismo, ma furono a poco a poco riconosciuti quali fondamentali. La
sua edizione commentata della Commedia resta a tutt’oggi un testo di riferimento
essenziale.
Scartazzini era conscio di muoversi in due mondi diversi.
Non cedette mai alla tentazione di fare di Dante un precursore della Riforma.
Ammise anzi che, in coerenza al suo pensiero, Dante non avrebbe avuto altra
scelta che di dannare Lutero, Melantone, Zwingli e tutti gli altri riformatori
nei sepolcri ardenti del sesto cerchio del suo Inferno poetico. Nei due diversi
mondi egli si muoveva con uguale passione. La cura e il grande amore con il
quale egli si avvicinava al poema di Dante gli vennero riconosciuti già dai
contemporanei. Il re di Sassonia gli conferì per esempio il cavalierato. Per
quanto riguarda la religione, il suo sguardo era rivolto verso il futuro. Il
continuo rinnovamento morale della vita personale e pubblica gli stava molto a
cuore. In una predica troviamo il seguente pensiero: “Un popolo che si preoccupa
di quello che serve alla sua pace ha posto i fondamenti più fermi e sicuri per
il suo bene... Possano il nostro popolo e la nostra patria riconoscere in tempo
quello che serve alla pace”. LA VALUTAZIONE DELLE DONNE
…secondo i
vecchi proverbi bregagliotti! PICENINO, FRIZZONI, ROSIO
Tre
personalità illustri della Bregaglia riformata nel 17mo e 18mo secolo
Giacomo Picenino (1654-1714)
Il suo impegno si rivolse tanto
alla purezza della dottrina quanto alla profondità della devozione. Nato in
Engadina, Giacomo Picenino studiò per tre anni filosofia e teologia
all’università di Basilea. Fu pastore evangelico a Sils, Gasacela e per molti
anni a Soglio (1679-1714). Egli deve la notorietà specialmente ai suoi trattati
sistematici in difesa della fede riformata, criticata dai gesuiti. I titoli
ne indicano chiaramente il contenuto: Apologia per i riformati e per la
religione riformata contro le invettive di F. Panigarola e Paolo Segneri (1706)
e Trionfo della vera religione contro le invettive di Andrea Semery Gesuita
(1712). Questi trattati furono molto apprezzati nei circoli riformati. Il
secondo fu stampato a Ginevra e Benedici Pictet, rettore dell’Accademia
teologica in quella città, recensì l’opera con grande elogio. Ortensia von Salis
inviò un esemplare dell‘Apologia con dedica personale al borgomastro di Basilea.
Picenino non si occupava però soltanto di ortodossia. Nella prefazione
rivolta alle Tré Leghe si legge: «Felici pure chiese riformate, se alla verità
della dottrina aggiungete la santità della vita, alla riformazione degli errori
la riformazione dei vizi.” In breve questo significa: Io credo che la Parola di
Dio sia la regola del credere e dell’operare. Picenino non professava quindi una
rigida ortodossia formale. Egli s’impegnò per un approfondimento della
devozione, promuovendo il raccoglimento e la preghiera domestica. Già da giovane
aveva tradotto dal tedesco un libro di preghiere dal titolo “Sospiri
spirituali”. Mori nel 1714 e venne sepolto nella chiesa di Soglio.
Gian
Battista Frizzoni (1727-1800)
Una personalità del tutto diversa fu Gian
Battista Frizzoni, rappresentante del pietismo, vale a dire di quel fervore che
consisteva soprattutto nell’approfondire l’esperienza interiore della redenzione
in Cristo. Anch’egli proveniva dall’Engadina. Dopo aver studiato a Ginevra e
Zurigo, fu assunto quale precettore dal luogotenente Rudolf von Salis a Soglio
e, all’età di 21 anni, fu nominato parroco a Bondo. Le sue prediche, ma
specialmente la sua gran devozione, fecero un’impressione profonda e provocarono
delle conversioni. La sua fama oltrepassò i confini della Valle. Nel 1757 egli
ricevette la visita di David Cranz, un pietista inviato dal grande centro
Herm-hut in Germania, che percorreva il Grigioni alla ricerca di spiriti affini.
Anche Cranz restò profondamente impressionato da Frizzoni. Ma, non da ultimo a
causa sua, nacquero presto dei malumori nel villaggio. Mettendo l’accento sulla
redenzione in Cristo e soprattutto sulla conversione personale, Frizzoni destò
in alcuni l’impressione che egli distinguesse i cristiani in due classi e
dividesse cosi la comunità.
Frizzoni fu energicamente sostenuto da
Cranz e i “risvegliati” si riunirono in particolari assemblee (cosiddette
conventicole). Scoppiò allora una vera lite. Ai pietisti si rimproverava di
riternersi gli unici veri cristiani e di disprezzare quelli che non erano
passati per il risveglio. Si formarono partiti opposti e le turbolenze non
accennavano a sedarsi. Si narra che gli avversari di Frizzoni fecero venire da
Soglio una banda di picchiatori, che questi però, dopo aver assistito alla
predica di Frizzoni, passarono dalla sua parte: “Adesso abbiamo sentito noi
stessi la sua predica. Voi non meritate un pastore tanto valido.” Il Consiglio
ecclesiastico licenziò comunque Frizzoni. Egli lasciò Bondo e trascorse il resto
della sua vita quale parroco a Celerina. Frizzoni coltivava molti interessi.
Aveva per esempio anche delle conoscenze in medicina. La sua grande vocazione
era però il canto ecclesiastico. Già a Bondo cominciò a tradurre in italiano
inni pietistici e a farli cantare dalla comunità. A Celerina tradusse poi molti
inni in romancio. Nel 1789 pubblicò un libro di canto dal caratteristico titolo
“Testimoniaunza dall’amur stupenda da Gesù Cristo vers pchiaduors umauns”
(Testimonianza dell’amore miracoloso di Gesù Cristo per i peccatori umani). Una
riedizione dei salmi di Davide, uscita nel 1790 a Vicosoprano, fu ampliata con
34 inni sacri, tutti composti da Frizzoni. Anche se allontanato da Bondo, restò
sempre fedele alle comunità evangeliche di lingua italiana.
Petrus
Dominicus Rosius a Porta (1733-1806)
La figura di a Porta rappresenta
una direzione spirituale ancora diversa. Profondamente dedito alla tradizione
riformata, egli assunse un ruolo di mediatore fra le diverse tendenze delle
chiese nel Grigioni. Fu influenzato dall’illuminismo e si adoperò per la
tolleranza. Per tutta la vita si preoccupò dei diritti delle minoranze,
soprattutto di quelle riformate nei paesi soggetti. La giustizia fu il metro
delle sue azioni. Senza essere lui stesso pietista, cercò delle mediazioni nel
cosiddetto contrasto di Hermhut, scoppiato attorno alla figura di Gian Battista
Frizzoni. Il suo merito maggiore risiede però nella storiografia. Dal 1771 al
1777 pubblicò la Historia Reformationis Ecclesiarum Rheticarum, la prima storia
coerente delle chiese riformate nel Grigioni. Fu infaticabile nel raccogliere il
materiale necessario e quest’opera resta determinante fino al giorno d’oggi.
Anche se il suo punto di vista riformato traspare ovunque, è evidente che egli
si preoccupava di dare sempre un giudizio equo. La sua opera, scritta in latino,
era evidentemente destinata agli studiosi e non al popolo. Rosius a Porta
proveniva da una stimata famiglia della Bassa Engadina. I suoi studi lo
portarono prima a Berna, in seguito anche in Ungheria e in Olanda. Parlava, o
almeno capiva, otto lingue. Le esperienze dei suoi anni di studio furono
decisive. Il destino dei riformati in tutta Europa gli stette sempre a cuore e
specialmente di quelli in Ungheria. I suoi colleghi lo chiamavano “l’Ungherese”.
Nel 1756 entrò in servizio delle chiese retiche. Dal 1781 al 91 fu pastore
evangelico a Castasegna, dove era pure responsabile dei riformati di Chiavenna.
Fu poi per dieci anni a Soglio, nel periodo movimentato in cui i Grigioni
persero i paesi soggetti. Era pastore evangelico a Zuoz, quando morì nel
1806. SILVIA ANDREA (1840-1935) SCRITTRICE
Fra i personaggi meno noti
della Bregaglia LA RIFORMA A SOGLIO
Testi a 452 anni
dall'introduzione della Riforma in Bregaglia Il 2002 è stato un anno
importante per la Bregaglia, perché ha celebrato il 450° anniversario
dell'introduzione della Riforma protestante in questa valle. I testi che
proponiamo in alcuni articoli della nostra rubrica (vedi indice generale), ne
ripropongono le tappe. Soglio, Palazzo Salis. Soglio era la
sede dalla famiglia Salis e, come tale, rivestiva una particolare importanza per
la Valle. Mentre il comune di Sopraporta era passato alla Riforma, il villaggio
di Soglio restava ancora fedele alla vecchia confessione. Alcuni membri della
famiglia Salis avevano abbracciato la nuova fede, in particolar modo Èrcole
Salis (1503-1578) che si era fatto uno dei principali promotori della Riforma a
Chiavenna. Altri rappresentanti della famiglia restavano indecisi; essi erano in
buoni rapporti con la Curia romana. Ancora nel 1568 Battista Salis ricevette dal
papa il titolo di "cavaliere dell'Ordine dello sprone d'oro" e lo stesso
privilegio venne concesso tre anni dopo anche al suo figlio Battista.
La
spinta verso la Riforma provenne invece dal popolo. Il 2 gennaio 1553 Pier Paolo
Vergerio scriveva al riformatore zurighese Heinrich Bullinger: "In Bregaglia v'è
un paese di nome Soglio. Vi abitano molti potenti sostenitori del papa. Ma Dio e
stato più potente di loro, perché da otto giorni e stata abolita la messa. E
l'iniziativa e venuta dalla povera gente, quella che agli occhi del mondo conta
poco. Prodigioso è il nostro Dio". Che cosa era avvenuto? Con il suo
comportamento, il prete di Soglio aveva suscitato il risentimento della
popolazione, specialmente di donne e madri. Si era levato un grido che chiedeva
un cambiamento radicale. La famiglia Salis acconsenti infine a lasciare la
decisione alla comunità. Incoraggiata dalle donne, la gioventù indisse una
riunione. Il giorno di Natale 1552 essa decise di assumere un predicatore. Come
in tanti altri posti, anche a Soglio il passaggio alla Riforma scaturì da un
moto del popolo. Anche qui le donne ebbero un ruolo determinante. L'iniziativa
della gioventù fu onorata da un mandato: fra i cinque giurati che Soglio mandava
al tribunale penale, uno doveva essere reclutato fra i giovani (iuventutis
iudex).
Nei decenni seguenti anche la famiglia Salis passò alla Riforma.
Grande sensazione suscitò la conversione di Battista von Salis. Scosso dalla
grave malattia di suo figlio e poi dalla propria, egli trovò sostegno nella fede
riformata e rinunciò a tutti i privilegi papali (1572). La sua tomba si trova
nel coro della chiesa. Da allora la famiglia fu una delle maggiori promotrici
della chiesa riformata. In questo contesto sono soprattutto da nominare Battista
junior e sua moglie Barbara von Meiss da Zurigo. Fin da giovane egli aveva
rivestito importanti cariche. Quando nel 1621 truppe spagnole e austriache
invasero i paesi soggetti, egli assunse il comando della difesa.
Gli
spagnoli riuscirono comunque ad occupare sia Chiavenna che la Bregaglia. Sembro
allora che la Riforma potesse essere repressa nella Valle. Il palazzo Salis a
Soglio fu distrutto. Battista Salis e sua moglie fuggirono verso Avers,
valicando il passo Bregalga, e raggiunsero Zurigo. Ma la guerra si decise infine
in loro favore. Battista e sua moglie tornarono a Soglio, dove vissero fino al
1538. Sono loro che fecero costruire l'attuale palazzo "Casa Battista" .
Hortensia Gugelberg von Moos nata von Salis (1659-1715) Pulpito
chiesa evang. S. Lorenzo, Soglio Una delle figure più notevoli della Riforma
a Soglio fu una donna che, precorrendo i tempi, si distinse come autrice di
saggi teologici. Nel 1695 Hortensia Gugelberg von Moos pubblicò a Zurigo una
disputa teologica, scritta in tedesco. La traduzione approssimativa del titolo
è: "Dichiarazione di fede di una nobile dama evangelica riformata, stesa su
cortese richiesta di un distinto ecclesiastico di fede cattolico romana;
esaminata e discussa in 8 capitoli nel presente nuovo libretto chiamato
"Messblum". Editore era un noto teologo zurighese, Johann Heinrich Schweizer
(1646-1733). "Messblum" fece una certa sensazione, soprattutto perché si
trattava di una donna che osava esprimersi su argomenti teologici e lo faceva
addirittura pubblicamente.
Da queste riserve l'autrice si difese
pubblicando una "Risposta scritta". Sostenne il suo diritto personale, come pure
quello delle donne in generale, di esprimere pubblicamente la loro opinione.
Esordi concedendo: "So bene che noi dobbiamo essere brave casalinghe, che il
nostro compito e quello di filare e cucire e che non dobbiamo occuparci
dell'inutile erudizione, che suscita più domande che edificazione religiosa",
per presentare poi, una dopo l'altra, una serie di donne bibliche che illustrano
come l'erudizione si addica invece alle donne. Lei stessa era straordinariamente
dotta per la condizione femminile del suo tempo. Di lei si conoscono solo poche
pubblicazioni: la Dichiarazione di fede (1695), i Colloqui conversazioni (1696),
le Meditationes recentemente scoperte (1715), tre poesie stampate ed alcune
lettere in vari archivi.
Hortensia nacque nel 1659 quale primogenita di
Gubert von Salis-Soglio e di Ursula von Salis-Maienfeld. A 23 anni sposò il
cugino Rudolf Gugelberg von Moos, capitano al servizio della Francia. Restata
vedova senza prole, continuò a vivere nella casa del marito a Maienfeld (GR).
Diverse fonti testimoniano che era versata in medicina, che curò molti malati e
che si guadagnò la reputazione di esperta terapeuta ben oltre gli stretti
confini della sua patria. Hortensia Gugelberg mori a 56 anni. Le poesie stampate
in appendice all'orazione funebre sono numerose ed elogiano con enfasi barocca
la sua erudizione.
In esse Hotensia viene detta "gloria della patria /
lode delle donne / il più bei fiore della chiesa / eccellente d'intelletto / di
grande spirito e temperamento / edotta in tutte le scienze / miracolo del nostro
tempo / famosa e conosciuta dagli studiosi d'ogni dove".
Si fanno i nomi
di Galeno, Cicerone, Platone, addirittura di Cartesio e la si paragona ad Anna
Schurmann e Madeleine de Scudery, con le quali però non condivide oggi la
gloria.
Silvia Andrea (pseudonimo di Johanna Garbald-Gredig)
elaborò il suo intenso interesse per la storia dei Grigioni, facendo confluire
le sue ricerche d’archivio in tre racconti, ognuno dei quali rappresenta un
diverso periodo di storia retica: l’avvento del cristianesimo all’epoca
dell’occupazione romana (Un apostolo), il declino del feudalesimo nell’alto
medioevo (Donat von Vaz) e gli inizi della Riforma nel 16° secolo (Incontro alla
luce). Riuniti sotto il titolo “Erzahlungen aus Graubuendens Vergangenheit“
(Racconti sul passato dei Grigioni), questi tre testi formano il primo libro di
Silvia Andrea, pubblicato nel 1888.
Dopo il romanzo Faustine (1889),
usci nel 1905 il romanzo storico Violanta Prevosti. La vicenda e ambientata nei
torbidi dei Grigioni, all’inizio del 17° secolo, e si condensa attorno a due
avvenimenti traumatici: lo scoscendimento di Piuro, che seppellì la ricca
cittadina sopra Chiavenna nel 1618, causando un migliaio di morti, e il massacro
di Valtellina del 1620, in cui perirono circa 300 riformati.
Con il più famoso libro sui torbidi dei Grigioni, Juerg Jenatsch di
Conrad Ferdinand Meyer, il romanzo di Silvia Andrea ha poco in comune, eccetto
il contesto storico. Il motivo principale non e l’eroismo virile esaltato in una
figura storica, bensì la vicenda di un personaggio femminile che, in quanto
fittizio, esula dalla storiografìa. Nel romanzo Violanta, l’immaginaria nipote
di Giovanni Battista Prevosti di Vicosoprano (personaggio storico), viene
coinvolta attivamente negli eventi politici del suo tempo. L’autrice riunisce
cosi in questo romanzo due temi centrali della sua opera letteraria: la storia
dei Grigioni e la situazione della donna di talento, alla quale la società
stenta a riconoscere le sue esigenze spirituali.
Fra i libri di Silvia
Andrea, Violanta Prevosti e quello che ha ottenuto il maggior successo: tradotto
in italiano nel 1910, ristampato nel 1920 e nelle riedizione in reprint del
1996. Accanto alle sue opere di argomento storico, per le quali venne lodata ed
ammirata ovunque, Silvia Andrea scrisse poesie e numerosi racconti, che
apparvero in noti giornali e riviste. Quantunque fosse di lingua materna
romancia, Silvia Andrea compose tutte le sue opere letterarie in tedesco. Nata
nel 1840 a Zuoz, a 22 anni sposò il ricevitore di dogana Agostino Garbald e si
trasferì con lui a Castasegna, il villaggio di confine in Bregaglia, dove visse
fino alla morte nel 1935. Cominciò a pubblicare soltanto a 40 anni. Scrisse
ininterrottamente anche nel periodo in cui allevava i suoi tre figli. Nel 1877
era nato il primogenito Andrea, nel 1880 segui la figlia Margherita e nel 1881
il secondo figlio Augusto. Nota e celebre ben oltre i confini della sua stretta
patria, Silvia Andrea continuò a scrivere fino alla veneranda età di
novant’anni.
Questo la diceva lunga su chi realmente
“comandasse in casa”. I seguenti proverbi, assolutamente autentici,
indubbiamente sono maschilisti, ma li riportiamo per la cronaca…
Alcuni
proverbi parlano dell’educazione delle giovinette. “Ai vol l’ustaria par fär
gnir madür la fia” (ci vuole l’osteria per far diventare matura la ragazza).
Chissà poi perché: qualcuno ha qualche idea al riguardo? In ogni caso bisognava
“nutrire bene” la figlia femmina, perché crescesse bella… “La buna papa fa la
bela mata”. Come “valutare”, però, un “buon partito”? “I cavei e lan ciavata dàn
da cagnosciar la mata” (la ragazza brava la si può distinguere dai capelli e
dalle …ciabatte!).
Se poi la giovane sposava un uomo molto più vecchio
di lei, la cosa era …promettente: “La dona giuvna e l’om vetc, impleniscian la
cà fin sot al tetc” (La donna giovane e l’uomo vecchio riempiono la casa fino al
tetto). L’importante, comunque che la ragazza sposasse un uomo benestante, non
importa se con un cattivo carattere: “L’è meiar üna fìa mäl maridäda cu üna fìa
mäl plazäda” (E’ meglio una ragazza mal maritata che una mal piazzata).
Per quanto riguarda “il carattere” delle donne, che dire? Le donne
sarebbero maliziose: “La putenza da Dio l’è granda, la malizia da lan dona anca
daplü” (la potenza di Dio è grande, ma la malizia delle donne ancora di più!),
ma anche furbe: “la dona fürba la tira oradzot l’öiv, senza ca la galina as
incorgia” (la donna furba tira l’uovo da sotto la gallina prima che questa se ne
accorga). Esistono però donne “poco avvedute”: “Dona poc avdüa, ben avdüda”: da
preferire? Mah. E se poi la donna …è barbuta? Bisogna guardarsene, come dagli
uomini con i capelli rossi e dalla zampa dell’orso (prima che si estinguesse):
“Inguardat da lan dona da la barba, di oman dal peil ross e da la cianfa da
l’orz”.
Chissà poi perché bisognava guardarsi dalle donne di Nasciarina:
“Dio as ciüra da fög e da lavina e da lan femna da Nasciarina” (Dio ci guardi
dal fuoco e dalle valanghe, ma anche dalle donne di Nasciarina). In ogni caso, i
cacciatori che incontrassero per strada, quando vanno alle battute di caccia,
una donna, non avrebbero preso nulla! “Femna par sträda, cacia sbagliäda” (Donne
per strada, caccia sbagliata). Che dovessero rimanere sempre a casa? Povere
donne!
NEI SECOLI UNA VALLE VITALE
Da sempre palestra di libera
circolazione di idee Una via di comunicazione Chiesa di S.
Pietro, Coltura, Stampa. Fin da tempi remoti la Bregaglia e stata una via di
comunicazione. La strada che proviene da sud si biforca a Chiavenna: a sinistra
conduce a nord sopra il valico dello Spluga, a destra sopra il Settimo o il
Maloja. I due tracciati confluiscono a Coira per proseguire verso Zurigo e il
Lago Bodanico. Già nel quarto secolo la vai Bregaglia era percorsa da una strada
romana ed essa restò per secoli uno dei principali passaggi sopra le Alpi. La
storia della Bregaglia e indissolubilmente legata alla storia della sua strada.
La Valle e sempre stata aperta agli influssi provenienti sia da sud che da nord.
Il cristianesimo giunse in Bregaglia da sud (4° secolo). Uno dei più
importanti evangelizzatori fu Gaudenzio, vescovo di Vercelli, nell’Italia
settentrionale. Più strano è il fatto che pure la Riforma entrò in Valle da sud.
La conversione avvenne nella prima meta del 16° secolo ad opera di profughi
italiani che erano passati al cristianesimo riformato. Il contatto con la
Riforma a nord delle Alpi (Coira, Zurigo e Ginevra) si stabili solo in un
secondo momento. All’epoca della Riforma l’attuale Grigioni formava uno stato
autonomo (Rezia) che comprendeva tre leghe: la Lega Caddea, la Lega delle dieci
Giurisdizioni e la Lega Grigia. Dall’inizio del 16° secolo la Rezia dominava
sulle terre soggette di Chiavenna, Bormio e Valtellina. Le grandi potenze
dell’epoca, sia la Spagna e l’Austria che la Francia e Venezia, sollecitavano
l’alleanza della Rezia per assicurarsi il passaggio sulle Alpi. Nel 16°
secolo la crescente repressione dei moti riformatori in Italia spinse molti
esuli verso la Repubblica retica. Il messaggio della Riforma trovò un’eco, sia
nelle Valli meridionali come pure nei paesi soggetti; richiamò pero sempre
maggiormente in causa anche le forze della Controriforma. Nel corso dei torbidi
dei Grigioni (1618-1639) la Rezia dovette cedere temporaneamente alla Spagna il
dominio sulle terre soggette; lo riconquistò con il Capitolato di Milano (1639)
a condizione che la pratica della confessione riformata vi restasse vietata.
Nell’era napoleonica il dominio della Rezia su Chiavenna, Bormio e la
Valtellina andò perso per sempre. Le terre soggette passarono alla Repubblica
Cisalpina per fare poi parte dell’attuale Italia. Soltanto allora il confine a
Castasegna divenne frontiera statale. La Bregaglia si orienta sempre più verso
nord. Quando il Grigioni entrò a far parte della Confederazione (1803) la
situazione cambia di nuovo: la capitale dove si prendevano le decisioni di
politica estera non era più Coira, bensì la lontana Berna. Con l’apertura del
Gottardo, i valichi del Settimo e del Maloja perdono gran parte della loro
importanza. La Bregaglia divenne sempre più una valle periferica fuori mano.
Gli esuli italiani A partire dal 1540 furono sempre più
numerosi i profughi che cercarono asilo a Chiavenna. Fra questi c’era Agostino
Mainardi (1482-1536), il quale guidò per oltre due decenni la comunità riformata
nella città. Il numero dei seguaci andò man mano aumentando e negli anni
successivi le comunità, in città e nei dintorni, diventarono cinque. Nei primi
decenni di Riforma quasi tutti i parroci delle comunità evangeliche di
Bregaglia, provengono dall’Italia. A conferma citiamo qualche esempio: Tommaso
Casella, già monaco carmelitano, da Genova; Guido Zonca daVerona e Giovanni
Antonio Cortese (Gasacela); Baitolomeo Maturo, già frate dominicano, da Cremona;
Giulio della Rovere da Milano; Pier Paolo Vergerio da Capodistria; Aurelio
Scitarca dal Veneto e Luca Donato da Firenze (Vicosoprano); Lorenzo Martinengo e
suo figlio Alberto dalla Dalmazia (Stampa); Girolamo Turriani da Cremona
(Bondo); Giovanni Marra da Napoli (Castasegna); Lattanzio da Bergamo;
Michelangelo Florio e Giovanni Marci da Siena (Soglio). Molti di questi
esuli italiani avevano appartenuto ad un ordine monastico ed erano stati portati
dal loro studio personale ad abbracciare la Riforma. Spesso erano entrati in
conflitto con le autorità ecclesiastiche. Alcuni erano strati denunciati
all’Inquisizione e condannati. Qualcuno di loro aveva percorso un lungo cammino,
prima di giungere nella libera Repubblica reta. La diversità della loro
provenienza comportava che gli esuli italiani rappresentassero un ampio spettro
di correnti teologiche. Gli uni confessavano la fede evangelica classica: questi
venivano assunti dalla chiesa ufficiale quali predicatori. Gli altri sostenevano
opinioni ritenute eretiche: erano battisti, anti-trinitari oppure convinti di
avere ricevuto dallo Spirito Santo una particolare illuminazione. I conflitti
furono inevitabili. A Chiavenna ci furono polemiche su polemiche e il Sinodo
retico nutriva spesso dei dubbi sulla professione di fede dei parroci italiani.
Come a Coira, cosi pure nei centri riformati di Zurigo e Ginevra, questi erano
guardati con sospetto. Ma nel contempo il loro impegno personale era tenuto in
grande considerazione. Molti di loro proseguirono presto il loro cammino verso
Zurigo, Basilea, Ginevra, Lione, Strasburgo, Heidelberg, Francoforte, Anversa e
Londra. Alcuni dei dissidenti si rifugiarono in Polonia. I predicatori
s’impegnarono a promuovere la cultura nelle Valli grigionitaliane. Le loro
prediche e l’insegnamento che impartivano diedero a tutti la possibilità di
leggere la Bibbia. Consolidarono cosi l’uso dell’italiano quale lingua scritta e
diffusero la conoscenza sia dell’antichità che della cultura
italiana.
USANZE PER LA FINE E L’INIZIO DELL’ANNO
Un mondo
ormai scomparso. Bregaglia innevata, prospettiva da Montaccio
(Stampa). Così raccontano le vecchie cronache bregagliotte sulla fine e
sull’inizio d’un anno nuovo. Riportiamo qui il testo in bregagliotto con la
traduzione solo di qualche parola, confidando che i nostri lettori comprendano
il resto!
Al San Silvester. Al di da san Silvester, i sculair ingiävan
[andavano] da ciäsa in ciäsa e cantär üna canzun e augürär la gent üna buna fin
e ün bun principi. La seira pö is truvávan in baselga [in chiesa], indua ca lan
giuvna la veivan pizaa ün gran albar da Nadäl, par asistar e la funziun
religiusa, cantär qualcian canzun, e indua ca ognün di sculair e är i fancc
[bambini] pit i ciapävan ün regal. La cena da San Silvester l'ära par i grandg
[gli adulti], la grand part oman maridaa (ma senza dona!) e giuvan, c'as
truvávan insemal in ün'ustaria e godar ün bun past cun la curispundenta quantità
da liquid ross. Surpassäda la raziun normäla as scumanzäva e cantär. Al
cumpariva pö lan giuvna e balär, magari är doma el sun da üna ghiga [violino] o
d'ün cinforgnin (armonica da boca), fin vers duman. Dree bunman l'ära är l'üs
d'as truvär insemal e cena famiglia imparantäda, pal plü da quelan c'äran giüda
e l'estar. Fra lan specialità dal pais al gniva sarvii är delicateza: lümäga,
renga [aringhe] in insalata, marzipan...
Per il primo dell’anno, ecco
che cosa scrivono le nostre cronache:
Al bunman. Al prüm di da l'an i
fancc i ingeivan da ciäsa in ciäsa cun ün fagot (ün grand fazöl cui quatar cant
grupaa insemal) e gavüsciär [augurare] al bun an cun dir: "Bun dì bunan, un sé
cià pal bunman", opür: "un sè cià e augürär ün bun an cun salüd e banadiziun".
Par la päga i ciapavan vargot da rüsiär [rosicchiare]: üna branca da castägna,
nusc, niciola o peir sec. Sciünaa [finito] al gir dal pais is truvävan insemal
in üna stüa e svöidär [svuotare] i see fagot sün üna quärta e fär ora lan part.
Non solo alla fine dell’anno, ma le domeniche invernali, il divertimento
principale era andare in slitta (e non solo per i bambini!).
Lan
sclitäda. Sa üna dumenga d'invern ai ära üna bela sträda da slita, tant ii
maridaa cun la gioventüra, i urganizävan üna sclitäda cun cavai da ün comün in
l'altar da la val [una slittata con i cavalli da un comune a l’altro!]. Lan
slita c'as üsäva as clamavan araslita, tracia d'ün caval, cufaa in Nagiadina
[Engadina]. Ii oman i tuleivan dree lan si dona, i giuvan, invece, i invidävan
da gnir insemal la si mata preferida. La slitäda la sciünävan cun ün marendin e
ün balarot [un ballo].
Giorni ormai passati, quando la neve isolava
completamente la Bregaglia e certamente non passavano ancora gli sciatori
italiani per passare la domenica in Engadina. La comunità era certamente più
unita!
Auguriamo, allora, anche ai nostri lettori: Bun dì
bunan! TRADIZIONI NATALIZIE IN BREGAGLIA
Coerenza o...
Vicosoprano, interno chiesa S. Cassiano Essendo la popolazione
della Bregaglia in stragrande maggioranza evangelica-riformata, le tradizioni
natalizie, da secoli, sono state influenzate profondamente, come d'altronde
tutta la vita sociale e politica, dai principi della Riforma. Il principio
informatore di base era (e rimane per i riformati consapevoli della loro
vocazione) che la Bibbia è la regola autorevole ultima di tutto ciò che riguarda
la fede e la condotta. Questo ha portato la chiesa a modificare o ad
eliminare tutte quelle dottrine, tradizioni e cerimonie religiose che non
corrispondono esplicitamente a ciò che la Bibbia stabilisce come Parola di Dio,
o che non possa essere dedotto dalla pratica degli antichi cristiani.
Ciò che riguarda le celebrazioni natalizie è stato soggetto a numerose
discussioni. Secondo i principi biblici, era chiaro che dovesse essere eliminata
la tradizionale messa di mezzanotte, come pure i presepi, le illuminazioni
decorative e gli alberi di Natale. La eliminazione di questi ultimi elementi
plastici e simbolici era dovuta alla stretta applicazione del comandamento
biblico che proibisce le immagini religiose. Inoltre è ormai assodato che la
stessa celebrazione del Natale sia stata introdotta soltanto secoli dopo Cristo,
"cristianizzando" quelle tradizioni e celebrazioni pagane che avvenivano intorno
al solstizio d'inverno.
Il problema era dunque dibattuto: conservare o
non conservare il Natale? Mentre alcune chiese riformate lo abolirono, altre,
come in Bregaglia, lo conservarono, riducendolo "al minimo indispensabile"
educando la popolazione a concentrare piuttosto l'attenzione esclusivamente
sulla persona di Cristo e su quanto i vangeli ci dicono sulla sua nascita, e
tollerando, così, qualche piccola tradizione popolare. UN CONFINE...
DISCUTIBILE!
Frammenti di storia di un confine.
Non c'è
nulla di "naturale" in un confine nazionale a metà della valle del Mera. Benché
i destini politici delle due parti siano stati diversi una sola era sempre stata
la popolazione di questa valle. Quali interessi di poteri contrastanti
determinarono questa divisione?
L’attuale confine fra la Bregaglia e
l’Italia, che corre lungo due affluenti della Maira a Castasegna, risale
all’imperatore Ottone I. Per assicurarsi il passaggio del Settimo, nel 960 egli
assegnò il territorio superiore alla sovranità del vescovo di Coira. Fino allora
la Bregaglia aveva fatto parte della diocesi di Como, che mette lungamente in
questione questo confine, senza ottenerne però la rimozione. Il vescovo delegava
i diritti sulle strade a famiglie della Valle: ai Prevosti, Torriani, Castelmur
e Salis. Questi dovevano impegnarsi a garantire il transito sul valico del
Settimo. Un contratto del genere venne per esempio stipulato nel 1387 con la
famiglia Castelmur. Il territorio si suddivide, così, in due parti: Sopraporta e
Sottoporta. Il nome Porta designa la strozzatura fortificata sopra Promontogno,
dove una volta si riscuotevano i pedaggi stradali.
Nel corso dei secoli
la Bregaglia acquista una certa indipendenza nei confronti del vescovo di Coira.
A partire dal 14° secolo è governata da un podestà locale. La regione formava
dapprima un’unica circoscrizione; nel 15° secolo questa si suddivise in due
comuni. Il comune di Sottoporta ha il suo tribunale amministrativo indipendente.
Il tribunale penale resta invece unificato ed ha la sua sede nel pretorio di
Vicosoprano.
Nel medioevo la Bregaglia formava un’unica parrocchia.
Nossa Donna a Castelmur, il promontorio che divide Sopraporta da Sottoporta, era
la chiesa madre della Valle. Vi risiedeva un arciprete, nominato dal vescovo di
Coira. Nei singoli villaggi esistevano piccole chiese o cappelle, servite da
cappellani. Nel 1520 ce n’erano otto.
La Riforma protestante porta
profondi cambiamenti nella struttura ecclesiastica. Il comune di Sopraporta
s’apre per primo ai moti riformatori. Già nel 1532 Bartolomeo Maturo vi fonda
una comunità riformata. Sottoporta aderisce alla fede evangelica soltanto venti
anni dopo. La grande importanza che la Riforma attribuiva alle comunità locali,
contribuisce a dare loro una maggiore importanza.
Nei singoli villaggi
si nominano dei ministri del culto riformato; ci sono ben presto tre parroci a
Sopraporta ed altrettanti a Sottoporta. Nel 17° e nel 18° secolo si costruiscono
nuove chiese a Castasegna, Stampa, Borgonovo, Vicosoprano e Gasacela. Il
santuario di San Gaudenzio e la chiesa parrocchiale di Nossa Donna sono invece
abbandonate e cominciano ad andare in rovina. Solo nel 19° secolo rinacque
l’interesse per i vecchi edifici. Nel 1839 il barone Giovanni de Castelmur
acquista la zona fortificata della Porta e la fa restaurare quale simbolo della
Valle.
Di un piccolo albero di Natale solo il 24/12, lo si
accende una o due volte, e loil 26! Una descrizione ottocentesca delle
tradizioni natalizie afferma (in bregagliotto): "L'albrin da Nadäl üna volta al
gniva pizaa doma in ciäsa priväda e festegiaa in famiglia". Notate, dunque quel
"doma in ciäsa" e comprendetene, come ho esposto, il motivo. Si sviluppò, però,
nel contempo, la tradizione del canto corale che, in qualche modo contribuiva a
conservare ciò che è "romantico" del Natale, come pure le recite scolastiche sul
Natale, in cui i bambini sono coinvolti nell'interpretare il messaggio
concernente la nascita di Gesù.
E oggi? Oggi stiamo assistendo, con la
secolarizzazione e al graduale affievolirsi della spinta ideale della fede
riformata, ad un'altrettanto graduale reintroduzione delle tradizioni natalizie
d'origine cattolica. Rimane il culto solenne con Santa Cena il 25 dicembre, ma
gli alberi di Natale (e persino talora i presepi) sono tornati in chiesa, le
luminarie per le strade e sulle case, le finestre decorate (di tradizione
svizzera-tedesca). La cruda realtà sembra corrispondere all'equazione: meno fede
e conoscenza biblica - più cerimonie e formalità, e viceversa (grandi feste a
Natale e indifferenza religiosa per tutto il resto dell'anno?).
Se pure
è vero che v'è chi cerca di giustificare e di "trovare il buono" in ogni cosa,
per chi sta a cuore la fede biblica genuina ed intende portare avanti con
coerenza i principi della Riforma si assiste impotenti con imbarazzo e fastidio
l'attuale ritorno di una cultura estranea e la decadenza ed ipocrisia della
cultura contemporanea. I corsi e ricorsi storici molto probabilmente vedranno
una nuova generazione che tornerà ad assumere un giusto atteggiamento critico
verso la cultura e non mancherà di riformare quanto non è in linea con
l'autorità biblica.
IL PALAZZO CASTELMUR DI STAMPA
I
Castelmur, un vecchio casato bregagliotto.
Difficile scegliere da
dove cominciare per i nostri articoli su "Bregaglia: cultura e tradizioni". Nel
nostro articolo introduttivo mostravamo la fotografia del palazzo Castelmur
della frazione Coltura, di Stampa (che riproponiamo qui). Ecco un buon punto di
partenza. Qual è l'origine di questo curioso palazzo?
Dalla strada a
ovest di Stampa si scorge, sul lato opposto della valle, il palazzo Castelmur;
un imponente edificio rossastro fiancheggiato da due torri merlate. Il passante
si chiederà da dove provenga quel corpo estraneo nel paesaggio della Bregaglia.
Lo strano edificio venne eretto dal barone Giovanni de Castelmur. Nel 1827 egli
acquistò una casa patrizia a Coltura e la trasformò nell’attuale castello. Al
suo interno il vecchio edificio resta ben riconoscibile.
Chi era il
barone Giovanni de Castelmur? I Castelmur erano un vecchio casato bregagliotto.
La famiglia di Giovanni si era stabilita da generazioni a Marsiglia e si era
arricchita con la gestione di una pasticceria. Lui stesso era nato in quella
città nel 1800 e vi aveva trascorso la fanciullezza; parlava perfettamente
francese. Restò però per tutta la vita profondamente legato ai Grigioni e alla
Bregaglia. Ricevette da Napoleone III il titolo di barone per meriti
filantropici. Sua moglie Anna, nata nel 1813, pure una Castelmur, era sua cugina
di primo grado. Si sposarono nel 1840 e non ebbero figli. La lapide funebre a
Nossa Dona denomina la baronessa .moglie dell’avventuroso Giovanni de
Castelmur’. L’epiteto e appropriato nel senso che Giovanni fu uno spirito molto
versatile e intraprendente. Impiegava le sue forze e i suoi averi per il bene
pubblico ed era conosciuto come benefattore. Sostenne la scuola pagando vario
materiale ed anche la retta scolastica dei bisognosi. Partecipò al finanziamento
di una stazione telegrafica a Castasegna e fece migliorare a proprie spese la
strada che porta da Stampa a Coltura.
Finanziò la stampa di un nuovo
libro di canto per la parrocchia riformata. Nel già menzionato restauro della
chiesa di Nossa Dona investì somme considerevoli. Da giovane Giovanni de
Castelmur pubblicò in francese e italiano il trattato Alcune riflessioni
politiche (1830), dove il barone enuncia un suo programma. Lo spirito che lo
pervade viene espresso nella prefazione: “Elettrizzato del sentimento che ci
rende cittadini della confederazione e non di un distretto, d’un comune, d’una
valle, d’un cantone, sentimento che ci unisce quando respiriamo e ci fa portare
su tutti i mèmbri della nostra bella patria quello sguardo filantropico”.
La sua critica alle condizioni vigenti, spesso condotta
con toni aspri, sollevò delle opposizioni che lo costrinsero a ritirare la
pubblicazione. Nel 1844 fu eletto podestà della valle. Morì nel 1871 a Nizza e
venne sepolto nella chiesa di Nossa Donna.
La vedova prosegui l’opera
sua. Come prima cosa istituì un legato per permettere agli insegnanti
bregagliotti di approfondire lo studio della lingua in Italia. Nel 1873 creò una
fondazione per il mantenimento della zona fortificata della Porta. Grazie ad una
sua generosa offerta fu possibile edificare l’asilo di Flin, presso Spino. on
l’eredita lasciata alla sua morte si costruì il ponte che congiunge Coltura alla
strada principale, ancora oggi chiamato “ponte della Baronessa”. Venne sepolta
pure lei nella chiesa di Nossa Dona. “Ho sempre più il bisogno di venire in
aiuto al povero e bisognoso; questa e la mia precisa volontà e credo anche il
mio dovere.”
Nel 1963 il palazzo venne acquistato dal circolo della
Bregaglia, che lo aprì al pubblico come museo valligiano e archivio storico. Vi
si celebrano pure matrimoni civili. Lo scantinato ospita il ritrovo autogestito
dei giovani bregagliotti.
UNA NUOVA RUBRICA SULLA BREGAGLIA
SVIZZERA
Articolo introduttivo. Il palazzo di
Castelmur. Inizio con questo mio primo articolo introduttivo il mio
contributo a Vaol.it con una rubrica in cui mi prefiggo di presentare
informazioni e curiosità sulla cultura, lingua e tradizioni della Bregaglia
svizzera. Sono un bregagliotto "adottivo". Quest'anno sono esattamente 20
anni che mi sono trasferito in questa valle proveniendo dal Piemonte. ...nemmeno
sapevo prima dell'esistenza della Bregaglia: non si tratta di zone che usavo
frequentare! Come ci sono arrivato? In breve: dopo aver conseguito a Zurigo una
laurea in teologia protestante e l'abilitazione a servire come pastore
evangelico, mi avevano chiesto di occupare "per alcuni mesi" il posto del
pastore evangelico di Stampa, tragicamente deceduto in un incidente stradale.
Alcuni mesi? Beh, sono diventati 20 anni! Qui ho conosciuto mia moglie
(autentica bregagliotta!), qui abbiamo costruito la nostra casa ed abbiamo avuto
i nostri figli. E' diventata così la mia "seconda patria". Ho imparato ad
apprezzare questa gente e le sue tradizioni e quindi "mi permetto" di parlare di
loro e di far meglio conoscere la loro realtà al pubblico di Vaol.it. Spero che
"la cosa" sia apprezzata! Il fatto d'essere venuto in questa zona come
pastore evangelico, fra l'altro, si inserisce in una "tradizione" secolare.
Difatti, da secoli la Bregaglia ha avuto in maggioranza ministri del culto
evangelico provenienti dall'Italia, sin dai tempi in cui, a causa delle
persecuzioni religiose nella penisola, molti cristiani evangelici avevano
trovato la libertà di vivere e diffondere la loro fede in queste zone.
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