STORIE
E PERSONAGGI |
Robinson, John (1575-1625) e i Padri Pellegrini
John
Robinson John Robinson, l'ideatore del viaggio dei Padri Pellegrini, nacque
nel 1575 a Sturton-le-Steeple, vicino a Retford, nella contea del
Nottinghamshire, in Inghilterra e iniziò a frequentare nel 1592 il collegio
Corpus Christi a Cambridge. Nel 1595 R. ottenne il baccalaureato in arti
liberali e nel 1597 diventò professore associato del suo collegio, dove si
laureò nel 1599. Durante la sua docenza, R. fu ordinato sacerdote anglicano,
ma nel contempo egli fu influenzato dagli insegnamenti del teologo puritano
William Perkins (1558-1602). Nel 1604 R. si sposò con una sua
concittadina, Bridget White, trasferendosi in seguito a Norwich, nel Norfolk,
con la sua famiglia, ma qui entrò in conflitto con il suo vescovo, John
Jegon, il quale, deciso a stroncare ogni forma di dissenso puritano nella sua
diocesi, sospese R. dal suo ministero. R. ritornò quindi a Sturton, dove
entrò in contatto con un gruppo di dissidenti separatisti, formato da John
Smyth (il fondatore della Chiesa dei battisti), William Brewster, Richard
Clifton, Hugh Bromhead, Thomas Helwys e William Bradford (1590-1657). Il
gruppo operava in un vasto territorio situato nella valle del fiume Trent,
alla confluenza delle contee del Lincolnshire, Yorkshire
e Nottinghamshire. Ben presto nel gruppo si svilupparono delle divergenze
interne (contrariamente a R., Smyth voleva tagliare ogni forma di amicizia
con i puritani rimasti nell'ambito della chiesa ufficiale), e si formarono
due tronconi, favoriti anche da motivi geografici: Helwys, Clifton e
Bromhead rimasero con Smyth a Gainsborough (nel Yorkshire), mentre Brewster
e Bradford, che vivevano vicino a Scrooby (nel Nottinghamshire), scelsero
R. come loro capo. In seguito la vita per la comunità divenne così dura a
causa delle persecuzioni messe in atto dall'arcivescovo di York e dal vescovo
di Lincoln che nel 1608 ambedue i gruppi decisero di emigrare in Olanda,
Smyth ad Amsterdam e R. dapprima ad Amsterdam poi, nel 1609, a Leida, dove
egli acquistò una casa vicino alla Chiesa di San Pietro. A Leida il gruppo
crebbe sotto l'ottima gestione di R., come suo pastore, e del diacono John
Carver, cognato di R., raggiungendo le 300 unità ed ebbe proficui contatti
con Henry Jacob, il fondatore della chiesa semi-separatista, emigrato in
Olanda nel 1605, dove aveva fondato una suo congregazione, di ispirazione
calvinista, a Middleburg, nella regione dello Zeeland. In vari colloqui Jacob
convinse R. a modificare le sue idee separatiste.
I Padri
Pellegrini Come altri dissidenti inglesi emigrati forzatamente all'estero,
anche R. ed il suo gruppo separatista soffrivano a stare lontano dalla
madrepatria, a causa di problemi di lingua e di diverse abitudini in Olanda,
e quindi essi pervennero alla decisione di emigrare nelle nuove colonie nel
New England, in America. Dopo una lunga negoziazione con la Virginia
Company, che gestiva il territorio nella valle del fiume Hudson, e avendo
ottenuto una promessa dal re Giacomo I d`Inghilterra (1603-1625) che, una
volta arrivato in Virginia, il gruppo non sarebbe stato perseguitato, fu
noleggiato la nave Mayflower. Il 6 settembre 1620 la Mayflower salpò dal
porto inglese di Plymouth, dove aveva imbarcato un altro gruppo di fedeli: la
nave portava a bordo un totale di 102 passeggeri, tra cui figuravano William
Brewster, John Carver e William Bradford. R. era rimasto in Olanda per
organizzare un altro viaggio simile con gli altri adepti della chiesa di
Leida, ma sfortunatamente si ammalò durante un'epidemia di peste e morì a
Leida stessa il 1 marzo 1625. L'11 novembre 1620 la Mayflower, dopo un
viaggio avventuroso di diverse settimane, entrò nella baia di Capo Cod, ben
più a nord del territorio controllato dalla Virginia Company. I 41 uomini
adulti a bordo, chiamati Padri Pellegrini (così infatti sarebbero stati
denominati in seguito), stillarono un accordo, denominato Compact, per le
leggi della nuova colonia e nominarono John Carver come loro primo
governatore. Presero terra il 16 dicembre 1620 nella baia di Plymouth
(nell'odierna Massachusetts) ribattezzata così non già da loro stessi, come
comunemente si crede, bensì nel 1615 dal capitano John Smith (1580-1631),
fondatore della colonia di Jamestown, in Virginia e famoso per il noto
episodio di Pocahontas. Il primo inverno della colonia fu durissimo e più
di 40 persone morirono per il freddo e la fatica, compresi William Brewster e
John Carver. Fu quindi eletto nuovo governatore della colonia William
Bradford, che avrebbe tenuto questo incarico per 31 anni. Nell'autunno del
1621 il gruppo si era costruito case più consone al rigore invernale ed aveva
fatto amicizia con gli indiani Wampanoags, i quali avevano insegnato ai
bianchi la coltivazione del mais: per festeggiare tutto ciò Bradford istituì
il giorno del ringraziamento (Thanksgiving Day), tuttora celebrato dagli
americani. Nei quindici anni successivi all'arrivo dei Padri Pellegrini,
tutto il New England (termine coniato sempre da John Smith), ed in
particolare la Massachusetts Bay, fu teatro di una crescente emigrazione di
massa di puritani e dissidenti religiosi (più di mille persone solo nel
1630), spinti a fuggire a causa delle politiche repressive del re Carlo I
(1625-1649) e dell'arcivescovo di Canterbury, William Laud (1573-1645). Entro
il 1640 più di ventimila dissidenti religiosi erano emigrati sulle coste
della Massachusetts Bay, formando uno dei nuclei dei futuri Stati Uniti
d'America.
Paleario, Aonio (1503-1570)
I primi
anni Il famoso umanista di estrazione erasminiana, Aonio Paleario (o
Paleari), nome umanistico di Antonio della Paglia (o Pagliara), nacque a
Veroli, in provincia di Frosinone, nel 1503, dall'agiato artigiano
salernitano Matteo della Pagliara e da Clara Jannarilli. Da giovane P.
compì studi classici con il notaio Giovanni Martelli, iscrivendosi
successivamente, grazie alla protezione del vescovo di Veroli, Ennio
Filonardi (1466-1549), ai corsi di filosofia e di lettere antiche
ed eloquenza all'università di Roma, ma non poté completare gli studi,
perché abbandonò, nel 1529, la città pontificia, devastata dal sacco del 1527
ad opera dei Lanzichenecchi. Vagò allora attraverso l'Italia, fermandosi a
Perugia e qui rincontrò il suo protettore Filonardi, che, quando era stato
nunzio apostolico a Costanza, aveva conosciuto Erasmo da Rotterdam, idolo
letterario e riferimento religioso per P. In seguito, nel 1534, P. avrebbe
scritto una lettera al grande umanista olandese per chiedergli di convincere
i teologi tedeschi riformatori a presenziare al concilio (in realtà il famoso
Concilio di Trento, dopo ripetuti rinvii, iniziò i propri lavori solamente
nel 1545), convocato, appena dopo la sua elezione, da Papa Paolo III
(1534-1549).
P. a Padova Nel periodo 1530-31 P. si recò a Siena, e
infine a Padova, dove visse dal 1531 al 1536 (eccetto un periodo a Bologna
nel 1533) e completò gli studi, laureandosi ed entrando nell'ambiente
letterario, che gravitava attorno al Cardinale Pietro Bembo. Qui P.
completò la stesura del suo primo lavoro di successo: il poema filosofico, di
ispirazione neoplatonica, De animorum immortalitate, dedicato all'imperatore
Ferdinando d'Asburgo e accompagnato da una lettera per Pier Paolo Vergerio,
ambasciatore pontificio presso l'imperatore. L'opera, tuttavia, non aggiunse
niente di nuovo al dibattito accademico, accesosi dopo la condanna del noto
trattato di Pietro Pomponazzi, il Tractus de immortalitate animae, dove
l'umanista mantovano aveva negato l'immortalità dell'anima.
P. tra
gli evangelici toscani Nel 1537 P. si stabilì a Colle Val d'Elsa (provincia
di Siena), si sposò con Marietta Guidotti, da cui ebbe cinque figli, e
insegnò come tutore privato. Nella cittadina senese P. creò un cerchio di
allievi, con i quali si discuteva su scottanti argomenti dottrinali, al
centro del dibattito fra Chiesa cattolica e Riforma, come il culto dei Santi,
l'autorità della Chiesa di Roma, l'esistenza del purgatorio, il contrasto fra
Sacre Scritture e Tradizione storica. Inoltre egli ebbe l'occasione, in
questo periodo, di conoscere l'intellighenzia evangelica fiorentina, tra cui
il letterato Pier Vettori (1499-1585), Bartolomeo Panchiatichi, Pier
Francesco Riccio, Pietro Carnesecchi e Marcantonio Flaminio, e di
quest'ultimo diventò fedele amico. Oltre a ciò, Siena era terra di origine di
uno dei più famosi riformatori italiani, il vicario generale dell'ordine dei
cappuccini, Bernardino Ochino, per cui fu purtroppo scontato, in seguito ad
una campagna di propaganda denigratoria contro di lui, che P. venisse
accusato di eresia nel giugno 1542 (pochi mesi prima della fuga di Ochino in
Svizzera) davanti all'arcivescovo di Siena, Francesco Bandini Piccolomini
(arcivescovo: 1529-1588). Tuttavia uscì indenne dal procedimento a suo carico
(fu assolto per insufficienza di prove), sia per l'intervento a lui
favorevole del cardinale Jacopo Sadoleto, sia perché lo stesso arcivescovo
Piccolomini non infierì, essendo segretamente favorevole alla riforma
moderata della Chiesa, propugnata da Sadoleto e dal cardinale Gaspare
Contarini. In seguito a questa vicenda e alla sopramenzionata fuga
dell'Ochino, P. scrisse l'orazione Pro se ipso (composta nel 1543, ma
pubblicata solo nel 1552), un'appassionante difesa della libertà di
coscienza, di cultura e di discussione e della possibilità di poter attingere
direttamente alle Sacre Scritture. Nel 1544 egli scese ancora più nettamente
nel campo della Riforma, scrivendo una lettera (Servus Jesu Christi.) a
Lutero, Melantone, Bucero e Calvino, di contenuti simili a quella scritta
dieci anni prima a Erasmo da Rotterdam, esortandoli, inoltre, di mettere da
parte le divergenze teologiche, ma rimase profondamente deluso dall'apertura
del Concilio di Trento il 13 dicembre 1545 senza la partecipazione dei
teologi protestanti.
P. a Lucca Comunque nel luglio 1546 P. decise
di trasferirsi a Lucca, approfittando dell'ambiente più favorevole ai
riformatori. Qui, per intercessione di Pier Vettori e sotto la protezione
della potente famiglia Buonvisi, gli fu affidato un incarico ufficiale di
professore di letteratura alla Scuola superiore di Lucca (un simile ruolo gli
era stato precluso a Siena per la sua fama di eretico) e diventò anche
precettore della famiglia Calandrini. Il periodo lucchese fu tra i più sereni
e fecondi per il filosofo di Veroli, che scrisse varie orazioni ed ebbe
contatti epistolari con riformatori italiani, come, ad esempio, Celio Secondo
Curione. Nella primavera 1555, P. tornò a Colle Val d'Elsa, proprio poco dopo
la caduta della repubblica di Siena, conquistata da Cosimo I de' Medici
(duca di Firenze: 1537-1569 e granduca di Toscana: 1569-1574). Qui scrisse
un trattato in italiano, in due parti: Del governo della città (andata
perduta) e Dell'economia o vero del governo della casa: un inno alla
religiosità erasminiana e valdesiana, vissuta nell'intimo della
famiglia.
P. a Milano Tuttavia la visione della campagna devastata
dalla guerra e l'esilio all'estero di tanti amici lucchesi riformati, a causa
della repressione messa in atto da Papa Paolo IV (1555-1559), lo convinse ad
emigrare a Milano nel 1556 per coprire la cattedra di studi
umanitari. Nonostante che, anche qui a Milano, P. venisse inquisito per
eresia nel febbraio 1560 (fu comunque assolto), nella città lombarda egli
conobbe letterati, come il poeta Publio Francesco Spinola e finì la sua
opera principale, intrisa di polemica antipapale e anticlericale, la Actio
in Pontifices Romanos, inviandola in Svizzera, presso il riformatore di
Basilea Theodore Zwinger (1533-1588), per essere conservata. L'opera
venne pubblicata, postuma, nel 1600 ad Heidelberg, in Germania. Nel 1567
P. entrò nuovamente nel mirino dell'Inquisizione di Milano per le sue opere
letterarie (soprattutto Pro se ipso): sebbene riuscisse a far sospendere, per
motivi di salute, un ordine di estradizione verso Roma, emesso il 9 agosto, e
tentasse di chiedere una mediazione, fallita, da parte dell'imperatore
Massimiliano II (1564-1578), fu infine costretto a recarsi a Roma nell'agosto
1568 per presentarsi davanti all'Inquisizione romana, in una città cupa,
dominata dal rigore fanatico imposto da Papa Pio V (1566-1572).
La
fine Rinchiuso (letteralmente a marcire) nel carcere di Tor di Nona per ben
due anni, si comportò coraggiosamente: non abiurò, si rifiutò di
indossare l'infamante abitello (l'abito giallo degli eretici), anzi accusò,
lui stesso, il papato e Pio V in persona, che presiedeva il tribunale.
Il processo, ovviamente, si concluse, il 4 ottobre 1569, con la sua
condanna come eretico impenitente. Il 30 giugno 1570 fu fatto l'ultimo
tentativo, non riuscito, di farlo abiurare: tre giorni dopo, il 3 luglio
1570, l'anziano umanista fu impiccato e arso sul rogo nella piazzetta a Ponte
Sant'Angelo, nello stesso posto dove, tre anni prima, il 21 settembre 1567,
era stato bruciato Pietro Carnesecchi.
Curiosità A P. sono
stati attribuiti i seguenti versi satirici (e purtroppo per lui profetici),
indice dei momenti di terrore, derivati dalla severa azione anti-eretica di
Pio V: Quasi che fosse inverno, brucia cristiani Pio siccome legna per
avvezzarsi al fuoco dell'inferno.
Brucioli, Antonio
(1497-1566)
La vita Il letterato Antonio Brucioli, nato a
Firenze nel 1497, si formò culturalmente nel circolo spiritualista platonico
degli Orti Oricellari [frequentato anche da Niccolò Machiavelli (1469-1527)],
e ben presto divenne noto per il suo anticlericalismo contro gli abusi e la
corruzione delle strutture ecclesiastiche un concetto caro a Girolamo
Savonarola (esempio di riformatore per B.), e per le sue simpatie verso le
dottrine luterane, sviluppatesi in seguito a suoi viaggi a Lione e in
Germania. Il 16 maggio 1527 Firenze insorse, cacciando il duca Alessandro de'
Medici (duca 1525-1527 e 1530-1537), pronipote di Lorenzo il Magnifico, al
potere dal 1525, e B. esultò per la decisione, convinto, com'era, che solo
le autorità repubblicane del Comune potessero restaurare un rigore morale
e dare l'avvio ad una seria riforma politica e religiosa. Tuttavia, due
anni dopo, il 5 giugno 1529, lo stesso B., pur essendo un convinto
antimediceo, fu esiliato per due anni, per le sue convinzioni religiose:
Benedetto Varchi scrisse che aveva letto "ad alcuni giovani le cose di Martin
Lutero publice", ma pare che avesse anche rinnegato le sue antiche simpatie
per Savonarola. B. andò quindi ad abitare a Venezia, dove suo fratello
Francesco aveva impiantato una tipografia, e nel 1530 egli fece pubblicare in
italiano (clamorosamente non da parte del fratello, ma dallo stamperia Eredi
di Lucantonio Giunti) il suo famosissimo Il Nuovo Testamento di
greco nuovamente tradotto in lingua toscana, seguito dall'intera Biblia,
quale contiene i sacri libri del Vecchio Testamento nel 1532. La
popolarità assunta dalla sua versione delle Sacre Scritture presso
vasti strati della popolazioni e presso le corti di Mantova, Urbino e Ferrara
gli permise di usufruire di potenti protezioni da parte della duchessa
di Ferrara Renata d'Este (alla cui figlia, Anna, B. dedicò la versione del
1538 della sua Bibbia), ma soprattutto della duchessa di Urbino Eleonora
Gonzaga (1493-1550), sorella del cardinale Ercole Gonzaga (1505-1563), alla
quale B. dedicò il commento al Libro di Iesaia profeta nel 1537 e i
Dialoghi metafisicali nel 1538. A Venezia, oltre a scrivere, B. esercitava
il mestiere di libraio, e, in questa funzione, poté procurare e pubblicare
opere dei più famosi riformatori tedeschi, come Lutero, Bucero o Melantone,
ad intellettuali come il concittadino Pier Francesco Riccio, con cui si
manteneva in contatto epistolare. Nel 1547 B. si incaricò di far stampare
una edizione del famoso libro di Francesco Negri, la Tragedia intitolata
libero arbitrio, ma, ad iniziare dall'anno successivo egli fu più volte
sottoposto a processi da parte dell'Inquisizione, nonostante che, da un punto
di vista religioso, B. avesse adottato un rigoroso nicodemismo ed almeno
formalmente non avesse mai abbandonato il Cattolicesimo. Nel 1558, però, egli
fu costretto all'abiura pubblica delle sue idee, ma poiché era comunque
rimasto influenzato dall'opera teologica di Lutero, fu comunque inquisito
nuovamente nel 1559. Infine B. morì, pare in notevole indigenza, nel 1566 a
Venezia.
La Bibbia Come già detto, B. pubblicò, rispettivamente
nel 1530 e 1532, le sue popolarissime versioni del Nuovo e Antico Testamento,
in quanto desiderava che la Bibbia fosse resa accessibile alla gente del
popolo. Ed, in effetti questa versione di B., ristampata più volte tra il
1540 ed il 1546 ed accompagnata da un ponderoso commentario, fu uno dei più
efficaci mezzi di diffusione della Riforma in Italia. Per il testo
utilizzato, nonostante egli affermasse di aver tradotto partendo dalle
Scritture originali in greco, sembra invece che la versione del Vecchio
Testamento del B. si basi sulla traduzione latina dell'orientalista Sante
Pagnino (1470-1541), mentre per il Nuovo Testamento egli abbia usufruito
della versione latina di Erasmo da Rotterdam.
Znojmo, Stanislao
di (m. 1414)
Stanislao di Znojmo fu docente di teologia e
filosofia all'Università di Praga alla fine del XIV secolo, sotto il quale
studiarono diversi futuri riformatori boemi, ed in particolare Jan
Hus. Come Hus, anche Z. si interessò dagli scritti, tradotti in ceco,
del riformatore inglese John Wycliffe e riportati in patria da un gruppo
di studenti boemi della facoltà di teologia di Oxford, recatisi in
Inghilterra al seguito della principessa Anna di Boemia, promessa sposa a re
Riccardo II d'Inghilterra (1377-1399). Z., Hus e il compagno di studi di
quest'ultimo, Stefano di Pàlec (1365-1422) si interessarono delle teorie più
estreme di Wycliffe, come l'attacco del teologo inglese contro la dottrina
della transustanziazione, dove questi dichiarò che la sostanza del pane
rimaneva sempre la stessa, anche se Cristo era presente nel pane, sebbene non
in maniera materiale. Nel 1403 l'università di Praga condannò 45 tesi
contenuti negli scritti di Wycliffe, che vennero strenuamente difesi dai tre
studiosi boemi, ma questa posizione complicò la vita di Z., Hus e Pàlec
soprattutto nel 1408, quando l'arcivescovo di Praga, Zbynek (o Sbinko) von
Hasenburg ricevette una lettera di Papa Gregorio XII (1406-1415),
preoccupato del diffondersi delle idee di Wycliffe in Boemia. Inoltre, in
una bolla del Dicembre 1409, anche l'antipapa Alessandro V (1409-1410) proibì
la predicazione in Boemia all'infuori dei luoghi consacrati e la diffusione
degli scritti di Wycliffe. Contro questa decisione Hus decise di inviare Z. e
Pàlec a Roma ad esporre le proprie posizioni ad Alessandro V, ma essi furono
inopinatamente fatti arrestare, maltrattare e gettare in prigione a Bologna
dal successore, l'antipapa Giovanni XXIII (1410-1415). Z. e Pàlec rimasero
in prigione per un anno e furono liberati solamente dopo che ebbero ricusato
il loro credo precedente e promesso di denunciare pubblicamente le idee del
loro ex amico Hus. Da quel momento essi divennero i più spietati accusatori
di Hus ed inviarono una vasta documentazione al Concilio di Costanza del
1414-1415. Furono invitati a partecipare ai relativi lavori, ma affrontando
il viaggio per la città tedesca, Z. morì nel 1414. Comunque Pàlec continuò
nella sua azione, attaccando i dogmi eterodossi di Hus durante il Concilio e
spesso aggiungendo dottrine in cui egli stesso, ma non certo Hus, una volta
credeva. Quando oramai il caso era stato chiuso con la condanna a morte di
Hus, Pàlec cercò di conciliarsi (per la verità fu Hus a cercare l'incontro)
con il suo ex compagno di fede, in procinto di salire sul
rogo.
Paleologo, Giacomo (o Jacopo) (ca.
1520-1585)
Giacomo (o Jacopo) Paleologo, umanista di origine
greca, nacque sull'isola di Chio nel 1520 ca. da Teodoro Paleologo, un greco
ortodosso, che aveva sposato un'italiana cattolica. Educato nella
religione della madre, P. entrò nell'ordine dei domenicani sull'isola nativa,
studiando successivamente teologia a Genova e a Bologna. Nel 1553 egli fu
mandato nel convento di Pera, vicino a Costantinopoli, e qui iniziò a
sviluppare la sua idea universalista, basata sul principio che anche i fedeli
di altre religioni, in particolare gli ebrei ed i mussulmani, potevano
salvarsi. Per queste sue idee fu inquisito varie volte fino ad essere
incarcerato a Roma, da dove riuscì a fuggire nel 1559, come Andrea Ghetti da
Volterra, in seguito ai moti popolari scoppiati in seguito alla morte del
Papa Paolo IV (1555-1559). Si rifugiò dapprima in Francia e poi, nel 1562,
in Moravia, ma in seguito, a causa delle sue idee eretiche, fu costretto a
riparare in Transilvania, dove fu nominato preside del ginnasio di Kolozsvár,
mentre il suo discepolo locale, János Sommer (1540-1574), ricoprì il ruolo di
rettore nella stessa scuola. Infine si trasferì, dal 1576 [a parte alcuni
brevi periodi a Hluk, in Moravia, presso Jetrich (1545-1582), signore di
Kunovice e suo protettore], in Polonia, a Cracovia, dove scrisse il proprio
trattato De discrimine Veteris et Novi Testamenti: riprendendo il suo
concetto universalista, P. insistette sulla concordanza delle leggi mosaica e
cristiana e per questo fu contestato da Grzegorz Pawel. In Polonia entrò
in contatto ed influenzò vari studiosi umanisti riformati come Ferenc Dàvid,
Niccolò Paruta, Szymon Budny, Giorgio Biandrata, Andrea Dudith-Sbardellati e
l'ex-domenicano (successivamente pastore calvinista a Derfle, in Moravia)
Bonifacio Benincasa, che divenne suo amico e stretto collaboratore. P.,
intervenendo, spesso in tono polemico, sui più svariati argomenti teologici e
storici, scrisse moltissimi trattati, di cui si possono citare, ad esempio,
una Catechesis christiana, le Dissolutio de iusticia e Ad quaesita pro
thesibus ad dissolutionem quaestionis pro iusticia contro la dottrina della
giustificazione (sia quella protestante per fede, che quella cattolica per
opere), la Disputatio scholastica, rivisitazione
storica dell'antitrinitarismo nell'Est Europa, ed in particolare in
Transilvania, il Commentarius in Apocalypsin, dove, prendendo spunto da un
commento sull'Apocalisse, attaccò il papato, ed in particolare Papa Pio
V (1566-1572), preso di mira anche nello scritto Adversus Pii V
proscriptionem Elizabethae reginae Angliae, e le apologie in difesa di
famosi antitrinitariani, come Giovanni Valentino Gentile (pro Valentino
Gentile) Miguel Serveto (Pro Serveto in Ioannis Calvini librum de orthodoxa
fide), Sébastien Castellion (Theodoro Bezae pro Castalione) e Ferenc
Dàvid (Defensio Francisci Davidis). Ma divennero popolari anche le accese
polemiche con l'ecclesia minor polacca e con il famoso antitrinitariano,
Fausto Sozzini, a riguardo della figura di Gesù Cristo, che, per il Sozzini,
era un vero uomo crocefisso, il cui compito era di rivelare Dio agli uomini,
che potevano così raggiungere la salvezza, seguendo il Suo esempio. Il P.,
invece, negava il ruolo di guida per i fedeli verso la salvezza del Cristo e
rifiutava, conseguentemente, ogni forma di adorazione di Gesù Cristo. Per
questo, il P. e i suoi seguaci vennero denominati antitrinitariani
non-adoranti in contrapposizione al pensiero sociniano. Inoltre un altro
punto di frizione con il senese fu l'obbligo morale, secondo P., del
cristiano nella difesa, anche prendendo le armi, del paese che offriva la sua
ospitalità. Sozzini era in totale disaccordo con questa tesi: per
l'antitrinitariano senese, il cristiano, secondo l'interpretazione del Nuovo
Testamento, non poteva versare il sangue di altri cristiani. Questa polemica
divenne molto viva soprattutto nel 1580, qualche anno dopo l'elezione di
Istvàn (Stefano) Bàthory, ex voivoda della Transilvania, sul trono di Polonia
(re: 1576-1586). Il P. polemizzò infine anche con gli anabattisti, sempre per
la funzione centrale, che questa setta attribuivano alla figura del
Cristo. Nel frattempo, dopo l'ascesa al potere dell'imperatore cattolico
Rodolfo II (1578-1612), le condizioni per gli eretici nei confini dell'impero
divennero quanto mai insicure, soprattutto in Moravia. Infatti, nel dicembre
1581, mentre il P. era ospite del suo protettore, il signore di Kunovice,
in Moravia, egli fu arrestato dal vescovo di Olomouc, Stanislav II
Pavlovský (consacrato vescovo nel 1580), forte di un mandato imperiale e di
una nutrita scorta armata. Trasferito a Kromeriz, P. fu poi estradato a
Vienna e successivamente inviato a Roma, per essere processato e condannato a
morte per eresia nel 1583. Dopo due anni di detenzione, P. fu decapitato
(giustamente secondo il polemico Sozzini) nel carcere di Tor di Nona il 22
Marzo 1585 ed il corpo fu arso sul rogo, il giorno dopo, a Campo dei
Fiori. L'effetto della morte del P. gettò nello sconforto il gruppo
degli antitrinitariani italiani e polacchi: entro pochi anni, sotto
l'effetto della Controriforma, guidata dai re polacchi cattolici, Sigismondo
III Vasa (1587-1632) e, soprattutto, Giovanni II Casimiro Vasa (1648-1668),
essi furono espulsi dal paese, che tornò ad essere un baluardo
cattolico.
Pallavicino (o Pallavicini), Giambattista (Giovanni
Battista) (m.ca.1545)
Giambattista Pallavicino (o Pallavicini)
[da non confondere con l'omonimo e contemporaneo cardinale (m. 1524), che fu
anche vescovo di Lesina], carmelitano bolognese, fu accusato di predicazioni
luterane durante la Quaresima a Brescia nel 1527 e a Chieri (vicino a Torino)
nel 1528. In seguito fu perdonato e poté predicare davanti al Papa Clemente
VII (1523-1534) e all'Imperatore Carlo V (1519-1556) a Bologna nel
1533. Tuttavia, nel 1534, egli fu imprigionato a Parigi per aver predicato
contro l'Eucaristia, e liberato grazie all'intervento, presso il re Francesco
I (1515-1547), di suo fratello Cosimo, anch'egli frate carmelitano, che
lesse al re di Francia due orazioni, scritte dall'umanista Giulio Camillo
(ca. 1480-1544), in difesa del fratello incarcerato. Nonostante ciò,
questi fatti si ripeterono anche nel 1536 in Inghilterra e nel 1539 P. fu
consegnato all'inquisizione romana, con l'accusa di luteranesimo, ma fu
nuovamente messo in libertà, questa volta, per intercessione di Margherita
d'Asburgo (1522-1586), figlia dell'Imperatore Carlo V . Nel 1540, il P. fu
definitivamente imprigionato, ironia della sorte, non per motivi eretici, ma
a causa degli intrighi sorti intorno al matrimonio di Margherita d'Asburgo
con Pier Luigi Farnese (1503-1547), il perverso figlio del Papa Paolo III
(1534-1549) e capostipite dei Duchi di Parma e Piacenza, e morì in carcere
ca. nel 1545.
Panciatichi, Bartolomeo il Giovane
(1507-1582)
La vita Il mercante e umanista Bartolomeo
Panciatichi il Giovane nacque in Francia nel 1507, figlio naturale
(legittimato nel 1531) del ricco mercante Bartolomeo Panciatichi il Vecchio,
di famiglia originaria di Pistoia. Il padre dirigeva a Lione la principale
azienda commerciale fiorentina in Francia. P. il giovane fu, da piccolo,
paggio alla corte di Francesco I di Francia (1515-1547), ma si formò
culturalmente a Lione in quel calderone di idee di rinnovamento della Chiesa,
indubbiamente influenzato dalle idee riformiste provenienti dalle vicine
Germania e Svizzera. Tra l'altro, P. ebbe la possibilità di seguire
direttamente il movimento di rinnovamento spirituale di Jacques Le Fèvre
d'Étaples e del vescovo riformatore di Meaux, Guillaume Briçonnet. Nel
1528 (o nel 1534 secondo altre fonti) P. sposò Lucrezia di Gismondo Pucci,
con la quale visse a Lione fino al 1538, occupandosi molto di più dei suoi
studi umanistici [tradusse in francese le opere religiose di Pietro Aretino
(1492-1556)] che dell'azienda paterna, la cui gestione lasciò in mano ad
alcuni parenti. In seguito, tra la fine del 1538 e l'inizio del 1539, si
stabilì a Firenze, dove diventò un riferimento per l'entourage culturale
della città: il 20 gennaio 1541 fu accolto nell'Accademia degli Umidi, che,
il 31 gennaio, lo elesse riformatore dei propri Statuti. Nel 1545 il Duca
Cosimo I de' Medici (duca di Firenze: 1537-1569 e granduca di Toscana:
1569-1574), lo nominò console inviandolo, nel 1547, come suo incaricato di
fiducia in Francia per ristabilire i rapporti con la corte francese,
incrinatisi in seguito ad uno sgarbo di etichetta nei
confronti dell'ambasciatore fiorentino, Giovanni Battista Ricasoli. P. ne
approfittò per documentarsi sui progressi della Riforma in Francia e per
portare a casa una serie di libri riformati, tra cui la Christianae
religionis institutio di Calvino, alle dottrine del quale egli aderì, facendo
propaganda attiva a Firenze, non appena rientrato, nell'ambito
dell'intellighenzia evangelica fiorentina, che aveva annoverato, tra gli
altri, il letterato Pier Vettori (1499-1585), Ludovico Manna, Aonio Paleario,
Benedetto Varchi, Pier Francesco Riccio, Pietro Carnesecchi e Marcantonio
Flaminio. Ma, il 17 ottobre 1551, scoppiò il caso di Pietro Manelfi: l'ex
sacerdote e anabattista pentito, che rivelò tantissimi dettagli sulle
organizzazioni anabattiste ed evangeliche italiane e portò, fra il dicembre
1551 ed il gennaio 1552, ad arresti di massa negli ambienti evangelici
fiorentini. Anche Manna e P. furono arrestati, ma, quest'ultimo, dopo aver
pagato un grosso riscatto, fu liberato in febbraio: la probabile promessa a
Cosimo I di non occuparsi più di religione favorì la sua elezione a
consigliere dell'Accademia Fiorentina (l'ex A. degli Umidi) il 24 febbraio
1552. Da quel momento P., abbandonata - o perlomeno nascosta - ogni
pericolosa simpatia per il calvinismo, venne ricordato solamente per la sua
carriera politica (senatore nel 1567, commissario a Pisa nel 1568,
commissario a Pistoia nel 1578), che si concluse con la sua morte nel
1582.
Curiosità Di Bartolomeo Panciatichi e della moglie Lucrezia
esistono due celebri ritratti del Bronzino conservati nella Galleria degli
Uffizi a Firenze.
Brötli, Johannes (Hans), detto Panicellus (m.
1528)
Johannes (Hans) Brötli (in svizzero-tedesco = panino, da cui il
nome umanistico di Panicellus), unico religioso svizzero che aderì al
movimento anabattista di Zurigo fin dalle sue origini nel 1523, era
originario del cantone Grigioni, e al tempo dell'inizio del movimento faceva
l'aiuto parroco del villaggio di Zollikon, vicino a Zurigo. A Zollikon B.
si era pronunciato, nell'estate 1524, contro il battesimo dei bambini e
questa posizione fu seguita da Conrad Grebel, fondatore del movimento
anabattista, che si rifiutò di far battezzare suo figlio, nato
da poco. Nel cantone Zurigo B. rimase ed operò fino al 21 Gennaio 1525: in
quella data infatti il consiglio cittadino, nell'ambito delle misure contro
gli anabattisti, ordinò l'espulsione dalla città e dal cantone di tutti
gli anabattisti non cittadini zurighesi, tra cui B. stesso. B. allora si
recò, con Wilhelm Reublin, a Hallau, nel cantone Sciaffusa, dove fu così
efficace nella sua predica da convincere quasi tutti gli abitanti a farsi
ribattezzare. Mentre era a Hallau, B. cercò come Grebel, Reublin e Felix
Mantz, di portare alla propria causa il principale riformatore del cantone
Sciaffusa, Sebastian Hofmeister (Oconomus)(1476-1533). Questi, in un primo
momento, sembrò essere infatti convinto delle affermazioni degli
anabattisti, soprattutto in tema di battesimo degli infanti, ma in seguito si
rivelò una delusione per il movimento, preferendo schierarsi con Zwingli,
anzi diventando anche uno dei più feroci oppositori
dell'anabattismo. Tuttavia, per quanto concerneva la comunità anabattista di
Hallau, le autorità di Sciaffusa non potevano fare molto in quel momento a
causa dell'appoggio dato al paese dalla vicina città tedesca di Waldshut,
centro anabattista, dove operavano Reublin e Balthasar Hubmaier Ma nel
1525 gli Asburgo repressero l'anabattismo a Waldshut, facendo venire meno la
sua protezione sul paese di Hallau, i cui abitanti anabattisti si diedero
allora alla clandestinità. B. stesso e l'ebanista anabattista Hans Rueger,
che aveva avuto un certo ruolo nelle insurrezioni locali durante la Guerra
dei Contadini, furono catturati nel 1527 e Rueger fu decapitato nello stesso
anno. B. invece riuscì a fuggire, per essere poi catturato e, secondo
alcuni autori, bruciato sul rogo nel 1528.
Paolo di Samosata (o il
Samosateno) (adozionista)(ca. 200-ca. 275)
La vita Nato nel
200 ca. e di umili origini, Paolo di Samosata divenne vescovo di Antiochia
nel 260. Si interessò alle dottrine adozioniste, sviluppate da Teodato di
Bisanzio durante il papato di Vittore I (189-198) e rielaborate da Artemone
alla metà del III secolo. Fu accusato, quindi, di adozionismo in tre
sinodi tenuti tra il 264 ed il 268: i primi due finirono con un nulla di
fatto, ma nel terzo, tenuto ad Antiochia nel 268, egli fu accusato di eresia
dagli origenisti, con a capo Malchione, rettore della scuola di letteratura
greca di Antiochia, il quale scrisse una lettera a papa Dionisio (259-268) e
a principali vescovi del mondo cristiano. Di questa missiva ci sono
pervenuti alcuni brani non precisamente lusinghieri per P., accusato di
essersi arricchito illecitamente e di circondarsi di donne. Il sinodo di
Antiochia condannò P. e lo depose dalla carica di vescovo e al suo posto fu
nominato Domno, figlio del vescovo Demetriano, predecessore
di P. Nonostante la condanna, tuttavia, P. rimase al suo posto, godendo
della protezione di Zenobia, regina (267-272) di Palmira, regno di cui
Antiochia faceva parte. P. svolgeva, infatti, la funzione di tesoriere della
regina. Nel 272, l'imperatore Aureliano mosse guerra al regno di Palmira e
avendo conquistato Antiochia, accolse la supplica dei cristiani della città
di assegnare la sede vescovile al legittimo titolare. Alcuni autori
suppongono che Aureliano, solitamente non particolarmente tenero con i
cristiani, avesse applicato alla lettera l'editto di tolleranza di Gallieno e
avesse deciso di assegnare la sede a coloro che erano in sintonia con Roma e
i vescovi italiani. P. scomparve dalla scena e morì pochi anni dopo,
probabilmente nel 275.
I seguaci I suoi seguaci, denominato
paoliani o paulianisti, rimasero attivi fino al IV secolo, quando furono
condannati dal Concilio di Nicea e riassorbiti in seguito dal Cristianesimo
ufficiale. E', invece, priva di fondamento l'ipotesi che a Paolo di Samosata
possono essersi ispirati i Pauliciani, setta dualista del VII secolo, il cui
nome derivava probabilmente da uno dei fondatori, Paolo l'Armeno, oppure
dalla particolare importanza data da questa setta alle lettere di San
Paolo.
La dottrina Secondo P., il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo erano una sola persona (prosopon), ma il Figlio e lo Spirito Santo,
essendo rispettivamente il Verbo (Logos) e la Saggezza (Sophia), erano senza
ipostasi (stato): in pratica l'unica persona era il Padre, mentre le altre
figure erano degli attributi o appellativi impersonali del Padre. Gesù
Cristo, a sua volta, era sostanzialmente un uomo con una sua personalità,
nato senza peccato dalla nascita. In egli dimorava il Logos, che lo ispirava,
essendosi unito a lui non in sostanza, ma solo in qualità. P. quindi teneva
rigorosamente separate le due nature di Cristo, sebbene questo concetto
rischiasse di concepire due persone, l'una divina e l'altra umana, diverse
tra loro e unite tra loro solo per volontà del Cristo stesso. Ma P. preferiva
correre questo rischio, piuttosto che ammettere la presenza di due Dei,
eresia denominata diteismo.
Pauliciani (dal VII
secolo)
La storia Il paulicianesimo fu una setta dualistica,
la cui fondazione è tradizionalmente attribuita a Costantino di Manamali nel
655. Nel 682 Costantino fu ucciso ed il suo stesso carnefice, l'ex
ufficiale delle truppe bizantine, Simeone, divenne il nuovo capo della setta
fino al 690, data in cui egli fu bruciato sul rogo. Nel VIII secolo, si
susseguirono diversi capi, tra cui un tale Paolo l'Armeno, da cui alcuni
pensano che si stato preso il nome della setta (vedi denominazione). Le
beghe interne, le persecuzioni bizantine e le guerre con gli Arabi portarono
la setta molto vicino all'estinzione fino all'avvento del riformatore Sergio,
il quale provocò uno scisma all'interno della setta, creando la corrente dei
Sergiti, in opposizione ai Baaniti, seguaci del precedente capo Baanes, e
sotto la sua guida, il movimento p. riprese vigore, espandendosi nella
Cilicia ed in Asia Minore. Era il periodo in cui gli imperatori bizantini
della dinastia isuarica, come Niceforo I Logoteta (802-811) tolleravano la
presenza di questa setta, soprattutto quando i suoi adepti accettavano di
prestare servizio militare per l'impero nelle zone di confine con gli
Arabi. Ma i successivi imperatori della dinastia amoriana, come Teofilo
(829-842), Teodora (reggente 842-865) e Michele III (842-867), ripresero
le persecuzioni, causando la ribellione dei p., i quali, nonostante gli
appelli pacifisti di Sergio, si allearono con i mussulmani, i nemici del
momento dell'impero bizantino. Artefice di questa alleanza fu Karbeas,
considerato il fondatore nel 844 dello stato p., di cui fissò nel 856 la
capitale a Tephrike, (l'odierno Divrigi, nella Turchia
nordoccidentale). Alla morte di Karbeas nel 863, successe, alla guida
dell'effimero stato, Crisoceir (cioè "mano d'oro"), che, nel periodo tra il
863 ed il 872, tenne in scacco le truppe imperiali, avanzando con i soldati
p. fino ad Efeso ed alla costa di fronte a Costantinopoli. Crisoceir,
tuttavia, fu sconfitto e ucciso nel 872, data in cui si estinse lo stato p. e
venne distrutta la sua capitale Tephrike. Sopravvissero diverse comunità
eretiche, ma non ribelli, di p. nell'impero e durante il regno di Giovanni I
Zimisce (968-975), nel 970, essi vennero deportati in massa nella Tracia,
come forza d'urto contro le invasioni dei Bulgari. All'imperatore Alessio
I Comneno (1081-1118), fondatore dell'omonima dinastia, venne attribuito il
merito di aver convertito gli ultimi p. Tuttavia, le deportazioni ebbero un
effetto non previsto dagli imperatori bizantini: infatti la diffusione delle
dottrine p. nella penisola balcanica contribuì allo sviluppo di di altri
gruppi di eretici dualisti come i bogomili ed i catari. Come comunità
isolate, il p. sopravvisse in Armenia, fino all'invasione di questo paese da
parte della Russia nel 1828.
La denominazione Il nome di
pauliciani dato ai seguaci di questa setta ha dato origine ad una serie di
ipotesi, nessuna delle quali è totalmente soddisfacente: La particolare
venerazione per San Paolo, rinforzato dall'abitudine di rinominare i capi p.
con i nomi dei compagni di Paolo. Una supposta discendenza spirituale da
Paolo di Samosata, derivato dal fatto che Costantino, il fondatore era nato a
Manamali, vicino a Samosata. Una derivazione dal nome dei due missionari,
Paolo e Giovanni, che portarono l'eresia in Armenia nel VIII secolo, da cui
il nome Pauloioannoi. I discepoli del "piccolo Paolo", ma non si è mai saputo
a chi ci si faceva riferimento.
La dottrina Il p. era derivato
probabilmente dalla fusione sincretica di diverse dottrine eretiche, che
erano state popolari in Asia Minore nei secoli precedenti, come il
gnosticismo, il marcionismo, il messalianismo, il manicheismo, mentre sembra
del tutto accertato l'estraneità agli insegnamenti adozionisti di Paolo di
Samosata. Dalle dottrine di Marcione, i p. negarono l'importanza del
Vecchio Testamento e propugnarono il concetto dualista e gnostico di due Dei,
il Dio malvagio del Vecchio Testamento, creatore del mondo e della materia, e
il Dio buono del Nuovo Testamento, creatore dello spirito e dell'anima,
l'unico degno di adorazione. I p., quindi, utilizzavano come testi sacri
solo il Nuovo Testamento, con particolare attenzione alle lettere di San
Paolo ed al Vangelo di San Luca, venivano invece respinte le lettere di San
Pietro. Come altre sette gnostiche, ad esempio i manichei, anche i p. erano
divisi in pochi "Perfetti", celibi, astemi e vegetariani, e molti "Uditori"
o catecumeni. Oltretutto essi erano anche non violenti e quindi costò
loro molta fatica il dovere prendere le armi per difendersi contro gli
attacchi delle truppe bizantine. Come i messaliani, essi consideravano
inutili la mediazione della Chiesa e i sacramenti (però qualche volta si
facevano battezzare), come forme esteriori della Chiesa, della quale
combatterono anche il culto delle immagini, diventando iconoclasti, cosa che
permise loro una relativa tranquillità nel periodo degli imperatori della
dinastia isaurica, persecutori proprio delle immagini sacre. Rispetto
all'Incarnazione di Cristo, i p. la rifiutavano, seguendo l'eresia del
Docetismo, poiché credevano che il corpo di Cristo fosse del
tutto immateriale, essendo Egli un angelo. Sono infine calunniose e prive
di fondamento le dicerie di strani riti satanici, compiuti dai p. con
sacrifici notturni di neonati, riportate da Giovanni di Ojun (o Ozniensis),
vescovo della Chiesa Armena.
Processo al cadavere e papato nel X
secolo
Papato nel X secolo (saeculum obscurum) Il periodo più
buio nella storia del papato coincide con il periodo di circa 100 anni tra la
fine del IX secolo (morte di Papa Stefano V nel 891) e la fine del X secolo
(elezione di Papa Silvestro II nel 999). In questo periodo si susseguirono
ben 28 papi e 3 antipapi, di scarsissimo peso storico e diversi dei quali
furono scomunicati o morirono di morte violenta. L'elezione del pontefice si
ridusse ad una lotta tra le fazioni filo-imperiali e nazionalistiche e furono
perpetrate nefandezze di tutti i generi, dalle quali, spesso, gli stessi papi
non erano estranei. Si distinse, tra il 904 ed il 964, l'azione della
famiglia del senatore romano Teofilatto, soprattutto quella delle dissolute
donne della famiglia, la moglie Teodora e le figlie Teodora II e Marozia (e
di seguito l'influenza del figlio di quest'ultima, Alberico), dando origine a
quel periodo denominato "pornocrazia romana". Allo strapotere di Marozia
viene fatto risalire l'origine più probabile della leggenda della "Papessa
Giovanna", una donna, travestita da uomo, che sarebbe ascesa al seggio
papale, salvo poi essere scoperta a causa di una gravidanza inopportuna: più
semplicemente la leggenda era una metafora sull'influenza di Marozia, vera
papessa in pectore, degli affari ecclesiastici.
L'elenco, secondo
l'Annuario pontificio, è il seguente: Formoso 891-896 Bonifacio VI
896 Stefano VI 896-897 Romano 897 Teodoro II
897 Giovanni IX 898-900 Benedetto IV 900-903 Leone V
903 Cristoforo (antipapa) 903-904 Sergio III 904-911 Anastasio
III 911-913 Landone 913-914 Giovanni X 914-928 Leone VI
928 Stefano VII 928-931 Giovanni IX 931-935 Leone VII
936-939 Stefano VIII 939-942 Marino II 942-946 Agapito II
946-955 Giovanni XII 955-964 Leone VIII 936-965 Benedetto V
964-966 Giovanni XIII 965-972 Benedetto VI 973-974 Bonifacio
VII (antipapa) 974-985 Benedetto VII 974-983 Giovanni XIV
983-984 Giovanni XV 985-996 Gregorio V 996-999 Giovanni XVI
(antipapa) 997-998
I papi, che più si distinsero, in senso
negativo, furono: Formoso, scomunicato ai tempi di Giovanni VIII (neppure lui
uno stinco di santo!), banderuola tra le fazioni filo-imperiali e
nazionalistiche, morto per avvelenamento. Stefano VI, promotore del
cosiddetto processo al cadavere di Formoso (vedi più avanti) e strangolato in
carcere. Sergio III, scomunicato da Giovanni IX, uomo totalmente privo di
scrupoli, amante di Marozia e padre del futuro Papa Giovanni XI. Giovanni
X, amante di Teodora, moglie di Teofilatto, soffocato da sicari
di Marozia. Giovanni XI, figlio di Marozia e di Papa Sergio III, poi
fantoccio nelle mani del fratellastro Alberico. Giovanni XII, figlio di
Alberico, forse uno dei peggiori papi di tutti i tempi. Depravato, sempre
circondato da prostitute e ragazzi di vita (uno dei quali fu da lui nominato
cardinale!), disastroso in politica estera (spergiuro e voltagabbana),
scialacquatore del tesoro pontificio, colpevole di omicidi e mutilazioni dei
suoi avversari politici, finì la sua indegna vita, scaraventato fuori da una
finestra dal marito della sua amante di turno, una tale
Stefanetta.
Processo al cadavere (897) Uno degli episodi più
truculenti di questo periodo fu il famigerato processo al cadavere. Papa
Formoso aveva cercato, durante il suo pontificato, di barcamenarsi in una
difficilissima situazione tra il partito filo-imperiale di Berengario (re
d'Italia 888-923 e imperatore 915-923) e quello nazionalistico di Guido da
Spoleto (re d'Italia 889-894 e imperatore 891-894) , ottenendo
l'unico risultato di scontentare ambedue. In particolare il voltafaccia ai
danni degli spoletini di Lamberto e Ageltrude, figlio e vedova di Guido,
portò ad un macabro processo post-mortem a suo carico. Nel Febbraio 897,
dieci mesi dopo la morte per avvelenamento di Formoso, Papa Stefano VI, della
fazione spoletina, ne fece dissotterrare la salma e imbastì un processo
farsa, nel quale il cadavere di Formoso, vestito da papa, fu dichiarato
colpevole per un cavillo (era stato eletto papa quando era già vescovo di
Porto, cosa che le leggi ecclesiastiche dell'epoca non permettevano).
Ovviamente la vera ragione era il rinnegamento della causa spoletina: Stefano
fece condannare in eterno Formoso, mutilare le tre dita usate per benedire e
spogliare il cadavere, gettandolo nel Tevere. Comunque, per l'eterna legge
che violenza chiama violenza, Stefano, pochi mesi dopo, in seguito ad una
insurrezione popolare, finì in carcere e, come si è detto precedentemente, fu
strangolato.
Papa Giovanni XXII (n. 1249, Papa
1316-1334)
La vita Jacques d'Euse, nato nel 1249 a Cahors,
nella regione del Quercy, nel sud della Francia, divenne Papa Giovanni XXII
il 7 Agosto 1316 e morì il 4 Dicembre 1334. Fu un papa scarso dal punto di
vista teologico, avido, ambizioso, fiscalmente spregiudicato nell'adottare il
sistema delle commende (l'uso di attribuire, dietro pagamento, un beneficio,
cioè una carica ecclesiastica con proventi, vacante al titolare di un altro
beneficio), nepotista nel piazzare amici e parenti in posti di rilievo,
fortissimo accentratore dell'amministrazione ecclesiastica, ma soprattutto
del tutto intollerante nei confronti di nuovi movimenti riformatori, che
sarebbero stati molto salutari per la Chiesa se fossero stati recepiti nella
giusta maniera, ma che, invece, vennero combattuti come si combattessero i
peggiori criminali. G. infatti si mostrò mortale nemico sia del movimento dei
francescani spirituali, da egli sprezzantemente soprannominati fraticelli,
che perseguì senza pietà. E questo significò la scomunica anche per Ubertino
da Casale, Angelo Clareno da Cingoli fino a Michele da Cesena, ex generale
dell'ordine francescano, il quale nel 1322 aveva convocato il Capitolo
Generale dell'ordine per emettere un pronunciamento a favore dell'assoluta
povertà di Gesù Cristo e degli apostoli, condannato come eretico (sic!) da G.
nel 1323. G. inoltre fece condannare, a parte Michele, tutti coloro che
entrarono in campo a fianco dell'imperatore Ludovico il Bavaro nella sua
lotta contro le ingerenze del Papa, e quindi Marsilio da Padova, Jean de
Jandun e Guglielmo di Ockham, tutti rigorosamente scomunicati. Infine G.
perseguì con tenacia il movimento delle Beghine e dei Begardi ed anche il
famoso mistico tedesco Meister Eckhart von Hochheim, loro simpatizzante e
finì in bellezza facendo condannare al rogo il medico e astrologo Cecco
d'Ascoli.
Le accuse di eresia Non c'è quindi da meravigliarsi se
poi, alla fine di tutto ciò, fu Giovanni XXII stesso ad essere....accusato di
eresia! Accadde durante varie prediche, soprattutto quella tenuta il giorno
di Ognissanti del 1331: G. dichiarò che le anime dei morti in grazia di
Dio avrebbero goduto della "visione beatifica" non subito dopo la morte,
come affermava la tradizione, ma solo alla resurrezione dei morti e
che, nell'attesa, essi avrebbero dormito godendo del conforto di Cristo
"sotto l'altare". L'incauta affermazione suscitò un vespaio in particolare
presso i teologi dell'Università di Parigi, i quali, dopo una approfondita
discussione, sbugiardarono il papa, affermando nel Dicembre 1333 che i morti
in grazia di Dio godevano della visione dell'Onnipotente immediatamente dopo
la loro morte. Fu organizzato nel 1334 un Concilio per discutere ed
eventualmente condannare l'affermazione del papa come eterodossa, ma la morte
tolse G. da questa imbarazzantissima situazione: in punto di morte si dice
avesse ritrattato la propria opinione davanti al collegio cardinalizio,
comunque rimase la figuraccia di un papa più avvezzo ad emettere bolle di
scomunica che a cimentarsi con dispute teologiche.
Papa Onorio
I (papato dal 625 al 638)
Papa Onorio detiene il non invidiabile
primato di essere stato l'unico Papa condannato ufficialmente come eretico da
parte di un Concilio Ecumenico. L'episodio accadde nel 626 e si riferì ad un
contenzioso cristologico nel quale era coinvolto il patriarca di
Costantinopoli, Sergio. Questi, su sollecitazione dell'imperatore Eraclio
(610-641), si era pronunciato affermando un'unica volontà (thélema) di
Cristo, che compiva opere divine ed umane mediante un'unica operazione
(enérgheia). Dall'unico thélema deriva il termine, data a questa dottrina di
Sergio, di monotelismo (o monotelitismo) e dall'unica enérgheia deriva il
termine di monoenergismo. La dottrina, elaborata quindi da Sergio, permise
a Ciro, vescovo di Alessandria, di riconciliare temporaneamente i cattolici e
i monofisiti dell'Egitto, ma fu contestata da San Sofronio, vescovo di
Gerusalemme. Nel 634 Sergio si decise a scrivere a Papa Onorio, lasciando
cadere, per prudenza, la questione dell'unica o due, umana e divina (come
chiedeva Sofronio), operazioni e concentrandosi sull'unica volontà di Cristo,
da cui il nome di monotelitismo (o monotelismo). O., imprudentemente e
senza una particolare fermezza, considerò la questione un semplice gioco di
parole e in due lettere (di cui la seconda è andata perduta) accettò la tesi
dell'unica volontà, che Sergio incluse in un editto intitolato Ékthesis
(Esposizione). Tuttavia, dopo la morte di O. e di Sergio nel 638 e quella
dell'imperatore Eraclio nel 641, i teologi cattolici, con a capo Papa
Giovanni IV (640-642), smentirono questa dottrina, tornando alla dottrina più
canonica delle due volontà, divina e umana, di Cristo. Il dibattito su
energia e volontà, comunque, continuò ad infiammare gli animi dei cristiani,
a tal punto che l'imperatore Costante II (641-668) dovette emanare, nel 648,
l'editto Typos per frenare le polemiche. Ma sulla cattedra di Pietro sedeva
un energico Papa (San) Martino I (649-655), il quale convocò, nel 649, un
sinodo in Laterano, dove condannò gli editti Ékthesis e Typos, scomunicò
Sergio e ribadì l'esistenza in Cristo delle due volontà. Costante reagì molto
male ai pronunciamenti di Martino, che fece arrestare nel 653 dall'esarca
Teodoro Calliope e portare in catene a Costantinopoli. Qui Martino fu
imprigionato in attesa di essere condannato a morte, ma poi, grazie
all'intercessione del patriarca monotelita di Costantinopoli, Paolo, la
sentenza fu dall'imperatore trasformato in esilio a Cherson, in Crimea, dove
il povero Martino morì per stenti nel 655. Ciononostante, l'ortodossia si era
oramai pronunciata su questa dottrina e nel 680 al VI Concilio Ecumenico a
Costantinopoli, presieduto dall'imperatore Costantino IV Pogonato (668-685) e
voluto da Papa Agatone(678-681), il monotelismo ed il monoenergismo vennero
definitivamente condannati. In questo Concilio la scomunica venne estesa
anche a O., colpevole di aver avallato la dottrina di Sergio e la sua lettera
ambigua fu pubblicamente bruciata. Successivamente Papa Leone II (682-683)
nel 682 corresse il tiro, cambiando la condanna di O. da eresia in negligenza
pastorale. Comunque la condanna a O. rimase ed il fatto che un Papa potesse
cadere in errore fu utilizzato durante la Riforma del XVI secolo dai
protestanti, che contestavano, a quel tempo, proprio l'infallibilità
papale.
Paracelso (Bombast von Hohenheim), Theophrastus Philipp
Aureolus (1493-1541)
La vita Il celebre medico e riformatore
della terapia medica (soprannominato il Lutero della medicina) Theophrastus
Philipp Aureolus Bombast von Hohenheim nacque ad Einsiedeln, nel cantone
svizzero di Schwyz, in una data non meglio precisata compresa tra il 1490 ed
il 1494: la maggior parte degli autori propende per il 10 (o forse 11)
novembre 1493, ma non c'è comunque certezza sull'esatta data. Il padre,
Wilhelm Bombast von Hohenheim de Riett (m. 1534), era figlio naturale di
Georg Bombast von Hohenheim, Gran Maestro dell'ordine dei cavalieri di Malta
e discendente di un'antica e nobile famiglia sveva. Tuttavia la sua nascita
illegittima lo aveva costretto ad una vita di povertà e a lavorare per
mantenere la famiglia: fece il medico dapprima per il monastero di Einsedeln,
quindi, dal 1502, si trasferì con il figlio a Villach, nella regione
austriaca della Carinzia, dopo la morte della moglie, ex sovrintendente
dell'ospedale di Einsedeln. Il piccolo P. ebbe quindi i primi rudimenti di
cultura dal padre ed in seguito studiò con due alti prelati: Eberhard
Paumgartner, vescovo di Lavant e Matthaeus Schacht, vescovo di Freising, ma
il tutore che esercitò la maggiore influenza sulla sua formazione fu
certamente Johannes Trithemius (Heidenberg) (1462-1516), abate di Sponheim,
eccellente esempio rinascimentale di studioso eclettico di Cristianesimo,
filosofia ermetica e scienze occulte (magia, astrologia, alchimia e cabala) e
mentore di un altro famoso occultista dell'epoca: Agrippa di
Nettesheim. In seguito P. si iscrisse alla Bergschule, la scuola mineraria di
Hutenberg, vicino a Villach, fondata dai famosi banchieri Fugger, dove i
giovani venivano istruiti a diventare esperti minerari in oro, stagno,
mercurio, ferro e rame. P. fece anche un apprendistato specifico presso la
miniera di Siegfried Fugger a Schwaz e poté impratichirsi sui primi rudimenti
di alchimia. Ma, nel 1507, P. abbandonò Villach per viaggiare per cinque
anni da un'università all'altra in cerca di conoscenza e sapere: si dice
abbia frequentato gli atenei di Basilea, Tübingen, Vienna, Wittenberg,
Lipsia, Heidelberg e Colonia, ma che non fosse stato particolarmente
impressionato dalla preparazione dei professori, soprattutto considerando
che, in seguito, si era domandato come "i più nobili collegi riuscissero a
sfornare così tanti nobili asini!" Comunque all'università di Vienna egli
ottenne il baccalaureato in medicina nel 1510. Tra il 1513 ed il 1516 P.
viaggiò per motivi di studio in Italia, in particolare a Ferrara, dove si
iscrisse ai corsi di medicina, abbastanza fuori dagli schemi tradizionalmente
galenici e aristotelici, degli umanisti Nicolò Leoniceno (1428-1524) e
Giovanni Manardo (1462-1536) e dove si laureò in medicina nel 1516, ma di
questo fatto non ci sono testimonianze scritte (purtroppo mancano gli annali
universitari di quell'anno), eccetto la sua parola. Da alcuni autori viene
ipotizzato, durante il suo soggiorno in Italia, anche un incontro tra P. e
Agrippa di Nettesheim, all'epoca docente di scienze occulte a Pavia. Fu
comunque in questo periodo che Theophrastus Bombast adottò il nome
di Paracelso, in quanto, probabilmente, intendeva significare che il
suo obiettivo era di superare il pensiero del famoso medico dell'antichità,
Aulo Cornelio Celso (I secolo d.C.). In seguito P. lavorò come chirurgo
militare durante varie guerre svolte in Olanda, in Russia (fu catturato dai
tartari, ma riuscì a fuggire in Lituania), in Ungheria ed infine, dal 1521,
al servizio della Repubblica di Venezia, per conto della quale viaggiò nei
vari possedimenti della Serenissima, ma anche in Egitto, Arabia e
Costantinopoli. Finalmente, nel 1524, egli tornò a Villach, ma in seguito si
recò, nel 1526, a Strasburgo, dove entrò nella gilda dei chirurghi, ma non in
quella, più prestigiosa, dei medici (il che fa ipotizzare ad alcuni autori
che P. non si fosse mai laureato a Ferrara). Nel 1527, P. fu chiamato a
Basilea per curare, con successo, la gamba del famoso editore di testi
umanisti Johannes Frobenius (1460-1527). Il risultato positivo delle sue cure
gli procurarono potenti appoggi da parte di Erasmo da Rotterdam, dello stesso
Frobenius e di Johannes Ecolampadio, pastore della Chiesa di San Martino e
principale riformatore della città, che lo fece nominare medico cittadino e
docente universitario. Tuttavia la sua presenza in città provocò malumori,
invidie e perfino odio tra i medici e i farmacisti, specialmente quando il 24
giugno 1527, quasi imitando una simile azione dimostrativa di Martin Lutero
del 1520, P. bruciò in pubblico i testi di Abu Ali Al-Hussain Ibn Abdallah
Ibn Sina (Avicenna) (981-1037) e di Galeno (129-199) davanti all'università
locale. Nelle sue lezioni, tenute in tedesco, e non in latino, contro ogni
usanza universitaria, egli tuonò contro i metodi empirici di curare le ferite
con muschio o, peggio, letame secco, intuendo, primo fra tutti, che, una
volta scongiurato il pericolo di infezioni, fosse la stessa Natura a
cicatrizzare le ferite. Similmente P. attaccò le assurde pratiche dei
medici dell'epoca, basate su salassi, infusi, suffumigi, prescritti senza una
minima conoscenza, ma questi suoi attacchi lo convinsero a fuggire da Basilea
nottetempo, nella primavera del 1528, soprattutto dopo due episodi: la morte
del suo protettore Frobenius e l'episodio della causa legale che aveva perso
contro il canonico Cornelius von Lichtenfels, che si era rifiutato di
pagargli una parcella: P. aggravò la sua situazione, insultando pesantemente
i giudici favorevoli al prelato. P. si rifugiò ad Esslingen, poi a Colmar,
in Alsazia, presso alcuni amici. Da qui, P. riprese il suo eterno
pellegrinare fra la Germania, Svizzera e Austria, dove, nel 1538, si recò a
Villach per trovare suo padre, salvo scoprire che l'anziano genitore era già
morto quattro anni prima. Lo stesso P., chiamato nel 1541 dal vescovo vicario
di Salisburgo, Ernst di Wittelsbach (o di Baviera) (vescovo: 1540-1554), morì
improvvisamente, a soli 48 anni, nella città austriaca il 24 settembre dello
stesso anno. Sulle cause della sua morte le notizie sono purtroppo scarse e
le ipotesi tante: morte naturale, collasso dopo una libagione esagerata,
gravemente ferito dopo una colluttazione con sicari inviati dai suoi
nemici. Dal 1725 le sue ossa sono state riesumate e sepolte nel porticato
della chiesa di San Sebastiano a Salisburgo.
Il pensiero medico
filosofico Il giudizio dei posteri delle capacità di P. come medico sono
variabili a causa del suo approccio molto singolare verso la medicina, di cui
egli rifiutò il pensiero ufficiale aristotelico e galenico del
tempo, rivolgendosi di più verso un concetto neo-platonico, ispirato da
Marsilio Ficino (1433-1499). Infatti il complesso mondo medico-filosofico
di P. non poteva non tenere conto che l'uomo era parte dell'universo e che le
sue malattie erano solo una parte della sua vita. Per poter conoscere quindi
questo mondo, P. si dedicò allo studio della Cabala cristiana, leggendo le
opere di Johannes Reuchlin, e allo studio dell'alchimia, ma fece anche tesoro
delle sue esperienze pratiche di medicina e di chimica farmaceutica. Da
tutto ciò, egli sviluppò una complessa cosmogonia, il cui principio
era l'yliaster o hyaster, [da hýle (materia) e astrum (astro)], una forma
di materia cosmica, popolata di entità, come ens astrorum (influenze
cosmiche), ens veneni (sostanze tossiche), ens naturale et spirituale
(difetti fisici o mentali) ed ens deale (malattie inviate dalla
Provvidenza). Eppure le sue intuizioni mediche rimasero insuperate per
secoli, come l'uso rivoluzionario dei composti di mercurio, al posto del
guaiaco, per combattere la sifilide (per questo, il suo studio in otto
volumi sull'argomento fu messo all'Indice per anni), l'impiego di minerali
contro la gotta, la descrizione ed eziologia esatta della silicosi, il
valore curativo delle acque minerali, l'uso di tinture di erboristeria e di
metodi omeopatici ante litteram.
Il pensiero religioso Benché
P. si mantenesse, almeno ufficialmente, cattolico per tutta la sua vita, egli
tese verso un concetto di illuminazione interna, cara ai mistici di tutte le
correnti cristiane. I misteri di Dio nella creazione del mondo potevano,
secondo P., essere utilizzati dal mago veramente pio. Era inoltre un
millenarista e credeva inoltre nel miglioramento dell'uomo e nell'incremento
della conoscenza, attraverso l'aiuto divino e la riscoperta della pietra
filosofale, cosicché il mondo avrebbe potuto prepararsi per il Regno dei
Santi dei Mille Anni (la cosiddetta quarta monarchia). Simili convinzioni le
espresse il suo seguace Heinrich Khunrath.
Le opere La maggior
parte delle sue opere furono da lui dettate al pupillo preferito Johannes
Oporinus (1507-1568) e pubblicate dopo la sua morte.
Esse comprendono: Archidoxae medicinae libri (1524),
sull'alchimia. Drei bücher von den Franzosen [Tre (diventati poi otto) libri
sulla malattia francese (sifilide)] (1528). Practica Theophrasti Paracelsi
(1529), il primo libro pubblicato. Das buch Paragranum (1529), sulla scienza
magica. Opus paramirum (1531), sull'uso magico e per scopi medici di erbe
medicinali e farmaci. Der grossen Wundartznei (Il grande libro della
chirurgia)(1536), la sua opera più famosa. Prognosticatio eximii doctoris
Theophrasti Paracelsi (1536), contenente una serie di 32
profezie.
Parker, Matthew (1504-1575)
Matthew Parker
nacque a Norwich, nella contea inglese del Norfolk, il 6 agosto 1504. Fu
educato al St. Mary Hostel di Norwich e al collegio Corpus Christi
di Cambridge e venne ordinato nel 1527. In seguito P. divenne decano del
collegio di San Giovanni Battista a Stoke-by-Clare e cappellano personale di
Anna Bolena, seconda moglie del re Enrico VIII d'Inghilterra, e nel 1544 fu
eletto Rettore del suo collegio a Cambridge e vice-cancelliere della stessa
università. La sua carriera proseguì anche sotto il regno di Edoardo VI
(1547-1553), mentre egli soffrì per le persecuzioni contro i riformatori
durante il regno cattolico di Maria Tudor (1553-1558). Finalmente con
l'avvento al trono di Elisabetta I (1558-1603), P. ebbe la possibilità di
rendersi utile alla sua regina. Infatti la rivolta degli alti prelati
cattolici contro Elisabetta era stata quasi totale: i cattolici la
consideravano un'usurpatrice e l'arcivescovo di Canterbury, Nicholas Heath
(m. 1578), si rifiutò perfino di incoronarla. Ben 15 vescovi, 12 decani, 15
direttori di collegi religiosi e circa 200/300 preti rassegnarono per
protesta le dimissioni o furono privati del titolo. Nel 1559 P. fu eletto
come il nuovo arcivescovo di Canterbury, ma per la sua investitura si
dovettero scomodare quattro ex prelati, tra cui Miles Coverdale, che erano
stati vescovi nel periodo di Enrico VIII o di Edoardo VI, stante la
situazione sopra descritta. P., uomo saggio e moderato, guidò la Chiesa
Anglicana in un momento molto difficile, stretto tra le tendenze nostalgiche
cattoliche ed estremismi puritani. Anche nel rapporto con la sua regina, P.
ebbe degli alti e bassi, soprattutto nel 1561 quando la sovrana proibì ai
religiosi di vivere con le mogli e le famiglie negli ambienti collegati alle
cattedrali ed ai collegi: P. protestò vivamente anche perché lui stesso era
sposato. Nel 1568 egli partecipò alla revisione della Grande Bibbia, un
progetto, parzialmente fallito, denominato la Bibbia dei vescovi (The
Bishops' Bible), il cui obiettivo era di creare una versione ufficiale che
potesse competere con la popolare Bibbia di Ginevra, di orientamento troppo
anti-episcopale. Nel 1571 le formule dottrinali anglicane, approvate nel 1553
come i 42 articoli di Edoardo VI, diventarono nel 1571 i 39 articoli,
compromesso fortemente voluto da P. tra elementi cattolici, luterani e
calvinisti. P. morì il 17 maggio 1575.
Parmeniano (vescovo
donatista) (IV secolo)
Parmeniano, vescovo donatista di
Cartagine, fu il successore di Donato, dopo che il fondatore del movimento
venne mandato in esilio dietro ordine dell'imperatore Costanzo II nel
348. Egli riorganizzò il movimento e durante il regno dell'imperatore
Giuliano, nel 362, gli fu data la possibilità di vendicare le persecuzioni
subite dai donatisti: vennero loro restituite le chiese, prontamente lavate
per essere riconsacrate e ci furono purtroppo i soliti massacri questa volta
a carico dei cristiani ortodossi. P. fu anche l'avversario religioso di
San Ottato di Milevi, contestatore delle tesi donatiste di P. nel lavoro De
schismate Donatistarum. Tuttavia San Ottato chiamò P. "fratello", in quanto,
contrariamente a Sant'Agostino, riteneva che i donatisti non fossero eretici,
ma solo scismatici.
Nayler, James (1618-1660)
Il
quacchero James Nayler nacque nel 1618 a Andersloe (oggi Ardsley), vicino a
Leeds, nella contea inglese del West Yorkshire, da una famiglia di
piccoli proprietari terrieri. Nel 1642, allo scoppio della guerra civile,
N. si arruolò come quartiermastro (furiere) nella cavalleria dell'esercito
parlamentare, ma nel 1650 dovette ritirarsi a vita privata a causa delle sue
cattive condizioni di salute. Ritornato a casa, ebbe un giorno una
visione, mentre arava i suoi campi: una voce che lo esortava a vendere tutto
e ad andarsene dalla casa del padre. Ma non prese decisioni drastiche finché
non ebbe incontrato nel marzo 1652 il fondatore del movimento dei quaccheri,
George Fox. A quel punto N. vendette tutti i suoi averi e divenne uno dei
primi, ed il più dotato come eloquenza, dei predicatori quaccheri. Il suo
pensiero era abbastanza radicale e nell'esercizio della predicazione, amava
inserire concetti cari ai ranters e ai familisti, ma fu imprigionato diverse
volte per blasfemia tra il 1653 ed il 1655. Nel 1656, però, N. passò il
segno prestandosi ad una rappresentazione che lo mise nei guai seri con le
autorità anglicane. L'anno prima, il 1655, infatti N. si era recato a Londra,
dove aveva conosciuto un gruppo di signore della setta, affascinate dal suo
aspetto e modo di fare. Quando poi, recatosi nell'ovest del paese, N. era
stato arrestato ad Exeter, queste donne, tra cui Martha Symmonds e Hannah
Stranger, erano andate a trovarlo in carcere, iniziando ad adorarlo come un
novello Cristo. Una terza adepta, particolarmente emotiva, tale Dorcas
Erbury, alla vista di N., svenne e questo svenimento fu esageratamente
descritto come una morte improvvisa, per cui il semplice rinvenimento,
avvenuto in presenza di N., fu interpretato come un vero e proprio miracolo
della resurrezione operata dal predicatore quacchero. Fox stesso visitò N.
in carcere per controllare e reprimere questa preoccupante divinizzazione del
suo ex pupillo, derivata probabilmente da una interpretazione un po' troppo
letterale di una frase di Fox stesso, Dio è in ogni uomo, ma N., irretito
dalle sue seguaci e convinto da loro di essere lui stesso Gesù Cristo, lo
trattò con sufficienza. Poco dopo il suo rilascio nell'ottobre 1656, il
misfatto: preceduto dalla Symmonds e dalla Stranger, che cantavano: "Santo,
Santo, Santo, il Signore Dio di Israele" e stendevano vesti per terra davanti
al corteo, N. entrò a Bristol a cavallo di un asino, appunto come un novello
Gesù Cristo, ad imitazione dell'entrata in Gerusalemme, descritta nei
Vangeli. Immediatamente arrestato con il suo seguito, egli fu inviato a
Londra per essere interrogato dal parlamento inglese, dominato in quel
momento dalla fazione puritana. Qui N. fu condannato per blasfemia: egli
non avrebbe potuto essere messo in prigione per più di sei mesi, secondo la
legge contro la blasfemia (Blasfemy Act), se non fosse stato per i
conservatori puritani che prima tentarono inutilmente di farlo condannare a
morte e poi concepirono per lui una tremenda punizione. Infatti, dopo
essere stato esposto per due ore alla gogna, N. fu legato ad un carro e
frustato a sangue per tutto il percorso durante il suo trasferimento ad un
altro luogo di condanna, rimesso alla gogna, gli fu bucata la lingua con un
ferro rovente e fu marchiato a fuoco sulla fronte con la lettera B
(blasfemia). Non soddisfatti di questo trattamento, i suoi giudici ordinarono
che N. fosse in seguito condotto a Bristol per essere portato in giro per la
città, in segno di scherno, seduto all'incontrario su un cavallo senza
sella, nuovamente frustato ed infine gettato nella prigione di Bridewell a
Londra, dove rimase per due anni e mezzo. Perfino il Lord Protettore
Oliver Cromwell (1599-1658) fu sconvolto da tanta severità della condanna, ma
non riuscì a fermare la punizione. In prigione, comunque, nonostante la
proibizione di ricevere penna e carta, N. riuscì a scrivere diversi trattati.
Finalmente l'8 settembre 1659 N. fu liberato per ordine del nuovo parlamento
e nel gennaio 1660 si riconciliò con Fox e gli altri
quaccheri. Nell'ottobre 1660 egli si mise in viaggio da Londra per andare a
visitare la sua mai dimenticata, ma un po' trascurata, famiglia che abitava
ancora nello Yorkshire. Purtroppo non ci arrivò mai: dopo qualche giorno
fu trovato legato e bastonato in un campo di Kings Ripton, vicino a
Huntingdon, nella contea del Cambridgeshire, probabilmente vittima di banditi
di strada, e, nonostante i soccorsi portati da Thomas Parnell, un medico
quacchero locale, N. morì a Kings Ripton il 21 ottobre 1660 per le gravissime
ferite riportate al capo.
Paruta, Niccolò (m. ca.
1581)
Niccolò Paruta, medico veneziano, era figlio dell'agiato
patrizio Gian Giacomo e diventò anabattista, partecipando nel 1546 ai
Collegia Vicentina, primo incontro di anabattisti e antitrinitariani
veneti. In seguito, nel 1560 circa, egli abbandonò Venezia, a causa delle
sue convinzioni riformatrici, per rifugiarsi con Andrea da Ponte
(1508-1585, fratello del futuro doge Niccolò da Ponte), a Ginevra. Qui,
turbato dalle polemiche tra Calvino e gli antitrinitariani italiani,
scaturite dall'esecuzione di Miguel Serveto, decise di emigrare in Moravia,
ad Austerlitz, nel 1561. Nella città morava, P. fondò dei seminaria
veritatis, cioè delle comunità di antitrinitariani italiani, rinforzate con
l'arrivo di personaggi famosi come Giovanni Paolo Alciati della Motta,
Giovanni Valentino Gentile e Bernardino Ochino, cacciati dalla Polonia in
seguito all'editto di Parczòw del 1564, che aveva ordinato l'espulsione di
tutti gli stranieri non cattolici. In particolare Ochino trascorse gli ultimi
giorni della propria esistenza, come ospite in casa del P., nel febbraio
1565. P. inoltre conobbe e ospitò altri riformati, come Marcantonio Varotta
(nel 1566) e Niccolò Buccella, con il quale egli mantenne rapporti duraturi
di amicizia. Nel 1571-72 P. si trasferì a Cracovia, e nel 1573 in
Transilvania, presso il Collegio unitariano di Kolozsvàr, dove ebbe contatti
con Ferenc Dàvid, Giacomo Paleologo e Giorgio Biandrata, nella cui casa a
Nagyenyed, P. morì, probabilmente nel 1581. Anche in esilio P., una
persona molto dotta, mantenne un buon grado di agiatezza, potendosi procurare
diversi volumi tali da formare una ricca biblioteca. Inoltre egli scrisse
molte opere (la maggior parte andate perdute), tra cui un catechismo e i suoi
due lavori principali, De uno vero Deo Iehova disputationes e le 11 Theses de
trino et uno Deo, queste ultime stampate a cura di Symon Budny nel
1575. Dal punto di vista dottrinale, P. si allineò ad un antitrinitarismo di
tipo samosateno (da Paolo di Samosata, fondatore dell'adozionismo),
quindi non-adorante della figura di Cristo ed in contrapposizione con la
linea dei sociniani. Nella sua Theses, P. dimostrò come il dogma trinitario
non fosse mai citato nelle Sacre Scritture e che Gesù fosse un uomo in carne
e ossa della stirpe di Davide, un profeta, nato da Maria, che Dio aveva
dichiarato Cristo e suo figlio unigenito.
Pascal, Blaise
(1623-1662)
La vita Il famoso filosofo, teologo, matematico e
erudito francese Blaise Pascal nacque a Clermont-Ferrrand il 19 giugno 1623.
Orfano a tre anni della madre, Antoinette Bégon, fu educato dal padre,
Etienne Pascal, presidente della corte di giustizia e scienziato, che gli
insegnò personalmente grammatica, latino, spagnolo e matematica e lo
introdusse, dopo il trasloco della famiglia (Etienne, Blaise e due sorelle:
Gilberte e Jacqueline) a Parigi nel 1631, ai circoli culturali e filosofici
del teologo e scienziato Marin Mersenne (1588-1648). La frequentazione di
così stimolanti compagnie fece sviluppare precocemente le geniali doti del
giovane P., che, a soli dodici anni compose un trattato sui suoni, a sedici
pubblicò il suo primo Saggio sulle sezioni coniche, e poco dopo inventò la
macchina per calcoli matematici, che da allora porta il suo nome, la
pascalina. Per anni P. fu allevato nel disinteresse verso le cose di fede,
bollate come avvenimenti al di là della ragione e quindi fuori dal suo campo
di interesse. Perciò il suo primo contatto con il giansenismo avvenne solo
nel 1646, in seguito alla visita di alcuni gentiluomini giansenisti a suo
padre malato, sebbene P. non si sentisse ancora pronto per accettare la
severa moralità insita in questa dottrina, il cui centro di riferimento era
il convento cistercense femminile di Port-Royal, gestito dalle
badesse Jacqueline Arnauld (detta Madre Angélique) e successivamente dalla
sorella Agnès Arnauld. Per P. seguirono nove anni di esperimenti
scientifici sul vuoto, sull'equilibrio dei fluidi (il principio di P.) con la
conseguente invenzione di un torchio idraulico, pubblicazioni matematiche sul
calcolo infinitesimale, sul triangolo aritmetico (il teorema di P.), e sulle
leggi della probabilità, ma anche di frivola attività mondana, con
la frequentazione del salotto di Madame de la Sablé, dove conobbe e
diventò, dal 1652, amico dello scrittore libertino Antoine Gombaud, cavaliere
di Méré (1607-1684). Nel gennaio 1655 la definitiva conversione al
giansenismo, accelerata da un incidente accaduto il 23 novembre 1654, che per
poco non gli costò la vita: i cavalli della sua carrozza si imbizzarrirono e
solo per miracolo non lo trascinarono nel vicino fiume. P. chiese quindi
di poter essere accolto come "solitario" (uno studioso o un filosofo
contemplativo che viveva presso il convento) a Port-Royal, dove già era
diventata suora, dal 1650, sua sorella Jacqueline. Qui si P. distinse per la
prima delle sue opere maggiori: le sue Lettres écrites par Louis De Montalte
à un provincial [Lettere scritte da Louis De Montalte (lo pseudonimo adottato
da P.) ad un provinciale, o, più semplicemente, Lettere provinciali],
diciotto lettere (+ una diciannovesima incompiuta) composte, in forma
satirica, tra il 1656 ed il 1657, come reazione alla condanna nel 1656,
pronunciata dall'università della Sorbona (e voluta dai gesuiti), delle idee
gianseniste di Antoine Arnauld, fratello delle sopraccitate badesse ed il più
famoso teologo del movimento. Quest'ultimo era intervenuto, con due lettere,
nel caso del Duca di Liancourt, un frequentatore di Port-Royal, al quale era
stata negata l'assoluzione da parte del curato di Saint Sulpice per aver
rifiutato la condanna dell'Augustinus di Cornelius Jansen. Per questa sua
presa di posizione, Arnauld era stato espulso dall'università
parigina. Nel 1658 P. scrisse il suo ultimo lavoro scientifico, sulla curva
cicloide (la lumaca di P.), e da quel momento si dedicò a tempo pieno alla
stesura del suo altro capolavoro: la monumentale Pensées (pensieri),
un'opera apologetica rimasta incompiuta per la sua precoce morte. P. visse
gli ultimi anni con atti di carità e di ascetismo estremo, con frequenti
mortificazioni della carne (aveva una cintura di chiodi che non esitava di
usare su se stesso al minimo accenno di vanità). Nel 1661 P. fece
un'ulteriore intervento a difesa delle idee gianseniste, quando il clero di
Parigi ordinò agli aderenti al movimento (suore, sacerdoti, studiosi) di
firmare un documento di condanna delle idee di Cornelius Jansen. Tuttavia fu
proprio P. a mostrare la maggiore fermezza, convincendo i più dubbiosi, come
Arnauld e Pierre Nicole, a non sottoscrivere il documento. La presa di
posizione portò nel 1665 alla chiusura del convento. Con un fisico sempre
più minato, a causa di gravi lesioni allo stomaco e al cervello, P. morì a
Parigi a soli 39 anni, il 19 agosto 1662. Finalmente, nel 1670 i suoi
Pensieri, con il titolo di Pensées de M. Pascal sur la religion et sur
quelques autres sujets (Pensieri del Signor Pascal sulla religione e su
alcuni altri argomenti) furono pubblicati postumi.
Il pensiero Dal
punto di vista dottrinale, P. si allineò con il credo giansenista
e, soprattutto nelle sue Lettere provinciali, ebbe l'occasione di chiarire
il suo pensiero. Egli attaccò infatti a fondo la dottrina lassista gesuita
che, da una parte, subordinava la grazia alla volontà umana e sottovalutava
nel contempo gli effetti negativi del peccato originale sulla natura
umana, mentre, dall'altra, assolveva il peccato sulla base di tutta una serie
di attenuanti e di casi di coscienza. Un altro bersaglio degli scritti di
P. fu il famoso scienziato-filosofo René Descartes, detto Cartesio
(1596-1650): P. non perdonava infatti a Cartesio, nel suo mondo razionale, di
aver ridurre la funzione di Dio a quello di un semplice creatore di funzioni
matematiche o di un ordinatore degli elementi. Per P. l'organo fondamentale
era l'intuizione, o cuore (coeur), a cui la ragione, o mente (raison), doveva
sottoporsi. I grandi misteri della religione non erano infatti risolvibili
con i modelli matematici-razionali, ma solo usando il sentimento,
l'esperienza, la storia e le contraddizioni umane. Infine curioso è il
ragionamento di P. sulla cosiddetta scommessa sull'esistenza di Dio: Se io
scommetto a favore dell'esistenza di Dio e Dio c'è, ne ho un
guadagno eterno Se io scommetto a favore dell'esistenza di Dio e Dio non
c'è, non ci perdo Se io scommetto contro l'esistenza di Dio e Dio c'è, ne ho
una perdita eterna Se io scommetto contro l'esistenza di Dio e Dio non
c'è, non ci perdo nè ci guadagno Nel caso di scommessa contro, c'è una
ipotesi di perdita eterna, quindi la saggezza, secondo P., consiglia di
scommettere a favore, perché c'è una ipotesi di vincita, o, nel peggiore dei
casi, non si perde nulla.
Manna, Ludovico (Fra Angelo da Messina o
Ludovico Messina) (attivo 1530-1555)
Tra i più noti riformati
della Sicilia si ricorda il messinese Ludovico Manna, entrato a far parte
dell'ordine dei domenicani con il nome di Fra Angelo da Messina, ma che in
seguito, influenzato da colloqui avuti, nel periodo 1537-1540, con Benedetto
Fontanini da Mantova, l'autore del famoso Beneficio di Cristo, aveva
abbandonato la tonaca per trasferirsi a Napoli, in casa di un amico
anabattista, il mercante Tobia Citarella. Tuttavia, poco dopo lo troviamo
frequentatore dei circoli culturali di Juan de Valdés, intorno al 1540,
assieme a Pier Martire Vermigli, Marcantonio Flaminio, Giovanni Bernardino
Bonifacio e a Pietro Carnesecchi, di cui divenne grande amico. Infatti,
nel 1543 visse a Venezia, presso la casa dell'amico Carnesecchi e in seguito,
raccomandato proprio dal protonotario apostolico fiorentino, divenne
collaboratore dell'arcivescovo di Otranto, Pietro Antonio di Capua, ma venne
da questi licenziato per opinioni eretiche. A questo punto M. si trasferì in
Toscana, a Pisa, vivendo in casa del mercante Bernardo Ricasoli e
approfittando del trasporto di mercanzie verso Firenze, riuscì a farvi
introdurre le Prediche di Bernardino Ochino e le Cento e dieci divine
considerationi di Valdés. Ma, di lì a poco, cambiò nuovamente credo
religioso: abbandonò infatti il valdesismo, per allinearsi al calvinismo, di
cui fu un membro molto attivo per la sua diffusione in Toscana: infatti fece
anche tradurre da Ludovico Domenichi in italiano (con il titolo di
Nicomediana) il libello satirico Excuse à messieurs les Nicodémites di
Calvino. Entro il 1550 M. era oramai perfettamente inserito nell'ambiente
protestante di Firenze, insieme al letterato Pier Vettori (1499-1585),
Bartolomeo Panciatichi, Aonio Paleario, Pier Francesco Riccio, il sempre
presente amico Pietro Carnesecchi e Marcantonio Flaminio. Ma nel 1551
scoppiò la bomba delle rivelazioni del pentito Pietro Manelfi e M., uno dei
principali accusati, per sfuggire all'arresto, dovette espatriare rapidamente
nel 1552 a Ginevra come esule. Qui egli divenne catechista della Chiesa degli
Italiani gestita dal pastore Celso Martinengo e nel 1555 fu raggiunto in
esilio dal poeta siciliano Giulio Cesare Pascali (1527-ca. 1601). Dopo
questa data non si hanno più tracce di lui, ma si suppone che fosse emigrato
da un'altra parte, perché in un censimento dell'epoca, non risultò tra gli
abitanti di Ginevra.
(San) Pascasio Radberto (786- ca.
860)
Pascasio nacque a Soissons nel 786 ed essendo stato
abbandonato da piccolo dai genitori, venne allevato dalle suore Benedettine
di Soissons. Una volta adulto, entrò nell'ordine benedettino a Corbie (vicino
ad Amiens, nella Francia settentrionale), dove, dopo anni trascorsi come
maestro e teologo per i novizi, fu nominato abate. Nel 831 scrisse la sua
opera più importante, De corpore et sanguine Domini (Del corpo e sangue del
Signore), nel quale presentò la sua dottrina sulla transustanziazione durante
l'Eucarestia, ma esagerò nell'affermare l'identità del Corpo naturale di
Cristo con il Suo Corpo eucaristico. La tesi ufficiale, infatti, fino a quel
momento era che il pane ed il vino, durante l'Eucarestia, si trasformavano
solo simbolicamente nel Corpo e nel Sangue di Cristo. P., invece, insistette
sul fatto che l'essenza (ovviamente non l'apparenza) del pane e del vino si
trasformava realmente in quel Corpo e in quel Sangue, che era nato da Maria e
aveva patito sulla croce. Quindi il sacramento non era una semplice
cerimonia, ma un vero e proprio sacrificio, che ogni volta si ripeteva solo
per i fedeli, perché, secondo P., questo miracolo non accadeva invece per i
non credenti. Quando fu pubblicato il lavoro, ci fu un coro di proteste da
parte dei teologi dell'epoca, tra cui Rabano Mauro, abate di Fulda, che
vedevano in questa dottrina idee sconvolgenti quasi di tipo
cannibalistico. Il re dei Franchi occidentali Carlo il Calvo (re: 843-875 e
imperatore: 875-877) ordinò nel 844 al monaco Ratramno dello stesso monastero
di P. di confutare alcune dichiarazioni di P. in odore di eresia. Il
monaco insistette sul fatto che la presenza di Cristo nell'Eucarestia era
un mistero, non riducibile ad una trasformazione alla lettera del pane e
del vino. Inoltre, secondo Ratramno, era il corpo divino di Cristo ad
essere presente nel sacramento non la Sua carne. Tuttavia, solo più di un
secolo dopo la morte di P., che era avvenuto nel 860, il monaco Gerberto di
Aurillac, diventato poi il famoso Papa Silvestro II (940-1003), scrisse un
saggio dallo stesso titolo di quello di P., confermando la correttezza della
dottrina della transustanziazione, la quale però divenne articolo di fede
solo dopo il IV Concilio Lateranese del 1215.
Passagini (XII- XIII
secolo)
Citati in uno statuto del 1220 dell'imperatore Federico
II di Svevia (1220-1250), i passagini furono una setta, diffusa in Lombardia,
un concetto geografico che all'epoca si riferiva a buona parte
dell'Italia settentrionale. La setta, di cui non si conoscono i nomi dei
relativi capi, manteneva alcune usanze derivate dall'Antico Testamento e
dall'ebraismo, come la circoncisione, il consumo di cibo kosher e la
santificazione del Sabato: il loro stesso nome derivava dalla Pasqua ebraica,
il Passaggio di Dio, che risparmiò gli ebrei e colpì gli egiziani (Esodo
12,11). Inoltre i p. credevano in una forma di subordinazianismo, e cioè che
Cristo era un essere creato e inferiore al Padre. Tutte le informazioni
sulla setta derivarono dalla Summa contra haereticos del teologo e liturgista
Prepositano di Cremona (c.1140- c.1210).
Fanini, Fanino (o Fannio,
Camillo) (ca. 1520-1550)
La vita Fanino Fanini (o Camillo
Fannio) nato a Faenza nel 1520 circa da una agiata famiglia di fornai, era il
primogenito dei tre figli di Melchiorre Fanini (m. 1546) e Chiara Brini. Nel
1542 F. sposò Barbara Baroncini, da cui ebbe due figli, Giovanni Battista e
Giulia, ed intraprese il mestiere di famiglia, ma poco dopo iniziò ad
interessarsi alle idee calviniste, probabilmente in seguito alla lettura del
Beneficio di Christo di Benedetto Fontanini da Mantova e della Tragedia
intitolata libero arbitrio di Francesco Negri da Bassano, e, dopo la
conversione, si diede ad un'intensa attività di propaganda. Fu arrestato
nel 1547 e processato dall'inquisitore Alessandro da Lugo, ma fu liberato
"per pietà" e bandito da Faenza e dallo Stato della Chiesa. Tuttavia F.
rimase in Romagna e, associatosi agli evangelisti Barbone Morisi, Giovan
Matteo Bulgarelli, Alessandro Bianchi e Nicola Passerino, fece una massiccia
propaganda calvinista a Lugo, Imola e Bagnacavallo, dove fecero proselitismo
perfino nel convento femminile di Santa Chiara. I punti principali delle
prediche semplici, ma efficaci, di F. furono la negazione dei sacramenti
dell'Eucaristia e dell'Ordinazione, della messa e dell'intercessione dei
santi, della recita del rosario e della pratica del digiuno, ma a
Bagnacavallo il 27 febbraio 1549 F. fu arrestato per la seconda volta e
recluso nella rocca di Lugo per diciotto mesi, ed in seguito venne trasferito
a Ferrara per il processo. Tuttavia immediatamente dopo l'arresto il
cardinale Alessandro Farnese (1520-1589), nipote del Papa Paolo III
(1534-1549), chiese l'estradizione del prigioniero a Roma: era l'inizio di un
lungo tira e molla tra il papato e il duca di Ferrara Ercole II
d'Este (1543-1559), geloso della sua autonomia giudiziaria. Anche durante
il processo, il duca riuscì infatti a far affiancare l'inquisitore di
Ferrara Girolamo Papino da un domenicano, un francescano, ma soprattutto da
tre giudici "laici" nominati dalla corte ducale. Il processo, comunque, si
concluse il 25 settembre 1549 con la condanna al rogo di F., eppure il duca
fu notevolmente recalcitrante nel far eseguire la sentenza, anche per una
inusitata corsa alla solidarietà con tentativi di far liberare il fornaio
faentino da parte di illustri personaggi dell'epoca, come il famoso capitano
di ventura Camillo Orsini(1491-1559), la nuora Lavinia Franciotti della
Rovere Orsini e Olimpia Morato: le ultime due, probabilmente sollecitate
dalla duchessa Renata, moglie di Ercole II, cercarono di intercedere presso
il duca nella primavera 1550 e visitarono il prigioniero in carcere per
portargli l'elemosina della duchessa. Perfino Renata in persona cercò di
intervenire presso il marito, tuttavia essendo già in odore di eresia
calvinista (sarebbe stata poi relegata nel palazzo di San Francesco,
denominata per questo Palazzo della Duchessa), il suo tentativo fu vano, se
non ulteriormente compromettente per la sua posizione a corte. Dopo
l'elezione del nuovo papa, Giulio III (1550-1555) nel febbraio 1550, il duca
fu fatto oggetto di pressioni e ricatti da parte del famigerato inquisitore
cardinale Giovanni Pietro Carafa, poi Papa Paolo IV (1555-1559): Carafa
alluse che se Ercole non avesse acconsentito all'esecuzione di
F., l'Inquisitore Generale avrebbe aperto un procedimento contro la
duchessa Renata d'Este. A questo punto, per scaricarsi la responsabilità,
Ercole si fece mandare da Giulio III una breve di autorizzazione alla
condanna a morte di F.: il povero fornaio, nonostante un tentativo della
moglie e dei figli di convincerlo ad abiurare, fu giustiziato mediante
impiccagione, seguita dal rogo, a Ferrara il 22 agosto 1550.
Le
reazioni all'esecuzione F. fu subito eletto ad esempio di martire protestante
da parte di diversi riformatori, come Francesco Negri, che scrisse nel 1550
De Fanini faventini ac Dominici bassanensis morte (..) in merito
all'esecuzione capitale del fornaio di Faenza e di Domenico Cabianca da
Bassano, conterraneo di Negri. Anche Giulio Della Rovere esaltò la figura di
F. nella seconda edizione della sua popolare Esortazione alli dispersi per
l'Italia, titolo poi modificato in Esortazione al martirio, testo in cui
spingeva i potenziali martiri della fede riformata ad affrontare la
morte. Anche all'estero, e più precisamente a Ginevra, la vita ed il martirio
di F. furono descritti nel martirologio calvinista Actiones et monimenta
martyrum e nelle Icones di Théodore de Bèze.
Pastorelli (o
Pastoureaux) (Movimenti del XIII secolo)
Due movimenti popolari
del XIII secolo:
Primo movimento (1250-1251) Nel 1250 il re di
Francia, e futuro santo, Luigi IX (1226-1270), durante la sfortunata VII
crociata, fu fatto prigioniero a Mansura dai mussulmani. L'energica madre,
Bianca di Castiglia, cercò di organizzare una spedizione di soccorso, ma il
suo appello cadde nel vuoto presso la nobiltà e clero. Fu invece raccolto
dalla popolazione più umile, pastori e contadini, infiammati dalle prediche
di un ex monaco cistercense di sessant'anni, di nome Jacob, originario
dell'Ungheria, che venne quindi chiamato Maestro d'Ungheria. Jacob predicava
la Crociata nel nome della Vergine Maria, con un pugno sempre chiuso, nel
quale egli affermava esserci una mappa datagli dalla Madonna. La
predicazione ebbe un successo fenomenale: in poco tempo si raccolse
un esercito di crociati di 30.000 persone, ma purtroppo con infiltrazioni
di delinquenti ed assassini, i quali si lasciarono andare ad ogni sorta
di atrocità, particolarmente contro il clero. A Parigi, a Rouen, a Orléans,
a Tours vi furono massacri di monaci, maltrattamenti di vescovi,
dissacrazione di chiese. Il Papa Innocenzo IV (1243-1254) allora li
scomunicò e Bianca di Castiglia, rendendosi conto che il movimento non era
più controllabile, ne ordinò la distruzione. E infatti a Bourges, dopo i
soliti saccheggi, questa volta ai danni degli ebrei poiché i monaci erano
riusciti a fuggire in tempo, i crociati furono accerchiati dalle truppe
inviate dalla regina madre. Riuscirono momentaneamente a liberarsi, tuttavia
furono raggiunti e massacrati presso Villeneuve-sur-Cher, dove anche il
Maestro d'Ungheria fu ucciso. Alcune frange arrivarono in Guascogna allora
appartenente al re d'Inghilterra, altri direttamente in Inghilterra stessa,
ma furono tutti scovati e trucidati.
Secondo movimento
(1320) Durante il regno di Filippo V il Lungo (1317-1322), nel 1320 si formò
un altro movimento spontaneo di Pastorelli, esasperati per l'indifferenza
della nobiltà francese alla sorte della Palestina. Come in un copione, già
visto nel 1251, i Pastorelli (circa 40.000) saccheggiarono Parigi, Berry,
Saintonge e nell'Aquitania, sfogandosi soprattutto contro gli ebrei,
colpevoli, secondo loro, di essere degli usurai ed in questo, purtroppo,
furono aiutati e incoraggiati dalle popolazioni cattoliche locali. A
Verdun-sur-Garonne 500 ebrei si suicidarono per non cadere vivi nelle loro
mani. Allora intervenne Papa Giovanni XXII (1316-1334) con una scomunica, ma
essi sfidarono l'autorità papale, marciando sulla sede pontificia di
Avignone. Tuttavia, prima di arrivarci, furono intercettati dalle truppe
del siniscalco di Carcassonne e dispersi nelle paludi della foce del
Rodano, dove la fame e le frequenti retate dei soldati li
eliminarono definitivamente.
Patarini (XI
secolo)
L'etimologia L'etimologia di pataria deriva dalla
parola milanese patee, stracci, che definisce forse i luoghi dove i patarini
si riunivano, ma che poi ha definito, in maniera spregiativa, gli adepti come
straccivendoli o addirittura come straccioni. Inoltre alcuni autori
tendono a fare una notevole confusione fonetica tra patari(ni) e catari,
benché non ci siano affatto coincidenze dottrinali fra i due movimenti;
altri, soprattutto autori anglosassoni, fanno erroneamente coincidere il
movimento dei patarini con quello di bogomili della Bosnia e della
Dalmazia. Probabilmente la verità va ricercata nell'uso impreciso e
propagandistico che alcuni cronisti cattolici dell'epoca facevano di termini
come manichei o patarini, appioppati ad eretici del basso Medioevo, senza
approfondire troppo le differenze teologiche.
La storia La
Pataria, il movimento dei patarini, prende origine dalla reazione del clero
di base e della borghesia, ma anche dei ceti più umili di Milano
nei confronti di una alta casta ecclesiastica corrotta e simoniaca. Le
tensioni esplosero nel 1045 con l'elezione ad arcivescovo di Milano di Guido
da Velate (1045-1071), successore di un personaggio, già molto discusso, come
Ariberto da Intimiano (n. 967, arcivescovo: 1018-1045). Quest'ultimo, un uomo
molto potente ed influente, che aveva interpretato alla lettera il suo ruolo
di feudatario, era stato il signore assoluto della città e di un vasto
territorio che si estendeva sulla Lombardia, Piemonte, Liguria e parte della
Emilia. Ariberto lottò tutta la vita per mantenere l'autonomia dall'impero,
da una parte, ma anche per tenere soggiogati i valvassori, i nobili minori,
dall'altra. Fu la crescita di importanza di questi ultimi, ma soprattutto
della nascente borghesia, a creare una nuova esigenza di maggiore uguaglianza
tra i ceti e di più onestà e moralità nel clero. Queste esigenze fecero sì
che, alla morte di Ariberto nel 1045, il clero milanese proponesse
all'imperatore Enrico III, detto il Nero (1017-1056), controllore delle
elezioni vescovili dell'impero e perfino di quelle papali dell'epoca, quattro
candidati, onesti e virtuosi: Anselmo da Baggio, Landolfo Cotta, Attone e
Arialdo da Carimate, per la successione al seggio di arcivescovo di
Milano. Tuttavia, l'imperatore, disattendendo le aspettative dei milanesi e
in contrasto con la tradizione di una nomina, di fatto, autonoma,
decise appunto di nominare Guido da Velate, uomo corrotto e simoniaco, che
portò il livello di reputazione dell'arcivescovado di Milano ai minimi
storici. Grande scandalo, per esempio, suscitava la pratica, nota come
nicolaismo e alquanto diffusa all'epoca di Guido, dei religiosi, che vivevano
palesemente in concubinato con donne. Come reazione a questa corruzione
dilagante, si formò quindi il movimento riformatore dei p., che coinvolse a
vario titolo tutti i candidati sopracitati, ma che vide soprattutto emergere
la figura di San Arialdo da Carimate e, in tono minore, quella di Landolfo
Cotta. Per quanto concerne un altro dei capi storici del movimento, Anselmo
da Baggio, l'imperatore cercò di spezzare l'unità dei p., nominandolo
vescovo di Lucca e quindi allontanandolo da Milano: tuttavia Anselmo sarebbe
poi diventato Papa Alessandro II (1061-1073) ed avrebbe ancora
più autorevolmente appoggiato il suo ex movimento. Nel frattempo, a
Milano, Arialdo e Landolfo avevano incitato con successo la popolazione a
rifiutare i sacramenti dai sacerdoti corrotti e nicolaiti, riportando di
attualità un atteggiamento, che ricordava quello degli intransigenti del III
e IV secolo: Novaziano, Melezio di Licopoli e Donato di Numidia. La
reazione dell'arcivescovo Guido non si fece attendere e, prendendo pretesto
dagli scontri armati fra opposte fazioni, esplosi il 10 maggio 1057 durante
una processione, egli scomunicò sia Arialdo che Landolfo. Tuttavia il papato
stesso, uscito dallo sciagurato periodo di Papa Benedetto IX (l'unico che
aveva regnato indegnamente per 3 pontificati, nel 1032-1044, nel 1045 e nel
1047-1048) era percorso da correnti riformatrici, ad incominciare già da Papa
San Leone IX (1049-1054), il quale aveva condannato il concubinato e simonia
dei preti nel 1050. Landolfo Cotta cercò di recarsi a Roma per perorare la
causa dei p. presso Papa Stefano IX (1057-1058), ma fu intercettato presso
Piacenza dai sicari dell'arcivescovo e quasi ucciso. Morì, invece, nel 1061
in seguito alle ferite inferte da un religioso, sicario prezzolato (sic!), in
una ulteriore imboscata nel 1058. Allora, Arialdo stesso decise invocare
l'aiuto di Stefano IX, ma fu solo il papa successivo, Niccolò II (1059-1061),
ad inviare nel 1060 una delegazione, capitanata da Pier Damiani e da Anselmo
da Baggio, allora vescovo di Lucca. Pier Damiani riuscì con un abile discorso
a riportare temporaneamente la calma in città, ma le tensioni non erano certo
sopite. Nel 1061, in seguito alla morte di Landolfo Cotta, Arialdo associò
al movimento Erlembaldo, fratello di Landolfo e nuovo capo militare dei
p. Nello stesso anno era salito sul trono di Pietro, Anselmo di Lucca, con
il titolo di Papa Alessandro II, il quale consegnò nella primavera del 1066
ad Erlembaldo il vexillum Petri (il vessillo di S. Pietro) e due
bolle pontificie di richiamo al clero milanese e di scomunica di Guido da
Velate. Tuttavia, in seguito ai durissimi scontri del 4 Giugno 1066, quando
vennero feriti sia Erlembaldo e Arialdo, che Guido stesso, quest'ultimo
reagì lanciando l'interdizione su Milano, finché Arialdo fosse rimasto in
città. Era una trappola mortale, nella quale Arialdo purtroppo cadde: uscito
dalla città venne tradito da un prete di S. Vittore all'Olmo, vicino a
Milano, e catturato dalle guardie di Donna Oliva, nipote di Guido, che lo
portarono per interrogarlo nel castello di Arona, sul Lago Maggiore. Da
qui Arialdo fu successivamente portato su un'isola del lago, dove, secondo il
suo biografo Andrea di Strumi, egli fu torturato orrendamente da due
chierici, i quali lo mutilarono delle orecchie, naso, occhi, mano destra,
piedi, genitali e lingua, ed, una volta morto, lo gettarono nel lago,
appesantito da alcuni massi. Era il 26 Giugno 1066. L'anno seguente (1067) il
corpo fu ritrovato, secondo la leggenda intatto (cioè non ancora decomposto),
e Arialdo fu proclamato santo da Alessandro II, che, nel contempo, aveva
provveduto a scomunicare Guido da Velate. Erlembaldo proseguì la lotta dei p.
contro i partigiani di Guido, che riuscirono nel 1071, alla morte di
quest'ultimo, a far eleggere arcivescovo Goffredo da Castiglione, al quale
Erlembaldo contrappose Attone, subito riconosciuto dal nuovo papa, il famoso
San Gregorio VII (1073-1085), che oltretutto scomunicò Goffredo nel 1075. Nei
tumulti che ne seguirono Erlembaldo fu assassinato e, secondo alcuni autori,
anch'egli, come Arialdo, fu in seguito, canonizzato. Dopo la morte di
Erlembaldo e successivamente di Gregorio VII nel 1085, la p. esaurì la sua
forza riformatrice. Già nel 1089, Papa Urbano II (1088-1099) (quello della I
crociata), diede un colpo mortale ad un punto irrinunciabile dei p. e dai
papi, loro alleati, affermando cioè che i sacramenti impartiti da preti
simoniaci o corrotti erano comunque validi. La p. degenerò sempre più
assumendo connotati manichei (forse da questo deriva la confusione con i
catari) e finì per essere perfino perseguitata come setta eretica da Papa
Lucio III (1181-1185) nel 1185.
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