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ANTICHI POPOLI
DEL CENTRO ITALIA
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POPOLI DEL CENTRO
ITALIA IN EPOCA PRE ROMANA |
ANTICHI ABITANTI DELLA SARDEGNA FENICI (Vedi pagine precedenti) SARDI Età Pre-Nuragica La Cultura di
Ozieri
Intorno al 3500 a.C. si diffondono su tutto il territorio della
Sardegna, nuovi valori culturali. Cambiano le abitudini dei sardi, il loro
sentire si traduce in forme nuove ed originali. E' l'inizio del lungo cammino
della Cultura di Ozieri, la prima grande cultura sarda. Gli scavi hanno
restituito manufatti mai visti in Sardegna prima di quel periodo: vasi come la
pisside e il tripode, finemente decorati con motivi incisi o impressi
sull'argilla e spesso colorati con ocra rossa o pasta bianca. Sono manufatti
esotici per la Sardegna del Neolitico, ma sono forme tipiche del Mediterraneo
Orientale, delle isole Greche. L'origine della cultura di Ozieri è, infatti,
orientale: queste somiglianze, questi segni culturali che si ritrovano in terre
così lontane, dimostrano quanto frequenti dovessero essere le relazioni fra i
popoli neolitici del Mediterraneo. Gli uomini della cultura di Ozieri
vivevano nei villaggi: costruivano le loro case con un muro di pietra, alla
base, sul quale poggiava una struttura di legno e di frasche. Ciò che rimane di
questi antichi villaggi, le tracce delle capanne, è ancora visibile nelle
località di San Gemiliano di Sestu, presso Cagliari e Cuccuru is Arrius, presso
Cabras. La materia usata per fabbricare le punte di freccia, le lame e le
accette era sempre la pietra, ossidiana, selce, ma gli uomini di Ozieri avevano
imparato a lavorarla abilmente. Questa elevata perizia manuale, la
raffinatezza e il gusto per la decorazione nei manufatti ceramici, ci descrivono
comunità con un'organizzazione sociale già avanzata, nelle quali era presente
una primitiva divisione del lavoro. Questi uomini che amavano gli oggetti
raffinati e le decorazioni, hanno lasciato il segno più spettacolare della loro
idea della vita nelle costruzioni destinate ad accogliere i morti. I loro
sepolcri, disseminati un po' dovunque nell'isola, sono di tre tipi: i sepolcri
ipogeici, quelli megalitici e le sepolture a circolo. Le sepolture Le
domus de janas I sepolcri ipogeici, chiamati in sardo domus de janas ( It.
case delle fate), sono più di mille, diffusi su tutto il territorio: si tratta
di vere e proprie grotte artificiali scavate nella roccia, utilizzate come tombe
collettive. Alcune hanno un unico semplice vano, altre hanno struttura complessa
con più stanze collegate fra loro. Si trovano isolate, ma spesso sono riunite in
necropoli come quella di S. Andrea Priu, nei dintorni di Bonorva (SS), di
Anghelu Rujiu, presso Alghero (SS), di Pani Loriga, presso Santadi
(CA). Sulle pareti interne di alcune domus de janas, gli uomini di Ozieri
riprodussero, scolpendoli nella roccia, gli elementi architettonici delle loro
case e gli oggetti quotidiani della loro vita: così ancora oggi sono visibili
dettagli di tetti, barche, porte finte, banconi e letti, quasi a simboleggiare
la profonda continuità tra la vita su questa terra e la vita oltre la morte.
Talvolta, scolpite sulle pareti interne delle tombe, compaiono teste e corna
taurine, oppure enigmatici cerchielli: sono i simboli del Dio Padre e della Dea
Madre, i simboli dell'elemento maschile e di quello femminile, le due forze
cosmiche generatrici di vita. I dolmen I sepolcri megalitici, chiamati
dolmen (dal bretone tol=tavola + men=pietra), sono diffusi soprattutto nella
zona centro settentrionale della Sardegna: si tratta di sepolture monumentali
costituite da tre grosse pietre, o più, piantate verticalmente nel terreno che
sorreggono un masso disposto orizzontalmente. I dolmen sono concentrati nelle
campagne dei paesi di Arzachena, Olbia, Luras, tutti in provincia di Sassari, ma
sono frequenti anche in altre zone: a Mores (SS) degno di nota è il dolmen "Sa
Coveccada", molto ben conservato; a Dorgali è il dolmen di "Motorra" a pianta
più allungata. I circoli Le tombe del tipo "a circolo" furono edificate
solo in una ristretta area dell'isola, cioè nelle campagne di Arzachena (SS), in
zona Li Muri.. I "circoli" sono fatti in questo modo: un certo numero di
pietre, fitte verticalmente nel terreno, delimitano un'area al centro della
quale, in alcuni casi, ma non in tutti, sta una cassetta di pietra di forma
quadrangolare. Secondo Giovanni Lilliu, il padre dell'archeologia sarda, il
defunto era collocato all'interno del circolo perché le sue membra fossero
scarnificate dall'azione degli agenti atmosferici; una volta scarnificate, le
ossa del defunto erano deposte all'interno della cassetta collocata al centro
del circolo. La presenza dei circoli nella sola area di Arzachena, aveva
portato gli archeologi a ritenere che fossero espressione di un'altra cultura,
diversa dalla Cultura di Ozieri, chiamata Cultura dei Circoli. Oggi gli
archeologi ritengono che i circoli di Li Muri siano stati edificati da uomini di
cultura Ozieri: non devono stupire le diversità locali all'interno di un unico
contesto culturale anzi, sono un segno della complessità e della vitalità delle
antiche società sarde. La religiosità
Il ciclico alternarsi della
vita e della morte, la nascita di una nuova vita come risultato dell'unione
dell'elemento maschile e di quello femminile stavano alla radice della
religiosità di quegli uomini. Infatti le divinità Dio-Padre e Dea-Madre erano
diffusamente rappresentate, attraverso i simboli delle corna taurine e dei
cerchielli, all'interno delle domus de janas, oppure, in maniera più evidente,
attraverso i menhir (dal bretone men=pietra + hir=lungo, lett. pietra lunga).
I menhir In sardo i menhir hanno il nome di "pedras fittas": sono
grandi massi, alti fino a tre metri, piantati nel terreno; si trovano in diverse
zone della Sardegna ma sono concentrati prevalentemente in Barbagia. La
pietra di alcuni menhir non presenta alcun segno, nessun simbolo vi è scolpito:
sono questi le icone del fallo maschile, uno dei due principi cosmici ; su altri
invece gli uomini di Ozieri scolpirono i segni espliciti della Dea-Madre, le
mammelle, simbolo femminile di fecondità e di vita. A Li Muri un menhir
"femminile" con tre concavità mammellari marca, isolato, il complesso, a
custodia dei defunti. A Goni (CA) nella zona di Pranu Mutteddu i menhir
allineati in lunghe file sono inseriti in un'area ricca di Domus de Janas e di
vestigia del Neolitico. Isolati o in gruppo questi rozzi monoliti sembra che
abbiano inchiodato, alla madre-terra Sardegna, il tempo arcaico nel quale furono
eretti. Gli uomini di Ozieri adoravano la Dea Madre, come i loro
predecessori neolitici. La rappresentarono attraverso statuine di marmo e di
argilla: le forme lineari e geometriche, rimandano alle piccole statuine delle
isole egee, testimoniando, ancora una volta, la vicinanza culturale fra
l'Oriente e l'Occidente del Mediterraneo.
Verso il 2700 a.C. muta il
clima socio culturale in Sardegna. Nel periodo finale della Cultura di Ozieri
già sono evidenti i segni di questo mutamento: uomini che per secoli avevano
decorato le loro ceramiche, perdono il gusto per l'ornato e dai loro vasi
scompaiono le decorazioni. Le Culture di Abealzu e Filigosa
Le
vicende culturali dell'Eneolitico antico (2700-2500 a.C.) non sono del tutto
definite. Due culture però, si sviluppano e lasciano un segno evidente nella
Sardegna di quel periodo: la Cultura di Filigosa, dal nome di un località presso
Osilo(SS) e la Cultura di Abealzu, dal nome di una località presso Macomer. La
differenza principale fra le due Culture sta nella decorazione dalla ceramica: i
vasi di Abealzu non presentano decorazioni a impressione o a graffiti ma solo
semplici bozze mammellari; i vasi di Filigosa invece presentano semplici
decorazioni sia a motivi impressi sia a graffiti. In questo periodo si
intensifica la produzione di oggetti in metallo, iniziata nella fase finale del
neolitico. Il tempio di Monte d'Accoddi Nel contesto delle Culture
di Abealzu e Filigosa gli archeologi inseriscono un importante monumento di
architettura megalitica, unico nel mondo occidentale: il tempio a terrazze di
Monte d'Accoddi, nei dintorni di Sassari. E' una collina artificiale a pianta
quadrangolare alta circa dieci metri, simile alle ziqqurath mesopotamiche: era
probabilmente un tempio dedicato a una divinità celeste, forse al sole.
Probabilmente, ma siamo sempre nel campo delle ipotesi, i riti sacri si
svolgevano alla sommità della costruzione, alla quale si accedeva tramite una
rampa; di fianco alla rampa stava, ma è ben visibile ancora oggi, un grande
altare sacrificale di pietra calcarea. Le statue-menhir Un'altra
spettacolare espressione delle culture eneolitiche sono le statue-menhir
ritrovate a Laconi(NU). Non sono semplici menhir: sulla pietra furono
scolpite, spade, corna taurine, occhi; non rappresentano la divinità, ma più
probabilmente gli eroi, i guerrieri mitici di quelle popolazioni. E in questo
modo si celebrava il ricordo della loro vita leggendaria e della loro natura
sopranaturale. La Cultura di Monte Claro Al 2500 a.C. risalgono i
primi reperti che testimoniano la nascita di un'altra Cultura preistorica sarda,
la Cultura di Monte Claro, dal nome di un colle della città di Cagliari. I
vasi prodotti dagli uomini di Monte Claro hanno forma cilindrica, grandi
dimensioni e sono decorati seppur semplicemente. In questo periodo vengono
innalzate per la prima volta in Sardegna alcune muraglie megalitiche ancora oggi
visibili, per esempio a Monte Baranta, presso Olmedo. Queste costruzioni
testimonierebbero un clima di insicurezza; gli uomini della Cultura di Monte
Claro sentivano evidentemente l'esigenza di difendersi forse da un nemico
esterno o forse le tribù sarde entrarono per qualche motivo in conflitto fra
loro. La Cultura del vaso campaniforme Verso il 2000 a.C. la
Sardegna venne interessata dalla corrente culturale campaniforme che ebbe ampia
diffusione in tutta l'Europa centro-occidentale. Lo capiamo perché anche in
Sardegna inizia a essere fabbricato il tipico bicchiere di ceramica, con forma a
campana che dà il nome alla cultura. I Protosardi continuano anche in queste
fasi ad utilizzare le necropoli a domus de janas per le loro sepolture. Gli
uomini della Cultura del vaso campaniforme erano bellicosi come testimoniano i
caratteristici brassard ( bracciali da arciere ) ritrovati nelle tombe insieme
alle caratteristiche collane di conchiglie. La Cultura di
Bonnannaro Nel Bronzo antico (1800-1600 a.C.) nasce e si diffonde in Sardegna
la cultura di Bonnannaro. I Bonnannaro sono i precursori dei nuragici,
soprattutto nell'indole, aspra, più votata alla guerra che alla celebrazione
della vita: le loro ceramiche, di varia foggia, sono del tutto inornate e sia
l'impasto che le forme sono di scarsa fattura. Continua sporadicamente l'uso del
brassard e delle collane di conchiglie sono molto rari invece gli elementi in
metallo, anche se è stato ritrovato un ricco corredo di armi in una domus de
janas. La cultura di Bonnannaro segna gli albori dell'era del Bronzo, l'era
del popolo dei nuraghi che lascerà nell'isola l'impronta più profonda. Età
Nuragica
Intorno al 1600 a.C. iniziò il lungo cammino del Popolo dei
Nuraghi. La Civiltà Nuragica nacque dall'incontro di genti mediterranee di
culture diverse, sul suolo del piccolo continente sardo. Nacque in Sardegna e
non in altro luogo e fu la Sardegna a dare una forma così inconfondibile alla
fusione di quelle culture. In quel periodo una serie di mutamenti provocò
una profonda trasformazione nelle comunità sarde, che passarono da un modo di
vivere relativamente pacifico ad uno stile di vita molto più bellicoso. Il rame,
fino a quel momento poco usato in Sardegna, iniziò a circolare con maggior
frequenza e gli scavi ci restituiscono una quantità di oggetti metallici di
natura chiaramente guerriera, come pugnali e punte di freccia. Il
cambiamento fu profondo e investì molti aspetti della vita di quegli uomini: per
questo gli archeologi hanno ipotizzato l'arrivo nell'isola di una nuova ondata
di abitanti (probabilmente attratti dalle risorse minerarie dell'isola), i quali
avrebbero portato nuovi modelli di vita e competenze tecniche. Anche il tipo
fisico dei sardi subì diversi cambiamenti: numerosi resti ossei di quel periodo
indicano la presenza di individui dalle caratteristiche somatiche di tipo più
marcatamente indoeuropeo, mentre i resti ossei più antichi disegnano uomini di
ceppo euroafricano. Muta il tipo di abitazione: vengono costruiti i primi
edifici fortificati, i protonuraghi. Due esempi significativi di protonuraghe
sono la capanna circolare di Sa Korona di Villagreca nel Campidano di Cagliari e
la capanna di forma allungata di Brunku Madugui, nella zona di Gesturi
(CA). Il nuraghe I primi veri nuraghi vengono costruiti intorno al
1500 a.C. La parola nuraghe deriva da un'antica radice "nur" che significa
mucchio cavo.
I nuraghi sono torri tronco-coniche di pietra a base
circolare costruite sovrapponendo grandi massi fra loro. L'interno della torre
ha una struttura a tholos: la tholos, o falsa cupola, veniva edificata
sovrapponendo file circolari di massi le une sulle altre, con i massi di una
fila sporgenti leggermente verso l'interno rispetto a quelli della fila
sottostante. I nuraghi stanno in piedi, alcuni da 3500 anni, grazie a una ben
calibrata distribuzione di pesi, senza che vi sia traccia di materiale
cementante. Tra i circa 7000 nuraghi esistenti in Sardegna, la maggior parte
sono semplici, formati soltanto da una torre con un ingresso alla base, un unico
grande vano interno, alcune nicchie scavate nell'intercapedine e una scala,
anche lei scavata nell'intercape- dine, che porta alla sommità della torre.
Ci sono anche molti nuraghi più complessi formati da più torri raccordate
a una torre centrale; hanno molte stanze, possono avere più di un piano e poi
corridoi, scale e camminamenti coperti: sono le fortezze nuragiche, di arcaica
bellezza e maestosa complessità come il nuraghe Losa presso Abbasanta (NU), il
nuraghe Santu Antine di Torralba (SS) e il complesso Su Nuraxi di Barumini (CA)
dichiarato patrimonio dell'umanità dall'UNESCO. Praticamente tutti i nuraghi
sono collocati o sulla sommità di una collina o ai margini di un altopiano,
comunque in una posizione di dominio rispetto al territorio circostante. Questo
elemento, insieme al carattere di fortezza, indica che il nuraghe era una
costruzione fortificata a scopo di difesa. La società I nuragici avevano
un'unità etnico culturale molto forte, però erano organizzati in tribù e le
tribù in clan. Erano pastori erranti, anche agricoltori, ma soprattutto pastori:
le società pastorali sono storicamente guerriere, portate allo scontro e alla
divisione più che all'unione perché il pastore ha sempre bisogno di pascoli
liberi per i suoi armenti e per procurarseli entra in conflitto con i suoi
vicini. Così non dovevano essere rari gli scontri fra le diverse tribù, o
persino fra clan. Un popolo di pastori dunque, organizzati in piccole
comunità fortemente gerarchizzate, a capo delle quali stava un re-pastore, un
capo tribù che deteneva i massimi poteri religiosi, politici e militari.
I villaggi Il re-pastore viveva nel nuraghe, la sacra dimora
fortezza e intorno al nuraghe sorgeva il villaggio. Le abitazioni dei sudditi
non erano nuraghi bensì capanne a pianta circolare con alla base un muro in
pietra a secco e una copertura a cono di legno e frasche o in pietra. Ancora
oggi, anche se sempre di meno, i pastori costruiscono questo tipo di capanne; in
sardo si chiamano pinnettas. L'esempio più eloquente di come doveva essere
un villaggio nuragico è visibile a Barumini (CA) dove intorno alla maestosa
reggia nuragica si sviluppa un complesso agglomerato di capanne, recinti e
costruzioni di vario tipo. Queste comunità, clan e tribù, spesso in
conflitto o comunque divise erano pur sempre unite dal medesimo sentire
culturale, morale, religioso. C'erano occasioni nelle quali la profonda
unità spirituale diventava anche unità politica: i santuari nuragici sono il
segno di questa unità. Età Nuragica - Religione I santuari I
santuari, realizzati fra il 1300 a.C. e il 900 a.C., sono complessi comprendenti
costruzioni di diverso tipo, destinate a scopi diversi: templi sacri, grandi
rotonde per le assemblee politiche, ampli spazi recintati per gli affari e le
contrattazioni, capanne per gli artigiani e capanne per il riposo dei convenuti.
Tutto questo fa pensare che nei santuari si svolgessero grandi adunate nelle
quali diverse tribù si ritrovavano insieme in occasione di eventi
religiosi. Presso i santuari nuragici è usuale, oggigiorno, che ci siano
chiese campestri, nei pressi delle quali, in occasione di feste religiose
cattoliche, si svolgono fiere: allora, accanto ai pellegrini si trovano i
mercanti, i venditori di bestiame, gli artigiani e un numero di venditori di
leccornie di ogni genere; non mancano i "cantadores" e i suonatori di launeddas
(un tipico strumento sardo) o di organetto. Questo accade oggi, ma non
sembra azzardato immaginare che qualcosa di simile dovessero essere le grandi
adunate nuragiche. I templi a pozzo La costruzione più importante
del santuario era il tempio a pozzo dove si svolgevano le cerimonie legate al
culto delle acque. I nuragici, infatti, avevano una religiosità di tipo
naturalistico fondata sull'adorazione degli elementi della Natura, considerati
come contenenti lo spirito divino: erano oggetto di culto le pietre, gli alberi
e particolarmente radicato era il culto dell'acqua, piovana o sorgiva,
considerata preziosa in una terra arida come la Sardegna. I templi a pozzo
hanno una struttura composta di tre parti essenziali: il vano di ingresso, al
livello del suolo, la scala che scende nel terreno e il vano interrato, con la
volta a falsa cupola. Sul fondo del vano interrato, ai piedi della scala c'è la
fonte sacra. In superficie un recinto di pietre delimita l'area sacra. In
Sardegna esistono circa 40 templi a pozzo: notevoli sono quello del santuario di
Sta. Vittoria di Serri (CA), quello del santuario di Sta. Cristina di
Paulilatino (OR) e il pozzo sacro Su Tempiesu presso Orune (NU), che si discosta
un po' dalla struttura classica. I tempietti a pianta rettangolare scoperti
a Serra Orrios, preso Dorgali (NU), a Sos Nurattolos, presso Alà Dei Sardi (SS),
a Cuccureddì, presso Esterzili (NU) erano sicuramente luoghi di culto, ma non
conosciamo la divinità che vi si adorava. Un altro tipo di culto era quello
in grotta: nella grotta di Su Benatzu a Santadi (CA), dove sono stati ritrovati
numerosi ex-voto, una stalagmite fungeva da altare e poco lontano c'era il
focolare sacrificale; probabilmente si venerava una divinità sotterranea. La
Dea Madre e il Dio Toro. Oltre al culto delle acque i nuragici continuarono a
praticare il culto della Dea Madre e del Dio Toro, potente coppia divina già
oggetto di adorazione in età prenuragica. Il Dio Toro e la Dea Madre, simboli
di fecondità, rappresentavano per i nuragici l'essenza del divenire del loro
universo, le due forze che unendosi generano la vita.
Il Culto dei
Morti Le tombe dei giganti Il culto dei morti era essenzialmente fondato
sulla coppia divina Dea Madre-Dio Toro e a questo sentire il popolo dei nuraghi
diede forma nelle arcaiche e solenni architetture delle tombe monumentali: le
tombe dei giganti. Questo è il nome che in Sardegna hanno i sepolcri
collettivi monumentali del periodo nuragico e nasce dalla credenza che tombe
tanto grandi potessero servire solo a tumulare uomini giganteschi. La tomba
dei giganti ha una facciata semicircolare a forma di corna taurine, costituita
da lastroni di pietra affiancati e confitti verticalmente nel terreno, oppure da
un muro di grossi massi. Al centro della facciata semicircolare c'è una grande
stele monolitica che reca, in basso, una porticina d'accesso alla tomba.
Lungo il semicerchio, all'esterno, ci sono alcuni sedili in pietra sui quali
dormivano i parenti dei sepolti per comunicare con i loro cari attraverso i
sogni: era questa la pratica dell'incubazione (dal latino incubo = dormo).
Tra le tombe dei giganti meglio conservate ricordiamo quella colossale di Li
Muri (nella fotografia), presso Arzachena (SS) e quella di Is Concias, presso
Quartucciu (CA). I nuragici comunque continuarono anche ad usare gli antichi
tipi di sepolture come le domus de janas o le tombe a corridoio tra le quali
degna di nota è quella di Sa Corte Noa, presso Laconi (NU).
I
betili Spesso di fronte alla facciata della tomba dei giganti è presente un
piccolo menhir, chiamato in sardo betile. I betili, simboli fallici di
fertilità, sono simili a piccoli coni di pietra sui quali talvolta sono scolpite
piccole mammelle oppure due occhi: i betili mammellati simboleggiano la
copulazione della divinità maschile e di quella femminile per riaccendere la
vita ormai spenta nei defunti; i betili con occhi rappresentano invece una
divinità a guardia dei defunti. Età Nuragica - Architettura In epoca
nuragica, alla fine del Bronzo antico (1800 a.C.) compaiono i primi protonuraghi
(o pseudonuraghi): sono strutture rozze e basse con un profilo che varia dal
rotondo all'ellittico al rettangolare. L'interno, al piano terra, presenta uno o
più corridoi; ai lati del orridoio si aprono alcune cellette e partono scale in
muratura, a zig-zag, che portano al piano unico superiore dove spesso stanno i
vani di dimora, rotondi o quadrangolari, col tetto di legno e frasche. I due
esempi più celebri di questa architettura sono la capanna circolare di Sa Korona
di Villagreca (CA), e la capanna di forma allungata di Brunku Madugui, presso
Gesturi (CA). I nuraghi monotorre Durante il Bronzo Medio (1600 a.C.) si
cominciano a costruire i primi veri nuraghi, monumenti che adornano le pianure e
le sommità di tutta l'isola e costituiscono quasi il simbolo stesso della
Sardegna. La parola nuraghe deriva da un'antica radice nur che vuol dire
mucchio o cavità I nuraghi sono edifici di pietra realizzati sovrapponendo
grandi massi, appena sbozzati, senza usare alcun fissante. Il modulo base del
nuraghe è la torre tronco-conica. La torre ha una pianta circolare e un
profilo che va restringendosi verso l'alto. Lo spazio interno è articolato, nel
caso più semplice, un monovano che presenta una volta a tholos, un tipo di
copertura simile alla cupola, noto anche ad altri popoli del Mediterraneo come i
Micenei. Ricavati nella parete del vano interno sono alcuni nicchioni di
varia forma e profondità. La torre è provvista anche di una scala a
chiocciola che porta al terrazzo posto sulla sommità dell'edificio. Esistono
anche torri con più camere collocate su piani sovrapposti. Questo appena
descritto è il tipo più semplice di nuraghe, ovvero il nuraghe monotorre che è
anche quello più frequente in Sardegna. Le fortezze nuragiche Nel Bronzo
Recente e Finale (1300 a.C.) la forma base del nuraghe si evolve raggiungendo
elevati livelli di complessità e imponenza: vengono costruite le fortezze
nuragiche. A molte torri singole di grandi dimensioni si addossano,
fasciandole e rinforzandole, altre torri minori in vario numero (sino a sette),
secondo schemi architettonici colossali. Il risultato è un nuraghe polilobato,
nel quale le strutture unite tra loro da cortine in muratura, formano una massa
dominata al centro dalla torre maggiore (il mastio). In questo caso il nuraghe
assume la fisionomia di una vera e propria fortezza attorno alla quale si
sviluppa il villaggio. Gli esempi più noti sono quelli dello splendido
complesso monumentale di Barumini (CA), il complesso di Genna Maria a
Villanovaforru (CA) e quello di Santu Antine a Torralba (SS), che con i suoi 17
m di altezza (in origine erano circa 22) è la più alta costruzione preistorica
del Mediterraneo, escludendo i monumenti egiziani. La Storia La Sardegna
ebbe un grandissimo sviluppo nel Neolitico, con la nascita di numerosi villaggi.
Gli archeologi indicano, come nascita della civiltà nuragica, un periodo tra
il 1800 ed il 1200 a.C. Sono secoli in buona parte indecifrabili in mancanza di
una scrittura, durante i quali i sardi si presentano come pastori nomadi e
bellicosi. Per quanto riguarda il significato del nome dei nuraghi è
probabilmente mucchio di pietre, che si riferisce alla struttura della
costruzione a tronco di cono, oppure caverna nel senso di sala buia e chiusa.
Essi avevano la funzione di torre e servivano per celebrare riti sacri.
Nell'isola i nuraghi sono circa settemila, di cui circa cinquecento in buono
stato di conservazione. Il più celebre è quello di Barumini, vicino a Cagliari,
una reggia nuragica circondata da uno sterminato villaggio. Il più grande è il
nuraghe Losa, vicino ad Abbasanta, al centro dell'isola. Si conosce poco di
questa civiltà. Si sa che non conobbero un grande sviluppo sociale e subirono le
influenze greche e fenicie. In particolare svolgevano le funzioni di
trasportatori delle merci altrui. Erano comunque conosciuti in tutto il mondo
classico. Con l'arrivo dei punici in Sardegna si ebbe la fine progressiva
della civiltà nuragica, lasciando importanti segni della loro presenza, durata
per quattro secoli. A Cagliari, capoluogo storico dell'isola, la necropoli di
Tuvixeddu è la più importante del Mediterraneo. Ancora il Tempio di Anta-Sardus
Pater, sulla strada che da Iglesias conduce a Fluminimaggiore e l'imponente
necropoli di monte Sirai nel Sulcis, del popolo di Cartagine restano tracce
anche a Nora. I Focesi, a loro volta, fondarono Olbia, ma la loro
penetrazione in S. si arrestò dopo la battaglia combattuta nelle acque di Alalia
(535 a. C.) contro Etruschi e Cartaginesi i quali, anche se sconfitti,
riuscirono ad affermarsi nell'isola, specialmente i primi che estesero
gradualmente la loro penetrazione. La stessa Roma rinunciò a commerciare
nell'isola in base a un trattato stipulato con Cartagine nel 348 a. C.; tuttavia
scoppiarono frequenti le rivolte degli indigeni sardi insofferenti della
dominazione straniera. Nel 238 a. C., indebolitasi Cartagine per la sconfitta
subita nella I guerra punica, Roma approfittò di una rivolta dei mercenari
cartaginesi in Sardegna e occupò l'isola strappandola agli avversari. Da questo
momento la Sardegna divenne una delle maggiori riserve di grano dello Stato
romano. Nel 226 a. C. essa fu eretta a provincia insieme alla Corsica. I Romani
continuarono a lungo a trattarla come una terra di conquista senza concederle,
per tutta l'età repubblicana, nessuna città libera: numerose furono perciò le
rivolte degli indigeni sardi e degli immigrati punici, tra cui particolarmente
violente quella organizzata dal latifondista cartaginese Amsicora (216 a. C.) e
quella del 178 a. C. che fu domata da Sempronio Gracco con riduzione in
schiavitù di decine di migliaia di uomini riversati nelle campagne d'Italia.
Alla fine del sec. II a. C. le sommosse ebbero fine, ma la resistenza a Roma
continuò a manifestarsi nell'interno attraverso il brigantaggio. Cesare concesse
a Cagliari (Kalaris) i diritti civili romani mentre Turris Libissonis (Porto
Torres), Sulci e Tharros divennero colonie. Durante l'Impero la Sardegna fu
separata dalla Corsica e amministrata come provincia imperiale: essa andò
lentamente romanizzandosi, pur conservando caratteristiche sue proprie e, più
tardi, altrettanto lentamente si cristianizzò. A Cagliari è rimasto un
grande anfiteatro, usato ancora oggi per spettacoli e concerti, la celebre villa
di Tigellino , al centro della città, e la grotta della vipera, ultima dimora di
Atilia Pomptilla, che sacrificò la propria vita chiedendo agli dei di morire al
posto del marito Cassio gravemente ammalato. Quando guarì grazie al sacrificio
della consorte, Cassio fece edificare la tomba monumentale, ornata da due
serpenti scolpiti sul frontone, vicino all'iscrizione dedicatoria. Cagliari è
certamente il più ricco di memorie dell'epoca romana, ma la dominazione romana
ha lasciato la sua impronta anche nella provincia di Oristano, dove troviamo le
imponenti rovine di Tharros, città romana nata su basi puniche, e le terme di
Traiano a Fordongianus . Anche a Porto Torres i resti romani sono numerosi e ben
conservati. Sulla spiaggia di Santa Teresa, nella parte settentrionale della
Gallura, sono visibili colonne romane che scivolarono sulla sabbia al momento
del carico alla volta della capitale dell'impero. AUSONI
(LAZIO) Popolazione di origine indoeuropea che viveva di pastorizia e di
agricoltura. La leggenda tramanda una loro origine imparentata con gli Enotri,
in particolare come risultato di una migrazione diretta verso il centro della
penisola, condotta da re Ausonio . Abitavano la regione del basso Lazio e
dividevano il loro territorio con gli Aurunci,con cui avevano le stesse origini.
In particolare possiamo dire che la popolazione degli Ausoni è costituita da
Aurunci abitanti dell' antica città preromana di Ausona, l'attuale città di
Ausonia.
Ausona faceva parte insieme a Minturnae, Sinuessa, Suessa e
Vescia, della cosiddetta "pentapoli aurunca", fulcro della confederazione degli
Aurunci, popolo di stirpe italica di ipotizzata origine tirrenica. Intorno al
IV secolo a.C. tale popolo entrò in contatto con i Romani schierandosi
apertamente contro di essi e alleandosi con i Sanniti . Tale alleanza risultò
fatale: le città della pentapoli vennero annientate con estrema ferocia, a tal
punto che due di esse (Vescia e Ausona) sono sopravvissute solo nel ricordo
onomastico, mentre delle altre non si hanno che esigue notizie riguardanti la
loro ubicazione. Per quanto riguarda Ausona, il desiderio degli storici di
individuarne il sito originario è rimasto purtroppo insoddisfatto, a tal punto
che si è messa addirittura in dubbio la reale esistenza di questa
città. ERNICI Le loro origini sono avvolte nel mistero come quelle degli
Etruschi poiché della loro lingua conosciamo soltanto due parole: 'buttuti' e
'samentum'. I "buttuti" erano cantilene femminili usate durante i riti
religiosi, il samentum era un brano di pelle di una vittima sacrificale
indossata dal sacerdote. Il poeta Virgilio racconta che gli Ernici erano
bravissimi a lanciare frecce, che andavano in guerra con il piede sinistro nudo
e il destro coperto da un calzare chiamato "pero" e che erano tiratori
infallibili, miravano e colpivano con precisione i bersagli, lanciando le frecce
con il piede destro avanti e il sinistro dietro. Alcuni storici sostengono che
provenissero dalle lontane terre dell'Asia minore, altri invece, ritengono che
appartenessero alla grande famiglia delle popolazioni Osco-Sabelliche, fra le
quali c'erano i Sabini, i Marsi ed altri popoli italici, tanto che lo stesso
Festo afferma che il nome "Ernici" derivi dalla parola Herne che i Marsi usavano
per indicare i sassi. Fra le poche notizie che gli antichi ci tramandarono
attorno al popolo ernico vi è quella dataci da Ovidio secondo la quale presso di
loro il mese di marzo sarebbe stato il sesto, quindi per gli ernici l'anno
cominciava nel mese di ottobre, come per gli Spartani e per i Fenici. Tale
affermazione avvalora la tesi dei sostenitori dell'origine semitica di molti
popoli italiani, fra cui quello ernico. Per quanto riguarda la città di Anagni,
spiega che Ananés in greco significa Re, pertanto Anagni doveva essere, con ogni
probabilità, l'insediamento più importante degli Ernici. Un altro scrittore,
sostiene che il nome "Anagnia" derivi da quello della tribù ernica Annia, che
erercitava, rispetto alle altre, un ruolo predominante da un punto di vista
culturale, religioso ed economico. Nell'età del ferro (VII secolo) andò
ultimandosi sui monti Lepini lo stanziamento delle popolazioni del nord. Queste
genti forti e bellicose sono note con il nome di Ernici, che in lingua sabina
sta a significare: roccia, rupe. Verso la fine del VI secolo Alatri costituiva
la Lega Ernica (insieme a Veroli, Ferentino e Anagni) e la sua roccaforte
assunse un ruolo strategico fondamentale per contrastare la poderosa pressione
dei Volsci e dei Sanniti verso nord. Constatata la pericolosità dei nemici
comuni gli Ernici intorno al 485 a.C. strinsero con i Romani un'alleanza, che
tra un tradimento e l'altro, durò cento anni. Gli Ernici in coalizione con i
Volsci e i Latini approfittandosi della vulnerabilità di Roma impegnata a
combattere contro gli Etruschi nel 386 a.C. gli rivoltarono contro i propri
eserciti, ma l'impresa fu vana. Battuti si ritirarono pacificamente sulle loro
montagne fino a quando i Romani non decisero di sottometterli definitivamente.
Sconfitti nel 361 e persa Ferentino, scesero a patti con i vincitori, aiutandoli
a combattere i Latini e a tenere a bada i Sanniti. Temendo per la loro
indipendenza le città Erniche nel 306 ripresero le armi contro Roma, questa
volta furono duramente punite: Anagni venne conquistata e costretta a subire
senza condizioni la cittadinanza Romana (perché ritenuta la vera responsabile
della ribellione). Alatri venne sollecitata ad accettare un compromesso che le
avrebbe garantito la libera cittadinanza. Furono uno dei primi esempi di
sterminio di massa. Furono spesso in rivolta con i Romani e parteciparono con
forze alle guerre civile e sociale, uscendone sconfitti. LE GUERRE DEGLI
ERNICI
Abbiamo pochi documenti sulle prime guerre combattute dagli Ernici
contro gli Equi, i Volsci, i Marzi e i Latini. Sappiamo, però, che all'epoca dei
re di Roma, gli Anagnini e gli Ernici si allearono con i Romani e i Tuscolani,
nella guerra combattuta da Roma contro Veio, al tempo del re Tullio Ostilio nel
672 a.C. Festo, secondo notizie dateci da Varrone, racconta che il colle Oppio e
il colle Cispio che si trovano sull'Esquilino furono chiamati così perché
durante una battaglia per difendere Roma dai ribelli Albani, il colle Oppio fu
difeso dal condottiero omonimo che capeggiava i Tuscolani e il colle Cispio fu
difeso dal condottiero Levio Cispio che capeggiava gli Anagnini. Questa notizia
non è riportata da altri storici, ma, anche qualora non fosse vera, serve a
dimostrarci che nella tradizione c'erano rapporti di amicizia tra Ernici e
Romani. Ritroviamo notizie più attendibili nei racconti di Dionisio che ci
parla degli Ernici ai tempi di Tarquinio il Superbo (530 a.C.). Tarquinio il
Superbo, diventato re, per estendere la potenza di Roma nel Lazio strinse
alleanza con 47 città, sedici delle quali erano erniche. Per tenere unita questa
alleanza, istituì delle feste religiose chiamate: "ferie latine" che si tenevano
ogni anno sul monte Albano nel tempio di Giove Laziale (monte Cave). Quando
Tarquinio il Superbo nel 508 a.C. dopo 22 anni di regno fu cacciato da Roma e fu
accolto dal re degli etruschi Porsenna, chiese aiuto agli ernici perché lo
riportassero sul trono, ma anche i romani chiesero agli ernici di mantenere fede
all'alleanza Questi ultimi decisero di aiutare il re spodestato, ma furono
fermati da dittatore Aulo Postumio e successivamente, nell'anno 496 a.C. furono
battuti presso il lago Regillo da Ottavio Manilio e da Sesto Tarquinio. Dopo
questa sconfitta gli Ernici si allearono con i Volsci per combattere nuovamente
contro Roma, infatti in un discorso di Menenio riferito da Dionisio, gli Ernici,
sono chiamati nemici di Roma (anno 493 a.C.). Nel 497 a.C. il territorio romano
venne più volte invaso e devastato dagli Ernici; il senato di Roma inviò
ambasciatori, in nome dell'antica alleanza che essi avevano con Tarquinio il
Superbo per chiedere spiegazioni su quanto era accaduto. Gli Ernici risposero
che l'alleanza per loro non esisteva più, in quanto era finita con la morte del
re Tarquinio. Tale risposta suonò come una dichiarazione di guerra per la
repubblica romana che inviò contro di loro un esercito comandato dal console
Cajo Aquilio Tusco che riportò la vittoria. L'anno successivo, nel 486 a. C. ,
fu inviato contro gli Ernici il console Spurio Cassio Vicellino che li
sconfisse, ne saccheggiò il territorio, li costrinse ad arrendersi e a firmare
un'alleanza a uguali condizioni. Di questo trattato ci informano, ma in modo
diverso, due storici: Dionisio e Tito Livio. Dionisio sostiene che gli Ernici
non avevano perso le loro terre, mentre Tito Livio scrive che furono privati di
due terzi del loro territorio. I romani da quel momento ebbero nel loro esercito
ausiliari ernici e latini, in cambio aiutarono gli ernici a mandare via dalla
città di Ferentino gli Equi e i Volsci che minacciavano di allontanarli del
tutto dalla valle del Sacco. All'arrivo dei Galli, però, gli Ernici e i Latini
non inviarono più soldati all' esercito romano, cercando di chiudere l'alleanza
che li univa. I Romani richiesero ancora una volta spiegazione per questo
rifiuto, non avendola avuta, nell'anno 362 a.C. inviarono contro gli Ernici un
esercito guidato dal console L. Genucio ma furono sconfitti. Elessero allora un
dittatore, Appio Claudio che, dopo una sanguinosa battaglia riuscì finalmente a
sbaragliare gli Ernici. L'anno seguente la guerra fu portata avanti dai consoli
C. Licinio, C. Sulpicio Petico che sconfissero di nuovo gli Ernici e
conquistarono Ferentino. Successivamente gli Ernici vennero nuovamente attaccati
dai consoli romani M. Fabio e M. Ambasto, quindi, con lo scopo di sottometterli
definitivamente, Roma nell'anno 358 a.C. , spedì contro di loro il console C.
Plauzio Proculo che li vinse di nuovo e li costrinse a firmare l'antica
alleanza, pur conservando la loro indipendenza, infatti nell'anno 338 a. C. li
troviamo alleati con i Romani nella guerra che questi combatterono contro i
Latini e nell'occupazione di Preneste, la loro capitale. Quando i Romani, dopo
aver sconfitto i Galli, nell'anno 333 a. C. dichiararono guerra ai Sanniti, gli
Ernici inviarono dei soldati in aiuto di questi ultimi, perché temevano che Roma
li sottomettesse completamente come aveva fatto prima con i Latini, suoi antichi
alleati. Dopo la battaglia i Romani si accorsero che tra i prigionieri c'erano
molti anagnini, e dopo averli uccisi, chiesero ai magistrati di Anagni se questi
prigionieri erano corsi volontariamente in aiuto dei Sanniti o erano stati
mandati dalle autorità della città. Gli Ernici, allora, si riunirono con i loro
rappresentanti nel circo marittimo per decidere se dichiarare o no guerra ai
romani, Ferentino, Alatri e Veroli non furono d'accordo mentre Anagni e tutti
gli altri confederati furono favorevoli. Il disaccordo fra le città della
confederazione, indebolì le loro forze nella guerra contro i Romani guidati dai
consoli Quinto Marcio Tremulo e Cornelio Arvino. In un primo momento gli Ernici
riuscirono ad occupare gli sbocchi e i punti strategici impedendo ai due consoli
di scambiarsi messaggi. I Romani, allora, intimoriti, arruolarono molti giovani
esperti di armi, formando due forti eserciti pronti ad attaccare, se ce ne fosse
stato bisogno; ma il console Marcio Tremulo assalì gli Anagnini e le sconfisse.
Il senato romano dopo questa vicenda decretò che tre città Erniche (Ferentino,
Alatri e Veroli), che non avevano combattuto contro Roma, avrebbero mantenuto le
proprie leggi e i propri magistrati, conservando l'alleanza, mentre Anagni e le
altre città che avevano dichiarato guerra a Roma furono considerate municipi
Romani "sine suffragio" cioè, non potevano scegliere i magistrati per
amministrare la cosa pubblica, non potevano tenere assemblee oltre i confini del
loro territorio, inoltre ai cittadini era vietato il matrimonio ed ogni
relazione politica con gli abitanti delle altre città. Anagni, però, fu
rispettata come città sacra degli Ernici in quanto le fu lasciata libertà di
scelta nelle cose religiose. Ebbe fine così la Confederazione Ernica che in 180
anni fu sconfitta dai Romani ben 10 volte. Le date di queste vittorie romane
sono segnate nelle tavole di marmo poste sulle pareti della reggia al foro
romano, di fronte al tempio di Antonino e Faustina. Le città degli
Ernici: ALATRIUM Nonostante il notevole contributo di numerosi e
competenti studiosi, l'esatta origine del nome Alatri non è stata del tutto
chiarita. Una prima ipotesi riscontrò in esso una radice ebraica, dove Alats
richiamava il concetto "di angusto" a precisare che la città è circondata da una
cerchia di monti. Secondo un'altra ipotesi, risale alla primitiva lingua
fenicia, supponendolo formato da due termini che manifestano l'azione diretta
del dio: el-edrei, dio-braccio. Ancora, la radice è Baalath, termine che sta
a indicare la principale divinità della città fenicia: Alatrum si sarebbe
formato per contrazione della desinenza -rum, assegnata generalmente alle nuove
popolazioni. La fonte più attendibile risulterebbe essere: di oscura etimologia,
il primitivo nome dell'antica Aletrio, da ricostruire in una forma non lontana
da quella in cui fu fissato in età romana, nasconde probabilmente un origine
ernica o etrusca, o forse ernico-etrusca per contaminatio di basi: di certo si
può dire solamente che è un nome preromano, essendo sconosciuta o quasi tale
radice nella lingua di Roma. La forma latina del nome, universalmente accettata,
è Aletrium: la tramanda un'epigrafe locale della prima età imperiale, nella
quale si legge, alla quinta linea, l'espressione municipio Aletri. Ad essa
risale l'etnico Aletrinas, -atis, attestato largamente sia nei testi letterari,
sia nei testi epigrafici. La variante Alatrium, che forse riproduce l'antica
pronunzia dialettale del popolo e che chiarisce il passaggio all'attuale forma
Alatri, è documentata da Plauto e dal Liber coloniarum. Un'altra ipotesi
circa l'origine del nome Alatri proviene dalla traduzione delle tavolette
rinvenute nel 1934 presso Tell Hariri (città della Siria). Centro di un possente
stato Mari sorgeva sul corso dell'Eufrate e gli scavi del palazzo reale di
Zimri-Lim ci hanno restituito oltre 20.000 tavolette d'argilla le quali svelano
ogni segreto di corte. Ebbene, una di queste tavolette riporta una lettera che
il re di Mari (Shamsi-Adat) inviò a suo figlio (Yasmakh) informandolo di aver
avuto notizie riguardanti l'ottimo stato delle poderose fortificazioni di
Alatri. Quindi sarebbe esistita in Mesopotamia una città di nome Alatri i cui
abitanti, avrebbero raggiunto i monti della ciociaria per costruirvi una
possente acropoli.
Una suggestiva ipotesi sulle origini di Alatri la
vuole fondata da Saturno insieme ad Atina, Arpino, Ferentino ed Anagni. Le
attuali ricerche ci lasciano intendere che la realizzazione delle prime città
sia da attribuire a popolazioni pelasgiche provenienti dall'Asia. I molti
reperti archeologici ci dimostrano che gli abitanti delle prime città del
territorio di Alatri trovarono ulteriore sviluppo nell'età del bronzo. Verso
la fine del VI secolo Alatri costituiva la Lega Ernica (insieme a Veroli,
Ferentino e Anagni) e la sua roccaforte assunse un ruolo strategico fondamentale
per contrastare la poderosa pressione dei Volsci e dei Sanniti verso
nord. Temendo per la loro indipendenza le città Erniche nel 306 ripresero le
armi contro Roma, questa volta furono duramente punite: Anagni venne conquistata
e costretta a subire senza condizioni la cittadinanza Romana (perché ritenuta la
vera responsabile della ribellione). Alatri venne sollecitata ad accettare un
compromesso che le avrebbe garantito la libera cittadinanza. Fatta finalmente
pace con Roma, Alatri conosceva un lungo periodo aureo, per nulla turbato dal
minaccioso avvicinarsi dell'esercito di Annibale. Tale periodo ebbe un
culmine nel primo quarantennio del II secolo in coincidenza con il doppio
mandato di censore conferito a Lucio Betilieno Varo, al quale si deve l'efficace
riorganizzazione amministrativa e urbanistica della città. Fin dal XI secolo
Alatri divenne un punto di riferimento per i pontefici costretti da varie
traversie ad allontanarsi dalla sede apostolica. Erano le conseguenze delle
dispute per la conquista del trono di Pietro e le prime avvisaglie della lotta
tra papi e imperatori per stabilire la supremazia dei rispettivi poteri. Fu così
che Alatri ospitò per due mesi Urbano II, cacciato da Roma dall'antipapa
Clemente III. Lo stesso Urbano, ricordato per l'intervento a sostegno della
prima crociata, ritornerà ad Alatri nel novembre
1093.
ACROPOLI Costruzione ciclopica di epoca preromana, rappresenta
il monumento più antico e celebrato della città. La sua ardita struttura di
contenimento, caratterizzata da possenti muraglie in opera poligonale, racchiude
per intero una vasta area sopraelevata (19.000 mq.) posta al centro dell'abitato
cittadino.
Oltre al paramento murario, già di per sé sorprendente per la
grandezza dei massi impiegati e per l'elevazione raggiunta, degne di ammirazione
sono le due porte di accesso: Porta Maggiore ubicata sul lato meridionale con
architrave monolitico di straordinarie dimensioni; Porta Minore, assai meno
imponente ma di uguale suggestione per la presenza all'interno di un angusto
corridoio ascendente, perfettamente conservato.
Sulla sommità
dell'Acropoli, al di sopra di un antico ierone, sorge, invece la Cattedrale di
S. Paolo con l'attiguo Vescovado. Entrambi gli edifici, di origine
altomedioevale, si presentano attualmente con le forme assunte nel corso del
XVIII secolo, in seguito a consistenti ristrutturazioni. L'interno a tre navate
con presbiterio rialzato conserva, tra l'altro, preziosi reperti cosmateschi del
1222 e la celebre reliquia dell' ostia incarnata: una particolarità eucaristica
divenuta miracolosamente carne umana nel lontano 1227. ANAGNIA Anagni,
famosa fino ad oggi soprattutto per il ruolo avuto come sede papale nel Medioevo
e legata alle vicende di Bonifacio VIII, ha ultimamente assunto una notevole
importanza anche nel campo delle ricerche preistoriche grazie al rinvenimento di
manufatti litici di oltre 700.000 anni fa e di resti fossili di Homo Erectus
datati 458.000 anni, i più antichi d'Italia. Di estrema importanza anche il
rinvenimento di materiale etrusco del VII secolo a.C., a testimonianza della
penetrazione di questo popolo nella Valle del Sacco e del Liri, probabile
itinerario seguito dagli Etruschi per gli scambi culturali con la Magna Grecia.
All'epoca di Tarquinio il Superbo ( inizi V sec. a. C.) il sito di Anagni era
abitato da genti erniche, probabilmente di origine marsa o sabina. I rapporti
con la nascente potenza romana conobbero alterne vicende: dalle alleanze del V
sec. a. C. alle guerre con Roma del 318 a. C. fino allo scioglimento della
Confederazione Ernica imposto dai romani nel 306 a. C. L'impianto
urbanistico-arcaico di Anagni, città sacra e centro politico della
Confederazione, era limitato alla zona dell'acropoli e difeso parzialmente da
una cinta muraria difeso interamente in epoca romana secondo la tecnica delle
mura cosiddette " serviane" (IV-III sec. a. C.). Al II sec. a. C. risale la
costruzione dell'emicidio degli "Arcazzi", con tre grandi archi a tutto sesto
sorretti da pilastri isolati dalla cinta muraria, cui si ricollegano in al rito
mediante una pseudo-volta. Anagni fu residenza estiva dell'imperatore Marco
Aurelio, di Commodo, di Lucio Settimo e di Caracalla. Centro della vita politica
internazionale del Medioevo, fù a buon diritto chiamata la "La Città dei Papi"
non solo per essere stata la patria di quattro grandi pontefici: Innocenzo III,
Gregorio IX, Alessandro IV e Bonifacio VIII; fu infatti anche residenza
ufficiale dei Papi che trovavano in Anagni un sicuro rifugio ed una degna sede
del loro mandato. FERENTINUM Sul nome Ferentino dal latino "Ferentinum"
fino ad oggi si fanno solo ipotesi, potrebbe forse derivare dalla "fertilità"
del suolo circostante, come pure e ignorata l'origine del giglio ferentinate,
oggi stemma del comune, forse legato per analogia al nome di "Fiorentino" poi
Ferentino. La storia della sua fondazione si identifica con quelle di altri
centri limitrofi (Alatri, Veroli, Anagni), le cui origini sono legate alla
leggenda ed alla mitologia, non esistendo purtroppo fonti primarie per ricavarne
elementi sicuri di conoscenza. Le stesse origini delle costruzioni
"megalitiche o pelasgiche" volgarmente dette "ciclopiche", ancora oggi rimangono
poco ben definite. Di sicuro, sono le prime testimonianze scritte di epoca
romana, quando si documenta la presa di Ferentino allora città dei Volsci, ad
opera dei romani (468 a.C.). Ferentino fu nei secoli caposaldo dei Volsci,
successivamente fortezza degli Ernici per poi passare sotto il dominio di Roma e
divenire sua alleata e quindi Municipio. La città conobbe in quel periodo pace e
splendore, a fianco ed in perfetta amicizia con Roma. Di quel periodo oggi
conserva monumenti insigni e la risonanza di nomi prestigiosi come quello di:
Flavia Domitilla (oriunda ferentinate, moglie dell'Imperatore Vespasiano),
Traiano Adriano, Pompeo, Aulo Quintilio Prisco e altri ancora. Conobbe
successivamente con il declino dell'Impero Romano, periodi molto tristi e bui,
accompagnati da saccheggi e devastazioni ad opera dei popoli barbari,
pestilenze, abbandono e miseria. Nel Medio Evo, quando dal Ducato Romano
passò al potere temporale della Chiesa, segui per la città di Ferentino un
periodo di ricostruzione sociale, politica ed economica. Nel XIII secolo
legheranno il nome a Ferentino, papi, sovrani e condottieri come l'Imperatore
Federico II e il Papa Innocenzo III, che volle Ferentino capoluogo ed importante
Diocesi dell'allora unica provincia di Campagna e Marittima.
Aree
ARCHEOLOGICHE
In Ferentino esistono resti archeologici che risalgono
all'età preromana e romana, le mure ciclopiche sono un esempio di questo periodo
storico. Le porte di Ferentino sono dislocate lungo circa due km e mezzo di
mura. Partendo da nord e seguendo il movimento delle lancette dell'orologio, si
incontrano 12 porte. L'Acropoli, divenne una fortezza inaccessibile tra il 100
e l'80 a.C.. Circondata da mura megalitiche, ben conservate, su cui si aprono
porte interessantissime per antichità e struttura, tra le quali la Porta
Sanguinaria e la Porta Casamari a doppio arco. La cittadina ha
nell'Acropoli il suo monumento più importante ed anche la testimonianza della
sua storia.
Sede, in successione, del prefetto romano, del vescovo, del
tribuno militare, del podestà, dei rettori di Campagna e Marittima. Munitissima
nel periodo medioevale, la rocca di Ferentino (della prima età Sillana) rimane
ancor oggi un capolavoro di ingegneria civile e un'opera d'arte di potente
bellezza. Sulla sua spianata sorgono la Cattedrale e il Palazzo del Vescovado.
La cattedrale, di architettura romanica, custodisce pregevoli opere dei Cosmati.
Tra le altre bellissime chiese, citiamo S. Maria Maggiore (XIII sec.) elegante
nelle sue forme di gotico ogivale, fondata dai monaci cistercensi. Tra le
opere di epoca romana, ricordiamo il teatro, costruito probabilmente all'epoca
di Traiano - Adriano, ed il mercato coperto, costruito in età sillana:Resti del
mercato corperto
resti del teatro Segnaliamo inoltre il
particolarissimo testamento di Aulo Quintilio Prisco, sepolcro rupestre e
rarissimo monumento epigrafico, a forma di edicola, scolpito nella viva
roccia. VERULAE Città di origine antichissima, Veroli sorge su un colle
nel settore sud-orientale dei Monti Ernici. Di epoca preromana sono le mura
poligonali che, con sovrapposizioni romane e medioevali ancora oggi, cingono la
rocca di S. Leucio, un tempo chiamata "Civitas Erecta". Furono infatti gli
Ernici che intorno al XII a.C. fondarono l'antica Verulae in posizione
strategica, su un'altura tra la valle del Sacco e quella del Liri. Anche
Veroli, come tanti altri centri del Latium Novum, cadde sotto il dominio di
Roma, ma rimasta ad essa sempre fedele ottenne già nel 90 a.C. la municipalità
romana e con essa autonomia amministrativa. Testimonianza del periodo
dell'alleanza con Roma sono i Fasti Verulani (I sec. d.C.), un particolare
calendario romano marmoreo, uno dei pochi rinvenuti nel territorio dell'impero
romano. Si tratta di una lastra di marmo situata in un cortile medioevale del
centro storico (casa Reali) che porta scritte tutte le date delle ricorrenze
civili e religiose, delle fiere e dei mercati come i "Carmentalia", festa in
onore della dea Carmenta, protettrice delle partorienti, i "Lupercalia", festa
in onore del dio Luperco, al quale si rivolgevano le donne sterili. Vi sono
indicati solo i primi tre mesi dell'anno, dei quali fa conoscere la ripartizione
del mese, i giorni fasti, i nefasti, quelli parzialmente favorevoli e quelli
idonei alla convocazione dei comizi.
Veroli, nel Medioevo fu inclusa nel
ducato di Roma; divenne sede vescovile e residenza dei duchi di Campagna e
Marittima (secolo IX). Appartenne poi allo Stato della Chiesa, che la favorì con
privilegi e il riconoscimento delle autonomie comunali. Veroli, esercitò il
controllo su vasti territori della zona e fu sede di importanti avvenimenti
storici: vi soggiornò S. Benedetto e vi fondò la bella chiesa di S. Erasmo, Papa
Alessandro III vi visse per alcuni anni e fu nella basilica di S. Erasmo che
ricevette l'ambasciatore di Federico Barbarossa, per negoziare la pace.
VOLSCI
Popolazione di origine indoeuropea, di indole bellicosa, che
viveva di pastorizia e di agricoltura nella zona, molto ricca di minerali utili
per il ferro e rame, del fiume Liri comprendente il basso Lazio, l'alta Campania
e il basso Molise. vedi TERRITORIO La loro cultura ebbe caratteristiche
osco-sabelliche. Esportarono presso i Carecini culti italici particolari, che
tutt'ora vengono praticati nella Campania, come l'effettuare il pranzo dopo un
rito funerario. Lo storico Livio nella Storia di Roma, a testimonianza
della loro tenacia militare, racconta che erano "ferocior ad rebellandum quam
bellandum gens " (7, 27, 7). I loro centri principali erano Satricum,
Frusino,Velitrae (Velletri), Arpinum (la città di Cicerone) e Fregellae, città
divenute famose in seguito come colonie romane. Appena cacciati i Re da Roma
(509 a.C.), Roma si trovò a dover fronteggiare le invasioni dei Volsci che
provenivano dal Lazio meridionale. La data della presa di Satricum e Circeii
è incerta, ma l'ipotesi più probabile la collocherebbe negli anni 489 - 488.
Altre città rimangono latine: Ardea, Aricia, Norba, Signa, Setia. Dalla lista
delle città conquistate dai Volsci manca Terracina, ma non si conosce la data
della sua caduta in mano volsca. A questo punto non possiamo tralasciare le
ipotesi discrepanti che sono state avanzate; se per taluni la presenza volsca
nell'agro pontino e nella cosiddetta "zona di frizione" nei pressi dei Colli
Albani è rintracciabile già alla fine del VI secolo, per altri, che interpretano
in maniera più critica le fonti letterarie storiche, questa presenza precoce
andrebbe decisamente negata. In favore della prima ipotesi vi sono sia dati
archeologici (l'abbandono di alcuni centri latini e tracce di crisi nell'abitato
di Satricum), che menzioni negli autori antichi. Le fonti letterarie ricordano
svariati episodi di contatti violenti già in epoca regia, oltre a Livio e
Dionisio (secondo i quali questi primi contatti sarebbero avvenuti già all'epoca
di Anco Marcio), da un frammento di Catone (in verità non del tutto chiaro) si
potrebbe dedurre che quando i Volsci invasero la Pianura Pontina vi trovarono
stanziati gli "Aborigeni " (mitica popolazione che avrebbe abitato il Lazio
prima dei Latini), mentre Strabone parla della riconquista da parte di Tarquinio
il Superbo di Suessa Pometia, caduta in mano volsca. La ricchezza della
terra dei Volsci fu oggetto di interesse per i Sanniti ed i Romani. Uscirono
sconfitti nelle guerre sannitiche, parteciparono con insuccesso alle guerre
civili e sociali, fecero parte della lega italica. Capeggiarono numerose rivolte
contro Roma, subendo perdite di autonomia, di risorse e di deportazioni. La
loro cultura scomparve in seguito ad un processo di romanizzazione. Coriolano
ed i Volsci Protagonista della guerra con i Volsci fu il giovane Gneo
Marcio, appartenente ad una potente famiglia patrizia; egli ottenne uno
straordinario successo con la conquista, nel 493 a.C., della città di Corioli, e
divenne così famoso da ricevere il nome di "CORIOLANO". In quello stesso
periodo feroci lotte dividevano i patrizi dalla plebe, che reclamava nuovi
diritti di parità con la classe nobiliare, ottenendo infine il Tribunato della
Plebe; tuttavia, in occasione di una carestia, grave al punto che si dovette
importare il grano dall'estero (dalla Sicilia), Coriolano propose che la
distribuzione del grano alla plebe fosse concessa solo dopo l'abolizione del
tribunato. A questa proposta la plebe insorse, e accusò Coriolano di
sovvertire le leggi della Repubblica, cioè di essere un traditore.
Coriolano, prevedendo una condanna, cercò rifugio presso la capitale dei
Volsci (Anzio) e, dopo aver riorganizzato il loro esercito, partì alla conquista
delle città latine, muovendo infine alla conquista di Roma. I Romani, per
patteggiare la pace, inviarono allora consoli, generali, tutte le più alte
cariche dello Stato, ma inutilmente. Alla fine giunsero da Roma, accompagnate
dalle matrone romane, la madre Veturia e la moglie Volumnia; ma quando Coriolano
corse da loro per abbracciarle, Veturia lo fermò dicendo (secondo la leggenda):
"Prima che tu mi abbracci, vorrei sapere se sono venuta a far visita a mio
figlio o ad un nemico della patria ". Allora Coriolano, turbato da questo gesto
della madre, rinunciò ad attaccare e riportò i Volsci ad Anzio. Saremmo
portati a giudicare Coriolano un doppio traditore, avendo prima tradito i Romani
e poi i Volsci; nella mentalità antica il concetto di nazione era più sfumato, e
così Coriolano venne celebrato come eroe sia dai Romani che dai Volsci, tra i
quali visse onorato e rispettato fino alla tarda vecchiaia. il Territorio dei
VOLSCI
Permangono molte incertezze sia sui modi, sia sull'itinerario
dell'occupazione volsca del Lazio meridionale. Se da una parte sembra ormai
assodato che le loro sedi di partenza vadano individuate nell'area compresa tra
il Fucino e l'alto Sannio, permangono forti dubbi sulla cronologia degli
avvenimenti, in particolare se l'occupazione dell'agro pontino sia da collocarsi
esclusivamente nel V secolo, o se già sul finire del VI i Volsci iniziassero ad
affacciarsi a sud dei Colli Albani e nell'area costiera tra questi ultimi e
Terracina. I dati archeologici hanno suggerito gli stretti legami delle zone
presumibilmente occupate dai Volsci, con quelle del Fucino - valle del Sangro -
alto Volturno (ritrovamento di anforette di tipo Alfedena, di fibule, di un
disco - corazza proveniente dalla zona del Fucino e ritrovato ad Anagni, di una
spada del tipo Alfedena rinvenuta a San Giorgio a Liri). Questi ritrovamenti
fanno pensare ad una certa mobilità di individui non necessariamente legata alle
transumanze stagionali. L'itinerario privilegiato per questi spostamenti è stato
sempre considerato quello della Val Roveto, ma sono plausibili anche altri
percorsi; attraverso la Val Comino (tramite il passo di Forca d'Acero), e quello
che dal cassinate (attraverso la valle del Rapido), conduce direttamente al
Sannio. Certamente verso la metà del V secolo (che dovrebbe corrispondere al
momento di massima espansione della potenza volsca) occupavano una zona molto
ampia, delimitata a nord-ovest dall'asse Anzio - Satricum - Velletri - Cori,
cioè la linea storica "di frizione" tra Volsci e romano - latini, lungo la quale
si svolsero le alterne fasi di una lotta caratterizzata da continui
indietreggiamenti e riconquiste. Con ogni probabilità il controllo si estendeva
sul territorio compreso tra questa linea e la valle dell'Amaseno (e Terracina),
sulla Valle del Sacco - Trerus, su tutta la media Valle del Liri (compreso
Cassino) e sulla Val Comino (probabilmente fino ad Atina). Le fonti
letterarie (Livio e Dionisio) concordano nell'indicare taluni avvenimenti,
pertanto possiamo fissare alcune date; Anzio appare volsca nel 496, Velletri
(forse) dal 494, Corioli, Longuna e Polusca nel 493. RE METABO Il fiume
Amaseno è noto e celebre nella storia grazie all'immortale poema virgilliano
(Eneide, cap. XI). Sulle sue rive ondose avviene il patetico e drammatico
episodio di Metabo e Camilla, che si può così riassumere: Metabo, re dei
Volsci, in una insurrezione popolare viene cacciato da Priverno ed è costretto
a,fuggire e a vagare per i monti con in braccio la piccola Camilla, che ha
perduto la madre forse nel parto o durante i moti. I suoi nemici non cessano di
dargli la caccia. Un giorno, vistosi assalito, fugge cercando scampo nel
fiume Amaseno. Lo trova però ingrossato e tumultuoso per la piena e non si
arrischia di passarlo a nuoto con la bimba al collo. Allora prende un'estrema
decisione: avvolge la piccina in una scorza di sughero, che lega saldamente al
centro della sua lunga e poderosa lancia e la scaglia al di là del fiume con
tutte le sue forze. La lancia va a piantarsi nella riva opposta, portando con sè
a salvamento la piccola. il pa dre presto la raggiunge a nuoto e fugge via su
per i monti, lasciando dietro di sè i suoi nemici, impotenti a inseguirlo
oltre. Così scrive Virgilio: ...Metabo, il padre di lei, fu per invidia e
per soverchia - potenza da Priverno, antica terra, - da' suoi stessi cacciato; e
da l'insulto, - che gli fece il suo popolo, fuggendo, - nel suo misero esiglio
ebbe in campagna - questa sola bambina, che mutato - di Casmilla sua madre il
nome in parte, - fu Camilla nomata. Andava il padre - con -essa in braccio per
gli monti errando - e per le selve, e de' nemici Volsci - sempre d'incontro
-avea l'insidie e l'armi. - Ecco un giorno assalito con la caccia - dietro,
fuggendo, a l'Amaseno arriva. - Per pioggia questo fiume era cresciuto, - e
rapido spumando, infino al sommo - se ne gìa delle ripe ondoso e gonfio; - tal
che, per tema de l'amato peso - non s'arrisciando di passarlo a nuoto, -
fermossi; e poi che a tutto ebbe pensato, - con un sùbito avviso entro una
scorza - di selvatico sùvero rinchiuso - la pargoletta figlia. E poscia in mezzo
- d'un suo nodoso, inarsicciato e sodo - tèlo, ch'avea per avventura in mano, -
legolla acconciamente; e l'asta e lei - con la sua destra poderosa in alto -
librando, a l'aura si rivolse, e disse: - Alma Latonia virgo, abitatrice - de le
selve e de' monti, io padre stesso - questa mia sfortunata figlioletta - per
ministra ti dedico e per serva. - salvo all'altra riva si
condusse.
Camilla, diventata abile guerriera, prendera' poi parte con una
valorosa schiera di cavalieri Volsci alla guerra contro Enea, condotta da Turno,
re dei Rutuli, e cadra' in una mischia furiosa per mano di Arunte. Ora
ammesso che il patetico episodio Virgiliano sia reale, ci si potrebbe domandare
: in che punto preciso avvenne il passaggio del fiume. Nel poema non ci sono
indicazioni chiare e sufficienti per identificarlo. E' probabile che questo
avvenissse presso le pendici di Monte Alto, dove il luogo si sarebbe prestato
piu' facilmente all'evasione, per la distanza ravvicinata con gli Ausoni e dei
Lepini. ANTIUM Secondo lo storico Xenagora Anzio fu fondata da Anteo,
figlio di Ulisse e della maga Circe, mentre un'altra leggenda del ciclo troiano
attribuisce alla città un diverso fondatore: Ascanio, figlio di Enea. Anche se
la scoperta di reperti archeologici risalenti all'età della pietra testimoniano
la presenza dell'uomo fin da quella lontana epoca, certo è che le fonti storiche
hanno accertato la fondazione della città vera e propria, chiamata Antium,
durante la civiltà laziale, agli inizi del primo millennio a.C. Addossata a
quel promontorio che interrompe il piatto scorrere della costa laziale, agli
inizi del primo millennio a sud di Roma, dalla foce del Tevere fino al Circeo,
Anzio deve a tale favorevole posizione la propria origine ed il proprio
straordinario sviluppo. L'Antium latina, fiorente centro commerciale e punto di
partenza di scorrerie piratesche in tutto il Mediterraneo, ebbe nel suo porto,
chiamato "Caenon", la fonte della sua potenza. Occupata dai Volsci intorno
all'anno 490 a.C. divenne fiera avversaria di Roma; si pose alla guida di altre
città divenute volsche e iniziò un lungo periodo di belligeranza, caratterizzato
da numerosi episodi tra i quali il più noto è quello del patrizio Coriolano che,
esiliato in Anzio e divenuto comandante delle truppe volsche, giunse a
minacciare la sicurezza di Roma. La lunga guerra si concluse solo nel 338
a.C. con la distruzione della città ad opera delle legioni del console Marco
Furio Camillo. I romani ornarono con i rostri strappati alle navi anziati la
tribuna del Foro da cui si tenevano i comizi e che da allora fu detta
"tribuna rostrata" . Colonia romana dal 338 a.C. fu partigiana di Cornelio
Silla durante la guerra civile e per tale ragione fu distrutta dalle truppe
di Caio Mario nell' 87 a.C. Sul finire dell'età repubblicana Anzio
conobbe un periodo di vero splendore diventando il luogo di
villeggiatura preferito dai ricchi patrizi di Roma: templi, circhi e palazzi
abbellirono la città mentre lungo la costa si edificarono le ville dei più
importanti personaggi del tempo: Marco Tullio Cicerone, Mecenate, Caio Lucrezio
e Cesare Augusto.
Un braccio del Porto neroniano
La biblioteca di Domiziano
In età imperiale
soggiornarono ad Anzio tutti gli imperatori: Augusto vi fu proclamato Padre
della Patria, Caligola, che ne voleva fare la capitale dell'impero, Adriano, che
la descriveva come uno dei luoghi più belli d'Italia ma fu Nerone, che ad Anzio
nacque, ad edificarvi il porto, mirabile esempio di ingegneria marittima ed ad
abbellire la reggia e la città di marmi e statue famose oggi esposte nei più
grandi musei del mondo, come la Fanciulla d'Anzio (Museo nazionale) il
Gladiatore Borghese (Louvre) e l'Apollo del Belvedere (Musei Vaticani). La
decadenza dell'impero romano fu condivisa dalla città che, soggetta alle
invasioni ed ai saccheggi dei barbari prima e dei saraceni poi, fu abbandonata
dalla popolazione che fondò la vicina città di Nettuno.
VILLA
IMPERIALE DI NERONE TEMPLI DI CULTO PRECRISTIANO
Teatro
Romano Il teatro misura 30 m. di diametro, possiede una cavea suddivisa in 11
cunei o settori radiali, tagliati a metà da un corridoio coperto ed ornato da
lesene intervallate. Tre accessi, costituiti da un fornice centrale e due
laterali assicuravano alla cavea un ottimale accesso e una razionale
distribuzione degli spettatori nei vari settori. Mentre le gratinate sono andate
distrutte, a stento si può riconoscere l’ubicazione della orchestra che aveva un
diametro di circa 10m. La scena che chiude il semicerchio della cavea era
articolata da quattro grossi corpi in muratura che, simmetricamente creavano
rientranze e sporgenze, luci ed ombre. Ai piedi del palco della scena, due
corridoi permettevano il passaggio degli attori, dei fondali, delle
scene.
Alle spalle dell'edificio che chiude la scena, erano ubicati dei
piccoli cubicoli con volta a botte e completamente rivestiti in marmo bianco, da
interpretarsi, vuoi per le loro proporzioni che per la loro ubicazione come i
camerini degli attori. La facciata esterna della scena era abbellita da un
colonnato che sorreggeva un lungo portico che sopravanzava la scena stessa.
Tutto il restante prospetto esterno del teatro era ornato da una serie continua
di fornici a tutto sesto sostenuti da pilastri ornati da mezze colonne. Sia i
pilastri che le semicolonne erano state realizzate in laterizio: questa cortina
laterizia mostra una estrema maestria nell’esecuzione, sia nella regolarità dei
giunti che nella costante ripetizione del modulo costruttivo e, soprattutto, nel
taglio e nella levigatura dei mattoncini che formano le semicolonne. I fori
regolari di grappe, però, ci documentano che nonostante tanta precisione anche
il prospetto esterno era rivestito di lastre di marmo. L'intera fabbrica del
teatro, mossa dalle innumerevoli arcate e scintillanti marmi bianchi, era
sollevata ed esaltata, per contrasto, su di un alto zoccolo di grossi
parallelepipedi di pietra vulcanica che a guisa di podio assicurava oltre ad un
sicuro effetto cromatico, anche un solido espediente statico.
Il
portico, costruito cioè dietro la scena, contava in origine ben 18 colonne.
Successivamente le due ultime colonne di ogni lato furono inglobate in due
piccoli vani riducendosi così il numero a 14. Delle colonne ancora oggi sono ben
visibili alcune basi. Le grigie colonne, che erano state fatte con la stessa
pietra vulcanica del basso podio, che rimanevano di fronte, probabilmente non
erano stuccate come succedeva spesso nel mondo antico si operava con materiale
poco pregiato, proprio per accentuare in questo caso l’effetto cromatico di cui
abbiamo accennato prima. Se furono stuccate invece, quasi sicuramente furono
dipinte a finto marmo scuro, simile alla pietra grigia dello zoccolo su cui
poggiava l'intera fabbrica e lo stesso portico. Questo porticato sappiamo che
era esplicitamente destinato a riparare gli spettatori in caso di pioggia
repentina o per offrire loro un luogo ombreggiato durante i calori estivi, o
comunque luogo di passaggio e di conversazione. Attraverso lo studio delle
murature data la costruzione dell’edificio alla metà del primo secolo d.C.
mentre gli ambienti aggiunti ed alcuni piccoli rifacimenti noi possiamo datarli
tra la fine del I sec. o al massimo del primo decennio del II sec. d.C. Le
dimensioni piuttosto ridotte e la ricchezza dei marmi ne fanno un teatro forse
poco popolare, ma destinato dalla famiglia imperiale giulio-claudia che lo fece
costruire per quella società elegante e raffinata che affollava, soprattutto nei
mesi estivi, la città di Antium. ANXUR - TERRACINA Grazie alla posizione
strategica situata su uno sperone roccioso, attirò le popolazioni dei Tirreni
(Ausoni e Aurunci) (1000 a.C.), ceppo di origine indoeuropea che si stabilirono
in questa zona dopo un vagabondare attraverso l’Italia. Essi si organizzarono
per villaggi, sparsi sulle colline, per resistere alle incursioni esterne Erano
strutture fortificate, realizzate con pietra e situate in posizioni dominanti.
Il primo vero e proprio agglomerato urbano si creò sotto la dominazione
etrusca (700-600 a.C.) e da questi probabilmente ereditò il nome attuale: prima
TARRAKINA , poi TARRACINAE, TARRICINA, ed infine TERRACINA . Con la
decadenza etrusca, conquistata dai Volsci nel V° secolo a.C., la città si chiamò
ANXUR . I Volsci dettero, oltre al nome, la struttura della città.
Furono i più accaniti oppositori dell’espansione romana a Sud del Tevere.
Dopo aspre guerre, i Romani conquistarono tutta la Pianura Pontina fino a
Terracina (Anxur) nel 406 a.C. Ma dovettero passare altre tragedie e ribellioni
prima che si stendesse la efficiente "pax romana" e nel 329 a. C. divenne una
colonia marittima di diritto romano. Nel 312 a.C. il Censore Appio Claudio
conduce attraverso Terracina una via (l’Appia) che doveva collegare Roma con
Capua e in seguito essere prolungata fino a Brindisi. Sono ancora visibili i
resti della costruzione dell’Appia Antica in opera quadrata, tratti di basolato
nero, qualche metro di antico marciapiede e resti di tombe. Dovrebbero
risalire a quest’epoca le più antiche e imponenti strutture murarie in "opus
poligonali" di Monticchio e Salissano. L’epoca di Silla (I° secolo
a.C.) coincide con uno sviluppo notevole della vita cittadina e Terracina
raggiunge il suo massimo splendore edilizio (come mostrano le testimonianze
archeologiche). In questo periodo cambia la fisionomia urbanistica del
centro alto: l’impianto del Foro Emiliano, i terrazzamenti sostruttivi a livelli
graduali decrescenti verso la città bassa e l’impianto del Foro Severiano, in
pianura. Di Traiano (40 a. C.) risultano la sistemazione del porto e il
taglio di Pisco Montano, che doveva cambiare il percorso dell’Appia, aggirando
il monte anziché scavalcarlo come aveva voluto Appio Claudio. Con la
modifica del tracciato dell’Appia e la costruzione del porto, Terracina
raggiunse il massimo sviluppo urbanistico e demografico.
La caduta
dell’Impero Romano d’Occidente, (476) segnò la decadenza di Roma e di Terracina.
TEMPIO DI GIOVE ANXUR Sull'alto del Monte S. Angelo , l'antico mons
Neptunius, a più che 200 metri sul mare, sorse -forse sin dal IV secolo a. C.-
un tempio a Juppiter Anxurus, o Giove fanciullo. Il tempio che oggi
conosciamo è quello in opera incerta, dell'età di Silla: alla quale età si
attribuisce anche la fortificazione dell'acropoli ultima della città. Volendosi
far vedere il tempio non solo dal mare aperto, ma dalla stessa spiaggia, fu
alzata sul ciglio del monte, su una fronte di sessanta metri rivolta a
sud-ovest,
una imponente terrazza di sostruzione, con dodici poderose
arcate, impostate su massicci pilastri e comunicanti fra loro per mezzo di
aperture centinate, praticate nei muri radiali. Contro la parete di fondo
della cella è un basamento per la statua di Giove Anxur. All'esterno del
tempio, sul fianco orientale è l'oracolo: una specie di basamento quadrilatero
attorno a una eminenza della roccia, nel centro del quale basamento, in alto, è
un foro comunicante con una caverna accessibile ai soli ministri del tempio, e
da cui i sacerdoti potevano emettere le risposte oracolari ai quesiti dei
fedeli. Innanzi e a sud-est del pronao del tempio sarebbe l'ara per i
sacrifici.
A levante del grande tempio è il cosiddetto Piccolo tempio,
che verisimilmente era adibito a uso civile. Analogo è il sistema di sostruzione
ad archi impostati su pilastri: questi archi erano in origine 9; ai due estremi
erano due avancorpi con cisterne. La muratura ad elementi poco meno che informi
e legati da malta assai abbondante fa pensare ad un'età di costruzione alquanto
anteriore a quella del grande tempio. Più che un'opera incerta noi abbiamo qui
una struttura più affine all'opera cementizia. ARPINUM Le origini di
Arpino si perdono nella notte dei tempi. Narra la leggenda che essa sarebbe
stata fondata dal dio Saturno, protettore delle messi, così come altri centri
della Ciociaria (Alatri, Ferentino, Atina, Anagni). I suoi primi abitatori
furono identificati con i mitici Pelasgi, la popolazione preellenica alla quale
la tradizione attribuisce la realizzazione del gigantesco sistema fortificato
delle "mura ciclopiche", dette per questo "pelasgiche", ancora oggi visibile in
località Civitavecchia e in numerosi punti dell'abitato cittadino. In realtà, i
primi ad insediarsi nella zona furono i Volsci, la cui presenza è documentata
sin dal VII sec. a.C. Conquistata dai Sanniti nel IV sec. a.C., passò dopo breve
tempo sotto il dominio di Roma, con la qualifica di civitas sine suffragio. La
città divenne così il centro di irradiazione della civiltà romana nella Valle
del Liri. Nel 188 a.C. ottenne a pieno titolo il diritto alla cittadinanza
romana, diventando civitas cum suffragio, grazie anche al contributo in termini
di uomini che Arpino dette a Roma nella guerra contro Annibale. Durante il
consolato di Caio Mario l'Ager Arpinas (il territorio del municipium arpinate)
si estendeva dal villaggio di Ceretae Marianae, l'odierna Casamari, fino ad
Arce. Con l'età imperiale la città conobbe un periodo di declino Storia e
leggenda s'intrecciano nelle vicende di Arpinum, ma ancor più in quelle della
Civitas Vetus, l'Acropoli. Piccolo centro di umanità secolare, raccolta entro
una barriera di mura megalitiche essa irradia ancora, per il turista che la
raggiunge, suggestioni e testimonianze di una vita arcaica. Civitavecchia fu,
probabilmente, il nucleo originario del primitivo insediamento volsco (popolo
del VII-VI sec. a.C.), fondato per necessità di difesa su un luogo alto e
dirupato e poi circondato da possenti mura. Infatti altri popoli italici,
quali i Marsi e i Sanniti ne premevano e minacciavano la sicurezza e i beni. La
grandiosità di queste mura, che si trovano pure in altri paesi dei Volsci
(Atina, Aquinum, Sora, Signia, Arcis) e degli Ernici (Alatrium), ha suggerito
alla fantasia popolare il nome di mura pelasgiche (in ricordo dei preellenici,
mitici Pelasgi) o ciclopiche (i giganti omerici).
E', però, più giusto
chiamare questo tipo di mura "poligonali" proprio per la forma che presentano
gli enormi massi, sovrapposti l'un l'altro senza alcun legame di malta. Le
mura poligonali di Arpino si dipartono da Civitavecchia all'altezza di 627 metri
e scendono giù per il declivio fino ad abbracciare e chiudere la città
nell'altra minore altura (Civita Falconara). Esse non hanno fondazioni e sono
costituite da enormi monoliti di puddinga, materiale i cui banchi sono in
vicinanza del sito arcaico. La muraglia, in origine, si estendeva per 3 km, ma
oggi ne rimangono circa 1,5 km ed in alcuni punti si presenta inglobata nelle
case. Restaurata nell'età sannitica, poi romana e medioevale con l'aggiunta di
torri e di porte, dimostra una serie ininterrotta di vicende storiche. La
datazione delle mura di Civitavecchia ha creato un dibattito fra gli
studiosi:Tito Livio (IV, 57,7) ci dà notizie di rocche ciclopiche volsche
esistenti già nel 408 a.C.. Si rileva la possibilità delle influenze greche sul
territorio, dovute agli scambi commerciali e culturali attraverso le vie
fluviali che dalla Campania portavano al massiccio della Meta, ricco di
minerali. Certamente l'arco a sesto acuto, porta arcaica d'ingresso
all'Acropoli, rievoca in maniera determinante gli archi di Tirinto e
Micene. Questo prodigioso monumento è alto 4,20 metri ed è formato da blocchi
sovrapposti che si restringono verso la cima, tagliati obliquamente sul lato
interno. Nel XVI secolo fu chiuso in un bastione semicircolare, ora per metà
demolito. FREGELLAE
Colonia di diritto latino, Fregellae fu fondata
dai Romani sulla riva sinistra del fiume Liri nel 328 a.C., con lo stesso nome
di un centro abitato della locale popolazione del Volsci, distrutto qualche anno
prima dai Sanniti, la cui arx è individuabile sulla cima della collina che
ospita la moderna Rocca d’Arce (fig.1-2). La spinta espansionistica romana verso
sud, già iniziata nel 334 a.C. con la fondazione di Cales nella pianura tra
Teanum e Capua, si concretizzò nella valle del Liri con questa provocatoria
deduzione coloniale. Rocca d'Arce - Tratto di muro in opera poligonale
(fig. 1)
Dopo una breve riconquista sannitica, conseguente alla
sconfitta romana delle Forche Caudine (316 a.C.), la città fu rifondata nel
313/312 a.C. assieme all’altra colonia di Interamna Lirenas, determinando così
un più stretto controllo sulla valle del Liri e su una nuova direttrice di
traffico, la via Latina. Questa arteria stradale univa anticamente Roma con il
santuario federale di Iuppiter Latiaris sui Colli Albani e, in occasione della
rifondazione di Fregellae e della deduzione di Interamna Lirenas, fu prolungata
sino a Capua dopo avere collegato anche le due nuove colonie. Questa arteria
stradale univa anticamente Roma con il santuario federale di Iuppiter Latiaris
sui Colli Albani e, in occasione della rifondazione di Fregellae e della
deduzione di Interamna Lirenas, fu prolungata sino a Capua dopo avere collegato
anche le due nuove colonie.
Rocca d'Arce Tratto di muro in
opera poligonale (fig. 2) Numerosi sono gli episodi storici che narrano
dell’importanza assunta dalla città con il passare dei decenni, come la
richiesta avanzata da duecento nobili ostaggi cartaginesi i quali, all’indomani
della battaglia di Zama (202 a.C.), ottennero dal Senato romano il permesso di
abitare a Fregellae. L’importanza della colonia nonché la sua posizione
leader sul resto delle colonie latine è dimostrata da altri notevoli episodi
citati dalle fonti storiche, come il ruolo di portavoce delle colonie rimaste
fedeli a Roma in occasione della guerra annibalica, o l’esistenza di uno
squadrone scelto di cavalleria (turma fregellana), formato da quaranta
aristocratici fregellani con funzione di guardia del corpo dei consoli,
distintosi per valore in almeno due importanti episodi bellici. Il fenomeno
sociale più riguardevole per la città nel corso della sua breve storia è
rappresentato dal gran numero di immigrati provenienti dalle regioni
circostanti, richiamati dalla florida situazione economica della città. Tale
flusso migratorio, generalmente continuo, in alcuni casi presentò le
caratteristiche di un vero e proprio esodo: secondo Livio nel solo anno 177 a.C.
ben quattromila famiglie di Sanniti e di Peligni si erano trasferite a
Fregellae. Ne derivò una massiccia “deromanizzazione” della città che può
reputarsi, in parte, causa della sua distruzione. Infatti, durante il periodo
della crisi graccana Fregellae fu sempre in prima linea nella rivendicazione
della cittadinanza romana, che avrebbe permesso alle migliaia di immigrati una
più facile integrazione nel nuovo tessuto economico e sociale, beneficiando
della distribuzione gratuita delle terre demaniali, riservata ai soli cittadini
romani. Il rifiuto di un’ulteriore proposta di legge presentata nel 125 a.C. al
Senato romano da Marco Fulvio Flacco, console di parte popolare, tesa a
concedere la cittadinanza romana ai Latini e agli Italici, scatenò a Fregellae
una violenta rivolta contro Roma, presto soffocata da un esercito comandato dal
pretore Lucio Opimio. La città fu distrutta e l’area urbana, sottoposta alla
pratica religiosa della devotio, fu quasi completamente abbandonata; da allora
non ebbe più continuità di vita. I cittadini di Fregellae furono deportati a
Roma, dove vennero processati. Dopo la distruzione di Fregellae, ai superstiti
di parte filo-romana fu concesso di ricostruire la città, ma non più sullo
stesso sito, a causa dell’interdizione derivata dalla pratica della devotio, né
fu possibile imporle lo stesso nome. Fu dunque ricostruita nel 124 a.C. poco più
a sud, in un’ansa del fiume Liri subito dopo la confluenza con il Sacco
(l’antico Trerus), nel territorio dell’attuale comune di San Giovanni Incarico
in località “La Civita”. Qui è anche localizzabile il sito del porto fluviale di
Fregellae e forse anche quello di un Foro pecuario. Il nome del nuovo
insediamento fu modificato in Fabrateria Nova, per distinguerla dalla Vetus,
identificabile probabilmente con la moderna Ceccano.
Scavi recenti e
prospezioni aeree hanno messo in evidenza il reticolo viario regolare della
nuova Fabrateria; la città non sembra comunque occupare una superficie molto
estesa. Sinora, il monumento cittadino di maggior consistenza venuto alla luce è
l’anfiteatro (fig. 3) che, pur non offrendo dimensioni di rilievo (m 70 x 57),
appare sproporzionato rispetto alla modesta estensione dell’abitato. San
Giovanni Incarico, località La Civita Resti dell'anfiteatro di Fabrateria
Nova. ( fig. 3)
Era provvisto di due entrate poste lungo l’asse maggiore
e, a giudicare dall’esiguo spessore dei muri di base, doveva presentare
gradinate in legno. Contestualmente allo sviluppo di Fabrateria Nova, assumeva
una certa consistenza urbana il centro abitato di Fregellanum, prossimo al sito
di Fregellae, sorto a ridosso di un ponte sul Liri che permetteva alla via
Latina di collegare Fregellae con Frusino (Frosinone). Posto dagli antichi
itinerari a quattordici miglia da quest’ultimo centro, Fregellanum è sicuramente
da identificarsi con la moderna Ceprano. Nell’ambito del centro storico di
questa città, è visibile una gran quantità di materiale archeologico di
reimpiego proveniente dalla vicina Fregellae; ciò conferma la testimonianza di
viaggiatori ottocenteschi, i quali descrivono il largo uso che gli abitanti di
Ceprano facevano delle pietre squadrate che si procuravano direttamente dai
resti dell’antica città. Si ha notizia certa dell’esistenza del ponte romano di
Ceprano, che era posto poco più a valle dell’attuale, da un’epigrafe del tempo
di Antonino Pio che ne documentava alcuni lavori di
restauro.
Monumenti Dei diversi santuari individuati nell’area sia
urbana che extraurbana, il più studiato è quello dedicato al dio della medicina,
Esculapio. Situato appena fuori città, fu costruito su un sito precedentemente
utilizzato per il culto della dea Salus, di tradizione locale e risalente agli
anni di fondazione della colonia. Il santuario di Esculapio, realizzato
probabilmente subito dopo il 189 a.C., era formato da un complesso a terrazze di
singolare effetto scenografico.
Ricostruzione ideale del
Santuario di Esculapio
La zona più importante del santuario era
formata da un porticato a tre bracci di stile dorico, al centro del quale si
ergeva il tempio su di un podio in opera cementizia. La centralità del tempio,
la sua elevazione e la visione frontale che in questo modo veniva enfatizzata,
denotano la persistenza di modelli architettonici di tradizione locale, mentre
la presenza dei terrazzamenti e del porticato è indice dell’importazione e
dell’assimilazione di concetti architettonici ellenistici, i cui modelli sono da
ricercare nei complessi cultuali di Cos, Rodi e Delos. Davanti al santuario era
forse stata ricavata una cavea teatrale, sull’esempio dei coevi santuari laziali
di Giunone a Gabii e di Ercole Vincitore a Tivoli. Dalla ricostruzione
grafica del complesso cultuale proposta, si evidenzia l’esistenza di un corpo
centrale al cui lato lungo si addossava un pronao con relativa scalinata. Tale
pianta, “a cella trasversale”, trova riscontro in pochi templi di area laziale e
romana ed è da considerarsi come un retaggio di antichi culti italici dei quali
la pianta a cella trasversale costituiva un elemento simbolico
fondamentale. MINTURNAE
Minturnae e' uno dei centri piu' antichi del
Basso Lazio, situato alla foce del fiume Garigliano, al confine tra il Lazio e
la Campania, sulla riva destra. Il suo nome si fa risalire a Minothauros, dio
cretese, e quindi il primo nucleo potrebbe essere ricondotto alla dominazione
dei Greci sul Mediterraneo e sull'Italia Meriodionale.
Insieme alle
citta' di Ausona, Sinuessa (oggi Mondragone), Suessa (oggi Sessa Aurunca) e
Vescia, faceva parte della cosiddetta Pentapoli Aurunca, fulcro della
confederazione degli Aurunci (o Ausoni), discendenti dei Tirreni, un popolo di
stirpe italica.
Intorno al IV sec. a.C. questo popolo
entro' a contatto con i Romani, schierandosi apertamente contro di essi e
alleandosi con i Sanniti. Le conseguenze furono disastrose: la Pentapoli venne
letteralmente annientata nel 314 a.C. (Livio, IX, 25 "Deletaque Ausonum Gens"),
tanto che di Ausona e di Vescia non e' rimasto che il ricordo del nome e delle
altre solo esigue notizie. Nel 312 a.C. la costruzione della Via Appia, che
collega Roma con Capua, interessa anche il sito di Minturnae diventandone il
Decumano Massimo, e la citta' diviene colonia romana nel 295 a.C. Inizia cosi'
un nuovo periodo di prosperita', che raggiunge l'apice nel I^ secolo d.C.
Di questo periodo restano e sono visibili l'acquedotto (I secolo), il
teatro (eta' augustea), il foro con i suoi templi (eta' repubblicana e
imperiale), le mura e l'anfiteatro. Teatro romano - interno Ancora
oggi passeggiando per i resti silenziosi dell'antica Appia che attraversa
Minturnae, osservando i resti delle botteghe, dei bagni e dei vicoli, si ha
l'impressione di rivivere l'atmosfera Romana, risentendo il vociare degli
antichi abitanti e il frastuono dei carri.
Nell'ambulacro del teatro e'
oggi allestito un Antiquarium dove sono esposti bellissimi reperti: marmi,
ceramiche e statue dal I secolo a.C. al II secolo d.C.
Teatro romano -
esterno Minturnae segue quindi, con le dovute proporzioni, la fortuna e la
storia di Roma, e cosi' quando quest'ultima decade, anche la sua colonia rivive
tempi bui, fino a quando nel 590 viene devastata dai Longobardi. Gli abitanti
abbandonano definitivamente la citta', si rifugiano nelle vicine alture fondando
la citta' di Traetto (oggi Minturno), e Minturnae subisce l'oltraggio di vedere
depredati i propri marmi e colonne, a favore delle nuove costruzioni. Il
pontefice Gregorio Magno, abolisce il vescovato di Minturnae aggregandolo a
quello della vicina Formia. NORBA Norba, la città di pietra, appena un
chilometro fuori dell'abitato di Norma, in contrada Civita. La leggenda la
vuole fondata da Ercole, come altre città della Provincia. La sua origine può
ricondursi al IV sec. a.C. Dapprima ostile a Roma si impegnò con altri popoli
Ernici e Volsci, a ripristinare il regno di Tarquinio il Superbo. Sconfitta dai
Romani al lago Regillo lasciò, con gli alleati, nelle loro mani oltre 10.000
prigionieri. In seguito si alleò segretamente a Roma e nel 494 a.C. sventò una
spedizione contro essa organizzata dai Volsci. Per questo le furono restituirti
i prigionieri della battaglia del Regillo e fu inserita nella lega Latina
divenendo colonia militare romana. Nel 329 a.C. fu saccheggiata dai Volsci
pipernesi condotti dal cittadino di Fondi Vitruvio Vacca, ribellatosi alla
dominazione romana. Questa figura si richiama al mito volsco di Camilla
impersona un po' lo spirito d'indipendenza italica di questa zona, sulla quale
si incentrò a lungo la resistenza volsca alla penetrazione romana. Fu anzi
Priverno che fornì armi e uomini a Vitruvio Vacca quando operò il tentativo di
allontanare da queste zone Roma, nel 329 a.C.. Vitruvio Vacca, un ricco
cittadino di Fondi vissuto a lungo nella Capitale, forse stanco di sentirsi un
cittadino di colonia, tornato a Fondi cominciò a profondere denaro per
convincere i suoi concittadini e le popolazioni volsche, specialmente quelle
dell'interno, a ribellarsi a Roma. Priverno, che meno delle altre tollerava la
presenza romana, aderì con entusiasmo al disegno di Vacca e formato un
agguerrito esercito, iniziò una sistematica aggressione alle posizioni degli
invasori romani, accompagnandola con azioni che oggi chiameremmo di guerriglia.
Furono devastate Sezze, Cori e Norma, fedeli a Roma e si registrarono episodi di
estrema crudeltà nell'un campo e nell'altro. I Romani reagirono all'insurrezione
e dopo essersi riorganizzati, bloccarono l'esercito di V. Vacca in Priverno che,
alla fine si arrese. Vacca pagò con la vita, nel 328, il suo tentativo. Da
questa data inizia praticamente il declino vero e proprio della preminenza
italica. Proprio da Roma venne poi distrutta per mano di Emilio Lepido
nell'89 a.C., come punizione per aver parteggiato per Mario contro
Silla. Della città non rimasero che rovine fumanti, mai più riedificate. Del
vecchio tessuto urbanistico restano ben visibili solo i grandi blocchi
poligonali; ma l'aerofotografia ha rivelato l'intero tracciato esterno delle
mura e la trama urbanistica estremamente interessante. Norba mostra le sue
poderose mura difensive, lunghe 2.262 metri ed alcune costruzioni seminterrate e
identificate in un tempio a Giunone Licina, due arces, una delle quali con un
tempio a Diana e la seconda con altri due templi. Inoltre sono pressoché integri
la bellissima Porta Maggiore e il bastione detto La Loggia, modellato alla
perfezione con blocchi squadrati e sovrapposti a secco.
Sul lato opposto
della città è la Porta Segnina, meno imponente. Norma ha una storia medievale
condizionata dai due centri urbani limitrofi più importanti, Ninfa e Sermoneta.
Nel 1298 Benedetto Caetani,papa Bonifacio VIII, ne procurò l'acquisto a Roffredo
e Pietro Caetani, investendo quest'ultimo dei privilegi feudali nel 1303.
Confiscato ai Caetani da papa Alessandro VI alla fine del XV sec.,per essere
donato insieme a Ninfa, Cisterna, Bassiano, Sermonaeta e altri comuni a Rodrigo
Borgia, figlio di Lucrezia,tornò ai Caetani che lo vendettero nel 1619 ai
Borghese. PRIVERNUM Non sono note le origini di Priverno che si confondano
con quelle degli altri insediamenti del periodo protostorico laziale. Rare
testimonianze referibili all'età del Bronzo suggeriscono varie ipotesi, ma , in
sostanza, Priverno entra nella Storia solo durante il periodo dell'espansione
romana nel Lazio: allora appare come potente centro Volsco, conquistato da Roma
sul finire del IV secolo a.C. con la conseguente distruzione dell'abitato. Di
questi avvenimenti ci informa Tito Livio, mentre, Virgilio, in una visione
poetica del tutto anacronistica, fa rivivere i fatti attraverso la bella
immagine di Camilla. Non è stato ancora scoperto il sito della città Volsco,
mentre è noto quello della colonia Romana di Privernum. Durante il II secolo
a.C. questa sorse nella Valle dell'Amaseno, pure di Virgiliana memoria, in una
posizione di controllo delle comunicazioni stradali fra la zona costiera Tirreno
e la valle del sacco. I reperti archeologici di Privernum ( Tiberio e Claudio
dei musei Vaticani; i busti di Alessandro e di Germanico dei musei Capitolini; i
mosaici policromi attualmente depositati presso il Museo Nazionale delle Terme,
ecc.) lasciano immaginare una cittadina ricca ed evoluta nel periodo che va
dalla Repubblica al primo secolo dell'impero. Si ignorano le cause precise che
provocarono la scomparsa di Privernum, ma alcune circostanze particolari
lasciano supporre che la città fu distrutta durante la seconda metà del secolo
nono, quando era, da tempo, sede vescovile, in una delle tremende incursione
saracene. E' tradizione assai diffusa, e anche plausibile, che in
quell'occasione il popolo di Privernum si rifugiò sulle colline circostanti la
valle dell'Amaseno, dando origine ai diversi paesi che tuttora vi si affacciano,
tra i quali l'attuale Priverno.
Parco Archeologico
A soli dieci
minuti dal centro storico di Priverno, è l'area attualmente scavata
territorialmente assegnabile all'antica città romana di Privernum.
I
resti principali oggi fruibili e sui quali si sta incentrando l'attività di
scavo, sono senz'altro quelli delle due ricche Dumus di impianto repubblicano,
con strutture ben conservate sia delle aree abitate che di quelle dedicate ai
giardini ed alle terme. Da queste abitazioni, certo appartenenti ai ceti
dirigenti della città romana, provengono ricche pavimentazioni musive ed
esposte, con appropriati apparati didattici al Museo di Priverno.
Fra
queste, dalla casa più piccola, una eccezionale soglia policroma raffigurante un
gioco di pigmei in ambiente egiziano (il tipo di pavimento, rarissimo, è detto
appunto nilotico) e dalla Domus maggiore un emblema (ovvero il riquadro centrale
di una pavimentazione) figurato policromo.
Interessante risulta
inoltre il rimaneggiamento architettonico dell'assetto originale nel passaggio
tra repubblica ed impero.
SATRICUM Antica città dei Volsci,
ritenuta area sacra ed importante. Gran parte di queste città non furono fondate
dai Volsci ma preesistevano alla loro invasione, ed erano colonie latine o
latino-etrusche. Tito Livio narra anche della conquista romana di Satricum, i
cui ruderi si trovano presso B.go Montello. Fu contesa tra i Sanniti ed i
Romani, fino a cadere sotto questi ultimi. SETIA (Sezze) La leggenda vuole
il mitico Ercole fondatore della città. Questi infatti soggiogata la Spagna
venne in Italia per prosciugare una palude ed edificare città: Hercules devicta
Hispania in Italiam immigravit, desiccatisque palutibus urbes quam plurimas
condidit. E che tale palude fosse quella Pontina si deduce dal fatto che
Ercole compì tale impresa subito dopo avere sconfitto i Lestrigoni, popolo del
basso Lazio. E dalle setole del leone Nemeo (setis Nemeaei leonis) con le
quali l'Eroe era fiero coprirsi si vuole derivato il nome di Setia. In onore
di tale superbo fondatore i Setini eressero un maestoso tempio e vollero che il
simbolo della città fosse per sempre il bianco leone rampante, da Ercole ucciso,
recante tra gli artigli una cornucopia ricolma dei beni della terra e
incorniciato dalla scritta: Setia plena bonis gerit albi signa leonis (Sezze
piena di beni porta le insegne del bianco leone). Ma questa è appunto la
leggenda, in effetti la storia della vera origine di Setia (calcolata nel V
secolo a.C.) è ancora motivo di dibattito tra chi la vuole Volsca per la sua
ubicazione geografica e chi la vuole avamposto latino. Questa seconda ipotesi
sembra in verità più attendibile avendo la città capeggiato nel 340 a.C. la
rivolta delle città latine confederate, rivolta soffocata da Roma nella
battaglia di Trifano. Ricordiamo che già nel lontano 490 a.C. Setia fu
assalita dall'esercito volsco comandato dal patrizio romano ribelle Coriolano
nella guerra che questi aveva scatenato contro la patria. Ricordiamo pure che
in latino il vocabolo "setius" è un avverbio che significa "diversamente";
Setia era quindi una città diversa, ma diversa da chi se non dalle città volsche
che in pratica la circondavano. Assoggettata da Roma, come tutte le città
limitrofe, e divenuta colonia romana nel 382 a.C., Setia fu un importante centro
urbano grazie alla sua posizione strategica e commerciale a ridosso della via
pedemontana e della via Appia, le strade che collegavano la capitale al
meridione. A causa della vicinanza di Roma la città seguì di questa le
alterne vicende, un esempio su tutti: nella guerra tra Mario e Silla i Setini si
schierarono con il primo e vennero duramente puniti dal vincitore Silla con
incendi e saccheggi. Per le sue fortificazioni e per la sua posizione isolata
Setia fu scelta per custodire i prigionieri di guerra e da qui partì nel 198
a.C. (come narra Livio) la rivolta degli schiavi che minacciò la grandezza di
Roma. Nel periodo imperiale Setia era famosa per le sue ville e per i suoi
vini lodati da Marziale, Giovenale e Cicerone. SIGNIA Insediamenti
saltuari sono presenti nel territorio di Segni fin dai tempi più remoti,
addirittura risalenti all'età del bronzo. La vera storia di Segni inizia però in
epoca protoromana, tempi in cui Segni assurse a grande importanza in virtù anche
della sua posizione strategica sulla Valle del fiume Sacco, quindi sulla
direttrice che mette in contatto l'alto Lazio con il basso Lazio e la
Campania. Nel VI° sec. a.C. (precisamente nel 513 a.C.) Tarquinio il Superbo,
uno dei sette Re di Roma, inviò a Segni dei coloni e una guarnigione armata per
proteggere, per via terra, le vie di accesso alla città di Roma. Proprio per
questi fatti, suffragati anche da ritrovamenti archeologici, si dice che Segni
fu fondata da Tarquinio il Superbo. Successivamente (495 a.C.) Sesto
Tarquinio deduce a Segni una seconda colonia. In entrambi i casi, come
consuetudine di quei tempi, una buona dose di coloni romani viene ad insediarsi
nel territorio di Segni. Ma Segni, sin dai primordi, fu una città-stato
autonoma fino al 340 a.C. quando venne conquistata dai Romani che ben presto le
concessero la dignità di Municipio, godendo così di relativa indipendenza, ma
con obblighi di alleanza con la stessa Roma. Infatti nel 493 a.C. i Segnini
furono uno dei popoli sottoscrittori del Foedus Cassianum, patto di alleanza
stipulato tra le città latine e Roma, dopo il termine della battaglia che i
Romani avevano intrattenuto con popoli che si erano ribellati durante il secondo
consolato di Spurio Cassio. In questi tempi Segni era dunque una città tanto
fiorente che, unica in tutto il Lazio, coniava monete d'argento con la scritta
SEIC e addestrava milizie proprie con le quali offriva aiuto a Roma (A tal
proposito sembra che il nome "Segni" derivi proprio dal SEIC suddetto, indicante
il cinghiale, animale sacro per gli antichi abitanti di Segni, anche se altri lo
fanno derivare dalle insegne di Tarquinio il Superbo - SEIGNIA, in latino- o
dalla statua del dio Mercurio -Signinum-, presente nel recto delle monete di
Segni, oppure ancora segno (seignom) distintivo di Segni che, sola fra tante
città latine, coniava moneta) . Signia è governata da quattro pretori, due
per la legislazione e due per il governo effettivo. E' alleata fedele di Roma,
particolarmente nei momenti più difficili, e per questo viene scelta come luogo
di confino dei prigionieri punici durante la guerra contro Annibale di
Cartagine. Durante la battaglia fra Mario il giovane e Silla, i segnini
parteggiarono per il primo: alla sua sconfitta (nella battaglia di Sacriporto,
vicino Piombinara) i segnini ricevettero una cruda rappresaglia da parte di
Silla. Si arriva così all'89 a.C. (guerra marsica), anno in cui Segni
acquisì la condizione di Municipio ed il diritto di fregiarsi della sigla
S.P.Q.S. (Senatus PopulusQue Signinus). Durante l'era repubblicana ed il
successivo periodo imperiale, a Signia viene costruito il foro, i templi al dio
Ercole, alla Bona Dea, vengono innalzati monumenti a varie divinità ed
all'imperatore Marco Aurelio Antonino (detto Caracalla) e vengono costruite
numerose, e lussuose, ville nel circondario. In epoca molto posteriore Segni
subì i gravi disagi conseguenti alla guerra greco-gotica che portò un periodo di
recessione economico-sociale. Tra la fine del sec. VI e l'inizio del
successivo nacque a Segni Vitaliano, Papa dal 657 al 672. Questi cercò un
riavvicinamento con l'Impero Bizantino e con la Chiesa di Costantinopoli, inviò
missionari in Inghilterra e diffuse il canto Gregoriano. In epoca bizantina
Segni ebbe una ripresa economico-sociale. Monumenti E' la volsca Signia,
ed è ancora cinta da mura ciclopiche (sec. VI a. C. ) ben conservate, nelle
quali si aprono alcune porte.
Porta Saracena
Notevoli i resti
delle mura, con la c.d. Porta Saracena, larga in alto m. 1,40 e alla base m. 3,
di forma ogivale con architrave monolitico. Oltre la Porta Saracena sono
presenti altre porte minori, già descritte dai numerosi archeologi che
periodicamente hanno fatto studi su Segni: La "Portelletta", subito sotto il
curvone di Pianillo; Una porta nel tratto intermedio fra la Saracena e la
Portelletta; Una piccola porta, senza architrave, subito sotto la pineta di
Pianillo; La "Porta Santa", subito sotto S.Pietro, dalla caratteristica
arcata ogivale; La "Porta Foca"; La porta in corrispondenza del Ponte
Scarabeo; La porta del Lucino. Altri monumenti degni di nota
sono: Sull'Acropoli i resti di un tempio del III-II sec. a.C. (parzialmente
inglobati nella chiesa di S.Pietro (sec. XIII), che occupa la cella centrale
dell'antico tempio),
Cisterna Romana e la Cisterna Romana,
anticamente utilizzata per il recupero dell'acqua piovana per uso umano, in
mattoni di tufo cementati con l' "Opus Signinum" (tipo particolare di calce,
caratteristica del luogo, famosa nel tempo antico perchè molto resistente ed
impermeabile all'acqua); nel centro storico la Cattedrale, con la facciata
neoclassica progettata dal Valadier. VELITRAE ORIGINI L’origine di
Velletri, così come quello di molte altre città la cui storia "si perde,
nell’oscurità dei tempi, è incerta per cui, in mancanza di testimonianze certe
ed univoche, si è cercato di ricostruirla attraverso "fonti" rilevatosi
successivamente inattendibili e "congetture" che non hanno retto neanche al
primo riscontro. Nessuno degli antichi storici parlano della fondazione di
Velletri, né di quella delle altre città del Lazio; essi si limitano a
ricordarle indirettamente, nelle narrazioni delle gesta romane. C’è chi
ritiene che Velletri sia stata fondata dai Volsci, di cui ne divenne la capitale
e chi sostiene invece che la nostra città nacque etrusca intorno al 700 a.C.,
tanto per citare due tesi del tutto contrastanti quanto puntigliosamente
difese. I Volsci erano un popolo forte e guerriero che verso il VI sec. a.C.
vennero a stabilirsi sui monti Lepini occupando quella vasta zona di territorio
che si estendeva da Segni sino a Sora e Cassino attraverso la valle del Sacco e
da Sezze e Priverno sino a Terracina, Fondi e Formia, attraverso le Paludi
pontine. Più che i fertili campi della Campagna veliterna deve essere stata
l’invidiabile posizione strategica della città ad indurli ad occupare
Velletri. A riprova di ciò Svetonio, ne Le vite dei dodici Cesari, riferisce
che a Velletri si trovava un tempio di Marte, nume tutelare della gente volsca.
Questo tempio era in grande rinomanza presso tutta la nazione, la quale vi
conveniva a sacrificare per la pubblica prosperità e a prendere i presagi. Il
che diede motivo ai poeti di chiamare Velletri Urbs inclyta Martis, celebre
città di Marte. Gli Etruschi, invece, provenivano dall’Etruria da dove si
spinsero verso il Sud per barattare i loro utensili in metallo con quelli di
altre civiltà e lungo il percorso di questa lenta ma costante marcia ad ogni
tappa ponevano la base di una città in cui si soffermavano per qualche tempo.
Possiamo quindi ricostruire l’itinerario del loro avvicinamento al mondo greco
dalle città da essi fondate: Veio a nord del luogo dove qualche secolo dopo
sarebbe sorta Roma, Tivoli su una altura lontana dagli acquitrini paludosi e
malarici, Tusculum, l’attuale Frascati, Praeneste ossia Palestrina, Cori sino a
Capua dove vennero in contatto con i Greci ivi stanziati.
MUNICIPIUM
ROMANUM Con la nascita di Roma la città di Velletri, volsca o etrusca che
fosse, dopo aver resistito per circa due secoli alle forti pressioni
espansionistiche veniva conquistata dai romani. Velletri fu una civitas
opulenta, come lo attestano le sue mura preromanee, le artistiche terrecotte
volsche, preziosi tesori del VI sec. a.C., conservati nel museo di Napoli e in
quello della nostra città. Fiera del suo Senato, della sua forza e della sua
autorità, resistette lungamente contro la prepotenza accentratrice di Roma; e
quando, domata da Furio Camillo, le dovette cedere il passo, essa divenne il più
apprezzato Municipium Romanum. Per la tenace resistenza opposta le sue
fortificazioni vennero rase al suolo ed i suoi cittadini portati a forza a Roma
al di là del Tevere (ossia nell’attuale quartiere di Trastevere) ripopolandosi
la città con coloni per la coltivazione di quelle fertili terre che l’Urbs tanto
aveva desiderato possedere per l’invidiabile posizione strategica della nostra
città.
Pur ultima dopo gli Equi, gli Enrici e gli Aurunci, quindi, anche
a Velletri nel 338 a.C. alla fine di una guerra che Livio definì "eterna" e
Cicerone "gravissima", veniva soggiogata da Roma e finiva così il regno dei
Volsci con il leggendario re Metabo e sua figlia Camilla di cui ci ha lasciato
memoria Virgilio nell’Eneide. Le prime ostitilà sorsero sotto il re Anco
Marzio; conquistata dal console Aulo Virginio, ricevette una colonia romana nel
493 a.C. e un’altra nel 404; poco dopo la Guerra Gallica passò ad una aperta
rivolta contro Roma e venne infine sconfitta sulle sponde dell’Astura nel 338
a.C. Divenne, pertanto, come abbiamo appena ricordato prima una colonia e subito
dopo il più apprezzato Municipium Romanum concorrendo con il valore ed il sangue
dei suoi figli alle vittorie su Pirro e su Annibale. Era inevitabile, però,
che il dominio romano imponesse a Velitrae e ai suoi abitanti la sua religione,
i suoi costumi e la sua lingua facendo a poco a poco perdere memorie di tutto
quello che rimaneva della passata civiltà. Anche se Strabone scrisse: "Quando il
popolo dei Volsci venne assorbito dai Romani, rimase presso questi la loro
lingua, tanto che si rappresentavano in Roma commedie in lingua volsca.
LATINI L'antico Lazio (Latium Vetus) aveva approssimativamente per
confini il Tirreno dalla foce del Tevere ad Anzio e alle alture di Terracina a
Sud, i monti Prenestini e Lepini ad oriente ed il Tevere a Nord. Nell'età
neolitica (2000 a.C.) questo territorio fu occupato da quelle tribù di Italici
che lo abitavano più tardi, nei tempi storici, col nome di Latini, i Prisci
Latini, vigorosa popolazione di pastori e di agricoltori, meravigliosamente
tenace nel mettere a coltura la zona dei colli laziali e quella pianeggiante
acquitrinosa, ricoprendo a poco a poco il paese di villaggi. Più tardi col nome
di Lazio si indicò tutta la regione compresa fra l'Etruria, la Sabina, il Sannio
e la Campania. Così Plinio indica il Lazio originario col nome di Lalium
antiquum o vetus, e distingue nettamente da esso le parti successivamente
aggiunte, in particolare il territorio del Liri, col nome di Latium adiectum .
I Latini, date le condizioni del suolo e la necessità di lavori gravosi che
richiedevano unità di sforzi e cooperazione di molteplici energie, si riuniranno
in villaggi per utilizzare le loro forze collettive e per ragioni di difesa, in
quella pianura aperta da ogni parte ad assalti, a rapine, a saccheggi e di
fronte ai montanari che potevano scendere a razziare dai monti vicini della
Sabina. Da tali condizioni derivarono certamente i forti ordinamenti militari
che si diedero i Latini, sempre pronti a lasciare l'aratro, a interrompere i
lavori del campo per impugnare le armi, come ce li rappresenta la leggenda di
Cincinnato . La comunanza di lingua, di usanze, di civiltà, di pratiche
religiose portava i villaggi laziali a stringere fra loro non tanto leghe
politiche quanto federazioni religiose, per cui si riunivano in alcune feste sui
sacrari laziali a compiere i loro sacrifici. A parte la leggenda secondo cui,
morto Enea, che sarebbe sbarcato a Lavinium (altro centro latino, patria degli
Dei Penati ) il figlio Ascanio avrebbe fondato Albalonga, è certo che tra i
Colli Albani (monte Cavo) si trovava il centro religioso più rinomato, dove era
venerato il dio supremo della stirpe, Iuppiter Latiaris. Sul Monte Cavo,
sotto la direzione di Albalonga, in mezzo al recinto sacro, sull'ara dedicata a
Giove (Aquae Ferentinae ) nella festa annua delle Feriae Latinae si sacrificava
un toro bianco e una parte delle carni del sacrificio era distribuita ai
rappresentanti di tutti gli staterelli che partecipavano alla lega sacra. Una
lista conservataci da Plinio, corrispondente a un momento arcaicissimo, ci fa
conoscere i nomi di trentun comunità latine federate, di cui quasi una metà ci
restano ignoti; gli altri sono: Albani, Accienses, Aefulani, Abolani, Bolani,
Bubentani, Carventani, Cusuetani, Coriolani, Fidenates, Foreti, Hortenses,
Latinienses, Laurentes, Longulani, Manati, Macrales, Mucienses, Numintenses,
Octulani, Olliculani, Pedani, Poletaurini, Papiri, Polluscini, Rutuli, Sanates,
Sasolenses, Sisolenses, Tolirienses, Titienses, Vitellienses, Vimitellari,
Vetulani . Altre fonti fanno ascendere il loro numero a quarantasette,
compresa Roma, sicchè possiamo farci una idea della condizione topografica del
Lazio antico. Roma era destinata a succedere ad Albalonga nella direzione della
lega. Un altro centro latino importante è la città di Tusculum, che la
tradizione vuole che sia stata fondata intorno al 900 a.C. da Telegono, figlio
di Ulisse e di Circe. Fu resa potente dalla Lega Sacrale Albana, prima di cadere
sotto il predominio romano. La derivazione del nome conferma l'antichità
della combattiva città latina. Tusculum, secondo Festo, è in relazione con gli
Etruschi, anche se nella zona non si sono tuttavia trovate tracce di cultura
etrusca. E' invece documentato l'influsso delle antiche pratiche religiose
greche. Giove era comunque la divinità più venerata, come dimostrano i ruderi
del tempio sull'arce, e di due simulacri del dio scoperti nei pressi. Sullo
stesso spiazzo dell'Acropoli sorgeva anche il tempio ai Dioscuri, Castore e
Polluce, distrutto nel medioevo. Tusculum fu sconfitta da Roma al Lago
Regillo intorno al 500 a.C. quando al comando dei Latini era il dittatore
Tuscolano Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio il Superbo. Dopo molti anni,
venne sotratta alla tribù Papiria. Roma soppresse tutte le magistrature
militari e giurisdizionali della città latina e vi lasciò solo quelle incaricate
della polizia e del mercato, ossia gli edili. Ben presto Tusculum cominciò a
destare l'interesse dei ceti più rappresentativi ed autorevoli del popolo romano
(la Mamilia, la Porcia, la Fulvia, la Fonteia e la Corumcaria). Molti nobili vi
possedevano lussuose ville data l'amenità del luogo e l'abbondanza dell'acqua,
tra cui si ricorda una villa di Tiberio e di Cicerone. I Latini stipularono
con Roma un trattato di pace, il Foedus Cassianum (493 a.C.), un’ alleanza
difensiva e offensiva. Insieme, infatti, Latini e Romani riuscirono a
assicurarsi il controllo del Lazio, vincendo Equi e Volsci. Altri centri
latini importanti sono: Aricia, che vide la sconfitta degli Etruschi di Porsenna
ad opera dei Latini e dei Cumani; Lavinium , dove sbarcò Enea e luogo erede
della mitica Laurentum, centro religioso famosissimo della tribù dei Laurentes;
Horta (Orte); Tibur (Tivoli); Lanuvium e Velitrae, centri collinari posti nelle
vicinanze del Nemus Dianae (Nemi); Ardea, capitale dei Rutuli; Antium e
Satricum, centri marittimi; Circeii e Tarracina; Cora (Cori), Norba (Norma) e
Signia (Segni) al confine con gli Ernici. Vi sono poi insediamenti
pre-latini: Collatia (Castelverde); Gabii, luogo sacro; Praeneste (Palestrina),
nota per le sue tombe; Nomentum, Fidenae, Ficulea (sulla via Nomentana),
Bovillae, Aefula, Pometia, Tellanae, Caenina, Corniculum, Medullia, Ameriola,
Ficana, Anagnia, Setia (Sezze) . Dopo il 340 a.C. il vecchio trattato di
pace fu sostituito con alleanze bilaterali tra Roma e singole comunità. Roma
consolidò il suo controllo sul Lazio e la maggior parte delle città latine fu
incorporata nello stato romano: Tuscolo, Ariccia e Castri Moenium (Marino)
divennero Municipi. L’antico Latium era collegato con Roma attraverso la Via
Castrimeniense e la Via Albana. Nel 312 a.C., sul tracciato della via Albana, fu
iniziata la costruzione della Via Appia, che garantiva un comodo e rapido
collegamento da Roma fino a Brindisi. ROMA e le LEGGENDE Numerose
sono le leggende che legano Roma con i Latini. Una prima leggenda si
richiama al mito degli Oriazi e Curiazi, secondo la quale l'esito della guerra
tra i due popoli venne deciso dal duello tra sei gemelli (tre per parte) che
rappresentavano i due popoli. Alla fine vinsero gli Oriazi: dopo un duello solo
un Orazi sopravvisse contro tre Curiazi. Il primo però tramite uno stratagemma,
iniziò a correre, e ad uno ad uno uccise i tre gemelli. Così Roma ottenne
l'indipendenza dai Latini. ENEA, leggendario eroe, figlio del troiano
Anchise e della dea Venere, fuggì dalla città di Troia in fiamme dopo che venne
occupata dagli Achei. Dopo varie peregrinazioni giunse via mare nel Lazio come
gli era stato predetto dalle divinità. Qui, sconfitto Turno, re dei Rutuli,
tribù latina, sposò la figlia del re, Lavinia, e divenne il progenitore della
famiglia Giulia, cui appartenevano Cesare, Augusto ed altri imperatori
successivi. Il figlio di Enea, Iulo, infatti fondò Albalonga, città d'origine
dei due gemelli Romolo e Remo. La leggenda tramanda che il dio Marte aveva
posseduto con la forza Rea Silvia, in un bosco sacro dove era andata a prendere
dell'acqua; con la forza, perché come vestale aveva l'obbligo di rimanere
vergine. Nacquero dei gemelli, Romolo e Remo, che il re di Albalonga Amulio, che
aveva spodestato il fratello Numitore, padre di Rea Silvia, ordinò di uccidere.
Ma i servi ebbero pietà dei bambini, li misero in una cesta e li abbandonarono
alla corrente del fiume Tevere. Il fiume in piena trascinò la cesta fino a una
grotta collocata alla base del Palatino, detta Lupercale perché sacra a Marte e
a Fauno Luperco. Qui i gemelli furono allattati da una lupa e poi allevati dal
pastore Faustolo e da sua moglie, Acca Larenzia, nella loro capanna situata
sulla sommità del Palatino, nella zona del colle chiamata Cermalo (o Germano,
che significa "gemello"). Dopo un'adolescenza libera, e un po' selvaggia, una
volta diventati grandi e venuti a conoscenza delle loro origini, i gemelli
andarono ad Albalonga, uccisero re Amulio e rimisero sul trono il nonno
Numitore. Numitore diede loro il premesso di fondare una città, e subito i due
cominciarono a litigare sul luogo dove costruirla: Romolo preferiva il Palatino,
Remo l'Aventino. Alla fine Romolo ebbe la meglio e scelse il Palatino dove
costruì le mura della città: Roma. Remo però scavalcò le mura con lo scopo
di annullarne l'inviolabilità. E sulle mura Romolo l'uccise. Tale leggenda è
stata redatta dai romani che volevano dare una sacralità alla loro stirpe e
quale idea migliore che discendere da Enea, l'eroe troiano. Ancora una
leggenda: i Dioscuri, personaggi legati al mondo della mitologia antica, erano
due fratelli gemelli di nome Castore e Polluce, figli di Zeus. Il loro culto è
originario della Grecia, ma si diffuse rapidamente anche in Italia. I due
fratelli erano intervenuti in aiuto di Roma durante la battaglia del lago
Regillo contro la Lega Latina, nel 496 a.c. In ricordo di questo avvenimento
venne edificato un tempio, a loro dedicato, nel Foro Romano. Le città
latine: ALBA POMPEIA
La luminosa immagine che il Theatrum Sabuadiae
offre della città di Alba, così come appariva verso la metà del Seicento,
fornisce una testimonianza preziosa dell’assetto urbano che si era andato
delineando nel corso dei secoli e che si è conservato sostanzialmente integro.
Nel triangolo formato dalla confluenza del torrente Cherasca nel fiume Tanaro,
ai piedi delle colline che si sviluppano verso Sud - Est dando vita al
territorio della Bassa Langa, l’antico impianto urbano di Alba vi appare infatti
chiaramente delineato dal sistema medioevale di mura di difesa. Se su questa
immagine seicentesca se ne sovrapponesse un’altra dei nostri giorni, si
osserverebbe che gli elementi non coincidenti sono veramente pochi. Ancora oggi
il centro storico di Alba appare delimitato entro un tracciato a forma di
esagono irregolare e con gli angoli smussati. I lati di questo grande esagono,
che seguono appunto il tracciato delle mura medioevali, sono oggi costituiti da
una serie di corsi - Giacomo Matteotti, Nino Bixio, Michele Coppino e Fratelli
Bandiera - in gran parte alberati, che formano una sorta di “anello verde”
attorno al nucleo centrale della città. All’interno di questa area, dove si
trovano i monumenti più antichi e più importanti di Alba, è ancora possibile
individuare le tracce dell’organizzazione urbanistica romana, con i due assi
viari perpendicolari principali costituiti dalle attuali via Vittorio Emanuele
II - via Vernazza e corso Cavour - via Vida. Città antica, Alba, lo rivela la
struttura ancora medioevale del suo centro storico e dei suoi portici. Lo palesa
la suggestione delle sue numerose torri e case - torri, elementi superstiti di
un sistema urbano di potere delle grandi famiglie, un sistema che in passato
poteva contare su un numero incredibile di alte e potenti strutture di difesa. E
non è forse un caso che Alba sia anche detta la “Città dalle cento torri”.
Tuttavia, la storia di Alba è ben più antica di quella che oggi appare dalle
presenze medioevali. I primi insediamenti umani nel suo territorio risalgono
sicuramente alla preistoria, come testimoniano i numerosi reperti archeologici
rinvenuti in epoche diverse in varie zone dell’area urbana, e soprattutto in
Borgo Piave e sulla sponda sinistra del Cherasca a breve distanza dalla
confluenza del torrente nel Tanaro. Una grande quantità di materiale
archeologico - e di particolare interesse è il gruppo di circa 500 “accette” in
pietra - in una stratificazione che si estende dall’età neolitica all’età del
ferro. Il primo abitato venne probabilmente fondato da tribù dei Liguri
Stazielli e già sul finire del V secolo a.C. aveva visto l’invasione di Galli. I
Romani lo conquistarono con le loro legioni nel 100 a.C. e, pochi anni dopo,
eretta in municipium e ottenuta la cittadinanza romana, la città si chiamò Alba
Pompeia, in onore del console Gneo Pompeo Strabone che, nell’89 a.C., era stato
promotore della relativa legge, venne ascritta alla tribù Camilia e inserita
nella IX Regione. All’interno del vastissimo Impero Romano, Alba e i suoi
abitanti ebbero un ruolo certamente non secondario se si tiene presente che la
città fu patria di un Imperatore, Publio Elvio Pertinace. Agli albori del
cristianesimo, già verso la metà del III secolo, Alba e il suo territorio
registrano le missioni di apostolato e conversione dei pagani di San Dalmazzo e
San Frontiniano, mentre la città divenne sede vescovile sicuramente a partire
dal IV secolo. Eletta a Contea in epoca carolingia, Alba vide le devastazioni di
bande di “saraceni” nel IX secolo, mentre due secoli dopo si costituì in libero
Comune, spesso in lotta con altri potenti vicini e, in particolare, con Asti. In
breve, i secoli successivi registrano la sottomissione a Carlo d’Angiò (1259),
il passaggio ai Marchesi del Monferrato (1283), ai Visconti (1347) e quindi ai
Gonzaga sino al 1631 quando, con il trattato di Cherasco, Alba e il suo
territorio passarono ai Savoia seguendone le vicende storiche. Di particolare
rilievo storico e civile è da ricordare, all’interno della lotta di resistenza
al nazi - fascismo - e, ad Alba, venne conferita la medaglia d’oro al Valor
Militare -, la proclamazione della “Libera Repubblica di Alba” durata dal 10
ottobre al 2 novembre 1944. Torri e case - torri, campanili, chiese, edifici
pubblici e privati edificati a partire dal medioevo e sino al periodo liberty,
caratterizzano l’area del centro storico di Alba, dove si concentra anche la
vita civile e sociale degli albesi. Con alcune vie e piazze privilegiate, come
via Vittorio Emanuele II che gli albesi preferiscono chiamare con l’antica
denominazione di “via Maestra”, ricca di edifici medioevali e rinascimentali, di
chiese, di esercizi commerciali, bar e negozi eleganti e raffinati. E, ancora,
corso Cavour, con le sue presenze storico - artistiche, i portici antichi e la
forte memoria complessiva di suggestivi ambienti
medioevali. ANTEMNAE
Antemnae era un'antica città del Lazio la cui
storia si lega ad episodi leggendari, come il fatto che fosse stata già
conquistata da Romolo e che alcuni episodi la legano al famoso ratto delle
Sabine. Dell'antico sito laziale non ci rimane nulla, ma sappiamo che il
toponimo deriva, secondo Varrone, dalla sua posizione posta davanti all'Aniene
(ante amnem = davanti al fiume). Nel 1878 fu costruito il Forte
distruggendo un antico abitato del latius vetus. Durante i lavori furono
scoperti numerosi reperti databili dal VII al V sec. a.C. ANTIUM Secondo
lo storico Xenagora Anzio fu fondata da Anteo, figlio di Ulisse e della maga
Circe, mentre un'altra leggenda del ciclo troiano attribuisce alla città un
diverso fondatore: Ascanio, figlio di Enea. Anche se la scoperta di reperti
archeologici risalenti all'età della pietra testimoniano la presenza dell'uomo
fin da quella lontana epoca, certo è che le fonti storiche hanno accertato la
fondazione della città vera e propria, chiamata Antium, durante la civiltà
laziale, agli inizi del primo millennio a.C. Addossata a quel promontorio che
interrompe il piatto scorrere della costa laziale, agli inizi del primo
millennio a sud di Roma, dalla foce del Tevere fino al Circeo, Anzio deve a tale
favorevole posizione la propria origine ed il proprio straordinario sviluppo.
L'Antium latina, fiorente centro commerciale e punto di partenza di scorrerie
piratesche in tutto il Mediterraneo, ebbe nel suo porto, chiamato "Caenon", la
fonte della sua potenza. Occupata dai Volsci intorno all'anno 490 a.C.
divenne fiera avversaria di Roma; si pose alla guida di altre città divenute
volsche e iniziò un lungo periodo di belligeranza, caratterizzato da numerosi
episodi tra i quali il più noto è quello del patrizio Coriolano che, esiliato in
Anzio e divenuto comandante delle truppe volsche, giunse a minacciare la
sicurezza di Roma. La lunga guerra si concluse solo nel 338 a.C. con la
distruzione della città ad opera delle legioni del console Marco Furio Camillo.
I romani ornarono con i rostri strappati alle navi anziati la tribuna del Foro
da cui si tenevano i comizi e che da allora fu detta "tribuna
rostrata" . Colonia romana dal 338 a.C. fu partigiana di Cornelio Silla
durante la guerra civile e per tale ragione fu distrutta dalle truppe di Caio
Mario nell' 87 a.C. Sul finire dell'età repubblicana Anzio conobbe un
periodo di vero splendore diventando il luogo di villeggiatura preferito
dai ricchi patrizi di Roma: templi, circhi e palazzi abbellirono la città
mentre lungo la costa si edificarono le ville dei più importanti personaggi del
tempo: Marco Tullio Cicerone, Mecenate, Caio Lucrezio e Cesare Augusto.
Un braccio del Porto neroniano
La
biblioteca di Domiziano
In età imperiale soggiornarono ad Anzio tutti
gli imperatori: Augusto vi fu proclamato Padre della Patria, Caligola, che ne
voleva fare la capitale dell'impero, Adriano, che la descriveva come uno dei
luoghi più belli d'Italia ma fu Nerone, che ad Anzio nacque, ad edificarvi il
porto, mirabile esempio di ingegneria marittima ed ad abbellire la reggia e la
città di marmi e statue famose oggi esposte nei più grandi musei del mondo, come
la Fanciulla d'Anzio (Museo nazionale) il Gladiatore Borghese (Louvre) e
l'Apollo del Belvedere (Musei Vaticani). La decadenza dell'impero romano fu
condivisa dalla città che, soggetta alle invasioni ed ai saccheggi dei barbari
prima e dei saraceni poi, fu abbandonata dalla popolazione che fondò la vicina
città di Nettuno.
VILLA IMPERIALE DI NERONE TEMPLI DI
CULTO PRECRISTIANO
Teatro Romano Il teatro misura 30 m. di diametro,
possiede una cavea suddivisa in 11 cunei o settori radiali, tagliati a metà da
un corridoio coperto ed ornato da lesene intervallate. Tre accessi, costituiti
da un fornice centrale e due laterali assicuravano alla cavea un ottimale
accesso e una razionale distribuzione degli spettatori nei vari settori. Mentre
le gratinate sono andate distrutte, a stento si può riconoscere l’ubicazione
della orchestra che aveva un diametro di circa 10m. La scena che chiude il
semicerchio della cavea era articolata da quattro grossi corpi in muratura che,
simmetricamente creavano rientranze e sporgenze, luci ed ombre. Ai piedi del
palco della scena, due corridoi permettevano il passaggio degli attori, dei
fondali, delle scene.
Alle spalle dell'edificio che chiude la scena,
erano ubicati dei piccoli cubicoli con volta a botte e completamente rivestiti
in marmo bianco, da interpretarsi, vuoi per le loro proporzioni che per la loro
ubicazione come i camerini degli attori. La facciata esterna della scena era
abbellita da un colonnato che sorreggeva un lungo portico che sopravanzava la
scena stessa. Tutto il restante prospetto esterno del teatro era ornato da una
serie continua di fornici a tutto sesto sostenuti da pilastri ornati da mezze
colonne. Sia i pilastri che le semicolonne erano state realizzate in laterizio:
questa cortina laterizia mostra una estrema maestria nell’esecuzione, sia nella
regolarità dei giunti che nella costante ripetizione del modulo costruttivo e,
soprattutto, nel taglio e nella levigatura dei mattoncini che formano le
semicolonne. I fori regolari di grappe, però, ci documentano che nonostante
tanta precisione anche il prospetto esterno era rivestito di lastre di marmo.
L'intera fabbrica del teatro, mossa dalle innumerevoli arcate e scintillanti
marmi bianchi, era sollevata ed esaltata, per contrasto, su di un alto zoccolo
di grossi parallelepipedi di pietra vulcanica che a guisa di podio assicurava
oltre ad un sicuro effetto cromatico, anche un solido espediente
statico.
Il portico, costruito cioè dietro la scena, contava in origine
ben 18 colonne. Successivamente le due ultime colonne di ogni lato furono
inglobate in due piccoli vani riducendosi così il numero a 14. Delle colonne
ancora oggi sono ben visibili alcune basi. Le grigie colonne, che erano state
fatte con la stessa pietra vulcanica del basso podio, che rimanevano di fronte,
probabilmente non erano stuccate come succedeva spesso nel mondo antico si
operava con materiale poco pregiato, proprio per accentuare in questo caso
l’effetto cromatico di cui abbiamo accennato prima. Se furono stuccate invece,
quasi sicuramente furono dipinte a finto marmo scuro, simile alla pietra grigia
dello zoccolo su cui poggiava l'intera fabbrica e lo stesso portico. Questo
porticato sappiamo che era esplicitamente destinato a riparare gli spettatori in
caso di pioggia repentina o per offrire loro un luogo ombreggiato durante i
calori estivi, o comunque luogo di passaggio e di conversazione. Attraverso lo
studio delle murature data la costruzione dell’edificio alla metà del primo
secolo d.C. mentre gli ambienti aggiunti ed alcuni piccoli rifacimenti noi
possiamo datarli tra la fine del I sec. o al massimo del primo decennio del II
sec. d.C. Le dimensioni piuttosto ridotte e la ricchezza dei marmi ne fanno un
teatro forse poco popolare, ma destinato dalla famiglia imperiale giulio-claudia
che lo fece costruire per quella società elegante e raffinata che affollava,
soprattutto nei mesi estivi, la città di Antium. ANXUR - TERRACINA Grazie
alla posizione strategica situata su uno sperone roccioso, attirò le popolazioni
dei Tirreni (Ausoni e Aurunci) (1000 a.C.), ceppo di origine indoeuropea che si
stabilirono in questa zona dopo un vagabondare attraverso l’Italia. Essi si
organizzarono per villaggi, sparsi sulle colline, per resistere alle incursioni
esterne Erano strutture fortificate, realizzate con pietra e situate in
posizioni dominanti. Il primo vero e proprio agglomerato urbano si creò
sotto la dominazione etrusca (700-600 a.C.) e da questi probabilmente ereditò il
nome attuale: prima TARRAKINA , poi TARRACINAE, TARRICINA, ed infine TERRACINA .
Con la decadenza etrusca, conquistata dai Volsci nel V° secolo a.C., la
città si chiamò ANXUR . I Volsci dettero, oltre al nome, la struttura
della città. Furono i più accaniti oppositori dell’espansione romana a Sud del
Tevere. Dopo aspre guerre, i Romani conquistarono tutta la Pianura Pontina
fino a Terracina (Anxur) nel 406 a.C. Ma dovettero passare altre tragedie e
ribellioni prima che si stendesse la efficiente "pax romana" e nel 329 a. C.
divenne una colonia marittima di diritto romano. Nel 312 a.C. il Censore
Appio Claudio conduce attraverso Terracina una via (l’Appia) che doveva
collegare Roma con Capua e in seguito essere prolungata fino a Brindisi.
Sono ancora visibili i resti della costruzione dell’Appia Antica in opera
quadrata, tratti di basolato nero, qualche metro di antico marciapiede e resti
di tombe. Dovrebbero risalire a quest’epoca le più antiche e imponenti
strutture murarie in "opus poligonali" di Monticchio e Salissano.
L’epoca di Silla (I° secolo a.C.) coincide con uno sviluppo notevole
della vita cittadina e Terracina raggiunge il suo massimo splendore edilizio
(come mostrano le testimonianze archeologiche). In questo periodo cambia la
fisionomia urbanistica del centro alto: l’impianto del Foro Emiliano, i
terrazzamenti sostruttivi a livelli graduali decrescenti verso la città bassa e
l’impianto del Foro Severiano, in pianura. Di Traiano (40 a. C.) risultano
la sistemazione del porto e il taglio di Pisco Montano, che doveva cambiare il
percorso dell’Appia, aggirando il monte anziché scavalcarlo come aveva voluto
Appio Claudio. Con la modifica del tracciato dell’Appia e la costruzione
del porto, Terracina raggiunse il massimo sviluppo urbanistico e demografico.
La caduta dell’Impero Romano d’Occidente, (476) segnò la decadenza
di Roma e di Terracina. TEMPIO DI GIOVE ANXUR Sull'alto del Monte S.
Angelo , l'antico mons Neptunius, a più che 200 metri sul mare, sorse -forse sin
dal IV secolo a. C.- un tempio a Juppiter Anxurus, o Giove fanciullo. Il
tempio che oggi conosciamo è quello in opera incerta, dell'età di Silla: alla
quale età si attribuisce anche la fortificazione dell'acropoli ultima della
città. Volendosi far vedere il tempio non solo dal mare aperto, ma dalla stessa
spiaggia, fu alzata sul ciglio del monte, su una fronte di sessanta metri
rivolta a sud-ovest,
una imponente terrazza di sostruzione, con dodici
poderose arcate, impostate su massicci pilastri e comunicanti fra loro per mezzo
di aperture centinate, praticate nei muri radiali. Contro la parete di fondo
della cella è un basamento per la statua di Giove Anxur. All'esterno del
tempio, sul fianco orientale è l'oracolo: una specie di basamento quadrilatero
attorno a una eminenza della roccia, nel centro del quale basamento, in alto, è
un foro comunicante con una caverna accessibile ai soli ministri del tempio, e
da cui i sacerdoti potevano emettere le risposte oracolari ai quesiti dei
fedeli. Innanzi e a sud-est del pronao del tempio sarebbe l'ara per i
sacrifici.
A levante del grande tempio è il cosiddetto Piccolo tempio,
che verisimilmente era adibito a uso civile. Analogo è il sistema di sostruzione
ad archi impostati su pilastri: questi archi erano in origine 9; ai due estremi
erano due avancorpi con cisterne. La muratura ad elementi poco meno che informi
e legati da malta assai abbondante fa pensare ad un'età di costruzione alquanto
anteriore a quella del grande tempio. Più che un'opera incerta noi abbiamo qui
una struttura più affine all'opera cementizia. ARDEA
L’origine
dell’antica città di Ardea è anche narrata da alcuni famosissimi miti. La
più nota è la leggenda di Danae che, chiusa in una cassa con il figlioletto
Perseo da suo padre Acrisio, approdò sulle coste laziali. Acrisio aveva
interrogato un oracolo per sapere se mai avesse potuto avere un figlio maschio.
Quello gli annunciò che non lui, ma sua figlia Danae avrebbe avuto un bambino:
Perseo e che pero proprio da quest’ultimo egli sarebbe stato ucciso. Per
evitare che la profezia si avverasse, Acrisio fece costruire una camera di
bronzo sotterranea dove rinchiuse sua figlia, tenendola ben custodita. Ma
proprio lì la raggiunse Giove che la sedusse penetrando sotto forma di pioggia
d’oro da una fenditura del tetto. Quando nacque Perseo Acrisio non volle
credere che egli avesse origine divina e mise sua figlia con il neonato in una
cassa che affidò alle onde del mare. Secondo la mitologia romana Danae e suo
figlio, giunti sulle coste del Lazio, finirono nelle reti di alcuni pescatori e
furono portati da re Pilumno. Questi la sposò ed insieme fondarono la città di
Ardea. Turno, re dei Rutuli, sarebbe stato il discendente di questa
stirpe. Un’altra leggenda ardeatina è quella così narrata da Ovidio nel XIV°
Libro delle Metamorfosi, nella quale l’airone (simbolo di Ardea) rinasce dalle
ceneri della città bruciata dai Troiani vincitori dopo il duello tra Enea e
Turno. Secondo Dionigi di Alicarnasso, infine, la fondazione di Ardea sarebbe
da attribuire all’eroe Ardeias, figlio di Ulisse e Circe, dal quale avrebbe
anche preso nome la città. Il territorio Ardeatino, ricco di corsi d'acqua,
sorgenti (anche minerali), boschi, macchie e foreste di alberi giganteschi,
offrì all'uomo primitivo un ambiente favorevole alla vita e alla sopravvivenza.
Una grossa amigdala (strumento di selce a forma di madorla), conservata nel
Museo Civico di Albano, testimonia la presenza dell'uomo ad Ardea sin dalla
penultima glaciazione, oltre 100.000 anni fa. Dopo l'estinzione dei
"neanderthaliani", avvenuta circa 35000 anni fa, scarse tracce si sono trovate
relative all'età mesolitica e neolitica (homo sapiens). Sono invece molte le
testimonianze dell'età eneolitica (2500-1700 a.c.) quando l'uomo, oltre la
pietra, cominciò a lavorare il primo metallo: il rame. Nel territorio Ardeatino
le genti eneolitiche erano organizzate in piccoli gruppi seminomadi.
I Rutuli
Gli antichi ricollegavano l'origine etnica dei
Rutuli con il popolo Etrusco: Rutulus (che significa rosso) è un nome etrusco e
Turno, il mitico re di Ardea, era reso in greco con Tyrrenos. Per l'affinità
della loro lingua con quella parlata a nord del tevere, furono anch'essi
ritenuti Tirreni, vale a dire Etruschi. Massimo Pallottino, invece,
considera i Rutuli un popolo di stirpe latina e attribuisce il particolare
legame con gli Etruschi alla forte influenza etrusca in quest'area del Lazio
antico, anche perché la pianura costiera dove si trova Ardea, chiusa a sud dai
monti e dalle paludi, si apriva invece a nord verso le distese pianeggianti
dell'etruria meridionale marittima. Nell'XI secolo a.c., gli insediamenti sul
territorio erano formati da villaggi sui pianori, poco distanti l'uno dagli
altri. I villaggi erano composti da piccoli gruppi di capanne, a pianta ovale o
circolare, con una struttura di pali di legno, tetto di paglia e pareti di rami
o canne ricoperte da un intonaco di argilla. La posizione geografica di Ardea,
tra la valle del Tevere e quella dell'Astura, a metà strada tra Ostia e Anzio,
consentì ai Rutuli di controllare le vie del traffico e di inserirsi nella fitta
rete di scambi commerciali e culturali che avvenivano tra l'Etruria e la
Campania, tra la costa e l'entroterra laziale. Sempre sul litorale Ardeatino gli
antichi ricordano l'esistenza del celebre Afrodisium (un santuario cosmopolita
dedicato a Venere) come uno dei più grandi empori commerciali della costa
laziale, punto di contatto tra il mondo greco e il mondo latino. Ardea
diventa il centro sociale, politico e religioso che comunica direttamente con il
mare mediante l’ultimo tratto dei due corsi d’acqua che delimitano i pianori
tufacei sui quali sorge. Ha uno scalo marittimo (Castrum Invii), legato ai più
antichi commerci delle coste laziali, che la pone al centro della via di
comunicazione tra il mondo etrusco e quello greco.
La società urbana dei
Rutuli
Questa situazione rese possibile, ad Ardea, un processo di grandi
trasformazioni economiche, sociali e culturali che culminerà, nel VII secolo
a.c. con la formazione della città e con la definitiva organizzazione della
società urbana. L'aumento demografico della popolazione ardeatina incrementò
l'ulteriore sviluppo del commercio, dell'artigianato locale e dell'agricoltura
con il dissodamento e la bonifica dei terreni incolti. Si fabbricano asce, armi
(tra cui le famose spade ardeatine di grande perfezione tecnica, oggetti di
ornamento personale come fibule, anelli, braccialetti, collane). Nella
lavorazione della ceramica viene usato il tornio per una produzione non più solo
familiare. Il processo di urbanizzazione ha fatto di Ardea uno degli esempi più
noti e citati di città arcaica per la sua posizione strategica, il suo impianto
urbanistico, il suo imponente sistema di triplici fortificazioni. Nel VI-V
secolo, Ardea aveva una superficie urbana di 40 ettari, un territorio di 198,5
Kmq (quattro volte quello attuale), una popolazione complessiva presunta di
oltre 8000 abitanti. La grandiosità dei templi arcaici e degli altri monumenti
pubblici dell'Acropoli e della Civitavecchia sono la manifestazione della
"fortuna" di Ardea come centro politico, economico e religioso dei Rutuli: "il
popolo che in quella età e in quella regione era il più potente per le sue
ricchezze".
Ardea contro Roma
Tito Livio racconta che, per
impadronirsi del territorio e delle ricchezze dei Rutuli, i Romani attaccarono
Ardea durante il regno di Tarquinio il Superbo. I Rutuli respinsero l'assalto
dei Romani e, dopo la caduta della monarchia a Roma, con la cacciata di
Tarquinio, la guerra si concluse con un trattato di pace. Per rinforzare la
città e difenderla dai Volsci, nel 442 a.c., una colonia di Latini si insedia ad
Ardea. Nel IV secolo a.c., sempre secondo Tito Livio, la città venne assediata
dai Galli, che nel frattempo avevano occupato Roma. Dopo aver sconfitto i Galli
sotto le mura della città, i Rutuli, guidati da Furio Camillo, liberano Roma
dall'occupazione Gallica. Nel secondo trattato romano-cartaginese del 348 a.c.,
Ardea è nominata tra le città alleate dei Romani. Nel III secolo a.c., durante
la seconda guerra punica, Ardea era una delle dodici colonie che rifiutarono ai
Romani gli aiuti militari. In età imperiale una nuova colonizzazione si insediò
ad Ardea in conseguenza delle vicende storiche ed economiche dell'Impero
Romano. Venne costruita dai Rutuli la rete di cunicolo che attraversa
praticamente tutta Ardea, questo per aumentare la superficie coltivabile, questa
rete aveva lo scopo di incanalare le acque degli scoli superficiali per
scaricarle nelle valli sottostanti e inoltre venne utilizzata come camminamenti
militari per sorprendere alle spalle i nemici o per andare ad attingere acqua
durante i lunghi assedi.
I Monumenti
Il Tempio
dell'Acropoli
Il tempio arcaico dell'Acropoli, per la sua posizione
eminente e le sue dimensioni gigantesche (mt. 33,40 x 21,70) è stato considerato
da alcuni archeologi come quello dedicato a Giunone Regina. Le numerose
terrecotte architettoniche che decoravano il tempio, attestano la vita
ininterrotta del santuario per oltre 600 anni a partire dal VI secolo a.c.
L'altro tempio dell'Acropoli, costruito in età ellenistica, si trova nell'area
dove attualmente c'è la chiesa di S. Pietro.
Il Tempio della
Civitavecchia, la Basilica ed il Foro Ardeatino
Nella Civitavecchia (in
località Casalinaccio) si conservano i resti di un altro tempio del VI secolo
a.c., in connessione con una basilica del I secolo a.c.. Gli scavi del tempio,
avvenuti negli anni trenta, riportarono alla luce il podio del santuario (alto
mt. 1,80) costituito da tre filari di blocchi di tufo mondanati poggianti
direttamente sulla roccia. La basilica, una delle più antiche in Italia, venne
costruita intorno al 100 a.c. per accogliere la gran massa di gente che si
recava al tempio.
Area Sacra del Colle della Noce
L'individuazione
dell'area sacra del Colle della Noce, non è stata una scoperta casuale, ma il
risultato di studi e ricerche sistematiche per redigere la carta archeologica di
Ardea. L'arco di vita del tempio va dal VI alla prima metà del I sec. a.C.;
era diviso in otto parti: il pronao o parte anteriore (pars antica) con otto
colonne su due file; la parte posteriore (pars postica), formata da una cella
centrale e due laterali, sembra fosse destinata ad accogliere i simulacri delle
divinità . Costruito con mattoni, aveva un'intelaiatura a legno e delle colonne
lignee per sorreggere le coperture a debole pendenza con gronde assai sporgenti;
era riccamente ornato con lastre di terracotta a colori vivaci (generalmente
tre: rosso, nero e bianco avorio) e con elementi decorativi che evidenziano la
stessa matrice d'origine dei materiali fittili negli altri due templi
ardeatini. Sotto il piano di calpestio del tempio, al centro del perimetro,
sono emerse delle tracce di fori di pali e canalette di scolo per l'acqua,
appartenenti a fondi di due capanne dell'età del ferro. Una delle capanne,
sorgeva sul punto più elevato, esattamente al centro della collinetta del Colle
della Noce, con l'ingresso rivolto ad est. Il santuario presenta lo stesso
orientamento delle due capanne e queste, ne costituiscono l'asse geometrico,
essendo poste esattamente al centro dell'edificio. Si sono rinvenute, infine,
numerose tracce attribuibili ad almeno altre quattro capanne. La vita del
tempio è testimoniata dallo studio dei reperti ritrovati all'interno dei cavi di
fondazione ed in un ambiente ipogeo affiancato allo stesso: deposito di
materiale decorativo e fittile in disuso. I ritrovamenti hanno permesso così
l'individuazione dei secoli di vita del tempio, ma non quella cronologica dei
vari rifacimenti ed ampliamenti. ARICIA La fondazione della città,
avvenuta secondo la tradizione per opera di Archiloco Siculo, risale a ben 14
secoli a.C. Secondo quanto testimoniano i numerosissimi resti, la città era
posta all'interno della conca craterica della Valle Ariccia. Questa comunità fu
tra i protagonisti più attivi, prima della Lega Albana, poi di quella Latina.
Porta RomanaIn seguito l'insediamento si spostò sui colli sovrastanti e
s'inserì nella vita romana ottenendo la piena municipalità. Per certo fu da
questo periodo che si stabilì quello stretto rapporto tra l'insediamento e la
Via Appia, che ha costituito uno degli elementi determinanti in tutte le vicende
successive della città.
In proposito è significativa la sua funzione di
prima stazione di posta lungo la Via Appia, a partire da Roma. In età imperiale,
venne costituendosi, al di qua ed al di là dell'Appia, una grande città, ricca
di templi, terme, fori ed edifici pubblici, il cui territorio, esteso fino al
Tempio di Diana Nemorense, sulle rive del Lago di Nemi, si riempì di sontuose
ville, delle quali ancora oggi esistono numerosi resti (ricordiamo la villa di
Vitellio). La decadenza di Ariccia cominciò con le invasioni barbariche, e fu
facilitata dalla stessa posizione della città, la quale, trovandosi sopra una
grande via militare, fu esposta prima alle scorrerie dei Goti, poi a quelle dei
Vandali, ed infine a quelle dei Saraceni, che nell'827 la distrussero. Gli
abitanti superstiti trovarono rifugio sul colle dove era posta l’'Acropoli
dell'antica città romana e vi formarono una nuova comunità. Le prime notizie del
Castrum o Castellanum Ariciensis riferiscono che nel 990 era dominio di Guido,
"dux" della potente Famiglia Tuscolana. Villa di Vitellio La
Battaglia di Ariccia Venticinque secoli fa: Iniziata la battaglia, gli
Etruschi si erano lanciati all'attacco con tanta foga, che sbaragliarono col
solo urto gli Aricini: le coorti cumane opponendo l'astuzia alla violenza,
ripiegarono un poco, e quando i nemici le ebbero superate, operata una
conversione li assalirono, sbandati com'erano, alle spalle. Così, presi in
mezzo, gli Etruschi già quasi vincitori furono sbaragliati ... (Tito Livio -
Storia di Roma). Questo è quanto è giunto fino a noi della storica battaglia
del 506 a.C., in cui gli Aricini, alleati dei Cumani, affrontarono e vinsero gli
Etruschi capeggiati da Arunte figlio di Porsenna.
Gli studiosi hanno
analizzato la caduta di Tarquinio il Superbo (510 a.C e quindi del dominio dei
re etruschi su Roma), che causò la discesa di Porsenna e di suo figlio Arunte,
che muoverà col suo esercito contro Aricia, città a capo della Lega Latina.
Hanno discusso della politica del cumano Aristodemo (filo-popolare e
anti-oligarchica) ed ha ipotizzato che tali idee politiche da Cuma siano
penetrate a Roma, dando vita a quella grande rivoluzione culturale che fu la
Repubblica romana: i fatti di Ariccia vanno letti in chiave simbolica; la
sconfitta degli etruschi rappresenta l'allontanarsi dal mondo romano del modello
etrusco (legato alla monarchia) e l'adozione di quello greco che proponeva una
politica nuova e democratica. Infatti Roma fu influenzata nelle espressioni
artistiche e religiose con l'entrata di divinità come Libero e Libera, cui
furono dedicati dei templi sull'Aventino. A seguito degli scavi in corso
presso il tempio di Diana aricina a Nemi, si è sviluppata un'ipotesi in base
alla quale esistevano due centri, uno politico ed uno religioso, che esistevano
ad Ariccia: quello politico era presso il bosco e la sorgente Ferentina ai piedi
di Monte Savello, località in cui si riuniva la Lega Latina. Quello
religioso era il lucus dedicato a Diana nemorense nel bosco sacro. Quello presso
Monte Savello era legato a Turno Erdonio, che vi morì affogato (probabile
sacrificio rituale di purificazione, legato alla costruzione dell'emissario del
lago albano). BOVILLAE Bovillae è un territorio che si colloca fra Roma e
i Castelli romani lungo la direttrice Appia. L'Appia da Porta Capena raggiungeva
" Bovillae " (Frattocchie), località d'epoca romana, crocevia fra la Appia
("Regina Viarum") e la via delle transumanze. Molte sono le testimonianze che
ricordano quel periodo, fra le altre un lungo tratto dell'Appia stessa,
costeggiata com'era dai numerosi mausolei che in epoca medievale furono
utilizzati come basi per costruirvi le torri d'avvistamento, oltre che gli archi
dell'antico circo cittadino e tanti altri reperti. Di Bovillae si dice fosse
originaria la Gens Julia da cui discendeva l'Imperatore Augusto. Qualche
decennio più tardi leggenda e storia si intrecciano ancora su un altro
personaggio: Coriolano il quale avrebbe saccheggiato Bovillae. Stavolta sono i
popoli immigrati dall'entroterra, Equi e Volsci, ad aggredire Latini e Romani.
Coriolano guida questi contro Roma, salva per il momento ma obbligata a vari
decenni di lotte per respingerli e per occuparne le sedi. Circostanza che, tra
l'altro, dà corpo alla espansione romana e alla sua egemonia segnata dalla
costruzione dell'Appia nel 312 a.C. Segue la crisi socio-economica del III
secolo che genera le guerre civili e sociali. Gli scontri tra Mario, filoitalico
e Silla, che rappresenta gli interessi del Senato romano, hanno per teatro tutto
il territorio tra Palestrina ed il mare. Silla, vincente, impone una presenza
militare, rafforzata dalla colonizzazione. Nasce Castrimoenium, l'oppidum, sul
quale si svilupperà Marino, e viene rifondata, come colonia Bovillae. E' questo
centro ad avere, dopo l'uccisione di Clodio, nel 52 a.C., il suo apogeo nell'età
augustea e nel primo impero, allorché il Foro e i principali monumenti, Teatro,
Santuari vengono ridisegnati a fianco dell'Appia, mentre tutto attorno sorgono
ville patrizie tra le più importanti del contesto albano. Archi del Circo
dell'antica Bovillae Si tratta di 3 archi in blocchi di peperino che
costituiscono l'ingresso dei carceres (ossia i locali da cui uscivano le bighe)
che in origine dovevano essere dodici. Probabilmente fu costruito da Tiberio
quando promosse i giochi per onorare la memoria di Augusto e delle gens Julia,
originarie appunto di Bovillae. Il Circo poteva contenere circa 10.000
spettatori. CABUM Intorno all’ "Arx aesulana", altura sacra dove si levava
il collegio dei "sacerdoti cabensi", in quella posizione splendida occupata
dall’attuale fortezza, nacquero i primi insediamenti umani della futura città di
Rocca di Papa. L’Arx aesulana rappresentava l’emblema e la potenza della
città di Cabum, che si estendeva per i Campi d’Annibale ad Est dell’acropoli. Da
Cabum prese, poi, nome il monte Albano, identificato successivamente come Monte
Cavo. Sul Monte Cavo si stagliava maestoso il tempio di Iuppiter Latiaris
dove convenivano i Latini, gli Equi e i Volsci per pregare e rendere gli auspici
al Giove e per festeggiare l’alleanza raggiunta tra le città. Dell’antico
santuario posto sulla vetta di Mons Albanus nulla è più visibile, tranne alcune
file di grandi blocchi squadrati di pietra sperone che ne delimitavano il
perimetro, oltretutto alloggiati attualmente fuori posto. La "Via Sacra" o
"Via Trionfale" nasce in relazione alla presenza di un luogo di culto risalente
ad epoca arcaica, come attestano le fonti letterarie antiche (Floro, tra gli
altri, ricorda come Ascanio, figlio di Enea, dopo aver fondato Alba Longa,
radunò un’assemblea di latini su Mons Albanus per celebrare dei sacrifici in
onore a Giove), confermate dal ritrovamento di frammenti di ceramica arcaica in
quest’area. Per le popolazioni latine Mons Albanus era la montagna sacra per
eccellenza, dimora di Giove, il padre di tutti gli dei, denominato col suo
appellativo locale di Iuppiter Latiaris. Nel suo santuario si celebravano ogni
anno le feriae latinae, momento cruciale d’incontro tra tutte le città latine
confederate, durante le quali era sacrificato un toro dalle bianche carni, poi
distribuito ai vari rappresentanti della "nazione" latina come simbolo di
amicizia e fratellanza. Si trattava, quindi, di un culto di carattere federale,
perché serviva a rinsaldare i vincoli religiosi, politici ed economici che
univano le antiche popolazioni latine, e il cui momento di maggior prestigio
coincide con il periodo precedente all’affermazione della supremazia di Roma.
Sul Monte Albano erano soliti anche recarsi i condottieri vittoriosi dopo le
imprese militari per raccogliere gli onori tributati tramite "il piccolo
trionfo" e "l’ovazione". I condottieri, gli eroi e i benemeriti della Patria,
raggiungevano il tempio di Giove Laziale percorrendo la Via Sacra che si dipana,
conservata ancora in ottimo stato, dall’antica via Appia inerpicandosi verso il
Monte. Sotto il regno del re Tarquinio il Superbo il tempio conobbe il
maggior sfarzo perché il sovrano aveva intuito l’importanza della religione e la
usava per rafforzare l’accordo politico sottoscritto da 47 città di provenienza
diversa. La città di Cabum, però, subì la sorte delle altre città latine e dopo
la battaglia combattuta presso il fiume Stura perse ogni potere tanto che di
essa rimase solo l’Arx aesulana, conservata quasi integra fino al 4° secolo
d.C.. Nei secoli successivi all’antica Arx venne dato il nome di "Rocca de Monte
gavo" e di "Castrum de Montis albani". A ulteriore suggello della supremazia
di Roma sulle popolazioni latine viene fondato nel 507 a.C. circa il tempio di
Iuppiter Capitolinus sul Campidoglio, che tende a sostituire quello di Mons
Albanus; di conseguenza, mentre il tempio di Giove a Roma serviva a celebrare il
trionfo di un condottiero, quello di Mons Albanus era normalmente riservato alle
ovationes, concesse a chi era riuscito a vincere il nemico più con l’arte della
diplomazia che con le armi, oppure a chi era stato negato il trionfo sul
Campidoglio. COLLATIA
Collatia, antica città di remote origine
etrusche già scomparsa ai tempi della Roma imperiale, è individuata a Lunghezza.
Se la loro teoria è esatta, nel sottosuolo del castello di Lunghezza vi
sarebbero ancora custoditi i luoghi in cui si svolsero avvenimenti che
precedettero la cacciata dei Tarquini da Roma da parte di Bruno Collatino, fiero
guerriero e signore della cittadella, marito amoroso della dolce Lucrezia che si
uccise dopo essere stata oltraggiata " dal vile Sextius ", figlio del Superbo.
Su queste rovine della memoria inizia l'evoluzione che, come una macchina del
tempo, ci porterà fino ai nostri giorni. Ed ecco allora nel primo secolo d.C. ci
ritroviamo in una sontuosa villa romana contemporanea alla villa dell'Imperatore
Adriano i cui ruderi, ancora ben conservati, sono appena a quindici chilometri
da Lunghezza. Le notizie più antiche dell'impianto medievale risalgono al
752 quando Tedone, monaco di San Salvatore in Sabina, vendette alla Badia di
Farfa, per venti libbre d'argento il " Casalem qui dicitur Longitia ".
Lentamente la Badia si trasformò in monastero fortificato e abitato da monaci
Benedettini che lavoravano la terra ( circa 28.000 ettari ) per conto
dell'Abbazia di S.Paolo.
CORA Gli scrittori latini, pur formulando
opinioni diverse nei dettagli, ammettono anche per Cori, come per le altre città
latine e quindi Roma, una fondazione troiana. Virgilio nell'Eneide considera
Cori una delle città fondate dai re di Alba Longa. Secondo Plinio fu Dardano,
capostipite dei Troiani, il fondatore di Cori; successivamente la città sarebbe
stata restaurata da Corace di Argo che gli diede anche il nome. Queste tesi
finora definite con sufficienza "leggende", hanno acquistato recentemente
tutt'altra dignità, dopo che recenti scoperte archeologiche hanno messo in luce
i rapporti dell'antica civiltà laziale con la cultura cretese e la teoria che
nel latino si debbano riscontrare tracce linguistiche micenee. La prima notizia
storica dell'esistenza della città di Cori ci viene da Catone il Censore, il
quale asserisce che Cori alla fine del VI sec. a.C. faceva parte dei Prisci
Latini. Era questa una lega a carattere politico-religioso, che
periodicamente si riuniva nel santuario di Diana Nemorense nei pressi di
Ariccia. Inserita in questa lega anche Cori combattè la battaglia del lago
Regillo, con la quale si voleva ostacolare la nascente potenza romana. Fu
probabilmente una imminente minaccia volsca a indurre Romani e Latini ad
allearsi, stipulando il foedus cassianum. I Volsci cominciarono ad invadere
la regione pontina intorno al 500 a.C.; Sembra che almeno in un primo momento
Cori resistette ai Volsci; successivamente, in base ad un passo di Livio, che
attesterebbe la deduzione a Cori di una colonia latina, si ipotizza che la città
alleatasi con i Volsci, combattè contro Roma.
Scomparsa la minaccia
volsca, i Romani, sedata l'ennesima rivolta dei Latini, durante la quale però
Cori era rimasta fedele a Roma, ne sciolsero la lega. Non sono molto chiari i
caratteri del riordinamento politico amministrativo imposto da Roma; l'esistenza
di una moneta di argento coniata a Cori in questo periodo ne attesta una
relativa indipendenza. Municipio (secondo Livio) dal 211 a.C., alla fine
della guerra sociale, con l'estensione della cittadinanza romana a tutte le
genti italiche, Cori fu inserita nella TRIBUS PAPIRIA. Relativamente alla
guerra sociale, Lucano riferisce che Cori era schierata dalla parte di Silla e
per questo fu devastata da Mario. Le numerose ricostruzioni datate agli inizi
del I sec. a.C. vengono messe in relazione a questa guerra e attribuite a Silla.
Quando, con la costituzione di Augusto l'Italia venne divisa in regioni e
prefetture, Cori si trovò sotto la giurisdizione del Praefectus Urbis. Caduto
l'impero romano, durante il periodo delle invasioni barbariche la città decadde
come la maggior parte dei centri italiani. Non esistono elementi certi per
stabilire se Cori fu completamente abbandonata oppure subì soltanto una
diminuzione della popolazione.
IL TEMPIO DI ERCOLE A Cori Monte m
398, sul vertice del colle, sorge il Tempio di Ercole, eretto al tempo di Silla
(89-80 a.C.); ne rimane l’atrio tetrastilo con otto colonne doriche, sorreggenti
la trabeazione e il frontone. L’iscrizione sull’architrave della porta ricorda i
nomi dei due magistrati che ne curarono la costruzione. Epico esempio di
architettura italica. Dal piazzale antistante si gode uno dei panorama
emozionanti sulla pianura Pontina, il Mar Tirreno e il Monte Circeo.
IL
TEMPIO DI CASTORE E POLLUCE E’ situato all’estremità orientale della vasta
zona (odierna via delle Colonne) che ospitava il Foro. Ciò che attualmente è
visibile del tempio risale agli inizi del I secolo a.C.: consiste in una parte
di podio, sulla quale poggiano due delle sei colonne originarie, in stile
corinzio, recanti ancora tracce dello stucco che le rivestiva. Parti di una
terza colonna, appartenente al lato destro, si vedono inserite nel muro di una
casa privata. Sull’architrave, un elemento del quale poggia ancora sulle due
colonne, un’iscrizione dedica il Tempio a Castore e Polluce e ricorda i nomi dei
due magistrati che ne curarono la realizzazione utilizzando denaro proveniente
dal tesoro del tempio. Il tempio rappresenta la ristrutturazione di un
edificio più antico, databile solo approssimativamente tra la fine del IV e gli
inizi del II secolo a.C.. Si conservano alcune fondazioni della parte posteriore
del tempio, suddivisa in tre ambienti perpendicolari alla facciata. Si
conservano anche dei lacunari in travertino, alcuni nell’attuale recinto, altri
nel Chiostro e nella Chiesa di Sant’Oliva. CORBIUM
Dalla antica
cittadina latina Corbium, dal 258 a.c. sotto dominio romano, discende l'attuale
Rocca Priora. Posta a cavallo della Valle del Sacco e della Valle Latina, in
posizione elevata, nel corso dei secoli seguì sempre le sorti del popolo romano
e spesso ne fece le spese nelle situazione più pesanti. Coinvolta nelle guerre
italiche tra romani e popoli vicini, venne ripetutamente conquistata in fasi
alterne da Equi e Romani fino ad essere rasa al suolo da questi ultimi che la
consideravano città traditrice. La celebre battaglia del lago Regillo,
ricorrente nelle ricostruzioni storiche di quasi tutte le cittadine dei
Castelli, ebbe origine da un episodio ben preciso: l'attacco delle popolazioni
latine al Castello di Corbio con la susseguente distruzione del presidio posto
dai Romani a guardia della città. Nel 298 fu nuovamente occupata dagli Equi e
ripresa, con una nuova battaglia, dal romano Quinzio Cincinnato. Nel 299 gli
Equi attaccarono il presidio romano distruggendolo ed occupando la città. Il
console romano Orazio Pulvillo sconfisse quindi in battaglia gli Equi e
sospettando un tradimento da parte di Corbio ne distrussero le case e le mura
dalle fondamenta. Nel 309 Volsci e Equi furono nuovamente sconfitti dai Romani
presso Corbione, che nel frattempo era stata ricostruita; arriviamo fino al
secolo XI in cui la zona passò sotto il possedimento dei Conti di Tuscolo da cui
venne ceduta agli Annibaldi. La popolazione aumentò con l'ingresso di parte
degli abitanti di Tuscolo, distrutta nel 1191 e nello stesso anno appare per la
prima volta il nome di "Rocham Periuram" come appellativo della
cittadina. CRUSTUMERIUM
Nella zona del Parco della Marcigliana fu
scoperto il sito di Crustumerium, una della città più antiche del Lazio
protostorico. Ancora oggi le sue origini non sono del tutto chiare perché
secondo Servio fu dedotta dal popolo dei Siculi, mentre altri sostennero che fu
fondata da Alba Longa (Diodoro e Dioniso), dai Sabini (Plutarco) o dai Latini.
Secondo la tradizione leggendaria, del poema virgiliano, Crustumerium rientrava
tra le cinque città dedite alla costruzione delle armi che dovranno essere usate
dalle popolazioni dell'Italia centrale per combattere Enea: "Sulle incudini
cinque grandi città foggiano dardi, la forte Aténa, la superba Tivoli,
Crustumerio, Ardea e la turrita Antemna." (Eneide,VII, 629-631). Infine la
città entrò in conflitto anche con Romolo e sembra che fu conquistata da
quest'ultimo. Gli eventi successivi, storicamente più attendibili, ci attestano
che la zona del Crustuminus Ager (Agro di Crustumerio) fu annessa nel 499 o nel
495 a.C. e ciò determinò che le tribù salirono a 17 o a 21 dopo la creazione
della nuova tribù Clustumina. Gli scavi condotti negli anni Ottanta di questo
secolo attestarono che i più antichi reperti di Crustumerium risalivano all'età
del bronzo e alla prima età del ferro. Presso questa città, inoltre, furono
ritrovati dei vasi particolarmente interessanti per forma e tinte
cromatiche. La città occupava un' altura vasta circa 60 ettari a nord di
Roma, dominante il tracciato della Salaria e la vasta pianura delimitata dalle
anse del Tevere; un percorso viario proveniente dall'opposta riva del fiume -
occupata dagli Etruschi - raggiungeva la città mediante una rampa intagliata
artificialmente e, attraversatala, discendeva sull'opposto versante
sudorientale, dirigendosi verso i centri di Gabii e Praeneste. Ben poco si
può dire della struttura interna dell'abitato non essendo stati ancora
effettuati scavi di ampia estensione; appare possibile un ruolo di nucleo
originario, e una successiva funzione di acropoli, del poggio della Torretta (in
prossimità del Casale della Marcigliana Vecchia), avanzato verso la piana del
Tevere. I dati di scavo permettono di ipotizzare che questi muri
costituiscano una sorta di sistema di terrazzamento con probabili funzioni
difensive, realizzato forse nel VI sec. a.C. Tutti i muri sono costruiti a secco
con blocchi squadrati di tufi diversi, anche di grandi dimensioni; soltanto tra
i muri lasciati in vista lo scavo è stato approfondito mettendo in luce 7 filari
di uno dei due muri; si è potuto così appurare che originariamente
l'intercapedine tra i muri era vuota e che il riempimento visibile oggi è
costituito dal crollo dei muri stessi e dagli strati di terra successivi
all'abbandono.
Questa imponente struttura, costituita di muri paralleli,
doveva essere rinforzata da muri perpendicolari di collegamento, non ancora
rinvenuti. FICULEA Antica città della Sabina situata nei pressi di Roma
sulla via Nomentana. FIDENAE
La città di Fidene sorse, in base alle
testimonianze archeologiche, nel sec. XI a.C, sul colle di Villa Spada, in una
posizione strategica in quanto poteva controllare le vie commerciali con i
Sabini, quelle tra l'Etruria e l'Italia meridionale, nonché i traffici fluviali
che avvenivano lungo il Tevere. Prima della nascita di Roma la città era
fiorente per la fertilità del territorio (la zona era ricca di tufi di origine
vulcanica, ma anche facilmente irrigabile per la vicinanza al Tevere e ai vari
fossi) ma anche per le intense attività commerciali che erano favorite dalla sua
posizione strategica. La città era cinta da mura e nell'ambito del suo
territorio di influenza rientrava anche la zona di Montesacro. Il contrasto
tra Roma e Fidene durò per 400 anni, se vogliamo considerare anche la tradizione
leggendaria relativa al periodo monarchico. I Romani attaccarono più volte la
città con Romolo, Numa Pompilio, Tullio Ostilio e con i Tarquini al fine di
imporre il predominio romano in una zona che costituiva un punto nevralgico dal
punto di vista economico-strategico. In particolare con la presa di Cenina
(ponte Mammolo. Lungo la via Tiburtina), del territorio di Ficulea (tra la
Nomentana e il Grande raccordo Anulare), di Crusterium (nel settore N-E della
Salaria) e con le assegnazioni di territori dell'agro di Fidene ai clienti della
gens Claudia, - nonché con la battaglia sul fiume Cremera - si era cercato, di
isolare e accerchiare la città di Fidene da Veio e dalle importanti vie di
comunicazione fluviali (Tevere) e terrestri (Via Salaria). Per contrastare
i Romani la città di Fidene si era alleata con l'etrusca Veio, ma nel 474 a
seguito dell'armistizio quarantennale tra Roma e Veio la città di Fidene era
stata occupata da una guarnigione romana. Nel 438 il pericolo per Roma fu grande
perché i Fidenati dopo aver cacciato la guarnigione romana avevano stipulato una
coalizione con Veieti e Falisci al fine di formare un esercito in comune per
contrastare la potenza romana in ascesa. Con queste truppe, infatti, si erano
spinti fin sotto le mura di Roma. I Romani, tuttavia, non erano rimasti
inoperosi: nel 438 venne inviato contro Veio il console A.C. Cosso. Il generale
romano dopo aver battuto l'esercito etrusco issò la testa del re di Veio
(Tolumnio) su una lancia e i combattenti veienti e fidenati visto ciò si diedero
alla fuga. Nell'anno successivo i nuovi consoli, Malungineuse e Crasso,
depredarono l'agro di Fidene ed entrarono nel territorio di Falerii. Di li a
poco, però, la città di Fidene fu conquistata, saccheggiata e data alle fiamme
dai romani (436-435 a.C.). La città divenne un "municipium" di Roma e parte
degli abitanti cadde in schiavitù. Per ricostruire le mura ed alcuni edifici che
erano stati distrutti dopo l'incendio gallico, i Romani fecero affluire da
Fidene una grossa quantit¦ di pietre di tufo. Con la caduta di Fidene l'Urbe
riuscì a porsi in una posizione favorevole nella lotta contro
Veio. GABII
L'antica città latina di Gabii è localizzata sul ciglio
meridionale del cratere di Castiglione, a 20 chilometri circa da Roma, lungo il
tracciato della Via Prenestina, (in origine denominata Via Gabina). La città si
sviluppò probabilmente secondo un processo evolutivo analogo a quello di
numerosi altri centri laziali, ovvero dall'organizzazione secondo uno schema
"urbano" di più nuclei abitati, dislocati nel settore sud-orientale del Cratere
di Castiglione.
In età arcaica Gabii raggiunse il massimo splendore,
a sostanziale conferma di queste fonti si sono recentemente effettuati
importanti rinvenimenti archeologici: i resti della cinta muraria in opera
quadrata di blocchi di tufo dell'Aniene, un Santuario extra urbano nella valle
del Fosso di San Giuliano, altre aree sacre interne all'antica città. In
questo periodo Gabii, racchiusa entro una cinta fortificata - il cui andamento è
perfettamente ricostruibile in base alla traccia rilevabile nelle fotografie
aeree ed ai rinvenimenti effettuati nel corso dei lavori agricoli - ed estesa
per circa 300 ettari, raggiunse una potenza ed uno splendore non più eguagliati,
come si ricava dalla circostanza che in questo momento fu sancito con Roma il
"foedus gabinus", uno dei più antichi esempi di trattati di alleanza della
storia romana, scritto su di uno scudo di pelle bovina, conservato nel tempio di
Semo Sanco sul Quirinale. I rapporti fra Gabii e Roma vissero fasi alterne,
sicuramente lo sviluppo e l'accresciuta importanza di quest'ultima determinarono
momenti di crisi e di guerra aperta. Nel VI sec. a.C. comunque è da considerare
Gabii soggetta all'egemonia di Roma. Con il periodo medio-repubblicano inizia
una crisi inarrestabile del centro di Gabii, fenomeno che successivamente avrà
un andamento ancor più accentuato. Nel corso del III sec. a.C. l'agro gabino,
forse la città stessa, furono devastate dal passaggio di Annibale, proveniente
da Tuscolo e diretto verso Roma.
Sempre in questo secolo è forse da
collocare l'inizio dello sfruttamento sistematico delle cave di "lapis gabinus",
una sorta di peperino utilizzata in larga scala in numerosi edifici pubblici e
privati. Dal punto di vista urbanistico, nel corso dell'età repubblicana, due
sembrano i fatti di maggior rilevanza: la nuova sistemazione che venne data,
ancora nel III sec. a.C., all'intero tracciato della Via Prenestina e la
completa ristrutturazione del Santuario di Giunone Gabina, ricostruito intorno
alla metà del II sec. a.C. in forme monumentali e secondo schemi propri
dell'architettura di apparato più complessa e sontuosa dell'epoca. Le fonti
classiche presentano la città di Gabii, nei primi anni dell'età imperiale, alla
stregua di un villaggio pressoché abbandonato, una sorta di semplice stazione
lungo il tracciato della Via Prenestina. Degne di interesse a tal proposito
sembrano essere le fonti che si riferiscono alla presenza in Gabii di importanti
acque salutari, cui fece ricorso lo stesso Augusto ed in relazione alle quali si
deve presupporre l'esistenza di complessi termali abbastanza frequentati. Ad
età Adrianea è possibile far risalire una serie di importanti interventi a
carattere urbanistico nell'area della città: la sistemazione di una grande
piazza porticata, su cui si aprivano una serie di edifici pubblici, prospiciente
la Via Prenestina, riportata in luce nel 1792, nel corso degli scavi condotti
dal Visconti per conto del Principe Borghese e di Sir Gavin Hamilton. Sempre ad
Adriano è da attribuire la costruzione di un acquedotto destinato ad alimentare
la città.
La prosecuzione della vita nell'antico centro è testimoniata
dall'esistenza della Diocesi Gabina, la quale presupponeva un nucleo abitato
necessariamente di una certa entità. Alla Diocesi è forse da ricollegare la
Chiesa di San Primo, edificata su resti di costruzioni romane, e dedicata al
martire che la tradizione agiografica vuole ucciso presso il Ponte di Nona e
gettato nel "lacus Buranus", ovvero il lago di Castiglione. Le favorevoli
condizioni antropiche del luogo, determinarono lo sviluppo, anche in età
medioevale, di un centro abitato, un "castrum" che, secondo schemi consueti si
arroccò sull'altura più eminente del Cratere di Castiglione, dotandosi di una
cinta fortificata e di una torre di avvistamento e di segnalazione, ancor oggi
visibile. LABICUM Insieme con Tuscolum, Labicum prese le armi contro i
romani dopo la caduta della Monarchia e quindi si alleò nel 415 a.C. con gli
Equi contro Roma. Nel 414 (come ci riferisce lo storico Tito Livio nella sua "Ab
Urbe condita"), Labicum fu presa e distrutta dal dittatore Q. Servilio Prisco.
L'antica Labicum sorgeva dove oggi si trova il comune di
Montecompatri. Tuttavia è storicamente provato che, dopo la suddetta sconfitta
del 414 a.C., i Labicani furono costretti a rifugiarsi presso la stazione "Ad
Quintanas", dove oggi (su territorio colonnese) sorge la torre della Pasolina.
Per questo motivo, uniti i due nomi, gli abitanti di quella zona vennero
chiamati "Labicani Quintanenses", per distinguerli dai semplici Labicani che
abitavano, come detto, l'odierna Montecompatri. Labico Quintanense
fu sede episcopale fin dal IV secolo e i documenti storici dimostrano che rimase
tale fino al 1111. Poi, dopo tanti secoli di illustre storia, il Labicum
Quintanense decadde per varie cause: guerre civili, scorrerie dei Normanni e
Saraceni, presenza del feudatario, le investiture, ma soprattutto perché fu
sovrastato dalla presenza della vicina Tuscolo, al punto che la diocesi
Tuscolana assorbì quella di Labico. LANUVIUM
Lanuvio, che fino al 1914
mantenne il nome medioevale di Civita Lavinia, è tra gli insediamenti più
antichi dei Castelli Romani. Assieme ad Ariccia e Velletri è infatti tra quei
pochi centri che dopo quasi tremila anni occupano ancora esattamente lo stesso
luogo sul quale furono fondati. La cittadina vanta la nascita di importanti
personaggi, quali l'imperatore romano Antonino Pio, il condottiero Marcantonio
Colonna, vincitore della battaglia di Lepanto Il ritrovamento a Nord del
paese di suppellettili preistoriche attesta che esso era abitato già nell'età
del ferro, mentre la costruzione di una poderosa cinta di mura, della quale
ancora oggi sono visibili cospicui avanzi, risalirebbe al V secolo a. C.
L'antica Lanuvium dalla forma irregolarmente ellissoidale era attraversata
da una via mediana che si sviluppava da nordest a sudovest seguendo il profilo
del colle, secondo un percorso che la presenza di poligoni di basalte, accertata
in più tratti ed in periodi diversi, consente di ricostruire.
Essa aveva
origine a sud della città con la porta meridionale che si apriva sulla via di
Astura (ancora riconoscibile negli anni trenta dal taglio praticato nello strato
di tufo per aprirla) e risaliva per un tratto di 25 metri lungo il ciglio
sinistro della moderna via delle Grazie. Piegando poi leggermente verso est, la
strada attraversava la via di Borgo San Giovanni per raggiungere il Largo Tempio
di Ercole e la poderosa costruzione in grandi blocchi di peperino che sorregge
la terrazza dove nel secolo XI si sviluppò il centro medievale Il nome di
Lanuvio appare ben presto negli annali di Roma, e così sappiamo che nel 341 a.C.
prese parte alla sollevazione delle città latine contro Roma e con queste fu
sconfitta dai Romani nei pressi di Astura. I vincitori tuttavia riservarono alla
città un trattamento di grande favore, mantenendo in vigore gli antichi
ordinamenti municipali e lasciando che il culto maggiore di Lanuvio divenisse
anche patrimonio dei Romani stessi. Durante il periodo dell'Impero Romano la
parte di territorio a nord, attreversato dalla via Appia, venne occupato da
ville sontuose che spesso avevano ospiti illustri, tra cui anche Cicerone. Si
trattava del santuario di Giunone Sospita, luogo sacro famosissimo non solo nel
Lazio antico, ma nell'intera area mediterranea. Durante il periodo romano, fino
alla caduta dell'Impero d'occidente, le fortune della città furono praticamente
legate a questo santuario, nel quale accaddero prodigi strepitosi, narrati da
Livio, Cicerone, Giulio Ossequiente ed altri autori classici. Durante le
guerre civili, avendo Lanuvio parteggiato per Silla, fu occupata da Mario e
ridotta a colonia militare, ma seppe rialzarsi e raggiungere il massimo
splendore all'epoca degli Antonini. E proprio nella villa imperiale lanuvina
ebbero i natali gli imperatori Antonino Pio e Commodo, mentre Marco Aurelio,
nato altrove, vi passò certamente lunghi soggiorni. Molte notizie preziose
relative alla storia antica di Lanuvio ci provengono dall'epigrafia, e meritano
particolare attenzione due epigrafi di notevole importanza. La prima, meglio
nota come "legge del Collegio di Diana ed Antinoo ", rinvenuta a Lanuvio nel
1816 ed oggi conservata presso il Museo Nazionale Romano, ci ha tramandato lo
statuto di una singolare associazione popolare, che garantiva ai propri
associati un funerale decoroso. Da essa apprendiamo tra l'altro, che già
nell'antichità si produceva a Lanuvio un ottimo vino, del quale l'odierno D.O.C.
'Colli Lanuvini' è un degnissimo erede. La seconda iscrizione, rinvenuta nel
1962 nella cittadina siciliana di Centuripe, ci ha tramandato il ricordo del
gemellaggio tra Lanuvio e la cittadina siciliana, celebrato attorno al secondo
secolo a.C., rinnovato solennemente nel 1974. Se delle epoche più remote ci sono
noti anche diversi particolari, molto meno sappiamo di Lanuvio nell'alto
medioevo. È probabile che la decadenza s'iniziasse nell'anno 391 d.C. con la
promulgazione della legge di Valentiniano e Teodosio, che decretava la chiusura
di tutti i templi pagani. Diverse memorie cristiane dei secoli IV e VI sembrano
tuttavia dimostrare che il sito non fu mai completamente abbandonato all'epoca
delle invasioni barbariche, ipotesi altresì confortata dall'ascrizione ai secoli
V e VI delle tracce della primitiva chiesa collegiata descritta nei verbali
delle visite pastorali dei secoli XVI e XVII. Tempio di Giunone Sospita Si
trovava sull'acropoli di Lanuvio ed era costituita da una serie di strutture
monumentali. I resti del Tempio, venuti allo luce dagli scavi di inizio
secolo, si trovano oggi all'interno dell'Istituto Salesiano. Il Tempio è di tipo
tuscanico con alae. Vi si sono distinte almeno tre fasi edilizie. La
seconda fase costruttiva è del periodo Medio-Repubblicano (IV-III a.C.) e deve
essere messo in relazione con la sconfitta della lega latina (quindi di Lanuvio)
del 338 a.C., e con l'inizio dello cogestione romano del culto (a tale epoca è
attribuita lo testa del secondo simulacro dello Giunone Sospita). La datazione
della terza fase ancora è incerta: si ritiene che essa vada fatto risalire alla
metà del I sec. a.C.. e messa in relazione alla famiglia Murena (lanuvina), ed
in particolare a quel L. Licinius Murena che nel 62 a.C. rivestì il consolato. A
tale epoca risalirebbero anche i resti principali del secondo complesso
edilizio, visibile nella Villa Sforza di proprietà comunale, che consistono in
un portico ad arcate con semicolonne doriche, in opera mista, e concamerazione
ad esso adiacenti. Tali volte mostravano nello faccia superiore evidenti
tracce di mosaico, chiaro indizio che tali edifici constavano almeno di due
piani. In fondo al portico c'è una porticina, da dove si dipartono una serie di
cunicoli che alcuni identificano con la grotta dove era custodito il serpente
sacro a Giunone Sospita. Infatti sappiamo sia da Properzio (IV. 8, 3-14) che da
Eliano (Perì zoon, XI, l6) che nel Santuario ogni anno all'approssimarsi della
primavera si svolgeva una cerimonia. Alcune fanciulle dovevano porgere delle
focacce ad un grosso serpente che si trovava all'interno di un antro. Se
l'animale accettava il cibo offertogli dalla fanciulla (indizio di verginità di
quest'ultima), si prospettavano raccolti fecondi; in caso contrario, la
fanciulla (rivelatasi impura), veniva sacrificata per scongiurare la carestia.
Un'ipotesi da tener presente è che questo antro potrebbe essere localizzato, in
base o dati toponomastici, in località Stragonello. Stragonello deriverebbe da
Dragone: non a caso nelle fonti antiche sopra menzionate si parla di "draco" e
di "dracon". Nella parte opposta rispetto al portico si trovano i resti di un
grosso pilone in opera quadrata di peperino, pertinenti probabilmente ad un arco
di ingresso che immetteva nell'Acropoli. Vicino a tale pilone furono rinvenuti
alla fine del secolo scorso i resti di un gruppo marmoreo di statue equestri con
lorica, oggi conservate al British Museum ed al Museo di Leeds, ad eccezione di
un torso che si trova invece al Museo Civico lanuvino. Coarelli ritiene che
il gruppo lanuvino si rifaccia ad un gruppo bronzeo da attribuire o Lisippo,
rappresentante Alessandro e i cavalieri caduti nello battaglia del Granico.
L'opera si trovava fino alla metà del II sec. a.C. nel Santuario di Dion in
Macedonia, da dove Scipione Metello Macedonico la trasferì a Roma, dopo la
conquista della stessa Mocedonia. E' probabile, secondo lo studioso, che la
copia in marmo e la ricostruzione di tutto il Santuario siano da attribuire a
quel L. Licino Murena console nel 62 a.C. e che fu vittorioso insieme a Lucullo
in Oriente contro Mitridate, in prossimità del Granico. L'opera dovrebbe quindi
raffigurare al posto di Alessandro Magno Licinio Murena o Lucullo, ed al posto
dei generali macedoni gli ufficiali romani; ed essere letta come una "imitotio
Alexondri". Sappiamo anche da testimonianze epigrafiche (C.I.L. XIV n.2088),
di un intervento di restauro da parte di Adriano, dovuto allo stato di
disastrosa rovina in cui versava la struttura nel I sec. d.C. (Plin. N. H. XXXV,
17), il che potrebbe anche far supporre, distaccandosi in questo dal Coarelli,
che tutto il complesso, compreso il portico, non vada attribuito al I sec. a.C.,
ma ad età Antonina. LAURENTUM
Città latina posta lungo il litorale
romano, caduta presto nell'orbita romana, dopo la fondazione di Ostia da parte
di Tullo Ostilio. La città è rimasta famosa per la villa di Plinio, di cui
oggi rimangono le rovine. Si ricorda l'antica via Severiana, fatta costruire
nel terzo secolo d.C. da Settimio Severo, i cui basoli sono stati utilizzati
dalla famiglia Chigi per selciare il sentiero tra la loro villa di residenza
ed il mare. Il problema della identificazione dei resti della villa che sorge
nella località, detta "della Palombara", con la residenza estiva nel Laurentino
di Plinio il Giovane è rimasto ancora insoluto. Da recenti studi sembra emergere
evidente l'identificazione della villa di cui Plinio parla nella sua epistola
all'amico Gallo, con quella che si trova a Castel Porziano (la cosiddetta Villa
Magna); ciò comunque non ne sminuisce né l'importanza ne la bellezza e
l'imponenza della costruzione, poiché rappresenta un tipo di villa di soggiorno
marittimo propria di questo territorio in età imperiale. Del resto da una serie
di ricerche archeologiche compiute da Lanciani risulta che la zona costiera era
ricca di ville (ben otto) e anche di un vicus (Vicus
Augustanus).
(Plastico della Villa di Plinio dove è ben evidente al
centro la fontana mistilinea.)
Il quadriportico è dotato di un doppio
giro di colonne che sorreggono un tetto a doppio spiovente. L'arco che oggi
si può notare in laterizio risale agli anni '30, in corrispondenza di questo
arco c'è l'ingresso ad una sala (il triclinio) pavimentata con un mosaico a
tessere bianche su fondo nero. Altra zona molto interessante è la zona
termale, posta ad una quota più alta rispetto al peristilio e costruita
successivamente in opera laterizia; una delle sale di accesso è ornata dal
mosaico con scene marine, molto simili a quelle delle Terme di Nettuno a Ostia
Antica.
LAVINIUM
Il territorio tra Lavinio ed il Tevere era
occupato dalla tribù latina dei Laurentes, i cittadini di Lavinio sono perciò
detti Laurentes Lavinates, come gli abitanti della vicina Ardea Ardeates Rutuli.
Secondo la leggenda la città fu fondata da Enea, giunto sulle coste del Lazio
dopo la caduta di Troia (1183 a.C. secondo la cronologia tradizionale) ed
avrebbe preso nome da Lavinia, figlia di Latino, re degli Aborigeni e sposa
dell'eroe. A Lavinio sarebbe stato ucciso Tito Tazio, mentre sacrificava ai
Penati e nel 509 (a Roma: fine della monarchia, dedica del tempio di Giove
Capitolino) vi si sarebbe ritirato Tarquinio Collatino. Le 13 Are La
città figura tra i centri inclusi nel trattato del 509 tra Roma e Cartagine. Nel
VI e V sec. fece parte della lega Latina. Santuario federale della Lega, del
pari ai santuari di Giove Laziare sul Monte Albano, di Diana presso Aricia e di
Diana sull'Aventino, fu certamente il santuario di Venere (Aphrodision) nel
territorio di Lavinio, ricordato da Strabone (V, 232) come comune a tutti i
Latini. La città è poi ricordata in relazione alle vicende belliche tra Volsci e
Latini, si dice infatti presa da Coriolano. Nel 338, a conclusione della
guerra latina che segnò la sconfitta e la fine della lega ed il definitivo
predorninio di Roma nel Lazio, strinse un patto (foedus) con Roma, rinnovato
annualmente. In discussione il carattere politico o religioso dello stesso e
se Lavinio, a seguito della guerra, fosse incorporata nello stato romano o
divenisse municipium foederatum. Incerta, anche cronologicamente, la notizia
di devastazioni subite ad opera dei Sanniti. Per l'età imperiale disponiamo
soprattutto di testimonianze epigrafiche. Da ricordare la visita di Marco
Aurelio nel 176 d.C. e provvedimenti di Costantino. L'importanza della città
è legata, anche nella tradizione antica, al suo carattere di centro religioso
(Religiosa civitas la definisce ancora Simmarco, Ep. I,71, nel IV sec. d.C.) e
secondariamente al ruolo nella leggenda troiana delle origini di Roma. Per
questo motivo Lavinio assunse un ruolo unico nella religione ufficiale di Roma
stessa, come appare sia dal sacrificio che i supremi magistrati romani vi
compivano ai Penati e a Vesta quando assumevano e deponevano la carica, sia
dalla credenza che i Penati di Lavinio fossero i Penati di Roma e che fossero
gli stessi Penati di Troia portati da Enea. Oltre ai culti di Venere
(santuario comune a tutti Latini) dei Penati e di Vesta sono attestati i culti
di Athena Iliàs, Indiges, Giuturna, Liber, Anna Perenna. Gli stretti rapporti
con Roma (molti culti di Lavinio sono culti ufficiali dello Stato romano;
medesimi culti Sol Indiges, Penati, Vesta, Giuturna, Castori presenti a Roma e
Lavinio) e le influenze greche ( Presenza accanto a divinità indigene di
divinità mutuate dal mondo greco: Castori, Vesta, Cerere, Athena Iliàs) sono
aspetti fondamentali della religione arcaica di Lavinio e costituiscono un
elemento di particolare interesse per gli studiosi, le implicazioni, come per la
leggenda della fondazione, trascendono infatti l'ambito
lavinate. MINTURNAE
Minturnae e' uno dei centri piu' antichi del Basso
Lazio, situato alla foce del fiume Garigliano, al confine tra il Lazio e la
Campania, sulla riva destra. Il suo nome si fa risalire a Minothauros, dio
cretese, e quindi il primo nucleo potrebbe essere ricondotto alla dominazione
dei Greci sul Mediterraneo e sull'Italia Meriodionale.
Insieme alle
citta' di Ausona, Sinuessa (oggi Mondragone), Suessa (oggi Sessa Aurunca) e
Vescia, faceva parte della cosiddetta Pentapoli Aurunca, fulcro della
confederazione degli Aurunci (o Ausoni), discendenti dei Tirreni, un popolo di
stirpe italica.
Intorno al IV sec. a.C. questo popolo
entro' a contatto con i Romani, schierandosi apertamente contro di essi e
alleandosi con i Sanniti. Le conseguenze furono disastrose: la Pentapoli venne
letteralmente annientata nel 314 a.C. (Livio, IX, 25 "Deletaque Ausonum Gens"),
tanto che di Ausona e di Vescia non e' rimasto che il ricordo del nome e delle
altre solo esigue notizie. Nel 312 a.C. la costruzione della Via Appia, che
collega Roma con Capua, interessa anche il sito di Minturnae diventandone il
Decumano Massimo, e la citta' diviene colonia romana nel 295 a.C. Inizia cosi'
un nuovo periodo di prosperita', che raggiunge l'apice nel I^ secolo d.C.
Di questo periodo restano e sono visibili l'acquedotto (I secolo), il
teatro (eta' augustea), il foro con i suoi templi (eta' repubblicana e
imperiale), le mura e l'anfiteatro. Teatro romano - interno Ancora
oggi passeggiando per i resti silenziosi dell'antica Appia che attraversa
Minturnae, osservando i resti delle botteghe, dei bagni e dei vicoli, si ha
l'impressione di rivivere l'atmosfera Romana, risentendo il vociare degli
antichi abitanti e il frastuono dei carri.
Nell'ambulacro del teatro e'
oggi allestito un Antiquarium dove sono esposti bellissimi reperti: marmi,
ceramiche e statue dal I secolo a.C. al II secolo d.C.
Teatro romano -
esterno Minturnae segue quindi, con le dovute proporzioni, la fortuna e la
storia di Roma, e cosi' quando quest'ultima decade, anche la sua colonia rivive
tempi bui, fino a quando nel 590 viene devastata dai Longobardi. Gli abitanti
abbandonano definitivamente la citta', si rifugiano nelle vicine alture fondando
la citta' di Traetto (oggi Minturno), e Minturnae subisce l'oltraggio di vedere
depredati i propri marmi e colonne, a favore delle nuove costruzioni. Il
pontefice Gregorio Magno, abolisce il vescovato di Minturnae aggregandolo a
quello della vicina Formia. NEMORES DIANAE Il territorio di Nemi fu
celebre al tempo dei Romani per il tempio dedicato a Diana Nemorense, meta di
pellegrinaggi non solo dei Romani e dei Latini ma anche di abitanti di città
lontane. Il nome Nemi viene dal latino nemus. Comunemente si traduce con 'bosco
sacro'. In realtà questo è solo un significato derivato. Nemus viene dal greco
nemw = 'pascolare', che poi assume il significato di abitare, e quindi
governare la regione in cui si vive: la legge in greco è nomos. Ora, nemos è
appunto il pascolo; poi diventa per estensione 'luogo con vegetazione'
(comprensibile slittamento in Grecia, posto arido e sassoso) e quindi 'bosco'. E
nemesis, che in età classica è la dea della giusta punizione (se nomos è la
legge, il giudice esecutore è nemesis, ovviamente), in origine era la dea dei
boschi (Diana). Ma la vera ricchezza della zona è data dall'enorme patrimonio
culturale, ricco di miti, leggende e testimonianze archeologiche. Più tardi
venne consacrato a Diana un nuovo tempio sulla collina di Ariccia. Esso era
anche dedicato al semidio Virbio e alla ninfa Egeria. Quest’ultima era
consigliera, ispiratrice e sposa del secondo re di Roma, Numa Pompilio, e si
narra che alla morte di lui si sciogliesse in lacrime nel bosco di Ariccia,
finché Diana, impietosita dal suo dolore, la trasformò in una fonte. La sorgente
sgorgava dalle rocce per scendere con cascatelle nel lago, nel luogo oggi detto
Le Mole. Un’arcaica tradizione voleva che sacerdote della dea fosse uno
schiavo fuggitivo che, una volta riuscito a strappare un ramoscello a un
determinato albero del bosco, acquisiva il diritto di battersi col sacerdote in
carica. Se riusciva a ucciderlo gli succedeva con il titolo di re del bosco. Si
raccontava che il ramo in questione s’identificasse con il ramo d’oro che Enea
colse per invito della Sibilla prima di accingersi al suo viaggio nel regno dei
morti. Probabilmente era un ramoscello di vischio, simbolo di rigenerazione
fisica e d’immortalità. Quanto a Virbio, si riconosceva in lui l’eroe greco
Ippolito che, sprezzando Afrodite (Venere) e le sue gioie d’amore, era stato
ucciso dalla dea. Ma, risuscitato da Asclepio (Esculapio per i romani), era
stato nascosto da Diana nel bosco di Ariccia. Il
carattere sacro del territorio nemorense rimase per tutto il periodo romano
permettendo la consacrazione di grandi selve impenetrabili, proibite ai profani
al punto che l'imperatore Caligola, per aggiungere il divieto di costruire sulla
terra, fece realizzare sul lago due navi con funzione di vere e proprie case
galleggianti. Tutta la conca del lago, allora, diventa un immensa area sacra
con il tempio di grandissime dimensioni (occuperà una superficie complessiva di
almeno 8-10 ettari di terreno) di grande bellezza e di ricchezza unica. Il
lago stesso diverrà luogo di culto per la processione dedicata ad Iside che
percorrerà l'intero perimetro del lago su una strada appositamente costruita con
opere di ingegneria formidabili di cui sono rimaste imponenti resti, mentre una
triplice, mastodontica nave scivolava lentamente e silenziosamente sulle calme
acque del lago (la triplice nave era composta, secondo le ultime ipotesi, da tre
navi di lunghezza pari a ml 70, 72 e, presumibilmente ancora 70 per una
lunghezza complessiva di circa 212 metri ed una larghezza massima di 30
metri). Affascinanti ed ancora avvolte in un mistero che potrebbe però
essere chiarito, se non svelato addirittura, sono le vicende religiose del lago.
Al culto primitivo della primigenia dea della luce o del fuoco, il culto
arcaico si trasforma in quello di Diana, prima, dell'omologa Artemide,
successivamente, quando gli influssi greci si faranno sempre più sentire.
Con Caligola si sovrappone a quello di Diana il culto dell'egizia Iside
l'Antica che fa da anello di congiunzione con il culto che i seguaci di Cristo
stanno preparando per la Madre del Salvatore. Successivamente sul territorio
nemorense si formò una comunità agricola denominata "massa nemus" che
l'imperatore Costantino assegna in concessione alla Basilica di San Giovanni
Battista di Albano. Una decisione di carattere politico con la quale
l'Imperatore tese a potenziare la zona d'influenza di Albano, la cui comunità
cristiana, uscita da poco dalla clandestinità, si contrappose agli altri paesi
albani di antica e radicata tradizione pagana. LE NAVI ROMANE Queste
navi, nonostante numerosi e costanti studi, sono ancora avvolte da un certo
mistero. Erano piuttosto grandi per navigare in un lago come quello di Nemi, che
è abbastanza piccolo. Inoltre sul ponte delle navi erano stati costruiti edifici
di tipo terrestre, non si sa di che forma e neanche con quali funzioni. Ci sono
solo delle ipotesi, alcune anche molto plausibili. Si sa di certo che queste
navi, date le loro dimensioni, non navigavano nel lago, ma erano attraccate ad
un molo, vicino al quale passavano anche i tubi di piombo che portavano l'acqua
dalla terra alla nave. Solo una di esse aveva i remi, mentre l'altra doveva
essere trainata. Molto probabilmente la presenza di queste navi nel lago era
legata al culto di Diana che si praticava sulle sponde e nel bosco prospiciente
il lago stesso. Le navi furono fatte costruire dall'imperatore Caligola,
devoto della dea della caccia, e fortemente affascinato dal culto di Iside, che
in Egitto veniva praticato sull'acqua, per mezzo di apposite barche. E'
probabile che in questo modo, Caligola, abbia voluto gettare un ponte tra i due
culti, che comunque avevano già diversi punti di contatto. Le navi sono state
costruite tra il 39 e il 41 d.C., con una accuratezza e una precisione a dir
poco impressionanti. Basti pensare che a bordo era stata ritrovata una gru, la
cui base, per girare, sfruttava già la tecnica dei moderni cuscinetti a sfera.
Esse furono realizzate a Capo Miseno, presso Napoli, dove venivano costruite le
navi della flotta imperiale. Alla morte dell'imperatore Caligola, le navi
furono affondate nel lago, per cancellarne la memoria. Una memoria che noi,
adesso, stiamo cercando di recuperare. NOMENTUM Dopo la scoperta dei
metalli ebbero un forte sviluppo i popoli Sabini e Latini, che abitavano lungo
le valli del Tevere , dell'Aniene e del Nera. Dove oggi sono le vie Salaria e
Nomentana , già prima della fondazione di Roma, passavano i contadini e i
pastori, per portare le loro greggi dalle montagne abruzzesi alle coste del mar
Tirreno. Già Virgilio parlava di Nomentum e dei popoli del Lazio, che
combatterono a fianco di Turno contro Enea.
Con Turno infatti erano
schierate le città di Amiterno, Eretum e Nomentum. Comunque siano stati narrati
i fatti da Virgilio, Nomentum è stata una città più antica di Roma e stava dove
adesso è la frazione di Casali: fra Monte d'oro, e l'area Cacamele
all'Immaginella. Anche Nomentum prese parte alla guerra dopo il ratto delle
Sabine. Fu poi sconfitta da Tarquinio Prisco (616-578 a.C.) e da allora fu
sempre legata a Roma. Quest'ultima fece di Nomentum un municipio, che si poteva
governare autonomamente. Nomentum fu dunque unita a Roma dalla Via Nomentana.
I buoni rapporti, che ben presto, in seguito a questi avvenimenti, si
instaurarono tra Roma e Nomentum, apportarono a quest'ultima un discreto
benessere e soprattutto, diedero impulso a quel fenomeno che, con termini
abbastanza moderni, potremmo definire "turismo". Le maggiori attrattive per
le quali Nomentum venne anche celebrata da poeti e scrittori latini, erano
costituite, oltre che dal suo buon vino così generoso da conservarsi anche per
cinque anni, dalla salubrità dell'aria e dalla presenza della stazione termale
delle Acque Labane, posta nell'attuale località di Grotta Marozza. Moltissimi
patrizi romani possedevano ville e vigneti nell'agro nomentano e tra queste
vengono ricordate quelle di Seneca e Marziale, citate più volte nelle loro
opere. La diffusione del Cristianesimo nel territorio è documentata già nei
primi secoli col martirio dei Santi Primo e Feliciano, avvenuto durante la
persecuzione di Diocleziano, divenendo in seguito sede di diocesi di primaria
importanza; un vescovo Stefano è già citato in documenti del III
secolo. NORBA Norba, la città di pietra, appena un chilometro fuori
dell'abitato di Norma, in contrada Civita. La leggenda la vuole fondata da
Ercole, come altre città della Provincia. La sua origine può ricondursi al IV
sec. a.C. Dapprima ostile a Roma si impegnò con altri popoli Ernici e Volsci, a
ripristinare il regno di Tarquinio il Superbo. Sconfitta dai Romani al lago
Regillo lasciò, con gli alleati, nelle loro mani oltre 10.000 prigionieri. In
seguito si alleò segretamente a Roma e nel 494 a.C. sventò una spedizione contro
essa organizzata dai Volsci. Per questo le furono restituirti i prigionieri
della battaglia del Regillo e fu inserita nella lega Latina divenendo colonia
militare romana. Nel 329 a.C. fu saccheggiata dai Volsci pipernesi condotti
dal cittadino di Fondi Vitruvio Vacca, ribellatosi alla dominazione romana.
Questa figura si richiama al mito volsco di Camilla impersona un po' lo spirito
d'indipendenza italica di questa zona, sulla quale si incentrò a lungo la
resistenza volsca alla penetrazione romana. Fu anzi Priverno che fornì armi e
uomini a Vitruvio Vacca quando operò il tentativo di allontanare da queste zone
Roma, nel 329 a.C.. Vitruvio Vacca, un ricco cittadino di Fondi vissuto a
lungo nella Capitale, forse stanco di sentirsi un cittadino di colonia, tornato
a Fondi cominciò a profondere denaro per convincere i suoi concittadini e le
popolazioni volsche, specialmente quelle dell'interno, a ribellarsi a Roma.
Priverno, che meno delle altre tollerava la presenza romana, aderì con
entusiasmo al disegno di Vacca e formato un agguerrito esercito, iniziò una
sistematica aggressione alle posizioni degli invasori romani, accompagnandola
con azioni che oggi chiameremmo di guerriglia. Furono devastate Sezze, Cori e
Norma, fedeli a Roma e si registrarono episodi di estrema crudeltà nell'un campo
e nell'altro. I Romani reagirono all'insurrezione e dopo essersi riorganizzati,
bloccarono l'esercito di V. Vacca in Priverno che, alla fine si arrese. Vacca
pagò con la vita, nel 328, il suo tentativo. Da questa data inizia praticamente
il declino vero e proprio della preminenza italica. Proprio da Roma venne poi
distrutta per mano di Emilio Lepido nell'89 a.C., come punizione per aver
parteggiato per Mario contro Silla. Della città non rimasero che rovine
fumanti, mai più riedificate. Del vecchio tessuto urbanistico restano ben
visibili solo i grandi blocchi poligonali; ma l'aerofotografia ha rivelato
l'intero tracciato esterno delle mura e la trama urbanistica estremamente
interessante. Norba mostra le sue poderose mura difensive, lunghe 2.262 metri
ed alcune costruzioni seminterrate e identificate in un tempio a Giunone Licina,
due arces, una delle quali con un tempio a Diana e la seconda con altri due
templi. Inoltre sono pressoché integri la bellissima Porta Maggiore e il
bastione detto La Loggia, modellato alla perfezione con blocchi squadrati e
sovrapposti a secco.
Sul lato opposto della città è la Porta Segnina,
meno imponente. Norma ha una storia medievale condizionata dai due centri urbani
limitrofi più importanti, Ninfa e Sermoneta. Nel 1298 Benedetto Caetani,papa
Bonifacio VIII, ne procurò l'acquisto a Roffredo e Pietro Caetani, investendo
quest'ultimo dei privilegi feudali nel 1303. Confiscato ai Caetani da papa
Alessandro VI alla fine del XV sec.,per essere donato insieme a Ninfa, Cisterna,
Bassiano, Sermonaeta e altri comuni a Rodrigo Borgia, figlio di Lucrezia,tornò
ai Caetani che lo vendettero nel 1619 ai Borghese. PRENESTAE Seguendo una
narrazione mitica riferita da Tito Livio (e da Properzio, Ovidio, Plutarco),
fondatore della città sarebbe stato Telegono, figlio di Ulisse e della maga
Circe. Un'altra tradizione, riportata da Catone e da Virgilio, attribuisce la
fondazione della città a Ceculo, figlio di Vulcano. Una terza narrazione mitica
(riferita da Stefano di Bisanzio e da Solino) attribuisce la nascita della città
a Prenesteo, figlio di Latino, a sua volta figlio di Ulisse e di Circe. Il
mito predomina anche nella spiegazione etimologica del nome "Praeneste",
connesso da alcuni a Prenesteo, da altri al "luogo alto", su cui sorge
l'abitato, da altri ancora al termine greco "prinos" che indica il leccio,
pianta presente su tutto il territorio prenestino. Preneste appare inizialmente
retta da monarchi (VII - VI secolo a.C.). Successivamente passa ad un regime
repubblicano, la fine del periodo di massima fioritura di Preneste coincide con
l'espansione politica di Roma. L'ostilità nei confronti di Roma dura fino al 339
a.C., quando con un trattato Roma riconosce a Preneste la qualità di città
"socia" indipendente, ad essa legata con un "foedus aequum" che vincola i
Prenestini a fornire ai Romani un certo contingente militare. Da questo
momento la storia di Preneste diventa un'appendice di quella di Roma. Nel
periodo di "societas" con Roma si procede alla sistemazione urbanistica della
città bassa, imperniata sull'asse viario Preneste - Anzio, sino alla
colonizzazione promossa da Silla dopo il massacro degli abitanti e il saccheggio
della città, da lui ordinati a seguito della sconfitta di Mario. Nella seconda
metà del II secolo è da collocarsi l'avvio della completa ristrutturazione
monumentale del santuario, da tempi immemorabili meta di pellegrinaggi e
grandiose manifestazioni di culto. Tra gli ospiti delle famose ville prenestine
vanno annoverati Orazio, Plinio il giovane, Aulo Gellio, Claudio Eliano,
Simmaco; ma anche gli imperatori Augusto, Tiberio, Traiano, Adriano e molti
altri notissimi personaggi dell'età imperiale. Tra gli edifici pubblici assumono
notevole importanza l'anfiteatro (forse in località "Cori") e le "Pescare"
(nell'omonima località) ampi bacini predisposti per i "Neptunialia" (spettacoli
acquatici comprendenti "naumachie" o combattimenti di navi). Fra i dati storici
più salienti della vita di Preneste durante il periodo imperiale si deve
ricordare l'attività del filosofo e retore prenestino Claudio Eliano (170 - 235
d.C.) e durante la persecuzione di Aureliano il martirio del giovinetto Agapito
(274) divenuto in seguito il Santo Patrono della città. Nel 316, al tempo di
Giuliano l'Apostata, prende nuovo vigore l'atavico culto della dea Fortuna;
infine gli editti di Teodosio (380 - 392 d.C.) vietano qualsiasi espressione di
culto pagano, colpendo in tal modo definitivamente ogni manifesto culto della
antica religione; Preneste vede così dissolversi il proprio tradizionale motivo
di vitalità civile e di dignità storica, ma ancora nel 391 Simmaco porge un
significativo pubblico omaggio alla dea. PRIVERNUM Non sono note le
origini di Priverno che si confondano con quelle degli altri insediamenti del
periodo protostorico laziale. Rare testimonianze referibili all'età del
Bronzo suggeriscono varie ipotesi, ma , in sostanza, Priverno entra nella Storia
solo durante il periodo dell'espansione romana nel Lazio: allora appare come
potente centro Volsco, conquistato da Roma sul finire del IV secolo a.C. con la
conseguente distruzione dell'abitato. Di questi avvenimenti ci informa Tito
Livio, mentre, Virgilio, in una visione poetica del tutto anacronistica, fa
rivivere i fatti attraverso la bella immagine di Camilla. Non è stato ancora
scoperto il sito della città Volsco, mentre è noto quello della colonia Romana
di Privernum. Durante il II secolo a.C. questa sorse nella Valle dell'Amaseno,
pure di Virgiliana memoria, in una posizione di controllo delle comunicazioni
stradali fra la zona costiera Tirreno e la valle del sacco. I reperti
archeologici di Privernum ( Tiberio e Claudio dei musei Vaticani; i busti di
Alessandro e di Germanico dei musei Capitolini; i mosaici policromi attualmente
depositati presso il Museo Nazionale delle Terme, ecc.) lasciano immaginare una
cittadina ricca ed evoluta nel periodo che va dalla Repubblica al primo secolo
dell'impero. Si ignorano le cause precise che provocarono la scomparsa di
Privernum, ma alcune circostanze particolari lasciano supporre che la città fu
distrutta durante la seconda metà del secolo nono, quando era, da tempo, sede
vescovile, in una delle tremende incursione saracene. E' tradizione assai
diffusa, e anche plausibile, che in quell'occasione il popolo di Privernum si
rifugiò sulle colline circostanti la valle dell'Amaseno, dando origine ai
diversi paesi che tuttora vi si affacciano, tra i quali l'attuale
Priverno.
Parco Archeologico
A soli dieci minuti dal centro
storico di Priverno, è l'area attualmente scavata territorialmente assegnabile
all'antica città romana di Privernum.
I resti principali oggi fruibili e
sui quali si sta incentrando l'attività di scavo, sono senz'altro quelli delle
due ricche Dumus di impianto repubblicano, con strutture ben conservate sia
delle aree abitate che di quelle dedicate ai giardini ed alle terme. Da queste
abitazioni, certo appartenenti ai ceti dirigenti della città romana, provengono
ricche pavimentazioni musive ed esposte, con appropriati apparati didattici al
Museo di Priverno.
Fra queste, dalla casa più piccola, una eccezionale
soglia policroma raffigurante un gioco di pigmei in ambiente egiziano (il tipo
di pavimento, rarissimo, è detto appunto nilotico) e dalla Domus maggiore un
emblema (ovvero il riquadro centrale di una pavimentazione) figurato
policromo.
Interessante risulta inoltre il rimaneggiamento
architettonico dell'assetto originale nel passaggio tra repubblica ed
impero. SATRICUM Antica città dei Volsci, ritenuta area sacra ed
importante. Gran parte di queste città non furono fondate dai Volsci ma
preesistevano alla loro invasione, ed erano colonie latine o latino-etrusche.
Tito Livio narra anche della conquista romana di Satricum, i cui ruderi si
trovano presso B.go Montello. Fu contesa tra i Sanniti ed i Romani, fino a
cadere sotto questi ultimi. SETIA (Sezze) La leggenda vuole il mitico
Ercole fondatore della città. Questi infatti soggiogata la Spagna venne in
Italia per prosciugare una palude ed edificare città: Hercules devicta Hispania
in Italiam immigravit, desiccatisque palutibus urbes quam plurimas
condidit. E che tale palude fosse quella Pontina si deduce dal fatto che
Ercole compì tale impresa subito dopo avere sconfitto i Lestrigoni, popolo del
basso Lazio. E dalle setole del leone Nemeo (setis Nemeaei leonis) con le
quali l'Eroe era fiero coprirsi si vuole derivato il nome di Setia. In onore
di tale superbo fondatore i Setini eressero un maestoso tempio e vollero che il
simbolo della città fosse per sempre il bianco leone rampante, da Ercole ucciso,
recante tra gli artigli una cornucopia ricolma dei beni della terra e
incorniciato dalla scritta: Setia plena bonis gerit albi signa leonis (Sezze
piena di beni porta le insegne del bianco leone). Ma questa è appunto la
leggenda, in effetti la storia della vera origine di Setia (calcolata nel V
secolo a.C.) è ancora motivo di dibattito tra chi la vuole Volsca per la sua
ubicazione geografica e chi la vuole avamposto latino. Questa seconda ipotesi
sembra in verità più attendibile avendo la città capeggiato nel 340 a.C. la
rivolta delle città latine confederate, rivolta soffocata da Roma nella
battaglia di Trifano. Ricordiamo che già nel lontano 490 a.C. Setia fu
assalita dall'esercito volsco comandato dal patrizio romano ribelle Coriolano
nella guerra che questi aveva scatenato contro la patria. Ricordiamo pure che
in latino il vocabolo "setius" è un avverbio che significa "diversamente";
Setia era quindi una città diversa, ma diversa da chi se non dalle città volsche
che in pratica la circondavano. Assoggettata da Roma, come tutte le città
limitrofe, e divenuta colonia romana nel 382 a.C., Setia fu un importante centro
urbano grazie alla sua posizione strategica e commerciale a ridosso della via
pedemontana e della via Appia, le strade che collegavano la capitale al
meridione. A causa della vicinanza di Roma la città seguì di questa le
alterne vicende, un esempio su tutti: nella guerra tra Mario e Silla i Setini si
schierarono con il primo e vennero duramente puniti dal vincitore Silla con
incendi e saccheggi. Per le sue fortificazioni e per la sua posizione isolata
Setia fu scelta per custodire i prigionieri di guerra e da qui partì nel 198
a.C. (come narra Livio) la rivolta degli schiavi che minacciò la grandezza di
Roma. Nel periodo imperiale Setia era famosa per le sue ville e per i suoi
vini lodati da Marziale, Giovenale e Cicerone. SIGNIA Insediamenti
saltuari sono presenti nel territorio di Segni fin dai tempi più remoti,
addirittura risalenti all'età del bronzo. La vera storia di Segni inizia però in
epoca protoromana, tempi in cui Segni assurse a grande importanza in virtù anche
della sua posizione strategica sulla Valle del fiume Sacco, quindi sulla
direttrice che mette in contatto l'alto Lazio con il basso Lazio e la
Campania. Nel VI° sec. a.C. (precisamente nel 513 a.C.) Tarquinio il Superbo,
uno dei sette Re di Roma, inviò a Segni dei coloni e una guarnigione armata per
proteggere, per via terra, le vie di accesso alla città di Roma. Proprio per
questi fatti, suffragati anche da ritrovamenti archeologici, si dice che Segni
fu fondata da Tarquinio il Superbo. Successivamente (495 a.C.) Sesto
Tarquinio deduce a Segni una seconda colonia. In entrambi i casi, come
consuetudine di quei tempi, una buona dose di coloni romani viene ad insediarsi
nel territorio di Segni. Ma Segni, sin dai primordi, fu una città-stato
autonoma fino al 340 a.C. quando venne conquistata dai Romani che ben presto le
concessero la dignità di Municipio, godendo così di relativa indipendenza, ma
con obblighi di alleanza con la stessa Roma. Infatti nel 493 a.C. i Segnini
furono uno dei popoli sottoscrittori del Foedus Cassianum, patto di alleanza
stipulato tra le città latine e Roma, dopo il termine della battaglia che i
Romani avevano intrattenuto con popoli che si erano ribellati durante il secondo
consolato di Spurio Cassio. In questi tempi Segni era dunque una città tanto
fiorente che, unica in tutto il Lazio, coniava monete d'argento con la scritta
SEIC e addestrava milizie proprie con le quali offriva aiuto a Roma (A tal
proposito sembra che il nome "Segni" derivi proprio dal SEIC suddetto, indicante
il cinghiale, animale sacro per gli antichi abitanti di Segni, anche se altri lo
fanno derivare dalle insegne di Tarquinio il Superbo - SEIGNIA, in latino- o
dalla statua del dio Mercurio -Signinum-, presente nel recto delle monete di
Segni, oppure ancora segno (seignom) distintivo di Segni che, sola fra tante
città latine, coniava moneta) . Signia è governata da quattro pretori, due
per la legislazione e due per il governo effettivo. E' alleata fedele di Roma,
particolarmente nei momenti più difficili, e per questo viene scelta come luogo
di confino dei prigionieri punici durante la guerra contro Annibale di
Cartagine. Durante la battaglia fra Mario il giovane e Silla, i segnini
parteggiarono per il primo: alla sua sconfitta (nella battaglia di Sacriporto,
vicino Piombinara) i segnini ricevettero una cruda rappresaglia da parte di
Silla. Si arriva così all'89 a.C. (guerra marsica), anno in cui Segni
acquisì la condizione di Municipio ed il diritto di fregiarsi della sigla
S.P.Q.S. (Senatus PopulusQue Signinus). Durante l'era repubblicana ed il
successivo periodo imperiale, a Signia viene costruito il foro, i templi al dio
Ercole, alla Bona Dea, vengono innalzati monumenti a varie divinità ed
all'imperatore Marco Aurelio Antonino (detto Caracalla) e vengono costruite
numerose, e lussuose, ville nel circondario. In epoca molto posteriore Segni
subì i gravi disagi conseguenti alla guerra greco-gotica che portò un periodo di
recessione economico-sociale. Tra la fine del sec. VI e l'inizio del
successivo nacque a Segni Vitaliano, Papa dal 657 al 672. Questi cercò un
riavvicinamento con l'Impero Bizantino e con la Chiesa di Costantinopoli, inviò
missionari in Inghilterra e diffuse il canto Gregoriano. In epoca bizantina
Segni ebbe una ripresa economico-sociale. Monumenti E' la volsca Signia,
ed è ancora cinta da mura ciclopiche (sec. VI a. C. ) ben conservate, nelle
quali si aprono alcune porte.
Porta Saracena
Notevoli i resti
delle mura, con la c.d. Porta Saracena, larga in alto m. 1,40 e alla base m. 3,
di forma ogivale con architrave monolitico. Oltre la Porta Saracena sono
presenti altre porte minori, già descritte dai numerosi archeologi che
periodicamente hanno fatto studi su Segni: La "Portelletta", subito sotto il
curvone di Pianillo; Una porta nel tratto intermedio fra la Saracena e la
Portelletta; Una piccola porta, senza architrave, subito sotto la pineta di
Pianillo; La "Porta Santa", subito sotto S.Pietro, dalla caratteristica
arcata ogivale; La "Porta Foca"; La porta in corrispondenza del Ponte
Scarabeo; La porta del Lucino. Altri monumenti degni di nota
sono: Sull'Acropoli i resti di un tempio del III-II sec. a.C. (parzialmente
inglobati nella chiesa di S.Pietro (sec. XIII), che occupa la cella centrale
dell'antico tempio),
Cisterna Romana e la Cisterna Romana,
anticamente utilizzata per il recupero dell'acqua piovana per uso umano, in
mattoni di tufo cementati con l' "Opus Signinum" (tipo particolare di calce,
caratteristica del luogo, famosa nel tempo antico perchè molto resistente ed
impermeabile all'acqua); nel centro storico la Cattedrale, con la facciata
neoclassica progettata dal Valadier. TELLANAE
Antichissimo villaggio
latino di epoca pre-romana, posto sulla via Laurentina. Caratteristica è la
sua necropoli. TIBUR La città di Tivoli è collocata sulle pendici dei
monti Tiburtini lungo l'Aniene nei pressi della grande cascata che il fiume
forma ai piedi dell'antica acropoli. La ricchezza delle sue acque, la felice
posizione strategica sulla via dei traffici verso l'Abruzzo, la fertilità del
suo territorio e le condizioni climatiche favorevoli contribuirono in età
protostorica a creare le condizioni per insediamenti spontanei stabili che
determinarono i presupposti per la fondazione della città. Secondo Virgilio
la città fu fondata da Tiburto o tibumo, personaggio mitico originario di Argo i
cui fratelli parteciparono alla guerra contro Troia a fianco dei Greci; per
Catone invece la città ebbe origine da Catillo, comandante della flotta di
Evandro; infine Dionigi di Alicamasso ci parla di Tibur come di una colonia dei
Siculi, dai quali prese il nome di Siculeto e successivamente dagli aborigeni i
quali la chiamarono Polistephanon cioè Corona della Città. Le prime
attestazioni archeologiche dell'antica Tibur sono costituite dalla sua cinta
muraria di IV secolo a.C. di cui restano visibili ancora alcuni tratti. L'asse
viario principale, che determinò l'orientamento della città, era costituito
dalla via Tiburtina che la collegava direttamente a Rorna, sotto la cui egida
venne a trovarsi già dal 380 a.C., che entrava nell'abitato attraverso la Porta
Maggiore per uscirne poi dalla porta Variana. Nel II secolo a.C. un forte
sviluppo edilizio interessò i settori urbani più importanti con la costruzione
di edifici civili e di culto che costituirono i fulcri su cui poi, nei secoli
successivi, si sarebbe articolato l'impianto urbanistico giunto fino a
noi.
TEMPIO DI ERCOLE VINCITORE Si tratta di un complesso monumentale
che presenta forti analogie con altri tempi presenti nel Lazio ( Giove Anxur a
Terracina, Fortuna Primigenia a Palestrina ) tutti contraddistinti dall’uso dei
terrazzamenti digradanti utilizzati al fine di creare una scenografia di
contorno all’edificio templare vero e proprio esaltandone gli effetti
prospettici. Il santuario occupava originariamente un’area molto vasta giungendo
fino al tracciato della Via Ttiburtina che veniva isolata dall’intero complesso
attraverso poderose costruzioni .
Il tempio vero e proprio, di cui
restano i lati lunghi del perimetro, si sviluppava, su un alto podio cui si
accedeva mediante una gradinata. La cella era circondata su tre lati da un
colonnato con otto colonne sul prospetto principale. Sul suo fondo un’esedra
incorniciava la statua di culto. In asse con il tempio si trovava il teatro
fornito di scena e portico retrostante. Il culto di Ercole, con cui spesso la
città veniva identificata nell’antichità ( Herculaneum Tibur ), riporta alle
originarie rotte della tramsumanza delle greggi di cui il dio era protettore,
che, con molta probabilità, costituirono uno degli elementi portanti della
originaria economia cittadina. Nella città è possibile
vedere: ACROPOLI Sorgeva su uno sperone roccioso da cui si gode la vista
delle cascate dello stupendo paesaggio di Villa Gregoriana. La sua funzione
culturale è documentata dalla presenza di due tempi di cui il più antico è
databile, in base alle strutture edilizie, alla metà del II secolo a.C. . La sua
forma è rettangolare con quattro colonne in facciata ( di cui due conservate )
con basi attiche, pareti in opera quadrata di travertino e semicolonne laterali
addossate alla cella.
Lo stile dell’intero edificio doveva essere ionico
a giudicare dal capitello rinvenuto sul retro. Il tempio circolare posto accanto
ad esso conserva 10 delle originarie 18 colonne corinzie che delimitavano il
peristilio di cui è ancora visibile parte della decorazione a cassettoni del
soffitto. Sull’architrave si conserva una iscrizione dedicatoria. Alcuni
studiosi ipotizzano che, nella nicchia presente sul muro di fondo della cella,
fossero conservati i Libri Sibillini collegati dalle fonti letterarie a Tivoli e
al fiume Aniene.
TEMPIO DELLA TOSSE Si tratta di una grande aula
circolare a due ordini sovrapposti con copertura a cupola segnata esternamente
nel punto d'imposta da mensole di travertino. Nella parte superiore si aprono
sette nicchie, in quella inferiore vi sono i due ingressi. In origine l'edificio
doveva costituire il vestibolo monumentale di una villa del I secolo a.C.
riutilizzata alla fine del III inizi IV secolo d.C. come attestano i rifacimenti
delle murature in opera vittata (file sovrapposte di tufelli e mattoni).
Il periodo imperiale fu particolarmente fecondo di straordinarie
opere di cui Villa Adriana costituisce un magnifico esempio architettonico per
le sofisticate soluzioni tecniche in essa adottate, e culturale, quale summa del
pensiero storico ed estetico della propria epoca. Sempre al periodo di Adriano
può essere fatta risalire la costruzione dell'Anfiteatro detto di Bleso sito a
nord della Rocca Pia, rinomata fortezza con quattro torrioni cilindrici,
costruita intorno al 1461 per le esigenze militari di Pio II,
Piccolomini. Il complesso termale delle Acque Albule conserva resti
rifelibili alla media età repubblicana, periodo in cui era già apprezzata la
pratica della idroterapia, ed una serie di sepolcri, ubicati nelle immediate
vicinanze della città ancora in buono stato di conservazione completano il
quadro delle preesistenze di età classica. Mentre il territorio limitrofo alla
città vide coincidere il periodo alto-medievale con la decadenza delle grandi
ville suburbane di epoca romana, il centro urbano, nella variata ottica dei
valori, si andò plasmando alle nuove esigenze e al nuovo sentire di quel
periodo. Il foro, centro della vita ciale, fu sostituito dal duomo di S. Lorenzo
edificato, come sembra, nel IV secolo. Nel 1155, con Federico Barbarossa, la
città tornò agli antichi splendori: furono riedificate le mura di cinta che, con
la loro estensione, forniscono l'indicazione di un notevole incremento dell'area
urbana; furono costruite, a scopo difensivo, alcune case-torri nel punti
strategici, di cui si conservano alcuni significativi esempi (Vicolo dei Ferri,
via Postera, via del Serminario, ecc.); furono edificati il palazzo dell'Arengo,
la Torre del Comune, la chiesa di San Michele che definirono il nuovo fulcro
della vita civile e religiosa della città. Nel 1550 il Cardinale Ippolito d'Este
realizzò, su progetto di Pirro Ligorio, la famosa villa, cui seguirono le
costruzioni di numerose dimore nobiliari: il palazzo Cenci-Alberici, Bellini,
Pacifici, Pusterla, ecc. TUSCULUM Secondo una poetica tradizione, il
leggendario Telegono, figlio di Ulisse e di Circe, fondò la città, che
storicamente risale al IX sec. a.C. e fu resa potente dalla Lega Sacrale Albana,
prima di cadere sotto il predominio romano. Tusculum infatti fu sconfitta da
Roma al Lago Regillo intorno al 500 a.C. quando al Comando dei Latini era il
Dittatore Tuscolano Ottavio Mamilio, genero di Tarquinio il Superbo. La
derivazione del nome conferma l'antichità della combattiva città latina.
Tusculum, secondo Festo, è in relazione con i Tuschi, Etruschi. Nella zona non
si sono tuttavia trovate tracce di cultura etrusca. E' invece documentato
l'influsso delle antiche pratiche religiose greche. Giove era comunque la
divinità più venerata, come dimostrano i ruderi del tempio sull'arce, e di due
simulacri del dio scoperti nei pressi. Sullo stesso spiazzo dell'Acropoli
sorgeva anche il tempio ai Dioscuri, Castore e Polluce, distrutto nel
medioevo. La cittadinanza romana di Tusculum risale all'anno 380 a.C.,
allorché i romani la occuparono per annetterla, dopo molti anni, alla tribù
Papiria; ma Roma soppresse tutte le magistrature militari e giurisdizionali
della città latina e vi lasciò solo quelle incaricate della polizia e del
mercato, ossia gli edili. Ben presto Tusculum cominciò a destare l'interesse dei
ceti più rappresentativi ed autorevoli del popolo romano (la Mamilia, la Porcia,
la Fulvia, la Fonteia e la Corumcaria). Molti nobili vi possedevano lussuose
ville data l'amenità del luogo e l'abbondanza dell'acqua. Si raggiunge la
zona dove riaffiorano le vestigia dell'Anfiteatro, ancora in gran parte
nascosto. Era un armonioso edificio di forma ellittica, destinato agli
spettacoli tra gladiatori e fiere o a quello dei ginnasti. L'anfiteatro poteva
ospitare 3000 spettatori e aveva un diametro di m 53 x 80 (l'arena m 48 x 29).
Era costruito in opera reticolata (il conglomerato di sassi e calcestruzzo,
detto opera cementicia, era estremamente rivestito di piccole bozze di pietra
che regolarizzavano la superficie dandole l'aspetto di una rete a fitte maglie).
La costruzione risale al II sec. d.C., come dimostrano i bolli sui mattoni
trovati sul posto: un secolo dopo la costruzione dell'anfiteatro Flavio, cioè il
Colosseo. Verso la parte orientale dell'anfiteatro sono i ruderi attribuiti
alla Villa di Tiberio, qui trasferitosi da capri, dove viveva con Antonia,
vedova di Druso. Scoperta nel cinquecento come Villa di Cicerone (ivi furono
ritrovate sculture ed una statua) fu oggetto di molti studi; oggi si può
affermare che gli avanzi visibili costituivano una terrazza e un complesso di
robuste costruzioni. Nella zona furono fatti ritrovamenti, di altre ville
appartenenti a nomi illustri, anche se non si è potuto dimostrare che la vera
Villa di Cicerone, dove il grande oratore scrisse "le Tusculanae", si trovasse
nella zona finora esplorata. E' un fatto che la villa rustica sui Colli Laziali
servì al riposo specialmente degli uomini politici. Perciò le ville furono tutte
sontuose: ricche nella costruzione, vaste ed ombrose. Tra parchi e boschetti si
ergeva il praetorium o palazzo, grande atrio, portici, comodissime e
decoratissime stanze alla greca. Sulla parte più alta della villa una o
più riserve di acqua pluviale alimentavano le terme private e le fontane dei
giardini, popolate di ninfe e di tritoni. Vi erano palestre e biblioteche,
reparti riservati agli ospiti, altri per l'actor, per il villicus e per altri
addetti alla custodia, oltre le scuderie. Nei dintorni furono scoperti i resti
della Villa dei Quintili, di quelle di Piasseno Crispo, di Matidia Augusta e
forse, quella di Asinio Pollione. Sul lato settentrionale dell'arce (indicata
attualmente da un'alta croce) si vedono avanzi di mura: esse cingevano le
abitazioni di un gruppo di coloni condottivi ai tempi di Silla II sec. a.C. Vi è
anche una piccola cisterna scoperta con volta a ogiva, opera pregevolissima che
risale ai secoli V-VI a.C. L'ampio spiazzo dovette ospitare il Foro di
Tusculum, dove è conservato un interessante teatro romano.
Teatro Edificato a ridosso della collina, sfruttandone il naturale
pendio, presenta una cavea con un diametro massimo di m. 51 (1.500 spettatori),
di cui solo il meniano inferiore risulta oggi visibile, suddiviso in quattro
cunei separati da file di gradini, e un corpo scenico rettangolare di dimensioni
m. 35,5x12,5. All’estremità della cavea si aprono gli aditus, rampe d’accesso a
gradoni inclinati. Ancora visibile è la disposizione della scaenae frons (fronte
della scena), in cui si aprivano la valva regia (porta centrale) e le due valvae
hospitales (porte laterali). Interessante sottolineare la presenza di una
strada che dal foro passava sotto la metà settentrionale della cavea, prendendo
pertanto l’aspetto di una sorta di galleria, la via tecta, la cui copertura oggi
non è più visibile, fiancheggiata da una struttura muraria in opus
quadratum. Si tratta di un complesso teatrale di dimensioni abbastanza
modeste, situato su uno dei lati minori del foro, il cui limite orientale è
proprio costituito dalla facciata del corpo scenico. Il teatro ebbe tre fasi
costruttive ben definite: fase A: nella prima metà del I sec. a.C.,
probabilmente in età sillana, vengono repentinamente distrutti una serie di
edifici e strutture con funzione idraulica, situati nella zona nord e risalenti
all’epoca repubblicana, che occupavano lo spazio su cui dovrà sorgere il teatro,
che proprio allora viene edificato; fase B: nella prima metà del I sec. d.C.,
probabilmente all’inizio dell’epoca giulio-claudia, viene effettuato un
importante lavoro di ristrutturazione dell’edificio, che comporta la costruzione
di un nuovo corpo scenico, una modifica della cavea, un nuovo pozzo di
drenaggio; fase C: intorno al 100 d.C. (periodo tardo flavio-traianeo) si
effettuano nuovi interventi che comprendono la realizzazione di una serie di
muri in opus reticulatum che modificano i sistemi di accesso e circolazione
della parte nord della cavea, la costruzione di un nuovo canale di drenaggio,
l’elevazione del piano di calpestio. La fase di abbandono dell’edificio,
almeno per quanto riguarda l’hyposcaenium, si realizza nel corso della prima
metà del III sec. d.C. Interessante il ritrovamento nell’hyposcaenium di
elementi in pietra e di incassi pertinenti a una complessa struttura, per lo più
lignea, che permetteva il movimento dell’auleum (sipario).
Foro Anche
gli studi più recenti hanno continuato a sostenere per il foro di Tusculum
l’ipotesi ricostruttiva più accreditata: una piazza rettangolare in asse con il
teatro, circondata da portici, con un’area triangolare all’estremità occidentale
e, presso quest’ultima, una curia. Il complesso forense, di cui si attestano
sicuramente almeno due fasi di intervento, una di epoca repubblicana e l’altra
di sec. I d.C., consiste invece in un’area centrale irregolare, perfettamente
delimitata e circondata da edifici di particolare pregio. L’area del foro non
costruita presenta una forma trapezoidale (lati maggiori m. 80x40) con un’area
centrale pavimentata con lastre rettangolari di tufo, risalenti alla prima metà
del I sec. d.C., e delimitata a nord, est ed ovest da assi viari con
pavimentazioni a blocchi poligonali di basalto. Sul lato sud, oltre a un
canale di raccolta delle acque e pozzi di decantazione (risalenti al periodo
repubblicano), sono i resti di un grande edificio porticato con almeno tre
ordini paralleli di colonne, avente un pavimento di grandi lastre di tufo. Di
questo grande edificio, forse una basilica, costruito sicuramente dopo il III
sec. a.C., rimangono visibili una struttura in opus reticulatum con un’abside
esterna e due piccole esedre, pavimentata con un opus sectile (pavimento a
lastre di marmo) bicromo. L’ordine del porticato pertinente a questo edificio
era ionico con colonne scanalate a base attica. Nell’estremità ovest della
piazza, in cui Canina collocava una inesistente curia, si trovano invece una
serie di piccoli ambienti contigui, aperti su un portico lastricato, che in un
momento successivo alla loro costruzione vennero decorati con rivestimenti
marmorei. Il fatto che questi ambienti presentino una sorta di banchetto
addossato al muro di fondo e i resti di probabili are, ha suggerito l’ipotesi
che possa trattarsi di una serie di piccoli sacelli del foro. Il lato nord,
quello da cui entrava chi proveniva dall’antica via Labicana, presenta anch’esso
un portico, che oggi risulta quasi completamente distrutto. Anche in questo lato
è presente un canale di drenaggio, con pozzi di decantazione, identico a quello
del lato sud; l’emergenza più rilevante è però il grande muro di terrazzamento
del foro, costruito in opus quadratum tra la fine del IV e gli inizi del III
sec. a.C. Il muro suddetto costituisce finora uno degli elementi più
importanti della prima fase di costruzione del foro risalente all’epoca
repubblicana (III sec. a.C.) che aveva forma poligonale, aperto e pavimentato
con lastre di tufo, a cui risalgono anche i canali di deflusso e i pozzi di
decantazione ritrovati sui lati nord e sud. Una nuova pavimentazione (quella in
gran parte tuttora visibile) dell’area centrale del foro si può datare in
corrispondenza della fase B del teatro (prima metà del I sec. d.C.), in
relazione al tentativo di dare una unità formale al complesso. Per gli edifici
che delimitano il foro è stata documentata una serie di rifacimenti più o meno
importanti nel corso del II sec. d.C. Sia nel teatro che nel foro è testimoniata
un’importante occupazione medievale che pare circoscritta ai secoli
X-XII. VELITRAE ORIGINI L’origine di Velletri, così come quello di
molte altre città la cui storia "si perde, nell’oscurità dei tempi, è incerta
per cui, in mancanza di testimonianze certe ed univoche, si è cercato di
ricostruirla attraverso "fonti" rilevatosi successivamente inattendibili e
"congetture" che non hanno retto neanche al primo riscontro. Nessuno degli
antichi storici parlano della fondazione di Velletri, né di quella delle altre
città del Lazio; essi si limitano a ricordarle indirettamente, nelle narrazioni
delle gesta romane. C’è chi ritiene che Velletri sia stata fondata dai
Volsci, di cui ne divenne la capitale e chi sostiene invece che la nostra città
nacque etrusca intorno al 700 a.C., tanto per citare due tesi del tutto
contrastanti quanto puntigliosamente difese. I Volsci erano un popolo forte e
guerriero che verso il VI sec. a.C. vennero a stabilirsi sui monti Lepini
occupando quella vasta zona di territorio che si estendeva da Segni sino a Sora
e Cassino attraverso la valle del Sacco e da Sezze e Priverno sino a Terracina,
Fondi e Formia, attraverso le Paludi pontine. Più che i fertili campi della
Campagna veliterna deve essere stata l’invidiabile posizione strategica della
città ad indurli ad occupare Velletri. A riprova di ciò Svetonio, ne Le vite
dei dodici Cesari, riferisce che a Velletri si trovava un tempio di Marte, nume
tutelare della gente volsca. Questo tempio era in grande rinomanza presso tutta
la nazione, la quale vi conveniva a sacrificare per la pubblica prosperità e a
prendere i presagi. Il che diede motivo ai poeti di chiamare Velletri Urbs
inclyta Martis, celebre città di Marte. Gli Etruschi, invece, provenivano
dall’Etruria da dove si spinsero verso il Sud per barattare i loro utensili in
metallo con quelli di altre civiltà e lungo il percorso di questa lenta ma
costante marcia ad ogni tappa ponevano la base di una città in cui si
soffermavano per qualche tempo. Possiamo quindi ricostruire l’itinerario del
loro avvicinamento al mondo greco dalle città da essi fondate: Veio a nord del
luogo dove qualche secolo dopo sarebbe sorta Roma, Tivoli su una altura lontana
dagli acquitrini paludosi e malarici, Tusculum, l’attuale Frascati, Praeneste
ossia Palestrina, Cori sino a Capua dove vennero in contatto con i Greci ivi
stanziati.
MUNICIPIUM ROMANUM Con la nascita di Roma la città di
Velletri, volsca o etrusca che fosse, dopo aver resistito per circa due secoli
alle forti pressioni espansionistiche veniva conquistata dai romani. Velletri
fu una civitas opulenta, come lo attestano le sue mura preromanee, le artistiche
terrecotte volsche, preziosi tesori del VI sec. a.C., conservati nel museo di
Napoli e in quello della nostra città. Fiera del suo Senato, della sua forza e
della sua autorità, resistette lungamente contro la prepotenza accentratrice di
Roma; e quando, domata da Furio Camillo, le dovette cedere il passo, essa
divenne il più apprezzato Municipium Romanum. Per la tenace resistenza
opposta le sue fortificazioni vennero rase al suolo ed i suoi cittadini portati
a forza a Roma al di là del Tevere (ossia nell’attuale quartiere di Trastevere)
ripopolandosi la città con coloni per la coltivazione di quelle fertili terre
che l’Urbs tanto aveva desiderato possedere per l’invidiabile posizione
strategica della nostra città.
Pur ultima dopo gli Equi, gli Enrici e gli
Aurunci, quindi, anche a Velletri nel 338 a.C. alla fine di una guerra che Livio
definì "eterna" e Cicerone "gravissima", veniva soggiogata da Roma e finiva così
il regno dei Volsci con il leggendario re Metabo e sua figlia Camilla di cui ci
ha lasciato memoria Virgilio nell’Eneide. Le prime ostitilà sorsero sotto il
re Anco Marzio; conquistata dal console Aulo Virginio, ricevette una colonia
romana nel 493 a.C. e un’altra nel 404; poco dopo la Guerra Gallica passò ad una
aperta rivolta contro Roma e venne infine sconfitta sulle sponde dell’Astura nel
338 a.C. Divenne, pertanto, come abbiamo appena ricordato prima una colonia e
subito dopo il più apprezzato Municipium Romanum concorrendo con il valore ed il
sangue dei suoi figli alle vittorie su Pirro e su Annibale. Era inevitabile,
però, che il dominio romano imponesse a Velitrae e ai suoi abitanti la sua
religione, i suoi costumi e la sua lingua facendo a poco a poco perdere memorie
di tutto quello che rimaneva della passata civiltà. Anche se Strabone scrisse:
"Quando il popolo dei Volsci venne assorbito dai Romani, rimase presso questi la
loro lingua, tanto che si rappresentavano in Roma commedie in lingua
volsca.
Continua>
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