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ANTICHI POPOLI
DEL SUD ITALIA
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ANTICHI POPOLI DEL SUD
ITALIA IN EPOCA PRE ROMANA |
Magna Grecia
Nell'antichità era conosciuta come Megale Hellas .
Rappresenta un insieme di città poste nell'Italia meridionale fondate da membri
di popolazioni greche (Ioni, Dori, Achei, Eubei, Calcidesi), emigrati dalle loro
patrie per ragioni politiche ed economiche. In questo modo le culture
ellenica ed orientale sono approdate nel sud della penisola, popolato all'epoca
dagli Enotri, popolazione autoctona, successivamente emigrata in Sicilia. Nel
corso dei secoli si è erroneamente pensato che questo territorio ebbe uno
sviluppo subordinato a quello della madrepatria. In realtà queste città
conobbero uno sviluppo proprio in vari settori, come l'arte, la scienza, la
filosofia. Si arrivò così al punto che tale regione si guadagnò presso la
madrepatria l'appellativo di "magna". Essa divenne luogo di approdo delle
navi provenienti dall'Asia e dalla Grecia, dunque sede di numerosi e prolifici
commerci. L'arte e la scienza magnogreche vennero rapidamente conosciute in
tutto il mondo. Il territorio della Magna Grecia investe le regioni
dell'Italia meridionale, ricche di terra fertile. BRUZI
La comparsa di
questo Popolo nella Storia della Calabria Antica e il suo definitivo declino, e'
ben fotografato dalle parole di Strabone(VI,255) e (VI,253-254): "Poco oltre
i Lucani ci sono i Bretti, che abitano una penisola, la quale a sua volta
comprende un'altra penisola il cui istmo va da Skylletion fino al golfo di
Hipponion. Il loro nome è stato dato dai Lucani: questi i ribelli li chiamano
appunto "bretti". Secondo la tradizione, i Bretti che prima erano dei pastori al
servizio dei Lucani e poi si affrancarono, si rivoltarono contro di essi
esattamente allorché Dione portò guerra a Dionisio e fece sollevare tutti
questi popoli gli uni contro gli altri". "I Lucani, i BRETTI e gli stessi
Sanniti, che furono i loro progenitori, sono talmente decaduti che risulta
difficile persino distinguere i loro insediamenti. La ragione va ricercata nel
fatto che di ciascuno di questi Popoli non esiste piu' alcuna organizzazione
politica comune, sono scomparsi i dialetti, si è perduto l'uso degli
abbigliamenti militari e civili e di altre cose del genere; per altro, i loro
insediamenti, considerati uno per uno e nei particolari, sono del tutto
insignificanti" L'arco di tempo "racchiuso" nelle parole del grande geografo
è perciò quello che va dal 357-356 a.c. ( anno in cui Dionisio subì l'attacco di
Dione) e il 7-18 d.c. ( gli anni durante i quali Strabone scrisse e revisionò la
sua Geografia). Per la verità, prima di questa data, la loro presenza in
Calabria doveva essere nota al mondo greco poichè, in un frammento comico che
Stefano di Bisanzio attribuisce ad una opera ignota di Aristofane, si parla di
"pìssa Brettia"(fr.629) : la pece silana (Bruttia pix) era già, in qualche modo,
"identificativa" di questo popolo sin dalla fine del V° sec. a.c. o inizio
IV°.
Ma chi erano e da dove venivano le popolazione bruzie? Come
vivevano?
Nel corso dell'età del Ferro, gruppi di genti di stirpe
Indoeuropea penetrarono in Italia distribuendosi lungo l'arco delle dorsali
appenniniche centro-meridionali. Ad essi fu dato il nome di Italici, all'interno
dei quali venivano distinte le tribu' dei Sanniti, degli Apuli, dei Campani,
dei Lucani, ecc., tutti caratterizzati dal linguaggio comune definito Osco. Per
tale ragione, gli stessi Romani li identificavano come un gruppo omogeneo cui
diedero il nome di Sabelli. La tradizione letteraria concorda
nell'identificare i Bretti come pastori e/o servi dei Lucani che
abitudinariamente vivevano a mo' di nomadi. Infatti tali li definisce - come già
visto - Strabone, ma altrettanto fa Diodoro Siculo ( XVI,15) e Pompeo Trogo in
Giustino (XXIII,1,1-14); quest'ultimo Autore, inoltre, conferma la loro
discendenza dai Lucani e la vittoriosa rivolta contro quest'ultimi. I Bretti
ci vengono dunque presentati come Popolo di stirpe Indoeuropea, di linguaggio
osco, di animo rude e bellicoso ( ad iniuras viciniorum prompti) e a
connotazione nomade (Platone parla di popoli nomadi e aggressivi per i quali usa
il termine di Peridìnoi presenti in Italia . Leggi,VI 777c).
I Bretti,
tra la metà del IV° e la metà del III° a. c. , attaccano e conquistano diverse
città magno-greche, (Terina, Hipponion, Sibarys sul Traeis e altre) sottraendo
loro territorio e risorse. La loro parabola va inquadrata nel contesto storico
del tempo ove, contemporaneamente al declino delle pòleis magnogreche stremate
da continue lotte intestine e all'ingerenza militare dei tiranni Siracusani , si
assisteva alla inarrestabile ascesa della potenza Romana. Le guerre combattute
al fianco di Pirro re dell'Epiro prima, e di Annibale poi (guerre puniche),
decretarono la fine della potenza brettia e la loro scomparsa come etnia
autonoma organizzata: quasi tutto il loro territorio, con in testa Cosentia
(metropolis brettia) , faceva oramai parte dell'Ager Romanus (II° e I° sec.
a.c.). Allo stato attuale delle nostre conoscenze, anche i ritrovamenti
archeologici appartengono a materiali databili più o meno dal IV° sec. a.c. in
poi. Questa concomitanza temporale alla tradizione letteraria potrebbe
confermare il carattere nomade ( con assenza di insediamenti stabili ) del
popolo derivato dai Lucani e la loro effettiva organizzazione socio-economica a
partire dalla meta' del IV° sec. a.c. Gli insediamenti stabili non
raggiungevano mai la la dimensione e la organizzazione di una città, tanto che
gli Italioti e la storiografia ad essi collegata , non li hanno mai percepiti
come pòleis o modelli simili. In effetti si trattava di "nuclei", che si
ripetevano regolarmente e a breve distanza, composti da un Oppidum cui erano
collegate delle "ville". L'oppidum, abitato dalla classe dominante ( guerrieri,
magistrati e, forse,sacerdoti), era il luogo dove si svolgevano le
riunioni-assemblee e si prendevano le decisioni importanti per la salvaguardia e
lo sviluppo della comunità. Entro la sua cinta muraria era posta la necropoli,
lo studio archeologico della quale, testimonia delle differenze tra classi
sociali e delle ulteriori differenziazioni all'interno della stessa
classe. Le tombe, a camera, contenevano tutta una serie di oggetti posti
attorno al corpo inumato del defunto. Oltre a vasetti di ceramica di ispirazione
greca e funzionalmente diverse a secondo del sesso del defunto, nelle sepolture
maschili sono le armi (lance,spade,scudi,elmi,schiniere) a caratterizzare il
rango del defunto, mentre nelle deposizioni femminili tale funzione e' svolta
dai gioielli, sia in oro che in bronzo. Tali elementi ( armi e gioielli) sono
per la massima parte di produzione italiota, a testimonianza della forte
permeazione culturale magno-greca del mondo brettio. Accanto a questi ,
tuttavia, coesistono armi di produzione italica; allo stesso modo sembra
potersi dedurre la presenza di fabbricatori locali di oggetti in bronzo tra
quelli contenuti nel cosiddetto " Tesoro di Sant'Eufemia". Le deposizioni
riguardanti il ceto subalterno delle ville, ove evidentemente si svolgevano le
attività produttive, erano situate in tombe a fossa situate in prossimità delle
ville stesse e non contenevano armi o oggetti di particolare valore. In
definitiva, un popolo quello dei Bretti sopratutto di guerrieri ma che ,come
scrive il Marandino "almeno fino alla sottomissione da parte di Roma, sempre
tanto forti da impedire a chiunque di unificare in un solo stato tutti i popoli
della Calabria antica, e, comunque, sempre altrettanto deboli da non riuscire
essi stessi a tale impresa"; un popolo di cui non resta alcuna traccia di
civilta' culturale non materiale, ma che tuttavia erano gli unici ad essere
definiti da Ennio "bilingues", come tramandato da Lucilio e commentato da Festo:
"Bilingues Bruttates Ennius dixit,quod Bruttii et Osce et Graece loqui solit
sint. Sunt autem populi vicini Lucanis"; un popolo influenzato ma mai assorbito
dalla cultura magno-greca :" La storia dei Brezi e' intessuta dal progressivo
appropriarsi delle forme materiali della cultura greco-italiota, funzionalizzate
all'interno di una sfera che nasce e rimane
anellenica". ENOTRI
Secondo le fonti antiche l'Enotria occupava un
vasto territorio tra le colonie greche di Poseidonia e Metaponto e gran parte
della Calabria settentrionale. I centri enotri in Basilicata erano realtà
cantonali corrispondenti ai diversi bacini fluviali. Le valli fluviali, in
questo territorio montuoso e pieno di boschi, rappresentavano le principali vie
di comunicazione tra Ionio e Tirreno. Nel IX secolo a.C. gli abitati enotri
erano situati su alture per controllare il territorio e gli itinerari. Si
trattava di piccoli abitati di capanne con organizzazione sociale ancora di tipo
tribale, basata su semplici rapporti di parentela. L'economia era basata
essenzialmente sull'agricoltura, anche se era sviluppato l'artigianato come
dimostrano i ricchi manufatti in bronzo. Agli inizi del VII secolo a.C., in
seguito alla fondazione delle colonie greche sullo Ionio e dei centri etruschi
della Campania interna, i centri enotri stabilirono relazioni commerciali con il
mondo greco-ionico e con il mondo etrusco-tirrenico, con il conseguente sviluppo
socio-economico. Inoltre fino alla metà del V secolo a.C. gli Enotri assistono a
un processo di acculturazione, basato su processi greci ed estruschi. Verso la
metà del V secolo a.C., in seguito alla caduta di Sibari (510 a.C.), il mondo
enotrio entra in crisi assistendo all'emergere dell'ethnos dei Lucani. Subiranno
un processo migratorio verso la Sicilia, dando luogo a mescolanze con altri
popoli locali. Dionigi di Alicarnasso parlando dell'origine greca delle
popolazioni dell'Italia meridionale e attingendo a fonti più antiche del V
secolo a.C., racconta la storia dell'ethnos enotrio: " Primi tra i Greci questi
[gli Arcadi], traversando il Golfo Ionio si stabilirono in Italia, sotto la
guida di Enotrio figlio di Licaone... 17 generazioni prima della spedizione
contro Troia. Fu dunque questa l'epoca in cui i Greci inviarono la colonia in
Italia. Enotro lasciò la Grecia non essendo soddisfatto dell'eredità paterna:
avendo infatti Licaone 22 figli, era stato necessario dividere in altrettante
parti la terra degli Arcadi. Lasciato per questi motivi il Peloponneso e
preparata una flotta, Enotro traversò lo Ionio, e insieme a lui anche Peucezio,
uno dei suoi fratelli. Li accompagnavano molti della loro stessa stirpe poiché
si dice che anticamente gli Arcadi fossero un popolo assai numeroso e quanti tra
gli altri Greci possedevano terra insufficiente alle loro necessità. Peucezio,
sbarcata la sua gente nel punto stesso del loro primo approdo in Italia, al di
sopra del Capo Iapigio, vi si insediò, e da lui gli abitanti di quella regione
furono chiamati Peuceti . Enotro invece, con la maggior parte della spedizione
giunse all'altro golfo... Trovando molta terra adatta al pascolo, ma anche molta
idonea per l'agricoltura, per lo più inoltre deserta o poco densamente abitata,
dopo aver scacciato i barbari da alcune zone, fondò numerose piccole città sulle
montagne, secondo quello che era l'abituale modello insediativo degli antichi. E
chiamò tutta la terra che aveva occupato, e che era assai estesa, Enotria, ed
Enotri tutti coloro sui quali ebbe il governo ". Aristotele, filosofo greco
del IV secolo av.C., riferisce che un successore di Enotro, Italo, diede agli
Enotri leggi e istituzioni, (sissizi, ossia pasti comuni o riserve alimentari
collettive), trasformandoli da pastori non in agricoltori sedentari. Da Italo la
regione avrebbe assunto il nome di Italia. La ceramica enotria La
produzione di ceramica enotria presenta poche forme di tradizione protostorica.
Accanto a vasi ad impasto compaiono le produzioni in ceramica depuarata, a volte
dipinta con una semplice decorazione geometrica. I vasi o la tazza attingitoio
per i corredi funerari erano decorati con semplici motivi in colore bruno, tra
cui il motivo distintivo della ceramica enotria più antica detta "a tenda
elegante". Nel VII secolo a.C. il corredo vascolare è influenzato da nuove forme
di derivazione tirrenica o greco-orientale come nel caso dei kantharoi, con
qualche esempio di ceramica geometrica bicroma. Soltanto nel VI secolo a.C.
la produzione vascolare si amplia notevolmente: si diffondono forme di
derivazione tirrenica e ancora i kantharoi a decorazione bicroma, forme di
derivazione greca, in particolare corinzia e greco-orientale. Infatti alcuni
vasi della produzione locale presentano dipinti con figure o schemi antropomorfi
e ancora sono legati al rituale funerario modellini fittili di arredi di culto o
quelli di casa-tempietto sormontati da protomi di ariete, di toro o volatili e
serpenti. Alla fine del VI secolo a.C. la produzione vascolare enotria
diminuisce favorendo quella di tipo greco funzionali al rituale del
simposio.
PANDOSIA
Pandosia sorgeva su un colle tra i fiumi Agri
(Acheronte) e Sinni (Signum), un tempo navigabili, e controllava tutta la piana
sottostante (piana di Metaponto). Strabone ipotizza che sia stata fondata dagli
Enotri e dice che Enotrio era uno dei ventitré figli di Licaone, che signoreggiò
nella Lucania Orientale. Però non tutti gli storici sono d’accordo con questa
ipotesi. Pandosia confinava con Eraclea , altra città della Magna Grecia. Tra il
400 e 500 a.C. Taranto, alleata con il Re dell’Epiro e Eraclea, Lagaria e
Pandosia, combatté contro i Lucani, alleati di Messapi e Sanniti e scesi dall’
Italia Centrale a quella Meridionale nel VI secolo a.C. Durante questa guerra
nel fiume Agri morì Alessandro il Molosso, lo zio di Alessandro Magno. Egli era
il comandante dei soldati inviati dall’Epiro. Era venuto nella Magna Grecia per
fuggire dalla propria patria, perché un oracolo gli aveva predetto che egli
sarebbe morto presso Pandosia e, precisamente, nel fiume Acheronte (Agri).
Presso l’Agri e il Sinni si combatté un’altra grande battaglia fra le legioni
romane di Valerio Levino e l’esercito di Pirro e Taranto. In questa battaglia,
detta di Eraclea, morirono 1500 soldati romani e altrettanti soldati di Pirro e
dei suoi alleati. Pandosia fu distrutta successivamente dalle legioni di Lucio
Silla nell’ 81 d.C. GLI ALFATERNI
Popolazione italica residente
nell'Agro Nocerino - Sarnese. Tale zona coincide coll'ampia vallata del
bacino del fiume Sarno, ed è proprio questa conformazione geografica ad aver
determinato il corso della sua storia. Infatti, reso fertilissimo
dall'abbondanza d'acqua e dalle ceneri vulcaniche, esso fu abitato fin dalla
preistoria, come attesta qualche ritrovamento di manufatti neolitici sulle
pendici circostanti: mancano, invece, sinora, ritrovamenti nella pianura, perché
millenni di alluvioni ed eruzioni vulcaniche hanno ricoperto ogni più antica
traccia umana. Le prime tracce umane risalgono all'Età del Bronzo, 1000 a.C.
circa, e sono quelle di un villaggio che è stato scavato a Foce di Sarno, non
lontano dal sito su cui furono poi costruiti il teatro ed un tempio sannitico;
dello stesso periodo è anche il villaggio trovato a Striano. La datazione è
piuttosto precisa perché tutti questi villaggi, furono seppelliti dalle ceneri.
e dai lapilli di una delle più disastrose eruzioni vesuviane, detta delle Pomici
di Avellino, avvenuta nel XVIII sec. a. C.. Un'occupazione umana più consistente
si verifica nell'XI sec. a.C., quando popolazioni del ceppo indoeuropeo arrivano
nella zona, occupando tutta la pianura campana fino a Cuma . Tali popolazioni
sono definite protoitaliche perché antenate di quelle che in seguito chiameremo
italiche: i Latini, gli Umbri, i Sanniti, ecc.. Noi ne conosciamo la cultura,
nel senso che gli archeologi danno a questo termine, cioè l'insieme dei modi di
vivere, attraverso le tombe, poiché villaggi non ne sono stati ancora trovati,
mentre di tombe ne sono state trovate moltissime. Si tratta della cultura detta
dagli archeologi delle tombe a fossa in cui i morti vengono in una fossa
rettangolare nella terra con la testa ad Est così da avere lo sguardo rivolto
verso il tramonto dove si credeva fosse il regno dei morti. Quasi sempre le
fosse sono circondate da un cerchio di pietre aperto, che ricorda una capanna,
ed allineate lungo dei viali, come per formare un villaggio dei morti accanto al
villaggio dei vivi. Tali necropoli sono state scavate a Sarno, a Striano ma
soprattutto a S. Marzano e a S. Valentino dove si sono trovate più di 1300
tombe, che coprono un periodo di quattro secoli, dal X al VII sec. a.C.. Il
quadro che ricaviamo da tali tombe è di una civiltà contadina, egalitaria ed
arretrata: i corredi funerari sono, sostanzialmente, tutti uguali e molto
poveri, contenenti qualche cerchio di bronzo e pochi vasi di manifattura
piuttosto rozza. LUCANI I Lucani erano un popolo di ceppo Indoeuropeo,
stanziato sui monti dell'Appennino centrale. Alla fine dell'età del ferro, verso
il 500 a.C., dopo aver fondato Teggiano ed Atena Lucana, lungo il fiume Tanagro,
si diressero verso l'Agri, fondarono la città di Grumentum e si diffusero anche
nell'intera Lucania, mescolandosi con gli autoctoni, ossia con le popolazioni
indigene, siano esse Pelasgi o Enotri. Il nome Lucani deriva dal termine
osco lukon che significa lupo. La Lucania ha origine con i Lyki ,
popolazione proveniente dall'Anatolia, mentre a partire dall'VIII secolo sulle
coste s'insediano i Greci. Comunque la Lucania di allora avava confini diversi
da oggi: infatti si estendeva tra i fiumi Lao (Calabria) e Sele (Campania) sul
Tirreno e tra i fiumi Crati (Calabria) e Bradano (Lucania) sullo
Ionio. Intanto tribù osco-sabelliche scendono dall'interno per combattere il
predominio greco che, non dimentichiamolo, arriva sino a Poseidonia , loro
capitale. Distruggono tutto, tranne Velia. Nel 282 a.C., i Lucani, dopo una
certa resistenza, furono assoggettati dai Romani. Questi, nell'epoca
repubblicana, fecero di Grumentum un fiorente centro commerciale, collegato
tramite la via Popilia da una parte al Tirreno, dall'altra allo Ionio. Dopo
l'avvento di Roma, i Lucani si alleano con Pirro ma poi seguono le vicende
romane, quindi anche la caduta dell'Impero e l'arrivo dei barbari. Partenope
- Neapolis
Nel '680 a.C.i cumani fondarono la città di Partenope che, col
passare del tempo divenne il rifugio di tutti gli scontenti di Cuma, ben presto
tanto numerosi da diventare minacciosi per la stessa madrepatria.
Nel
470 a.C. Partenope venne distrutta ma, a causa di una pestilenza mandata,
secondo la Sibilla dallo stesso Nettuno , padre della sirena Partenope , per
punire i Cumani, fu fondata sullo stesso posto la città di Neapolis per
ripristinare il culto della sirena. Divenne poi possedimento sannita prima e
romano poi. I MESSAPI
I Messapi erano gli abitanti della parte
meridionale della Iapigia (Puglia) distinti dai Peuceti (terra di Bari) dai
Dauni (terra di Foggia) e riconosciuti con il nome di Salentini. Non si sa
bene da dove derivi il loro nome. Si pensa significhi "popolo tra due mari"
perché si erano stabiliti nella zona a sud della Puglia, tra il Mar Adriatico e
quello Ionico, e perché nel loro nome si avverte la presenza del suono "ap",
come anche in Iapigi e Apuli, che vuol dire "acqua". Si pensa anche voglia dire
"domatori di cavalli" (equorum domitores, come li definisce Virgilio); infatti
allevavano i cavalli. Erodoto li ricorda come una popolazione unitaria e
compatta etnicamente e culturalmente; in un passo della sua opera, i Messapi
sono definiti discendenti dei Cretesi, che si spinsero sulle coste del Salento,
si mescolarono alle popolazioni già presenti, fondando così le prime città e
portando usi e costumi che distinsero i Salentini dalle altre popolazioni.
Secondo gli storici moderni, invece, i Messapi erano di stirpe illirica,
come farebbero pensare gli etnici, i nomi geografici, le glosse e la lingua
delle iscrizioni messapiche, rinvenuti in Puglia. Essi sarebbero arrivati a
Otranto intorno al 1000 a.C., in quanto punto più vicino all’Albania, e poi
sarebbero scesi fino a S. Maria di Leuca e risaliti fino a Taranto . Questo
deriva da testimonianze storiche considerate valide perché gli autori antichi
parlano di alcuni viaggi così effettuati. Anche Virgilio nell’Eneide, parlando
delle peregrinazioni di Enea, fa riferimento ad un viaggio con un itinerario
simile. Gli storici antichi assegnavano ai Messapi tutta la penisola da
Brindisi e da Taranto fino al capo di S. Maria di Leuca, come testimoniano i
ritrovamenti linguistici. La lingua messapica ci è nota da un numero
considerevole di iscrizioni pubbliche, funerarie, votive, numismatiche,
rinvenute in Puglia soprattutto nel Salento, redatte in alfabeto messapico, che
è quello greco di Taranto . Si tratta di una lingua indoeuropea che rientra nel
gruppo delle lingue cosiddette "satem", cioè le indoeuropee centro-orientali,
presentando un’affinità con l’odierno albanese. Comunque della lingua messapica
non si sa molto, o meglio, si sa leggerla ma non si sa capirla perché i simboli,
simili a quelli dell’alfabeto greco, formano parole di cui non si conosce il
significato. SANNITI - CAUDINI Origini
Il primo problema che
si affronta nella descrizione dei Sanniti, è l’attendibilità delle fonti
storiche. Si tratta di un popolo che ha ingaggiato una dura lotta con i romani
per circa tre secoli, uscendone, alla fine, sconfitto. Tutti gli storici che
descrivono questo popolo, come Livio ad esempio, sono filoromani, cioè schierati
dalla parte dei vincitori, ed hanno svolto una continua propaganda, volta ad
esaltare i signori del mondo di allora e ad oscurarne i nemici. I sanniti,
presenti in Italia già dal 600 a.C., sono frutto di una fusione tra popolazioni
autoctone provenienti dall’area sabina centro-meridionale ed indoeuropee. Il
risultato di questo processo è stato la formazione di gruppi osco-umbri che si
sono sparsi su tutto il territorio. Questi trovarono una lingua locale
abbastanza facile da apprendere e la fecero propria: l’osco. Essa, infatti,
risulta essere la più diffusa in tutta l’Italia. Una seconda difficoltà
relativa alla descrizione dei sanniti sta nell’individuarne l’autenticità.
Infatti, oltre ai sanniti stessi, esistevano moltissime popolazioni che
parlavano l’osco: Sabini, Bruti, Lucani, Peligni (di Sulmo e Corfinium), Umbri,
Piceni, Marsi (Fucino inferiore e Alba Fucens) , Aurunci (di Cales) , Equi (di
Carseoli) , Volsci (di Arpinum, Fregellae), Hernici (Ciociaria), Frentani (di
Larinum) , Apuli o Dauni (di Arpi) , Messapii (Salento) , Marrucini (basso
Abruzzo) , Vestini (alto Abruzzo) , Campani (di Capua) , Alfaterni (di Nuceria)
, Sidicini (di Teanum).
Molti di questi popoli sono noti anche
come sabellici, nel senso che parlavano dialetti di tipo osco, mentre sabelli
sono considerati quei popoli che parlavano direttamente l’osco. Ai primi
appartengono i seguenti popoli: Peligni, Marrucini, Vestini, Marsi. Ai secondi:
Sanniti, Mamertini, Frentani, Sidicini, Campani, Lucani, Apuli, Bruzi . I
sanniti, i sabelli per eccellenza, si distinguevano dagli altri popoli anche per
altri elementi: arte, religione, senso della difesa comune, sistema legislativo.
Le tribù sannite erano quattro: i Carecini, abitanti della regione del basso
Abruzzo, con capitali Cluviae, Aufidena e Juvanum; i Pentri, popolo
bellicoso, residente in Molise, con capitale Bovianum, che annoveravano tra le
loro città Aesernia e Sepinum; i Caudini, tribù ellenizzata, residente nella
zona del beneventano, con capitale in Caudium, l’odierna Montesarchio, e
Telesia; gli Irpini (dall’osco hirpus-lupo), popolo lottatore, che aveva la
propria capitale in Maleventum ed anche città come Aeclanum, Abellinum, Compsa,
Carife, Aquilonia, Luceria e Venusia. Queste tribù occupavano e
gestivano il controllo di una regione estesa ed impervia.
Attività
La durezza del territorio abitato costringeva i sanniti a sviluppare
attività abbastanza ridotte ed essenziali, tutte finalizzate alla sopravvivenza.
Quelle principali erano costitute dalla pastorizia e dalla caccia. La prima
in particolare spinse ad un’attività di transumanza lungo i tratturi: piste
prestabilite che attraversavano il sud dell’Italia. I sanniti vivevano molto
anche sulle razzie che compivano ai danni dei villaggi dei popoli vicini.
Molto semplici nel vestire e nel mangiare, lavoravano la pietra e qualche
metallo: ne sono un esempio le numerosissime fibulae ed i monili trovati nelle
varie tombe. Non coniarono monete, ma basavano le attività di compravendita sul
baratto. Solo sotto la dominazione romana iniziarono a forgiare delle monete,
anche a scopo puramente di ribellione, rappresentando l’effigie di qualche
repubblicano o anti-romano. L’attività industriale era ridotta al minimo ed
era abbastanza semplice. Anche l’agricoltura non ebbe molto sviluppo, basti
pensare alla tipologia del territorio sannita. Famosi erano comunque i cavoli
sabelli. Il tasso di mortalità era abbastanza elevato ed i sanniti venivano
seppelliti nelle tombe a tumulo, importate dalla cultura indoeuropea.
Amavano molto la lotta e praticavano dei giochi gladiatori in occasione dei
funerali. Famosi furono i gladiatori sanniti, al pari dei Marsi, e sembra che i
romani importarono da loro e non dagli etruschi tale arte ludica. Dal punto
di vista militare, erano organizzati in coorti, come i romani ed avevano un
equipaggiamento leggero, perché non disponevano di molto metallo. In battaglia
impiegavano l’astuzia ed erano accompagnati da una buona dose di vigore. Le loro
armi erano: le lance, il giavellotto, gli scudi tondi e rettangolari. Alcune di
essere furono impiegate anche dai romani. Tipici erano i gambali ed i pennacchi
sull’elmo, comuni a tutti i popoli italici. Per quanto riguarda l’arte, ci è
pervenuto pochissimo, sia perché non ne possedevano molta, sia perché quel poco
che era stato realizzato venne preso dai romani. Pochissime sono le pitture,
molto semplici, mentre più numerose sono le lavorazioni in marmo ed in bronzo. I
santuari di Pietrabbondante e Schiavi d’Abruzzo hanno rappresentato una miniera
in tal senso.
I templi, realizzati in pietra, erano imponenti ed
orientati lungo l’asse est-ovest, secondo la tradizione orientale. Le città
erano tutte arroccate in alto sulle rocce, per scopi difensivi, e circondate da
palizzate (il termine carseoli è legato alla parola roccia). Le case erano
molto semplici ed essenziali, come le tombe del resto. Il numero maggiore di
reperti che ci è pervenuto è rappresentato dalle tombe. Di grande interesse
risultano essere anche i templi di Sepino
e di Pietrabbondante .
Bisogna aggiungere che lo stile vita e la cultura dei
sanniti subì notevoli influenze dai greci e dai romani. In particolare i Caudini
furono sottoposti ad un processo di ellenizzazione, considerata la loro
vicinanza con Napoli. I romani, infatti, una volta vinta la guerra, non
trovarono molte difficoltà a fare apprendere a tale tribù il concetto di
civitas, che aveva radici nel mondo greco, completamente ignorato dal resto dei
sanniti. L’influenza romana si basava su scopi politici. Venne attuata una
strategia che si proponeva di separare fisicamente le quattro tribù sannite tra
loro, creando delle regioni "cuscinetto". Inoltre, con un costante processo di
romanizzazione, si mirava ad affievolire lo spirito ribelle di queste
popolazioni. Questo ebbe dei riflessi anche sulla lingua osca, molto semplice da
apprendere, che venne sistematicamente cancellata, per lasciare posto al latino.
La conferma di tutto ciò si ha quando Annibale scese in Italia e non riuscì
a portare dalla sua parte tutte le tribù sannite, ormai romanizzate. Da un certo
punto di vista la storia sannita e quella etrusca si assomigliano, soprattutto
nell’epilogo. Sviluppo Dal 500 a.C. al 350 a.C., i sanniti,
attraverso i loro flussi migratori con i quali conquistavano territori ricchi di
pascoli e di campi da coltivazione, controllarono gran parte dell’Italia
centro-meridionale (Sannio, Molise, alta Lucania, alta Puglia, Alta Campania),
realizzando un regno abbastanza florido. Anche il tenore di vita sannita mutò in
funzione delle ricchezze che venivano lentamente acquisite. In Campania, gli
etruschi lasciavano spazio alle tribù sannite che avevano sempre più interesse a
controllare territori ricchi come Capua, Pompei, Nocera e Nola. Verso la Puglia
la loro espansione si sentiva minacciata da incursioni dall’Oriente, mentre in
direzione della Calabria (Bruzi) e della bassa Campania vi erano influenze
elleniche e siceliote, in particolare siracusane. Nel momento in cui gli
interessi sanniti si diressero verso il basso Lazio e Napoli, si entrò in
contatto con i romani. Società Tra i sanniti non vi era il
concetto di civitas o di città-stato. La più piccola unità politica era il
pagus. Si trattava di una parola osca che rappresentava un distretto rurale
semindipendente. Esso svolgeva funzioni governative locali, reclutava militari,
aveva nel suo interno edifici e in esso si tenevano assemblee, dove si
approvavano leggi. Più pagi formavano un touto. Il touto dei Peligni era
composto di 25 pagi. Soprattutto in termini militari, i sanniti si riunivano
spesso in touto, che risiedeva presso la capitale. Alcune tribù avevano più
capitali perché, di volta in volta, il touto si riuniva in luoghi diversi.
L’autorità amministrativa più importante era il meddix tuticus
(magistrato-console), che veniva eletto dall’assemblea e gestiva molto potere.
Vi erano anche dei funzionari minori: censor, legatus (kenzstur in osco),
aidilis, praetor, prefectus. Simbolo del potere era un trono di pietra. Solo con
la dominazione romana il potere fu affidato ad una oligarchia fatta di ricchi
possidenti, a cui erano legati numerosi vassalli. Questa fu la fase di decadenza
della società sannita, in cui una classe ristretta aveva potere di vita e morte
sulla maggioranza della popolazione. Ciascun touto era una repubblica ed
approssimativamente corrispondeva ad una tribù. Quando i sanniti dovevano
affrontare una guerra, nominavano un comandante in capo. Spesso le diverse tribù
si riunivano in federazioni, in particolare nella fase finale della guerra
contro Roma. Vi era anche una classe sacerdotale che gestiva un potere non
indifferente. Non si conosce praticamente nulla della condizione della donna,
anche se si presuppone che la società fosse abbastanza
patriarcale. Religione Circa la religione, le poche informazioni ci
sono pervenute da alcuni reperti archeologici. Nella tavola di Agnone sono
riportati i nomi di numerose divinità. La semplicità di vita dei sanniti si
rifletteva anche nel loro culto. Essi dedicavano lo stesso luogo alla
venerazione di più divinità ed offrivano loro sacrifici animali, in particolare
il maiale, e quei pochi prodotti dei raccolti che già non bastavano per loro.
Le prime manifestazioni di culto erano guidate da una specifica classe
sacerdotale ed avvenivano all’aperto, nei boschi o nelle vallate, secondo uno
stile prettamente indoeuropeo. Successivamente si è passati all’edificazione di
diversi santuari: Pietrabbondante, Schiavi d’Abruzzo, Capua, Compsa. Il
sacerdote svolgeva anche funzioni di stregone e di uomo di scienza oltre che di
celebrante delle cerimonie e custode dei templi. Anche i meddix presiedevano le
diverse funzioni. Molti erano i luoghi che si pensava fossero abitati dagli
dei, come, ad esempio, la valle dell’ Amsanctus o la campagna di Aeclanum
. Nel corso dei secoli la religione ha subito diverse influenze da parte
delle culture etrusche, romane e greche. I sanniti, infatti, davano importanza
agli auspici ed alla previsione del futuro. Diverse divinità vennero importate
ed altre esportate. La venerazione di ciascun dio cercava di dare loro una
risposta a quei fenomeni naturali che non si era in grado di controllare. La
loro vita, dunque, non aveva molta importanza ed il loro destino era
estremamente labile. La cerimonia più importante consisteva nel Ver Sacrum .
Per allontanare i cattivi presagi, tutti i maschi nati nella primavera erano
dedicati al dio Mamerte, ma non venivano uccisi. Questi erano allevati e
considerati sacri. Nella primavera successiva dovevano lasciare il loro
villaggio e seguire un animale guida (cervo, cinghiale, lupo) che gli avrebbe
indicato dove fondare un nuovo villaggio in cui crescere e prosperare. Questa
cerimonia cerca di dare una spiegazione irrazionale ai continui processi
migratori che sono stati molto frequenti tra le popolazioni sannitiche. Anche
l’affidarsi ad animali, testimonia la strettissima connessione tra l’uomo e la
natura. Si tratta di un elemento di estrazione indoeuropea, che presso i celti
ha avuto un fortissimo sviluppo. Tra le divinità sannite ricordiamo: Vezkeì,
Euclus, Kerres (Ceres), Filia Cerealis, Matae (mater), Lucina, Liganacdix
Intera, Flora Cerealis , Perna Cerealis, Diva Genita, Imbres, Heres, Feronia,
Fatui, Lymphae Cerealis, Amma Cerealis, Inter Stita, Hercules Cerealis, Patana
Pistia, Mamerte, Famel, Jupiter Rigator, Jupiter Juventus . Si tratta di
nomi legati alla natura e che richiamano gli elementi essenziali della
sopravvivenza di questo popolo. Il signore supremo era Giove, Kerres generava i
raccolti, Flora, divinità esportata a Roma in seguito, nutriva le messi. Dunque
Kerres e Flora erano fortemente connesse tra loro. Questa era una prima terna di
divinità principali, a cui le altre divinità erano in subordine. Famel era la
dea terra, molto cara ai Sabini ed ai sanniti, Mamerte, equivalente di Marte,
era ricordato nella cerimonia del Ver Sacrum. Compagno di quest’ultimo era
Heres. Entrambi erano divinità che accompagnavano il popolo in guerra. Fatui e
Feronia proteggevano i pastori. Infine Lucina era dea della nascita, molto
importante per il popolo, considerato il numero dell’elevata mortalità. Con
l’avvento dell’influenza ellenica, i sanniti cominciarono a credere nell’aldilà.
Questo è dimostrato da pitture rinvenute in alcune tombe. Soprattutto nella
zona di Alfedena sono state rinvenute numerose tombe a tumulo, in cui venivano
deposti i defunti assieme al cibo, alle corazze, ai monili e gioielli, che li
accompagnavano nel viaggio eterno. Città dei SANNITI: ABELLA Avella,
centro in provincia di Avellino, da cui dista 24 Km, situata al centro della
valle del fiume Clanio. Di origine calcidese, conserva numerose testimonianze
del periodo osco, sannitico e romano. Fu ricordata da Plinio per la produzione
di nocciole. Importanti sono i resti di un anfiteatro romano ( tra i più antichi
della Campania) e di una serie di monumenti funerari di età tardo - repubblicana
e imperiale. Un antiquarium locale espone i preziosi corredi rinvenuti negli
scavi delle due necropoli della cittadina.
Il nome di Abella deriva,
secondo Plinio, dalle nocciuole (abellane), che abbondano nel suo territorio;
altri la farebbero derivare da Belo, della stirpe regia di Nembrot (Bela, Bella,
Abella); altri ancora dal termine Aberula (aberu, apru, aper = cinghiale), città
del cinghiale, animale raffigurato nel suo stemma civico; e per altri ancora
sarebbe stata fondata dai Calcidesi, che denominarono la località "Abella",
ovvero campo erboso, pascolativo: quod pastui aptum est. Situata nel bacino
superiore del fiume Clanio, alle falde dei Monti Avella, per la sua posizione
geografica fu un crocevia di civiltà fin dalla preistoria. La presenza umana
in questi territori è accertata sin dal paleolitico superiore, all'incirca
25.000 anni fa, mentre un primo insediamento abitativo si deve far risalire alla
fase appenninica. Successivamente risentì della influenza delle colonie
greche della costa e dell'area etrusca, mentre è, altresì, evidente uno stretto
rapporto con l'area Caudina, come testimoniano i numerosi reperti archeologici
rinvenuti.
Fu osca, etrusca, sannita e poi romana. Nel 339 a.C. si pose
sotto la protezione di Roma e, per la sua fedeltà, meritò di essere Municipio;
più tardi fu colonia. L'anfiteatro aveva sei porte, un teatro, una piscina, una
palestra, le terme, il pretorio e un ginnasio. Fu saccheggiata da Alarico nel
410 d.C. e, successivamente, da Genserico nel 455. Cadde, poi, sotto il dominio
dei Goti e fu longobarda sotto Singinolfo. Assalita dal Saraceni nell'884, fu
saccheggiata e sottomessa; infine fu quasi completamente distrutta dagli Ungari
nel X sec. d.C. Anfiteatro di Abella L’anfiteatro di Avella può essere
considerato come uno dei più antichi della Campania. Esso, infatti, fu costruito
tra il primo secolo d.C. ed il secondo secolo d.C. nell’odierna località S.
Pietro, al posto delle abitazioni distrutte durante la guerra tra Mario e Silla.
Annoverato tra gli anfiteatri costruiti su terrapieno e dimensionalmente molto
simile a quello di Pompei, l’anfiteatro di Avella fu eretto in "opus
reticolarum" di tufo in parte appoggiato all’angolo SE delle mura perimetrali
della antica città, in parte ad un pendio naturale ed in parte (lato Sud) a
grosse costruzioni a volta. Esso sorgeva all’estremità orientale del
"Decumano maior" (l’attuale Corso Vittorio Emanuele) all’altro capo del quale
era il foro (nelle vicinanze dell’attuale Piazza). A differenza di anfiteatri
più recenti come, per esempio, il Colosseo o l’anfiteatro Flavio di Pozzuoli,
nel monumento avellano sono totalmente assenti sotterranei e cunicoli.
Un'immagine schematica dell’anfiteatro di Avella è rappresentata su uno
dei lati di una base onoraria, databile intorno al 170 d.C., dedicata a Lucio
Egnazio Invento, ristoratore dei giochi gladiatori di avella e cavaliere romano
sotto gli Imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero. Lo schema presenta una cavea
con tre ordini: l’"ima cavea", la "media cavea" e la "summa cavea". Allo stato
attuale, della "summa cavea" rimangono solamente poche tracce sui lati Sud ed
Est mentre la cavea si presenta divisa in tre settori: "moeniana", divisi da
corridoi di appoggio in senso orizzontale; "praecintiones" e "baltei", questi
ultimi muri di divisione in senso verticale. Ad essa era possibile accedere
attraverso dei "vomitoria" disposti sull’asse maggiore dell’ellisse ("itinera
magna"). All’arena, situata al di sotto del piano di calpestio circostante, si
accedeva attraverso due porte principali: la "porta triumphalis", orientata in
direzione della città, e, dal lato opposto, la "porta libitinensis" dalla quale
venivano portati via i gladiatori morti in combattimento. Una terza porta, più
piccola nelle dimensioni e, probabilmente, riservata ai giudici, si apre sul
lato Ovest; di fronte ad essa si evidenzia un ambiente con tracce di un’edicola
riservata ad un dio al quale i gladiatori si "raccomandavano" prima del
combattimento. Di gran lunga posteriori rispetto alla costruzione dell’intero
monumento sono sicuramente le aperture nel podio che danno verso l’arena. Si
tratta di stalle per le bestie databili intorno al IV secolo d.C.. Il lavoro per
la loro costruzione risulta incompiuto o perché gli spettacoli erano scaduti di
tono o a causa della decadenza economica in atto dovuta, principalmente, alle
invasioni barbariche. BOVIANUM Sulla città di Bojano esistono ancora oggi
accese discussioni tra gli studiosi ed archeologi sulla sua origine ed
ubicazione. Non tutti sono concordi nel riconoscere l'antica capitale dei Pentri
nell'attuale cittadina. Di seguito riportiamo il testo che ne descrive i natali
secondo Adriano la Regina, fine studioso del Sannio e dei Sanniti:
Il
capoluogo dei "Samnites Pentri", municipio romano dopo la guerra sociale e poi
colonia, è ubicato alle pendici settentrionali del Matese (Tifernus Mons), il
massiccio che divide il Sannio dalla Campania. L'acropoli si trovava sull'altura
della Civita, e l'abitato, in basso, era attraversato dalla strada
Aesernia-Beneventum, il cui tracciato si è conservato nel tratturo che passa per
Boiano e per Sepino. L'insediamento si sviluppò gradualmente sulla strada
percorsa stagionalmente da greggi e armenti, donde si formò altresì il nome
"Bovianum", per indicare un usuale mercato di buoi. La maggior fortuna di
Bovianum, che divenne il centro di gran lunga preminente dei Sanniti Pentri dopo
la distruzione di Aquilonia (293 a.C.) e dopo la fondazione delle colonie latine
di Beneventum (269 a.C.) e di Aesernia (263 a.C.), si dovette proprio alla
accresciuta importanza della strada che collegava queste due ultime
città. "Bovaianom" era il nome originario della città, in lingua osca, che
conosciamo grazie ad una iscrizione di Pietrabbondante, ove un Meddix Tuticus,
Novio Vesullico, aveva inviato un donario da Bovianum (in ablativo:
bùvaianùd).
La città è ricordata più volte dagli autori antichi in
relazione alle guerre sannitiche, a partire dall'inverno del 314-13 a.C.,
allorchè l'esercito romano si sarebbe accampato nel Sannio per espugnarla
(Livio, IX 28, 1-3). Dopo la notizia liviana di una espugnazione da parte romana
avvenuta nel 311 a.C., non ritenuta attendibile dalla critica moderna, Bovianum
è nuovamente citata nell'anno 305 a.C., quando sarebbe stata effettivamente
presa (Livio, IX 44, 5-15, e Diodoro Siculo, XX 90, 4, ove compare con il nome
errato di « Bola »). Assalita ancora una volta nell'anno 298 a.C. (Livio, X 12,
9), viene saldamente tenuta dai Sanniti in una successiva invasione romana, nel
293, allorche furono distrutte Cominium, Aquilonia e Saepinum, con altre città
minori (Livio, X 41, II; X 43, 15). Bovianum viene infine coinvolta nelle
operazioni della guerra annibalica (Liyio, XXV 13, 8). Se ne torna a parlare,
nelle fonti, a proposito della guerra sociale, nell'anno 89 a.C., quando fu
espugnata da Silla , per essere ripresa l'anno successivo da Poppedio
Silone. Appiano riferisce che la città sarebbe stata presidiata da tre
fortezze. In una di queste è da riconoscere con certezza la Civita, che faceva
parte della città stessa, mentre le altre due sono da cercare altrove, in
posizioni esterne rispetto al perimetro delle mura, ma sufficientemente vicine
da poterle controllare. Una piccola postazione fortificata è stata individuata
di recente sul monte Crocella (m 1040 sul livello del mare), l'altura ubicata a
sud-ovest della Civita, e vi si è giustamente riconosciuta una delle rocche
menzionate da Appiano. Un recinto di mura quasi circolare, dal perimetro di
circa 110 metri, racchiude un'area di quasi 900 metriquadrati. All'interno si
possono scorgere i resti di una cisterna. E' evidente che l'altura così
fortificata doveva servire da base permanente per un presidio militare con
compiti di avvistamento e, in caso di assedio della città, di difesa della
strada di accesso all'arce. Prima della guerra sociale, e quindi finche
perdurò lo stato sannitico, Bovianum non fu sede unica dei concilia e delle
riunioni del senato, che dovevano aver luogo nei principali santuari di culto
pubblico e, tra questi, certamente a Pietrabbondante e a Campochiaro. A Bovianum
doveva invece essere la sede del Meddix Tuticus, il sommo magistrato annuale
dello stato sannitico. Con la soppressione di questa magistratura e con la
riorganizzazione territoriale romana in distretti amministrativi municipali, la
circoscrizione di Bovianum fu delimitata, durante la prima metà del I sec. a.C.,
a un ambito non ampio che si estendeva verso nord fino al Monte Vairano incluso,
verso est per circa 10 chilometri fino alla Sella di Vinchiaturo, verso ovest
per una dozzina di chilometri fino a Castelpetroso, confinando a sud con la
montagna. Tale assetto si è protratto per tutta l'antichità, anche nella prima
organizzazione ecclesiastica, perdurando poi nel gastaldato di Hovianum dal
secolo VII fino al secolo X. Solamente con la costituzione della contea furono
annessi a Hovianum i territori del gastaldato bifernense (erede del municipio
romano di Fagifulae) e di Saepinum. La fase sannitica è caratterizzata, qui
come altrove, da una accentuata distribuzione dell'insediamento agricolo con
conseguente diffusione di villaggi, luoghi di culto, ecc. Già in questo periodo
l'abitato di Hovianum aveva preso consistenza nell'area della Civita e del
sottostante declivio, racchiuso in un'unica cinta di mura in opera poligonale.
Ne furono visti in passato notevoli resti, e qualche traccia ne esiste tuttora
presso la porta meridionale della Civita. Limitati saggi di scavo eseguiti sulla
Civita, ai margini esterni dell'area occupata dal castello medievale, hanno
dimostrato che il sito era stato occupato con edifici e utilizzato intensamente
durante la fase sannitica. All'ultimo secolo di questo periodo è da
attribuire un notevole incremento della produzione di tegole, impiegate in tutta
l'area della piana di Boiano. Questa attività è da collegare con un accentuato
sviluppo edilizio anche nell'ambito urbano. Tegole e coppi di produzione
bovianense usati in edifici pubblici sono contrassegnati con la data di
fabbricazione impressa per mezzo di stampi rettangolari recanti il nome dei
magistrati annuali. Una dedica posta a Cesare, patrono del municipio durante la
seconda dittatura (CIL IX 2563) ci informa che negli anni 48 - 46 a.C. La città
aveva già lo statuto municipale. Dovette divenire colonia più tardi, tra gli
anni 44-27 a. C., e più precisamente forse tra gli anni 43-41 a.C., quando vi
furono assegnazioni agrarie da parte di Ottaviano, in base alla legge Giulia
(Lib. col., 231, 259 L.). Infine, tra gli anni 73-75 d.C., altre assegnazioni
da parte di Vespasiano a veterani della legione XI Claudia, comportarono la
rifondazione della colonia (CIL IX 2564; Igino Gromatico, 131 L.), che, solo in
questa occasione, potè assumere il nome di Bovianum Undecumanorum, noto
dall'elenco di Plinio (Storia naturale, III 107). La colonia di Bovianum vetus,
che compare nel testo pliniano insieme con l'altra, è evidentemente quella
istituita da Ottaviano, definita vetus successivamente per essere distinta da
quella flavia registrata dopo il 73 in omaggio a Vespasiano.
I principali
percorsi esterni si sono conservati nel tracciato del tratturo. La strada antica
attraversava la città in corrispondenza dell'attuale corso Umberto e si doveva
immettere nell'area urbana, dalla direzione di Aesernia, nel punto in cui si
trovano le chiese del Purgatorio e di San Nicola, per uscire nella direzione
opposta, verso Saepinum, presso la chiesa di San Biase. L'alveo del torrente
Calderari, probabilmente regolarizzato già in antico, doveva rappresentare il
limite della città verso la pianura. I resti antichi rinvenuti in passato oltre
questo corso d'acqua si riferiscono con ogni probabilità a costruzioni
extraurbane. Una terza porta si doveva aprire su questo lato della città in
connessione con una strada che collegava Bovianum con Larinum e con la costa
adriatica. Abbiamo dunque, come a Venafro, una città a pianta ortogonale con
almeno sette tracciati stradali disposti parallelamente alla montagna, non del
tutto rettilinei perchè adattati alla conformazione dei luoghi, tra la chiesetta
di San Michele Arcangelo, a monte, e il torrente Calderari. Nell'altra
direzione, tra la chiesa del Purgatorio da una parte e la chiesa di San Biase
dall'altra, vi dovevano essere almeno nove assi stradali paralleli. Il Foro si
doveva trovare in corrispondenza della Cattedrale. Nei pressi della chiesa di
Santa Maria dei Rivoli dovevano essere ubicati il teatro e, forse, l'anfiteatro.
Degli edifici antichi non restano in vista per tutta la città altro che elementi
smembrati. Un mosaico con complessi motivi ornamentali fu rinvenuto nel centro
dell'area urbana. PIETRABBONDANTE
Il Teatro di Pietrabbondante è forse
l'esempio più bello di architettura italica nel Sannio pervenutoci in condizioni
soddisfacenti. Che nella zona di "Calcatello" esistessero
Panorama di
Pietrabbondante.antiche vestigia comunemente definite "romane" si sapeva fin dal
1840. Dopo diversi anni, sempre sotto il regno di Ferdinando II, iniziarono i
lavori a cura della Direzione degli Scavi Reali e vennero riportati alla luce
molti ruderi che, dalle fattezze, fecero subito pensare ad un grande
insediamento sannitico. Una delle prime ipotesi formulate sull'origine del sito
venne espressa dal Mommsen che, partendo da una iscrizione in lingua osca
rinvenuta "in loco", ipotizzò per le antiche vestigia l'insediamento denominato
"Bovianum Vetus". L'epigrafe di Vesiullaeo su cui il Mommsen basò le
proprie teorie era la seguente:
"NV. VESULLIAIS TR. M. T. EKIK SAKARAKLUM
BUVAIANUD AIKDAFED"
che venne così interpretata:
"NOVIUS
VESULLIAEUS TR. F. MEDDIX TUTICUS HOC SACELLUM BOVIANI
AEDIFICAVIT".
Il Mommsen ritenne di aver trovato una seconda
Bovianum, il che, tra l'altro, coincideva con quello che Plinio aveva scritto
sul libro III della "Naturalis Historia".
Il Garrucci, al contrario del
Mommsen, affermò che quella che si stava scavando altro non era che l'antica
Aquilonia, e prova ne era un toponimo ancora in uso nella zona, la fontana nei
pressi del paese chiamata "Acudandra". Il prosieguo degli scavi ha portato alla
luce un'importante testimonianza del popolo sannita, ma non si è ancora certi
dell'originaria denominazione del sito. Si tratta certamente di un insediamento
sannita, un centro abitato con un'area sacra che, intorno al III secolo a.C.,
raggiunse un notevole sviluppo edilizio. Tale sviluppo continuò in tutto il
secolo successivo, al punto da divenire il luogo di culto preminente per tutti i
Sanniti Pentri. Pietrabbondante Rilievo dello scavo
archeologico dell'area del Teatro e del Tempio B.
L'importanza di
questo sito archeologico è tale da far ipotizzare un "locus" ben definito nella
organizzazione sociale dei Sanniti. Ad evidenziare ciò che il Garrucci affermò
vi sono diversi toponimi nella zona che sembrano convalidare le sue ipotesi ed
in più vi è una coincidenza basata sulle dimensioni del teatro sannitico di
Pietrabbondante. Al di là delle caratteristiche di controllo che il luogo
offriva, considerando il fatto che vi erano altri siti con requisiti analoghi,
l'unica ipotesi che emerge è l'esistenza di una permanenza storica tale da far
preferire, per motivi che analizzeremo, quel luogo ad altri. Tale situazione
infatti doveva coinvolgere, tra gli altri, anche discorsi a carattere
architettonico-edilizio, essendo il luogo forse disseminato di materie prime già
lavorate che comportavano una enorme economia, specialmente di tempo, nella
costruzione delle fortificazioni.
Quindi, considerando questa
permanenza storica ed architettonica tipica di un grosso insediamento abitativo
e valutando l'estensione dei singoli municipi romani, oppure quei territori che
sappiamo con certezza dovevano far parte dei municipi romani, diventa plausibile
l'ipotesi che anticamente Pietrabbondante possa aver occupato un ruolo
preminente nella politica romana nel contesto di quel determinato
territorio. E se dovette essere sede di un municipio altro non poteva essere
che la Bovianum Vetus citata da Plinio. Pietrabbondante - Teatro
Sannitico Veduta della cavea.
Tornando agli scritti liviani, si
evidenzia una certa difficoltà nel seguire le descrizioni degli avvenimenti
succedutisi durante le Guerre Sannitiche proprio a causa della poca conoscenza
che abbiamo del Sannio ed in particolar modo la difficoltà diventa maggiore
quando si tenta di capire come un esercito consolare diretto in una precisa
regione sannita si trovi invece a combattere nei pressi di un centro fortificato
ubicato dalla parte opposta. Tale difficoltà si evidenzia proprio in quei casi
in cui viene ad essere menzionata la città di Bovianum che noi identifichiamo
con l'odierna Bojano, che l'annalista romano descrive come la città di gran
lunga più ricca e più fornita di armi e di uomini, considerandola la capitale
dei Sanniti Pentri.
Pietrabbondante - Ricostruzione assonometrica
dell'area del Teatro e del Tempio B.Alla luce delle odierne acquisizioni
storiche, siano esse di derivazione archeologica o letteraria, è diventata
plausibile l'ipotesi dell'esistenza di due Bovianum presso le quali
indistintamente Livio ambienta le narrazioni degli avvenimenti bellici. Ma
l'interpretazione topografica degli scritti sembra indirizzare gli avvenimenti
verso una precisa regione del Sannio e con l'esempio di alcuni passi è possibile
evidenziarla. Nel libro IX al capitolo 31, Livio descrive come il console
Giunio Bruto dopo aver espugnato Cluviae nel 311 a.C., condusse l'esercito
vittorioso a Bovianum e, dopo aver espugnato anch'essa, raccolse il bottino
concedendolo generosamente ai soldati.
Analizzando il raggio d'azione
del console romano e considerando Bovianum come l'attuale Bojano, si evince che
dopo Cluviae, nei pressi dell'attuale Casoli in provincia di Chieti, egli
attraversa l'intero Sannio, Pietrabbondante compresa, per arrivare in un luogo
distante, in linea d'aria, più di 90 chilometri. Se invece considerassimo
Pietrabbondante come la Bovianum espugnata, essa si troverebbe sul percorso di
rientro del Console romano ed i chilometri si ridurrebbero a poco più di
quaranta. Nel proseguo delle narrazioni liviane, al libro X nel capitolo 12,
troviamo che il console Cneo Fulvio, nell'anno 297 a.C., combattè presso le mura
di Bovianum e la espugnò. Dopo aver razziato la città si diresse verso Aufidena
alla quale toccò la stessa sorte. Anche in questo caso, considerando l'attuale
Bojano, un console romano con il suo esercito espugna prima una città posta ai
limiti meridionali del Sannio Pentro per poi dirigersi esattamente ai limiti
settentrionali dello stesso territorio. Forse è più logico supporre che il
console Cneo Fulvio espugnò la Bovianum di Pietrabbondante e raggiunse Aufidena
seguendo il percorso tratturale Lucera-Castel di Sangro in direzione nord-ovest.
Infatti dopo pochi chilometri sarebbe giunto proprio sotto le sue
mura. AECLANUM
In località Passo di Mirabella, frazione della città di
Mirabella Eclano (AV), sono visitabili gli scavi dell'antica città di Aeclanum,
uno dei principali centri della tribù sannita degli Irpini. L'archeologo
Italo Sgobbo rinvenne, negli anni 30, quattro monumenti epigrafici oschi: uno
riportava il nome Mamers (nome osco del dio Marte), un altro rappresentava
un'ara di tufo dedicata alla dea Mefite (oggi al Museo Nazionale di Napoli) e
facente parte di un luogo sacro collocato fuori dalle mura cittadine e sulla Via
Appia, un terzo indicante una non meglio identificata costruzione ordinata da
Magio Falcio ed un quarto pertinente al culto del dio Fauno. Aeclanum -
Strada romana ed abitazioni.
La via Appia e la necropoli orientale.
La città di Aeclanum, in età romana, aveva la forma di un corimbo ed
un'estensione di 18 ettari, era difesa da una cinta muraria lunga 1820 mt. e
costruita in opus reticulatum a prismi di travertino e di arenarie compatte.
Le mura si ergevano per oltre 10 mt. ed erano interrotte da almeno tre porte
delimitate ai lati da torri quadrate (turres), di oltre 5 mt. per lato, mentre
ogni 20 mt. erano presenti torri più piccole (hemiturres), di 2,5 mt. per lato,
che non superavano in altezza, come le più grandi, le cortine murali (perciò
definite "turres aequae qum moiro", cioè "torri alte quanto il muro"). Lo
spessore delle fortificazioni è compreso, nei vari punti, fra 2,12 - 2,40
mt. Attraverso la porta occidentale entrava in Aeclanum la Via Appia,
proveniente da Benevento, e ne usciva attraverso la porta orientale. Al tempo
della Guerra Sociale (89 a. C.), Aeclanum era protetta soltanto da una cinta di
legno, incendiata poi da Silla quando, resosi conto che gli eclanesi aspettavano
aiuto dai Lucani, ordinò di accastare intorno alle mura fascine di sarmenti,
bruciate dopo che trascorse il tempo concesso dal dittatore per arrendersi.
Aeclanum infatti fu saccheggiata ed occupata Strada romana con impronte di
carri. perché non si era arresa spontaneamente ai Romani ma anche per
convincere le altre città irpine ancora insorte a deporre le armi. Dopo la
Guerra Sociale, circa nell'87 a.C., la città divenne municipio con diritto di
voto ed iscritta alla tibù Cornelia. Più tardi, all'epoca dell'imperatore
Adriano (all'incirca nel 120 d. C.), assunse lo stato di colonia con la
denominazione di "Aelia Augusta Aeclanum".
Aeclanum - Le
Terme.
Altre strade, oltre l'Appia, interessavano Aeclanum ed il suo
territorio: la via Aeclanum - Aequum Tuticum che la collegava alle Puglie, la
via Herculia che attraversava la parte orientale della giurisdizione eclanese e
la via Aurelia Aeclanensis che procedeva in direzione di Ordona. Al periodo
romano, per lo più imperiale, risalgono la costruzione ed il rifacimento di
opere pubbliche come le Terme, il Macellum, il Gimnasium, il Foro, l'Anfiteatro,
il Teatro ed il "forum pecuarium" (mercato del bestiame da
pascolo).
Aeclanum - L'area del macellum.
Il
Macellum (mercato coperto), posto probabilmente nelle vicinanze del foro,
presenta attualmente una piazzetta centrale rotonda ed una vasca che forse era
adornata da un zampillo; la tholus macelli è costituita da alcuni pilastri in
opus vittatum e la pavimentazione arricchita dal marmo. Le Terme sono il
monumento di maggior rilevo degli scavi: la tecnica di costruzione è in opus
mixtum e sono rintracciabili gli ambienti del tepidarium, del calidarium e del
frigidarium.
Aeclanum - Domus di tipo pompeiano.
Nell'area
delle Terme fu rinvenuta una pregiata statua marmorea raffigurante Niobide ed
oggi collocata in una sala del Museo Irpino di Avellino, ove sono esposti
numerosi reperti provenienti da Aeclanum. In un'altra occasione fu raccolta un
frammento di statua di Arpocrate, datata al II secolo d.C. e che rappresenta il
dio fanciullo con il corno dell'abbondanza.
Tra le abitazioni private ben
visibile è una domus di tipo pompeiano, che in epoca tarda è stata convertita ad
officina per la lavorazione del vetro. Di rilievo sono, inoltre, i resti di una
Basilica paleocristiana con fonte battesimale (baptisterium) a forma di croce
greca, con tre scalini sui quattro lati e rivestita in origine da marmo (un
altro battistero simile a quello di Aeclanum è di pertinenza della città di
Venosa). La Basilica era a tre navate e, fosre, con un portico sul davanti
(nartece). Il battistero della basilica paleocristiana. Ad un livello
inferiore rispetto all'edificio religioso fu scoperto un ambiente con quattro
otrii giganti (dolii), adoperati per la conservazione delle derrate
alimentari. Sicuramente Aeclanum rappresentò una delle principali città del
Sannio Irpino. Lo stesso Silla, dopo l'assedio di Pompei, si diresse
direttamente contro la città, incurante di altri centri urbani come Nola o
Abellinum, che erano sul tragitto. Si presume che possa aver ricoperto il ruolo
di capitale sannita all'epoca della Guerra Sociale e che la popolazione contò
sui quattro-cinquemila abitanti quando assunse il ruolo di colonia ed il suo
territorio superò l'estensione di 700 kmq. Nel 369 d.C. un violento sisma
colpì Aeclanum con conseguenze disastrose: in un'epigrafe Umbonio Mannachio, di
rango senatorio, è definito "fabbricatore ex maxima parte etiam civitatis
nostrae". Aeclanum - Base per fistule di torchio. Più tardi, nel 410 d.C.,
il passaggio di Alarico e dei Visigoti dalla Campania alla Puglia arrecò ingenti
danni alla città. Fu coinvolta nelle guerre tra i Goti e i Bizantini nel VI
secolo d.C., finchè l'arrivo dei Longobardi (570 d.C.) ed il transito
dell'imperatore Costante II di Bisanzio, diretto all'assedio della longobarda
Benevento, soffocarono sotto un velo di distruzione le ultime tracce del passato
romano.
Veduta della zona delle terme.
Al di fuori del
circuito cittadino di Aeclanum, si possono ammirare ancora i resti di un
edificio pubblico (dall'ignota funzione) con mura in reticolato e laterizio nel
sito della chiesa di Santa Maria di Pompei crollata dopo il sisma del
1980. Da ammirare inoltre, parte di una necropoli orientale (III-IV secolo
d.C.) con monumenti e recinti funerari, posta ai lati della via Appia e nelle
vicinanze della odierna via Nazionale Passo. CAUDIUM Il territorio della
Valle Caudina vide l'antica capitale dei Caudini di cui oggi si conosce ben
poco. "Caudium", l'odierna Montesarchio, si caratterizza per la ricchezza
delle necropoli che hanno restituito corredi tombali significativi di
particolare valore artistico e tecnico, espressione del grado di acculturazione
raggiunto dalle popolazioni sannitiche fra il VI e il IV sec. a.C. Il contesto
romano emerge a "Caudium" in una serie di edifici monumentali esplorati
attraverso saggi, puntuali ma limitati, effettuati nell'area della città antica
individuata , ma ancora non esplorata, che si estende lungo la strada statale
Appia a sud - ovest del centro moderno. Il Museo Archeologico comprensoriale che
la Soprintendenza ha in corso di realizzazione nel complesso monumentale del
Castello di Montesarchio, ospiterà, con sessioni differenti, i reperti
archeologici provenienti dal territorio suddetto. SAEPINUM La tradizione
storica molisana fa coincidere l'evoluzione dell'area, poi soggetta al municipio
romano, alla costante dei traffici della transumanza. La città sorge a ridosso
di un incrocio formato da un percorso proveniente dal fiume Tammaro e diretto
verso le alture del Matese e da un importante tratturo, parallelo al massiccio
del Matese, sul quale probabilmente fin dai tempi in cui l'uomo ancora non li
allevava, gli animali transitavano istintivamente nelle loro migrazioni
stagionali. Lo stesso nome latino Saepinum sembra derivare da saepio cioè
recinto e doveva riferirsi ad un'area che intorno al IV secolo a.C. era adibita
dagli antichi abitanti a luogo di scambio di mercanzie ed animali. L'intera area
era soggetta al controllo del centro fortificato posto sulle alture e
denominato, in epoca posteriore a quella romana, Terravecchia
(Saipins). TERRAVECCHIA La costruzione e la collocazione nel territorio di
questa antica fortezza da parte dei Sanniti doveva soddisfare preci- se esigenze
strategiche di controllo dell'area alle falde del Matese. Fu edificata a 950 mt.
di altitudine su di un'altura compresa tra i valloni dei torrenti Magnaluno a
nord e del Saraceno a sud, ambedue affluenti del Tammaro. L'antica struttura
costi- tuiva una efficace posi- zione di controllo dei traffici e dei passaggi
tra l'Apulia e la Campania ed il Sannio pentro. Il sito controlla anche l'unica
via d'accesso che dalla pianura sale verso i pascoli del Matese. L'insediamento
dei Sanniti è ancora riconoscibile nella sua struttura difensiva. Una cerchia di
mura megalitiche, con pianta trapezoidale con la base maggiore rivolta verso
nord-est a ridosso della scarpata che guarda il terrapieno naturale di
Castelvecchio, racchiudeva l'abitato. Le mura, costruite saldamente senza
dislivelli ed ancora in buono stato di conservazione, hanno una lunghezza di
1500 metri. Sono costituite da una doppia cortina terrapienata in opera
poligonale e quella superiore è arretrata di 3 metri rispetto a quella
inferiore. Tre sono al momento le porte di accesso alla fortezza identificate
dagli archeologi. La prima sul lato sud-ovest chiamata la "Postierla del Matese"
che dava il percorso alla montagna, la seconda a nord-ovest chiamata
"dell'Acropoli" ed era sul percorso che conduceva verso Civitella di Campochiaro
e Bovianum Undecumanorum, e la terza e forse la più importante ad est delle mura
e denominata "del Tratturo" che permetteva il passaggio verso la pianura ed il
sito del saepio. Infatti questo tragitto, nel suo tratto finale, viene ad
identificarsi con cardo maximus della futura Saepinum
romana. Foro SAEPINUM La felice situazione morfologica vuole che già
alla fine del IV secolo a.C. l'incrocio tra questa direttrice proveniente da
Terravecchia ed il tratturo divenga centro di scambi, controllato dalla
fortificazione posta arretrata sulle alture del Matese, in una posizione
geografica che permetteva la difesa delle genti distribuite nell'area sepinate.
Sul finire del II secolo a.C., ai limiti dell'incrocio compare già un unitario
sistema composto anche da costruzioni private che, come verificato nei sondaggi
sotto il tessuto romano, manifestano caratteristiche evo- lute e l'uso di
manodopera com- petente (pavimenti di coccio- pesto e tessere di mosaico,
mosaici ed impluvium di terracotta con lettere osche). Quando, dopo la guerra
sociale (91-98-a.C.), lo stato romano decide di organizzare ed amministrare
l'area, il centro in effetti già costituisce un punto di riferimento con una
urbanizzazione in atto. Teatro Tra il 2 a.C. e il 4 d.C. si effettua la
fortificazione della città con l'innal- zamento delle mura che da allora, e per
buona parte ancora oggi, delimitano l'antico recinto sannitico e sono visibili
in elevato; la cinta muraria è definita in opera cementizia rives- tita da opera
reticolata, la stessa era intervallata da un sistema di torri elevate a cadenza
rego- lare. Le quattro porte, poste in modo da opporsi rispetto ai principali
tracciati, sono ancora ben identificabili. Restaurate, prendono rispettivamente
nome dai luoghi di provenienza dei percorsi, pertanto troviamo sul tratturo le
porte di Boiano e di Benevento, e sul secondo percorso la porta Tammaro e la
porta Terravecchia. BENEVENTUM Benevento, per la sua posizione strategica
e le condizioni ambientali è sempre stata un polo di attrazione per le
popolazioni del Sanno sin dall'antichità come ci testimonia il ritrovamento di
insediamento iscriveteli al periodo neolitico. Importante centro sannita,
Benevento, divenuta colonia romana nel 268 a. C., cresce di importanza di pari
passo con la potenza romana: nel 90 a.C., con la promulgazione della Lex Iulia,
diventa Municipium e si sviluppa con l'arrivo di altri coloni in età augustea.
Tutto il suo antico splendore è testimoniato dalla cospicua presenza di
monumenti e di edifici pubblici di rilievo conservati fino ai nostri tempi e
riportati alla luce grazie ad una intensa attività di scavi, restaurati e
tutela. Il teatro di Benevento è sicuramente uno dei più imponenti edifici
per spettacoli conservati in Italia meridionale. La sua ubicazione è sempre
stata nota in quanto la pianta dell'edificio è perfettamente leggibile, sin
dalla cartografia storica più antica, poichè era restituita dall'andamento delle
case che ad esso si sono sovrapposte incominciando da epoca medioevale. La
datazione dell'edificio, mancando al momento dati di scavi, è incerta: comunque,
sulla base di una iscrizione con dedica ad Adriano e delle analisi delle
tecniche costruttive viene datato ad età adrianea. Tuttavia alcune
considerazioni scaturite dallo studio del rilievo grafico, di recente eseguito e
l'osservazione che la sopracitata dedica è reimpiegata dallo studio del rilievo
grafico, di recente eseguito e l'osservazione che la sopracitata dedica è
reimpiegata nella scena, come uno degli elementi di sostegno del colonnato
antistante, sembrano far scendere la cronologia dell'edificio al II secolo
avanzato. Il monumento simbolo di Benevento é il bellissimo arco onorario ad
un solo fornice, fatto costruire da Traiano per commemorare l'apertura nel 114
d.C. della Via Appia Traiana. Esso costituisce il più grande esempio del rilievo
storico romano nel II secolo d.C. e la più completa rappresentazione pervenutaci
di un trionfo romano, quello di Traiano cui Daci nel 107 d.C. .Il lato verso la
città (Via Traiano) comprende opere e scene di pace, mentre quelle verso la
campagna (Via del Pomerio) comprende scene militari. L'arco è stato oggetto di
attenti lavori di restauro che hanno permesso di ripulire le superfici marmoree
annerite dallo smog e di consolidare alcuni rilievi lesionati. La Via Traiana,
che seguiva una via più antica permetteva di collegare più rapidamente la
Campania con la Puglia e quindi l'Italia con i principali porti d'imbarco per
l'Oriente. Rispetto alla Via Appia faceva risparmiare un giorno di viaggio. Il
suo tracciato campano interessa i comuni di Benevento, Paduli, Sant'Arcangelo
Trimonte, Buonalbergo, Casalbore, Montecalvo Irpino, Ariano Irpino e
Greci. LUCERIA Di origini antichissime, fu fondata, in epoca imprecisata,
dai Dauni. Il nome di Lucera deriva, molto probabilmente, dalle parole etrusche
"luc" (bosco) ed "eri" (sacro). Fedelissima a Roma, specie al tempo delle
guerre sannitiche, Luceria diventa Colonia juris latini nel 314 a.C. e per la
sua grande lealtà fu sempre tenuta in grande considerazione dai Consoli e dal
Senato (Lucerinis bonis et fidelibus sociis - Livio: IX, X), ricevendone ampia
autonomia e indipendenza d’azione: diritto di conio, proprie leggi, proprio
fisco, propri magistrati. Nel 90 a.C., in rispetto della lex iulia de civitate,
Roma concedeva alla sempre fedele Lucera la propria cittadinanza, iscrivendola
alla nobile Tribù Claudia. Durante la guerra civile, prima che Cesare
presidiasse la città con una propria guarnigione, Lucera fu quartier generale
delle truppe di Pompeo. Nel periodo imperiale testimonianze dello splendore
della città furono l’erezione di alcuni circhi, numerosi templi (tra cui quelli
di Cerere, Diana, Minerva e Apollo), del Foro, delle Terme, dell’Anfiteatro:
tutti monumenti, tranne questi ultimi due, andati miseramente distrutti o
inglobati in edifici più moderni. In epoca tardo imperiale Lucera registra la
fondazione di una delle prime comunità cristiane: prima dell’anno 60 l’apostolo
Pietro, di passaggio per la città romana, battezzando nelle acque del fiume
Vulgano, pose a capo della nascente Diocesi il vescovo San Basso, martire
cristiano sotto l’imperatore Traiano (a. 112). Questi ebbe come successori San
Pardo (251-264), il Beato Giovanni (302-328), San Marco (328-350), S. Giovanni
II (a. 350 e ss.) e S. Marco II (a. 743 e ss.), i quali rifulsero per capacità e
doti religiose. L'impianto romano fu distrutto quasi completamente dai
Bizantini nel 663 e la città, dopo un lungo periodo di stasi, riprese a
rifiorire sotto gli Svevi e i primi Angioini. Federico II ne fece una delle
sue residenze predilette e una delle piu' potenti fortezze d'Italia, ove
concentrò a piu' riprese, tra il 1224 e il 1246, i Saraceni di Sicilia, divenuti
elementi di disordine nell'isola;
questi, lasciati liberi di sviluppare
le attività economiche preferite, diedero un notevole impulso allo sviluppo
della città, che vide allora le moschee sostituite alle chiese e fu detta
"Luceria Saracenorum". Sotto Carlo I d'Angiò i Saraceni si ribellarono (1267) ma
furono assoggettati. Anfiteatro Unico esempio architettonico completo
della Daunia romana e unico monumento del genere in Puglia, l’Anfiteatro
augusteo lucerino risale al I secolo dell’Impero. Esso è senz’altro il più vasto
Anfiteatro romano dell’Italia meridionale.
Come appare dall’epigrafe
dedicatoria dell’architrave delle porte di accesso alla cavea, il monumento
venne fatto costruire su proprio terreno e a proprie spese dal prefetto dei
fabbri, tribuno militare, duoviro e pontefice Marco Vecilio Campo in onore
dell’imperatore Ottaviano, in occasione del conferimento a questi, da parte del
Senato di Roma, del titolo di Augusto (27 a.C.) e in onore della fedele colonia
romana di Lucera, antica ed opulenta roccaforte militare, già antisannitica ed
antipunica. TELESIA A 6 chilometri dalla confluenza del fiume Calore con
il Volturno e a metà strada con l'attuale centro di Telese, sorgeva anticamente
la città, che divenuta colonia romana, assunse il nome di Telesia. Fu una città
ricca ed opulenta. Ebbe un teatro, un circo, il foro, le terme, i sacerdoti,
magnifici templi, e possedeva una propria moneta con la quale commerciava con i
popoli vicini. La lingua originaria era quella "osca ", che prevalse in gran
parte dell' Italia meridionale e si diffuse anche in Calabria. Successivamente
fu soppiantata dal latino. Secondo gli studiosi di urbanistica, a Telesia
sarebbe stato creato un sistema difensivo quasi perfetto, formato da una cinta
muraria sulla quale si aprivano quattro porte principali, costruite usando una
tecnica costruttiva detta "opera reticolata" e da un insieme di torri poste
simmetricamente lungo tutto il percorso dell' "opus reticolatum". Parte di
queste mura sono ancora visibili a pochi chilometri dall'attuale centro urbano.
L' agro di Telese Terme fu abitato dall' uomo sin dalla preistoria: nell'età
della pietra, del bronzo, e del ferro, come ci dimostrano alcuni reperti
archeologici. Nelle epoche successive, in più riprese, eserciti romani e
cartaginesi attraversarono questa fiorente terra sannita. Gli abitanti di
Telesia, nutrirono sempre un odio profondo verso Roma.
Ed è' in questo
ambiente che vanno inquadrate le Guerre Sannitiche, durate circa 50 anni. Fra i
tanti condottieri, è d' obbligo citare un giovane ed esperto generale: Gavio
Ponzio Telesino, il quale riuscì a far passare i Romani sotto il giogo delle
Forche Caudine, umiliandoli. Successivamente i Romani sconfissero l'esercito
sannita e Silla, accecato dall' ira, distrusse completamente la città. In
seguito alla caduta dell 'Impero romano, Telesia fu conquistata dai Goti e dai
Longobardi. Subito dopo la città subì i danni di un terremoto e successivamente
fu distrutta completamente dai Saraceni. SIDICINI Popolazione di origine
autoctona che ha subito influenze latine, sannite e greche. Il principale
centro abitato fu Sidicum, divenuto in seguito colonia romana. Sullo stesso
territorio sorse Capua, colonia etrusca, a testimonianza dell'influenza subita
da parte dei Tirreni. I Sidicini furono in lotta con i Sanniti e si
mostrarono alleati con Roma, soprattutto al tempo di Annibale . Considerate
le ricchezze e la fertilità del loro territorio, vivevano di agricoltura ed
allevamento. IAPIGI Al principio dell’età del ferro (intorno al 1700
a.C.), l’Apulia rivela una cultura dovuta all’avvento di nuovi elementi etnici:
erano gli llliri che venivano dall’altra sponda dell’Adriatico. Trovarono nella
nostra regione la popolazione indigena e, amalgamandosi con essa dettero luogo
agli Iapigi, il cui nome fu loro dato dagli antichi Greci che considerarono
questi antichi popoli discendenti del mitico Dedalo attraverso suo figlio Iapige
. La IAPIGIA Gli Iapigi diedero origine a tre gruppi etnici diversi
che si mescolarono con le popolazioni locali autoctone ed in particolare con gli
Enotri: a nord della Puglia i Dauni o Apuli , al centro i Peuceti ed al sud i
Messapi .
La prima città fondata dagli Iapigi protostorici è Oria (Uria
, XVI sec.a.C) che elessero loro capitale. Ebbero un ruolo determinante con
la città di Taranto . Famosa era la cavelleria iapigia. La colonia
greco-tarantina fu d’importanza fondamentale non solo sul piano pugliese, ma
anche su quello storico generale della penisola italiana, prima per via delle
guerre di espansione, poi per i contrasti interni alle stesse colonie e per gli
scontri con Roma. Spesso i tarantini furono costretti a ricorrere ad aiuti
militari esterni, sia da Sparta sia dall’Epiro , infliggendo e subendo pesanti
sconfitte. A Canne , sull’Ofanto, si combatté nel 216 a. C. la battaglia più
famosa dell’antichità, dove Roma subì la sua più cocente e devastante sconfitta.
In seguito l’espansionismo romano, dopo le guerre sannitiche in cui le città
pugliesi si allearono quasi tutte con Roma, penetrò nei territori iapigi.
Per la Puglia passò la Via Appia che collegò Roma con l’Oriente, e a
Brindisi (città peuceta) Roma ebbe il suo principale porto di comunicazione con
le ricche e civilizzate terre greche, ellenistiche e mediorientali. AURUNCI
Popolazione di origine indoeuropea che si stabilì nel basso Lazio. Una
delle città principali fu Terracina. Socialmente non erano particolarmente
evoluti e conservavano delle caratteristiche tipicamente umbro-osche. Ausona
faceva parte insieme a Minturnae, Sinuessa, Suessa e Vescia, della cosiddetta
"pentapoli aurunca", fulcro della confederazione degli Aurunci, popolo di stirpe
italica di ipotizzata origine tirrenica.
PEUCETI
La Peucetia
corrisponde all'attuale territorio della provincia di Bari. I Peuceti sono
considerati un gruppo etnico derivato dagli Iapigi e stabilitosi nella Peucetia
intorno all'800 a.C.. La Peucetia confina a sud con la Messapia e a nord con
la Daunia. Altamura era uno degli insediamenti peuceti più importanti,
situato lungo il percorso di un'antica via di comunicazione che sarebbe
diventata la Via Appia. Il nome della città deriverebbe dalla bella regina dei
Mirmidoni, Altea, da cui Altilia, il nome primitivo della città. Non meno
suggestivo è l'altro etimo proposto: Alterum Ilium (altra Troia) per cui
Altamura entra nel piano provvidenziale che, dopo la caduta di Troia, porta Enea
alla fondazione di Roma. Tra la fine del V e gli inizi del IV sec. a.C.,
Altamura assumeva una fisionomia ben precisa con la costruzione della cinta
muraria megalitica che chiudeva l'acropoli e parte della collina. Questa
esigenza di difesa scaturiva dalle pressioni dei principali centri lucani da un
lato e dalle mire espansionistiche di Taranto dall'altro. L'economia del
centro peuceta si basava sull'allevamento del bestiame e l'artigianato che aveva
il suo maggior sviluppo nella filatura e nella tessitura della
lana. Importanti erano i contatti con le colonie della Magna Grecia, in un
primo tempo con Metaponto e successivamente con Taranto; tali rapporti sono
testimoniati dal ritrovamento di monete e di vasi di pregiata fattura. Inoltre
sono attestati rapporti con l'area dauna e con la vicina Enotria (Basilicata
orientale). Numerosi furono anche i contatti e le guerre con i
Messapi. Altri centri peuceti furono Bari (Barium) e Ruvo. A Canne ,
sull’Ofanto, si combatté nel 216 a. C. la battaglia più famosa dell’antichità,
dove Roma subì la sua più cocente e devastante sconfitta. In seguito
l’espansionismo romano, dopo le guerre sannitiche in cui le città pugliesi si
allearono quasi tutte con Roma, penetrò nei territori
peuceti.
APULI Popolazione di origine illirica abitante l'odierna
Daunia, da cui avevano anche il nome di Dauni . Si svilupparono dapprima sul
mare in semplici villaggi, vivendo di commercio e di pirateria. Successivamente
si diffusero nell'entroterra, mescolandosi con le popolazioni autoctone,
fondando dei centri urbani, risentendo dell'influenza greca. In età
neolitica la fertile pianura del tavoliere era già fittamente colonizzata da
centinaia di villaggi sparsi, ognuno racchiuso da un fossato cingente un’area
vastissima. I primi contatti con il mondo egeo risalgono all’età del bronzo e la
Daunia era indicata dagli Elleni come la “terra di Diomede", ritenuto il
fondatore di Arpi (la capitale), Canosa, Siponto (Sipontum). Inoltre ricordiamo
la città di Herdoniae (Orta Nova). Tutti questi centri conobbero anche un
discreto prestigio, al punto che coniavano monete proprie. Frequentissimi erano
anche i contatti con le terre al di là dell’Adriatico, a cui si inviava il grano
del Tavoliere e da cui si riceveva prodotti di metallo. Subirono il dominio
dei Sanniti e poi dei Romani. In seguito conobbe prestigio la città di
Luceria, che divenne importante colonia romana.
Continua>
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