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LETTERATURA
LATINA
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LA LETTERATURA LATINA -
PRIMA PAGINA |
INTRODUZIONE
*Si potrebbe intendere per "letteratura latina" l'insieme
delle opere d'intento letterario scritte in latino. Ma questa definizione
è eccessivamente vasta e comprende, di fatto, varie letterature
differenti l'una dall'altra. L'uso letterario del latino, che comincia ad
affermarsi nel corso del III sec. a.C., è destinato infatti a
svilupparsi ininterrottamente da allora in poi. Esiste così una
letteratura latina moderna, che fa direttamente seguito a quella dei secoli
precedenti. Ma è del tutto evidente che essa non presenta i medesimi
caratteri della letteratura del periodo di Cicerone o di Augusto, così com'è
certo che la letteratura in lingua latina d'ispirazione cristiana forma, a
sua volta, un settore a sé stante: le sue radici, essenzialmente orientali, e
il suo fine, di edificazione e conversione, la distinguono dalla letteratura
"pagana", il cui spirito è del tutto diverso. Infine, ultima distinzione,
andrebbero considerate a parte, anche all'interno della letteratura antica e
"pagana", le opere composte tra il III sec. a.C. e il III o, al massimo, il
IV della nostra era. Nel corso di questo periodo, infatti, si manifestano
possibilità di rinnovamento che, più tardi, spariranno; la tradizione corre
ininterrotta dalle origini; le opere sono direttamente accessibili, se non a
tutti, almeno a quanti hanno acquisito i rudimenti della cultura. *Senza
dubbio si può riconoscere, da alcuni indizi, che a partire da questo momento
la letteratura tende a divenire materia di scuola, dunque a sclerotizzarsi;
ma tale sclerosi diventerà totale solo nel periodo seguente. Fino a che
sopravvive, tra gli autori, il sentimento di partecipare a una cultura
"romana", è possibile ammettere ancora l'esistenza di una letteratura latina,
nel significato in cui, qui, l'intendiamo. Questa letteratura, infatti, è
essenzialmente quella di Roma, della Roma repubblicana e conquistatrice,
della Roma imperiale e trionfatrice. E' animata dallo spirito romano, celebra
la gloria di coloro che sono divenuti, con molte sofferenze, i padroni del
mondo: ma si sforza anche di definire i valori fondamentali sui quali poggia
questa conquista; segue, e talvolta anticipa, l'evoluzione intellettuale,
contribuendo in questo modo alla formazione di una civiltà originale, quale
appunto fu quella di Roma. Sarebbe dunque allettante chiamarla "romana", più
che "latina", se anche questa definizione non rischiasse, a sua volta, di
creare confusione. Tra coloro che hanno contribuito a formarla, com'è noto,
pochi autori furono romani di Roma: fin dal principio sono dei sudditi o
degli alleati coloro che compongono le prime opere e, via via che la
conquista avanza, si vedono provinciali, i barbari della vigilia, arricchire
la letteratura dei loro vincitori. Il che lascia intravedere come questa
letteratura sia in realtà il prodotto di una convergenza tra uno stato
sociale e politico e uno stato linguistico, tra la città romana e la lingua
latina. Ciò che dobbiamo tentare di cogliere e definire è una letteratura di
lingua latina e di ispirazione romana. Si capisce, allora, perché essa
potesse nascere soltanto nel momento in cui, simultaneamente, si trovarono
realizzate le due condizioni che le erano necessarie, e perché, inoltre, non
potesse sopravvivere alla scomparsa di una delle due. *Alla sua nascita,
era necessario che Roma fosse già affermata e sufficientemente forte come
centro politico, e che la lingua latina avesse acquistato flessibilità e
ricchezza sufficienti. Al momento del suo declino, fu il crepuscolo
dell'Impero, la scomparsa dei valori tradizionali che ne compromisero
definitivamente il vigore. Alla metà del III sec. a.C., il mondo greco è
all'apogeo della civiltà ellenistica. Il tempo dei diretti successori di
Alessandro (i diadochi) è finito da una cinquantina d'anni, i re della
seconda generazione hanno consolidato stabilmente il loro dominio,
l'ellenismo si è diffuso nelle regioni interne dell'Asia, la cultura greca,
estesa, separata persino da quanto un tempo l'aveva strettamente unita alla
polis, si impone come il modello per eccellenza di ideale umano. In questa
cultura che si irradia fino a raggiungere l'Occidente mediterraneo, con le
colonie della Magna Grecia, in Italia, con Siracusa, prospera e splendida
sotto Gerone II, in Sicilia e con le più lontane colonie raggruppate intorno
a Massalìa (Marsiglia), la letteratura resta un elemento essenziale. Per
un verso essa conserva, con le opere dell'ellenismo classico, il
tesoro comune dei poeti, dei filosofi e degli storici. Ma non è rivolta solo
verso il passato: i poeti contemporanei tentano di rinnovare la
creazione letteraria, e vi riescono con quella che noi oggi chiamiamo
letteratura "alessandrina" (perché si sviluppò soprattutto intorno ad
Alessandria, la capitale dei Tolomei). Callimaco, il più grande dei poeti
alessandrini, è il rappresentante per eccellenza di questa nuova estetica di
poesia colta, dalla forma perfetta, che ai lunghi poemi preferisce le brevi
composizioni, che usa la materia dei miti tradizionali, ma nelle varianti più
rare. Accanto a lui, Teocrito, siciliano di nascita, che dà dignità
letteraria al genere popolare del canto "bucolico", e trasforma in miniature
preziose le improvvisazioni dei bovari e dei caprai. Infine, Apollonio Rodio,
autore di una lunga epopea sulle avventure di Giasone e dei suoi compagni. Le
sue Argonautiche eserciteranno, due secoli più tardi, un'indubbia influenza
sull'Eneide. D'altro canto, il teatro resta molto vitale. Non c'è città greca
che non abbia il proprio teatro, dove in genere vengono riprese le grandi
opere del repertorio classico (quelle di Euripide, soprattutto), ma
modificate per adattarle al gusto contemporaneo: si conserva il dialogo, ma i
cori sono sostituiti da canti che non hanno più alcuna relazione con
l'azione drammatica. Rispetto al passato, spettacolo e messa in scena sono
più evoluti, e le nuove rappresentazioni che i poeti compongono sono conformi
a queste tendenze. La letteratura ellenistica si propone come fine
l'esaltazione degli dèi e, tramite questi, dei nuovi "eroi" che reggono il
mondo. Ad Alessandria, naturalmente, celebra i Tolomei, altrove Antigono
Gònata, le cui vittorie sui rivali sono glorificate anche dagli scultori
(come nel caso dell'autore della Vittoria di Samotracia). La tradizione
omerica, continuata in epoca classica dagli epinici di Pindaro, ispira ancora
quella che è talvolta chiamata letteratura di corte: la "Chioma di Berenice",
scritta da Callimaco, ne è l'esempio più compiuto. Questa costante attenzione
per la gloria ispirerà anche i primi poeti romani che, in una certa misura,
sono essi stessi "ellenistici", se non propriamente "alessandrini". *Verso
la metà del III sec., Roma conclude vittoriosamente la prima guerra contro
Cartagine. La potenza punica, che fino a quel momento occupava gelosamente il
bacino occidentale del Mediterraneo e limitava verso est l'espansione
ellenistica, si trova indebolita e deve retrocedere, abbandonando a Roma la
zona del mare Tirreno e ai focesi, alleati di Roma, quella della Liguria e
della Spagna settentrionale. Roma, la cui parentela con i popoli e le città
elleniche è avvertita da molto tempo (la prima testimonianza certa, quella di
Aristotele, risale a circa un secolo prima, ma la tradizione era certamente
più antica e voleva che Roma appartenesse al gruppo di città la cui
fondazione si collegava ai "ritorni" dei combattenti di Troia), non consentì,
certo, di rinnovare l'influenza politica dei greci sull'Occidente, ma favorì,
talvolta inconsciamente, talaltra anche però consapevolmente, l'espansione
della loro cultura anche all'interno del proprio dominio. Una
testimonianza di questa simbiosi è costituita, appunto, dalla nascita di una
letteratura di lingua latina. E' certo che la letteratura latina è figlia
della letteratura greca, ma non dobbiamo credere che, inizialmente, essa non
sia stata altro che una copia maldestra, scolastica, delle opere greche. Le
sue composizioni sono una trasposizione, rispondente ai bisogni culturali
propri di Roma, più della funzione che della materia di quelle opere che i
romani vedevano vivere all'interno del mondo greco. Si creano, così, delle
epopee e un teatro tragico, che tenderanno a fissare, per Roma, un passato
mitico; la stessa commedia si svilupperà intorno a valori morali e sociali,
come faceva, in Grecia, da tre quarti di secolo, la "commedia nuova". La
prosa, quella degli storici, dei legislatori, dei giuristi, degli oratori, si
integrerà anch'essa allo spirito della città, e l'imitazione dei grandi
prosatori greci non sarà una schiavitù sterile, al contrario. E' vano voler
opporre una Grecia creatrice a una Roma che ne sarebbe soltanto l'imitatrice
servile: la creatività si sussegue, dall'uno all'altro campo, tanto che
l'anteriorità della letteratura greca spiega solo come quella di Roma abbia
potuto svilupparsi così rapidamente e prendere una sorta di scorciatoia per
giungere alla perfezione.
LA POESIA ARCAICA *E' con la poesia che ha
inizio la letteratura latina. Essa fa i suoi primi passi contemporaneamente
con l'epopea e col teatro. Molteplici sono le ragioni che presiedono a questo
sviluppo: alcune sono da ricercare nella situazione della letteratura greca
contemporanea, nel ruolo giocato insieme dalla tradizione omerica e dalle
rappresentazioni teatrali nella cultura ellenica; altre, invece, dipendono da
condizioni proprie di Roma. Prima della letteratura scritta era esistita una
letteratura orale, i cosiddetti "carmina convivalia", canti recitati da
giovani, durante i banchetti, per elogiare i grandi uomini del passato.
L'influenza della civiltà etrusca aveva diffuso la conoscenza dei miti greci
che si erano fusi con le leggende popolari. Abbiamo un'eco di questo
repertorio preletterario nei dipinti delle necropoli etrusche arcaiche. E'
molto probabile che il più antico passato di Roma sia divenuto dunque, assai
presto, materia "letteraria": antenati delle gentes, re, e
soprattutto Romolo, il fondatore della città, tutti dovevano figurare, con le
loro imprese, in questi rudimentali poemi. Il metro utilizzato era
probabilmente il "verso saturnio" (così chiamato a causa della leggenda
secondo cui il dio Saturno sarebbe stato il primo mitico re del Lazio), del
quale tuttavia non conosciamo che forme relativamente tarde e già
"letterarie". Sembra che fosse composto di due membri ineguali, il primo
formato in genere da tre parole (di due sillabe le due prime, di tre la
terza), il secondo comprendente invece due parole di tre sillabe ciascuna
(secondo il modello tramandatoci dal primo verso dell'Odyssia di Livio
Andronico: Virum, mihi, Camena / insece versutum (Narrami Camena, l'uomo
dalle mille imprese); esistevano tuttavia altre combinazioni possibili, come
risulta ad esempio dal verso di Nevio: Fato Metelli Romae / fiunt consules
(Al fato si deve se a Roma i Metelli diventano consoli), nel quale c'è una
differente ripartizione delle parole di due e tre sillabe. La recitazione
veniva accompagnata con la lira, che scandiva il metro. L'influenza
esercitata da questi "canti conviviali" sulla letteratura latina non si
lascia cogliere agevolmente. Un tempo si supponeva che essi
avessero costituito la prima forma di storia e contribuito a formare le
leggende che i critici moderni amavano, in passato, denunciare nella
tradizione degli storici posteriori (soprattutto in Tito Livio). Oggi si è
concordi nel ridurne l'importanza, e nel ritenere che si siano sviluppati ai
margini della storia, senza peraltro sostituirsi ad essa. E' certo, tuttavia,
che essi hanno preparato le varianti nazionali di due generi greci:
l'epica romana e la fabula praetexta, rappresentazione drammatica che fa dei
romani stessi i nuovi eroi della scena.
IL TEATRO
ROMANO L'ORIGINE DEL TEATRO ROMANO. Il teatro romano prende origine dalle
tradizionali feste religiose etrusche e in particolare dalla recitazione
degli attori etruschi. Sempre agli etruschi, o meglio alla città etrusca di
Fescennium, è inoltre riconducibile anche la festa campestre fescennino nella
quale si rinvengono gli stessi elementi drammaturgici propri alle
rappresentazioni che si svolgevano nella città osca di Atella, denominate per
questo atellane. Ben presto però, intorno al 240 a.C. in occasione dei Ludi
Romani, in seguito ai contatti con la civiltà greca si cominciarono a
rappresentare a Roma drammi sul modello greco, che finirono col fondersi con
le altre forme drammaturgiche preesistenti. Il retaggio delle antiche forme
di spettacolo si rinviene nello spirito e nel gusto per il divertimento, per
il motto scherzoso in cui sono presenti oltre che i riti etruschi anche il
motteggio sfrenato di quell 'antica città osca, Atella, terra delle farse
atellane. Niente più che un retaggio comunque e inevitabilmente proprio a
causa della loro natura basata sull'improvvisazione, sulla battuta di
scherno, senza che ci fosse alcuna testimonianza o documentazione
scritta.
GLI AUTORI E LE OPERE. La mancanza di testi scritti ha reso
difficile una ricostruzione certa dello sviluppo della drammaturgia latina.
Del resto i generi drammaturgici più antichi, fondamentali per stabilire
l'origine della drammaturgia latina, non prevedevano proprio per tipologia,
l'esistenza di un testo e tanto meno di un autore. Per questo
convenzionalmente la data di inizio della letteratura latina è stata fissata
intorno al 240 a.C., anno a cui risalgono cioè le traduzioni e gli
adattamenti di derivazione greca di Livio Andronico. Anche del suo
contemporaneo Gneo Nevio, a parte il fatto che anche lui si "occupava" di
teatro si sa poco altro. I primi autori di cui ci siano rimasti gli scritti
sono: Tito Maccio Plauto Publio Afro Terenzio che, a differenza dei
loro predecessori che non si specializzarono in un genere in particolare,
scrissero solo commedie. Altri autori romani di commedie nel II I secolo a.
C. sono: Titinio Afranio Atta Autori romani di tragedie
sono: Cecilio Stazio (230 - 220) Quinto Ennio (239 - 189) Pacuvio (220
- 130) Lucio Accio (170 - 85) Accanto a questa produzione, che potremmo
definire aulica, si mantenne una produzione minore oltre ai consueti
spettacoli romani: le corse dei carri, i combattimenti dei gladiatori,
venationes e naumachie.
IL FESCENNINO. Il Fescennino é una festa
celebrata in occasione delle scadenze principali della vita contadina (la
vendemmia, la raccolta del grano ecc.) era improntata sullo scherno, e la
canzonatura degli altri vendemmiatori o mietitori. L'etimologia del termine
sembra infatti poter risalire anche al latino fascinatium, malocchio, quello
gettato agli altri carri incolonnati e carichi di uva in occasione della
vendemmia. Da tali atteggiamenti e dalle caratteristiche di questa festa
popolare ha preso origine la drammaturgia latina.
L'ATELLANA. Per
atellane si intendono le improvvisazioni di breve durata (forse addirittura
semplici chiusure delle rappresentazioni) di contenuto farsesco che si
rappresentavano ad Atella, città osca della Campania. Le rappresentazioni
erano caratterizzate dalla presenza di personaggi fissi con proprie maschere
e propri costumi. Il genere dell'Atellana, di probabile derivazione dalla
farsa fliacica, fu introdotto a Roma nella prima metà del III secolo
a.C.. Le Atellane riproponevano quattro personaggi fissi in tutte
le rappresentazioni: Pappus, il vecchio sciocco; Maccus, il tipo dello
scemo maltrattato; Dossenus, il gobbo furbo e imbroglione; Bucco,
insaziabile e maleducato. Tali personaggi avevano anche una loro maschera e
un loro costume caratteristico.
IL MIMO. Il mimo era una forma
drammaticata di breve durata che in alcuni casi si trasformava in spettacolo
vero e proprio. Molto amato dai romani questo genere rifletteva il gusto del
tempo incline alla violenza e alle scene di lotta.
LA COMMEDIA
ROMANA. La commedia romana sembra non discostarsi minimamente dalla commedia
nuova greca, se non che per poche innovazioni: l'eliminazione del
coro (ripristinato solo successivamente dagli editori); l'introduzione
dell' accompagnamento musicale, peraltro probabile retaggio della
tradizione etrusca. Questo tipo di commedia veniva definita fabula
palliata. Accanto a questa ne esisteva anche un altro la fabula togata, di
contenuto e ambientazione romana.
LA TRAGEDIA ROMANA. Il genere della
tragedia, molto apprezzato dal pubblico, fu completamente ripreso dai modelli
greci e definito dai romani fabula crepidata. Gli unici autori di cui si
abbia memoria (ma non i testi) sono Quinto Ennio (239 - 189), Marco Pacuvio
(c.220 - c.132) e Lucio Accio (170 - c. 90). Le tragedie romane che ci sono
pervenute risalgono ad un periodo successivo, compreso tra il 30 e il 60
d.C., per lo più opera di Seneca.
GLI ATTORI. La professione dell'attore
godette sicuramente di un grosso prestigio in Grecia, ma certamente non a
Roma, dove sembra venisse demandata agli schiavi che erano al servizio del
direttore della compagnia. Questo fu quasi certamente vero almeno fino a
quando Roscio, il più grande attore della romanità, non riuscì a riabilitare
tale professione. Gli attori comunque si dividevano in due categorie
principali gli histriones e i mimi.
I COSTUMI. I costumi cambiavano a
seconda del genere teatrale: commedia, tragedia e atellana. Per tutte le
rappresentazioni di ambientazione greca gli attori vestivano abiti ateniesi,
mentre per quelle di ambientazione romana indossavano la classica toga
romana.
LE MASCHERE. Le maschere romane, sul modello di quelle greche,
erano di tela con applicata una capigliatura. L'uso delle maschere facilitava
l' interpretazione degli attori che dovevano impersonare più ruoli o
personaggi di aspetto simile (I Gemelli o l'Anfitrione di Plauto). Nel teatro
dei mimi la maschera invece non esisteva, e vista la popolarità di questo
genere man mano la maschera scomparve dal teatro romano.
LA
MUSICA. La musica all'interno delle rappresentazioni romane aveva un
ruolo fondamentale, che veniva svolto da un suonatore di flauto a due canne
lungo circa 50 cm.. L'accompagnamento del musico aveva delle convenzioni
rigide (il pubblico era in grado di capire il personaggio che sarebbe
entrato, o casa sarebbe accaduto dalla sola musica di introduzione) e
accompagnava lo spettacolo dall'inizio alla fine spostandosi, a volte,
insieme ai personaggi.
GLI SPETTATORI. Gli spettatori romani
prediligevano rappresentazioni cruente con scene di violenza, spesso
realistiche. In occasione delle feste per l'inaugurazione dell'anfiteatro
Flavio (Colosseo), per esempio, durante le rappresentazioni avvenne che nelle
scene di crocifissione lo schiavo cristiano si sostituì all'attore e quindi
moriva realmente. Caratteristiche di verosimiglianza e di violenza
completamente inesistenti, invece, nel teatro greco.
L'EDIFICIO
SCENICO. I romani cominciarono a costruire veri e propri edifici teatrali
soltanto nel 30 a.C., prima di questa data le strutture che ospitavano gli
spettacoli erano provvisorie appositamente costruite per i diversi eventi. I
primi teatri stabili, comunque, riproducono più o meno la struttura dei
teatri greci anche se con alcune modifiche. La passione dei romani per
generi di spettacolo molto importanti e "ingombranti", rese ben presto
necessaria la creazione di luoghi adeguati che potessero ospitarli. Tale
necessità è evidentemente all'origine della ideazione e costruzione degli
Anfiteatri il cui maggiore esempio è per tutti l'Anfiteatro Flavio da tutti
conosciuto con il nome che gli venne dato durante il Medioevo di
Colosseo.
LE SCENE. Le notizie relative alla scenografia romana si
basano sulle testimonianze del trattatista latino del I sec. a.C., Vitruvio.
Da queste sembrerebbe che il teatro romano non presentasse una scenografia
molto complessa, ma piuttosto erano gli attori che con i loro dialoghi
evocavano ambienti e circostanze diverse. Di sicuro gli elementi scenografici
sempre presenti erano: la scenae fronts, i periaktoi e l'auleum. La scenae
fronts è costituita da un'architettura simile alla facciata di un edificio,
nella quale si aprono diversi ingressi utilizzati dagli attori. I periaktoi,
di derivazione greca, erano prismi triangolari ruotabili con i lati dipinti,
secondo Vitruvio, con una scena tragica su un lato, comica su un altro e
satiresca sul terzo. L'auleum era un telo simile al nostro attuale sipario
che consentiva di rivelare improvvisamente, lasciato cadere dall'alto, una
nuova scena. Negli anfiteatri gli effetti speciali erano realizzati con
l'utilizzo di macchine teatrali, anche queste di derivazione greca. Uno degli
effetti più sensazionali e graditi erano le scene di massa affollate da
personaggi e animali.
LE RICORRENZE PRINCIPALI DEL TEATRO
ROMANO. Anche a Roma, come in Grecia, la maggior parte dell'attività teatrale
si svolgeva nel corso delle feste di carattere religioso e, anche se
più raramente, in occasione di vittorie militari, consacrazione di
pubblici edifici, o per i funerali di importanti personalità. Gli antichi
romani, per la verità non molto diversamente dai romani "moderni", dedicavano
alle diverse divinità alcuni giorni fissi dell'anno durante i quali
organizzavano spettacoli e celebrazioni. Definivano tali periodi Ludi
accompagnati da un aggettivo che derivava o richiamava in qualche modo la
divinità che si celebrava, come ad esempio i Ludi Florales, i Ludi
Apollinares, Ludi Megalenses e Ludi Cereales durante i quali veniva peraltro
dato particolare rilievo agli spettacoli teatrali. C' erano poi durante i
mesi di settembre e novembre i Ludi in onore di Giove rispettivamente
denominati Romani e Plebei anche questi occasione di festa, divertimento e
quindi spettacoli.
Livio Andronico (Taranto III sec.
A.C.) VITA. Le date di nascita e di morte ci sono sconosciute, sappiamo
soltanto che era un ex schiavo originario di Taranto e che partecipò alla
guerra tra Taranto e Roma al seguito del suo protettore, il senatore Livio
Salinatore, che l'affrancò dopo avergli affidato l'educazione dei figli e dal
quale L. prese anche il prenome. Due sono le tappe importanti della sua
carriera: 240, quando una sua opera fu il primo testo drammatico
rappresentato a Roma (è da questo momento che si fa cominciare la storia
della letteratura latina); 207, quando compose un partenio in onore di
Giunone. Riconosciuta fu la sua "associazione professionale", il "collegium
scribarum histrionumque".
OPERE E CONSIDERAZIONI. L. si può
giudicare l'iniziatore della letteratura latina: abbiamo 9 titoli di tragedie
dedicate alla guerra di Troia (Achilles, Aiax mastigophorus, Equos troianus,
Aegisthus, Hermiona, Andromeda, Tereus, Danae e Ino), una palliata
("Gladiolus", ovvero "sciaboletta"), il "partenio" (di cui però nulla
conserviamo); ma il suo capolavoro è la traduzione, o forse è più esatto dire
l'adattamento artistico, "letterario", in lingua latina e in versi saturni,
dell'Odissea di Omero ("Odyssa") e ciò ebbe una importanza storica enorme.
L'operazione aveva infatti finalità sia letterarie che culturali: l'Odissea
rappresentava un testo fondamentale della cultura greca ed è per questo la
traduzione di L. non era letta solamente in ambito scolastico. Il merito
di L. non fu tanto di introdurre a Roma la letteratura greca, quanto di
concepire la possibilità di una letteratura in lingua latina, sul modello
delle opere greche. Egli, come visto, compose al tempo stesso tragedie,
commedie e un'epopea, fondando così tre generi che avrebbero dato origine,
molto presto, a una straordinaria fioritura con le opere dei
suoi contemporanei e degli immediati successori, Nevio, Plauto, Ennio e
Pacuvio. Non avendo una tradizione epica alle spalle, L. cercò di dare per
altre vie solennità e intensità al suo linguaggio letterario. All'inizio
della traduzione L. rende la "Musa" di Omero con l'antichissima "Camena",
divinità italica delle acque. Tuttavia, alcune dei passi scritti da Omero non
erano concepibili per i romani e L. si trovò a dover modificare spesso
l'Odissea (eroe pari agli dei). Tipica della sua poesia è anche la ricerca
del pathos, della tensione drammatica, della solennità: non disdegna, così,
arcaismi, o di ricorrere al formulario religioso. I modelli tragici cui
s'ispirò, a tal proposito, furono verosimilmente testi attici del V sec.
(soprattutto Sofocle ed Euripide). Di questa Odyssia, noi non possediamo
che pochi frammenti isolati e molto brevi, ma la scelta del soggetto lascia
intravedere lo scopo che L. si proponeva. Mentre l'Iliade, "libro sacro" per
eccellenza della cultura greca, era centrata sull'Egeo, l'Odissea, al
contrario, guardava verso l'Occidente. Una tradizione di commentatori situava
la maggior parte dei suoi episodi sulle sponde italiane e siciliane. E' in
Italia che sono situati gli sviluppi della leggenda di Ulisse. Un particolare
degno di nota era costituito inoltre dal fatto che la figura di Ulisse aveva
incontrato larga fortuna nelle regioni etrusche; i figli che, a quanto si
raccontava, egli aveva avuto da Circe, erano ritenuti i fondatori di numerose
città dell'Italia centrale (Tivoli, Ardea). Dietro l'epopea di L. possiamo
indovinare i racconti leggendari etruschi e l'epopea "orale" del Lazio
etruschizzato. Inoltre, in quella seconda metà del III sec., accadeva che
Roma fosse impegnata negli affari dell'Illiria e si preoccupasse delle coste
adriatiche, che aveva raggiunto da molto tempo, ma che, fino a quel momento,
non erano entrate nel suo immediato orizzonte politico. Ben presto, in questa
regione, Roma appare come la protettrice degli elleni contro i pirati
barbari. Ora, uno degli eroi delle guerre d'Illiria era precisamente proprio
un L. Salinatore, forse la stessa persona che aveva affrancato L., forse il
figlio e, in tal caso, l'antico allievo del poeta. Adattare l'Odissea in
latino non era forse rendere delicato omaggio ai romani che, dall'Italia
centrale, ritornavano da liberatori alla patria di Ulisse? Delle origini
italiche della letteratura latina, dunque, l'epopea di L. conservava molto:
non soltanto il metro (l'Odyssia era scritta in versi saturni), ma
l'interesse per leggende nelle quali, da lungo tempo, ci si compiaceva di
riconoscere i prolungamenti occidentali dei cicli epici
Gneo
Nevio (Campania? 270 ca - Utica 201 a.C.)
VITA. Combatté nella
prima guerra punica (264-241). Probabilmente era un plebeo di nascita e
questo spiega il fatto delle frequenti politiche antinobiliari: non abbiamo
inoltre indizi che si appoggiasse a protettori aristocratici come
Ennio-Nobiliore ed Andronico-Salinatore. Si sospetta che fosse
stato incarcerato per certe allusioni contenute nei suoi drammi: morì in
esilio a Utica. N. è il primo letterato latino di nazionalità romana, e ci
appare anche come il primo letterato latino vivacemente inserito nelle
vicende contemporanee. Fece recitare la sua prima rappresentazione nel 235,
cinque anni soltanto dopo quella che aveva segnato gli inizi di
Livio.
OPERE. Di N. conosciamo: 2 praetexte, il "Romulus" e il
"Clastidium"; il "Bellum Poenicum"; almeno 6 tragedie mitologiche: "Equos
troianus" (l'argomento piaceva ai romani), "Lesiona" (altra leggenda relativa
alle catastrofi troiane), "Hector proficiscens", "Iphigenia"
(probabilmente un'"Ifigenia in Tauride"), "Danae" e "Lycurgus",
(rappresentazione dionisiaca senza alcun dubbio in rapporto col diffondersi
del culto di Bacco nell'Italia meridionale e nel Lazio durante gli ultimi
decenni del III sec.; 1 commedia, la "Tarentilla" ossia il ritratto di una
ragazza civettona. Il capolavoro è, ovviamente, il "Bellum Poenicum", scritto
in saturni, probabilmente durante la vecchiaia intorno al 209 (nel momento in
cui l'Italia era per gran parte occupata dalle truppe di Annibale o,
quanto meno, minacciata dalle imprese del cartaginese) e comprendente
circa 4000/5000 versi, riguardante la prima guerra
punica.
CONSIDERAZIONI. I frammenti che possediamo dell'opera sono
brevi, ma relativamente numerosi, e consentono di farsi una qualche idea
dell'insieme. Ne evinciamo che il poeta non si limita a trattare in poesia le
vicende della guerra cartaginese, ma con un salto temporale non
indifferente, affonda nella preistoria di Roma: N. parla, nei primi canti,
con certa ampiezza dell'impresa di Enea, considerato il fondatore di Roma, e
dei suoi amori con la regina Didone, la fondatrice di Cartagine. Il nostro
utilizzò questa storia drammatica per spiegare la rivalità mortale che
opponeva Roma a Cartagine. Il suo scopo è di mostrare che il fato è dalla
parte di Roma; ciò assumeva grande importanza negli anni oscuri della II
guerra punica. Roma riceveva dal suo poeta una duplice certezza: che gli dèi
erano con lei, e che le passate vittorie su Cartagine garantivano il successo
finale. Pur mantenendo di fondo un'ispirazione nazionale del poema, N. non si
stacca troppo dalla tradizione letteraria greca: nel "Bellum Poenicum"
si intrecciano, come visto, una storia di viaggi e una storia di guerra,
quasi a simboleggiare l'Odissea e l'Iliade. Sicuro è che non vi era,
però, narrazione continua: mito di fondazione e storia "contemporanea"
si fronteggiavano dunque in blocchi distinti. Anche certi aspetti, come ad
es. le figure di suono, presuppongono un'originale mescolanza di cultura
romana e greca nel testo. Mentre l'"Odyssia" di Livio era ispirata dalla
tradizione italica, il "Bellum Punicum" è più profondamente romano. Sono
cambiate le circostanze: Roma non è più l'arbitro dell'Italia, ma una città
che lotta per la sua stessa esistenza, e questo restringimento dei suoi
orizzonti provoca un accesso di nazionalismo, di cui l'esaltazione storica
degli eroi nazionali è una manifestazione. E' il momento, come vedremo, in
cui si forma la tragedia "praetexta".
Tito Maccio
Plauto (Sarsina, Umbria 259/251 - Roma 184 a.C. ca)
VITA. P. si
dedicò solo ad un unico genere letterario, alla composizione di commedie.
Operò una sintesi della commedia greca nuova e di elementi attinti dalla
farsa italica. Sappiamo poco di P. e le notizie che possediamo sono poco
attendibili. Tali notizie ci sono pervenute da A. Gellio e S. Girolamo IV
sec. d.C.: da loro sappiamo che egli si dedicò alla recitazione con successo,
investì il capitale in commercio e fallì, si ricoprì di debiti e si guadagnò
da vivere in un mulino girando la macina. In questo periodo cominciò a
comporre commedie, fra cui il "Saturio" (il pancia piena), in cui narra della
sua precedente condizione di agiatezza, e l'"Addictus" (schiavo per debiti),
in cui narra della sua attuale condizione di schiavitù e una terza commedia
dal titolo sconosciuto, che, rappresentate con successo, furono l'inizio di
una fortunata attività teatrale durata oltre un quarantennio. Alieno della
politica, ma non insensibile agli avvenimenti del tempo, visse interamente
della sua arte, praticata con instancabile fervore creativo. Cicerone nel
"De senectute", citando diversi personaggi che avevano continuato a svolgere
attività culturali al termine della vita, cita anche P. e afferma che compose
da senex alcune commedie fra cui lo "Pseudulus" (il bugiardo), scritta nel
191 a.C., era quindi già vecchio. Sempre Cicerone nel "Brutus" dice che morì
nel 184 a.C. La sua produzione si svolse durante la II guerra punica. I
codici che contengono le commedie di P., ci hanno tramandato il suo
nome completo, Tito Maccio P.. Tito e Maccio sono nomi fittizi: Maccio,
infatti, deriva da Maccus (maschera dell'atellana); Plautus può significare o
piedi piatti oppure orecchie lunghe e penzoloni. Molto probabilmente si
tratta di nomi d'arte che aveva usato durante l'attività di
attore.
OPERE. Alla sua morte, entrarono in circolazione una serie di
commedie a suo nome rivelatesi in seguito dei falsi. Nel I sec. a.C.
circolavano 130 commedie. Un erudito dell'epoca, Marco Terenzio Varrone,
studiò le commedie ("De comoedis Plautinis") e ne considerò false 90, le
altre originali e sicuramente vere. L'autorità di Varrone fu tale che
continuarono a ricopiare solo le 21 autentiche. La XXI ci è giunta
lacunosa. Tuttavia, da varie testimonianze degli antichi, si è indotti a
pensare che esistessero altre commedie sicuramente plautine e oggi perdute:
così Commorientes, Colax, Gemini lenones, Condalium, Anus, Agroecus,
Faerenatrix, Acharistio, Parasitus piger, Artemo, Frivolaria, Sitellitergus,
Astraba. Sappiamo la data di composizione solo dello "Stichus" (200 a.C.) e
dello "Pseudulus" (191 a.C.); la cronologia delle altre è definibile in base
ad elementi interni, ipotizzando un'evoluzione del suo teatro dalla "farsa"
ad una specie di "opera buffa" (va però detto che nessuna ipotesi
evolutiva generale s'è affermato nettamente). Provando comunque ad
ordinarle cronologicamente, esse sono: Asinaria (212), Mercator (212-10),
Rudens (211-205), Amphitruo (206), Menaechmi (206), Miles gloriosus (206-5),
Cistellaria (204), Stichus (200), Persa (dopo il 196), Epidicus (195-4),
Aulularia (194), Mostellaria (inc.), Curculio (200-191?), Pseudolus (191),
Captivi (191-90), Bacchides (189), Truculentus (189), Poenulus (189-8),
Trinummus (188), Casina (186-5); in più la Vidularia pervenuta assai mutila.
Si ricordi che, tuttavia, nei codici le commedie sono disposte in ordine
alfabetico.
TRAME. "Amphitruo" (Anfitrione), l'unica a soggetto
mitologico: Giove si innamora di Alcmena, moglie di Anfitrione. Giove
approfitta dell'assenza di Anfitrione, impegnato in guerra, per assumerne le
sembianze. Si presenta da Alcmena e trascorre con lei una lunga notte
d'amore. Mercurio accompagna Giove e sta di guardia assumendo le sembianze di
Sosia, servo di Anfitrione. Mentre Giove giace con Alcmena, ritorna
Anfitrione che si fa annunciare da Sosia che, arrivato alla reggia si
incontra con Mercurio sotto le sembianze di Sosia. Da questa situazione
nascono una serie di inevitabili equivoci. "Asinaria" (La commedia degli
asini) Il giovane Argirippo è innamorato di Filenio, figlia dell'avara
Cleareta che pretende in giornata la somma di venti mine, altrimenti darà la
figlia al rivale Diabolo. Sarà lo stesso padre a venire in soccorso di
Argirippo, incaricando due servi di casa di procurarsi il denaro a danno
della sua ricca e avara moglie. Uno dei servi fingerà di essere
l'amministratore della padrona e riuscirà a riscuotere le venti mine che un
mercante deve a quella per l'acquisto di certi asini. La commedia è giunta
assai mutila e con un certo numero di contraddizioni interne: ad es. il
contratto concluso da Argirippo ai versi 299 sgg. Appare poi nelle mani di
Diabolo ai versi 752 sgg.: si è voluto appianare le difficoltà sostituendo
nelle scene I, 2 e 3 il nome di Diabolus a quello di Argyrippus; altri
invece, rilevando anche certe contraddizioni nel carattere di Filenio,
preferisce ritenere che nell'originale greco di Demofilo (dall' Onagos
"L'asinaio") P. abbia introdotto alcune scene da un secondo modello greco, in
cui la protagonista era di nascita libera. Dall'Asinaria deriva il P.,
commedia in tre atti di Nepomucene Lemercier (1771-1840), la cui unica
originalità consiste nell'aver introdotto tra i personaggi P. stesso.
Elementi dell'Asinaria sono anche nella Cassaria dell' Ariosto e nel Martello
del Cecchi. "Mercator" (Il mercante). E' la commedia della rivalità tra
Demifone e Carino - padre e figlio - per una bella schiava, Pasicompsa, che
Carino ha condotto da Rodi dove si era recato per commercio. Demifone - che
ha avuto un sogno premonitore della vicenda - fa comprare al porto la
fanciulla dall' amico Lisimaco, che la dovrà custodire in casa sua per un
giorno, profittando dell'assenza della moglie Dorippa. Ma questa ritorna,
l'equivoco deve essere per forza spiegato e il vecchio Demifone cede il posto
al figlio. Deriva dall'Emporos (che in greco significa appunto mercante)
di Filemone (nato a Siracusa nel 361, morto nel 263 o 262). "Rudens" (La
gomena). Un lenone, dopo aver promesso una bella fanciulla ad un giovane
innamorato di lei, da cui ha ricevuto un lauto anticipo, decide di fuggire
velocemente durante la notte per sfruttare altrove la ragazza. Ma la tempesta
fa naufragare la nave, che ributta sulla riva i partenti. La ragazza si
rifugia con la propria ancella nel tempio di Venere, a poca distanza dal
quale vive un uomo a cui un tempo è stata rapita la propria figlia. Segue
naturalmente il riconoscimento: la ragazza, sottratta all' avido lenone, può
finalmente riabbracciare il padre e sposare il suo innamorato. Derivato da
una commedia di Difilo il Rudens si svolge in un'atmosfera e in un ambiente
diversi da quelli di tutte le altre commedie di P.. Basti dire che la scena,
anziché la solita piazzetta su cui s'affacciano le case dei principali
personaggi, ci presenta una spiaggia battuta dal mare in tempesta, e un
ambiente di pescatori che vivono di stenti, com'è detto nel coro che è al
principio del secondo atto (importante perché è l'unico coro che si trovi
nella Commedia latina). Quanto all'atmosfera, il comico è del tutto assente
nel Rudens, in cui predomina un tono tra il patetico e il solenne, che sfiora
in qualche punto la tragedia. "Menaechmi" (I Menecmi). E' la gioiosa commedia
degli equivoci dovuti all' incredibile somiglianza di due gemelli, Menecmo I
e Menecmo II, separati fin dalla fanciullezza. La vicenda si svolge ad
Epidammo, dove Menecmo II è capitato nel corso di un viaggio di ricerca del
fratello. Gli equivoci a ripetizione, in cui sono coinvolti prima l'amica di
Menecmo I, Erozio, ed il suo cuoco, poi il parassita di Menecmo I, Penicolo,
ed infine la moglie dello stesso, conferiscono all'azione un'irresistibile
tensione comica. Quando già i due Menecmi sono ritenuti pazzi e ci si rivolge
ormai ai medici, essi si trovano l'uno dinanzi all'altro davanti alla casa di
Erozio e tutto si chiarisce. La lunga serie di peripezie rende questa
commedia tra le più animate del teatro classico: un susseguirsi ininterrotto
di saporose battute, di botte e risposte, di capovolgimenti di situazioni,
senza un solo attimo di stasi. Benché non si conosca l'originale greco da cui
il Menaechmi plautino sia derivato, si sa che una non piccola schiera di
commediografi greci (Menandro, Antifane, Posidippo, per non citare che i più
noti) s' ispirò a questo motivo dell'identità di due persone. Del resto, il
motivo non è nuovo neppure in P.: si pensi solo al Mercurio-Sosia e
al Giove-Anfitrione dello stesso Amphitruo. L'elenco delle imitazioni,
dei rifacimenti, delle traduzioni del Menaechmi plautino è lunghissimo. I
più importanti Sono la Calandria di Bernardo Dovizi da Bibbiena, i Due
gemelli veneziani di Goldoni e La commedia degli equivoci di William
Shakespeare. "Miles gloriosus" (Il soldato fanfarone). Il giovane Pleusicle
ama la bella Filocomasio. Durante un'assenza del giovane, la ragazza viene
rapita dal miles Pirgopolinice, un soldato smargiasso e fanfarone, a cui il
parassita Artotrogo fa credere di essere irresistibile con le donne.
Palestrione, servo di Pleusicle, parte per avvertire il padrone di ciò che è
accaduto, ma viene rapito dai pirati e finisce per essere donato proprio al
miles. Pleusicle, avvertito di nascosto da Palestrione, si fa ospitare
da Pericleptomeno, un amico del padre, in una casa contigua a quella del
miles. Palestrione pratica una breccia nel muro di confine tra le due
case, consentendo agli amanti di incontrarsi. Ma Sceledro, servo del miles,
li scorge mentre si baciano, e costringe Palestrione a escogitare una serie
di inganni per salvare i due amanti, fingendo che esista una gemella
di Filocomasio. Palestrione organizza una feroce beffa ai danni
di Pirgopolinice: gli fa credere che la moglie di Periplectomeno sia
pazzamente innamorata di lui. Il miles licenzia in un sol colpo Filocomasio
e Palestrione, dando loro la libertà. Entrato nella casa di Periplectomeno
per un appuntamento galante trova un marito furibondo e i servi pronti
a fustigarlo ignominiosamente come adultero. Gran parte della trama
proviene dalla commedia greca Alazon (Il vanaglorioso), ma è probabile che P.
abbia largamente applicato la contaminatio, assumendo da un altro dramma il
motivo del foro nel muro e della sorella gemella. "Cistellaria" (La
cassetta). Il giovane Alcesimarco ama Selenio, una trovatella allevata da una
cortigiana; ma il padre gli impone di sposare un' altra ragazza, figlia del
vicino Demifone, a sua volta alla ricerca di un' altra figlia avuta molti
anni prima da una donna e abbandonata in una cassetta con dei contrassegni.
Dopo varie vicissitudini, si scopre che la ragazza abbandonata è Selenio, che
ora Alcesimarco può sposare con l'assenso del padre. Nonostante una lunga
lacuna (più di seicento versi) l'intreccio di questa commedia è abbastanza
chiaro. L'originale greco sembra di Menandro. "Stichus" (Stico). Due
sorelle da tre anni non hanno più notizie dei loro mariti, partiti oltremare
per ricostituire un patrimonio in rovina. Il padre vorrebbe farle risposare,
ma le donne insistono per serbare la loro fedeltà. Non manca un parassita,
Gelasimo, che da tre anni patisce la fame. Giunge finalmente in porto la nave
dei due uomini, carichi di merci e di ricchezze. Assieme a loro c'è anche il
servo Stico, che organizza grandi festeggiamenti. I due mariti si
rappacificano con il vecchio suocero, soddisfatto del successo dei loro
affari. Solo il parassita non riesce a farsi invitare da nessuno, e
comicamente continua a restare deluso nella sua ormai annosa brama di cibo
Stichus deriverebbe dall'Adelphoe di Menandro. "Persa" (Il persiano). Il
servo Tossilo riscatta dal lenone Dordalo una ragazza che ama. Poi traveste
da orientale la figlia di un parassita e finge di venderla a Dordalo, che
cade nel tranello. La somma ricavata serve a cancellare il debito iniziale.
Il parassita trascina in tribunale il lenone, reo di aver comprato una
ragazza libera. La commedia si conclude con una grande festa, durante la
quale Dordalo viene beffato e bastonato per la sua insipienza. Tossilo può
giustamente trionfare. "Epidicus" (Epidico). Il giovane Stratippocle si
innamora in due tempi diversi di due cortigiane, affidando al servus Epidico
l'incombenza di trovare ogni volta il denaro necessario a riscattarle.
Epidico riesce ripetutamente ad ingannare il vecchio Perifane, padre di
Stratippocle, carpendogli il denaro di cui ha bisogno. Ma quando i suoi
raggiri stanno per essere scoperti, una delle due ragazze viene riconosciuta
figlia di Perifane e sorella di Stratippocle, che ripiega sull'altra
cortigiana mentre Epidico viene affrancato per meriti
d'ingegno. L'intreccio è più complicato del solito. Ma l'interesse della
commedia sta soprattutto nella figura d'Epidico: il più abile, il più astuto,
il più diabolicamente scaltro dei servi che il teatro abbia
dato. "Aulularia" (La commedia della pentolina). Un vecchio avaro, Euclione,
ha trovato in casa sua una pentola piena di monete d'oro. Per timore che
gliela possano rubare, egli la nasconde nel tempio della Buona Fede
e successivamente nel bosco di Silvano. Ma Strobilo, servo del
giovane Liconide, avendo seguito le sue mosse, se ne impadronisce. Il vecchio
è fuori di sé dalla disperazione, tanto più che Liconide confessa di
aver messo incinta Fedria, sua figlia, che egli aveva promesso in sposa
al vecchio Megadoro, suo vicino. Qui la commedia si interrompe, ma
la conclusione è scontata: in cambio dell'oro, Euclione concede la mano
della figlia a Liconide, che a sua volta darà la libertà al servo
Strobilo. L'originale greco è ignoto, ma è probabile che fosse una commedia
di Menandro in cui l'avaro aveva nome Smicrine. L'Aulularia ispirò l'Avaro
di Moliere e quello di Goldoni. "Mostellaria" (La commedia del fantasma).
Mentre il padre Teopropide, un ricco mercante di Atene, è assente da lungo
tempo per affari, il giovane Filolachete si dà alla pazza gioia assieme
all'amico Callidamate, assistito dall'ingegnoso e sfrontato servus Tranione,
che ha anche dovuto procurarsi un prestito rilevante per riscattare la bella
Filemazio, una cortigiana amata dal padroncino. Torna inaspettatamente il
padre, mentre è in corso un gran banchetto. Tranione spranga la porta, e per
impedire a Teopropide di entrare inventa che la casa è abitata da un
fantasma. Giunge nel frattempo un usuraio per riscuotere un credito, e
Tranione è costretto ancora a mentire, affermando che il denaro è servito a
comprare un'altra abitazione. Teopropide chiede di vederla, e il servo
escogita nuovi geniali trucchi per mostrargliela, ingannando anche il vero
proprietario. Infine la verità viene a galla, e solo l'intervento di
Callidamate che promette di soddisfare personalmente a ogni debito, salva
Tranione dall'irosa furia di Teopropide. Si pensa che la Mostellaria derivi
dal Phasma di Filemone o di un autore minore, Teogneto. "Curculio"
(Gorgoglione o Pidocchio). Il giovane Fedromo è innamorato della cortigiana
Planesio e cerca di riscattarla dal lenone Cappadoce con l'aiuto di
Pidocchio. Il parassita, che veste anche la parte del servus currens, scopre
che un miles ha già comprato la ragazza, e ha depositato presso un banchiere
la somma pattuita: tale somma verrà pagata a chi presenterà una lettera
sigillata con l'anello del soldato. Pidocchio, travestito da soldato, si
impadronisce ai dadi dell'anello, confeziona una falsa lettera e riscatta la
ragazza. Nel frattempo sul palcoscenico sale l'impresario della compagnia
recitante timoroso di non rivedere più il vestito che ha prestato a
Pidocchio. Sopraggiunge furibondo il soldato, ma Planesio identifica
nell' anello del miles quello che era solito portare il padre, dal quale era
stata un giorno rapita: il soldato viene riconosciuto come suo fratello, e
Fedromo può felicemente sposare la donna. La commedia prende il titolo dal
parassita protagonista Gorgoglione, il cui nome è tutto un programma
d'insaziabile voracità: il curculio è il verme roditore del frumento. Il
Curculio contiene la famosa " serenata dei chiavistelli " (atto primo, scena
terza), che il giovane Fedromo rivolge alla porta dell'amata, perché
dischiuda i suoi battenti. "Pseudolus" (Pseudolo). Il giovane Calidoro ama la
cortigiana Fenicio, che il lenone Ballione ha già venduto ad un miles per
venti mine: quindici anticipate, più cinque che un messo del soldato sborserà
entro la sera. Calidoro si affida all'ingegno furfantesco e creativo del
servus Pseudolo, che si mette all'opera, sgominando progressivamente ogni
ostacolo e vincendo addirittura un'impossibile scommessa con Simia, padre di
Calidoro. Ballione perde la ragazza, è costretto a restituire il denaro al
messo del miles e a sborsare per giunta altre venti mine a Simia per una
scommessa perduta. La commedia è ben costruita e rivela la grande arte di P.
e l'abilità dell' autore (ignoto) del copione greco. Pseudolus è una delle
commedie predilette dall'autore, come scrisse Cicerone nel De senectute:
"Quanto si compiaceva della sua Guerra Punica Nevio! quanto del Truculento
P., e quanto dello Pseudolo!". "Captivi" (I prigionieri). Durante una
guerra fra Elei ed Etoli, il ricco Egione ha perso il figlio, fatto
prigioniero dagli Elei. Per riscattarlo, acquista dei prigionieri Elei, con
lo scopo di operare uno scambio. Fra di essi, c'è il nobile Filocratre con il
servo Tindaro, che hanno tuttavia deciso di scambiare le parti. Credendo di
inviare in Elide il servo, Egione manda invece il padrone. Scoperto
l'inganno, getta in catene il povero Tindaro. Ma Filocrate ritorna con il
figlio di Egione ormai libero; in aggiunta, si scopre che anche Tindaro è
figlio di Egione, rapito in tenera età venduto come schiavo in Elide. Captivi
è una commedia anomala rispetto alle altre, priva di vicende amorose e
fondata sul tema dell'amicizia e della lealtà: non compare alcuna donna,
particolare che in P. si ritrova solo nel Trinummus. Captivi fu imitato da
Ariosto nei Suppositi, da Calderon nel Principe Costante e da Jean de Rotrou
ne Les Captifs. "Bacchides" (Le Bacchidi). Due sorelle gemelle, entrambe di
nome Bacchide ed entrambe cortigiane, vivono l'una a Samo, l'altra ad Atene.
Il giovane Mnesiloco, di passaggio a Samo, s'innamora della prima Bacchide,
di cui si impadronisce tuttavia un ricco miles, che la conduce con sé ad
Atene. Mnesiloco dà incarico di recuperarla all'amico Pistoclero, che dopo
averla trovata si fa sedurre dalla seconda Bacchide. Mnesiloco, che crede di
essere stato tradito dall'amico, dà intanto al servo Crisalo l'incarico di
trovare il denaro necessario per riscattare l'amata: il servo per ben due
volte riesce a spillar denaro al padre di Mnesiloco. Gli equivoci si diradano
e le situazioni sembrano risolversi felicemente: i giovani Mnesiloco e
Pistoclero si ritrovano a banchettare allegramente con le due Bacchidi.
Giungono però furenti i due padri, decisi a trascinarsi a casa i figli
gozzoviglianti, ma anch'essi vengono "tosati" dalle due spumeggianti ragazze
e si abbandonano assieme ai figli ad un allegro festino. Deriva dalle
Evantides di Filemone o da Il doppio inganno di Menandro. "Truculentus"
(Truculento). La commedia, largamente lacunosa, prende titolo dal nome del
rustico e brutale schiavo Truculento di Strabace, un giovane fattore che è
vittima, insieme all'ateniese Diniarco e al soldato Stratofane, della
sfrontata cupidigia della cortigiana Fronesio. L'intreccio si lascia
intravedere appena. Fronesio vuol gabellare a Stratofane, come fosse suo
figlio, un bambino abbandonato, ma si scopre che quello è invece figlio di
Diniarco e di una libera cittadina ateniese. "Poenulus" (Il cartaginese).
Rapiti in tenera età nella loro patria, Cartagine, vivono a Calidone di
Etolia un giovinetto, Agorastocle, e le sue due cugine, Adelfasio e
Anterastile: ma se il giovinetto, innamorato di Adelfasio, è ricco, le due
fanciulle conducono invece una vita misera, in potere dello sfruttatore Lico.
Una ben architettata trappola, ordita da Milfione, servo di Agorastocle, e
recitata dal villico Collibisco offre il modo di citare lo sfruttatore in
tribunale. Giunge frattanto da Cartagine, in cerca delle figlie scomparse, il
padre Annone: egli si incontra con Agorastocle ed è condotto da questi in
casa di Lico dove può riconoscere e riabbracciare le figliuole. Modello della
commedia è stato il Carchedonios di Menandro. Una prima redazione del
Poenulus aveva titolo Patruos (Lo zio). "Trinummus" (Le tre dracme). Mentre
il vecchio Carmide è in viaggio d' affari, il giovane figlio Lesbonico
continua a dissipare il suo patrimonio, e finisce per vendere perfino la casa
ad un altro senex, Callicle, che per fortuna è un leale amico di Carmide, e
decide di salvaguardare per il ritorno dell'amico un tesoro sepolto nella
casa. Nel frattempo un altro giovane, Lisitele, ama la sorella di Callicle, e
chiede di poterla sposare pur senza dote: Lesbonico, che è in fondo un
giovane di nobili costumi, non può accettare, e decide di affidare in dote
alla sorella l'ultima cosa che gli è rimasta, un podere fuori città. Per
evitare che tutto il patrimonio vada perduto, Callicle inventa allora uno
stratagemma: assolda un messo a cui, per tre dracme dà l'incarico di giungere
in città fingendo di portare per conto di Carmide una somma, che in realtà
Callicle ha prelevato dal tesoro. Carmide è inaspettatamente tornato, ed è
proprio lui a ricevere il finto messo. Gli equivoci e gli ingiusti sospetti
sono dissipati dal commovente incontro fra i due vecchi. La commedia si
conclude con due matrimoni: di Lisitele con la figlia di Carmide e di
Lesbonico con quella di Callicle. L'originale di Filemone prendeva titolo dal
"tesoro" nascosto in casa. "Càsina". Di Casina, una trovatella, si sono
invaghiti il vecchio Lisidamo e il figlio di lui, Eutinico. Essi hanno
indotto, l'uno il proprio fattore, l' altro il proprio scudiero, a chiedere
la mano della fanciulla, per poterne poi essi stessi disporre. Lisidamo,
vistasi intralciare la strada dal figlio, lo spedisce all'estero, ma la
moglie del vecchio, che conosce le intenzioni del marito, prende le parti del
figliolo assente. Poiché Lisidamo e sua moglie non riescono ad accordarsi,
decidono di ricorrere alla sorte. Questa favorisce il fattore. Si preparano
le nozze, ma in luogo di Casina viene presentato come sposa Calino, lo
scudiero, travestito da donna, che, approfittando dell'oscurità della stanza
in cui viene condotto, bastona il fattore e Lisidamo. Casina è certo tra
le più libere commedie di P., ma, bisogna riconoscerlo, tra le più ricche di
comicità, e quindi tra le più riuscite. Deriva da una commedia di Difilo,
Clerumenoe, cioè I sorteggianti. "Vidularia" (La commedia del baule). I circa
120 versi superstiti di questa commedia lasciano intravedere un intreccio
simile al Rudens: il giovane Nicodemo viene riconosciuto dal padre per mezzo
degli oggetti conservati in un baule scomparso in mare durante un naufragio e
poi ritrovato da un pescatore
PERSONAGGI. I personaggi di P. non
sono dei caratteri individuali ma delle maschere fisse e per questo già note
al pubblico nel momento stesso in cui si presentano in scena. Anche i nomi
propri che P. attribuisce ai personaggi non servono a conferir loro
un'individualità e un carattere, ma a ribadire la fissità del loro ruolo
scenico. *L' "adulescens": Il giovane innamorato (adulescens) è uno dei
protagonisti della palliata, sempre languido e sospiroso, perduto in un amore
che lo travolge e lo paralizza, incapace di superare gli ostacoli che
incontra sul suo cammino. Il suo linguaggio tocca molto spesso i registri
alti della tragedia, naturalmente con effetti comici e parodistici ("Son
sbattuto, son straziato, / tormentato, punzecchiato, / sulla ruota dell'amore
rigirato ed annientato." - da Cistellaria 206-208). P. non prende mai sul
serio la sua storia né i suoi lamenti d'amore: lo guarda divertito,
costringendolo a subire i lazzi spiritosi del servus (FEDROMO: Palinuro,
Palinuro! / PALINURO: Spiegati, che hai da chiamare Palinuro? / FE: Che
fascino! / PA: Fin troppo. / FE: Mi sento un dio. / PA: Ma no che sei un
uomo, e di poco valore. / FE: Hai mai visto o vedrai mai un essere più simile
agli dei? / PA: Vedo che sei poco sano, e me ne duole" - da Curculio
166-173). L'eccesso di patetismi, di infelicità e di iperbolici disastri
annunciati nei suoi monologhi va sempre letto su un registro di parodia
scanzonata e burlesca. *Il "senex": Il vecchio (senex) viene caratterizzato
in modi diversi: è il padre severo e perennemente beffato che cerca
inutilmente di impedire i costosi amori degli adulescens (come nella
Mostellaria); ma talvolta anche un ridicolo e grottesco concorrente dei figli
nella battaglia, senza esclusione di colpi, per la conquista della donna
desiderata (come nell' Asinaria o nella Casina). Nelle vesti dell'amico o del
vicino, ha a disposizione un ricco ventaglio di funzioni drammatiche: può ad
esempio essere alleato dei giovani (come nel Miles gloriosus) oppure fornire
un burlesco doppio del senex innamorato (come nel Mercator). *La
"meretrix": Minore importanza rivestono i ruoli femminili, anche perché non è
infrequente che la ragazza desiderata non compaia mai in scena (come nella
Casina) o svolga una particina marginale. Il ruolo femminile più importante è
quello della cortigiana (meretrix), una figura sconosciuta in Roma prima che
nascesse la palliata, e che era invece consueta nel mondo greco. Le etère
ateniesi erano donne libere e spregiudicate che vivevano una vita lussuosa al
di fuori del mondo familiare (cosa inammissibile a Roma). Molte di loro erano
colte e spiritose, sapevano danzare e cantare e intrattenevano rapporti con i
maggiori filosofi e poeti dell'epoca. Nella palliata plautina possono essere
sia libere che schiave, e allora appartenere ad avidi e crudeli lenoni, che
le mettono in vendita al miglior offerente. In questo caso il loro più grande
desiderio è quello di essere riscattate dall'amante. Naturalmente
l'espediente dell'agnizione può consentireloro il felice passaggio dalla
consizione di amanti a quella di spose. Alcune di loro sono abilissime e
sfrontate (come nel Truculentus), altre dolci e sensibili (ed è il caso più
frequente). *La "matrona": Accanto alla figura dell'etera, risalta per
contrasto quella della matrona, madre dell'adulescens e sposa del senex,
quasi sempre autoritaria e dispotica, soprattutto se "dotata" (cioè provvista
di dote). Accade che spesso il senex sia vittima delle sue ire furibonde
(come nell' Asinaria). Non manca qualche eccezione: la nobile figura di
Alcmena nell' Amphitruo; le due spose fedeli nello Stichus. *Il
"parasitus": Presente in ben nove commedie di P., il parassita è uno dei tipi
più buffi e curiosi della palliata, caratterizzato dalla fame insaziabile e
dalla rapacità distruttiva, spesso fonte di rovina economica per il
disgraziato che ha deciso di mantenerlo a sue spese. Esuberante e vitale
nella sua mai placata ingordigia , il parassita non lesina lodi iperboliche e
servizi di ogni genere nei confronti dei suoi benefattori, che naturalmente
sono anche vittime delle sue sfavillanti battute, come accade nella famosa
scena d'esordio del Miles gloriosus. *Il "miles gloriosus": Come la
cortigiana, anche il miles , il soldato mercenario che si mette al servizio
di chi lo paga meglio, era una figura consueta nei regni ellenistici ma
sconosciuta in Roma, dove all'epoca di P. il servizio militare era dovere di
ogni cittadino. Il miles si presenta quasi sempre nelle vesti del gloriosus,
cioè del millantatore, del fanfarone che si vanta di grandi imprese mai
compiute, spacciandosi per giunta per un grande seduttore: è insomma un
conquistatore immaginario di nemici e di donne, prontamente smentito dagli
avvenimenti della commedia. E' probabile che i Romani, ridendo di questi
milites ellenistici, si sentissero orgogliosi del proprio valore militare: di
mercenari era in gran parte composto anche l'esercito di Pirro, battuto
durante la guerra tarentina. *Il "leno": Anche il lenone, il commerciante di
schiave, era una figura sconosciuta presso i Romani. P. ne fa la figura più
odiosa, anche perché di norma costituisce il maggior ostacolo al compimento
dei desideri del giovane innamorato. Ma va subito aggiunto che nel teatro
plautino non esistono personaggi buoni o cattivi, perché non esiste una
partecipazione e un coinvolgimento emotivo nelle vicende, già scontate fin
dall'inizio: l' odiosità, come l'avidità, sono solo i caratteri fissi che
definiscono la maschera del lenone, irrevocabilmente destinato alla sconfitta
e alla beffa. Colpisce molto di più, invece, la sua formidabile vitalità, la
sua capacità di esser superiore a ogni giudizio morale, come rivela la
bellissima gara di insulti che adulescens e servus ingaggiano contro il
lenone dello Pseudolus. *Il "servus": La figura più grandiosa, il vero motore
delle fabulae plautine è il servus, personaggio sfrontato e geniale, spavaldo
orditore di incredibili inganni a favore dell'adulescens e contro l'arcigna
taccagneria dei senes o l'avidità dei formidabili lenoni plautini. Senza di
lui non ci sarebbe storia; la storia, anzi, è quasi sempre il risultato delle
sue invenzioni e delle sue creazioni: P. lo definisce in vari luoghi come
un "architetto" (Palestrione, nel Miles Gloriosus), un "poeta" (Pseudolo,
nel Pseudolus), un "generale" (Pseudolo, nel Pseudolus e Palestrione, nel
Miles Gloriosus), finendo palesemente per identificarsi nella sua
figura. La sua ingegnosità è accompagnata da una lucida visione degli eventi
e da un 'ironia dissacrante, che non risparmia niente e nessuno, nemmeno
l'amato padroncino per il quale il servo rischia ogni volta le ire del
vecchio padrone. La sua forza è la giocosità creativa delle sue invenzioni,
la gratuità un po' folle e anarchica delle sue scommesse, naturalmente
sempre vinte. Su di lui incombe perennemente la minaccia delle sferze e
delle catene, gli strumenti di punizione dello schiavo, a cui tuttavia il
servo plautino risponde con la forza superiore dei suoi geniali raggiri.
Fiero e orgoglioso delle proprie mosse, si autoglorifica spesso, rivolgendosi
al pubblico nella posa plateale di chi ambisce a un applauso. P. ce ne dà
anche un ritratto fisico, che corrisponde convenzionalmente alla sua
maschera: "rosso di pelo, panciuto, gambe grosse, pelle nerastra, una grande
testa, occhi vivaci, rubicondo in faccia, piedi enormi"
(Pseudolus 1218-1220). La deformità mostruosa del fisico sembra una sfida al
destino, e un segno della vitalità trionfante del teatro plautino, che
rappresenta una sorta di universo rovesciato, nel quale i servi trionfano sui
padroni e i figli sui padri, sovvertendo ogni codice sociale e facendosi
beffe di ogni legge. Aristotele aveva scritto che gli schiavi sono più vicini
agli animali che agli uomini. Il servo plautino, mostruoso nel corpo,
dirompente nel linguaggio (spesso osceno e volgare), spudorato negli
atteggiamenti, animalesco nei suoi istinti, dimostra di essere anche il più
intelligente, e risulta perciò anche il più simpatico, quello per il quale il
pubblico "tifa" fin dall'inizio della rappresentazione. *Personaggi
minori: Non mancano, accanto ai ruoli principali, altre figura occasionali:
la lena ("ruffiana"), una sorta di doppio femminile del leno, per lo più
rappresentata come vecchia e beona; l'ancilla ("ancella"), servetta al
seguito della meretrix (più spesso) o della matrona, quasi sempre complice
negli affari delle sue padrone; il cocus, il più delle volte ingaggiato per
luculliani banchetti; il puer, lo schiavetto generalmente a ruoli di
contorno; il fenerator ("usuraio"), sempre pronto ad entrare in scena nei
momenti più inopportuni per riscuotere del denaro, naturalmente prestato per
riscattare una cortigiana; la fidicina ("citarista");
il medicus.
CONSIDERAZIONI. *Gli intrecci delle commedie plautine
derivano da originali greci, sono molto complicati, ma abbastanza ripetitivi
e caratterizzati da elementi convenzionali. 16 su 20 presentano la stessa
situazione di base, con protagonista un giovane innamorato, l'adulescens, si
tratta di amore ostacolato. Se l'adulescens è innamorato di una giovane
cortigiana, l' ostacolo è la mancanza di denaro per ottenerne i favori.
L'etera riceve a casa sua i suoi amanti facendoli pagare, oppure è alle
dipendenze di un lenone, un trafficante di schiave e sfruttatore di
prostitute che, comprava, vendeva o affidava le donne per determinati
periodi. L'adulescens dipende economicamente dal padre e deve carpirgli il
denaro necessario per pagare l'etera. Può essere innamorato anche di una
fanciulla onesta ma senza dote, in questo caso gli ostacoli sono gli
impedimenti sociali che ne derivano. L'adulescens lotta per far trionfare
l'amore contro qualche antagonista, il padre, il lenone o il miles gloriosus,
il mercenario che compra la cortigiana. In questa lotta l'adulescens viene
aiutato da un amico, da un vecchio comprensivo o da un parassita, ma,
soprattutto dal servus callidus (scaltro). Spesso la commedia si risolve in
una serie di inganni organizzati dal servus callidus per ingannare il padrone
e carpirgli il denaro necessario all'adulescens. Ogni commedia si risolve con
un lieto fine, i giovani vengono perdonati dai padri che si riconciliano
anche con i servi. I danni e le beffe spettano ai personaggi esterni alla
famiglia, quali il miles gloriosus e il lenone. Spesso il lieto fine coincide
con il matrimonio che è reso possibile dal topos del riconoscimento, si
scopre n fine che la ragazza era nata libera da genitori benestanti, ma
esposta o rapita dai pirati. Come si vede, in generale lo scioglimento
tipico consiste in un "rimettere le cose a posto" (ed è chiaro che il
pubblico trova in questo movimento dal disordine all'ordine un particolare
piacere: tanto più che il quadro sociale e materiale messo in scena - al di
là degli estrinseci dettagli esotici, che garantiscano un certo
"straniamento" - è perfettamente compatibile con l' esperienza problematica e
quotidiana della Roma del tempo). Tuttavia, ed è importante, sia chiaro che
nessuna pretesa insegnativa o moraleggiante governa queste vicende
tipiche. *Frequenti, poi, sono i riferimenti ad usi e costumi romani: ad es.,
è frequente l'utilizzazione di similitudini e di metafore di tipo militare:
il servo presenta spesso la sua lotta contro l'antagonista (padrone
avaro, leone, soldato) come una battaglia o una guerra in cui egli fa parte
del generale vittorioso, che sconfigge brillantemente il nemico e celebra
il trionfo su di lui. L'abbondanza di riferimenti a situazioni militari
non stupisce in testi scritti in un periodo storico in cui Roma
passava vittoriosamente da una guerra all'altra. Tuttavia, se sono numerosi
i riferimenti alla vita militare, non c'è traccia dei grandi avvenimenti
dell' epoca: Canne, Zama, le guerre contro la Macedonia, la Siria , l'Etolia.
C'è chi ha voluto vedere qualche allusione storica in alcuni passi delle
sue opere; ma si tratta , comunque, di accenni vaghi e velati, tanto che si
può dire che egli si mantenne lontano da i grandi affari di stato, e
cercò altrove motivi ed ispirazione per le sue commedie. *Una delle
differenze fondamentali con la commedia di Menandro (ma modelli altrettanto
validi sono Difilo, Filemone, Demofilo), per quanto concerne le trame, è che,
mentre Menandro cerca la coerenza e l'organicità degli intrecci, P. sacrifica
le esigenze di verosimiglianza e di logica per il suo intento di trarre
effetti comici dalla singola scena, per cui non è sempre possibile trovare
credibilità e coerenza. Altra differenza è che mentre il teatro di Menandro è
un teatro antropocentrico e i suoi personaggi sono autentici e scavano
all'interno della loro interiorità per scoprire le pieghe più nascoste del
loro animo, rompe la fissità del tipo, mette in evidenza l'individuo oltre
lo stereotipo. In P. non troviamo queste introspezioni, il suo teatro non
è di anime, P. accentua i tratti caricaturali dei personaggi tipici e ne fa
maschere grottesche. A P. non interessa la complessità del rapporto fra
marito e moglie, fra padre e figlio, fra servo e padrone, il conflitto
generazionale è semplificato e ridotto alla speranza che il padre muoia
quanto prima per consentire al figlio di raggiungere l'indipendenza
economica, oppure il rapporto conflittuale tra padre e figlio di risolve in
un antagonismo amoroso, in questa competizione perde sempre il padre che
viene beffeggiato come senex libidinosus. Le mogli in P. si presentano con
caratteristiche fisse, come "uxores morosae" (donne intrattenibili) e
soprattutto, se hanno una grossa dote, sono sempre autoritarie e temute dai
mariti. I parassiti sono sempre affamati e voraci. Anche i giovani sono
poco credibili, mentre Menandro partecipa emotivamente ai sentimenti
dei protagonisti delle sue commedie, in P. sono sempre languidi e
sospirosi, fino al ridicolo. Si esprimono inoltre sempre secondo i modelli
stilistici della poesia erotica venendo quindi parodiati dal
poeta. Insomma, questa è un'altra fondamentale caratteristica del teatro
platino: appunto la limitatezza, prevedibilità e ripetitività dei "tipi",
inquadrati fin dai prologhi. *In P., poi, non c'è l'amore come sentimento
autentico, ne troviamo la caricatura. Vere e proprie maschere grottesche sono
personaggi iperbolici del miles gloriosus. Emblema della figura del miles è
Pirgopolinice (distruttore di fortezze e di città), protagonista dell'omonima
commedia, un nome questo fortemente allusivo alle caratteristiche del
personaggio. Altro personaggio fortemente rappresentativo è il Baglione che
nello "Pseudolus" incarna il lenone. Però il personaggio che risulta essere
più congeniale alla vis comica plautina, è quello del servus callidus
che, spesso, diventa, in molte commedie, il vero protagonista; non è
solo intelligente, ma anche sfrontato, sicuro di se fino all'insolenza e
alla sfrontatezza, pronto a prendersi gioco di tutto e di tutti. Quando il
servus callidus è riuscito nel suo intento, si abbandona ad
autoglorificazioni e si paragona al generale vittorioso che, dopo aver
portato a termine l'impresa militare, celebra il suo trionfo. P. utilizza
spesso metafore tratte dal linguaggio militaresco, cosa spiegabile con il
periodo storico in cui vive. Alleata del servo è, però, la fortuna (Tyche),
che ne contempera - e di molto - il merito del successo, e che ha grande
valore stabilizzante. Si parla, infatti, di rovesciamento burlesco della
realtà, alla fine della commedia sono i giovani a trionfare sui vecchi, le
mogli sui mariti. Con questo P. non vuole mettere in discussione i rapporti
vigenti all'interno della società, vuole solo far divertire. *Non ci sono
pervenuti gli originali greci da cui derivano le commedie plautine per cui
non possiamo valutare l'indipendenza, l'originalità di P. rispetto ai modelli
greci. Nei prologhi delle sue commedie, P., alludendo alla sua attività,
parla di "vertere barbarae" (tradurre dal greco al latino), infatti, P. fa
suo il punto di vista dei greci, per i quali ogni lingua non greca è barbara.
Le commedie plautine non sono semplici traduzioni dal greco, ma
libere interpretazioni di modelli greci. P., infatti, ricorre alla
cosiddetta "contaminatio", inserisce in una commedia derivata da un originale
greco, una o più scene, uno o più personaggi attinti da un'altra commedia
sempre greca. Mescola l'originale con altre commedie. *Altra prova
dell'originalità di P., è il fatto che lui dà molto spazio alla musica e al
canto (circa i due terzi del numero complessivo dei versi prevedevano il
suono del flauto), mentre nelle commedie di Menandro sono molto scarse le
parti composte in metri lunghi o in metri lirici. In P. troviamo i "cantica",
metri lirici cantati. Altre parti in versi o metri lunghi recitati e
accompagnati dal flauto. Nella metrica, insomma, P. è un maestro: egli
foggia, seguendo le necessità della lingua latina, i già noti senari giambici
e versi quadrati in varietà di forme, peraltro sottomesse a sottili regole.
La mescolanza dei metri si precisa nelle due forme del deverbium (parti
recitate senza accompagnamento) e, come detto, canticum (recitativo
accompagnato), alternate con estrema libertà. Ciò significa che P. riscriveva
parti che in Menandro erano destinate solo alla recitazione. Particolarmente
rilevante, così, è la presenza delle parti liriche e polimetriche, dai ritmi
assai variati, mossi e vivaci: esse occupano complessivamente circa 3000
versi, cioè un settimo del totale, e avevano la funzione di dar rilievo, con
il contributo determinante del ritmo e della musica, ai momenti di più forte
concitazione e di più intensa emotività. E' probabile che il potenziamento
dell'elemento lirico-musicale sia stato stimolato dalla consuetudine e dalla
predilezione del pubblico romano per i tipi di spettacolo in cui la musica,
il canto e la danza avevano un ruolo fondamentale. *Inoltre, P. si
inserisce in commedie ambientate in Grecia che hanno come personaggi dei
greci, ma con riferimenti a luoghi, usi e costumi romani. Molta della
comicità plautina è basata su giochi di parole, comicità assente nel modello
greco. P. sottolinea continuamente nelle sue commedie l'aspetto fittizio e
ludico dell'evento teatrale, vuole sottolineare che ciò che avviene sulla
scena è solo finzione, solo gioco. Vuole così impedire che il pubblico si
immedesimi negli eventi scenici, che si crei il transfert (immedesimazione).
Vuole impedire che si verifichi quell'illusione scenica per cui attua
procedimenti che tendono a rompere l'illusione scenica. Uno di questi è
quello in cui i personaggi comici si rivolgono direttamente agli spettatori.
Fra i procedimenti adottati per rompere l'illusione scenica, uno dei più
praticati era il "metateatro", il teatro che parla di se e si rappresenta.
Nella "Casina" (la fanciulla del caso), è portato sulla scena l 'antagonismo
fra padre e figlio per la stessa fanciulla. Il senex la fa sposare con un suo
dipendente per poterne usufruire, la moglie scopre la trama e si vendica. Fa
travestire uno scudiero da fanciulla e durante la notte lo fa incontrare con
il senex, che prende botte. Alla fine la moglie perdona il marito e dice: "Ti
perdono per non prolungare questa commedia poiché è già lunga di per
se". *Altro esempio di metateatro lo troviamo nel "Mercator" altra commedia
che pone sulla scena lo stesso antagonismo. Un personaggio ne invita un altro
a riferirgli ciò che sa e si esprime così: "Perché aspetti? Forse non
vuoi svegliare gli spettatori che dormono?". Nello "Pseudolus", un
personaggio chiede a Baglione quali critiche gli siano state rivolte da un
altro personaggio e dice: "Mi sono stati fatti i soliti rimproveri da
commedia?". *Un altro aspetto del teatro plautino, è l'atteggiamento nei
confronti dei greci; è significativo a riguardo un passo del "Curculio" (nome
del protagonista traducibile con Gorgoglione o pidocchio, parassita).
L'aspetto più significativo è che questo personaggio, greco, parla male dei
greci. Durante la commedia, infatti, sta attraversando una via e gli danno
fastidio questi greci che hanno invaso le vie della città e vanno in giro col
capo coperto, carichi di libri, confabulando fra loro e affollando le osterie
in cerca di chi possa offrire loro in bicchiere di vino. È chiaro che
P. sfrutta a fini comici quel sentimento di ostilità nei confronti dei
greci, tipica di una parte della società romana e che aveva trovato portavoce
in Catone. P. conia addirittura un verbo, "pergraecari", che
significa gozzovigliare alla greca, vivere in modo dissoluto come fanno i
greci. P. attribuisce ai greci un modus vivendi dissoluto e corrotto, ma, la
cosa più assurda è che in commedie ambientate in Grecia, con personaggi
greci, siano i greci stessi ad autodefinirsi spregevoli. Alcuni studiosi
hanno inserito per questo motivo il teatro plautino nell'entourage catoniano.
Questa affermazione pare però poco attendibile, P., infatti, vuole solo
risum movere, non schierarsi politicamente, rinuncia a trasmettere qualsiasi
tipo di messaggio. La comicità plautina può essere di tre generi: 1.di
situazione: basata sugli equivoci e scambi di persone; 2.di carattere: basata
sull'accentuazione iperbolica dei difetti dei protagonisti; 3.bassa:
basata su battute volgari e sull'esasperazione di sentimenti naturali. Tipico
esempio della comicità di situazione è l'"Anfitruo". Alcune battute si
avvalgono di una lingua popolare, ma permeata di erudizione e di cultura:
questo perché P. la riempie di espressioni greche o grecizzanti, quando
addirittura non rinuncia, come in "Poenulus", a servirsi di idiomi perlomeno
inusitati, come il punico. A ciò si aggiungano parole mezzo latine e mezzo
greche, le quali dovevano suonare ridicole alle orecchie del pubblico (es.
pultifagus = mangiapolenta), grecismi con terminazione latina (atticissare =
parlare greco), parole formate da più radici (turpilucricupidus = desideroso
di turpi guadagni) oltre a neologismi veri e propri (dentifrangibula,
riferito ai pugniche rompono i denti; emissicius, che si manda alla scoperta
di qualcosa e perciò, riferito agli occhi, curioso, da spia); superlativi
iperbolici e ridicoli (ipsissimus, stessissimo; occisissimus, uccisissimo).
Il sermo dei personaggi plautini è inoltre arricchito da fantasmagorici
giochi di parole, identificazioni scherzose (ad es. "Ma è forse fumo questa
ragazza che stai abbracciando?" "Perché mai?" "Perché ti stanno lacrimando
gli occhi!" Asin.619), espressioni alle quali si aggiungono doppi sensi e, su
un piano più propriamente stilistico, da allitterazioni, anafore ed ogni
sorta di figura retorica. *Fondamentale, infine, la maestria ritmica, i
"numeri innumeri", gli "infiniti metri", la predilezione per le forme
"cantate". Ne deriva una conseguenza importante: lo stile è intrinsecamente
vario e polifonico, ma varia piuttosto poco da commedia a commedia, in una
forte coerenza. Insomma, si deduce che P. non dipende esclusivamente dallo
stile di alcun modello e anzi, come già detto, dà sfoggio di ampia
originalità: ristrutturazione metrica, cancellazione della divisione in atti,
completa trasformazione del sistema onomastico. Così, "Musas plautino
sermone locuturas fuisse, si latine loqui vellent." ("Se le Muse avessero
voluto esprimersi in latino avrebbero parlato con la lingua di P.") così
Quintiliano, nella sua "Instituto oratoria", ci tramanda il giudizio critico
di Elio Stilone, il primo grande filologo latino del secolo II a.C. . Per non
dimenticare, poi, l'epitaffio del poeta citato da Gellio (che lo aveva letto
negli scritti di Varrone) dove si dice che, alla morte di P.: "numeri
innumeri simul omnes conlacrimarunt" ("scoppiarono in pianto tutti insieme
ritmi innumerevoli"). Allora, la comicità originale nasce proprio nel
contatto fra la materia dell 'intreccio e l'aprirsi di "occasioni" in cui
l'azione si fa libero gioco creativo, diventa "lirismo comico" (Barchiesi),
in una sfuriata di digressioni esilaranti, battute salaci e/o beffarde,
dialoghi scoppiettanti.
Continua>
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