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LA LETTERATURA LATINA

LETTERATURA LATINA - SECONDA PAGINA

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Cecilio Stazio
(230/220 - 168 a.C.)

VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
L'opera di S. attenuava, agli occhi degli antichi, il contrasto tra Plauto e
Terenzio, così netto e istruttivo ai nostri occhi, poiché ci rivela
l'evoluzione della mentalità pubblica tra gli anni della II guerra punica e
quelli delle conquiste orientali.,
Gallo di Milano, schiavo, era stato allevato a Roma, poi affrancato. Divenne
amico di Ennio, e fu legato all'attore Ambivio Turione.
Di gusti più letterari di Plauto, imitava di preferenza le opere di
Menandro, il più conforme ai canoni classici fra i poeti della "commedia
nuova". Sotto questo riguardo, anticipava Terenzio, pur conservando alle
proprie commedie un "movimento" paragonabile a quello di Plauto (grande
ricchezza di metri, vis comica, gusto per il farsesco). Giudicato in seguito
scrittore piuttosto mediocre, si pensava che avesse introdotto della
profondità (gravitas) nelle sue commedie. Come Terenzio, S. "fa riflettere".
Delle sue opere non conosciamo che alcuni titoli, 40 per l'esattezza (in
parte greci, in parte latini), tutti di palliate: Meretrix ("La
cortigiana"), Portitor ("Il doganiere"), Pugil ("Il pugile"), Epistula ("La
lettera"), Exul ("L'esule"), Fallacia, ("L'inganno"), eccetera.


LE ORIGINI DELLA STORIOGRAFIA ROMANA.

In modo abbastanza paradossale, sembra che l'influenza dell'ellenismo abbia
avuto sulla formazione della prosa latina un ruolo più importante che nella
formazione della poesia. Questa prosa fece la sua prima apparizione in
coincidenza con la II guerra punica, allorché si avvertì il bisogno di
opporre agli storiografi greci che si trovavano nel campo di Annibale, una
storiografia d'impronta nazionale.
E' significativo, a questo proposito, che il primo storico romano, Q. Fabio
Pittore (vissuto all'incirca fra il 260 e il 190 a.C.), abbia composto la
sua opera storica ("Rerum gestarum libri": a carattere annalistico, dalla
fondazione di Roma alla fine della II guerra punica) sia in greco che in
latino (salvo che addirittura l'opera non si limitasse in origine
all'edizione greca, e che la versione latina non sia altro, perciò, che un
semplice rimaneggiamento successivo): ciò rispondeva alla necessità di
raggiungere un pubblico di ambito appunto mediterraneo e significò una
rottura con la tradizione della cronaca pontificale, da cui pur erano tratti
strutture e materiali.
P. apparteneva alla gens Fabia. Senatore e magistrato, aveva combattuto i
Galli Insubri. Ebbe l'incarico di un'ambasciata sacra a Delfi nel 216, dopo
la battaglia di Canne, per riannodare i rapporti esistenti da molto tempo
fra Roma e il dio (si pensava, sicuramente, che nessuno meglio di lui
avrebbe potuto perorare la causa di Roma nei confronti del mondo greco, del
quale Delfi era uno dei centri spirituali).
Nella sua opera, dunque, rappresenta il punto di vista aristocratico, da cui
l'acceso nazionalismo e il gusto antiquario: notevole così l'interesse per
le origini di Roma, per l'età regia e per gl'inizi della Repubblica (epoche
alle quali si facevano risalire molte istituzioni, costumi, usanze religiose
e civili).
E' assai verosimile supporre che Pittore e il suo contemporaneo L. Cincio
Alimento (di famiglia plebea, senatore e magistrato, combattente della II
guerra punica) autore anch'egli di una storia annalistica di Roma dalle
origini in lingua greca (storia che si distingue per obbiettività e capacità
di analisi), abbiano subito l'influenza della storiografia ellenica, e in
particolare quella degli storici siciliani, che a Siracusa, città con la
quale a partire dalla prima guerra punica si erano stabiliti rapporti
profondi e amichevoli, erano stati numerosi e brillanti.
Timeo di Tauromenio, fra gli altri, può essere considerato uno dei "padrini"
della giovane storiografia romana. L'opera dei primi annalisti romani è
andata quasi interamente perduta. Le poche notizie di cui disponiamo
provengono tutte da citazioni di autori più tardi e dall'uso che delle loro
opere è stato fatto da Tito Livio. Su quali documenti operavano questi primi
storiografi?
Possiamo unicamente immaginarlo, ed è questa la ragione fondamentale della
grande varietà di ipotesi fatte, al riguardo, dagli studiosi moderni. Per
alcuni, questi disponevano solo di leggende elaborate dall'orgoglio
nazionale o, più di frequente, dall'orgoglio delle famiglie nobili.
L'indigenza degli archivi di Stato (che, per giunta, sarebbero andati
distrutti durante l'incendio di Roma ad opera dei galli nel 390 a.C. e
sarebbero stati ricostituiti successivamente alla meno peggio), l'incertezza
stessa dell'elenco dei consoli dei primi secoli, tutto ciò avrebbe
contribuito a far sì che i primi storici costruissero vicende in gran parte
inventate, colmando le lacune con racconti favolosi forniti dalle epopee
popolari (carmina convivalia), con l'aiuto di "ricalchi" immaginati a
partire da circostanze posteriori o con anticipazioni anacronistiche. Tale è
stata e rimane l'opinione dei moderni "ipercritici". Ma nei casi, piuttosto
rari, nei quali l'archeologia ha potuto stabilire un qualche riscontro (come
sul problema delle origini di Roma, quello delle tradizioni dei re,
eccetera), i fatti tramandati dalla tradizione annalistica si sono rivelati
più solidi di quanto si potesse immaginare.


Quinto Ennio
(239 a.C. Rudiae vicino Lecce, Messapia)
 VITA.
Uno dei massimi esponenti del circolo scipionico fu E. che, dagli autori
successivi sarà considerato pater. Egli nacque in una città non greca ma
messapica: tutta la zona era comunque ellenizzata ed E. si vantava di
possedere la "tria corda", tre anime, per la sua conoscenza di tre lingue:
latino, greco e osco.
Combattè nella II guerra punica, e nel 204 a.C. era in Sardegna negli
ausiliari romani, dove incontrò Catone il censore, che notò il suo spessore
culturale e lo condusse a Roma. Catone in seguito diventerà il più feroce
antagonista degli scipioni e cercherà di contrastare la dilagante
ellenizzazione e di difendere i mos maiorum, i costumi.
Giunto a Roma, E. entrerà in contatto con l'Africano e gli dedicherà un'
opera, "Scipio".
Nel 186 a.C., E. seguirà Marco Fulvio Nobiliore contro gli Etoli e assisterà
alla conquista di Ambragia. L'intento era quello di narrare ed esaltare le
sue imprese, usanza questa tipicamente greca. E. compose anche una tragedia
in onore del magnate, "Ambragia".
Nel 184 a.C. il figlio di Nobiliore, Quinto Fulvio, fondò la colonia di
Pesaro e concesse ad E. delle terre e la cittadinanza. Con grande orgoglio
scriverà: "Nos summus Romani qui fumus ante Rudini". Nell'ultima parte della
sua vita si dedicò alla fatica degli "Annales".

OPERE.
*E. compose molte sceneggiature sia drammatiche che comiche (mediocri); fu,
tra l'altro, l'ultimo poeta latino a coltivare assieme commedia e tragedia.
Nella produzione drammatica, puntava sulla tensione stilistica dei suoi
versi e sulla ricerca del pathos. Il modello era Euripide: la rielaborazione
dei modelli classici permetteva di creare effetti di scena e di rafforzare
gli elementi drammatici della rappresentazione. Un altro punto su cui E.
fondava la propria forza era la partecipazione emotiva degli spettatori: le
sue tragedia dovevano suscitare nel pubblico processi psicologici di
identificazione con i personaggi.
Delle sue opere minori, ricordiamo così: tragedie [tra queste, il ciclo
troiano comprendeva i seguenti titoli: Achilles, Aiax, Alexander (era il
soprannome dato a Paride fra i pastori), Hectoris lytra ("Il riscatto di
Ettore"), Iphigenia, Hecuba, Andromacha aechmalotis ("Andromaca prigioniera
di guerra"), Telamo e Telephus; aveva, inoltre, trattato leggende di origini
diverse: Alcmeo, Andromeda, Athamas, Cresphontes, Erechtheus, Eumenides,
Medea exul, Melanippa, Nemea, Phoenix e Thyestes, rassegna nella quale si
riconoscono titoli (e senza dubbio i soggetti) ripresi da Euripide]; 2
praetextae (l' "Ambracia" e le "Sabinae");
lo "Scipio", celebrazione di Scipione l'Africano vincitore a Zama; un
"Hediphagetica" (il mangiar bene, poemetto gastronomico in esametri); 3
operette di carattere filosofico (l' "Epicharmus" e il "Protrèpticus", in
settenari trocaici, e l' "Heuhemerus" - che tratta della relativa dottrina -
in prosa); il "Sota"; e infine le "Saturae", 4 libri in versi polimetri, di
cui 70 conservati. Scrisse anche epigrammi.
*Tuttavia, sua opera più importante, una delle pochissime opere scritte in
età medio-repubblicana, è un poema epico di 18 libri e di ca 30000 versi (ce
ne restano 600 ca), gli "Annales", titolo che indubbiamente si rifà agli
Annales Maximi, ossia alle registrazioni degli eventi che capitavano di anno
in anno. E., come Nevio, coltiva l'epica storica; la poesia che cerca di
creare è cioè poesia celebrativa di gesta eroiche: si rifaceva così sia ad
Omero, sia alla più recente tradizione ellenistica. Scritta dopo la vittoria
che pose fine alla II guerra punica, essa tuttavia non è più opera di
combattimento, ma di meditazione sulla grandezza e sulla missione storica di
Roma. Apparteneva, dunque, alla generazione successiva a quella di Livio e
di Nevio.
Gli Annales sono così un poema epico celebrativo di tutta la storia di Roma,
che E. decise di narrare senza stacchi e in ordine cronologico,
privilegiando tuttavia alcuni periodi ad altri. Particolarmente sacrificata
fu in questo senso la I guerra punica, già trattata dal suo battistrada
Nevio (che, quindi, a sua differenza, s'era limitato ad esaltarne un solo
episodio). Anche dal punto di vista concettuale E. non fu totalmente
equilibrato: si occupò maggiormente di avvenimenti bellici che di vita
politica interna. Altra differenza con Nevio è l'utilizzo dell'esametro
dattilico, che da E. in poi diverrà tipico della poesia epica. Infine,
innovativa fu anche la raccolta della storia in libri, concepiti come unità
narrative comprese in un'architettura complessiva (gli ultimi 3 libri furono
da lui aggiunti al piano originale che ne prevedeva solo 15).
Per tutte queste ragioni, E. è spesso considerato dai romani come il vero
"padre" della loro letteratura, il che non mancò di provocare l'ironia di
Orazio, al tempo di Augusto.,
*Ci è pervenuto l'inizio del poema, in cui E. non fa l'invocazione alle
Camene romane, come fece Livio Andronico, bensì alle muse greche. Seguiva
all'invocazione il proemio con un sogno (nei proemi sono enunciate, in forma
programmatica, le idee di poetica del nostro autore): l'anima di Omero
apparsagli appunto in sogno gli illustra la dottrina pitagorica della
metempsicosi (egli stesso un adepto delle dottrine pitagoriche, che
restavano vitali nei dintorni di Taranto e contavano seguaci
nell'aristocrazia romana), secondo cui l'anima di Omero si era incarnata
prima in un pavone e successivamente in E., l'alter Omerus o Omero Romano.
Nel I° libro, E. inizia il racconto dalla sconfitta di Troia con la fuga di
Enea e l'arrivo nel Lazio. dalle nozze di Enea con la principessa del Lazio
nasce una figlia, Ilia, madre di Romolo e Remo. Uno dei più lunghi frammenti
narra il sogno profetico di Ilia. È un passo significativo con uno stile
profetico e drammatico.
I libro: Romolo contro Remo per la fondazione di Roma; II: altri re di Roma;
III: passaggio dalla monarchia alla repubblica e guerra contro Pirro; VII:
un secondo proemio sottolinea la sua distanza dal rozzo Nevio che parlò di
saturno e si definì Docti Studiosus, esperto di lingua e arte (E. contesta
anche Livio Andronico per l'uso dei versi saturni nella traduzione
dell'Odissea: egli infatti riteneva questi versi adatti solamente alle
divinità campestri.); VIII: guerre puniche, contro la Macedonia, la Siria e
gli Etoli.

CONSIDERAZIONI.
*Grazie a Cicerone ci è pervenuto un frammento gli "Annales" in cui è
espressa l'ideologia dell'intera opera: "Moribus antiquis res stat Romana
virisque" in cui si giustifica l'espansione romana sulla base della sua
virtus. I mores erano i grandi uomini antichi a cui si deve la potenza
romana. Pur parlando di guerra, E. non esalta la violenza, bensì la saggezza
politica e la dedizione allo stato. Nella guerra fra Roma e Cartagine, Roma
corrispondeva a pace e concordia e Cartagine a discordia e violenza, per
questo destinata a soccombere.
Così, l'autore tenta di fissare negli Annales non solo racconti di gesta, ma
anche valori, insegnamenti, esempi di comportamento e modelli culturali. La
visione del mondo che viene comunicata è il trionfo dell'ideologia
aristocratica.
*E. è più filosofo che "teologo". Insiste di più sui valori strettamente
umani. Due dei suoi poemi (perduti ancor più interamente degli Annales, di
cui restano invece numerosi frammenti), l'"Epicharmus" e l'"Euhemerus", lo
rivelano occupato in speculazioni cosmogoniche e morali molto lontane
dall'atteggiamento religioso tradizionale dei romani. Nel secondo, egli
espone, con particolare congenialità, la dottrina di Evemero di Messina,
secondo il quale gli dèi e le dee del pantheon tradizionale altro non sono
che re e principesse del tempo antico, divinizzati per i servizi resi
all'umanità. Ciò consentiva naturalmente di esaltare maggiormente i
condottieri romani, le cui imprese dominavano sempre più la storia umana.
*Infine, riguardo allo stile e al linguaggio, è da dire che E. è raffigurato
come il primo poeta filologo, cultore della parola, l'unico capace di stare
alla pari con la raffinata cultura greca. Si può definire poeta sperimentale
per l'immissione di numerosi grecismi nelle sue composizioni quali le
innumerevoli pause sintattiche, l'allitterazione e altre figure di suono.


Afro Publio Terenzio
(195 o 185 ca Cartagine - 159 a.C., in viaggio)
VITA.
Sulla vita di T. abbiamo una biografia risalente a Svetonio. A questa
attinse Donato, che la premise al suo commento delle commedie del nostro. T.
nacque a Cartagine e giunse a Roma come schiavo del senatore T. Lucano, dal
quale fu affrancato "ob ingenium et formam", per il suo ingegno e la sua
bellezza. Divenne intimo di Scipione Emiliano e di Gaio Lelio; entrò a far
parte dell'entourage scipionico e fu portavoce dell'ideale di humanitas da
esso elaborato. Questa sua posizione di prestigio suscitò l'invidia dei suoi
contemporanei, soprattutto degli altri letterati. Sul conto di T. sorsero
calunnie e pettegolezzi: lo si accusava di essere un prestanome dei suoi
importanti protettori che sarebbero i veri autori delle commedie terenziane.
Era, infatti, considerato disdicevole per un civis Romanus, impegnato
politicamente, dedicare il proprio tempo alla composizione di commedie (l'
unica attività che era concesso coltivare era l'oratoria o la storiografia).
Da questa accusa T. si difende nel prologo della sua ultima commedia, l'
"Adelphoe" (da adelfoi fratelli). Nel prologo, l'autore afferma che ciò che
gli altri ritengono una colpa e di cui lo accusano, è per lui motivo di
vanto e di orgoglio: ritiene un merito essere aiutato dagli uomini più
importanti di Roma, delle cui imprese tutto il popolo si serviva. La difesa
di T. risulta debole, forse perché non voleva urtare la suscettibilità dei
protettori, a cui le calunnie e le dicerie non dispiacevano affatto.
Amareggiato dal complessivo insuccesso della sua produzione, T. lasciò Roma
nel 160 a.C. e volle fare un viaggio in Grecia e in Asia Minore, da cui non
fece più ritorno. Morì qualche anno più tardi, o a causa di una malattia, o
a causa di un naufragio, oppure per il dolore procuratogli dalla perdita dei
bagagli che contenevano molte commedie che aveva tradotto da originali
menandrei reperiti in Grecia.

OPERE.
T. compose in tutto 6 commedie, pervenuteci interamente con le didascalie
relative alla rappresentazione. La sua carriera drammaturgica non fu facile
come per Plauto: non ebbe lo stesso successo perché la sua commedia non
rispondeva ai gusti del grosso pubblico romano. Quella di T. era una
commedia che voleva trasmettere un messaggio morale estraneo alla mentalità
romana abituata al teatro plautino che interpretava i rapporti
interpersonali come basati sull'inganno, sulla violenza e sulle
prevaricazioni.
Il circolo scipionico tendeva ad imporre diversi modelli di comportamento,
ispirati al costume greco, e il messaggio terenziano risulta
emblematicamente contenuto nella famosa frase dell'"Heautontimorumenos" (da
timoreo, ossia il punitore di se stesso): "homo sum humani nihil a me
alienum puto", "sono uomo e niente di ciò che è umano considero a me
estraneo". T. esordì nel 166 a.C. con una commedia, l'"Andria" (la ragazza
dell'isola di Andrio).
Nel 165 a.C. fece rappresentare una seconda commedia, l'"Hecyra" (la
suocera). Il pubblico dopo le prime scene abbandonò il teatro preferendo
assistere ad una manifestazione di pugili e funamboli; fu un fiasco
clamoroso.
Nel 163 a.C. fece rappresentare l'"Heautontimorumenos".
Nel 169 a.C. furono rappresentate 2 commedie, l'"Eunucus" e il "Phormio". L'
"Eunucus" fu il più grande successo di T., perché è la commedia terenziana
più simile alla comicità plautina.
Nel 160, durante i giochi funebri per celebrare la morte di Lucio Emilio
Paolo, padre di Scipione Emiliano, T. fece rappresentare la sua ultima
commedia, l'"Adelphoe", nella stessa occasione tentò una seconda
rappresentazione dell'"Hecyra", ma anche questa volta il pubblico abbandonò
il teatro preferendo i gladiatori. Una terza rappresentazione avvenne
durante i Ludi Romani dello stesso anno e, finalmente, fu rappresentato dall
'inizio alla fine, il pubblico rimase in teatro grazie alla presenza di
Ambivio Turpione, attore molto celebre.
*L'"Hecyra". Il protagonista dell'"Hecyra" è il giovane Pamfilo, tormentato
e patetico, in perenne conflitto fra amore e pudore. È innamorato di
Bacchide, una cortigiana, ma il padre lo costringe a sposare Filumena, una
ragazza perbene. Pamfilo è combattuto fra la passione per Bacchide e il
rispetto della volontà paterna. Sposa Filumena senza amarla e si rifiuta di
avere rapporti intimi con la moglie, scarica su di lei le sue delusioni.
Filumena accetta con umiltà i torti del marito che, dopo averla conosciuta
meglio e confrontata con le altre donne, impara ad apprezzare il pudore
della moglie e dalla stima nasce l'amore; un sentimento più profondo dell'
attrazione per Bacchide. Ad un certo punto, Pamfilo parte per un viaggio di
affari; la moglie lascia la casa del marito, dove viveva con la suocera
Sostrata, e torna a vivere dai genitori. Nessuno sa con precisione le cause
di questo allontanamento. Un servo riferisce che Filumena ha giustificato il
suo allontanamento con motivi di salute, una malattia l'avrebbe costretta a
tornare a casa. Tutti gli altri personaggi ritengono che la causa dell'
allontanamento siano stati i conflitti con la suocera. È soprattutto il
marito di Sostrata ad accusarla di aver reso la vita impossibile a Filumena
e di averla costretta ad allontanarsi da casa. Sostrata si ritiene innocente
e in un monologo lungo e toccante si dichiara vittima dei pregiudizi che
vogliono tute le suocere ostili alle proprie nuore. Nessuno conosce i motivi
reali che l'hanno indotta a lasciare la casa, ma tutti i personaggi avanzano
supposizioni infondate. Il messaggio che T. vuol trasmettere è che non
bisogna giudicare dalle apparenze e lasciarsi guidare dai soliti pregiudizi.
La realtà è spesso ben diversa dalle apparenze. Ritorna Pamfilo dal viaggio
e viene informato dell'accaduto; si reca a casa dei genitori della moglie
per constatare di persone le condizioni di salute di Filumena. A casa di
Filumena, Pamfilo scopre la verità, ben diversa da ciò che gli altri
pensavano. Filumena ha lasciato la casa perché sta per partorire un figlio
non di Pamfilo, ma che è stato concepito prima del matrimonio, frutto di una
violenza notturna subita da Filumena durante una festa, ad opera di uno
sconosciuto. In un monologo lungo e patetico, Pamfilo rivela al pubblico
questa verità e mette a nudo i suoi sentimenti, il conflitto che si agita in
lui fra amore e pudore. Sa che la sua vita senza la moglie sarà una vita
vuota, però sa che l'onore e la società lo costringono a separarsi dalla
moglie e a non considerare come suo l'alienus puer. Pamfilo non rivela però
il vero motivo per cui divorzia per non compromettere il buon nome di
Filumena. I due suoceri, all'oscuro della verità, pensano che pamfilo voglia
ancora Bacchide e che abbia ripreso la relazione con lei. Vanno a parlare
con Bacchide che rivela ai due che non ha più rapporti con Pamfilo dal
giorno del matrimonio. Pur essendo una cortigiana, Bacchide accetta un
compito che nessun'altra al suo posto avrebbe accettato: andare da Filumena
per dirle che Pamfilo la ama. Bacchide è uno dei personaggi più peculiari
del teatro di T., si contrappone allo stereotipo della cortigiana, agisce
contro i suoi interessi perché affezionata a Pamfilo e vuole la sua
felicità.
Bacchide va da Filumena e la madre nota al dito della cortigiana un anello
che apparteneva alla figlia e che Filumena portava la notte in cui aveva
subito la violenza e che le era stato strappato dal giovane. Bacchide rivela
che l'anello le era stato dato da Pamfilo, il giovane stupratore era quindi
il marito. La commedia si conclude con il ristabilimento dell'unione che una
serie di equivoci avevano minato.
*Altre commedie interessanti sono l'"Heautontimorumenos" e gli "Adelphoe".
In queste commedie, il tema principale è il problema pedagogico del rapporto
fra genitori e figli e di quale sia il migliore metodo per educare i
giovani. Protagonista della prima, è un vecchio genitore, Meneremo, che con
la sua severità ha costretto il figlio a lasciare la sua città e ad
arruolarsi come soldato, iniziando così una vita di pericoli e di disagi.
Dopo essersi reso conto di ciò che ha fatto, il genitore si pente e decide
di autopunirsi, vende tutti i suoi beni, va in campagna sottoponendosi a
lavori massacranti. Un altro anziano, Cremete, che ha un campo vicino al
suo, nota il comportamento di Menedemo e lo invita ad aprirsi con lui, a
confidarsi. È Cremete a pronunciare il famoso verso"homo sum humani nihil a
me alienum puto".
Negli "Adelphoe" sono protagonisti 2 fratelli, Demea e Micione. Il primo è
un uomo all'antica, rigido e austero che ha due figli, uno dei due lo educa
personalmente secondo i sistemi tradizionali, l'altro, invece, lo affida al
fratello Micione, che, non sposato, vive in città e ha idee moderne. È padre
per libera scelta e decide di educare il figlio adottivo con indulgenza e
liberalità. Secondo lui i giovani devono instaurare un rapporto basato sul
dialogo con i genitori. Non bisogna costringerli a fare il bene solo per
paura di una punizione, ma per una scelta personale, sua spunte e non per
metus (Timore).

CONSIDERAZIONI.
Quattro delle 6 commedie terenziane si rifanno ad originali menandrei: solo
l'"Hecyra" ed il "Phormio" riprendono commedie di Apollodoro di Caristo, un
altro commediografo greco che non conosciamo.
Cesare definì T. "Dimidiatus Menander", ossia un Menandro dimezzato;
giudizio questo che svalutava T. rispetto al greco. Rispetto a Plauto, le
commedie di T. presentano maggiore fedeltà ai modelli greci, ma si tratta
sempre di una fedeltà relativa: anche T., come Plauto, ricorreva alla
contaminazione, ovvero non traduceva alla lettera i testi greci. Rispetto a
Plauto, T. mantiene un'ambientazione rigorosamente greca, senza surreali
intrusioni di usi e costumi romani. T. elimina quasi completamente i
cantica, facendo invece uso abbondante dei versi lunghi. Altra notevole
differenza con Plauto è quella relativa allo stile e al linguaggio: non
troviamo in T. l'esuberanza, le acrobazie verbali, i giochi di parole e le
parodie dello stile tragico; evita vigorosamente espressioni popolari e
volgari; segue, stilizzandolo, il linguaggio della conversazione ordinaria.
Quello di T. è insomma uno stile sobrio, naturale, all'insegna della
compostezza, della semplicità.
Anche in T., al centro della vicenda comica troviamo amori ostacolati che,
alla fine si realizzano felicemente. I personaggi sono quelli della commedia
nea, giovani innamorati, ragazze oneste ecc.; troviamo anche qui i soliti
stereotipi della nea equivoci, inganni ecc. Il topos del riconoscimento
conclude 5 commedie su 6, mancando solo negli " Adelphoe ". Sempre 5 su 6 si
concludono con uno o più matrimoni: solo nell'"Hecyra " troviamo il
ristabilimento di una unione matrimoniale che era entrata in crisi a causa
di equivoci e sospetti infondati.
T. tende a complicare gli intrecci menandrei, inserendo nella commedia,
accanto alla coppia principale, una seconda coppia. Gli adulescens sono
quindi 2 e sono 2 i senex. Rispetto a Plauto, T. costruisce i suoi intrecci
con coerenza maggiore e con più credibilità, caratteristiche queste mancanti
nell'altro, che puntava sull'efficacia comica della singola scena. Altra
differenza importante con Plauto e Menandro, è l'abolizione del prologo
informativo. T. trasforma il prologo informativo in un prologo a carattere
letterario; nel prologo parla di sè, del suo modo di poetare e si difende
dalle accuse che i suoi avversari gli rivolgono. Plauto e Menandro si
servono del prologo per informare il pubblico dell'antefatto e anticipano
spesso la conclusione; ciò metteva il pubblico nella condizione di seguire
meglio la vicenda, il cui intreccio era spesso complesso. Ciò rendeva il
pubblico superiore ai personaggi della commedia. T. elimina il prologo
informativo, perché punta su effetti di suspense, vuole che lo spettatore si
immedesimi nel personaggio, vuole che il pubblico sia coinvolto emotivamente
nelle vicende, provi le stesse emozioni dei personaggi. T. vuole mascherare
l'aspetto fittizio dell'evento teatrale, vuole che non venga mai interrotta
l'illusione scenica. Elimina tutti i procedimenti metateatrali a cui spesso
ricorreva Plauto. Tutto ciò ha uno scopo preciso: mentre Plauto non
perseguiva nessun fine morale o politico, ma tendeva solo a divertire, T.,
con le sue commedie, vuole trasmettere un messaggio morale.
T., inoltre, attenua i tratti caricaturali dei personaggi della nea e ne fa
delle figure delicate, tenere, sensibili (ma più "tipi" che individui).
Protagonista del suo teatro non è più il servus callidus, ma padri e figli.
Non ridicolizza i sentimenti d'amore dei giovani, ma li segue con
partecipazione e simpatia. I padri terenziani sono differenti da quelli
plautini, sono disponibili al dialogo con i figli e si preoccupano della
loro felicità più che del loro patrimonio e del veder affermata la loro
autorità. Nel teatro di T. non esistono personaggi del tutto negativi. Anche
i servi sono spesso vicini ai padroni e partecipano ai problemi familiari;
non tutte le cortigiane pensano ai propri interessi. Il messaggio che vuole
trasmettere è quello di aprirsi agli altri, rinunciare all'egoismo,
comprendere i propri limiti ed essere indulgenti nei confronti degli errori
altrui, essere tolleranti e solidali. Chi si apre agli altri vive veramente
da uomo fra gli uomini.


Marco Pacuvio
(Brindisi 220 - Taranto 130 a.C.)

VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
Introdotto, grazie all'influenza dello zio Ennio, negli ambienti
filoellenici di Roma, in particolare nel "circolo degli Scipioni", P. sembra
che abbia imitato più Sofocle che Euripide, forse sotto l'influsso dei suoi
amici romani, il cui gusto si volgeva verso il classicismo attico. Ecco i
titoli delle sue tragedie che ci sono stati tramandati: "Antiopa", "Armorum
iudicium" (la contesa tra Aiace e Ulisse per le armi di Achille),
"Atalanta", "Chryses", "Dulorestes" ("L'Oreste schiavo"), "Hermiona",
"Iliona", "Medus" (storia del figlio di Medea, avuto da Egeo, re di Atene),
"Niptra" ("Il bagno" in cui, si narrava, Telègono, figlio di Ulisse, aveva
involontariamente ucciso il padre). Sua è anche una praetexta ("Paulus"),
allestita forse in occasione del trionfo di Paolo Emilio su Perseo (160
a.C.).
Nella serie dei giudizi tradizionali dati al tempo di Orazio sugli antichi
tragici romani, P. passava per un "vecchio sapiente": forse per il fatto che
si era sforzato di rinnovare le ispirazioni del suo teatro, ricorrendo a
modelli meno ritriti. In ogni caso, le sue opere teatrali vennero riprese
ancora molto tempo dopo la sua morte, e persino il pubblico popolare ne
conosceva a memoria lunghi brani. I frammenti abbastanza lunghi che ce ne fa
conoscere Cicerone lasciano intravedere, in P., un grande vigore di stile,
un senso del patetico moderato dalla preoccupazione per la dignità che
conviene agli eroi, un senso tutto romano della virus, una conseguente
spiccata sentenziosità, una certa predilezione per il macabro (che ne fanno
una sorta di precursore di Seneca).
Di conseguenza, la lingua è contraddistinta da parole strane, forme
insolite, conii artificiosi.
Fu anche autore di "Saturae", in vario metro, purtroppo perdute.


Lucio Accio
(Pesaro, 170 - 85 ca a.C.)

VITA, OPERE, CONSIDERAZIONI.
Si tratta di un poeta "moderno" e "dotto". In viaggio a Pergamo, nel momento
in cui il regno di Attalo III diventava provincia romana (133 a.C.), era
stato iniziato ai metodi della filologia pergamena. I suoi interessi si
erano rivolti alla storia del teatro a Roma e anche in Grecia. Oltre ad
alcuni scritti "minori" - "Didascalica" (prosimetro, su questioni di storia
letteraria); "Pragmatica" (di tecnica teatrale); "Annales" (almeno 27 libri
su storie e miti connessi alle festività), "Sotadica" (poesie erotiche) - la
cui varietà dimostra la vivace curiosità del suo intelletto e l'estensione
della sua cultura, A. ha lasciato numerose tragedie, delle quali ci sono
noti circa 45 titoli. Dei testi di queste opere, però, possediamo solo
alcuni frammenti (700 versi circa), che non possono darci che un'idea molto
generale della sua arte.
Le tragedie di A. trattano in genere di leggende greche già più volte
portate sulla scena. I suoi soggetti preferiti sembrano essere quelli che
comportano episodi violenti o atroci. La sua fama cominciò verso il 130, con
la messa in scena di un Tereus (storia del bambino che la madre fa divorare
dal marito infedele).
Com'era facile prevedere, A. trattò in seguito l'intero ciclo dei Pelopidi,
con una tragedia dallo stesso titolo, a cui si aggiungevano un Atreus, un
Chrysippus, una Clytaemestra, un Aegisthus e una tragedia dal titolo
Agamemnonidae, che sviluppavano tutta intera la serie delle atroci violenze
che avevano caratterizzato ogni generazione di quella dinastia. Al ciclo
troiano appartenevano l'Achilles, l'Epinausimache (la ripresa dei
combattimenti nei pressi delle navi, un celebre episodio dell'Iliade),
l'Armorum iudicium (la controversia fra Ulisse e Aiace sull'attribuzione
delle armi di Achille), la Nyctegresia (la spedizione notturna di Diomede e
Ulisse nel campo troiano), Troades, Astyanax, Deiphobus, eccetera.
Alcune di queste opere si ricollegano direttamente all'Iliade, altre alla
Piccola Iliade e ad altri poemi ciclici. I soggetti tebani erano
rappresentati da Phoenissae, Thebais, Antigona ed Epigoni. I miti dionisiaci
erano largamente ricordati con Athamas, Bacchae, Tropaeum Liberi e
probabilmente Erigona. Altri soggetti celebri (Medea, Alcestis, Alcmeo,
Andromeda, Meleager, Prometheus, eccetera.) completavano infine il
repertorio tradizionale al quale A. si ispirava.
E' stata avanzata l'ipotesi che il poeta non avesse scelto i suoi soggetti
senza una qualche finalità recondita e che, in una certa misura, tenesse
conto dei problemi di attualità, ad esempio della questione sociale nel
periodo dei Gracchi. La cosa è difficilmente dimostrabile nei particolari.
In se stessa, tuttavia, l'idea è ben lungi dall'essere inverosimile. Di
sicuro c'è che i romani (e in particolare Cicerone, grande ammiratore di A.)
trovavano sempre, nelle sue opere, materiali per inattese applicazioni. Il
che era agevolato dall'abbondanza delle massime morali e degli sviluppi di
idee comuni, come la tirannide, l'esilio, eccetera.
La ricchezza oratoria di A., come traspare anche dai frammenti rimasti,
prelude già allo stile delle tragedie di Seneca: il linguaggio ha un tono
magniloquente e ridondante, ricco di giochi allitterativi e di composti
eruditi.
La celebrità di A. si deve anche alle due tragedie praetextae da lui
composte: il "Decius" o Aeneadae e il "Brutus". La prima ricordava le
"devozioni" dei Decii, il sacrificio delle loro vite che quei tre eroi
avevano compiuto, uno dopo l'altro, per assicurare la vittoria alle armate
romane (295 a.C.). Di queste due tragedie, noi conosciamo però molto meglio
la seconda, che portava in scena la caduta della monarchia e l'avvento della
repubblica. Si assisteva all'attentato contro Lucrezia e alla punizione dei
tiranni. Un sogno e la sua interpretazione da parte di un indovino davano
luogo a una scena celebre che Cicerone cita testualmente nel De divinatione.
Essa rivela un senso della gravitas religiosa e della presenza del divino
che sembra smentire le affermazioni dei moderni troppo propensi a
considerare la religione nazionale, in quell'epoea, solo come un'accozzaglia
di leggende obsolete.
Qualunque fosse la realtà degli dèi, le anime continuavano a essere agitate
da sogni, da presagi, e conservavano comunque la loro fede nei riti.
Si è spesso rimproverato ad A. l'eccessiva violenza e ricercatezza del suo
stile, quella sua volontà di rimanere nel "sublime" ad ogni costo che, se
non impedì il successo delle sue opere, segnò tuttavia l'inizio del declino
cui andò incontro il genere tragico dopo di lui.
Fatto sta che la conseguenza più importante delle carriere di A. e Pacuvio
fu forse, in definitiva, che la tragedia salì di classe e di tono: la sua
pratica, pur continuando a godere del successo popolare, divenne sempre più
cosa da gentiluomini.


Marco Porcio Catone
il Censore o il Vecchio
(Tusculum, 234 a.C.)

VITA.
C. visse nel periodo più intenso della storia romana, quello delle guerre
puniche e dell'espansione ad oriente. Per le guerre contro la Macedonia e la
Siria, s'intensificarono i rapporti tra Roma e la Grecia. L'ala più
progressista romana, a capo della quale erano gli Scipioni, si aprì alla
cultura greca; C. fu rappresentante invece dell'area più tradizionalista
dell'aristocrazia. Di C. abbiamo due immagini contrastanti:
1.Quella delineata da Cicerone nel "Cato Maior seu De senectute" è un'
immagine idealizzata, mitizzata. C. diventa cittadino esemplare e incarna i
mores, i costumi del passato.
2.L'altra la troviamo nella biografia di Plutarco che, nelle sue "Vite
Parallele", fa di C. un personaggio contraddittorio, un uomo che si atteggia
a moralista, a censore dei costumi ma che, nella sfera privata, non disdegna
di esercitare l'usura o di darsi a speculazioni finanziarie spregiudicate,
esoso verso i suoi dipendenti e gli schiavi, un uomo che colpisce le vanità
altrui ma che appare egli stesso vanitoso e ambizioso (e forse è questa l'
immagine più reale).
Nato da famiglia contadina, C trascorse la giovinezza lavorando le terre in
Sabina. La sua origine lasciò un'impronta determinante nella sua mentalità.
Fu arruolato nella II guerra punica e rimase sotto le armi per quasi tutta
la durata del conflitto. Solo alla fine iniziò il cursus onorum. Egli era un
uomo novus, la cui famiglia non aveva mai ricoperto cariche politiche. Per
la sua attività politica si avvalse dell'appoggio di Valerio Flacco,
aristocratico conservatore.
Nel 204 a.C. fu eletto questore; nello stesso anno Scipione portava la
guerra in Africa. C. lo seguì. Il contrasto fra di loro è immediato. C.
infatti contestò l'eccessiva prodigalità di Scipione e le eccessive
elargizioni alle sue truppe. Quello rispose che non aveva bisogno di un
questore così preciso e che doveva dare conto a Roma non del denaro speso,
ma delle imprese portate a termine. Tornato in Italia, incontra Ennio e lo
porta a Roma.
Negli anni seguenti continua la carriera politica, e nel 195 a.C. Flacco
diviene console. Nello stesso anno i tribuni della plebe proposero l'
abrogazione della lex oppia, legge promulgata nel 125 a.C. dopo la disfatta
di Canne che vietava alle donne di indossare abiti lussuosi e gioielli d'oro
che superassero un certo peso; questo perché bisognava concentrare le
risorse economiche per le imprese militari. C. si oppose, però la legge
venne abrogata.
Nel 190 a.C. era finita la guerra contro Antioco III di Siria che, sconfitto
pagò ai romani 15.000 talenti di cui 500 andarono direttamente agli
Scipioni. C. colse la palla al balzo e li attaccò sul loro punto debole, l'
amministrazione del denaro pubblico. Lo stesso Scipione, in conseguenza dei
processi che ne derivarono, preferì allontanarsi in volontario esilio.
Nel 184 a.C. C. divenne censore con Valerio Flacco e lo fece con rigore
proverbiale. Si oppose in tutti i modi al lusso eccessivo, al mal costume e
alla corruzione di cui davano prova gli esponenti dell'aristocrazia
progressista. Nel 180 a.C. muore Flacco e C. smorza i toni aspri della sua
polemica, si avvicina a Lucio Emilio Paolo che è diventato l'uomo più
rappresentativo del circolo scipionico. Combina il matrimonio fra il figlio
Marco e Terzia, figlia di quello. Intanto cerca di arricchirsi con
speculazioni finanziarie e con l'usura.
Continua poi la polemica contro i greci. Nel 161 a.C. il senato, sotto sua
ispirazione, emanò un decreto di espulsione per tutti i retori e i filosofi
greci residenti a Roma. Nel 155 a.C. giunsero a Roma come ambasciatori
ateniesi, 3 filosofi greci, Carneade, Diogene e Critolao che, in attesa di
essere ricevuti dal senato, tennero a Roma delle conferenze: i romani li
andarono a sentire e ne rimasero affascinati. C. consigliò al senato di
riceverli il prima possibile per farli andare via altrettanto rapidamente.
La paura dei romani per la retorica e la filosofia è basata sull'autonomia e
sullo spirito critico che queste comportano; da un lato ne sono affascinati,
dall'altro hanno paura che esse possano corrompere i valori e i rapporti
sociali tradizionali.
Negli ultimi anni, C. conduce una campagna politica contro Cartagine, città
non più un pericolo dal punto di vista militare ma competitiva dal punto di
vista commerciale. La III guerra punica fu dichiarata nel 149 a.C. anno
della morte di C..

OPERE.
*Per raggiungere le vette del potere politico, C. fu un oratore eccellente:
con lui sarà inaugurato il nesso fra politica e arte oratoria, la capacità
di tenere discorsi persuasivi. L'oratoria diventa strumento politico. Nel
corso della sua vita, a detta di Cicerone, C. pronunciò moltissimi discorsi
(almeno 160) e fu anche il primo a scriverli per rielaborarli. Noi
possediamo circa 80 titoli e qualche frammento delle sue orazioni. Per C. l'
oratore perfetto doveva essere Vir Bonus Dicendi Peritus. C. inoltre dà la
precedenza al vir e alla sua integrità morale, ponendo in secondo piano l'
abilità nel parlare. Ciò che conta per lui è l'interiorità, senza la quale
non si può essere un buon oratore. Altro precetto che ci ha lasciato è la
famosa frase: "Rem tene, verba sequentur".
Fra le orazioni di C. ricordiamo il "De sumptu suo": qui C. contrappone il
"proprio tenore di vita" a quello dei suoi avversari e traccia l'immagine di
sé come di un politico onestissimo che esercita le sue cariche con
disinteresse, ligio al proprio dovere. Contrapponeva quindi questa immagine
di perfezione a quella degli altri che esercitavano il loro potere per
interesse personale, sfruttando il prestigio che avevano.
Altra orazione fu quella del 167 a.C. "Pro Rodiensibus" (In difesa degli
abitanti di Rodi). Rodi era alleata romana e durante la guerra tra Roma e
Perseo rimase neutrale. Dopo la vittoria fu accusata dai romani di
tradimento. Roma la voleva punire e C. intervenne in sua difesa affermando
che si possono punire le azioni, non i pensieri. Il senato accettò la tesi
di C., ciò nonostante qualche anno dopo Rodi venne punita economicamente:
Roma dichiarò la vicina Delo porto franco e i traffici si spostarono da Rodi
a Delo.
*Altra operetta è il "Praecepta ad Marcum filium", a carattere enciclopedico
e di pronta consultazione; il suo intento era di istruire il figlio, di
essere il suo primo maestro e di criticare l'uso che si stava diffondendo di
far educare i propri figli dai greci.
L'opera era divisa a seconda della disciplina che voleva insegnare: arte,
retorica, medicina ecc.
Vi è un frammento in cui parla al figlio dei greci screditandoli. Secondo C.
è necessario conoscere i greci ma non farsi influenzare poiché sono corrotti
e corruttori.
*L'unica opera pervenutaci interamente è il "De agri cultura", la prima
scritta in prosa della letteratura latina: è un trattato sull'agricoltura.
Non è a carattere sistematico: sono 162 capitoli in cui sono esposti
consigli circa la conduzione di un'azienda agricola. L'azienda di cui parla
è finalizzata non ad un'economia di sussistenza ma di mercato: si
contrappone il modello del podere di medie dimensioni al nascente latifondo.
C. consiglia il podere da acquistare, i lavori da compiere, insegna la cura
delle malattie di piante e animali, i compiti del fattore, insegna come
trattare i dipendenti e come comportarsi con gli schiavi che, per lui non
sono persone ma res.
Nelle sue intenzioni, l'opera ha anche funzione morale e sociale: C. infatti
ritiene che l'agricoltura innanzitutto è l'attività più sicura ed onesta, e
che poi è solo col lavoro agricolo che si formano i buoni cittadini ed i
buoni soldati.
*C. si cimentò anche nel genere storiografico, e da vecchio scrisse un'
pera - "Origines" - di cui abbiamo solo frammenti: le uniche testimonianze
unitarie le possediamo tramite Cornelio Nepote. Sappiamo che l'opera era in
7 libri, e seguiva questo profilo: I libro: origini di Roma e periodo
monarchico; II e III: storia delle altre città e popolazioni italiche; IV:
Iª guerra punica; V : IIª guerra punica; VI e VII: avvenimenti successivi
sino al 151 a.C., anno in cui il pretore Servio Sulpicio Galba vinse sulla
popolazione spagnola dei Lusitani grazie ad atti di grande ferocia e
crudeltà che C. denunciò in un'orazione del 149 a.C. poco prima di morire.
C. Vuole, con questa opera, porre sullo stesso piano Roma e le altre città
italiche (per lui la potenza di Roma è frutto anche dell'appoggio delle
altre popolazioni); inoltre non cita i nomi dei generali, ma li indica con
la carica ricoperta, e lo fa per contestare la concezione individualistica,
"carismatica" della storia, cosa evidente nell'epica storica di Ennio e
nelle prime opere storiografiche romane, gli Annales. Di contro, C. vedeva
invece la creazione e la storia dello stato romano come l'opera collettiva e
progressiva del "populus romanus", stretto intorno all'ideologia e agli
uomini della classe dirigente senatoria.


LA STORIOGRAFIA DOPO CATONE

*Già nel 149, quando Catone morì, l'ellenismo invadeva Roma o, quanto meno,
produceva nelle coscienze un riequilibrio di valori del quale abbiamo già
avuto modo di rilevare l'ampiezza, a proposito di Terenzio e di Lucilio. I
generi in prosa non si sottraevano a tale influenza. Gli eruditi greci
cominciavano a essere conosciuti a Roma parallelamente ai filosofi e, mentre
grazie a questi ultimi gli oratori cominciavano a interrogarsi sul valore e
sui limiti dell'eloquenza, insieme all'erudizione venivano crescendo anche
le esigenze nei confronti della storiografia.
*Da questo punto di vista, è caratteristica la parte avuta dallo scrittore
greco Polibio. Alto magistrato della lega achea al momento di Pidna, si
trovò compreso nell'elenco degli ostaggi achei rivendicati da Roma dopo la
vittoria (167). Ciò spiega la ragione per cui visse a Roma per molti anni.
Legato a L. Emilio Paolo, fu precettore dei suoi figli e "guida spirituale"
del giovane Scipione Emiliano. Storico egli stesso, cercò di comprendere il
fenomeno storico costituito da Roma: in che modo, in meno di una
generazione, la repubblica avesse raggiunto i risultati che, nello spazio di
due secoli e mezzo, i re orientali non avevano ottenuto, e cioè riportare la
pace nel bacino del Mediterraneo e imporre al mondo un potere forte e
stabile. Intorno a quest'uomo, l'élite dei giovani romani è portata a
riflettere sul ruolo della propria città, e a sottoporre ogni azione alla
critica della ragione e della conoscenza.
*Ma dalle lezioni di Polibio trassero profitto soprattutto gli uomini di
stato filoellenici e i teorici della filosofia politica; quanto agli
storici, bisognerà aspettare fino a Tito Livio, e cioè fino ai tempi di
Augusto, per trovare in modo certo un impiego diretto della sua opera. In
verità, noi non conosciamo quasi nulla degli annalisti del secondo secolo
a.C. Cosa mai contenessero le opere storiche di P. Cornelio Scipione, figlio
di Scipione l'Africano, o quelle di C. Acilio o, infine, la storia di A.
Postumio Albino, aspramente ripreso da Catone perché, al pari di Scipione e
Acilio, era uso scrivere in greco, ci è ignoto. Essi avevano scelto
quest'ultima lingua per disprezzo verso il latino, per conformarsi alla
tradizione di Fabio Pittore e di Cincio Alimento, o perché si trovavano
sotto l'influenza di Polibio? Non lo sappiamo. E' probabile però che
l'impiego del greco permettesse a questi autori di rompere il quadro,
essenzialmente romano e quasi rituale, dell'esposizione successiva, anno per
anno, degli avvenimenti.
*Gli storici di lingua latina di quest'epoca si adattano, infatti, ancora
allo schema annalistico. Così, oltre a L. Cassio Emina e a L. Calpurnio
Pisone, uno degli autori più "critici" nei confronti delle antiche leggende,
C. Fannio, genero di C. Lelio e membro, perciò, del "circolo degli
Scipioni", nel quale s'incarna la tendenza modernista e filoellenica. Pisone
e Fannio erano stati gli ascoltatori e, in una certa misura, i discepoli di
Panezio, il filosofo stoico che, trasferitosi a Roma, vi era rimasto fino al
130 circa, in contatto anch'egli col "circolo degli Scipioni".
Com'è noto, la dottrina stoica comportava delle riflessioni sulla storia,
attraverso le quali essa si sforzava di dare una lettura dei disegni della
provvidenza, di quel dio che, a suo giudizio, governa il mondo. La ricerca
storiografica delle cause, piuttosto che dalla diretta imitazione degli
storici greci, nei quali la nozione di causa (ad esempio in Tucidide)
rimaneva piuttosto confusa e relegata nella contingenza, ebbe dunque origine
in questo modo.
*Vi furono anche, alla fine del II secolo e all'inizio del I, altri
annalisti che si limitarono a dare continuità alla tradizione dei più
antichi. Claudio Quadrigario, diffidando dei documenti relativi ai primi
passi della repubblica, diede avvio ai suoi "Annales" con l'evento della
presa di Roma da parte dei Galli. A quanto pare, tendeva soprattutto ad
evidenziare il carattere pittoresco del racconto e a privilegiare le
situazioni drammatiche. Il suo contemporaneo, Valerio Anziate, si è meritato
invece la cattiva fama d'essere stato un compilatore poco scrupoloso, avendo
inventato particolari che non si trovavano nelle fonti ed esagerato le cifre
(degli armati, dei caduti in battaglia, eccetera), e avendo scelto sempre,
fra le varie versioni di un evento, quella più ricca di elementi fantastici.
*Tuttavia, in questa II metà del II sec., si vede sorgere una forma di
narrazione storica che non ha più nulla a che vedere col metodo annalistico,
e il cui interesse è rivolto, al contrario, alla trattazione di un periodo o
di un evento ben determinati. Così i 7 libri di Celio Antipatro sulla guerra
di Annibale, o le "Historiae" di Sempronio Asellione che esaminavano un
periodo di cui l'autore era stato testimone diretto (dal 134 al 90 a.C.).
Antipatro e Asellione applicavano, in questo modo, la concezione storica
prevalente presso i greci in quello stesso periodo. Il fatto che l'opera di
un Posidonio, discepolo di Panezio, sia stata concepita nel medesimo spirito
(la ricerca delle cause all'interno
di un periodo definito), lascia supporre che l'origine comune sia da
ricercare nella dottrina elaborata dagli stoici già romanizzati e
nell'ambiente dello stesso Polibio, il quale aveva a sua volta tratto
profitto dall'esperienza e dalla riflessione dei suoi amici sulla gestione
pratica degli affari pubblici. E' significativo inoltre che questi storici
abbiano cominciato la loro carriera come uomini d'azione: Sempronio
Asellione aveva servito sotto il comando di Emiliano a Numanzia, Polibio,
nella sua giovinezza, aveva cominciato con l'essere "ipparco" nella lega
achea; Posidonio era stato "pritano" della repubblica di Rodi. Per loro la
storia è la prosecuzione dell'azione, non è ancora diventata opera
esclusivamente erudita o letteraria.


Gaio Lucilio
(Sessa Aurunca, Campania/Lazio 148/7 - 102/1 a.C)


VITA.
Di origini nobili, fu uno fra i primi romani che abbiano affrontato il
viaggio in Grecia per farsi una cultura filosofica e sicuramente fu il primo
letterato di buona famiglia a condurre una vita da scrittore,
volontariamente appartata dalle cariche pubbliche.
La sua biografia è segnata dall'incontro con gli Scipioni: fu compagno di
Scipione Emiliano in Spagna, nel l33, in occasione della guerra di Numanzia.
Poco dopo, giovanissimo, esordiva come poeta, riprendendo il genere della
"satira". Divenuto adulto, saranno proprio i grandi personaggi del partito
scipionico a proteggerlo. Per le sue origini aristocratiche, i suoi
rapporti, l'ambiente in cui viveva, L. fu infatti spinto a prendere partito
nelle lotte politiche; lo fece con vivacità e persino con violenza. Evoca
per esempio i grandi processi del tempo, il che lo porta a rappresentare
scene di vita nel foro. Altre volte, affidando ai versi gli avvenimenti
della sua vita quotidiana, racconta un viaggio in Campania e in Sicilia,
dove lo chiamavano gli affari privati. Quasi nulla si sa, comunque, del
periodo più tardo della sua vita.

IL SIGNIFICATO DI "SATIRA".
Le origini della satira sono abbastanza confuse: la connessione col termine
greco "satyros" è del tutto falsa: la satira in origine non sembra aver
avuto niente a che fare con i satiri e con il teatro comico greco. Sembra
invece che "satura lanx" indicasse nell'antica Roma un piatto misto di
primizie che venivano offerte agli dei. È probabile allora che il valore di
mescolanza e varietà fosse quello originario. Il nome, dunque, non è greco
ma romano (come l'atellana), ed è proprio per questo che Quintilliano
contrappone la satira agli altri generi di letteratura latina come l'unica
veramente e solamente romana.
Per i primi poeti la satira era intesa come spazio personale, in cui si
poteva esprimere la voce personale del poeta. Già ai tempi di Ennio la
produzione letteraria era abbastanza articolata ma nessuno dei generi
canonici dava spazio ai pensieri diretti del poeta. Nelle satire varietà,
voce personale e realismo sono le caratteristiche principali: L. decide di
specializzarsi nel genere satirico e lo sviluppo della satira negli anni
seguenti segnò lo sviluppo di un nuovo pubblico, interessato alla poesia
scritta, culturalmente avvertito e desideroso di una letteratura che
rispecchiasse la realtà

OPERA.
Di L. abbiamo esclusivamente "Satire" (egli stesso le chiama "poemata" o
anche "ludus ac sermones", poesie scherzose), in 30 libri, di cui ci restano
900 frammenti ca.
Furono raccolte ed ordinate con criterio metrico: l'autore aveva pubblicato
progressivamente i libri XXVI-XXX, contenenti le satire in settenari
trocaici e semari giambici e, verso la fine, in esametri dattilici; i libri
I-XXI, in esametri (forse sua ultima e definitiva scelta); i libri XXII-XXV,
nei quali pare prevalesse il verso elegiaco (sono stati aggiunti al corpus
postumi).
I temi delle satire luciliane si possono riassumere nel seguente elenco: la
parola del Concilium Deorum: attraverso una parodia di concili e decisione
divine, L. prende di mira un certo Lentulo Lupo, personaggio antipatico agli
scipioni (lo farà morire di indigestione); la descrizione di viaggi e il
filone gastronomico: vi è un libro di satire (III) in cui si parla di un
viaggio in Sicilia e altri in cui sono scritte delle ricette succulenti;
l'amore e le questioni letterarie: nel XVI libro L. parla della donna di cui
è innamorato.

CONSIDERAZIONI.
*L., dunque, si dedicò esclusivamente alla satira, trattandola inizialmente,
come già aveva fatto Ennio, in versi trocaici e giambici, i versi dei generi
drammatici; in seguito, nell'ultima parte della sua produzione (quella che,
nella raccolta pubblicata, forma i primi 20 libri), userà solo l'esametro,
creando in tal modo la forma definitiva della satira, poema "ragionato", più
narrativo e meditativo che drammatico, portato gradualmente a quell'ordine
formale con cui ci apparirà più tardi.
*Il realismo, il gusto dell'aneddoto che ritroviamo nelle arti plastiche
romane, l'interesse per i paesaggi, gli oggetti, i dettagli dell'esistenza
reale e quotidiana, tutto ciò traspare nei frammenti rimasti e delinea una
tradizione.
Aperto alle influenze elleniche (in particolare, i commediografi greci e la
filosofia stoica neoaccademica), L. resta partigiano convinto dei valori
romani tradizionali, ma senza essere schiavo dei pregiudizi e della
grettezza della generazione precedente. In un celebre passo, proclama che il
primo posto si deve dare alla patria, il secondo ai componenti la propria
famiglia, e solo il terzo a se stessi, il che significa, in questa morale
della saggezza, subordinare la propria felicità a quella degli gli altri,
atteggiamento che, dopo Epicuro e Zenone, non è più quello dei filosofi
greci.
Con lui vediamo come la mentalità romana, quanto meno nell'élite cittadina,
abbia superato la crisi, l'inquietudine di cui l'opera di Terenzio era
testimonianza, proseguendo con successo la sintesi di cultura ellenica e
tradizione nazionale.
*Infine, dal punto di vista stilistico, la poesia di L. si apre in tutte le
direzioni: amalgama il linguaggio celebrativo dell'epica, come fosse
parodia, e fa uso di termini tecnici e retorici che finora non erano mai
stati usati.


Neoteroi (I sec. a.C.)

Quello dei n. (o "poetae novi") è un gruppo di poeti, quasi tutti
provenienti dalla Gallia Cisalpina, che operò a Roma nel I sec. a.C.
Vennero così definiti polemicamente da Cicerone, nel senso di "quelli alla
moda", con allusione al loro gusto ellenizzante e aristocratico, e al loro
atteggiamento di innovatori d'ispirazione alessandrina (riflesso della
situazione politica - conquiste di Roma in oriente - e della lezione
epicurea). "Lepos", "venustas" e "urbanitas" sono dunque le loro
parole-chiave, armonizzate in un rapporto ch'è al contempo etico ed
estetico.
Legati da reciproca amicizia, liberi e spregiudicati nella vita privata, i
n. avevano in comune il culto della letteratura e l'esigenza di esprimersi
con spontaneità e insieme estrema consapevolezza d'arte: contrapponevano,
cioè, alla letteratura usata solo per fini etico-politici, l'otium
letterario individuale: il piacere di scrivere diventa lo scopo e il fine
della vita.
Insomma, proclamavano una poesia affermatrice dell'individualismo, che
avvertiva i problemi inquietanti della crisi repubblicana e che, se pur si
schierava con spirito di fronda contro i nuovi dittatori (Cesare), avversava
paritempo - in letteratura - il tradizionalismo (per quanto illuminato - di
un Cicerone.
Dichiararono, così, guerra ai lunghi poemi epici di imitazione enniana,
privilegiando gli epilli, i "carmina docta" (brevi componimenti di argomento
poco noto a imitazione di Callimaco e di Euforione), la diretta confessione
lirica e le divagazioni leggere ("nugae") sempre nel più meticoloso rispetto
della tecnica metrica.
Cercarono l'ispirazione preferita nel tema amoroso (e in questo punti
patenti sono le differenze con l'epicureismo).
Tra gli altri - oltre che ovviamente Catullo - vanno ricordati almeno:
Levio (che, in verità, è più un prenoterico), autore di una vasta raccolta
di "Erotopaegnia" (ossia, "scherzi d'amore"), di cui restano frammenti. In
essa, trattava, con toni sentimentali e romanzeschi, ma smitizzando il
materiale della tradizione epico-tragica, gli amori di personaggi del mito o
di eroi troiani. Poeta colto, introdusse in Roma il genere alessandrino dell
'elegia narrativa, influendo - coi suoi arditi neologismi, con pittoreschi
impasti di lingua colta e colloquiale, coi diminutivi affettivi - la
generazione neoterica.
Varrone Atacino, che iniziò con un poema sulla campagna di Cesare contro
Ariovisto ("Bellum Sequanicum") e con "Satire" di tipo luciliano, e si fece
poi divulgatore della poesia alessandrina rielaborando in latino le
"Argonautiche" di Apollonio Rodio, componendo poesie d'amore, una
"Chorographia", d'argomento geografico, e un calendario agricolo in versi
("Ephemeris").
Licinio Calvo, oratore di tendenza attica, scrisse anche, oltre ad epigrammi
di invettiva politica, epitalami e altri componimenti di soggetto amoroso,
nonché un epillio ("Io").
Elvio Cinna, la cui fama è legata soprattutto all'epillio "Zmyrna", sull'
amore incestuoso di Mirra per il padre, caratterizzato dalla "brevitas"
dello stile, dalla densità della dottrina e dalla mostra di conoscenza della
psicologia amorosa.
Furio Bibaculo, di cui restano 2 epigrammi su Valerio Catone, suo maestro, e
si sa di altri contro Augusto. Alcuni critici lo identificano con un Furio
Alpino, autore di 2 poemi perduti: "Pragmatica Belli Gallici", di carattere
storico, e "Aethiopis", di carattere mitologico.


Gaio Valerio Catullo
(SirmioneVerona, 84? - Roma, 54? a.C.)

VITA.
C. apparteneva ad una famiglia agiata, e suo padre ospitò più di una volta
Cesare nella loro villa a Sirmione, sulle rive del Lago di Garda.
Trasferitosi a Roma per gli studi, secondo la consuetudine dei giovani di
famiglie benestanti, trovò il luogo adatto dove sviluppare le sue doti di
scrittore ed entrò a far parte dei neóteroi o poetae novi. Il poeta entrò in
contatto anche con personaggi di notevole prestigio, come Quinto Ortensio
Ortalo, grande uomo politico e oratore, e Cornelio Nepote.
C. è stato definito come il poeta della giovinezza per il suo modo di
scrivere e di pensare: il tema principale della sua poesia è Lesbia, che il
poeta amò con tutto il cuore. Il vero nome della donna era Clodia (chiamata
Lesbia, perchè il poeta implicitamente la paragona a Saffo, la poetessa e la
donna amorosa di Lesbo), identificabile con la sorella del tribuno Clodio, e
moglie del proconsole per il territorio cisalpino (tra il 62 e il 61) Q.
Metello Celere. La storia fra il poeta e Lesbia è molto travagliata: nelle
sue poesie abbiamo diversi accenni allo stato d'animo che C. provava per
lei, a volte di affetto e amore, a volte di ira per i tradimenti di lei:
tutto, fino all'addio finale.
Deciso, infine, ad allontanarsi da Roma, per dimenticare le sofferenza e
riaffermare il proprio patrimonio, il poeta accompagnò, nel 57, il pretore
Caio Memmio in Bitinia. Laggiù, in Asia, il giovane C. entra in contatto con
l'ambiente intellettuale dei paesi d'Oriente. E' probabilmente dopo questo
viaggio, dopo essersi recato alla tomba del fratello nella Troade per
compiangerlo, che compone i suoi poemi più sofisticati, una volta tornato in
patria.
Morì a poco più di 30 anni, per il dolore che Lesbia gli dava trastullandosi
con i nuovi amanti a Roma.

OPERA.
Il "liber" catulliano di "carmi" (116 e circa 2300 versi) si può dividere,
su base metrica, in 3 sezioni:
- (1-60) sono brevi carmi polimetri che C. chiama "nugae", o coserelle;
- (61-68) sono definiti "carmina docta": elegie, epilli ed epitalami nei
quali cresce il tono esplicitamente letterario, lasciando naturalmente
ancora spazio alle caratteristiche catulliane: ovvero, l'epitalamio per le
nozze di Manlio Torquato; un altro epitalamio, in esametri, studiata e
felice trasposizione moderna di Saffo; l' "Attis", poemetto in versi
galliambi, strana evocazione dei riti dedicati alla dea Cibale, un pezzo di
bravura callimachea; il celebratissimo carme 64, il vasto epillio per le
nozze di Péleo e Tétide (con inclusa la storia di Arianna), che è una
piccola epopea mitologica sempre alla maniera di Callimaco; la traduzione in
esametri della "Chioma di Berenice" di Callimaco, preceduta dalla dedica all
'amico Ortalo in distici elegiaci; un'elegia epistolare di gusto
alessandrino, che ricorda il tempo felice dell'amore di Lesbia.
- (69-116) sono carmi brevi o "epigrammi" in distici elegiaci.

CONSIDERAZIONI.
*Il I e il III gruppo costituiscono, come detto, le "nugae", a cui è
consegnata tutta la storia dell'amore di C. per Lesbia. Le peripezie di
questo romanzo d'amore non ci appaiono molto chiare: dovettero esservi
giorni (e per lo meno una notte) di felicità, ma anche molte sofferenze,
giacché Clodia, checché se ne dica, nutriva grande attenzione per la sua
reputazione e per il suo onore di gran dama, e anche, probabilmente, perché
lei e C. non concepivano l'amore nello stesso modo. Egli l'amava con la foga
di un uomo giovane, si compiaceva nel fantasticare sull'idea che Clodia
fosse per lui "la sposa". A lei, invece, quel nodo nuziale, dal quale la
morte di Metello la liberò peraltro piuttosto presto, ripugnava. Clodia,
inoltre, era una donna che amava civettare con uno stuolo di giovani al suo
fianco. C. era solo uno fra i tanti, mentre avrebbe desiderato essere
l'unico, in nome degli illusori diritti che dà l'amore. Quando si avvide che
non era più amato, o quando se ne persuase, lo proclamò ad alta voce in
versi atroci, dove pretendeva che Lesbia si prostituisse con chi le
capitava. Seguì la separazione, dolorosa per lui e forse non senza noie per
lei. "Amo e odio", le scriveva, "tu vuoi sapere perché è così? Non so, ma so
che è così, e soffro."
*Dunque, il rapporto con Lesbia - cui C. programmaticamente trasferisce
tutto il suo impegno, sottraendosi ai doveri e agli interessi del civis
romano (del resto, sebbene vissuto in un'epoca di grandi cambiamenti
politici, C. nelle sue opere dimostra tra l'altro una grande indifferenza
per le situazioni e per gli uomini più in vista, quali ad es. Cesare e
Cicerone) - nato essenzialmente come adulterio, come amore libero e basato
sull'eros, nel farsi oggetto esclusivo dell'impegno morale del poeta tende
però, paradossalmente, a configurarsi nelle aspirazioni dello stesso come un
tenace vincolo matrimoniale, o quantomeno ad un "foedus", un ibrido - se
vogliamo - dei due valori cardinali dell'ideologia e dell'ordinamento
sociale romano: la "fides" e la "pietas". Tuttavia, l'offesa ripetuta del
tradimento (il "foedus violato") produce in C. una dolorosa dissociazione
fra la componente sensuale ("amare") e quella affettiva ("bene velle").
*Il II gruppo di carmi, invece, è quello che più lega C. al movimento
neoterico e quella che più corrisponde alla variante romana del gusto
alessandrino.
Ma la critica recente ha sottolineato come la distinzione tra "nugae" e
"carmina docta" non implichi in C. l'impiego di un diverso impegno
letterario o di una tecnica differente, bensì solo di un diverso livello
espressivo: si tratta, insomma, sempre di una lirica dotta e aristocratica
(come i fruitori dell'opera), secondo i canoni estetici dei neoteroi, anche
laddove l'effetto patetico e certe movenze apparentemente dimesse potrebbero
far pensare ad un'espressione per così dire popolare (è, invece, più
giustamente, "ricercata spontaneità").
La stessa lingua è il risultato di un originale impasto di linguaggio
letterario e "sermo familiaris".
*L'opera di C., anche se non è ancora quella di un "elegiaco", è comunque
l'espressione vivente di un sentimento personale e profondo che ha già
acquistato diritto di cittadinanza nella poesia. Per ciò che conserva ancora
in sé di tumultuoso, di ricercato e, in qualche modo, di impuro, C. è da
mettere piuttosto fra i predecessori immediati che fra i poeti augustei che
formeranno in seguito il "classicismo" della poesia romana. E' però l'unico
a emergere rispetto alla produzione dei neoteroi, condannata in modo così
fermo da Orazio nella sua "Ars poetica" in nome del "ritorno ai valori
classici dell'atticismo", che sarà la parola d'ordine (quanto meno
ufficiale, ma non sempre seguita) degli augustei.


Tito Lucrezio Caro
(99? - 55? a.C.)

VITA.
Della vita di L. rimane poco o nulla: due righe di san Gerolamo ed un
accenno (o forse due) di Cicerone, entrambi ideologicamente avversi alla
dottrina epicurea e, perciò, quantomeno da considerare con ponderatezza. Il
silenzio su questo grande poeta, che dovette provocare comunque un certo
scalpore nella Roma di Cesare, è tuttavia emblematico della stigmatizzazione
che dovette subire il "De rerum natura", lontano com'era sia dagli allora in
voga poetae novi di ispirazione alessandrina, sia dallo stoicismo eclettico
di Cicerone, sia dall'esaltazione della politica attiva o della guerra fatta
da Catilina e Cesare.
Nato nei burrascosi tempi della guerra civile fra Silla e Mario,
probabilmente proveniva da Napoli o da Roma (dalla sua opera e dal modo in
cui si rivolge all'aristocratico Memmio non si riesce però ancora a capire
se fosse anch'egli un aristocratico oppure un liberto) e altrettanto
probabilmente trascorse una vita tormentata da forti passioni, come si
rileva in molti passi del "De rerum natura". Va, tuttavia, respinta la
teoria di San Girolamo riguardo la presunta follia di L. causata da un
filtro d'amore: si pensa infatti che l'accusa sia nata nel IV secolo al fine
di screditare la polemica antireligiosa del nostro poeta.

L. E L'EPICUREISMO A ROMA. Torna al sommario
A parte il rigore intollerante di Catone il Censore, la cultura e il
pensiero greco erano penetrati, attentamente filtrati, nel mondo romano.
Naturalmente venivano eliminati tutti i risvolti del pensiero greco
pericolosi per la conservazione dello stato: non a caso Cicerone trovava un
elemento di forte contrasto nella dottrina di Epicuro: l'epicureismo era
visto come una dottrina che portava alla dissoluzione della morale
tradizionale soprattutto perché, predicando il piacere come sommo bene,
distoglieva i cittadini dall'impegno politico per la difesa delle
istituzioni. Inoltre l'epicureismo, negando l'intervento divino negli affari
umani, portava molti svantaggi anche alla classe dirigente la quale non
poteva più usare la religione come strumento di potere.
Poco si conosce riguardo la penetrazione dell'epicureismo nelle classi
inferiori della società romana; probabilmente divulgazioni dell'epicureismo
circolavano presso la plebe attratta dalla facilità di comprensione di quei
testi e dagli inviti al piacere in essi contenuti.
Per divulgare a Roma la dottrina epicurea, L. scelse la forma del poema
epico didascalico. Vi è, tuttavia, una contraddizione nell'agire di L.: se
da un lato condanna la poesia per la sua stretta connessione col mito e per
il fatto che può arrecare infelicità agli uomini, dall'altro ne fa uso per
divulgare i principi della dottrina epicurea. Con la forma scelta da L.,
così alta e grandiosa, per divulgare il suo messaggio si è pensato di dover
spiegare anche l'atteggiamento di Cicerone nei suoi confronti: evidentemente
Cicerone non poteva accettare gli ideali filosofici epicurei, ma forse è
proprio l'eccezionalità della forma poetica che ha spinto Cicerone a non
tenere conto di L. nella sua polemica all'epicureismo.

OPERE.
La sua più grande opera, il "De rerum natura", fu scritta in esametri e
suddivisa in sei libri: probabilmente non fu finita o, in qualsiasi caso,
manca di una revisione. Il poema di L. è dedicato a Gaio Memmio, che fu
amico e patrono di Catullo e Cinna. San Girolamo asserisce che il "De rerum
natura" fu rivisto e pubblicato da Cicerone pochi anni dopo la morte di L..
La data di composizione non è sicura: probabilmente fu composta nel periodo
successivo al 58, anno in cui fu pretore Memmio.
Il poema è chiaramente articolato in tre gruppi di due libri (diadi):
Nel I libro, dopo l'inno a Venere, personificazione della forza della
natura, sono spiegati i principi generali della filosofia epicurea. Nel II
libro viene illustrata la teoria del clinamen, la caratteristica più
originale di Epicuro rispetto a Democrito e Leucippo. Il III e IV libro
costituiscono la seconda coppia che espone l'antropologia epicurea. La terza
coppia di libri prende in esame la cosmologia: il libro V espone la
mortalità del mondo, mentre il VI discorre di come la volontà divina non
influisca minimamente negli affari degli uomini.
Ogni coppia si chiude con un quadro impressionante di dissoluzione. All'
attacco di ogni libro, invece, c'è una celebrazione di Epicureo, del suo
coraggio intellettuale e del suo ruolo storico (e qui L. evidentemente
intende il riferimento anche come rivolto a se stesso).
Come detto, il "De rerum natura" probabilmente non ha ricevuto un'ultima
revisione: il poema avrebbe dovuto chiudersi con una nota serena, in
corrispondenza con il gioioso inno a Venere, e non con il terrificante
quadro della peste di Atene.

FILOSOFIA.
*Religio. Il "De rerum natura" si apre con l'invocazione a Venere, dea dell'
amore, unica a poter placare la sete di sangue di Marte, dio della guerra:
L. vive i turbolenti anni della rivolta si Spartaco, della guerra di Gallia
e forse anche delle ostilità fra Cesare e Pompeo, e vorrebbe un ritorno alla
pace, ostacolata dalle ambizioni e dalla brama di potere della classe
politica romana.
La via che L. trova per affrontare i mali della vita è la dottrina di
Epicuro, cantato come simbolo della ratio umana, che fuga i miasmi della
religione e della superstizione e prende coscienza dello stato umano.
All'inizio del poema L. invita il lettore a non considerare subito empia la
dottrina che egli si accinge ad esporre, e a riflettere su quanto, al
contrario, sia davvero crudele ed empia la religione tradizionale (emblema
ne è il sacrificio di Ifigenia): la religione è in grado di sopprimere e
condizionare la vita di tutti gli uomini immettendo nel loro cuore un seme
di paura: ma se gli uomini sapessero che dopo la morte non c'è più nulla,
smetterebbero di essere succubi della superstizione religiosa e dei timori
che essa comporta. Si vede, quindi, già dai primi versi come L. offra un
nesso tra superstizione religiosa, timore della morte e necessità di una
speculazione scientifica per ovviare a questo timore: per lui, dunque,
questi timori nascono dall'ignoranza delle leggi meccaniche che governano il
mondo.
L'accesa lotta alla religio è certamente la parte piú eterodossa della
filosofia di L.: Epicuro non aveva cosí marcate tendenze atee, auspicava
piuttosto un ritorno ad un culto piú semplice.
*Natura. Per insegnare agli uomini come la dottrina epicurea possa servire
da tetrafarmaco, e combattere cioè la paura per morte, malattia, dolore e
dei, L. inizia la sua descrizione della natura. Tutto ciò che ci circonda è
formato da piccolissimi granelli indivisibili, gli atomi, i semina rerum o
genitalia corpora come li chiama il poeta per enfatizzare il loro originario
ruolo di creazione. Ogni pianta, pietra, uomo è formato da atomi, e cosí
persino l'animo umano; ed ogni cosa è destinata a nascere e disfarsi in
eterno; solo gli atomi sono immortali e non i loro aggregati. In questo
mondo, regolato dalle leggi meccaniche che governano le particelle
elementari, c'è comunque spazio per la libertà: all'origine dell'universo c'
è una deviazione del moto atomico, un clinamen, che ha dato il via alla
formazione delle cose ed al gioco infinito della natura.
*Morte. Dopo aver descritto la natura della materia l'autore invita i suoi
lettori (rappresentati da Memmio) ad accettare la morte come qualcosa di
ineluttabile e comunque esterna all'uomo: quando noi siamo non c'è morte,
quando c'è la morte noi non siamo: invece di preoccuparsi della propria fine
l'uomo dovrebbe occuparsi della vita e non sprecarla poltrendo od inseguendo
stupide ambizioni (E tu esiterai, e per di piú t'indignerai di dover morire?
Tu cui è morta la vita mentre ancora sei vivo e vedi e consumi nel sonno la
parte maggiore del tempo, e pure da sveglio dormi e non smetti di vedere
sogni, e hai l'animo tormentato da vane angosce, né riesci a scoprire qual
sia cosí spesso il tuo male, mentre ebbro e infelice ti incalzano da ogni
parte gli affanni e vaghi oscillando nell'incerto errare della mente - III,
vv. 1045-1052).
*Sensi e amore. Il IV quarto tratta dei sensi, della loro veridicità, di
come possano essere turbati. I sensi, per L., non fanno altro che captare
dei flussi atomici particolari: sentiamo perché arrivano degli atomi alle
nostre orecchie e vediamo perché ne arrivano altri ai nostri occhi. È dai
sensi che hanno origine ogni forma di conoscenza e la ragione umana, non
crollerebbe soltanto tutta la ragione, ma anche la vita stessa rovinerebbe
di schianto, se tu non osassi fidare nei sensi (IV, vv. 507-8).
Anche stavolta, dopo aver cercato di trasmette l'atarassia epicurea, L. si
allontana dalla calma del suo maestro e descrive con profonda partecipazione
quanto piú può turbare i sensi, le passioni amorose e carnali, a cui dedica
i vv. 1026-1287, di cui diamo qualche saggio: Brucia l'intima piaga (l'
amore) a nutrirla e col tempo incarnisce, divampa nei giorni l'ardore, l'
angoscia ti serra, se non confondi l'antico dolore con nuove ferite, e le
recenti piaghe errabondo lenisca d'instabili amori, e ad altro tu possa
rivolgere i moti dell'animo (vv. 1068-1073); Infatti proprio nel momento del
pieno possesso, fluttua in incerti ondeggiamenti l'ardore degli amanti che
non sanno di cosa prima godere con gli occhi o con le mani. Premono stretta
la creatura che desiderano, infliggono dolore al suo corpo, e spesso le
mordono a sangue le tenere labbra, la inchiodano coi baci, perché il piacere
non è puro, e vi sono oscuri impulsi che spingono a straziare l'oggetto,
qualunque sia, da cui sorgono i germi di quella furia (vv. 1076-1083).
Dopo aver condannato l'amore come sofferenza (v.vv. 1068-1074), furore (vv.
1079-1083), amarezza (v. 1134), rimorso (v. 1135), gelosia (vv. 1139 e
segg.), cecità (v. 1153), miseria (v. 1159) ed umiliazione (vv. 1177-1179),
L. cambia tono: "È proprio lei che talvolta con l'onesto suo agire, / l'
equilibrio dei modi, la nitida eleganza della persona, / ti rende consueta
la gioia d'una vita comune. / Nel tempo avvenire l'abitudine concilia l'
amore; / ciò che subisce colpi, per quanto lievi ma incessanti, / a lungo
andare cede, e infine vacilla". Appare diverso, teneramente malinconico, più
paterno ("E spesso alcuni [...] trovarono fuori [di casa] una natura affine,
così da poter adornare di prole la loro vecchiaia", vv. 1254-6).
Personalità contrastata fra ratio e furor, L., come scrisse Schwob,
"conoscendo esattamente la tristezza e l'amore e la morte, continuò a
piangere e a desiderare l'amore e a temere la morte".
*Civiltà e peste. Nel libro seguente il poeta descrive dettagliatamente la
formazione del mondo e la nascita della civiltà: I re cominciarono a fondare
città e a stabilire fortezze, per averne difesa e rifugio a sé stessi, e
divisero i campi e il bestiame, assegnati a seconda della forza, dell'
ingegno e della bellezza di ognuno (V, vv. 1008-1111), senza però cadere in
tentazioni positiviste: con la nascita della civiltà nascono anche l'
ambizione e la cupidigia, contro cui L. si scaglia con forza: Lascia dunque
che si affannino invano e sudino sangue coloro che lottano sull'angusto
sentiero dell'ambizione, poiché sanno per bocca d'altri e dirigono il loro
desiderio ascoltando la fama piuttosto che il proprio sentire; né questo
accade e accadrà piú di quanto è accaduto in passato (vv. 1131-1135).
Insomma, L. pone molta attenzione sul progresso dell'uomo e ne delinea gli
effetti positivi e quelli negativi. Tra questi ultimi ha molto rilievo il
fatto che il progresso ha portato con sé una grave decadenza morale e il
sorgere di bisogni innaturali. Epicuro aveva infatti prescritto di evitare i
desideri innaturali e non necessari, e di badare solo al soddisfacimento di
quelli necessari: gli unici requisiti essenziali per essere un uomo
veramente felice sono il non provare la fame, la sete e il freddo. Bisogna
abbandonare gli sprechi inutili per indirizzarsi verso i piaceri naturali.
Anche nel discusso finale dell'opera, la descrizione della tremenda peste di
Atene, il poeta si distacca dalla pretesa leggerezza dell'epicureismo, per
immergersi completamente nella malattia e nelle morti: probabilmente l'opera
non doveva avere questo finale (è comunque appurato che dovesse essere il
sesto l'ultimo libro e non moltissimi versi alla chiusura del poema),
mancando la descrizione delle sedi degli dei e la spiegazione di come l'
epicureismo possa aiutare ad affrontare persino i mali piú oscuri come la
peste; il passo rimane comunque emblematico del tormentato animo lucreziano,
che in questa descrizione è piú vicino al gusto dell'orrido di stoici come
Seneca o Lucano che non al calmo filosofo del Giardino.

CONSIDERAZIONI.
Prima del "De rerum natura" la letteratura romana non aveva prodotto opere
di poesia didascalica di grande impegno; d'altra parte, L. si differenzia
notevolmente rispetto ai poeti ellenistici in quanto ha come unico scopo
quello di descrivere e spiegare ogni aspetto importante della vita dell'uomo
e del mondo, di convincere il lettore della validità della dottrina
epicurea. La tradizione ellenistica ricerca invece la sua ispirazione negli
argomenti tecnici, quasi idealizzanti. La consapevolezza dell'importanza
ella materia e delle informazioni date determina un particolare tipo di
rapporto tra L. e il lettore discepolo: questo viene continuamente esortato
e minacciato affinché segua con rettitudine i precetti e il percorso di
felicità imposti dall'epicureismo.
Un ulteriore differenza tra la poesia didascalica ellenistica e quella di L.
sta nel fatto che quest'ultimo ricerca le cause dei fenomeni, e propone al
lettore una verità, una ratio sulla quale è obbligato ad esprimere un
giudizio, mentre la prima si limita a descrivere in maniera empiristica tali
fenomeni. Per L. non vi è nulla di cui meravigliarsi nell'osservazione di
questo o quel fenomeno poiché esso è connesso necessariamente con una regola
oggettiva: non può trarne stupore chi abbia capito il funzionamento di tale
regola. Alla retorica del mirabile egli sostituisce la retorica del
necessario (necesse est è una formula molto usata nel poema di L.).
I toni grandiosi e gli scenari sublimi del poema sono pensati per spronare
il lettore a scegliere anch'egli un modello di vita forte e alta: il lettore
di L. è chiamato a trasformarsi in eroe, a farsi pronto e forte come la
poesia che egli legge. Il destinatario ideale di L. è colui che sa adeguarsi
alla forza sublime di un'esperienza sconvolgente: in questo modo la dottrina
degli atomi è descritta non solo in sé, ma anche nelle reazioni di vertigine
che può provocare nel lettore. Il rapporto docente allievo diventa nel "De
rerum natura" un centro di tensione e un tema problematico; basta pensare
per contrasto a quanto fosse pacifica la struttura didascalica dei poemi
ellenistici. Una delle caratteristiche principali del poema è la rigorosa
struttura argomentativa. L. usa anche il sillogismo.
Il libro che testimonia la perizia argomentativa di L. è il III, dedicato
alla confutazione del timore della morte. Pur avendo dimostrato
scientificamente la mortalità dell'anima, L. si rende conto che ciò non
basta per distogliere l'uomo dalla paura di lasciare la propria vita. Al
fine di convincerlo L., nella parte finale del libro, dà la parola alla
Natura stessa, che si rivolge all'uomo: se la tua vita è stata bella e piena
di gioie ti puoi allontanare da lei come un convitato sazio e felice dopo un
banchetto; se invece è stata triste, che senso ha continuare a vivere
un'esistenza infelice? In questo libro è evidente il contatto di L. con la
letteratura diatribica (ossia l'accorgimento di far parlare dei personaggi
fittizi di particolare interesse).
I critici sono molto confusi riguardo al binomio autore e narratore: benché
siano la stessa persona non devono essere sovrapposte meccanicamente. Come
visto, un'attenta lettura dell'opera induce a constatare che la tensione
dell'autore è sempre rivolta a conseguire il convincimento razionale del
lettore, a trasmettergli i precetti di una dottrina di liberazione morale.
L. è fortemente contrario alle insensatezze della passione amorosa poiché
questa non è certamente un bisogno necessario e deve essere, di conseguenza,
esclusa dai piaceri da conseguire. Probabilmente avranno agito anche stimoli
culturali diversi, quali la volontà di contrapporsi all'ideologia erotica
dei neoteroi. La volontà di L. è allora, come già detto, quella di ricercare
un indirizzo stilistico elevato che accolga nella sua forma sublime gli
elementi della satira e della diatriba.

STILE.
Se le teorie epicuree vedevano nella poesia un passatempo per allietare l'
animo, L. la considera come il miele che, cosparso sull'orlo del bicchiere,
aiuta il bambino a prendere la medicina (nam veluti pueris abstinthia taetra
medentes / cum dare conantur, prius oras pocula circum / contingunt mellis
dulci flavoque liquore - lib V vv. 11-13): la sua poesia è scientifica,
chiara (obscura de re tam lucida pango / carmina), in netta rottura coi
vatum terriloquis dictis di molti poeti che l'hanno preceduto (anche se può
sembrare strano che la ricerca della chiarezza si accompagni ad un frequente
uso di arcaismi e grecismi).
Il commento di Cicerone riguardo il "De rerum natura" testimonia che egli
ammirava in L. non solo l'acutezza del pensatore, ma anche le grandi
capacità di elaborazione artistica. Anche lo stile, come l'organizzazione
complessiva della materia da trattare, doveva piegarsi al fine di persuadere
il lettore. Si spiegano sotto questa luce le frequenti ripetizioni che, a
una prima vista, potevano sembrare delle semplici imperfezioni stilistiche.
Anche l'invito all'attenzione del lettore è ripetuto spesse volte. Non
bisogna trascurare inoltre che la lingua latina mancava di alcuni vocaboli
tecnici e non era quindi in grado di esprimere certi concetti della
filosofia greca, L. si trovò costretto così a dover inventare nuove
perifrasi e nuovi vocaboli: il poeta sfrutta molti vocaboli della poesia
arcaica e molti altri ne crea ex novo. Vi è inoltre un uso abbastanza
frequente di allitterazioni, assonanze, costrutti arcaici, infiniti passivi
in -ier , il prevalere della desinenza bisillabica -ai e l'uso
dell'enjambement.
L. dimostra di avere una buona conoscenza della letteratura greca, come
testimoniano le riprese da Omero e Platone e la descrizione della peste di
Atene. Il registro del poema è quello dell'entusiasmo poetico posto a
servizio della didattica: ne scaturisce uno stile severo, capace di durezze
ed eleganze, pronto alla commozione ma anche all'invettiva profetica:
comunque sempre grandioso.


Marco Terenzio Varrone
(Reate, oggi Rieti, in Sabina, nel 116 - 27 a.C.)

VITA.
Studiò a Roma e ad Atene. Difensore della tradizione, si schierò dalla parte
di Pompeo. Cesare gli perdonò e gli affidò la biblioteca pubblica che
intendeva instaurare in Roma. Pare sia stato anche consigliere di Augusto
per le questioni religiose.

OPERE.
Ancor più che come poeta moralizzante, V. agì sul suo tempo come erudito. La
sua riflessione si estese a tutti i campi che si presentavano agli
"antiquari" del suo secolo: dal passato della lingua latina ("De lingua
latina") alla storia letteraria di Roma (De poetis, De poematis, eccetera,
con particolare riguardo per i problemi sollevati dal teatro di Plauto),
alla religione romana e alla "vetustà" delle istituzioni e dei costumi
profani ("Antiquitates rerum humanarum et divinarum"), fino al diritto (15
libri di diritto civile), alla cronologia generale, alla genealogia delle
famiglie nobili, passando ancora per la geografia, l'agricoltura ("De re
rustica"), la geometria, l'aritmetica, per concludere infine con un quadro
dei differenti sistemi filosofici.
Ecco i contenuti delle opere:
- "De rustica", in 3 libri: il I tratta dell'agricoltura in generale; il II
dell'allevamento del bestiame; il III degli animali da villa e da cortile.
Non destinata all'istruzione pratica del fattore (se non nelle apparenze),
ma scritta piuttosto per alimentare e compiacere l'ideologia del ricco
proprietario terriero - secondo il presupposto del processo di
concentrazione delle terre - l'opera in qualche modo "estetizza" la vita
agricola.
Sue caratteristiche: la profonda conoscenza della materia, la formula
dialogica - spesso briosa ed arguta, quando non è soffocata dall'
rudizione - e l'amore per la sana vita dei campi.
- "Antiquitates rerum humanarum et divinarum" (41 libri): da S. Agostino,
che ce ne ha conservato lo schema strutturale, apprendiamo che essa si
divideva in due parti, dedicate la I alle antichità profane (libri 1-25), la
II a quelle sacre (libri 26-41).
La storia - come è qui concepita - è soprattutto storia di costumi, di
istituzioni, e anche di "mentalità"; è la storia collettiva del popolo
romano, sentito come un organismo unitario in evoluzione.
- "Imagines" o "Hebdomades" (15 libri), 700 ritratti di uomini illustri,
latini e greci, accompagnato ognuno da un elogio in versi e da una notizia
in prosa, disposti in 7 su un foglio e distribuiti in diverse categorie:
capitani, politici, poeti, ecc.
- "De lingua latina". Primo trattato sistematico di grammatica latina, era
diviso in 3 parti: sull'etimologia (libri II-VII), la teoria delle
declinazioni (VIII-XIII) e la sintassi (XIV-XXV).
Dei libri superstiti (V-X), i primi 3 parlano dunque di etimologia, mentre
gli altri della flessione, e in particolare discutono la questione, allora
in voga, dell' "anomalia" e dell' "analogia". V. propende sostanzialmente
per l'ultima.
- "Logistorici" (76 libri), serie di trattatelli: ad es. "Marius, de
fortuna", "Catus, de liberis educandi".
- "Discipline"  (9 libri), una vera e propria enciclopedia delle arti
liberali;
- "Saturae Menippeae" (150 libri), in chiave etico-didascalica ad emulazione
dei prosimetri di Menippeo di Gàdara, filosofo cinico, severo fustigatore
dei corrotti costumi.
V. è uno dei primi e, forse, il più completo degli enciclopedisti romani.

CONSIDERAZIONI.
Il suo pensiero è chiaro, sebbene egli abbia la tendenza a usare e ad
abusare di suddivisioni sistematiche non sempre rispondenti alla realtà.
Dall'antichità in poi, ha costituito la fonte inesauribile delle
informazioni cui hanno attinto tutti gli autori successivi e in particolare
sant'Agostino, che da lui ha ricavato moltissimi elementi relativi alla
religione romana. (morì, infatti, solo nel 27 a.C.). Virgilio, da parte sua,
ha molto utilizzato il suo trattato sull'agricoltura (che è fra le fonti
delle Georgiche).
V. fornisce perciò al proprio secolo l'impalcatura delle conoscenze sulle
quali aspira ad appoggiarsi una letteratura che si rivela sempre meno una
manifestazione di pensiero e sempre più un fenomeno di "stile".


Marco Tullio Cicerone
(Arpino 106 - Formia 43 a.C.)


VITA.
C. nasce da una famiglia agiata equestre: è dunque un "uomo nuovo": egli
sarà il primo della sua famiglia ad accedere alle magistrature: lo dovrà al
proprio talento, ma anche agli appoggi che, sin dall'adolescenza, troverà
presso le famiglie nobili.
C. compie studi di retorica e filosofia a Roma, discepolo del giurista Q.
Muzio Scevola e ascoltatore assiduo di Marco Antonio e di Licinio Crasso, i
due oratori più apprezzati nel senato e fra il popolo. Nella casa di
Scevola, venne a contatto con l'aristocrazia intellettuale romana raccolta
intorno al "circolo degli Scipioni" (Scevola era il genero di Lelio), al cui
interno erano difesi e salvaguardati i valori della gravitas, della dignità
personale, ma anche il gusto della cultura.
Queste impressioni giovanili s'imprimeranno duraturamente nell'animo di C.:
verso la fine della sua vita, ogni volta che vorrà animare, in un dialogo,
le sue idee più care, metterà in scena le figure di quel mondo che sarà per
lui una specie di età aurea della repubblica, un'età della quale egli aveva
conosciuto solo il crepuscolo. C. vedeva anche, intorno a sé, il quadro
animato degli scrittori, dei poeti, dei filosofi, dei grammatici venuti
dalla Grecia, che a nessuno sarebbe più venuto in mente di bandire, e di cui
anzi i più nobili romani ricercavano la compagnia: il poeta Archia, i
filosofi Diodoto e Fedro, stoico il primo, epicureo il secondo, Filone di
Larissa, rappresentante della "Nuova Accademia", che avrebbe avuto su di lui
una notevole influenza.
Questi primi studi furono interrotti dalla Guerra sociale, alla quale C.
partecipò nello Stato maggiore di Pompeo Strabone e poi in quello di Silla.
Non appena concluso questo servizio militare, obbligatorio per chi volesse
avviarsi alla carriera politica, C. cominciò a intervenire ai dibattiti nel
Foro: nell'81 debutta come avvocato e un anno dopo difende Sesto Roscio,
accusato di parricidio, contro importanti esponenti del regime sillano.
Vinse la causa del proprio cliente ma, probabilmente su consiglio di coloro
che avevano utilizzato il suo giovane ingegno, partì per l'Oriente per farsi
dimenticare e rimanere in attesa che Silla abbandonasse il potere.
Tra il 79 e il 77 compie, dunque, il viaggio in Grecia e in Asia, dove
studia filosofia e retorica per migliorare il proprio linguaggio. Nel 75
diventa questore in Sicilia e nel 70 gli verrà chiesto di sostenere l'accusa
di concussione dei siciliani contro l'ex governatore Verre ("Verrine"): il
processo non era limitatamente giudiziario, ma aveva implicazioni politiche,
da to che tramite Verre veniva messo in discussione l'intero sistema del
regime oligarchico: C. accettò, correndo il rischio di separarsi dai suoi
protettori. Ortensio Ortalo, più anziano di C. e oratore rinomato per il suo
talento, assunse il compito della difesa. C. portò avanti le cose in tal
modo, riunì testimonianze così schiaccianti, che Verre non osò neppure
perorare la sua causa e se ne andò in esilio dopo un solo giorno di
dibattimento.
Edile nel 69, pretore nel 66, C. è eletto in ciascuna delle consultazioni a
cui gli è consentito di partecipare come candidato, con una schiacciante
maggioranza di voti. Per lui, sono ora schierate non tanto le famiglie
nobili ma, oltre al popolo, che è sensibile alla sua parola, le famiglie
degli equiti, l'ordine equestre del quale è egli stesso originario. Nel
periodo in cui è pretore, C. pronuncia un discorso importante, il "Pro lege
Manilia", a favore del progetto di conferire a Pompeo poteri straordinari in
Oriente, dove la guerra contro Mitridate si prolunga da tempo. Gli
aristocratici erano ostili a questa legge, per timore di queste insolite
procedure. Ma l'assemblea popolare seguì il parere di C., e la legge fu
approvata.
Nel 63 diviene finalmente console, e nel periodo della sua carica si schiera
con fermezza contro un altro progetto che ledeva gli interessi
dell'aristocrazia, una legge agraria appoggiata sottobanco da Cesare. Le
quattro orazioni sulla legge agraria (De lege agraria), di cui possediamo
solo una parte, sbarrarono la strada a questa mozione.
Lo stesso anno C. ebbe la responsabilità di difendere l'ordine contro una
pericolosa congiura ordita da L. Sergio Catilina ("Catilinarie") con l'aiuto
di alcuni altri nobili che speravano di ripetere, a proprio vantaggio,
l'avventura di Silla. La situazione a Roma si presentava estremamente
complessa. Catilina poteva contare sulla complicità di numerose personalità,
alcune delle quali si sottrassero quando si trovarono di fronte al pericolo.
Ma fu necessaria tutta l'energia del console (il suo collega era sospetto di
simpatie a favore dei congiurati), per evitare che Roma fosse incendiata e
le maggiori autorità dello Stato assassinate.
C. ebbe dunque la meglio e, sostenuto da un senatoconsulto, fece giustiziare
i congiurati che era stato possibile arrestare. Gli altri, compreso
Catilina, perirono sul campo di battaglia ai primi dell'anno successivo.
In quel momento, C. poteva dire di aver realizzato intorno a sé l'unione di
tutte le "persone oneste", gli Optimates, ma il trionfo non fu di lunga
durata. Dopo il consolato di Cesare (nel 59), le violenze del partito
popolare condotto da P. Clodio Pulcro, allora tribuno, portarono alla messa
sotto accusa dell'ex console, per aver fatto giustiziare, senza processo,
dei cittadini. La coalizione degli Optimates non fu in grado di resistere
alla volontà dei triumviri, Cesare, Pompeo e Crasso e, mentre Cesare si
avviava verso la Gallia di cui s'iniziava la conquista, C. fu costretto in
esilio in Grecia (marzo 58).
Torna tuttavia a Roma l'anno seguente e cerca di allacciare rapporti con il
triumvirato. Fu questa, per lui, l'occasione di un'intensa attività
oratoria: ringraziamenti ufficiali (Oratio cum Senatui gratias egit, Oratio
cum populo), invettive al senato contro coloro che l'avevano tradito (In
Pisonem, eccetera).
Ma in una repubblica lacerata da ambizioni feroci, più che altro si dedica a
scrivere le sue opere maggiori, non partecipando che marginalmente alla vita
politica: nel 55 pubblica il "De oratore", nel 51 portò a termine il "De
rupubblica". Nel 51 è governatore in Cilicia.
In seguito allo scoppio della guerra civile, nel 49, dopo molte esitazioni
si unirà al partito del senato, capeggiato da Pompeo. Quando quest'ultimo
viene sconfitto, C. ottiene facilmente il perdono di Cesare. Nel frattempo,
divorzia dalla moglie Terenzia e sposa Publilia. Nel 45 gli muore la figlia
Tullia; inizia la composizione di una lunga serie di opere filosofiche. Nel
44, morto Cesare, rientra nella vita politica e comincia la sua lotta contro
Antonio ("Filippiche"). Ma dopo il voltafaccia di Ottaviano, che stringe il
II triumvirato, il suo nome viene inserito nelle liste di proscrizione:
muore nel 43 sotto i colpi dei sicari di Antonio.

CONSIDERAZIONI SUL PERSONAGGIO STORICO E SUL SUO PENSIERO
POLITICO-FILOSOFICO.

*Degno testimone e protagonista del tramonto della repubblica, C. fu
politicamente un conservatore "moderato": l'idea che cercherà di difendere
nel corso della sua carriera sarà quella dell'egemonia di un blocco sociale
("concordia ordinorum"), sostanzialmente la classe possidente dei senatori e
dei cavalieri: C., grande avvocato e manipolatore delle parole, rivela la
sua ars dicendi come una tecnica sapiente e produttiva, funzionale al
dominio dell'uditorio e, quindi, ottimo strumento politico. Il fine
dell'oratoria e della filosofia ciceroniane è quello di dare una solida base
ideale, etica, politica a una classe dominante il cui bisogno di ordinare
non si traduca in ottuse chiusure (ma rispettasse gl'ideali dell'
"humanitas"), cui l'ossequio per la tradizione antica non impedisca
l'assorbimento della cultura greca. Quindi l'intero operato di C. si può
interpretare come la ricerca di una difficile situazione di equilibrio fra
istanze di ammodernamento e necessità di conservazione delle leggi
tradizionali. La stessa collaborazione con i triumviri fu una risposta al
bisogno di un governo autorevole e anche in questo caso C. si preoccupò di
mantenere saldo il potere del senato.
A C. mancarono le condizioni per crearsi il seguito clientelare o militare
necessario a far trionfare la sua linea politica; inoltre sottovalutò il
peso che gli eserciti personali avrebbero avuto nella soluzione della crisi;
infine non tenne conto del fatto che i ceti possidenti avrebbero potuto
ritenere che le loro esigenze fossero meglio garantite dalla politica di
Cesare.
*Fedele alla tradizione come visto, C. non può immaginare un mondo dove
l'impegno nella gestione della cosa pubblica non sia il valore supremo. Ed è
forse qui che si situa il centro e il fine ultimo di tutti i suoi pensieri.
Ciò, ad esempio, spiega le sue opzioni filosofiche, la ripugnanza che prova
nei confronti dell'epicureismo, non perché Epicuro facesse del piacere il
bene supremo, ma perché giudicava la felicità incompatibile con la
partecipazione ai pubblici affari. Allo stesso modo, le sue simpatie per lo
stoicismo si rivolgevano a quegli aspetti della dottrina che mettevano in
luce l'importanza delle virtù sociali, la giustizia, l'umanità, il coraggio
civico, la devozione alla patria.
Durante il viaggio in Grecia, C. aveva seguito gli insegnamenti dei filosofi
e, fedele alla sua prima vocazione, quello del nuovo capo dell'Accademia,
Antioco di Ascalona, successore di Filone di Larissa. In questo modo diede
inizio alla formazione di quella che possiamo definire la sua dottrina
filosofica: un "probabilismo pragmatico" che subordinava la conoscenza
teorica (giudicata, nella maggior parte dei casi, inaccessibile nella sua
perfezione) all'efficacia e soprattutto al valore morale dell'azione. Così
egli risolveva, a suo modo, il problema dell'eloquenza, rispetto ai termini
della questione posti da Platone: non era più necessario utilizzare tecniche
di persuasione troppo sofisticate per arrivare alla verità; la verità
equivale a ciò che è onesto (ciò che conviene).
Un'ulteriore elaborazione consentiva inoltre di risolvere lo scetticismo
degli accademici, grazie alle soluzioni "medie" immaginate da Panezio,
secondo il quale il bene perfetto del saggio stoico, situato troppo al di
sopra della portata umana, era sostituito dal concetto di azione
"appropriata" e di "dovere".
In seguito, nel suo "De Officiis", C. esporrà questa dottrina di Panezio e
ne farà un testamento filosofico dedicato al figlio Marco. E' evidente, in
tal modo, come possa essere giustificato (e, in una certa misura, anche
criticato) l'epiteto di "eclettico" affibbiato al C. filosofo, laddove però
questo eclettismo non era fatto di elementi presi a destra e a manca, bensì
era una sintesi autonoma operata in funzione di bisogni spirituali ben
definiti e soprattutto in funzione della necessità di giustificare l'azione.
*In tutto questo, C. resta romano, nonostante la sua immensa cultura greca.
Dopo il soggiorno ateniese, recatosi a Rodi, ritrovò il rètore Molone, che
aveva frequentato già a Roma e dal quale, facendo tesoro delle esperienze
oratorie già fatte, accettò, con maggiore docilità e anche con più largo
profitto, alcune lezioni. La sua eloquenza, appassionata e sensibile, era
naturalmente incline a una violenza espressiva che l'avvicinava
all'asianesimo. A Rodi, e senza dubbio anche sotto l'influenza del pensiero
stoico che Posidonio insegnava in quel periodo nell'isola, essa si addolcì,
temperò la sua veemenza.
*Un ultima notazione, sullo stile: in generale la prosa di C. risulta
sintatticamente assai complessa e aritmicamente scandita, ma insieme limpida
ed attentissima alle sfumature di significato. C., del resto, codifica
quello che sarà il linguaggio della filosofia e in generale della cultura
latina.

OPERE.
*Oratoria. L'attività oratoria di C. si intreccia inevitabilmente con le
vicende politiche di Roma negli ultimi cinquanta anni di repubblica. Queste,
grosso modo, le tappe:
- nell'81 egli debutta nel foro come avvocato;
- nell'80, durante la dittatura di Lucio Silla, C. si espone accettando di
difendere Sesto Roscio, accusato di parricidio da alcune potenti figure
amiche del dittatore. Il padre di Sesto Roscio era stato ucciso su mandato
di due suoi parenti, in combutta con Lucio Cornelio, liberto di Silla: gli
assassini, per avere le mani pulite, decisero di sbarazzarsi del figlio
accusandolo di avere ucciso il padre. C. dovette stare molto attento
nell'accusare personaggi vicini al potente dittatore e, per non sembrare
sovversivo, copriva di lodi Silla: il bravo avvocato non era ostile al buon
governo sillano ma, come molti, avrebbe preferito porre un freno agli
arbitrî e alle proscrizioni. L'orazione "Pro Roscio Amerino" ebbe successo e
Sesto Roscio fu ritenuto innocente.
- nel 70 i siciliani gli proposero di sostenere l'accusa nel processo da
essi intentato contro l'ex governatore Verre, che aveva sfruttato la
provincia pensando solo ai propri interessi. C. raccolse le prove in tempo
brevissimo, il che permise di anticipare i tempi del processo: al dibattito,
C. non fece in tempo a esibire tutte le prove che aveva raccolto e
organizzato: dopo solo pochi giorni Verre fuggì dall'Italia e venne
condannato in contumacia. Successivamente C. pubblicò le "Verrinae" che si
rivelarono come un documento storica di grande importanza per conoscere i
metodi di cui si serviva l'amministrazione romana nelle province (diventare
governatore di una ricca provincia era un'occasione dalla quale si potevano
trarre grandi profitti grazie allo sfruttamento). La vittoria su Ortensio,
difensore di Verre, fu anche una vittoria in campo letterario: lo stile
delle "Verrinae" è già completamente maturo, C. ha eliminato alcune
esuberanze, il periodare è armonioso, architettonicamente complesso, ma la
sintassi è estremamente duttile e, se l'occasione lo richiede, C. non fugge
dall'uso di un fraseggio coinciso e martellante.
- nel 66 C., pretore nel senato, parla a favore del progetto di legge
presentato dal tribuno Manilio, che prevedeva la concessione a Pompeo di
poteri straordinari su tutto l'Oriente, minacciato tra le altre cose da
Mitridate, re del Ponto ("Pro lege Manilia"). Parlando di fronte al popolo
in favore di tale legge, C. insisté sull'importanza dei tributi che
affluivano dalle province d'Oriente; la popolazione di Roma sarebbe stata
privata di tale beneficio se Mitridate avesse continuato la sua azione. In
realtà, a essere minacciati dalla situazione che si veniva a creare in
oriente erano soprattutto gli appartenenti al ceto finanziario e
imprenditoriale, cui C. era legato. C. era completamente contrario a
qualsiasi progetto di distribuzione delle terre pubbliche ai ceti meno
abbienti; egli cominciava a vedere la via d'uscita dalla crisi che
minacciava la repubblica nella concordia tra ceti abbienti, senatori e
cavalieri (concordia ordinum).
- C. divenne console nel 63 e soffocò la congiura di Catilina ai danni dello
stato: da allora in poi sarebbe stato il teorizzatore di quella "concordia
ordinum" che lo aveva portato al potere. Le più celebri orazioni consolari
di C. sono le 4 "Catilinarie", con le quali egli svelò le trame sovversive
che il nobile decaduto aveva ordito una volta vistosi sconfitto nella
competizione elettorale, lo costrinse a fuggire da Roma e giustificò la sua
decisione di far giustiziare i suoi complici senza processo. Nella I
Catilinaria C. fa uso di un artificio retorico chiamato prosopopea
(personificazione) della patria, che è immaginata rivolgersi a Catilina con
parole di biasimo.
- nel 62 C. compose la "Pro Archia poeta", l'orazione pronunciata in difesa
del poeta Archia, venuto a Roma nel 102 e accusato di usurpazione della
cittadinanza romana. Essa è celebre per l'appassionata difesa della poesia
che contiene e per la rivendicazione della nobiltà degli studi letterari.
- richiamato dall'esilio nel 57, trova Roma in preda all'anarchia: si
fronteggiavano le opposte bande di Clodio e di Milone (amico personale di
C.). Fu in tale clima che nel 56 C., trovandosi a difendere Sestio ("Pro
Sestio"), un tribuno accusato da Clodio di atti di violenza, espose una
nuova versione della propria teoria sulla concordia dei ceti abbienti. La
concordia ordinum si era rivelata fallimentare: C. ne dilata ora il concetto
in quello di consensus omnium bonorum, cioè la concordia attiva di tutte le
persone agiate e possidenti, amanti dell'ordine politico e sociale. I boni,
una categoria che attraversa verticalmente gli strati sociali esistenti,
senza identificarsi con alcuno di essi in particolare, saranno d'ora in poi
il principale destinatario della predicazione etico politica di C.. Il
dovere dei boni è quello di non rifugiarsi egoisticamente nel perseguimento
dei propri interessi privati, ma di fornire sostegno attivo agli uomini
politici che rappresentano la loro causa. L'esigenza di un governo più
autorevole spinge tuttavia C. a desiderare che il senato e i boni si
affidino alla guida di personaggi eminenti e illustri: questa teoria verrà
approfondita nel "De repubblica" ed è la principale causa che portò C. ad
avvicinarsi al triumvirato. Il bravo C. cerca di fare in modo che il potere
dei triumviri non prevarichi su quello del senato ma si mantenga nei limiti
delle istituzioni repubblicane.
- tra le orazioni anticlodiane occupa un ruolo particolare quella in difesa
di Marco Celio Rufo ("Pro Celio Rufo"), un giovane brillante e amico di C..
Celio era stato l'amante di Clodia e ora lo avevano condannato di tentato
avvelenamento nei confronti di quest'ultima. Attaccando Clodia, in cui
indicò l'unica regista di tutte le congiure contro Celio, C. ebbe modo di
sfogare il suo rancore nei confronti del fratello di lei: la donna è
descritta come una persona infima e viene accusata pure di rapporti
incestuosi. Tramite la descrizione della vita di Celio, C. ha modo di
dipingere uno spaccato della società romana del suo tempo, e si sforza di
giustificare agli occhi della giuria i nuovi costumi che la gioventù ha
assunto da tempo e che possono destare scandalo solo allo sguardo di
moralisti troppo severi e attaccati al passato.
C. qui ci propone un originale modello culturale, teso a ricondurre i nuovi
comportamenti all'interno di una scala di valori che continui ad essere
dominata dalle virtù della tradizione, spogliate tuttavia del loro eccesso
di rigore e rese più flessibili alle esigenze di un mondo sentito
consapevolmente in trasformazione.
- gli scontri tra le bande di Clodio e di Milone durarono ancora a lungo e
nel 52 Clodio rimase ucciso. C. si assunse la difesa di Milone, accusato di
avere ucciso il rivale. L'orazione composta da C. ("Pro Milone") è
considerata uno dei suoi capolavori, per l'equilibrio delle parti e
l'abilità delle argomentazioni, basate sulla tesi della legittima difesa e
sulla esaltazione del tirannicidio. C. davanti ai giudici, però, fece un
fiasco completo: gli cedettero i nervi a causa della situazione di estrema
tensione in cui si trovava la città e così Milone dovette fuggire in esilio.
- dopo la vittoria di Cesare, C. ne ottenne il perdono: nella speranza di
rendere il regime meno autoritario cercò forme di collaborazione e accettò
di perorare di fronte al dittatore le cause di alcuni pompeiani pentiti. Le
"orazioni cesariane" ("Pro Marcello".) si collocano tra il 46 e il 45 e sono
caratterizzate da un'abbondanza di elogi a Cesare la cui completa sincerità
è piuttosto difficile ammettere.
- dopo la morte di Cesare, per indurre il senato a dichiarare guerra ad
Antonio, C. pubblicò le "Filippiche" (44), in numero forse di 18.
*Retorica. Abbiamo visto in quale misura l'arte oratoria, in C., sia stata
legata all'azione; è chiaro, dunque, che nessuno meglio di lui era in grado
di elaborare una teoria romana dell'eloquenza, come mezzo di espressione e
come strumento politico. Le prime riflessioni al riguardo risalgono alla sua
giovinezza; ma, in quell'epoca, egli non ha ancora concepito il problema in
tutta la sua ampiezza.
- Ancora troppo vicino ai suoi maestri greci, per i quali l'eloquenza era
una "tecnica" fra le altre, aveva scritto un manuale scolastico, il "De
inventione".
- Solo nel 55, quando le circostanze lo sollecitarono a riflettere sulla
reale funzione dell'eloquenza all'interno della città, compose il "De
oratore", un'opera in forma dialogica, "platonica" ma con contenuti romani:
Crasso e Antonio sono i principali interlocutori. Il tema non è l'eloquenza
in quanto tale né le regole per praticarla, ma la persona stessa
dell'oratore, assunto come ideale civico e umano, uomo politico della classe
dirigente, guidato dalla "probitas" e dalla "prudentia": egli dovrà servirsi
della sua abilità non per scopi demagogici, ma per invogliare alla volontà
dei "boni". Il vecchio problema di Catone è riproposto in termini nuovi, ma
seguendo il medesimo spirito. Per C. l'oratore è un pensatore universale,
che deve conoscere a fondo tutto ciò su cui si può trovare in obbligo di
parlare (e in ciò C. si avvicina alle tesi di Platone), ma deve superare
anche tutte le tecniche particolari, essere un artista della parola per
persuadere con la grazia, e al tempo stesso essere un filosofo per scoprire
ogni volta le ragioni profonde delle cose.
IL I libro tratta così proprio della preparazione generale dell'oratore
(appunto soprattutto filosofica, con predilezione per la filosofia morale);
il II dell'invenzione, della disposizione, della memoria; il III della
elocuzione e dello stile.
- La riflessione di C. sull'eloquenza trovò espressione, in seguito, nel
"Brutus" (46), che è un quadro degli oratori romani dalle origini fino allo
stesso C.. Vi si combattono gli "attivisti", ma forse più correttamente si
prende una posizione intermedia tra quelli e gli "asiani", teorizzando, per
così dire, la duttilità "situazionale" dell'oratore.
- L' "Orator" (46), infine, è opera più tecnica, che affronta in modo tutto
particolare il problema del ritmo e dello stile nella prosa.
*Politica. C., sin dalla sua giovinezza, era stato attratto dalla filosofia.
Questa aveva nutrito la sua eloquenza. Quando l'attenuarsi forzato della sua
attività politica gli concesse qualche respiro, egli volle trasporre, nella
cornice della realtà romana, i dibattiti del pensiero filosofico greco.
Partendo dalle cose più urgenti, in una città in piena decomposizione
politica, scrisse
- il "De republica" (tra il 54 e il 52), in 6 libri, un trattato sullo
Stato, il cui proposito era ispirato dal celebre dialogo di Platone. Noi ne
conosciamo solo una parte (buona parte dei primi 2 libri e frammenti degli
altri), trasmessaci principalmente da un palinsesto scoperto nel 1822 da
Angelo Mai.
L'opera è, più specificamente, costituita da 3 dialoghi, tenuti in 2 giorni,
a ognuno dei quali sono dedicati 2 libri.
Delle tre forme di governo (monarchia, aristocrazia, democrazia) nessuna è
buona ed esaustiva per se stessa: ideale è la Repubblica romana, in cui
queste tre forme trovano giusto temperamento ed equa applicazione ("regime
misto") nella "collaborazione" tra consolato, senato e comizi (tuttavia, in
verità, viene preferita la repubblica aristocratica dell'età scipionica) [I
libro]; inoltre, la costituzione romana supera le altre perché non si deve
ad uno solo, ma è opera di più generazioni e di molti uomini d'ingegno [II
libro]. Nel III libro si disputa del fondamento della costituzione: se,
cioè, essa debba basarsi sulla giustizia o sull'utilità e sul diritto del
più forte. Argomento dei libri IV e V sono invece le istituzioni morali e
politiche, la scienza del governo e i doveri del "princeps" (ma il singolare
si riferisce piuttosto al "tipo" dell'uomo politico eminente: C. sembra
pensare più ad un'elite di personaggi eminenti che si ponga alla guida del
senato e dei "boni"), visto - utopisticamente - come un "dominatore asceta".
Infine, nel VI libro, si tratta della felicità riservata dopo la morte agli
uomini che hanno ben meritato della patria ("Somnium Scipionis").
- "De legibus" (52-?). Forse erano 6 libri, ma ce ne sono pervenuti 3, e per
giunta non interi.
C. tratta del diritto razionale e naturale, e del concetto di giustizia da
cui derivano le leggi. Esse hanno quindi in se stesse la ragione che vincola
l'uomo al loro rispetto. Nella pratica, C. trova che le "dodici tavole" sono
il plus non ultra (libro I). Negli altri 2 libri, è contenuta una serie di
prescrizioni religiose e civili, scritte nel latino arcaico della primitiva
legislazione romana.
Filosofia. Torna al sommario
- "Accademica" (45). E' un'opera dialogica composta in due tempi. C. compose
prima 2 dialoghi ("Catulus" e "Lucullus"), che rifuse, poi, in una II ed.,
in 4 libri con altri personaggi, Attico e Marrone.
A noi è pervenuto il II libro della I ed. ("Accademica priora") e il I -
incompleto - della II ed. ("Accademica posteriora"); vi si tratta del
problema della conoscenza secondo lo spirito della "nuova accademia": l'uomo
non può arrivare alla conoscenza, ma deve accontentarsi della
"verosimiglianza".
- "De finibus bonorum et malorum" (45). Dedicata a Bruto, è un'opera
dialogica in 5 libri, in cui appunto si tratta dell'essenza del sommo bene e
del sommo male.
In ordine a tale problema, è esposta nel I libro la teoria epicurea
(confutata nel II): sommo bene è la voluttà con i piaceri dello spirito,
sommo male il dolore; nel III è svolta la teoria stoica (confutata nel IV):
sommo bene è l'onesta e la sapienza. Il V libro contiene il pensiero di C.,
ed è un'esposizione delle dottrine accademiche e peripatetiche, secondo cui
il sommo bene si consegue solo vivendo secondo la legge naturale, che esige
la salvaguardia dell'animo mediante la virtù e quella del corpo mediante la
soddisfazione degli appetiti naturali.
- "Tusculanae disputationes" (45). Dedicato a Bruto, è un dialogo in 5
libri, uno per ogni giorno ambientato nella villa di Tuscolo.
Si segue il metodo accademico peripatetico di esame delle opinioni diverse,
dimostrandone la parziale falsità e ricavandone ciò che v'è di più
verosimile. Il problema è quello della felicità. Nei primi 4 libri si parla
di ciò che impedisce all'uomo di essere felice: il timore della morte (ma la
morte è un bene, che l'anima sia immortale o no, perché dà eterna
beatitudine); il dolore (il peggiore dei mali: ma la ragione lo sconfigge
con la sopportazione ed il "buon senso"); la tristezza ed i turbamenti dello
spirito (fondati su passioni e false opinioni, che la ragione però rimuove).
Il V libro mostra come la virtù sola basti alla vita felice, affrancando l'
uomo da timori, dolore e sofferenza; chi la possiede è forte, magnanimo,
impassibile, invincibile.
- "De officiis". Trattato dedicato al figlio Marco: i primi 2 libri trattano
"dell'onesto e dell'utile" (Panezio), il III del loro conflitto (Posidonio).
C. cerca, in definitiva, nella filosofia, i fondamenti di un progetto di
vasto respiro, indirizzato alla formulazione di una morale della vita
quotidiana che permette all'aristocrazia romana di riacquistare il controllo
sulla società.
- I 3 dialoghi di argomento religioso e teologico: "De natura deorum",
dedicato a Bruto, in 3 libri (nel I Velleio espone la dottrina epicurea sull
'esistenza degli dei e la loro natura; nel II L. Balbo espone la dottrina
stoica a riguardo: è il più interessante, in particolare per la parte che
descrive l'ordine e le bellezze dell'universo, concepito finalisticamente
come destinato al bene dell'uomo, secondo una Provvidenza invisibile, ma
indubitabile; nel III A. Cotta - alterego di C. - presenta una visione
scettico-razionalistica del problema: probabilismo applicato alla teologia,
senza il dogmatismo ateo degli epicurei o quello panteistico degli stoici);
"De divinatione", in 2 libri, sulla validità dell'arte divinatoria, che C.
considera un'impostura; "De fato", dove si esamina il problema del rapporto
tra fato e libero volere, e si espone una tesi - peraltro non originale -
contraria al fatalismo stoico.
- "Cato maior de senectute", dedicato ad Attico (44). Si finge che Catone il
censore, giunto in venerabile età, esalti alla presenza di Lelio e di
Scipione Emiliano, attraverso numerosi esempi, la saggezza e i beni
spirituali della vecchiaia: l'operosità non interrotta, l'integrità delle
forze e dello spirito, i godimenti spirituali non certo inferiori a quelli
dei sensi, la contemplazione serena della morte.
- "Laelius de amicizia" (44). Dinanzi a C. Fanno e M. Scevola, Lelio esalta
l'amicizia: il dialogo si immagina avvenuto in occasione della morte di
Scipione Emiliano. Viene affermato il valore morale dell'amicizia e si
sostiene che colui che intende l'amicizia in modo utilitario concepirà in
modo utilitario anche la morale, cioè non disinteressatamente (e questo in
polemica con gli epicurei).

*Epistolario. Si compone, nella forma in cui ci è tramandato, di 16 libri
"Ad familiares" (parenti e amici, dal 62 al 43 a.C.); 16 libri "Ad Atticum"
(il migliore amico di C.:68-44 a.C.); 3 libri "Ad Quintum fratrem" (dal 60
al 54) e 2 libri "Ad Marcum Brutum". Il tutto per un totale di 900 lettera
circa, in cui la varietà dei contenuti, delle occasioni e dei destinatari si
rispecchia fedelmente in quello dei toni. Si tratta - è bene sottolinearlo -
di lettere "vere", che perciò ci mostrano un C. "privato, un ufficiale",
nonché uno spaccato importantissimo (un documentario, quasi) della Roma del
tempo.
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*Poesia. Alcuni poemi: una traduzione in versi dei "Fenomeni" (poema
astronomico, d'ispirazione stoica, scritto dall'alessandrino Arato), un
poemetto epico dedicato alla vita e alle gesta del suo nobile concittadino
C. Mario ("Marius") e un poemetto, ancora, dedicato alla propria attività
nel periodo del consolato ("De consulatu meo"). Sono generalmente opere di
poco valore artistico, se non per la più mobile struttura dell'esametro.


Gaio Giulio Cesare
(Roma 100 ca. - 44 a.C.).

VITA.
Nacque da una famiglia di vetusta nobiltà; mostrò presto simpatia per il
partito democratico, cui era legato anche da vincoli familiari (ancora
giovanissimo sposò Cornelia, figlia di Cinna, luogotenente di Mario), e
durante la dittatura di Silla lasciò Roma per il servizio militare in Asia
Minore (81-78)..Quando tornò in patria, dovette sostenere le accuse di
concussione mossegli contro. In questo episodio, mise in luce la propria
grande arte oratoria, la freddezza e la compostezza. C. si adeguò subito
alla vita politica di Roma.
Nel 68 cominciò il "cursus honorum" in Spagna, come questore. Continuò poi
come edile, accattivandosi il favore del popolo con grandi feste e
spettacoli. Due anni dopo fu eletto pontefice massimo, la carica più alta
nel sistema religioso del periodo, molto legata alla vita politica. In
questi anni, fu spesso coinvolto in tribunale, per via della congiura di
Catilina, che proprio in quegli anni veniva sventata. Nel 62, ottenne la
carica di pretore; l'anno dopo, il governo della Spagna. In questo periodo
ripudiò la seconda moglie, Pompea, perché coinvolta in scandalo con Clodio.
Intelligentemente, trattò quest'ultimo con mitezza, mirando all'appoggio
politico che poteva trarne dall'amicizia. Nel 60, chiese al Senato la carica
di console, ma non gli fu accordata, per via del suo irriducibile nemico
Catone.
C., comunque, arrivò lo stesso al potere grazie a quella alleanza che in
seguito sarà definita come I triumvirato: strinse cioè un accordo del tutto
privato con Pompeo Magno, e Marco Licinio Crasso, personaggi potentissimi,
scontenti anche loro dell'atteggiamento del Senato nei loro confronti.
C. sposava in terze nozze Calpurnia, e contemporaneamente dava in isposa
Giulia, la proprio figlia, a Pompeo.
L'accordo portò i suoi frutti, e nel 59 C. fu eletto console. Da questo
momento in poi darà prova delle sue doti militari e politiche,
distinguendosi e superando qualsiasi rivale.
Proconsole delle Gallie nel 58, ne intraprese la conquista, terminata nel
51. Il conflitto col senato e l'aristocrazia romana e lo scontro con Pompeo
sfociarono (49) in guerra civile: vinti i pompeiani in Spagna e a Marsiglia,
C. raggiunse lo stesso Pompeo in Grecia, sconfiggendolo a Farsàlo (48) e
soffocandone definitivamente i focolai di resistenza.
Intanto, padrone assoluto di Roma, C. ricoprì - talora contemporaneamente -
dittatura e consolato.
Il 15 marzo del 44 veniva tuttavia assassinato da un gruppo di aristocratici
di salda fede repubblicana, preoccupati per le tendenze aristocratiche e
regali che C. andava assumendo.

OPERE.
* "Commentarii de bello Gallico". Sono 7 libri, uno per ognuno dei 7 anni
della guerra gallica, e cioè dall'inizio (58) alla presa di Alesia e alla
sconfitta di Vercingetòrige (52).
E' opera scritta "di getto", probabilmente fra il 51 e il 50 (ma c'è anche
chi pensa ad una scrittura graduale e contemporanea agli eventi), con grande
equilibrio e straordinario senso della storia.
Con quest'opera, C. intese evidentemente reagire alle critiche degli
avversari politici per i grossi sacrifici di sangue e di denaro che la
guerra aveva imposto: egli presentava così ai Romani la conquista della
Gallia come una necessità storica volta ad evitare che i Germani, passato il
Reno, invadessero la Gallia appunto. Completati dall' VIII libro, che copre
gli anni 52-51 ed è solitamente trribuito al generale Irzio, furono seguiti
dai
* "Commentarii de bello civili". Sono in 3 libri, e narrano i fatti degli
anni 49-48, dal passaggio del Rubicone (genn. 49) al principio della guerra
alessandrina (ott. 48).
Il tono, rispetto alla precedente opera, è più partecipe (arrivando
addirittura a sfiorare il satirico), anche per l'intento apologetico: C.,
difatti, vuole mostrarsi come colui che si è sempre mantenuto nella
legalità, e che anzi l'ha sempre difesa; insiste, con ciò, sulla propria
costante volontà di "pax"; mostra i propri esempi di "clementia"; e così
via.
Manco a dirlo, il destinatario della sua propaganda è lo strato "medio" e
"benpensante" dell'opinione pubblica.
Insomma, da una parte C. e dall'altra una classe dirigente ormai indegna di
governare: Questa contrapposizione tra il vecchio e il nuovo è il fulcro
centrale di questa entusiasmante opera storico-narrativa, ed è anche la sua
chiave d'accesso. E' lui, infatti, C., l'esecutore di un processo storico
rivoluzionario, che senza alcun dubbio comporterà il superamento dell'
oligarchia-senatoria a vantaggio del popolo romano.
Certamente, essendo stata scritta da C. stesso, l'opera non può essere
imparziale, tuttavia nessuno può mettere in dubbio la sua grandezza e la sua
sincerità. Egli, infatti, è sincero quando condanna la guerra civile e ne
attribuisce la colpa a Catone e agli ottimati, perché loro e non Pompeo
erano i veri colpevoli. Loro avevano infangato la sua dignitas, loro con il
senatus consultum ultimum avevano vietato ai tribuni il diritto ad esporre
il veto. C. non voleva la guerra civile. Se così non fosse come si
spiegherebbe il suo comportamento nei confronti degli avversari? Non c'è
stato un combattimento, poiché il suo scopo era far arrendere l'avversario e
non distruggerlo, e ciò avviene soprattutto nella guerra di Spagna contro
Afranio e Petreio e nei primi anni della guerra contro l'esercito di Pompeo.
Come spiegare allora la clemenza di C. nei confronti dei vinti? E come
possiamo spiegare la mancanza nell'opera di frammenti e di riferimenti
riguardanti l'attraversamento del Rubicone? Inoltre dalla lettura viene
fuori anche un grande amore di Cesare per i suoi soldati, tanto grande non
fargli citare mai nell'opera l'ammutinamento della nona legione a Piacenza.
Egli, poi, non parla mai di hostes, ma di adversarii, perché gli hostes non
possono essere cittadini romani Nella sua opera non c'è odio, né nei
confronti di Catone e degli ottimati, né nei riguardi di Pompeo. Quest'
ultimo si rammaricava di non essere cittadino romano ed era geloso dei
successi di C., che offuscavano il suo nome. C. definiva Cnaeus Pompeius
Magnus, come un uomo che aveva sbagliato i calcoli e che si era fatto troppo
entusiasmare dagli ottimati e dal desiderio della dittatura, ma egli stesso
sapeva benissimo che era anche il solo in grado di poterlo valutare e di
poter comprendere il suo vero ideale politico. C. non commenta la morte di
Pompeo, la narra e nel suo silenzio c'è angoscia. L'opera termina con l'
assassinio di Potino, ordinato da C. per vendicare il grande Pompeo.
* Il già citato Irzio par essere autore anche del "Bellum Alexandrinum"
(sull'omonima guerra, 48-47).
* Infine, del "Corpus Caesarianum" fanno parte anche un "Bellum Africanum"
(in "sermo vulgaris") e un "Bellum Hispaniense", in cui scrittori di molto
minore levatura, forse essi stessi generali di C., narrano le guerre d'
Africa e di Spagna (46), appunto.
* Altre opere (purtroppo perdute): l' "Antìcato", 2 libri in polemica con l'
elogio di Catone fatto da Cicerone; il "De analògia", un'opera grammaticale
in 2 libri, che interveniva nella controversia fra "analogisti" e
"anomalisti" sul problema della natura delle lingue (queste, ci si chiedeva,
erano sottoposte a regole razionali - quelle dell' "analogia" - o potevano
essere oggetto di creazioni arbitrarie, "senza leggi" - anomale - secondo la
fantasia degli scrittori? C., da buon atticista, propendeva per la stretta
disciplina e per la purezza della lingua: per lui il linguaggio si
costruisce mediante una selezione naturale-razionale-sistematica); l'
"Iter", poemetto a memoria del viaggio fatto da Roma in Spagna; le celebri
"Epistulae"; le altrettanto note "Orationes", in cui raggiunse - secondo i
contemporanei - un notevole grado di maestria.

CONSIDERAZIONI.
Nei suoi "Commentarii", C. si propose di fornire materiali agli storici per
stendere un'opera criticamente valida; smentì, del resto, di voler fare un'
opera d'arte, limitandosi a descrivere le vicende di cui fu protagonista e
testimone, e spiegando, senza mezzi termini, le ragioni del suo
comportamento militare e politico. E' da dire, comunque, che sotto questa
impassibilità, la critica recente ha tuttavia ritenuto di scoprire
interpretazioni tendenziose e deformazioni quasi "subliminali" degli
avvenimenti, a fine di propaganda.
Comunque, proprio il suddetto presunto proposito di verità, nonché la
semplicità stilistica, conferiscono a tali opere bellezza, dignità ed
eleganza, frutto anche di lunga consuetudine di studio.
Lo stesso titolo di "Commentarii" può significare che si tratta di un libro
di memorie o di appunti presi giorno per giorno; il titolo quindi accentua
il significato di diario che riporta il nudo tessuto degli avvenimenti.
Sulla traccia del greco Senofonte, poi, C. racconta i fatti in terza
persona, al fine di attribuire il massimo di oggettività agli avvenimenti
narrati e ai suoi comportamenti; da questo scrupolo dell'oggettività è
derivato il rifiuto di inserire lunghi discorsi in forma diretta, così cari
agli storici antichi.
Accanto al valore storico non si può dimenticare, infine, il grande valore
artistico dei Commentarii cesariani, che in tutti i tempi hanno costituito
un testo base per lo studio della lingua latina. "Nudi sono - dice
Cicerone - schietti e semplici questi Commentarii, che, pur essendo privi di
ogni ornamento, sono pieni di grazia". Non minori sono gli elogi tributati
all'opera dagli studiosi moderni. Il Marchesi afferma che nessuno degli
antichi seppe scrivere un opera "dove siano adoperate meno parole per dire
tutto, dove tutte le cose più complicate siano espresse con così sobria e
precisa chiarezza da sembrare disegnate". La narrazione è condotta in modo
personalissimo e sempre fresco e non viene mai appesantita dall'
autocelebrazione.
Sul piano strutturale dell'intera opera, ogni elemento linguistico punta
direttamente a mettere in mostra la figura dello scrittore, che è insieme
demiurgo-ordinatore di ogni azione; autore-narratore di ogni piano e di ogni
progetto; attore-protagonista di ogni scena ideata e realizzata. Una
preziosa spia, in tal senso, è il fatto che il racconto è sapientemente
riportato in terza persona e in essa il nome di Caesar oppure, in sua vece,
is o ipse appare quasi in ogni capitolo. Prevale nella narrazione spesso
anche la prima persona plurale (nostri, nostrum, nostrorum): e ciò sia per
mettere sempre in prima linea la persona dell'autore sia per coinvolgere,
per quanto su un piano inferiore a quello del comandante, gli attori
secondari del racconto, che sono, poi, sempre "i soldati di Cesare". Ad essi
si contrappongono, nella veste di soggetti passivi, oggetto del racconto, i
nemici, che, nel De bello gallico sono i barbari con i loro vari nomi, nel
De bello civili, invece, sono gli oppositori politici dello scrittore,
anch'essi puntualmente individuati.
Naturalmente, alcuni di questi nemici hanno una grande personalità (ad
esempio, Vercingetorige nel De bello gallico e Pompeo nel De bello civili),
tuttavia nessuno di essi sopravanza la statura del narratore, che tutti è
riuscito a superare. In questo contesto ha molta importanza, quindi, mettere
in evidenza i termini del linguaggio che esprimono le azioni continue e
turbinose della guerra, quali siano soprattutto i verbi: attraverso i loro
significati è facile cogliere l'intima ansia dello scrittore, che pone su un
versante i predestinati, i privilegiati, i vincitori, ossia quelli della sua
parte; sul versante opposto, invece, egli colloca i nemici, tutti destinati
alla sconfitta. Gli scenari delle battaglie vengono concepiti sempre come
degli immensi palcoscenici, in cui le azioni del regista-attore vengono
scandite appunto dall'uso dei tempi del verbo, in cui prevale il presente
storico, che consente allo scrittore, da un parte, di vivacizzare il
racconto, suscitando l'attenzione del lettore, dall'altra, di
"rappresentare" gli eventi narrati. Non mancano il perfetto e 1'imperfetto,
ma ciò avviene con minore frequenza e il loro uso è subordinato alla volontà
del narratore di frapporre una netta separazione tra se stesso e la
narrazione.
Sul piano stilistico a C. vengono concordemente riconosciute dalla critica
le seguenti qualità: la chiarezza (=perspicàitas), ossia un procedimento
lineare e terso, alieno da ogni pensiero contorto e involuto; la brevità (=
brevitas), che mira all'essenzialità e alla rapidità; l'assenza di ornamenti
superflui, come bene intuì Cicerone, quando definì nudi i Commentarii
cesariani; l'eleganza del dettato (= urbanitas), al punto che pochi sono gli
scrittori dell'intera latinità che possano gareggiare con 1ui in purezza e
proprietà di linguaggio; sotto questo punto di vista, egli incarnò quel puri
sermonis amator, che, in uno scritto minore, aveva vista realizzato nel
poeta comico Terenzio; infine, l'armonia e simmetria dei costrutti, che gli
antichi (con Cicerone che ne fu il massimo maestro) chiamavano concinnitas.
Sul piano lessicale, inoltre, C. lascia da parte la tendenza all'arcaismo e
compie determinate scelte sui vocaboli, senza preoccuparsi se poi ciò
causerà molte ripetizioni. Infine, sul piano sintattico, egli predilige la
paratassi all'ipotassi, soprattutto per motivi di chiarezza, e riesce a
costruire sempre dei periodari lineari e lucidi.


Cornelio Nepote
(Gallia Cisalpina 99 ca - ? 24 ca a.C.)

*N. è autore della più antica raccolta di biografie latine giuntaci: il "De
viris illustribus" (34 a.C.), almeno 16 libri di vite di generali, storici,
poeti e oratori latini e stranieri (raggruppati secondo le "categorie
professionali"), con una trattazione parallela derivata forse dalle
"Imagines" di Marrone e ripresa, in seguito, nelle "Vite" di Plutarco.
Dell'opera ci restano numerosi frammenti: 2 vite (Catone il Vecchio e
Attico) del "De historicis latinis" e l'intera sezione "De excellentibus
ducibus exterarium gentium" (22 biografie).
E' chiaro l'intento dell'autore di fare del genere letterario della
biografia il veicolo di un confronto sistematico fra civiltà greca e romana,
evidentemente senza adombramenti nazionalistici (si tratta di un caso di
"relativismo culturale"?)
*Altre opere (perdute): "Cronica", storia universale in 3 libri, forse in
prosa, in cui già affiorava l'esigenza di un confronto tra la civiltà romana
con le altre; "Exempla", aneddoti e curiosità storiche e geografiche in 5
libri; "Vite" più ampie di Catone e di Cicerone.
*N. è un improvvisatore, e cita le sue fonti spesso senza averne conoscenza
diretta e senza controllarne il valore: le sue biografie appaiono piuttosto
panegirici moraleggianti che ricerche critiche, e ci danno informazioni
preziose solo nelle descrizioni d'ambiente.


G. Sallustio Crispo
(Amiterno, Sabina, 85 - Roma 35 o 36 a.C.)

VITA.
S. nacque da famiglia pebea. Compì i suoi studi a Roma, venendo a contatto
con lo studio neopitagorico di Nigidio Figulo. Partecipò anche alla vita
mondana della capitale. Politicamente si affiancò a Cesare. Per questo suo
impegno ottenne la carica di questor nel 54. Questo fu un anno molto
turbolento per la politica romana: vi fu l'uccisione di Clodio, un demagogo
del popolo, ad opera di Milone. S. si schierò decisamente contro
quest'ultimo e anche contro Cicerone, suo difensore. Nel 50 fu espulso dal
senato per immoralità (aveva infatti una relazione con Fausta, figlia di
Silla e moglie in seconde nozze con Milone). Durante le guerre di quel
periodo fu fedele a Cesare, aiutandolo anche alle operazioni militari in
cui, però, non risultò sempre vincitore.
Nel 48 riottenne la questura, la dignità senatoria. Alla fine del 47 seguì
seguì Cesare in Africa, e portò a compimento una operazione militare,
conquistando l'isola di Cercina. A seguito di questo successo, Cesare gli
affidò il compito di governatore della cosiddetta Africa Nuova, costituita
dal vecchio regno numidico di Iuba. Nei mesi di governo potè accumulare
notevoli ricchezze che gli permisero, dopo la morte di Cesare ed il suo
ritiro dalla vita pubblica, nei celebri "Horti Sallustiani", di vivere in
ricchezza componendo le sue opere.

OPERE.
Di S. abbiamo:
*due monografie:
- "De coniuratione Catilinae" (42?): con essa, lo storico interrompe la
tradizione annalistica e si occupa di un episodio di storia contemporanea -
appunto la congiura e il moto del 63-62 - facendovi precedere un'analisi
della condotta cesariana del 66-63, vista come unica valida alternativa al
corrotto "regime dei partiti", con riflesso sulle sue scelte politiche.
Tutta la prima parte dell'opera è, praticamente, un'analisi e un'esegesi
dell'inquietante fenomeno rivoluzionario, alla luce di categorie storiche,
morali e psicologiche. Ne risulta perciò un quadro fosco, ma estremamente
vivace, di una società profondamente corrotta, su cui campeggia come figura
dominante Catilina, intelligente, coraggioso e malvagio. Accanto a lui,
altri personaggi "studiati" con eguale interesse: i congiurati, Sempronia,
Cicerone (per quanto ridimensionato) e soprattutto Cesare e Catone (visti
come entrambi positivi - direi "complementari" - per Roma: uno con la sua
liberalità, munificenza e misericordia; l'altro con la sua integritas,
severitas, innocentia.)
Come si vede, il metodo adottato nell'analisi è moralistico: S. ritiene che
l'antica grandezza della repubblica fosse garantita dall'integrità e dalla
virtù dei cittadini, e vede nel successo, nella ricchezza e nel lusso le
cause della decadenza e la possibilità di tentativi come quello di Catilina.
- "Bellum Iugurthinum" (40 ca): narra, in 114 capitoli, la guerra combattuta
dai romani (111-105 a. C.) contro appunto Giugurta, re di Numidia.
Ma anche qui il taglio è politico: se infatti, da una parte, S. si dimostra
capace di forti sintesi storiche, dall'altra rivela vigore polemico nel
denunciare l'incompetenza della nobilitas nella conduzione della guerra, e
la sua corruzione generale; nel valorizzare le ragioni espansionistiche
della classe mercantile; nell'auspicare la nascita di una nuova
aristocrazia, fondata sulla "virus" (a tal proposito, si ricordi il
riportato discorso di Mario).
*le "Historie" di cui abbiamo un numero abbastanza cospicuo di frammenti di
5 libri e alcuni discorsi. Esse riprendono e sviluppano le Historiae di
Sisenna, andando dalla morte di Silla (78) alla guerra di Pompeo contro i
pirati (67). Dai frammenti, si evince che S. era ritornato all'annalistica e
che il suo pessimismo si era, se possibile, acuito.
*Oggi non conosciamo più la sua traduzione dei poemi di Empedocle (ammesso
che l' "Empedoclea" di cui parla Cicerone in una lettera, sia davvero opera
sua). A lui si attribuiscono anche 2 epistole politiche a Cesare su un nuovo
ordinamento dello stato; quasi sicuramente spuria è invece un'invettiva
contro Cicerone, di scuola retorica.

CONSIDERAZIONI.
*S., dunque, scelse i temi delle sue due "monografie" con intenti ben
precisi: mostrare in che modo un regime aristocratico, quale quello
instaurato dopo la sconfitta dei Gracchi, fosse andato progressivamente in
rovina. La prima delle cause era da ricercare negli scandali che avevano
accompagnato la guerra contro il re numida Giugurta, e che avevano messo in
luce i compromessi e la corruzione di quegli stessi uomini che, nel senato,
erano i responsabili della politica romana: la stessa personalità
universalmente rispettata di Metello, cui si era finito per dare il carico
della guerra, non bastò a impedire l'ascesa di C. Mario, al quale il popolo
affidò l'incarico di porre termine a una guerra quasi conclusa da Metello,
raccogliendone i frutti della gloria. Questo episodio aveva segnato, in
effetti, l'inizio delle guerre civili, che dovevano provocare le smisurate
ambizioni dello stesso Mario. La "Congiura di Catilina", mettendo in luce i
crimini di cui erano stati complici un pugno di aristocratici, esaminava, a
sua volta, le cause morali di tale decadenza: gusto del piacere, corruzione
dei costumi, sfrenata avidità di denaro.
Dunque, S. considerò la storiografia - ritenuta comunque inferiore alla
politica - non solo come cronaca di fatti, ma anche come "archeologia", cioè
come ricerca delle loro cause: essa quindi tende a configurarsi come
indagine sulla crisi, e l'impostazione monografica (una novità quasi
assoluta) ben si prestava alla messa a fuoco di un periodo o problema
storico (analizzato da S. a partire comunque e sempre da un moralismo di
fondo).
Il quadro che lo storico dipinge è già quasi degno di Tacito. S. scrive
queste pagine dopo la rivoluzione guidata da Cesare (senza dubbio dopo la
morte dello stesso Cesare), e dopo che il mondo da lui evocato si è già
definitivamente dissolto sul campo di battaglia di Farsàlo.
S. non è un "democratico" che rivendica al popolo una parte di potere. Come
i suoi predecessori, da Catone a Cicerone, è l'avvocato dei valori morali
essenziali, un adepto di quel "conservatorismo intelligente" che è il solo a
poter salvare Roma. E' il programma che Augusto riprenderà alcuni anni dopo.
*Un'altra caratteristica dell'opera di S. è la consapevole originalità del
suo stile, nel quale si giustappongono ricercati arcaismi e ardite
innovazioni ("arcaismo innovatore"), termini presi dal linguaggio familiare
ed ellenismi. Egli vuole, innanzitutto, dare un'impressione di vita, in
virtù di un periodo serrato e vibrante, di scorci rapidi e di giri
sintattici "atemporali" (è la famosa "inconcinnitas" sallustiana), come
l'impiego ripetuto di ellissi, dell'infinito narrativo o lo sviluppo
sistematico di proposizioni participiali che costituiva, tra l'altro, uno
dei tratti caratteristici e di maggior rilievo dello stile narrativo dei
greci. Questa lingua composita suscita oggi l'impressione di una certa
artificiosità.
Rimane lontana da quella "naturalezza" ciceroniana che ci è familiare, da
quello sviluppo logico del pensiero in periodi analitici, dove l'idea è
situata al centro del suo contesto di cause e di circostanze, e dove il
ritmo accompagna e prelude ogni volta il precipitare della frase. Non
dobbiamo credere, tuttavia, che il periodo ciceroniano fosse più vicino alla
lingua parlata e la frase di S., invece, la libera creazione di un artista.
La lingua quotidiana si collocava, in realtà, alla medesima distanza sia
dall'uno che dall'altra. Per sua natura, non era né periodizzata né ritmata.
Ma neppure disponeva delle molteplici risorse che S. mette insieme.

Continua>