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LETTERATURA LATINA

LETTERATURA LATINA - TERZA PAGINA

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Publio Virgilio Marone
(Andes, 15 ott. 70 - Brindisi, 22 sett. 19 a.C.)

VITA.
*Le scuole. V. nacque in un piccolo villaggio nei pressi di Mantova, da una
oscura famiglia di coltivatori, appartenente alla piccola borghesia locale,
romanizzata piuttosto di recente. La sua figura è profondamente
contrassegnata dall'infanzia trascorsa in quel paesaggio fresco e pacifico
situato sulle rive dei Mincio, dove l'allevamento del bestiame e la
coltivazione dei campi erano le risorse dominanti, e dove la sua famiglia
possedeva una tenuta.
La sua formazione ebbe inizio a Cremona, dove frequentò la scuola di
grammatica, e dove, a quindici anni, prese la toga virile.
Da Cremona si trasferì a Milano e poi nuovamente a Roma, alla scuola del
retore Epidio, esponente dell'indirizzo asiano, così chiamato perchè di moda
in Grecia, uno stile oratorio ricco e brillante, in netto contrasto con lo
stile semplice degli oratori classici. Epidio, inoltre, annoverava tra i
suoi discepoli i giovani che sarebbero diventati gli elementi di spicco
della futura classe dirigente di Roma, fra cui Marco Antonio e Ottaviano.
V., tuttavia, schivo per natura, non aveva talento oratorio, nè intendeva
perseguire la carriera forense. Abbandonò così la retorica per dedicarsi
agli studi filosofici, e in particolare all'Epicureismo, che approfondì a
Napoli alla scuola di Sirone. Qui divenne intimo amico di Vario Rufo e
Plozio Tucca, che saranno poi i curatori della prima edizione dell'Eneide.
Il periodo della sua formazione è dominato, sul piano letterario, dalle
personalità di Catullo e di Elvio Cinna (del quale scriverà un elogio
discreto nella IX Egloga), e dall'astro nascente di C. Gallo, della sua
stessa età. Sedotto e affascinato da questo ambiente, V., quasi certamente,
scrive in questo periodo almeno alcune delle composizioni che entreranno a
far parte della raccolta oggi conosciuta col nome di "Appendix Vergiliana"
(letteralmente: "Aggiunta a V."), nella quale poemi autentici convivono con
pastiches di origine incerta.
*La perdita delle terre. Dopo la morte di Cesare, fra il 44 ed i primi mesi
del 43, V. fece ritorno ad Andes, dove ritrovò l'amico della sua giovinezza,
Asinio Pollione, che ricopriva l'incarico di distribuire le terre ai
veterani.
Grazie a lui, uomo sensibile alle arti ed alla cultura, il poeta potè in un
primo tempo sottrarre le sue terre all'esproprio: tuttavia, un anno più
tardi, mentre era impegnato nella composizione delle "Bucoliche", i suoi
campi di Mantova furono assegnati ai soldati di Ottaviano, per i quali si
era rivelato insufficiente il territorio di Cremona. V. non dimenticò mai il
dolore causato dalla perdita della sua terra, per la quale sentì sempre una
viva nostalgia.
*Il trasferimento a Roma. Perdute le sue terre nel mantovano, V. si trasferì
a Roma, dove pubblicò le "Bucoliche", composte dal 42 al 39 a.C..
L'anno successivo entrò a far parte del circolo letterario di Mecenate.
Catullo e Lucrezio erano morti da poco e soltanto la poesia alessandrina,
coltivata da Cornelio Gallo, conservava ancora un certo splendore, mentre
Orazio, che V. stesso presentò a Mecenate, iniziava allora a scrivere le
satire. Mecenate ed Ottaviano, il suo referente politico, offrirono a V. una
casa a Roma, nel quartiere dell'Esquilino, ma il poeta spesso preferiva
ritirarsi a sud verso il mare ed il sole, mentre si dedicava alla
composizione delle "Georgiche", compiuta in sette anni, durante un soggiorno
a Napoli, fra il 37 ed il 30.
Le "Georgiche" diedero a V. la fama e suscitarono l'ammirazione di Mecenate,
che gli era stato particolarmente vicino nelle varie fasi della
composizione.
Si presume, in realtà, che V. fosse istintivamente un "cesariano". D'altro
canto, l'epicureismo invitava i suoi adepti a non occuparsi di politica, ma
ad accettare, a cuor contento, un padrone che assicurasse la pace.
*L' "Eneide". Nell'estate del 29 Ottaviano, tornato dall'Asia dopo la
vittoria conseguita ad Azio su Antonio e Cleopatra, si era fermato ad Atella
per riprendersi da un mal di gola. Là V. gli lesse per quattro giorni di
seguito i libri compiuti delle "Georgiche", aiutato da Mecenate, che lo
sostituiva nella lettura quando era stanco.
Dopo questo episodio, certo non senza un suggerimento da parte dello stesso
Augusto, V. fu scelto quale cantore del nuovo impero e del nuovo principe.
Da questo momento fino alla fine della vita V. attese all' "Eneide", un
poema epico sulle origini di Roma. V. aveva nella tradizione letteraria
latina predecessori illustri nell'ambito di questo genere letterario, ma l'
"Eneide" si richiamava più da vicino al modello omerico. Il poema era stato
inizialmente concepito come una narrazione allegorica delle imprese di
Ottaviano, ma il poeta cambiò idea ed il poema storico venne sostituito dal
poema epico sulle vicende di Enea, progenitore dei Romani.
Ancora tre anni dopo l'inizio della stesura dell'"Eneide", V. scriveva ad
Augusto che il poema era solo "incominciato" e ci vollero ancora tre anni
perchè la prima redazione dell' "Eneide" fosse terminata. Nel 22 V. lesse
all'imperatore alcuni canti del poema, ma non si trattava ancora della
stesura definitiva.
*Il viaggio in Asia. Nel 19 a.C. V. partì per un lungo viaggio attraverso la
Grecia e l'Asia allo scopo di arricchire la propria cultura e, nello stesso
tempo, verificare la topografia dei luoghi descritti nel poema. Ad Atene il
poeta incontrò Augusto, di ritorno dalle province orientali. Questi, notate
le sue precarie condizioni di salute, lo persuase a tornare in Italia. V.,
che aveva appena visitato Megara sotto un sole cocente, era estenuato ed il
suo stato si aggravò durante la traversata verso le coste italiane. Sbarcato
a Brindisi, il poeta era in fin di vita, ma prima di morire chiese il
manoscritto dell' "Eneide", ancora incompiuta, per bruciarlo. Gli amici non
gli ubbidirono.
Il corpo di V. fu trasferito a Napoli e sepolto sulla via di Pozzuoli. Suoi
eredi furono Augusto e Mecenate, che diede incarico a Vario e Tucca di
pubblicare l'Eneide.

OPERE.
Le "Bucoliche".
*Le "Bucoliche" sono un'opera d'ispirazione alessandrina, composta da X
egloghe (cioè "poesie scelte"), in esametri, di cui alcune sono
lirico-narrative, altre in forma dialogica, distribuite non nella
successione cronologica della loro stesura, ma con un ordine d'intento
letterario (numerosi i rimandi, i parallelismi, le simmetrie). Questo il
contenuto:
*Ecloga I: d'intonazione forse autobiografica. Il dialogo tra i due pastori
Titiro (V.?) e Melibeo avviene nella cornice della campagna mantovana.
Melibeo è triste perché ha perduto i suoi beni; Titiro è invece sereno,
perché un giovane a Roma (Ottaviano?) gli ha concesso la libertà personale e
il possesso della sua terra.
Ecloga II: è il lamentevole soliloquio di Coridone innamorato di Alessi.
Ecloga III: Da meta e Menalca si sfidano in una gara d'abilità nel canto.
Ecloga IV: è del tutto singolare e non ha nulla di bucolico. Scritta nel 40,
quasi profetizza la palingenesi del mondo e il ritorno all' "età dell'oro",
che inizierà con la nascita di un bambino, sotto il consolato di A. Pollione
(e ricordiamo la strumentalizzazione ideologica che di questi passi ha fatto
il Cristianesimo, ritenendo addirittura d'individuare in V. il profeta dell'
avvento messianico).
Ecloga V: due pastori, il cantore Menalca e il suonatore di zampogna Mopso,
uno dopo l'altro, cantano in onore di Dafni, ucciso crudelmente. Mopso ne
canta la morte, l'altro l'apoteosi.
Ecloga VI: è trattata l'origine del mondo secondo la dottrina di Epicureo.
Il cantore è il vecchio Sileno che due giovani hanno sorpreso ubriaco e
hanno legato.
Ecloga VII: Melibeo, trattenuto da Dafni, assiste ad una gara poetica tra
Coridone e Tirsi.
Ecloga VIII: presenta il canto mattutino di due pastori, ed è imitata quasi
interamente da un modello di Teocrito. E' dedicata a Pollione, che ritorna
vittorioso dalla Dalmazia.
Ecloga IX: d'intonazione forse autobiografica. Menalca (V.?) è stato
cacciato dai suoi beni e anulla sono valsi, né varranno, i suoi canti.
Ecloga X: è dedicata a C. Gallo, confortato perché l'infedele Licoride l'ha
lasciato.
*V. riprende il genere reso illustre da Teocrito (III a.C.), che a Roma non
aveva ancora trovato dei continuatori, ma lo rifonde in una trama di
rapporti talmente complessa che la nuova opera sta alla pari col modello. I
temi riconducono ad un ambiente pastorale, che manca tuttavia di ogni
connotazione realistica, e appare come un'elaborata e stilizzata
costruzione: a cantare sono gli stessi personaggi, pastori, mandriani,
butteri. Ma sullo sfondo si intuisce tutto un complesso di allegorie e di
significati riposti, che ripetute volte si è tentato di penetrare,
probabilmente invano. Non è forse Cesare il Daphnis di cui la V Egloga canta
la divinizzazione? E' verosimile, ma in nessun modo dimostrabile. E il
Sileno della VI, che fa pensare a Lucrezio, ma anche ad altri poeti
contemporanei, e persino a Sirone, l'amato maestro, chi nasconde sotto il
suo travestimento? Un personaggio definito oppure un aspetto, un volto della
poesia?
Ma forse, gli avvenimenti e i personaggi non devono essere considerati, fino
in fondo, allegorie di fatti storici e/o autobiografici e di persone reali,
bensì piuttosto simboli della condizione umana in essi rappresentata: la
tensione poetica deriva, infatti, dallo scontro fra l'arcadica perfezione di
quel mondo e la realtà effettiva, che in vari modi - e spesso
gratuitamente - tenta d'insidiarlo, dandosi essa sotto il dolore e gli
sconvolgimenti provocati dall'esilio, dalla morte, dalla passione.
*La raccolta fu pubblicata quasi certamente negli ultimi mesi dell'anno 39,
momento in cui tutto sembrava sorridere ai triumviri, dopo la firma della
pace con Sesto Pompeo che aveva fino ad allora affamato Roma con le sue
flotte. Le "Bucoliche" respirano perciò, in genere, un'atmosfera serena, e
rendono omaggio a quel "giovane dio", simile all'Apollo onorato dai pastori,
nel quale è facile riconoscere Ottaviano.

Le "Georgiche".
*Il poema delle "Georgiche", composto tra il 37 e il 30 a.C., in 2183
esametri, si riallaccia alla poesia della natura che è nelle "Bucoliche", ed
è inoltre preludio al canto delle virtù umane, che sarà nell' "Eneide".
Si dice che V. lo scrivesse su invito di Mecenate, che si faceva interprete
del programma di risanamento morale di pace e di lavoro formulato da
Augusto, cui realmente stava a cuore la ripresa dell'agricoltura. Ma ciò che
più conta è che l'opera risponde alle vere aspirazioni del poeta.
*Scegliendo questa tematica, affrontata in altri tempi da Esiodo nel poema
"Opere e giorni", V. rimaneva nell'ambito dello spirito alessandrino, che
considerava Esiodo uno dei poeti più alti, forse superiore allo stesso
Omero. Per di più, V. vedeva nel suo progetto (com'egli stesso
orgogliosamente affermerà) la possibilità di annettere una nuova regione
poetica alle lettere latine. Le sue convinzioni epicuree, infine (forse già
un po' scosse, ma delle quali sarebbe impossibile dubitare), lo portano a
emulare Lucrezio in un'epopea consacrata allo spettacolo del mondo e alle
attività umane.
Il mondo dell'Arcadia, che era fittizio, e che escludeva, a dispetto delle
apparenze, l'urgenza del mondo della realtà, lascia il posto ad un mondo
soltanto o prevalentemente reale: mondo di cose comuni, di uomini vivi di
lavoro aspro, di attività creativa che le immaginate favole del mito e le
invenzioni letterarie anche qui inserite a trapuntare il tessuto narrativo e
didascalico non solo non annullano, ma anzi rilevano.
*Nelle "Georgiche" si registra però il miracolo del superamento dei modelli
grazie al dolore che connota l'intero poema. Qui il dolore non si mostra
come generato dall'ingiustizia sofferta quale destino ineluttabile, superato
o stemperato in dolce malinconia per mezzo dell'evasione in Arcadia; ma è
dolore esistenziale intuito e scoperto nel quotidiano vivere dell'uomo nel
suo contrasto con le avversità atmosferiche, che rovinano i seminati. Tale
condizione esistenziale non consente evasioni; anzi resta come il segno
vistoso della risoluzione in senso drammatico del sogno idillico delle
Bucoliche.
V. "vede l'uomo nella sua funzione di trasformatore" (Ferrero). L'uomo è
capace di vincere le avversità, di correggere gli errori di trovare rimedio
ai mali grazie al suo impegno costante nel lavoro: il lavoro procura lo
sviluppo civile, sorregge i legami della società, le istituzioni, i costumi.
I Romani, abituati a concepire la fatica dei campi nei termini del loro
caratteristico utilitarismo, con il poema virgiliano scoprono gli aspetti
autenticamente morali dell'agricoltura. Per tutte queste ed altre ragioni l'
intento didascalico dell'opera, che voleva rispondere all'invito di
Mecenate, il committente affabile ma esigente, non risulta affatto
fondamentale, tant'è che non è difficile scoprire che i consigli e gli
ammaestramenti dati dal poeta ai contadini non sono tutti o in tutto
realizzabili né tutti opportuni o logici in senso strettamente pratico.
*Il destinatario delle "Georgiche" dal punto di vista del contenuto tecnico
è il contadino; ma badando al livello artistico e alla perfezione formale,
che è frutto di eccezionale cultura e porta i segni di una faticosa
elaborazione, per la quale lo stile medio del poema didascalico si eleva al
piano dello stile sublime dell'epica, il pubblico di lettori ideali a cui il
poema si rivolge è il pubblico urbano al quale si adatta il contenuto etico
generale, ispirato al programma augusteo volto al recupero dei sani costumi
e alla stabilità delle condizioni di pace.
Ma invero, nel suo poema V. cerca di dimostrare una verità che non rientra
nell'ordine della politica. Mette a confronto l'uomo e la natura, e dimostra
che quest'ultima è, per eccellenza, l'ambiente fisico e morale suscettibile
di condurre l'uomo a una felicità abbastanza prossima a quella predicata
dagli epicurei. Tuttavia, a poco a poco, V. è trascinato a rompere gli
schemi un po' angusti dell'epicureismo, quasi che lo spettacolo e la
meditazione dei grandi momenti della "Natura" gli rivelassero, in essa, la
presenza degli dèi. Lo fa dapprima attraverso un mito, che mostra come Giove
abbia in realtà "dissimulato" negli oggetti ciò che l'uomo deve cercarvi: il
fuoco nelle vene silicee o nel legno dei rami, il ferro nelle viscere delle
montagne, imponendo così la legge, moralmente salutare, del lavoro. Se in
Venere, simbolo della "voluttà", Lucrezio aveva visto, in modo analogo, il
motore del mondo, in V. il mito s'ingrandisce fino a dominare. La divinità
si trasforma nell'aspetto "oggettivato" della sensibilità del poeta stesso,
che si compiace nell'evocare le realtà religiose dell'esistenza rurale. Il
calendario del rituale romano riprende il suo primitivo valore a contatto
con la realtà fondamentale della terra.
*V., superate le strutture stilistiche delle "Bucoliche", ha modellato le
nuove forme, apprestandosi a foggiare quelle, più complesse e più varie, se
non ugualmente sempre perfette, dell' "Eneide". Ma forse soltanto nella
tristezza che ispira le conclusioni di tutti e 4 i libri può rintracciarsi
la prova del preciso disegno architettonico dell'opera.
Certo è che ognuno dei libri ha una sua tematica distinta, una sua autonomia
che si rivela anche per mezzo del particolare proemio che lo introduce:
Libro I: Dopo il proemio generale, la dedica a Mecenate e l'invocazione alle
divinità protettrici, prende in esame la natura, la semina e le sue cure
specifiche, l'osservazione degli astri, i pronostici. Si conclude con una
ulteriore invocazione agli dei perché diano soccorso al mondo, sconvolto
dalla guerre.
Libro II: Tratta della cultura delle piante, in particolare della vite e
dell'olivo, che nell'economia italiana di quel tempo, dove vino e olio
costituivano i prodotti principali delle grandi tenute e la prima fonte
d'esportazione verso le province occidentali, occupavano evidentemente un
posto fondamentale. Qui si inserisce la famosa apostrofe elogiativa all'
Italia. C'è, in questo elogio, non tanto la solennità di un encomio
patriottico e di una testimonianza di fede nel destino d'Italia, quanto l'
emozione di chi si incanta al miracolo di una realtà di pace che fino a ieri
era solo un'aspirazione.
Libro III: Dedicato all'allevamento del grosso e del piccolo bestiame e ai
sistemi di sfruttamento dei terreni, italiani e no (Africa, Spagna,
Illiria), che non si prestavano alla coltivazione della vite o dell'olivo;
contiene un'altra invocazione, a Pale e ad Apollo, le divinità della
pastorizia.
Libro IV: Riguardante le api, tratta dell'ubicazione e della costruzione
dell'alveare, delle abitudini delle api e delle riproduzioni degli sciami
(il miele aveva unposto di rilievo in un'alimentazione interamente priva di
altre fonti zuccherine). Parlando della necessità di disporre di un giardino
con piante e fiori profumati, V. introduce la breve storia del vecchio di
Corico, che riuscì grazie alla sua tenacia a sentirsi ricco e beato come un
re.
Ciascun canto presenta una "digressione": nel I il racconto dei prodigi che
accompagnarono la morte di Cesare; nel II l'elogio dell'Italia; nel III la
peste (epizootica) che infierì nel Norico (le Alpi tirolesi); nel IV,
infine, a coronamento di tutto, la leggenda di Aristeo, il primo
"apicultore", nella quale si inserisce il mito di Orfeo e di Euridice.
*Architettura perfetta, dunque, ma della quale rimangono misteriosi i motivi
profondi: forse per V. si trattava solo di colmare, in questo finale del IV
libro, il vuoto lasciato dalla soppressione dell'elogio di Gallo (che
appunto inizialmente ne era la conclusione), il quale - divenuto prefetto
dell'Egitto - aveva offeso Augusto e si era suicidato.
L' "Eneide".
*l' "Eneide" si inserisce pienamente nel genere epico di ascendenza greca,
riuscendo a farsi nel contempo interprete dei valori della romanità e dello
spirito di restaurazione morale augusteo, tanto da divenire il poema
nazionale di Roma. Essa mantiene quella compresenza di mitologia e storia
che caratterizzava l'epica latina arcaica, differenziandosi però per l'
argomento: il mito assume un posto centrale e diventa nucleo primario della
vicenda tanto che il protagonista non è Augusto, ma Enea. In virtù di questa
impostazione V. evita un coinvolgimento troppo diretto con gli eventi
contemporanei e può, in questo modo, ampliare la prospettiva e il
significato della propria poesia. Oltre ad Omero, sicuramente modello
principale - altri elementi ci riportano ai poeti del ciclo epico, agli
alessandrini, e in particolare ad Apollonio Rodio, ai tragici greci e
romani, agli orfici, a Nevio e a Ennio. Né bisogna dimenticare che il mito
di Enea aveva assunto per i Latini un valore nazionale e che per lo più ne
veniva ammessa financo la storicità.
*Eppure, l' "Eneide" risulta un'opera originale, nella sua straordinaria
densità e complessità, grazie all'enorme quantità di materiali culturali:
storici, letterari, antiquari e filosofici. Il modello principale - come
detto - è Omero, di cui V. ha ripreso entrambi i poemi, capovolgendone la
successione originale e riducendoli in uno solo. La prima metà, chiamata
parte "odissiaca", ha quindi come tema principale il viaggio, la seconda,
detta "iliadica", invece ha la guerra (spartiacque è il libro VI, quello
della discesa di Enea negli Inferi). La presenza di Omero è massiccia oltre
che nell'intreccio, nella ripresa di molti episodi. V. segue Omero anche in
ciò che riguarda l'apparato mitologico, con alcune differenze fondamentali
come il rinnovamento dei materiali poetici di cui si serve, che organizza e
orienta in modo diverso in funzione del significato complessivo dell'opera.
Il punto d'arrivo a cui tende la storia universale è Ottaviano Augusto che
viene unificato così alla celebrazione di Roma su di un piano ideologico.
*All'interno di questa struttura, l'azione si sviluppa abbastanza lineare,
procedendo senza divagazioni verso la grande scena finale: infatti, l'
interesse del poeta è tutto concentrato sul destino del protagonista, che
attraverso molteplici avventure si avvicina sempre più alla meta fissata dal
Fato: il nascere e la futura gloria di Roma. I vari episodi del poema non ne
sono quindi altro che le necessarie tappe, secondo una curvatura decisamente
teleologica.
E' tale meta, dunque, che illumina, dà senso e giustifica le fatiche, le
angosce, la morte che incombono e colpiscono inesorabilmente i personaggi:
il mondo dell' "Eneide", infatti, a differenza di quello omerico, non
conosce tanto esuberanze giovanili ed esaltazione eroica, ma appare invece
dolente e meditativo, strettamente affine all'universo delle precedenti
opere: postulato fondamentale è l'obbedienza al Fato, e anche in ciò
personaggio emblematico è ovviamente il "pius" Enea.
*Al poema, V. lavorava dettando un gran numero di versi, e poi
rielaborandoli per tutta la giornata. Seguiva uno schema di prosa che si
preparava e che poi portava in versi. Eccone la sintesi:
Libro I: Una tempesta causata da Giunone, irata contro i Troiani, fa
approdare Enea lungo le coste presso Cartagine. Con l'aiuto della madre
Venere, Enea viene bene accolto dalla regina Didone, alla quale racconta la
fine di Troia.
Libro II: Racconto di Enea: durante la distruzione della città, Enea riesce
a scappare con il padre Anchise e il figlio.
Libro III: Racconto di Enea: partiti da Troia, Enea si rende conto che una
nuova patria lo attende in Occidente.
Libro IV: Dopo la partenza di Enea da Cartagine Didone si uccide
profetizzando l'eterno odio tra Cartagine e i discendenti dei Troiani.
Libro V: I Troiani giungono in Sicilia dove svolgono dei giochi in onore di
Anchise.
Libro VI: Enea arriva in Campania dove consulta la Sibilla ed entra nel
mondo dei morti. Qui incontra: Deifobo caduto a Troia, Didone, Palinuro, il
timoniere, e il padre che gli mostra la sua eroica discendenza.
Libro VII: Enea arriva alla foce del Tevere e riconosce in essa la terra
promessagli dal padre. Qui stringe un patto con il re Latino, ma interviene
Giunone che fa scagliare contro di loro il principe Rutolo, Turno. Enea non
può più sposare la principessa Lavinia.
Libro VIII: Enea è costretto a risalire il Tevere dove trova degli alleati
in Evandro, re di un piccolo gruppo di Arcadi, e in una coalizione di
Etruschi.
Libro IX: Con Enea assente il campo troiano è in una situazione critica.
Libro X: Enea irrompe nella scena e uccide l'alleato di Turno, Mezenzio, che
a sua volta uccide Pallante protetto di Enea.
Libro XI: Dopo la sua vittoria Enea piange l'amico morto. Le sue offerte di
pace non hanno successo.
Libro XII: Turno accetta di sfidare Enea a duello, ma un intervento di
Giunone fa riprendere la guerra. Enea sconfigge Turno e lo uccide nel nome
di Pallante.
*Si compie così il primo atto del destino di Roma. L'evoluzione religiosa
del poeta fa dunque sì che egli approdi, dal suo epicureismo primitivo, a un
platonismo mistico (o, se si preferisce, a un "neo-pitagorismo"), che
ammette l'esistenza di anime sopravvissute al corpo e discerne nel mondo un
disegno della Provvidenza. V. si avvicina, per questa strada, alle idee
professate dagli storici intrisi di stoicismo, epigoni di Polibio. Si
realizza in tal modo la sintesi delle principali correnti spirituali di
Roma, che consente all' "Eneide" di farsi immagine di quest'ultima e
giustificazione del suo straordinario valore storico.
*I protagonisti. Enea: il divino figlio di Anchise è lo strumento obbediente
della divinità, nella prima parte come profugo errabondo, nella seconda come
guerriero: tuttavia egli, a differenza degli eroi di Omero, presenta una sua
intimità, una sua umanità che lo avrebbe trattenuto ben volentieri fra le
rovine di Troia (rimane nel fondo del suo animo un'indistinta nostalgia del
ritorno) o fra le braccia di Didone. Insomma, la sua "humanitas" spesso non
va d'accordo con la sua "pietas", ma lo rende altresì più umano e più vero.
Turno: come eroe è un personaggio meglio caratterizzato di Enea, anche se è,
per così dire, la copia virgiliana dell' Ettore omerico.
Didone: è il personaggio, tragico e appassionato, meglio riuscito del poema,
che supera abbondantemente i modelli cui potè ispirarsi, la Medea di A.
Rodio e l'Arianna di Catullo.
Camilla: è un altro personaggio ben riuscito: la sua forza e il suo coraggio
di guerriera nulla tolgono alla sua femminile bellezza e alla sua palese e
fatale vanità.
Figure minori, ma non meno valide, sono: Latino, Evandro, Eurialo e Niso,
Lauso e Mesenzio.
L' "Appendix Vergiliana". Torna al sommario
Il termine "Appendix Vergiliana" è moderno (risale, come evidentemente la
silloge, all'età umanistica) e indica un gruppo di poemetti pseudovirgiliani
(salvo forse un paio di poemetti dei "Catalepton"), inseribili nel quadro
della poesia minore del I sec. D.C. (conclusivo è stato l'esame stilistico).
I componimenti (6 poemetti, 14 epigrammi e 3 carmi priapei) non sono
comunque databili tutti allo stesso periodo e sono sicuramente di mani
diverse: inoltre, non si può dire con certezza se siano stati concepiti
intenzionalmente come falsi. I componimenti principali sono:
1 una serie di epigrammi raccolti sotto il titolo di "Catalepton"
("componimenti leggeri"), che contengono preziose informazioni biografiche;
2 un'epopea ingenua intitolata "La zanzara" ("Culex", 48 a.C.), un epillio
di 414 esametri (di gusto neoterico). Un pastore, svegliato da una zanzara
che uccide, riesce a salvarsi da un serpente. Nella notte la zanzara gli
appare, gli fa una lunga descrizione dell'oltretomba, e chiede sepoltura.
3 un racconto leggendario, l' "Airone bianco" ("Ciris"), di 541 esametri,
che prelude alle "Metamorfosi" di Ovidio e che trova collegamenti con la
poesia erudita alessandrina, che si compiaceva di leggende bizzarre:
descrive infatti la trasformazione di Scilla in un uccello marino appunto.
4 "Dirae", carme di 183 esametri (attribuibile forse a Valerio Catone), che
fonde insieme un canto di maledizione (contro l'attuale proprietario del
podere di cui è stato spogliato) e un canto d'amore (il destino lo priva
dell'amore di Lydia lontana).
5 "Aetna", poema di 646 esametri (che Seneca attribuisce al "suo" Lucilio),
di intonazione epicurea, in cui l'autore vuole spiegare i fenomeni naturali
in modo scientifico per sfatare le credenze popolari e le interpretazioni
dei poeti.
6 "Copa" ("l'ostessa"), ch'è la descrizione vivida di una bella ragazza d'
osteria, che domina tutto il breve idillio di 19 distici; sulla soglia dell'
osteria, canta e danza, invitando i passanti ad entrare.
7 "Moretum" ("la torta campagnola"): poemetto di poco più di 100 esametri,
che descrive minutamente la scena di un contadino il quale deve prepararsi
il cibo (la focaccia piccante) per consumarlo al ritorno dal lavoro.


Quinto Orazio Flacco
(Venosa 65 a.C. - Roma 8 a.C.)

VITA.
Figlio di uno schiavo liberato (liberto), ch'era riuscito a racimolare un
piccolo patrimonio, fu portato a studiare proprio dal padre (quello ch'egli
stesso definirà "il migliore dei padri") nelle migliori scuole di grammatica
e retorica di Roma (fu allievo, tra gli altri, del grammatico Orbilio),
andando a perfezionarsi persino ad Atene versi i 20 anni. Lì O. aderì all'
ideologia repubblicana dei giovani patrizi romani che vi studiavano anche
perché suggestionato dai temi delle scuole di retorica: fu coinvolto, così,
dalla guerra di Bruto e Cassio, ai cui comandi si arruolò come "tribuno dei
soldati", combattendo nella storica battaglia di Filippi (42). Si salvò
miracolosamente, e riuscì a tornare a Roma durante un armistizio (41),
profittando del condono politico di Ottaviano, ma senza protezioni
politiche. Le sostanze lasciategli dal padre erano state confiscate: per
vivere s'impiegò come contabile nell'amministrazione statale.
In seguito frequentò a Napoli la scuola epicurea di Sirone in compagnia di
Virgilio. Iniziata l'attività poetica con gli "Epodi" e le "Satire", nel 39
fu presentato proprio da Virgilio a Mecenate, che lo legò a sé come amico e
gli donò (33?) un podere nella Sabina.
Augusto gli offrì un posto di segretario, ma O. declinò l'invito,
assecondando tuttavia il programma del princeps sia sul piano politico sia
su quello letterario: un intellettuale, dunque, sostanzialmente "allineato".
Nel 17 fu incaricato di scrivere il "Carmen speculare" in onore di Apollo e
Diana, da cantare durante i ludi saeculares. Nel 20 iniziò a pubblicare le
Epistole il secondo libro delle quali comprende tre lunghi componimenti di
argomento estetico fra cui l'Ars poetica. Nell'8 a.C. scrisse quattro libri
di Odi, fra le quali si distinguono le c.d. Odi romane. Nel settembre dell'8
a.C. morì Mecenate. O. si sentì perduto, e anche lui si spense il novembre
del medesimo anno a causa di una emorraggia cerebrale o paralisi. Fu sepolto
accanto alla tomba di Mecenate, "la metà dell'anima sua".

OPERE.
*"Epòdi" (41-30 a.C.). Sono 17 componimenti (O. li chiama "iambi"), ordinati
metricamente.
O. emula i giambografi greci, soprattutto Archiloco (ma ne mutua più che
altro i metri e l'ispirazione aggressiva, non già i contenuti), anche se il
suo furore è, in verità, talvolta alquanto letterario. Tuttavia, gli
"Epòdi", malgrado una certa ridondanza stilistica, sono fondamentalmente più
violenti delle "Satire", e più amari: vi deplorava le disgrazie della patria
e affermava la propria indignazione per alcuni scandali derivati dalle
guerre civili.
Ora, quindi, sono appunto le ansie per il pericolo della guerra civile
(epòdi VII e XVI); ora invettiva contro un abietto tribuno militare (IV),
contro un ringhioso codardo (VI), contro un poetastro (X), contro una
vecchia libidinosa (VIII e XII), contro una strega (V e XVII). Ma anche qui
affiora la mitezza di O.: timidamente in I e IX, indirizzati a Mecenate al
tempo di Azio e oscillanti tra ansia e fiduciosa serenità, più decisamente
nei rimanenti, e soprattutto nel II, dove malgrado l'ironia finale c'è un
forte gusto per la vita agreste, mentre infine nel XIII compare un altro
tema caratteristica: quello della fugacità della vita.
*"Satire" ( dette dal poeta stesso "Sermones"). Scritte in esametri, sono
divise in 2 libri: il I (35-33 a.C.) ne comprende 10, il II (30 a.C.) 8.
Difficile ne è la cronologia interna.
Abbandonate le inquietudini e il disadattamento degli "Epòdi", attraverso
certo i temi della predicazione filosofica (ma non quella più rigida e
moralistica) e la lettura di poeti quali Lucilio (di cui vuol essere la
versione moderna: I4 e I10), O. cerca di elaborare in forma piana e
discorsiva (si tratta di componimenti misurati, caso mai vivaci, ma come
detto non sfoghi moralistici) un suo ideale di misura che lo salvi dalle
tensioni interne e non gli precluda il godimento della vita ("autàrkeia" e
"metriòtes").
Il poeta insomma ricerca una morale di autosufficienza e di libertà
interiore, valendosi di uno straordinario senso critico e autocritico, oltre
che del suo tatto e della sua conoscenza del mondo: il ragionamento si
mantiene sul piano psicologico-umano, e la polemica non è tanto contro i
vizi in sé, quanto contro la loro vera radice, ovvero l'eccesso.
Inoltre, nelle prime "Satire", O. si sforza di dimostrare che la morale
epicurea non è in disaccordo con i valori tradizionali di Roma: moderazione,
saggezza, rispetto dei costumi, eccetera. Insiste anche sulla semplicità
dell'esistenza rurale quale condizione della felicità, parlando, in questo
senso, un linguaggio simile a quello di Virgilio e precisamente nello stesso
periodo, all'incirca, in cui questi componeva le sue Georgiche. Affinità vi
sono anche col linguaggio di Tibullo. Inoltre, l'amicizia da lui spesso
elogiata non è scambio di favori, e ancor meno schiavitù (come spesso
avveniva a Roma quando gli amici erano di condizioni ineguali), ma una
comunione profondamente spirituale o, anche, ideale.
Altra satira programmatica è la II1, dove O. risponde alle critiche
rivoltegli. Spunti autobiografici, invece, si trovano nelle satire: I4 (sul
padre); I6 (sulla presentazione a Mecenate); I5 (sul viaggio a Brindisi al
seguito di Ottaviano); II6 (in cui esprime la gioia per la villa donatagli).
Satire più propriamente etico-filosofiche sono invece: I2 (sull'adulterio;
vigorosa); II3 (sulla pazzia degli uomini, eccetto il filosofo; briosa); II6
(con l'apologo del topos campagnolo e del topos urbano).
*"Odi" (secondo i grammatici), "Carmina" per O.. I primi 3 libri (88 odi),
dedicati a Mecenate, furono pubblicati nel 23 a.C., il IV (15 odi: quindi,
in tutto 103 odi) nel 14-13 a.C. O. aggiunse il IV libro dopo molti anni, su
richiesta di Augusto per "cantare" la vittoria di Druso e Tiberio su Reti e
Vindelici.
Il criterio d'organizzazione del libro sembra essere quello della
"variatio": sia dal punto di vista metrico-formale (ben 13 sono i metri
usati), sia per tono e contenuti (alternanza di temi politici e temi
privati, di stile alto e stile leggero).
L'ispirazione oraziana qui si modifica e purifica in composizioni
raffinatissime, chiuse nel giro di strofe perfette (il modello è nei poeti
classici greci: Alceo, Saffo, ma anche Anacreonte, Bacchilide, Pindaro.): le
"Odi" si caratterizzano come un riuscito tentativo di trasferire a Roma i
ritmi della poesia eolica.
Lo stile diventa esteriormente asciutto, la forma è rigorosa, quasi fredda;
il tutto, insomma, caratterizzato da un lato dalla sapienza tecnica (la
"callida iunctura", cioè l'accorta disposizione delle parole e l'accurata
articolazione del periodo) e dall'altro dal controllo di impressioni e
sentimenti: O. si presenta come discepolo dei "poeti nuovi", alla ricerca
anch'egli della perfezione formale e delle soddisfazioni derivanti dal
superamento delle difficoltà.
Se O. nei "Sermones" era apparso, così, poeta e narratore, nelle "Odi" si
rivela nelle vesti di un sublime "moralista": non perchè vada predicando una
morale, ma perchè eccelle nel cogliere e nell'esprimere in un ritmo, in un
accostamento di parole, nella suggestione di un'immagine, un'"esperienza"
privilegiata che illumina l'anima e la rivela a se stessa.
La causticità polemica è allora qui abbandonata come giovanile intemperanza
(I16): è invece insistente l'idea della "misura" ("aurea mediocritas",
II10). Essa assume una dimensione nuova: da una parte viene ancorata
saldamente al concetto di felicità con motivi tradizionali e stilizzazioni
(modestia, parsimonia, campagna contro città, etc.: ad es., I18,
II2-3-15-18, III1 e 16), ma con l'aggiunta del motivo - riflesso
autobiografico - della felicità di chi, oltre che saggio, è anche poeta
(II16,III14.); dall'altra, sul piano della meditazione, è associata all'idea
della morte, che tutto rilivella (II3 e 8, III1 e 24): il senso della
fugacità della vita acquista rilievo e ispira tra le "odi" più celebrate:
I11 (v'è il motivo del "carpe diem"), I24 (in morte del poeta Q. Varo), I28
(sulla tomba del pitagoreo Archita), II14 (a Postumo), ecc.
Attinto alle correnti filosofiche dell'epoca (in special modo, l'
epicureismo), ma filtrato dalla sensibilità dei lirici greci (ad es.,
Mimnermo), dato senso di fugacità aleggia come malinconia leggera su questa
poesia, che è pure sostanzialmente limpida e serena. Di nuovo, dappertutto
traspare la bonaria umanità, che si esprime soprattutto in un trepido senso
dell'amicizia, nel gusto della compagnia (le cosiddette "odi conviviali"),
nel controllo stesso delle passioni nelle non poche odi dedicate a donne i
cui modi (Lidia, Làlaga, Cloe, Mirtale.) celano quasi certamente persone (e
forse financo vicende) reali (O. aveva già manifestato a Mecenate la
necessità di una poesia che cantasse l'amore: chiede infatti proprio
all'amico di porlo tra i poeti lirici (1 I 35)).
Una delle intuizioni fondamentali dell'epicureismo era il valore proprio di
ogni istante. O. se ne impadronisce e ne fa uno dei temi del suo lirismo. Il
"carpe diem", nel quale si è pensato di poter riassumere la sua "saggezza"
(riducendola, in questo modo, ad una formula angusta e anche un po'
volgare), è innanzitutto il nucleo di una poetica. Non è tanto la ricerca,
fine a se stessa, del piacere, ma il tentativo di scoprirlo nel puro e
semplice fatto di vivere. In questa prospettiva, O. canta il "tempo libero"
(otium), che è anche quiete dell'intelletto e dell'anima, libertà interiore:
il carmen prolunga la strada imboccata col sermo, trasfigurando ciò ch'era
stato consiglio obiettivo in scoperta dell'anima. Il pensiero stesso della
morte, anziché rivelarsi amaro, dà tutto il suo valore alla rinnovata
presenza della vita.
Forse anche il vistoso apparato mitologico va inteso, al di là del richiamo
alessandrino o degli agganci alla religione della Roma augustea, come un
elemento di voluta fissità, oltre che di pindarica sublimazione della
poesia; epicureo, O. non crede davvero all'intervento degli dèi nel mondo:
egli ne fa un gioco, allargando la sua sensibilità di poeta alla creazione
tutta intera, senza voler scoprire in essa il segno di una trascendenza
divina. Ma, in fondo, non è un problema che lo interessi molto. Egli onora
le divinità campestri della sua tenuta come presenze familiari che
prolungano il suo personale universo interiore, non per manifestare ad esse
la propria "adorazione".
Quasi sicuramente, infine, nessun latino ha avuto più di O. la coscienza di
essere poeta: non per nulla, accettò di divenire uno dei vati ufficiali del
regime di Augusto: ne fa fede l'importante filone etico-politico che
riscontriamo nelle "Odi" (ovvero i 6 componimenti (detti "odi romane",
appunto) con cui si apre il III libro), nonché il "carmen saeculare".
*Il "Carmen Saeculare". Augusto nel 17 a.C. indìce i ludi Saeculares, nel
momento più adatto, scelto con grande abilità, per celebrare i ludi,
testimonianza di un'epoca di guerre e di lotte civili che si chiude e di
un'era di pace che si apre.
Morto Virgilio nel 19, nessun altro poeta poteva ricevere l'incarico di
comporre l'inno per i ludi, perché nessuno più di O. aveva dimostrato,
specialmente con le odi romane, di saper interpretare l'essenza della
grandezza di Roma. O. accettò l'incarico, che significava per lui
riconoscimento del suo ruolo di poeta nazionale e, più ancora, consacrazione
della sua attività lirica, che appunto dalla composizione del "Carmen"
trasse nuova linfa e riprese sostanza.
Così, il poeta affida al canto di due cori di giovani, l'uno maschile e l'
altro femminile, il compito di invocare la protezione degli dèi su Roma.
Il "Carmen" presenta, ovviamente, i difetti propri delle composizioni
eseguite su commissione, ma, se non è sorretto da altissima ispirazione, è
tuttavia opera di altissima dignità artistica e, soprattutto, di profonda
sincerità. Inoltre, in tutti quei luoghi in cui il poeta può liberarsi dagli
obblighi impostigli dalle circostanze o dalla liturgia e dispiegare
liberamente la sua fantasia, egli raggiunge "l'intensità poetica delle sue
liriche più felici, interpretando con severità e serietà il mito storico di
Roma e di Ilio, ma soprattutto esprimendo un ideale quasi ieratico di
potenza e di predominio" (Turolla).
*"Epistole". In esametri e in 2 libri: il I (di 20 componimenti) dedicato a
Mecenate, uscì nel 20 a.C.; delle 2 del II libro, quella ad Augusto è del 14
o 13, quella a Floro è del 18 ca.
L'epistola in esametri è probabilmente una sperimentazione originale: O. non
si richiama, del resto, ad un inventore del genere. Con essa (di cui si
discute il carattere "reale" o meramente "letterario"), il poeta - oramai
maturo - cerca un dialogo più intimo e raccolto con sé stesso: c'è un
bisogno di calma e di tolleranza, in cui si annida tanta esperienza umana,
interiorizzata in una sorta di ascesi laica (e il tutto presuppone lo
spostamento verso una periferia agreste, che risuona di memorie filosofiche:
un "angulus", insomma): è il frutto della migliore lezione del suo
epicureismo (non vi è dunque "svolta" in senso stoico).
*Infine, al II libro è aggiunta l'epistola ai Pisoni, nota come "Ars
poetica" (17 o 13 a.C.), in esametri: ricca di riferimenti a Neottolemo di
Pario e ancor più ad Aristotele, è impostata sul problema dell'unità dell'
opera d'arte e del rapporto tra contenuto e forma, esaminato prendendo come
principale punto di riferimento il dramma. Due tesi, in particolare, sono
celebri: la necessità di fondere la spontaneità e immediatezza dell'
ispirazione con lo studio metodico e il paziente lavoro di lima; e il noto
principio dell' "utile dulci", della fusione cioè fra utile e dilettevole.
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Breve profilo introduttivo della letteratura d'amore in Roma.

La poesia d'amore nasce tardi nella letteratura latina e si afferma solo nel
II sec. a.C., quando i Romani, concluse vittoriosamente le guerre in Oriente
e in Grecia, allentano le preoccupazioni per l'interesse dello stato,
trovando il tempo e l'animo per dedicarsi anche alla vita anteriore.
I tempi nuovi, meno condizionati dagli obblighi e dalle campagne militari,
permettono di coltivare, oltre ai modi della scrittura adatti alla
riflessione sul bene comune (come la storiografia, l'oratoria, il teatro, la
satira, il poema epico e la tragedia stessa), generi nuovi da dedicare
all'effusione dei sentimenti o alla ricerca dell'io.
Intorno a tali tematiche si raccolgono gli intellettuali del circolo
letterario di Lutazio Càtulo (ca. 150-87 a.C.), che dà vita a una produzione
di sapore individualistico, particolarmente elaborata nello stile. I poeti
appartenenti a tale corrente sviluppano argomenti e forme della poesia
ellenistica, rifacendosi soprattutto a Callimaco, come appare evidente da
alcuni brevi componimenti dello stesso Lutazio Càtulo.
Se n'è fuggito il mio cuore: se ne sarà andato, al solito, da Teotimo.
Sicuramente è quello il suo rifugio. Ma come? Non gli avevo forse imposto di
non accogliere il fuggitivo, e di scacciarlo piuttosto? Andremo a cercarlo.
Ma temo di essere trattenuto io stesso. Che fare? Consigliami, o Venere.
(Epigramma 1 Morel; trad. di V. Sirago)
Valerio Edituo invece riprende una famosa ode si Saffo, il frammento 31 LP,
che ispirerà anche il più celebre carme 51 di Catullo.
Quando mi sforzo di dirti, o Pànfila, la pena del mio cuore, e che cosa
desidero da te, le parole mi mancano sulle labbra; nel petto in una vampa
trascorre improvviso il sudore; così tacito, avvampante, mentre mi vergogno,
muoio.
(Epigramma 1 Morel; trad. V. Sirago)
Il circolo intorno a Lutazio Càtulo, non a caso detto "preneoteorico", ha il
merito di anticipare e preparare l'importante circolo dei poeti novi, o -
alla greca - neoteroi, scrittori colti, consapevolmente indirizzati a
riprodurre nei metri e nei temi i grandi modelli della poesia alessandrina e
dei lirici greci.
Se l'epigramma di Valerio Edituo brilla sotto il profilo compositivo
soprattutto per la sua chiusa sorprendente, dove il "vergognarsi" (pudeo) è
contrapposto al "morire" (pereo), tocca al carme 51 di Catullo il compito di
istituire un topos della poesia d'amore, legando la lirica latina al mondo
dei sensi e della passione e quindi avviando il filone della "malattia
amorosa" e della "servitù d'amore".
Già Lucrezio aveva proposto, nei duecento versi del finale del IV libro, il
tema dello sconvolgimento psicofisico che accompagna il furor degli amanti,
restando però all'interno di un contesto filosofico, che neppure il vigoroso
movimento delle immagini riesce a distaccare dai parametri epicurei della
lontananza da ogni passione.
In Catullo, pur in assenza dell'effigie femminile, l'effetto di concretezza
del rapporto risulta rafforzato a causa del realismo con cui sono presentati
i sintomi dell'amore/malattia, che il poeta soffre sul proprio corpo con la
perdita della voce, della vista e persino dell'udito, fino al deliquio
(carme 51, vv. 7-12).
Il sapore del "vissuto" e della "quotidianità" dell'amore, talora felice
(carmi 5 e 7), più spesso infelice (carmi 8, 58 e 70) trova efficacia
particolare grazie alle scelte linguistiche in cui si intrecciano linguaggi
diversi, da quello parlato (carme 5: basia, "i baci") a quello
finanziario-contabile (carme 5, v. 3: "consideriamolo un soldo bucato") a
quello dotto di derivazione ellenistico-callimachea (carme 7, vv. 3-6:
"Cirene...Batto").
La complessità linguistica e formale e la varietà dei modelli ai quali
Catullo si è ispirato non tolgono nulla alla forza del canto, in cui si
intrecciano poesia e vita, letteratura e autobiografia. Il poeta stesso è
implicato nella storia che narra e le sue parole hanno il sapore
dell'esperienza. Il canzoniere di Catullo, pur nell'esercizio continuo della
doctrina e della raffinatezza formale, effonde un senso profondo di umanità
per la "mondanità" dei fatti e delle emozioni. Quando è ormai chiaro che
Lesbia tradisce il suo Catullo, il dolore del poeta si manifesta
nell'incalzare di mille reazioni, dall'autoesortazione all'oblio (carme 8)
unita all'accorato fluire dei ricordi - la rievocazione dei luminosi giorni
passati con Lesbia -, alla denuncia lucida e incredula dell'odi et amo, voce
semplicissima e fortissima, oggi emblema del contrasto sempre lacerante fra
amore e odio (carme 85).
La donna ormai lontana continua a occupare i pensiero del poeta fino quasi a
condurlo con l'assolutezza della sua presenza alla follia. Catullo cerca
allora di superare il tormento rielaborando in modi diversi il rapporto con
Lesbia: senza mai abiurare al suo amore, prospetta un legame insolito per la
cultura romana che sarà destinato a orientare la letteratura d'amore fino al
Medioevo e oltre. Nobilita cioè l'intensità totalizzante e assoluta della
passione con il rigore di un "patto" che vincola i due amanti anche senza il
matrimonio (carme 87).
E Catullo, sia pure con toni che variamente riproducono l'ossessiva presenza
di Lesbia anche dopo il tradimento di lei, non cessa di approfondire, quasi
stupito per le sue stesse scoperte, la psicologia amorosa. Riprende così
l'antitesi "odio/amore" nel carme 92 dove l'immediatezza espressiva appare
inferiore a quella del carme 85, mentre è maggiore la raffinatezza
psicologica che induce Catullo, fra straniamento e perdita della lucidità,
ad attribuire alla donna, per una sorta di transfert, sentimenti affini ai
suoi.

Lesbia va continuamente sparlando di me, e non sta zitta, quando si parla di
me: mi venga un accidente se Lesbia non mi ama. "Da che cosa l'arguisci?".
Perché sono gli stessi indizi miei: continuo a detestarla, ma mi venga un
accidente se non la amo!
(trad. F. Della Corte)
La varietà dei metri e delle forme nel libro catulliano ben rappresenta la
mutevolezza dell'animo femminile e la complessità esistenziale del rapporto
d'amore.
Catullo, nell'intreccio fra vicenda umana e iper poetico, dà l'avvio a un
modello di linguaggio amoroso e a un genere letterario, nel quale stringe un
legame intellettuale importante, anche se implicito, con tutti i fedeli - e
i malati - d'amore. Lesbia, ora innamorata dolce-ingenua, ora amante della
passione dirompente, ora ingannatrice, infine vera e propria traditrice di
ogni patto sancito, donna di strada nutrita d'intrighi, è figura dominante e
concreta che mette l'amore al primo posto, a costo di contrapporlo alle
consuetudini sociali del tempo o alla vita morale del poeta.
Non si può infatti dimenticare che nel I sec. a.C. l'epica, la tragedia e i
generi filosofico-didascalici disapprovavano chiunque presentasse amori
diversi da quelli improntati al nobile sentire. È Catullo il primo scrittore
che toglie la poesia erotica dal clima leggero del gioco mercenario e mette
al centro la donna reale, con il suo carico di contraddizione e di
infelicità.
Nel secolo di Augusto, Orazio continuerà a cantare d'amore, imitando le
fonti greche, come Alceo (carme I, 9), Semonide di Amorgo (carme I, 5 "Quale
giovane a-gile ti chiama/tra molte rose e puri aromi, Pirra/nella grotta
felice...) o gli ellenistici, e offrirà una sua visione leggera e
malinconica dell'amore, tributando a Catullo solo il debito di qualche
"citazione" colta.
Ma Catullo "sarà maestro per la generazione degli elegiaci, che da lui
trarranno la concezione dell'amore come continua sofferenza e come
consapevole scelta di vita" (P. Fedeli). Con la suggestione, la novità e la
raffinatezza dei suoi versi diviene modello di altri poeti e in particolare
di P..
L'amore, presentato sempre più esplicitamente come motivo di vita, si fa
materia privilegiata per il canto e per l'effusione dei sentimenti.
Anche P. prende spunto dalla sua vicenda amorosa, ma non si ferma
all'esperienza. Sapendo fin dall'inizio (grazie alla frequentazione del
libro catulliano) che la sua storia non sarà solo ricca di gioia, cerca di
delineare una teoria dell'amore: chi vive come "fedele d'amore", anche se
infelice, compie una scelta difficile, ma superiore a quella di chi
intraprende la carriera politica o militare. È dunque meglio rinunciare agli
onori delle cariche o alle ricchezze e lasciarsi soggiogare dalla tirannia
dell'amata. La sua Cinzia esercita un duro dominio costringendo il poeta a
una pesante "schiavitù".
Dalle Elegie di P. traspare un nuovo legame fra arte e vita: nella vita il
poeta si dedica alla donna trascurando gli impegni pubblici; nell'arte
ricerca moduli adatti a cantare il suo sentimento totalizzante e assoluto.
Il rapporto sentimentale, che già in Catullo aveva trovato importanza e
significato oltre il semplice gioco e-rotico o mondano, diventa ricerca di
valori etici e letterari.
Non compare tuttavia alcuna idealizzazione dell'amore. Anzi P., nell'elegia
(I, 6) in cui dichiara di rinunciare - per amore - a seguire l'amico Tullo
in Oriente, riconosce con semplicità di cedere all'"estrema debolezza"
(nequitia, v. 26), obbedendo alle parole di Cinzia, che dolente e adirata
gli ingiunge di rimanere in patria:
"questa è la milizia a cui mi costringe il fato" (v. 30).
Il canzoniere properziano mantiene e rafforza l'importanza della donna e
dell'amore nella poesia e nella vita, continuando, nonostante gli inviti di
Augusto a comporre versi impegnati, a riproporre la sua appartenenza ai
"fedeli d'amore".


L'elegia: la sua nascita e la sua fortuna a Roma

Nella sua storia, l'elegia ha conosciuto toni e contenuti molto diversi, pur
nell'unità della struttura metrica, che è quella del distico detto, appunto,
'elegiaco' (un esametro e un pentametro dattilico in coppia). Nata in
ambiente ionico nel VII sec., fu guerresca con Callino e con Tirteo; con
Solone divenne politica e sociale; con Mimnermo cantò la fugacità
malinconica della giovinezza e dell'amore; fu pessimistica e moraleggiante
con l'aristocratico Teognide, filosofica con Senofane. Nella II metà del V
sec., significativa fu l'opera di Antimaco di Colofone, che raccolse una
serie di elegie che narravano vicende mitiche d'amore sotto il nome di Lide,
la sua donna (come Mimnermo aveva fatto per la flautista Nannò), costituendo
un importante tramite per l'elegia erotica e narrativa di età ellenistica.
Abbiamo così, in età alessandrina, la Leonzio di Ermesianatte, Gli amori di
Fanocle, forse la Battide di Filita, l'Apollo di Alessandro Etolo, la grande
elegia eziologica di Callimaco. L'elegia alessandrina fu sopra tutto
l'elegia dell'eros tormentato e doloroso, delle passioni del mito meno
conosciute: fu elegia raffinata che ricercò ogni recondita dottrina; in essa
il poeta, molto più che parlare di sé, doveva esporre gli antichi, mitici
casi d'amore.
Agli elegiaci alessandrini (come Callimaco e Filita) i Latini si rifecero
come a maestri. Purtroppo della produzione ellenistica quasi nulla a noi è
pervenuto, e non possiamo dunque dire se anche negli elegiaci alessandrini
fosse presente, magari in piccola parte, quel carattere personale e
soggettivo che è tipico, invece, dei latini.
Certo, Quintiliano con la sua celebre affermazione (10, 1, 93 elegia...
Graecos provocamus: "nell'elegia gareggiamo coi Greci") doveva avvertire
concretamente i caratteri in parve innovatori dell'elegia romana. Di sicuro
noi possiamo sottolineare l'importanza di Catullo e del suo mondo poetico
per la formazione dell'elegia latina: nelle forme e nelle tecniche
alessandrine egli aveva immesso l'intensità passionale del suo temperamento,
gli odi e gli amori, Il dolore e l'idealizzazione mitica di una donna,
l'esperienza drammatica della vita vissuta.
Riduttiva appare la tesi di F. Jacoby, secondo la quale l'elegia latina
deriverebbe non direttamente dall'elegia ellenistica (F. Leo), ma da un
ampliamento dell'epigramma greco, il genere letterario al quale i poeti
d'Alessandria avevano affidato l'espressione diretta del sentimento
personale. Spunti epigrammatici non mancano, certo, presso gli elegiaci
latini. Ma la momentanea effusione del poeta ellenistico, che quasi sempre
s'esaurisce in un respiro troppo breve e termina spesso con una conclusione
convenzionale, viene, dagli elegiaci latini, inserita in un componimento che
è già strutturalmente diverso, più ampio e impegnativo. Neanche sono assenti
punti di contatto tra elegia latina e commedia nuova. Ma sia per
l'epigramma, sia per la commedia, quanta parte doveva avere, anche per i
poeti elegiaci, l'insegnamento della scuola, in particolare la retorica, col
ricco suo campionario di temi e situazioni che, desunti dalle fonti più
disparate, offriva alle esercitazioni degli allievi?
L'immediato precedente dell'elegia latina resta l'elegia erotica
alessandrina che, quasi del tutto perduta per noi, con buona probabilità non
doveva ignorare, accanto la narrazione mitica, anche il diretto riferimento
del poeta alla sfera del suo personale sentimento, pur se per i Latini,
posta l'esperienza fondamentale della lezione catulliana, il discorso
soggettivo e intimistico si amplierà e si approfondirà. Per non parlare
dell'elegia a sfondo più spiccatamente eziologico: gli Aitia callimachei
costituiscono l'indubbio punto di riferimento per le "Elegie romane" di P. e
per i Fasti ovidiani.
Al centro dell'elegia latina è la figura femminile, una donna dai netti
connotati spirituali e dalla presenza fisica talora assai corposa, e
ossessiva. Accanto a lei, un poeta che la canta, perchè oltre tutto e'
proprio lei ad esserne l'ingenium, l'ispirazione esclusiva, e che la adora,
pur fra tradimenti, liti e riappacificazioni, in un vagheggiamento che la
traspone in una dimensione mitica. Essenziale, nel corteggiamento, è lo
stesso esercizio poetico, che prospetta all'amata una fama imperitura.
Immancabilmente bellissima, la donna è vita del poeta, ed è idealizzata sin
nel nome (Lesbia, Delia, Cynthia...). E' l'amica o, meglio, la domina alla
quale sottomettersi in un servitium, non senza un dolce arrovellarsi nella
sofferenza, perchè traditrice è la donna, e volubile. E' comunque amore che
vuole durare eterno, e non passione intensissima ma labile, come quella di
un epigrammista greco. E' eros che va oltre la morte e che talora il poeta
canta come nenia funebre (flebilis è, tradizionalmente, il componimento
elegiaco).
Il poeta elegiaco s'abbandona a un intreccio di immagini ove la fantasia
vale almeno quanto la realtà, e in cui l'ebbrezza scatenata dei sensi non
esclude l'esigenza di rinvenire un corrispettivo della propria passione nel
mondo sublime, ma estremamente ambiguo, del mito.


Gaio Cornelio Gallo
(Forum Julii, odierna Fréjus, 69 - 26 a.C.)

VITA.
Imbevuto di cultura ellenistica, G. costituisce l'anello di congiunzione tra
la poesia neoterica e l'elegia augustea.
Nacque nella Gallia Narbonese. Cornbattè con Ottaviano contro Antonio in
Egitto e, nel 30, divenne il primo praefectus Aegypti. Alcuni suoi
atteggiamenti, congiunti alla tendenza a tributare onori divini ai
governanti, tipici di quella regione, lo misero in cattiva luce presso
Ottaviano, che lo fece condannare all'esilio e alla confisca dei beni. G. si
uccise. La damnatio memoriae che il princeps volle del suo prefetto indusse,
come sembra, Virgilio, che pure era stato legato a G. da intensa amicizia, a
sostituire il finale del IV libro delle Georgiche, che si chiudevano con le
sue lodi, con l'episodio di Aristeo, ma non impedì che P. lo celebrasse come
insigne poeta d'amore e Ovidio vedesse in lui l'iniziatore dell'elegia
latina.
Determinante per la sua formazione fu l'amicizia con Partenio di Nicea, il
poeta greco che molto contribuì alla diffusione dell'alessandrinismo presso
i neoteroi. A lui Partenio dedicò la sua raccolta in prosa di dolorose
vicende d'amore (Erotika pathemata) come repertorio di casi e di citazioni
da utilizzare per la composizione dei suoi versi.
Accanto a quella di Partenio, rilevante fu pure l'influenza della
'difficile' poesia, di carattere mitico e astrusamente erudito, del greco
Euforione di Calcide (III secolo).
G. amò, sotto lo pseudonimo di Licoride, una donna seducente quanto
spregiudicata. Da schiava, 'Licoride' era riuscita a diventare mima,
idoleggiata attricetta, col nome di Citeride (ma si chiamava solo
Volumnia...). Amante di Bruto e di Antonio, dovè fare irresistibile presa
sull'animo sognante - cosi ce lo descrive Virgilio nella X ecloga - di G.,
che tuttavia abbandonò nel più profondo sconforto per seguire un ufficiale
tra le nevi delle Alpi e i freddi del Reno. Capricciosa e leggera, la
pulchra Lycoris fu tuttavia 1'ingenium di G. (cosi Marziale in 8, 73, 6) ed
ebbe gli onori della poesia nei 4 libri di elegie che il poeta compose e
riunì forse col nome di Amores (o proprio col suo nome, Lycoris?).

OPERE.
Sino a pochi anni fa, di G., posto da Quintiliano (10,1, 93) tra i massimi
poeti elegiaci, avevamo soltanto un pentametro, contenente una nota erudita,
secondo la migliore tradizione alessandrina, su un fiume della Scizia. Tutto
ciò ci rimaneva del corpus attestato invece dalla tradizione: 4 libri di
elegie, "Amores" ed epilli. Nel 1979 un papiro egiziano ci ha restituito una
decina di versi, nel primo dei quali è presente il nome di Licoride. Se
questi versi sono effettivamente autentici, resta confermata l'importanza
che gli antichi assegnavano all'esperienza poetica di G.: vi son contenute
le note soggettive tipiche dell'elegia latina, Ia dedizione d'amore intesa
come servitium nei confronti della domina, l'accenno alla nequitia, alla
dissolutezza, un concetto caratteristico del mondo elegiaco.
Probabilmente nella poesia di G. dovevano essere presenti i motivi e la
struttura compositiva della grande elegia augustea. In particolare, le note
mitiche ed erudite dovevano fondersi con la diretta esperienza sentimentale
del poeta amante.


Albio Tibullo
(Gabii 55/48 - 19 o 18 a.C.)

VITA.
Abbiamo poche e incerte notizie sulla vita di T., il poeta elegiaco che
Orazio (nell'epistola 1, 4) ritrae, pur bello e dotato di ogni bene, mentre
s'aggira nella campagna di Pedum (nei pressi di Tivoli) troppo immerso in
penosi pensieri, ridotto come un "corpo senz'anima".
Di ceto equestre, T. nacque in territorio laziale, anche se è molto
improbabile l'identificazione del luogo di nascita nel villaggio di Gabii,
come da qualcuno è stato proposto.
Fece parte, a Roma, del circolo di Messalla Corvino, e con Messalla, cui fu
sempre legato da intensa amicizia, partecipò a due spedizioni militari, una
in Oriente, nel corso della quale dove fermarsi, ammalato, a Corcira
(Corfu); l'altra in Aquitania, ove si distinse per meriti militari (cantò il
trionfo di Messalla - celebrato nel 27 - nell'elegia 1,7 nella quale è anche
un passo sul dio Osiride, interessante documento della sua religiosità).

OPERE E CONSIDERAZIONI.
*Il "Corpus Tibullianum". I codici ci hanno trasmesso 3 libri di elegie. I
primi due sono sicuramente di T.. Il I fu composto tra il 30 e il 25, e
consta di 10 elegie. Vi si canta sopra tutto l'amore per una donna, Delia,
che Apuleio, nella sua Apologia (10), dice chiamarsi Plania (T. avrebbe
ellenizzato il suo nome: planus = delos). Il II comprende 6 elegie, in tre
delle quali è cantata un altra donna, chiamata con uno pseudonimo, Nemesi:
come una 'Vendetta' per i tradimenti di Delia. Di un altro nome di donna fa
cenno Orazio nell'ode 1, 33: una certa Glicera, una Glicera crudele ch'è
venuta meno al patto d'amore col poeta.
C'è poi il III libro, che gli umanisti italiani divisero in due parti. La I
contiene una raccolta di 6 elegie che l'autore, un poeta di nome Ligdamo,
dedica alla sua Neera. La II consta di un anonimo Panegyricus Messallae, di
undici elegie che cantano l'amore di Sulpicia e Cerinto, per concludersi con
due componimenti, verisimilmente attribuibili a T. giovane: un'elegia per
una ragazza innominata (la Glicera di cui parla Orazio?) e un epigramma.
Molto probabile è che l'intero Corpus sia frutto di poeti del circolo
letterario di Messalla Corvino: vi si nota come una ispirazione comune,
quasi monocorde, comunque lontana dall'estrema ricchezza e varietà di toni
dei poeti della cerchia di Mecenate.
*I due libri di T.. Il mondo poetico di T. si configura come un nostalgico
vagheggiamento dell'amore e dell'ombra. I temi fondamentali della sua poesia
sono la campagna e l'amore, molto spesso intrecciati. Il poeta ama vedere la
sua donna, Delia, sullo sfondo della campagna, e contemplarla con tenerezza,
talora appena tinta di un indefinito dolore. Il suo è amore fatto sopra
tutto di malinconica dolcezza, oscillante tra il desiderio di star vicino
alla sua donna e certe fantasie di morire. Nel II libro i toni divengono
forse più sofferti e crudi per la venale Nemesi, il nuovo amore che avrebbe
dovuto sostituire l'infedele Delia, e che invece ha imposto al poeta una
umiliante schiavitù, un triste servitium. Le note di fondo permangono,
tuttavia, sostanzialmente identiche. Le avventure con Delia, con Nemesi o,
ancora, col giovinetto Marato (cui T. dedica ben tre elegie nel I libro)
sembrano spesso svaghi di fantasia più che reali, effettive esperienze.
L'amore del poeta non è quello, travolgente e passionale, di Catullo per
Lesbia. E' tenerezza, languore intriso di nostalgia e, molto spesso,
espressione di vicende intraviste, sognate, molto più che vissute.
A ciò contribuisce la tecnica compositiva di T., che ama disporre come a
onde i vari motivi che si sviluppano nell'elegia. Un tema si innesta su un
altro, per poi venire abbandonato e poi ripreso, in un gioco sinuoso di
volute entro cui ogni realtà sembra perdere i suoi connotati. Non sono - si
badi - le digressioni che con dotta arte gli alessandrini inserivano nel
discorso poetico. In T. la trama poetica, pur unitaria, si risolve in una
variazione di temi che quasi si inseguono intorno a quello di fondo, come in
una composizione musicale. Le vane note della poesia tibulliana, la
deprecazione della guerra, l'esaltazione della pace dei campi, le fantasie
d'amore e di morte, gli stessi luoghi comuni dell'erotica alessandrina (il
lamento davanti alla porta chiusa dell'amata, Cupido armato di frecce, i
riti magici per conquistare la donna) si fondono, spesso senza scorie che
sappiano di stilizzazione, di 'maniera', in una struttura tanto sottile
quanto organica. L'assenza di erudizione mitologica rende ancora più nitido
il disegno dell'elegia tibulliana che, anche per questo, occupa
nell'antichità un posto tutto particolare, straordinariamente moderno.
L'andamento vago, ondeggiante del testo poetico di T. si combina - ed è qui
forse il suo fascino precipuo - con un linguaggio chiaro, elegante nella sua
sobrietà, in apparenza semplice, ma in realtà risultato di un
sorvegliatissimo, dotto studio, espressione consumata di quel senso della
misura caratteristico del classicismo augusteo. Quintiliano acutamente
definì T. tersus atque elegans (10,1,93). Armonioso e musicale è il suo
distico; forse solo un po' monotono.
Un esempio tipico della composizione tibulliana per associazione di idee può
essere fornito da un rapido esame della III elegia del I libro, che
costituisce quasi una sintesi del suo mondo poetico. E' in essa un divagare
continuo, ma non tale da non permettere di intravedere le linee della
struttura poetica, organizzata con rara sagacia.
Il poeta è ammalato, a Corfù, e teme di morire lontano dai suoi, lontano da
Delia. Eppure l'amata, prima della partenza, ha interrogato gli oracoli e ha
supplicato Iside. Se riuscirà a salvarsi, il poeta celebrerà piuttosto i
Penati e i Lari. Il ricordo di queste primitive divinità gli suggerisce la
rievocazione dell'età dell'oro, l'epoca di Saturno e della felicità, ignara
di viaggi per mare e di guerre. Ora è invece il regno di Giove, ricco di
stragi e di morte. Eppure Giove dovrà salvarlo. Se dovrà invece morire, sarà
condotto nei Campi Elisi da Venere, in un regno di innamorati fatto di danze
e di canti, dove i giovani giocano misti alle tenere fanciulle. Ma
nell'oltretomba non ci son solo gli Elisi: c'è pure il luogo di dannazione,
destinato a chi abbia violato l'amore del poeta e a chi gli abbia augurato
lunga la campagna militare. Ma Delia resti casta: a lei, raccolta
nell'intimità della casa, mentre la vecchia nutrice le racconta una favola e
l'ancella che fila la lana s'abbandona al sonno, il poeta apparirà
improvviso e la sorprenderà; a piedi nudi Delia correrà verso di lui, coi
lunghi capelli scomposti.
L'immagine di Delia che corre incontro al poeta è tra le più fini della
poesia tibulliana; ma non solo per se stessa, per il suo intimo fascino,
quanto sopra tutto perchè non è mai avvenuta, frutto, soltanto, di un vago
fantasticare. Qui e' l'incanto particolare delle immagini di T.: nel sognare
e realizzare nel sogno ciò che potrebbe accadere, ma che non è mai avvenuto
e forse mai sarà.
Nelle elegie del II libro compare qualche tratto più realistico (solo
qualche tratto, perchè l'attenzione di T. non ama soffermarsi su ciò che è
attuale e presente, ma dilatarsi nella speranza, nel desiderio, o nella
rievocazione del passato). In un caso il poeta raggiunge un'intensissima
suggestione: in 2, 6, 29-43 prega Nemesi di aver pietà di lui, in nome della
sorella morta anzi tempo. Per convincerla, le prospetta la possibilità che
la sorella le appaia nel sonno, presso il letto, insanguinata come quando
cadde a precipizio dall'alta finestra e raggiunse i laghi infernali. E' una
minaccia che T. fa balenare agli occhi della sua dura puella, ma quella
pozza di sangue nella strada è troppo cruda per non essere stata anche vera.
La campagna di T. non è solo quella di Delia e delle tenerezze d'amore. E'
anche la campagna che, con la sua idillica pace, si contrappone agli avidi
guadagni e al fragore delle armi. E', ancora, la campagna delle feste
contadine, quella che conserva i riti antichi del mondo rurale (la I elegia
del II libro è dedicata agli Ambarvalia, al rito della purificazione dei
campi). Il poeta è rimasto legato alla fede della sua infanzia, agli dèi
della campagna e del focolare: nelle sue elegie compaiono i Lari (ai cui
piedi T. correva, da bambino: cfr. 1, 10, 15 5.) e Silvano e Priapo e Bacco,
e poi Cerere e Pale. La campagna coi suoi riti è per lui l'approdo sicuro,
ove più genuini si manifestano gli affetti domestici e i sacri vincoli della
famiglia. Anche l'esaltazione di Roma, presente nell'elegia 2, 5 (dedicata a
Messalino) si risolve nella rievocazione, densa di ricordi virgiliani, della
religiosità agreste del Lazio primitivo.
*Ligdamo. L'attuale III libro consta di 6 elegie attribuite a un certo
Ligdamo (è cosi che il poeta si nomina in 2, 29) che canta il suo amore per
una donna, Neera. Si tratta con ogni probabilità di uno pseudonimo. Solo uno
schiavo, infatti, avrebbe potuto avere un nome greco, mentre il poeta, come
risulta dalle elegie, si rivela di condizione libera. Ardua è però
l'identificazione di Ligdamo. L'ipotesi più plausibile è che sia uno poeti
che fecero parte del circolo di Messalla Corvino (taluni lo identificano con
lo stesso T., talaltri con Ovidio giovane).
Quel che si può con sufficiente certezza affermare è che Ligdamo ha letto, e
imitato, sia T. sia Ovidio, mutuandone immagini ed espressioni per dare vita
al suo ancor tenue, giovanile mondo poetico. E' innamorato di Neera, con una
dilezione tenera e casta, e accarezza il sogno di una vita matrimoniale con
lei. Ma Neera è incostante e infedele, e l'abbandona, lasciandolo affranto
dal dolore. E nel dolore s'arrovella, certo più di T., e pensa alla morte, a
Neera che, coi capelli scomposti, e accompagnata dalla madre, s'avvicinerà
al suo rogo (2, 9-13).
*Il Panegirico di Messala. Il "Panegyricus Messallae", un elogio di Messalla
composto forse nel 31 a.C., anno del suo consolato, apre l'attuale IV libro
del Corpus. E' stato attribuito a T. giovane, ma sembra troppo lontano dalla
sua arte (con ben altro fermento fantastico T. ha celebrato Messalla
nell'elegia 1,7). Il caratteristico divagare tibulliano qui scade in una
retorica, adulatrice esaltazione di Messalla, oratore (nella I parte) e
condottiero (nella II), con l'aggiunta di pedanti digressioni sull'Odissea e
sulle cinque zone climatiche.
*Il ciclo di Sulpicia e Cerinto. Seguono, nel IV libro, 13 componimenti. Gli
ultimi 2 sono verisimilmente tibulliani. Il ciclo di Sulpicia e Cerinto
occupa dunque 11 elegie (2-12). Le prime 5 narrano le vicende d'amore di
Sulpicia, nipote di Messalla, col giovane Cerinto. Sono state attribuite,
con buona probabilità, a T. (ma come suona strano questo T. che narra amori
altrui!). Gli altri 6 componimenti sono brevissimi biglietti d'amore
composti, per il suo diletto, forse dalla stessa Sulpicia. In essi Sulpicia
confessa il suo amore, che è passione di sensi, con sorprendente
immediatezza espressiva. Brama rivelare il suo amore, e non tenerlo
nascosto, perchè dolce le è l'aver peccato (7); se ha un pentimento è per un
mancato incontro d'amore: per aver lasciato solo il suo Cerinto durante una
notte, troppo preoccupata di nascondergli tutto il suo ardore (12).


Sesto Properzio
(Assisi? 50 ca a.C. - Roma, dopo il 15 a.C.)

VITA.
P. nacque da agiata famiglia di rango equestre che però, dopo la guerra
perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il padre, fu dalla
madre condotto a Roma, ove fu avviato alla carriera forense. Ma P. rivelò
molto per tempo le sue attitudini per la poesia. Al 28 a.C. risale la
pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto monobiblos ("libro
unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la
tradizione dei poeti alessandrini.
Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome
Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte
Cinto (si ricordi la Delia di Tibullo). Cinzia, una fascinosissima donna,
forse più grande di P., dagli occhi neri e dai capelli fulvi, colta e
mondana, elegante, amante della danza, della poesia, ma anche di facili
avventure d'amore (e dunque costituzionalmente infedele) dominò
incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato di un
rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della passione.
Si amarono, talora nevroticamente, per quasi cinque anni. Cinzia morì
intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il desideno di
lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. P. la seguì nella
morte intorno al 16 a.C. Una vera e definitiva rottura con Cinzia non ci fu
mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero
segnare il discidium, la separazione definitiva; nonostante la morte di lei.

OPERE.
P. compose 4 libri di "elegie". Come monobiblos fu pubblicato nel 28 il I
libro (22 elegie). Sempre pronto nell'individuare i migliori talenti,
Mecenate apprezzò le qualità poetiche di P., che fu subito ammesso nel
celebre 'circolo'.
P. conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale
era solito recitare i propri roventi versi. Difficili, invece, i rapporti
con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo
e P. sembrano poi del tutto ignorarsi: gelosia reciproca?
Tra il 28 e il 25 compose il II libro (34 elegie), che si apre con una
recusatio, un rifiuto da parte del poeta di coltivare la poesia
epico-celebrativa cui Mecenate pur lo sollecitava. Pubblicò il II libro
forse insieme col III (25 elegie) nel 22. Il IV libro (11 elegie), che
contiene le 5 elegie 'romane', volte a cantare leggende e riti
dell'antichità romana (P. accolse finalmente, anche se con tutta misura le
richieste di Mecenate), fu probabilmente pubblicato nel 16 a.C., data a cui
risalgono gli eventi cui vi si fa riferimento.

CONTENUTI E CONSIDERAZIONI.
Poesia e amore sono due elementi inscindibili in P.. Il poeta si sente
vittima d'amore, e proclama il suo servitium Amoris, la sua dedizione totale
alla passione. E' una precisa scelta di vita, lontana dalle tradizionali
ambizioni del foro e della politica, una vita di nequitia di cui il poeta è
consapevole; ed è pure una scelta di poesia e di poetica (illuminante, al
riguardo, è particolarmente la I elegia del I libro): di una poesia che
esprima una vita dedita all'amore, e che dunque sia idonea a far innamorare
la donna, e una poetica, quella callimachea, che con sua brevitas e
l'impiego del mito meglio si presti agli intenti del poeta elegiaco.
A differenza di Tibullo, che sembra quasi smarrirsi nelle sue fantasie, P.
ha un'immaginazione corposa, che ama le tinte intense, i bruschi trapassi.
L'amore è al centro del suo canto, ma un amore fatto sopra tutto di passione
e di tormento, assoluto e coinvolgente, che si proietta oltre il reale,
oltre la vita stessa, sino a superare le barriere della morte.
*Di Cinzia il poeta, già all'inizio del I libro, sottolinea la prepotente
bellezza fisica (1, 2). E' questa splendida presenza fatta di carne che
ossessiona il ricordo e alimenta la gelosia di P.. In 1, 11 Cinzia è a Baia,
allora mondanissimo luogo di villeggiatura, e il poeta la segue con la mente
sino al momento in cui si delinea, atroce, il sospetto che la donna possa
abbandonarsi a un'avventura, quella donna che da sola costituiva la casa, i
genitori, ogni possibilità di gioia per la sua vita (vv. 23 s.):
tu mihi sola domus, tu, Cynthia, sola parentes,
omnia tu nostrae tempora laetitiae.
E' la totalità radicale di questo amore, è Cinzia che col suo corpo assilla
la fantasia del poeta. In 2,15 P. descrive una intensa notte d'amore,
ritratta con un'audacia singolare, che a momenti può ricordare la lucreziana
follia degli amanti, ma che in effetti vuole esprimere un bisogno acutissimo
di eternità, il desiderio che quell'amore, quel contatto fisico possa
durare, ripetuto, all'infinito, in una catena indissolubile: perchè la vita
è fugace e tutto può, d'un tratto, dileguarsi. La morte incombe, ma proprio
per questo Cinzia è tanto più bella e amabile, e la stessa morte è meno da
temere se P. può contare sul costante amore di lei (1, 19). Molto spesso,
nel suo 'Canzoniere', il poeta s'abbandona a fantasie di morte in connubio
singolare con un prepotente senso dell'eros: è l'amore che vuole protendersi
oltre la vita e disporsi in una dimensione definitiva.
P. si compiace di immaginare Cinzia in situazioni difficili, disperate, come
in 2, 26, ove la donna è ritratta vittima di un naufragio, già trasportata,
fatta pesante, dalle onde. Fantasie di poeta, che si sviluppano però non
secondo le morbide volute tibulliane. Piuttosto, si accaniscono con
straordinaria intensità attorno ad alcuni punti focali secondo una logica
poetica talora strana, anomala nei suoi trapassi, forse non sempre del tutto
coerente, ma probabilmente proprio per questo più accattivante. Nella stessa
elegia in cui si compiace di vedere Cinzia sbattuta dalle onde, il poeta si
lascia andare a un impossibile sogno d'amore, proiettato al di là delle
distese marine: se la sua donna vorrà avventurarsi per l'ampio mare, egli la
seguirà; si addormenteranno sullo stesso lido, uno stesso albero sarà il
loro tetto, alla stessa sorgente entrambi berranno (vv. 29 ss.).
P. ama contemplare Cinzia, fissarla in alcuni momenti di seduzione: nel
giorno del suo compleanno la invita a farsi più bella che mai, e a indossare
l'abito con cui a lui era apparsa la prima volta (3, 10); si sofferma a
mirarla dormente in un sonno quasi mitico, in un'atmosfera satura del
respiro e della presenza dell'amata (1, 3), o, in 2, 29, la contempla appena
sveglia, sola nel suo letto, bella da incantare (vv. 25 s.), prima di una
memorabile scenata d'ira della donna.
Le furie di Cinzia attirano spesso, con toni intensi e strani, la fantasia
del poeta. Dolce gli è ricordare le imprecazioni e le coppe colme di vino
che Cinzia, come una pazza, gli ha lanciato contro (3, 8): sono, per lui,
segni di vera passione, come i morsi sul collo e le lividure, tanto più che
nell'amore egli vuole soffrire o sentire che la donna soffre (v. 23).
Singolarissima è la temperie di 4, 8, ove a una scena ritratta con vivace
realismo subentra un'atmosfera come di incubo: Cinzia appare all'improvviso,
pur bella nel suo furore, e interrompe una boccaccesca avventura del poeta
sfogando la sua ira sulle sue due amichette e, con schiaffi e morsi, sul
poeta stesso.
La Cinzia di 4, 8 appare prepotentemente viva, nel suo furore, nella
gelosia, nella passione che attraversa le sue membra. E' questa presenza,
assillante, del corpo della donna che si pone al centro dell'immaginazione
del poeta e sollecita le più vane e strane fantasie. Nell'elegia che
immediatamente precede (4, 7), Cinzia è vista, dopo la sua morte, da poco
sepolta, apparire di notte a P.. E' l'apparizione di una defunta; eppure c'è
ancora il senso della carne, di quel corpo che continua ad essere
l'ossessione del poeta: Cinzia sembra quasi che s'appoggi col suo peso sul
letto di P., dopo le sue esequie, le esequie di un amore, con gli stessi
occhi, gli stessi capelli che aveva al momento del funerale, con la veste
bruciata al fianco e le labbra scolorite. Cinzia parla a P., e gli rammenta
le gioie furtive d'amore nella Suburra, il davanzale della sua finestra
logorato dalle segrete fughe notturne e gli abbracci sul trivio e la strada
che, attraverso i mantelli distesi, avvertiva il calore dei loro corpi
avvinti. Ora, la casa un tempo piena della sua presenza, è dominata da
un'altra. Ma non s'illuda P.: per il momento lo possiedano pure altre donne,
chè presto lei sola lo terrà, e sfregherà, mescolandole, le proprie ossa
contro le sue (vv. 93 s.).
L'elegia segna il culmine dell'esperienza poetica di P.: l'amore che va
oltre la vita, ma - e questo è il suo carattere precipuo - con un senso
quasi oppressivo della presenza carnale di Cinzia.
*Il mito e le "Elegie romane". Pure per altra via la presenza di Cinzia
diviene, nel poeta, memoria grandiosa. P. eredita dalla poetica
alessandrina, di cui è stato a Roma finissimo interprete, l'impiego del
mito, ma non di un mito inteso puramente come brillante e talora divertito
sfoggio di erudizione. In P. la realtà stessa viene rivissuta alla luce del
mito: sopra ogni cosa, Cinzia. L'intero suo mondo degli affetti viene
trasfigurato e, per così dire, eternato dall'atmosfera incantata del mito.
L'esperienza d'amore del poeta viene così sublimata da una luce ideale e Cin
zia, la creatura di sangue e di passione, viene intravista in una dimensione
mitica. Persino il ricordo di Licinna, la schiava di Cinzia che al poeta
giovane aveva rivelato i segreti dell'amore, ed era stata fatta oggetto
delle ire gelose della padrona, persino l'umile Licinna, vittima di ingiuste
vessazioni, suggerisce a P. la rievocazione di un mito di dolore, quello di
Antiope, forse il suo mito più patetico e intenso (3, 15).
Effettivamente, la trasfigurazione mitica è, per P., il mezzo ideale per
sublimare la realtà, e resterà costante nell'intera sua produzione poetica.
In altri termini, non è da ravvisare una frattura spirituale e artistica tra
il P. cantore d'amore e il P. che canta antichi miti romani e italici. Dopo
la pubblicazione del I libro, abbiamo visto, egli viene accolto nel circolo
di Mecenate, che cerca, in sintonia con la politica culturale, etica e
religiosa del regime augusteo, di indirizzarlo verso un tipo di poesia più
elevata, atta a celebrare le glorie romane. Più volte, con amabili
recusationes, P. si schermisce: la sua Musa è troppo tenue per poter cantare
argomenti di tanto impegno. Egli si appella a quelli che considera i suoi
maestri, come Filita e ancor più Callimaco, che aveva disdegnato la poesia
epica e celebrativa a favore del componimento breve e ricercato (P. è anche
attentissimo lettore di epigrammi ellenistici i cui motivi trasfonde sovente
nelle sue elegie). Alla fine, pur dopo vane e non sempre chiare
oscillazioni, P. cede alle sollecitazioni di Mecenate e si decide a comporre
alcune elegie relative alle origini di antiche tradizioni di Roma, collegate
con culti o luoghi particolari. Alla base, ancora una volta, è Callimaco coi
suoi Aitia, il poema sulle origini di antichi riti e istituzioni (come
"Callimaco romano" P. si presenta nell'elegia proemiale del IV libro). Le
"Elegie romane" (la II, IV, VI, IX, X del quarto libro) introducono nella
letteratura latina l'elegia di tipo eziologico, che Ovidio riprenderà e
svilupperà nei suoi Fasti.
P. rivive dunque le origini di storie e leggende dell'antica Roma
collegandosi alla lezione di Callimaco, ma con una visione finale del mito
che certamente supera gli angusti ambiti entro cui il poeta di Cirene lo
aveva costretto. Al 'mito' di Cinzia subentra (o, meglio, s'alterna nella
singolare compagine del IV libro) quello di Roma con un atteggiamento
poetico sostanzialmente coerente. Perchè mito è per P. elevare la realtà
attuale in un passato esemplare che la renda in certo modo eterna. E' il
continuo trasferire la contingenza del reale in una dimensione ideale ad
assicurare la continuità di ispirazione nella pur tanto complessa produzione
poetica properziana. Nelle elegie romane P., come Virgilio nell'VIII libro
dell'Eneide, vagheggia l'età primitiva di Roma e canta vicende remote,
circonfuse di un'aura leggendaria, come le origini del culto di Giove
Feretno (10), Ercole e Caco (9), ma sopra tutto la leggenda di Tarpea (4),
la fanciulla che per amore, almeno nella versione properziana, tradisce la
sua patria, e che, al solo vederlo, s'innamora di Tito Tazio, il re nemico
di cui amerebbe divenir prigioniera. E poi c'è la gustosissima elegia che
canta Vertumno (2), una strana divinità capace di trasformarsi in ogni cosa
e di rivestire ogni forma: un'elegia che traduce il tema eziologico in un
vivace gioco fantastico.
Nel contesto del IV libro particolare rilievo assumono ancora due elegie,
nelle quali il cantore appassionato di Cinzia esalta il casto amore
coniugale. La III elegia è una lettera che Aretusa invia al marito Licota
impegnato in una spedizione militare, una lettera densa di trepidazione,
desiderio, gelosia della donna per il marito lontano. Con ogni probabilità
Ovidio tenne presente questa epistola in forma di elegia per la composizione
delle sue Heroides. L'ultima elegia del IV libro (11), che la tradizione
suole denominare regina elegiarum, si risolve in una celebrazione delle
antiche virtù delle matrone romane. L'esaltazione dei valori tradizionali e
il tema dell'amore si fondono nelle nobili parole che, dopo la morte,
Cornelia rivolge al marito Emilio Paolo. Traspare in esse, con una spoglia
essenzialità, rara in P., la dedizione totale di una donna alla sua
famiglia, la sua intemerata fedeltà, uno spirito di abnegazione che ricorda
l'Alcesti euripidea, il delicatissimo amore nei confronti dei figli col
desiderio, sottile, di continuare a esser presente nella casa che una volta
fu sua.

LA LINGUA E LO STILE.
All'intensità sentimentale dell'elegia properziana corrisponde una temperie
stilistica densa, fatta di scorci, di trapassi arditi, in una concentrazione
talora estrema, che costringe il lettore a indugiare di continuo per
cogliere la pregnanza spesso oscura di un'espressione. A termini dotti e
ricercati s'alternano, nei contesti più realistici, espressioni del
linguaggio quotidiano, in una tensione stilistica ricca di ambiguità. E'
arduo talora cogliere a pieno l'intera valenza connotativa di
un'espressione, come è difficile, almeno all'inizio, individuare,
nell'intreccio delle sue articolazioni, la struttura di un'elegia
properziana: è una tecnica eminentemente composita, nella quale sembra
tradursi l'animo stesso, appassionato e contorto, del poeta. Di qui gli
inizi improvvisi, assai suggestivi, delle sue elegie; di qui i passaggi
sintattici e concettuali repentini e, almeno in apparenza, lontani da ogni
coerenza logica. Le sue espressioni hanno la concentrazione incisiva delle
epigrafi, una densità che sembra di fiamma (ignes definì Ovidio i versi di
P.), ma anche, all'occasione, una certa patina di leggera ironia, che sembra
svelare, in alcuni momenti, il gioco del poeta,
ondeggiante tra fantasia e realtà, la sua capacità di distaccarsi
dall'oggetto della sua passione, e di ragionare, un po' divertito, sulla
passione stessa. Il tutto con un linguaggio poetico elevato, informato a una
dotta eleganza.
Nelle elegie s'avverte un incalzare di immagini che s'addensano come in
blocchi, fervidi di idee e di allusività. Una tecnica che è lontana dalle
ampie volute tibulliane come dalle 'emozioni' catulliane. Rispetto al
Veronese, che dà risalto al particolare sia esso di gioia, d'amore o di
dolore, in P. c'è un'atmosfera mitica che pone ogni cosa in una prospettiva
ideale, appena temperata da un trasparente velo di ironia.


Publio Ovidio Nasone
(Sulmona, Abruzzo 43 a.C. - Tomi, Mar Nero 17-18 d.C.)

VITA.
O. nacque da antica e agiata famiglia equestre (nell'elegia 4, 10 dei
Tristia è il poeta stesso a trasmetterci notizie sulla sua vita). A Roma,
ove si recò col fratello, studiò grammatica e retorica presso insigni
maestri come Arellio Fusco e Porcio Latrone. Destinato alla carriera forense
e politica, O. avvertì invece imperiosa l'inclinazione verso la poesia, al
punto che tutto ciò che tentava di dire era già in versi (et quod temptabam
dicere versus erat). Dopo il rituale viaggio di perfezionamento ad Atene, O.
rientrò a Roma, ove esercitò solo qualche magistratura minore. Ad alimentare
la sua vocazione poetica fu Valerio Messalla Corvino; ma O. fu vicino pure a
Mecenate, e conobbe i maggiori poeti dell'epoca, come Orazio, Properzio,
Gallo (solo per poco vide Virgilio). Ebbe tre mogli: dopo due matrimoni
sfortunati (ma ebbe una figlia, forse dalla seconda moglie), sposò una
giovane fanciulla della gens Fabia che amò teneramente sino alla fine. Il
legame coniugale non gli impedì di essere il poeta galante, cantore di una
Roma ormai dimentica delle guerre civili, vogliosa soltanto di vivere e di
godere.
Nell'8 d.c., quando ogni cosa sembrava sorridergli, il poeta fu colpito da
un ordine di Augusto (revocato neanche dal successore Tiberio), che lo
relegava a Tomi, l'attuale Costanza, sulle coste del Ponto (il Mar Nero). Si
trattò, e' vero, di una relegatio che, a differenza dell'exilium, non
prevedeva la perdita dei diritti di cittadino e la confisca dei beni. E
tuttavia, di fatto, O. fu costretto a rimanere isolato in una terra
selvaggia e inospitale, nella più cupa tristezza, sino alla morte, che lo
colse nel 17 (o 18) d.c.
Ignoti restano i motivi del severo provvedimento di Augusto, anche se O.
parla, enigmaticamente, di due colpe che l'avrebbero perduto (trist. 2, 1,
207): carmen et error. Nel carmen deve essere allusione all' Ars amatoria,
il suo trattato sull'amore libertino che, contemporaneamente alla condanna,
venne ritirato dalle biblioteche pubbliche. Riguardo l'error, l'ipotesi più
verisimile è che O. sia stato coinvolto in uno scandalo di corte: fatto è
che nello stesso anno, pure Giulia minore, nipote di Augusto, fu relegata
nelle isole Tremiti, accusata di adulterio col giovane patrizio Decimo
Silano.

OPERE E CONSIDERAZIONI.
Possiamo dividere la multiforme attività poetica di O. in tre momenti che
corrispondono ad altrettante fasi della sua vita.
Al primo periodo appartengono le poesie erotiche, che cantano l'amore nella
galante cornice della vita di Roma: gli "Amores", un canzoniere d'amore, le
"Heroides", lettere di eroine ai loro infedeli amanti, l' "Ars amatoria",
una precettistica dell'arte d'amare, i "Medicamina faciei femineae", un
trattato di cosmetica, i "Remedia amoris", composti per aiutare a guarire
dalle pene d'amore.
Al secondo periodo appartengono le opere mitologico-narrative, di più ampio
respiro, composte a partire dal 3 d.C., e in varia misura collegate con la
celebrazione del principato: sono le "Metamorfosi", il poema delle
trasformazioni e i "Fasti", un poema che doveva illustrare il calendario
romano, ma che fu interrotto dalla relegazione del poeta a Tomi.
II terzo periodo e' quello dell'esilio e comprende la composizione dei
"Tristia" e delle "Epistulae ex Ponto", i canti della solitudine e della
nostalgia, della noia e della disperazione.
*Gli Amores. Gli Amores, in 3 libri (una I ed. era però in 5 libri), furono
composti tra il 23 e il 14 a.C.: O. ne iniziò la composizione, dunque,
intorno ai vent'anni.
Sono elegie di carattere amoroso nelle quali è cantata una donna, Corinna.
Ma Corinna è uno pseudonimo (è il nome di una poetessa greca)forse di un
personaggio puramente letterario. Quel che si può con certezza affermare è
che Corinna è lontanissima dalle donne intensamente vagheggiate dagli altri
poeti d'amore latini. Ella sembra sintetizzare tutti quanti gli 'amori' di
un poeta che, per indole, non poteva cantare un'unica passione. Corinna è
donna, almeno nella fantasia poetica e al contempo, è un insieme di donne,
la somma di esperienze erotiche o semplicemente galanti che il poeta vive in
una Roma splendida. in una società smaliziata e gaudente.
Amore come avventura, dunque, con tutto ciò che ogni avventura comporta:
corteggiamento, attese, vezzose ritrosie, conquiste mai definitive, ma
legate al momento, a un cenno di compiacenza, a un assenso finalmente
ottenuto ma pronto a dissolversi alle prime nuove brezze. Arguto è O. in
questo gioco dei sentimenti, d'una arguzia gradevolmente ironica, che
costituisce una delle note più gustose di questo suo disincantato mondo
poetico. E' una sequela di quadri, di scene di vita, che s'alternano a
precetti d'amore, a casistiche varie, alle infinite situazioni che
l'incontro di una donna può destare. Il tutto con un distico elegiaco
estremamente musicale che segue con rara aderenza la materia trattata.
Ad alimentare la fantasia ovidiana è la precedente produzione elegiaca, e'
una serie di "luoghi comuni" (come il lamento davanti alla porta dell'amata,
il servizio d'amore inteso come milizia...); è l'epigramma ellenistico
d'amore, invece, che gli suggerisce variazioni su tema pressochè infinite;
ma è anche una Roma brillante e festosa, che viene ad essere eternata nei
lievi, cantabili distici ovidiani. Sorprendente, sin d'ora, è l'attitudine
del poeta a scavare entro le pieghe riposte della psicologia femminile (la
composizione delle Heroides, vero capolavoro in questo senso, è forse
contemporanea a quella degli Amores). Un'attenzione per la donna e il suo
mondo che resterà costante nella poesia del Sulmonese.
Quella degli Amores e' una poesia di una superficialità che incanta, che
dell'amore sembra preferire i soli 'esterni' in una società che tutta pare
ridursi a vivere in un perenne gioco galante. Arte della variazione spinta
al massimo, e non solo dal punto di vista letterario. O. non può, diremmo
costituzionalmente, riconoscere un unico oggetto d'amore: tutte gli
piacciono le belle romane, e a nessuna si sente di opporre resistenza. Non
una bellezza definita suscita in lui l'amore: ogni donna ha una sua
attrattiva, a volte particolarissima, che in maniera irresistibile, riesce a
sedurlo (2, 4). Sono amori che iniziano e finiscono spesso Lì dove sono
nati, che sembrano, nonostante le promesse, esaurirsi in un'amabile corte
(come in quella, impareggiabile, che il poeta rivolge a una gran bella
donna, tutta gambe e sorrisi, che, accanto a lui, assiste alle corse dei
carri nel Circo (3, 2).
*Le Heroides. Le Heroides (il nome in origine dové però essere quello di
Epistulae heroidum) sono 21 lettere d'amore in metro elegiaco, indirizzate
da donne, in genere del mondo del mito, ai loro amanti. In particolare, 14
sono lettere di eroine mitiche (come di Penelope a Ulisse, Fedra a Ippolito,
Didone a Enea, Medea a Giasone...), una è della poetessa Saffo a Faone; le
ultime 6, disposte a coppie, e composte da O. forse successivamente, sono
lettere di eroi alle loro amate, seguite dalla risposta di queste. Domina,
nelle epistole, la forma retorica della suasoria, del discorso cioè che
tende a convincere qualcuno a compiere una determinata azione: in questo
caso a ricambiare un amore. O. può vantarsi (ars 3, 346) di avere, con le
Heroides, introdotto un genere nuovo nella letteratura antica, cioè
l'epistola erotica in versi, anche se indubbio precedente era l'epistola
properziana (4, 3) di Aretusa a Licota (due pseudonimi che cela\'ano
personaggi reali, a differenza di O. che attinge dalla sfera del mito).

Il mito e la donna: e' questo il fulcro poetico delle Heroides ovidiane.
Certo, non nel senso properziano dell'idealizzazione mitica della figura
femminile. Piuttosto, O. umanizza le antiche eroine. Le solenni vicende del
mito rivivono col palpito delle passioni e dei turbamenti delle donne della
Roma di O., delle donne di sempre. Alla base è il motivo dell'amore
infelice, quale fu cantato dalla poesia alessandrina, in particolare quello
della donna abbandonata. Accanto a questa fondamentale fonte di ispirazione
s'affiancano numerose altre suggestioni letterarie: Omero e i tragici greci,
e poi Catullo, Virgilio, Orazio.
Ad animare l'ampio materiale proveniente dalla letteratura precedente, è
l'eccezionale capacità di O., erede, in questo, di Euripide, di penetrare
negli intimi recessi dell'animo femminile, a sondarne i sentimenti pur
attraverso ripetizioni, riprese, frasi dette e poi smentite, in un vortice
di immagini ricche di sfaccettature e di risvolti insospettati. O., allievo
delle scuole di retorica, Si rivela maestro in quest'arte di andare a fondo
di una situazione spirituale, di esaminarne, uno per uno, i possibili (e
talora impossibili) esiti. Rischio di tale operazione poteva essere quello
di ridurre ogni afflato sentimentale a una serie di giochi d'intelletto, di
battute a freddo, in lunghi, sempre uguali monologhi di anime affrante. In
effetti, la preparazione retorica ha offerto al poeta uno strumento
eccellente per sviscerare a fondo la complessità dell'animo femminile; è
divenuta essa stessa mezzo mirabile per l'espressione di un contorto mondo
spirituale, di idee e immagini ripetute talora in maniera ossessiva.
Al centro, è la donna del mito, ma resa umana, quasi ridotta in frammenti di
impulsi e di sensazioni. E' la donna eterna che trionfa sull'idealizzazione
mitica, la donna di sempre con le sue emozioni, le sue solitudini, la
tormentosa sensibilità. E proprio quest'arte di frantumazione del mondo
sentimentale che consente a O. di gettare un fascio di luce su passioni
anche scabrose, su segreti inconfessabili, su certi chiaroscuri che verranno
ripresi e sviluppati dalla successiva letteratura imperiale. Le Heroides
sono forse l'opera più 'moderna' di O., in cui l'animo femminile si rivela
con inedita verità. Torna al sommario
Molto varie sono le vibrazioni sentimentali delle Heroides: la penetrante,
straordinariamente 'soffice' seduzione che Fedra vuole a tutti i costi
esercitare su Ippolito, l'amato figliastro (4); la vanità, tanto intensa
quanto puritana, di Elena che non vuol cedere, ma cede, a Paride (17);
l'atmosfera 'romantica' e le incantate sospensioni, paesistiche e
sentimentali, che fanno da sfondo all'impossibile storia di Ero e Leandro
(18). Impossibile e scellerata la passione di Canace per il fratello Macareo
(11): la lettera che Canace scrive prima di uccidersi è densa di cupo
pathos, storia di un amore che si risolve in tragici preparativi di morte.
Atmosfera di morte e di tristezza inconsolabile anche nella lettera di
Laodamia a Protesilao, nella sua trepidazione, nei presagi di lutto, in
quella stessa immagine di cera che riproduce le fattezze del marito, e che
Laodamia troppo morbosamente conserva e accarezza (13, 151 ss.).
*L'Ars amatoria. L'Ars amatoria (il titolo deriva dal primo verso
dell'opera), composti tra l'1 a.C. e l''l d.C., consta di 3 libri in distici
elegiaci. I primi due libri sono indirizzati agli uomini, ai quali O.
insegna come incontrare, conquistare (1), conservare (II) l'amore di una
donna; nel III, composto in un secondo momento, il poeta rivolge gli stessi
consigli alle donne. Torna al sommario
Anche l'Ars amatoria costituisce un genere nuovo. Si presenta, nella
struttura, come un'opera didascalica (del tipo delle Georgiche virgiliane),
ma coi contenuti caratteristici del più smaliziato mondo poetico ovidiano.
L'opera vuole essere un trattato sui comportamenti d'amore, vera summa - e
culmine - di tutta l'elegia latina precedente, una precettistica di
galanteria erotica, condita di arguzie e piacevolezze, ma nella struttura
del poema didascalico. Di qui un contrasto sottile, che offre al poeta
l'occasione per istituire un suo gioco, intellettualistico e ironico, su
quell'eterno gioco che è l'amore (egli è lascivi... praeceptor Amoris: 2,
497). L'Ars amatoria (che già nel titolo riecheggia da un lato le coeve
artes oratoriae, dall'altro le "arti d'amare" dei filosofi greci) dispone in
maniera organica quei precetti che più di una volta, anche se in forma
isolata, erano gia apparsi negli Amores (qualche spunto 'precettistico' era
anche in Tibullo e in Properzio); ma e' una precettistica molto poco
austera, chè ogni situazione d'amore resta solo frivola avventura,
arricchita da digressioni, gustosi riferimenti al mondo del mito o alla
storia o alla leggenda (in alcuni 'affreschi' mitici è gia prefigurato
quello che sarà il mondo delle Metamorfosi). Al di sopra di tutto, al di
sopra dei luoghi comuni, dei consigli d'amore, delle scene di vita come
degli squarci di mito è la sorridente arguzia del poeta, che con arte
suprema e impeccabile impegno formale ha creato un mondo in cui tutto sembra
accordarsi, anche gli inganni, gli spergiuri e le astute simulazioni, in una
superiore armonia. Sullo sfondo, ancora la Roma degli Amores, una Roma
fissata in un'atmosfera di magica luminosità. Una Roma nelle cui vie
affollate unica dominatrice sembra essere la donna, con l'incanto delle sue
apparizioni, con la gioia e il senso di vita che riesce a infondere. Questo
ovidiano è sopra tutto un mondo di grazia e di eleganza, ove ognuno trova la
propria dimensione in un impegno d'amore che è, sì, coinvolgente, ma che mai
assorbe troppo sul serio.
Anche gli dèi e gli eroi sembrano far parte di questo mondo ove tutto si
riduce a levità, gioco superficiale ma terribilmente ammaliante. Si pensi a
Ulisse e Calipso che discutono sulla spiaggia: Ulisse è arso dal desiderio
di rivedere la patria; Calipso, tristemente consapevole di un abbandono che
vede imminente, ancora vuole riascoltare dalle labbra dell'amato le sue
eroiche vicende, quando all'improvviso un'onda cancella i tratti coi quali,
sull'arena, Ulisse aveva disegnato e Troia e il Simoenta e i grandi
accampamenti (2, 123-142). Il mito si è come dissolto in tocco leggero, un
piacevole conversare, in segni tracciati su un lido che un'onda può in un
attimo cancellare. Si pensi, ancora, all'atmosfera di magica attesa in cui
si risolve la tragica storia di Procri, invano gelosa dell'amato Cefalo (3,
687-746) o alla festevole leggerezza con cui si conclude quella vicenda di
Bacco e Arianna (1, 525-~61) che con intenso pathos Catullo aveva cantato
neT c. 64.
*Opera a suo modo precettistica è pure il De medicamine faciei ('L'arte del
trucco'), un trattatello di cosmetica di circa cento versi in metro elegiaco
con cui O. indica alle donne come rendere più attraente la loro bellezza.
Torna al sommario
*I Remedia amoris, sempre in distici elegiaci (per Un totale di circa
ottocento versi), vogliono invece insegnare i mezzi con cui si curano gli
effetti nefasti dell'amore. In particolare deg1i amori sfortunati. Con fine
ironia, che vuole ripetere quella dell'Ars, il poeta invita 1'amante
infelice a considerare i difetti dell'amata, a fuggire la solitudine e,
insomma, a 'distrarsi'. Importante è poi ostacolare la mala passione quand'è
all'inizio, prima che col tempo abbia modo di prender forza . Amabile gioco,
questo di O., che mostra di ritrattare, ma con infinito garbo, gli
insegnamenti dell'Ars.
*Le Metamorfosi. Le Metamorfosi (Metamorphoseon libri XV), il 'poema delle
trasformazioni', che O. iniziò a comporre intorno al 3 d.C., sono in 15
libri di esametri, contenenti circa 250 miti uniti tra loro dal tema della
trasformazione: uomini o creature del mito si mutano in parti della natura,
animata e inanimata, in rocce, piante, animali... Torna al sommario
Opera in apparenza disorganica, le Metamorfosi rivelano la loro unita nella
concezione di una natura animata, fatta di miti divenuti materia vivente,
partecipe di un tutto che si trasforma: una natura intesa come archivio
fremente di storie trascorse, ove è possibile avvertire la presenza di una
creatura mitica in un albero, in una fonte, in un sasso.
Numerose possono essere considerate le 'fonti' ovidiane. Raccolte di miti
circolavano in repertori che O. deve aver certamente conosciuto. Il tema
della trasformazione era poi caro alla letteratura alessandrina: basti
pensare a Callimaco e a Eratostene, e poi alle "Trasformazioni" di Nicandro
di Colofone e di Partenio di Nicea; ma era stato trattato pure nel mondo
latino nell'Orniithogonia di Emilio Macro e, occasionalmente, pure dai
neoteroi, da Catullo e da Virgilio (nella poesia omerica era il modello di
ogni trasformazione: quella, operata dalla maga Circe, dei compagni di
Ulisse in porci). O., insomma, aveva alle spalle un enorme patrimonio
mitologico e letterario, che indubbiamente traspare dalla lettura della sua
opera. E tuttavia nuovo è il risultato dell'operazione ovidiana, che si
sviluppa all'insegna della più fervida e colorita fantasia, con uno stile e
un metro (un esametro insuperabile per musicalità) che con la Toro
sapientissima "facilità" sembrano mirabilmente accompagnare la perpetua
vicenda delle mutazioni e l'illusorietà delle forme, soggette a continui
cangiamenti, in una continuità quasi organica che lega l'uomo alla natura.
Le Metamorfosi iniziano dalla più antica trasformazione, quella del Chaos
primitivo nel cosmo, sino a pervenire alla trasformazione in astro (=
catasterismo) di Cesare divinizzato e alla celebrazione di Augusto. E' cosi
che O. intende ripercorrere tutte le fasi del mito e della storia. Il motivo
conduttore è dunque quello della mutazione continua: dalle remote origini
del cosmo sino alla glorificazione della dinastia giulia.
II poeta si dichiara convinto, già nei primi versi dell'opera di comporre un
carmen continuum, un'opera, cioè, profondamente unitaria, anche dal punto di
vista 'cronologico' (dalle origini all'attuale gloria di Roma).
Significativo, ai fini degli intenti unitari del poeta, è il discorso che,
nel XV libro, O. pone sulle labbra di Pitagora, e che contiene una
particolare concezione dell'universo, inteso come luogo di eterna
trasformazione.
Al di là di questa intelaiatura di indole filosofica, al di là delle
dichiarazioni stesse del poeta, le Metamorfosi, nonostante apparenti
disuguaglianze strutturali, restano un poema unitario e di superiore
armonia. II poeta salda, con rara sapienza alessandrina, un episodio
all'altro con legami talora sottili, ma efficaci: ora un mito è richiamato
per analogia, ora per identità di contenuto, ora per incastro in altro mito
che fa da cornice, ora è esposto da un personaggio di altra vicenda. Un
racconto scaturisce dall'altro in una dimensione che pare dilatarsi
all'infinito.
Dominano nelle Metamorfosi la gioia di narrare, una gioia morbida,
perennemente variata ed elegante; una fantasia ora lieve e sfuggente come un
sogno, ora corposa e sensuale, che insiste su scenari contemplati nel loro
sontuoso rigoglìo o invece immersi in un'atmosfera di fiaba; un'arte
plastica che indugia nel ritrarre la spettacolare storia delle mutazioni che
il poeta stesso contempla stupefatto, incantato o addolorato per la
sofferenza di creature che cambiano, coscienti, il loro aspetto. Il tutto
con un acuto senso della provvisorietà, della mutevolezza di ciò che appare
ai sensi e che a un tratto si scompone per diventare altro da sè.
Della trasformazione, O. mette in risalto ora il carattere repentino ora,
ancor più, la lentezza graduale, il persistere talora sofferto dell'antica
natura nella nuova. Dell'uomo che si trasforma in essere arboreo o inanimato
il poeta avverte l'intimo dolore, la coscienza di divenire altro in una
trasmutazione che sembra investire le radici stesse dell'universo.
La natura ovidiana appare percorsa dai fremiti arcani delle tante creature
d'amore e di dolore che essa cela nel suo grembo. E' qui che il mondo di O.,
così in apparenza legato alle forme e alle superfici, ai suoni e ai colori,
rivela dimensioni insospettate. Sì, certo, in O. il mito, oltre che
umanizzarsi, si atteggia a splendida favola, ad affresco fastoso (gli dèi e
gli eroi, scomparsa ogni motivazione religiosa del mito, servono solo ad
alimentare la sfarzosa immaginazione del poeta); e tuttavia, specie in
alcuni casi, il brillante gioco delle superfici s'accompagna, in singolare
simbiosi, a una sensibilità inquieta di creature tormentate, che trovano nel
trasformarsi l'unica via d'uscita a una situazione impossibile, a una
passione assurda. Nel divenire finalmente altra cosa rispetto a una realtà
divenuta umanamente intollerabile, esse ritrovano il loro riscatto.
Cosi è di Biblide, consumata da folle amore per il fratello Cauno: a lei non
resta alla fine, perduta di mente, che andare errando, per poi accasciarsi a
terra e piangere e sciogliersi nelle lacrime e tramutarsi in fonte (9,
630-665). Sensualita' esasperata e insana, come quella di Mirra, pazza del
padre Cinira, che al termine di una sciagurata vicenda chiede agli dèi di
venir trasformata, per non contaminare con la sua presenza il mondo dei vivi
nè con la sua morte quello dei defunti. Ed eccola tramutarsi in pianta,
gradualmente, e mentre sempre più viene avvolta dal tronco nascente, quasi
smaniosa di por fine all'insostenibile sua vergogna, Mirra immerge il volto
nella corteccia per affrettare la mutazione; ma pur continua a piangere:
lacrime usciranno da quel tronco, e saranno mirra (10, 476-502).
Accanto al mito, l'amore è dunque 1'altro grande tema delle Metamorfosi, ma
non l'amore, fatto di corteggiamenti e galanterie, cantato negli Amores e
nell'Ars, bensi l'amore del mito (come già nelle Heroides), un amore che
conosce un'ampia gamma di modulazioni, dalla passione malata,
all'incantamento, alla dedizione generosa, alla fedeltà coniugale. Una
soffusa mestizia permea la vicenda di due sposi infelici, Alcione e Ceice,
che solo grazie alla loro trasformazione in uccelli potranno perpetuare per
sempre i1 loro amore coniugale (11, 573-748). Così come solo la
trasformazione in alberi unirà in un vincolo eterno Filemone e Bauci, che
ricevono lo straordinario onore di accogliere nella loro umile capanna (che
diverrà un tempio) nientemeno che due divinità. In albero si trasforma pure
Dafne, la ninfa che Apollo continuerà ad amare pur quando sarà divenuta
corteccia e fronde di un meraviglioso alloro (1, 466-567).
Strani, questi amori delle Metamorfosi, spesso impossibili o abnormi. Di
Eco, innamorata di Narciso, non resterà che una voce, ma anche Narciso,
invaghito di se stesso sino a lasciarsi morire, si ridurrà a un fiore (3,
359-510). Sono, in prevalenza, amori fatti sopra tutto di sensazioni, di
attrazione per le forme, più che di turbamenti dell'anima: cosi è di
Pigmalione, incantato da una statua d'avorio che egli stesso ha scolpito,
una statua che sotto le sue mani diviene a poco a poco realtà palpitante di
donna viva (10, 243-294); cosi è della ninfa Salmacide che nell'acqua
avvinghia con febbrile trasporto le sue membra a quelle dell'amato
fanciullo, sino a divenire un'unica, anomala realtà che mai potrà
sciogliersi: l'Ermafrodito (4, 288-388). Accanto ai toni torbidi
dell'episodio di Salmacide, O. sa affiancare, nella sua variegatissima
'sinfonia', l'amore innocente di Piramo e Tisbe, due giovani babilonesi che
intensamente si amano, nonostante l'opposizione dei genitori. Muoiono
entrambi a causa di un tragico equivoco e, per il sangue uscito dai loro
corpi le bacche del gelso (l'albero del loro fatale incontro) da bianche
divengono scure (4, 53-166).
*I Fasti. Anche i Fasti sono opera narrativa, che vuole illustrare il
calendario romano (fasti vale appunto "calendario"). Composti
contemporaneamente alle Metamorfosi, i Fasti dovevano comprendere 12 libri
(uno per ogni mese), ma furono interrotti, a causa della relegazione a Tomi,
ai primi 6 libri, quelli cioè relativi ai mesi che vanno da gennaio a
giugno. Durante l'esilio, il poeta rivide l'opera, in particolare il I libro
che, dopo la morte di Augusto, dedicò a Germanico, figlio adottivo di
Tiberio. Torna al sommario
I Fasti intendono dunque cantare, in distici elegiaci, le tradizioni romane
nell'ordine in cui compaiono nel calendario latino. Opera organica, nei
disegni del poeta, a differenza delle 'Elegie romane' di Properzio, che
avevano selezionato soltanto alcuni tra i miti antichi; e opera eziologica,
come gli Aitia di Callimaco, dal momento che intento di O. e' quello di
spiegare le lontane origini di una festa, di un culto, di un nome. A tale
scopo, il poeta utilizza sopra tutto l'opera erudita di Varrone e di Verrio
Flacco, nonchè la storia di Livio (da notare che i Fasti, per la loro
documentazione, restano testimonianza preziosa di antiquaria latina).
Per la composizione di un'opera che voleva cantare la religione romana, in
sintonia col severo programma augusteo di restaurazione, O. mancava tuttavia
di autentiche motivazioni interiori. Quanto c'è di vivo e vero nei Fasti è
in contrasto con quelli che dovevano essere gli impegnativi intenti
programmatici. Ai riti, alle feste, alle sacre istituzioni di Roma antica,
O. s'accosta con spirito disincantato, ancora con quel gusto di raccontare
che abbiamo visto dominante nelle Metamorfosi, e con una curiosità tutta
sorridente nei confronti del divino.
II poeta ha avuto il merito di aver come fissato e trasmesso ai secoli
un'immagine concreta e verace di quella che a lui appariva la religiosità
romana. Sono squarci di vita, come la descrizione della festa in onore di
Anna Perenna, una vecchia dea di Roma (3, 523-542), che trasmette con vivace
immediatezza l'atmosfera di una festività paesana. 0, ancora, sono
rievocazioni di antichi personaggi della tradizione, vicende sopra tutto di
donne, presenti anche nei Fasti col loro fascino tipicamente ovidiano: può
essere Lucrezia, ritratta nell'incanto che le deriva dalla sua onestà, bella
sino alla fine, sino al suo suicidio di signora oltraggiata (2, 761-836); o
Silvia, la vestale che commette l'errore di abbandonarsi sull'erba e di
addormentarsi mentre un dio bramoso la compromette senza rimedio (3, 11-48);
la naiade Lotide, che pur s'addormenta dopo una festa dedicata a Bacco
(descritta con toni carichi e sensuali): al chiaro di luna il dio Priapo le
si avvicina con inequivocabili intenti, ma il raglio di un asino, svegliando
tutti, pone indecorosamente fine al suo lubrico tentativo (1, 390-440).
Ancora una volta il mito è avvertito dal poeta in maniera cordiale, con un
senso di confidente familiarità coi culti, i riti, gli dèi di Roma che è poi
la dimensione più vera dell'O. dei Fasti. Basterebbe a documentarlo il
gustoso colloquio che, all'inizio del IV libro, il poeta ha con Venere,
condotto con spregiudicata grazia alessandrina (4,1-16).
*Le opere dell'esilio. La produzione ovidiana dell'esilio comprende 5 libri
di Tristia e 4 libri di Epistulae ex Ponto (tutti in distici elegiaci). I
Tristia furono scritti tra l'8 e il 12 d.C.; la composizione dei primi 3
libri delle Epistulae ex Ponto risale al 12 (il IV libro, più lungo, fu
pubblicato postumo).
Le due raccolte differiscono nel fatto che nelle Epistulae O. nomina
espressamente i destinatari delle 'lettere', che invece son quasi sempre
taciuti nei Tristia. Per il resto, i contenuti sono in sostanza identici: la
solitudine e i lamenti dell'esule, la desolazione che lo circonda, il
rimpianto di Roma e della vita mondana, rimpianto che, rinnovato, non fa che
acuire lo strazio, l'adulazione, spesso insistente, nei confronti del
principe nella speranza, inutile, che possa finalmente richiamarlo da una
terra lontana quanto barbara, ove la vita è sempre ugualmente grigia e le
giornate interminabili. Il poeta canta e ripete le stesse cose, con una
monotonia che traduce il devastante disagio di un gran signore trapiantato
d'un tratto in un ambiente di bruti.
Certo, sono elegie, queste dell'esilio, disuguali, che troppo spesso
ripiegano su stanchi luoghi comuni. Eppure, lo stesso O. era conscio dei
difetti di questi suoi componimenti. In un passo toccante (trist. 4, 1,
1-18) invita il lettore a volerli comprendere e giustificare, considerando
le circostanze che ne avevano accompagnato la composizione: solo per un
conforto egli si dedica alla poesia, e non per trarne gloria (è cosi che O.
sottolinea il potere consolatorio che ha per lui il canto poetico). Nella
lontananza da Roma, separato ormai da quella società e da quel pubblico che
gli avevano col loro plauso riempito la vita, O. scopre l'essenzialità del
dolore, mentre la sua stessa esperienza umana e poetica si scarnifica. E' un
O. rimasto solo con se stesso, che piange e ricorda un passato di
spensierate eleganze e di sorrisi di donna che mai più gli avrebbero
trasmesso il brivido di sentirsi vivo.
L'espressione poetica accompagna questo processo di scavo interiore che, col
tempo, si fa sempre più asciutto, sconsolato, sino alla gelida disperazione
dell'epistola a Flacco (Pont. 1, 10), tristissimo punto d'arrivo di colui
che, una volta, era stato il celebre cantore di teneri amori (tenerorum
lusor amorum: tris. 4, 10, 1), ridotto ora a rodersi il cuore in un affanno
che mai l'abbandona. Alla desolazione interiore s'affianca quella del
paesaggio, immerso in uno strano torpore, che la lontananza da Roma rende
ancora più intollerabile.
Nella fantasia di O. resta Roma, splendida, ricordo monumentale e carissimo,
quale la vide nella notte del distacco, quando, addolorato e stupito, fu
strappato a quel mondo che era suo, ai suoi affetti. L'elegia III del I
libro dei Tristia, rievoca quegli ultimi, fatali momenti: lo smarrimento del
poeta, le lacrime della moglie, gli amici, pochissimi, che gli restano
vicini, il saluto all'Urbe immersa nel silenzio notturno, illuminata dal
chiarore lunare. Confinato ormai in un paese ove anche la primavera è triste
(trist. 3, 12), non gli resta che chiedere notizie della moglie lontana alle
stelle dell'Orsa, unico punto di collegamento con un mondo per lui
irrimediabilmente perduto (trist. 4, 3).
Ridotto ormai, poeta che aveva scandagliato in ogni senso l'intimo delle sue
eroine, a scavare entro se stesso, O. ci ha lasciato, con la X elegia del IV
libro dei Tristia, prima di morire, una confessione che è anche bilancio di
tutta una vita e di una esperienza artistica. Torna al sommario
*Altre opere di O.. Al periodo dell'esilio risale pure il poemetto Ibis, in
distici elegiaci, rivolto contro un ignoto avversario del poeta, che a lui
augura ogni male, attingendo da esempi tratti dal mito e dalla storia. Il
titolo, che allude a un uccello egiziano cui gli antichi attribuivano
immondi costumi, riprende quello, identico, di un poemetto da Callimaco
diretto contro Apollonio Rodio.
Possediamo un lungo frammento di 134 esametri di un poemetto sulla pesca e
sui vari tipi di pesci, ricordato da Plinio il Vecchio col titolo di
Halieutica (cioè Piscatoria). Sopra tutto per motivi metrici si dubita possa
essere autentico.
Di O. a noi restano 5 esametri di un poema astronomico (Phaenomena) e 2
versi di una tragedia, Medea, che ebbe enorme fortuna nel I sec. d.C.
Niente ci rimane di altre opere, come il poema epico Gigantomachia, composto
in gioventù, un epitalamio per le nozze di Paolo Fabio Massimo, un carme in
onore di Augusto scritto in lingua getica.
Non possono essere attribuiti a O. nè il poemetto Nux (un albero di noce si
lamenta delle sassate che riceve) nè la Consolatio ad Liviam, composta in
occasione della morte di Druso (9 a.C.).


Tito Livio
(Padova, 59 a. C. - 17 d. C)

VITA.
Proveniva da nobile famiglia, ma non partecipò alla vita pubblica: tuttavia,
venuto a Roma, si guadagnò notevole prestigio fu amico di Augusto e poi
precettore di Claudio, di cui intese gli interessi storiografici. I suoi
interessi si rivolsero dapprima alla filosofia, ma ben presto (27-25 a.C.)
si concentrarono interamente sulla sua opera storica.

OPERA E CONSIDERAZIONI.
*L. compose qualche dialogo filosofico e una monumentale opera storica in
142 libri: "Ab Urbe condita libri" ("Libri dalla fondazione di Roma", dallo
stesso autore chiamati "annales" o semplicemente "libri"), che prendeva
appunto le mosse dalla fondazione di Roma fino al 9 a. C. o, forse, al 9 d.
C.
*Il lavoro venne successivamente diviso per decadi (tale scansione forse
rispettava le fasi di pubblicazione), delle quali sono a noi pervenute:
la I (dalla venuta di Enea alla III guerra sannitica, 293 a.C.);
la III (sulla II guerra punica, 218-200 a.C.);
la IV (fino alla morte di Filippo il Macedone, 179 a.C.);
la prima metà della V (fino al trionfo di Paolo Emilio sulla Macedonia, 167
a.C.).
Ossia in tutto 35 libri. Il contenuto della parte perduta è noto attraverso
brevi estratti e riassunti (le "Perìochae") e commenti (fra cui quello di
Floro).
*La narrazione di L., non priva di difetti dal punto di vista storiografico,
si raccomanda per il vivo senso drammatico e per il colorito poetico: egli,
in effetti, sembra realizzare in sé, abbastanza esattamente,
quell'equilibrio fra scienza e retorica che costituisce il vero ideale
dell'epoca augustea: preoccupazione, persino passione della verità, ma anche
desiderio di comporre opere in grado di competere, in quanto a bellezza, con
i prodotti della poesia e dell'arte.
*L'opera, tesa a glorificare la "virtus" romana e l'ideale della "pax
augusta", attraverso il punto di vista di un nostalgico degl'ideali
repubblicani (solo il grande passato di Roma indica per lui la via a chi
intendesse rinnovare i fasti dell'Urbe), si presenta invero, più che come un
'opera storica in senso stretto, piuttosto come un grande poema epico in
prosa, in quanto concede largo spazio agli elementi epici, come l'eroismo,
la volontà degli dei, la missione di Roma, a scapito dell'esame puntuale dei
fatti.
Ciò non vuol dire che L. non fosse uno storico fondamentalmente "onesto", e
tanto meno - almeno per quanto già detto - che svolgesse una propaganda di
sostegno acritico al regime augusteo: anzi, se con esso vi erano punti di
contatto (ad es., nel culto della "res publica"), L. se ne allontanava
decisamente rispetto all'ideologia "carismatica" e assolutistica (lo stesso
Augusto gli rimproverava, amichevolmente, di essere rimasto, in fondo al
cuore, un "partigiano di Pompeo"). Ciò nonostante, l'impero è storicamente
"giustificato", come frutto della cooperazione tra la "fortuna"
provvidenziale e la "virus" del popolo romano, e la stessa crisi attuale -
pur riconosciuta come "epocale" e non episodica - non viene astratta dal
quadro generale della storia di Roma.
Insomma, ciò che dà vita all'opera di L. è, più che una fede politica, un
patriottismo profondo, un amore dappertutto sensibile per Roma. Sotto questo
riguardo, egli è uno degli scrittori che più efficacemente hanno contribuito
a diffondere e a far accettare, nelle province di lingua latina, un'immagine
"romana" di Roma, esaltante e, per ciò stesso, unificante.
*Inoltre, appare quantomeno superfluo attardarsi a sottolinearne i difetti
metodologici e scientifici dell'opera: innanzitutto, l'acriticità nell'uso
delle fonti (ci si è dilettati, in altri tempi, a cercare quale fosse la
fonte di questo o quel libro, che si presumeva unica), dagli annalisti
romani a Polibio (come lui, il nostro è, si potrebbe dire, un "filosofo
della storia"). Ma L. non è, fondamentalmente, un erudito, ed impiega fonti
già letterarie, e non "documenti grezzi".
Egli, in effetti, riprende la struttura annalistica, e tratta ogni anno in
maniera sinottica, dilatando l'ampiezza della narrazione man mano che si
avvicinava all'epoca contemporanea, secondo le aspettative dei lettori.
Il piano della sua narrazione è sì impostato sull'ordine cronologico, ma
egli seppe introdurre, in quello che poteva risultare un andamento monotono,
varie parentesi drammatiche, episodi che formano quadri naturali.
Il filo narrativo è spesso interrotto da discorsi, ed è difficile dire se
sono un prodotto di pura fantasia o se trovano sostegno in qualche fonte
documentaria più o meno fedele. Si può ipotizzare che la proporzione fra
verità e invenzione varia secondo le date dei discorsi. Le opere più
antiche, probabilmente, non si fondano su documenti davvero autentici,
mentre è probabile che le orazioni più recenti, pronunciate da questo o
quell'illustre personaggio del II o anche del III secolo a.C., fossero
conservate più fedelmente. Lo stesso vale per gli avvenimenti. Il quadro dei
primi secoli di Roma è più "restaurato", ma è anche più semplice e, in una
certa misura, più direttamente epico di quello riguardante la storia più
vicina.
*Infine, nella scrittura, L. si contrappone alla tendenza di Sallustio,
avvicinandosi piuttosto allo stile vagheggiato da Cicerone per la
storiografia: la "lactea ubertas" - come la definì Quintiliano - consisteva
così in una prosa ampia, fluida e luminosa, senza artifici e restrizioni, di
limpida chiarezza ("candor"). Un periodare, insomma, destinato alla lettura.
Ma L. sa conferire al proprio stile anche un'ammirevole duttilità e varietà:
dal gusto arcaicizzante della I decade (dettato dalla vetustà degli eventi)
ad una sempre maggiore coloritura poetica e drammatica del racconto, se non
addirittura "tragica", soprattutto nella descrizione dei personaggi
(Lucrezia, Virginia, Sofonisba, Coriolano, Camillo, Fabio Massimo,
Scipione.) e "impressionistica" nella presentazione degli avvenimenti, verso
cui spesso L. tradisce sentimentale partecipazione.



STORICI MINORI DOPO LIVIO


Gaio Asinio Pollione
(Teate, 76 a.C. - Roma? 4 d.C.)

Console nel 40 a.C., homo novus nato da ricca famiglia, fu un convinto
sostenitore di Cesare; dopo la morte del dittatore appoggiò tiepidamente
Antonio, trattò per lui la pace di Brindisi ma non lo segui nello scontro
finale con Ottaviano. Durante il regime augusteo si ritirò a vita privata,
in posizione di larvato dissenso.
Intellettuale di notevole spessore, fu legato in gioventù ai neòteroi (Elvio
Cinna gli dedicò un Propempticon Pofilonis) e compose opere poetiche; fu
oratore di stile attivista (un atticismo quasi esasperato: uno stile "secco"
fino a rasentare l'oscurità) e storico di indirizzo tucidideo: scrisse
un'apprezzata storia ("Historiae", 35 a.C. in poi) delle guerre civili dal I
triumvirato alla battaglia di Filippi, in 17 libri (terreno dunque
scottante, scandagliato con una certa indifferenza, che però -
probabilmente - non prendeva forma di aperta opposizione).
Per primo istituì una biblioteca pubblica (39 a.C.); animò un "circolo" di
letterati e introdusse l'uso delle recitationes (letture davanti a un
pubblico di invitati).
Fu amico di Virgilio e di Cornelio Gallo e corrispondente di Cicerone, nel
cui epistolario sono comprese alcune sue lettere (unici testi pervenutici
con pochi frammenti delle opere).

Pompeo Trogo
(sec. I a. C.)

Originario della Gallia Narbonense, scrisse in età augustea alcuni trattati
scientifici, zoologici e botanici, e una storia universale in 44 libri,
intitolata "Historiae Philippicae".
Con uno stile elaborato e con tendenze moraleggianti, T. andava dalle
antichissime vicende di Babilonia fino ai tempi a lui contemporanei, con una
maggiore attenzione alla storia della Macedonia (libri 7-40), mentre solo i
2 ultimi libri si occupavano della storia di Roma e delle regioni
occidentali.
Rispetto a Livio, è cambiata la prospettiva: Roma non è più il punto di
vista privilegiato e l'attore principale della storia: la sua, per T., è
solo una delle numerose egemonie succedutesi nei secoli (non a caso, l'
autore come fonte si avvaleva largamente di Timagene, storico contemporaneo
notevolmente ostile a Roma e al principato).
Insomma, per T. solo la "fortuna" ha permesso a Roma di sopraffare l'
"aretè" greca.

Caio Velleio Patercolo
(19 ca a.C. - dopo 30 d.C.)

Di famiglia campana, fece una discreta carriera pubblica: questore nel 7 e
pretore nel 14 d.C., non raggiunse il consolato forse perché coinvolto nella
caduta di Seiano (31 d.C.).
Di lui ci è giunto un compendio di "Storia romana", in 2 libri, con qualche
lacuna nel I libro: l'opera inizia con un breve sommario della storia
orientale e greca e si fa poi più ricca per le vicende recenti.
E' un testo che ben rappresenta quel tipo di storiografia filo-imperiale
(nella fattispecie, sotto Tiberio) condannato da Tacito. Interessanti,
comunque, alcune caratterizzazioni di personaggi (talora "paradossali"),
anche minori, e gli excursus sulla colonizzazione romana, sulle province,
sull'antica letteratura latina, su quella del periodo ciceroniano e su
quella augustea. L'artificiosità retorica ne caratterizza, infine, lo stile.

Valerio Massimo
(sec. I d.C.)

Dopo aver accompagnato nel proconsolato in Asia il suo protettore Sesto
Pompeo, scrisse un manuale di esempi retorico-morali, "Factotum et dictorum
memorabilium libri IX", dedicato all'imperatore Tiberio (le aspre critiche a
Seiano contenute nell'opera fanno pensare ad una pubblicazione subito dopo
la sua caduta).
Il materiale, tratto da storici latini e greci (Livio, Trogo, Varrone.) è
ordinato secondo criteri filosofico-morali (in primo luogo, l'esaltazione
dei valori tradizionali), ma con un piano non ben definito: un prontuario di
modelli di vizi e di virtù dove si susseguono "exempla" romani e stranieri
(soprattutto greci) di moderazione, gratitudine, castità, crudeltà, ecc.
Dal punto di vista stilistico, sono da rilevare la ricchezza degli artifici
retorici (tipici dell'età argentea) e il tono sentenzioso.

Curzio Rufo
(sec. I d.C.)

Compose delle "Historiae Alexandri Magni" (di tormentata datazione) in 10
libri, di cui sono perduti i primi 2 e parti del V, del VI, del X.
Sensibile al clima letterario ellenistico, R. vi rievoca - con ingenua e
fantastica ammirazione - le imprese del macedone, ponendone in evidenza più
l'aspetto esotico che l'importanza politico-sociale: facendone, quindi, un
vero e proprio eroe da romanzo.
L'autore, che ha come modello di stile Livio e che trae spunto da fonti
greche (Clitarco, Timagene, Aristobulo.), ha quindi certamente inteso far
opera di narratore - con l'occhio attento al lettore - più che di vero
storico.


AUTORI DI OPERE SCIENTIFICHE.


Marco Manilio
(sec. I a.C - I d.C.)

Scrisse, sotto Augusto e Tiberio, un poema didascalico in esametri,
"Astronomica" (interrotto al V libro), in cui espone le vicende delle
costellazioni e l'influsso degli astri sul destino degli uomini.
Di orientamento stoico, è ovviamente in polemica con Lucrezio - che tuttavia
rimane il suo modello letterario - credendo, di contro, che l'universo sia
retto e governato dalla divina ragione.
L'opera rivela abilità tecnica e talento letterario.

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