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LETTERATURA
LATINA
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LA LETTERATURA LATINA -
QUARTA PAGINA |
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Verrio Flacco (sec. I d.C.)
Originario di Preneste, liberto e
precettore dei nipoti di Augusto, scrisse varie opere filologiche, tutte
perdute. Deve la sua fama a un vastissimo lavoro lessicale "De verborum
significatu", ricca miniera di notizie relative alla lingua (ma dove
l'interesse grammaticale era strettamente connesso con la ricerca
antiquaria), di cui rimane - mutilo - un successivo compendio in 20 libri di
Pompeo Festo (fine sec. II d.C.).
Vitruvio Pollione (sec. I
a.C.)
Identificato con l'ufficiale cesariano Mamurra, architetto, scrisse
il "De architectura" (25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato ad
Augusto e riconducibile alla sua politica d'abbellimento architettonico di
Roma. L'opera, in parte compilatoria e in parte originale (7 libri
di architettura, 1 di idraulica e 2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo
e per il suo contenuto (ricco di elementi di varia natura, tratti
da discipline disparate: aritmetica, geometria, disegno, musica,
prosodia, astronomia, ottica, medicina, giurisprudenza, storia, filosofia), è
un unicum nel suo genere. L'architettura è vista, in senso aristotelico,
come "mimesis" dell'ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede
all'architetto una cultura ricca e varia (quasi quella dell'oratore
ciceroniano), che faccia perno sulla filosofia.
Cornelio Celso (età
tiberiana)
Fu autore di una vasta enciclopedia - "Artes" o "Cesti" - che
trattava di filosofia, diritto, agricoltura, medicina, retorica e arte
militare. Ci restano, integralmente, gli 8 libri del "De medicina" (in cui si
cerca di mantenere una posizione equidistante fra l' "indirizzo empirico" e
quello "razionalistico") e frammenti delle altre sezioni. Riguardo il suo
stile, si pensi solo che C. fu detto "Cicero medicorum".
L. Giunio
Moderato Columella (sec I d.C.)
Nato a Cadice, fu tribuno militare in
Siria e poi visse in Italia, dove possedeva alcune terre. Di lui ci è
giunto il più completo trattato di agricoltura nell'antichità, il "De
rustica", in 12 libri, che descrive il lavoro agricolo e l' allevamento, e
affronta il problema della decadenza dell'agricoltura in Italia (dovuta,
secondo C., al disinteresse dei proprietari, all'inadeguato sfruttamento dei
vastissimi latifondi, alla mancanza di una seria preparazione scientifica in
materia; a soluzione del problema, C. sembra affacciare l'ideale di una
cultura enciclopedica, che faccia perno sulla filosofia). Il X libro
(l'unico in versi), sul giardinaggio, raccoglie un invito a trattarne,
contenuto nelle "Georgiche". Resta anche un libro sulle piante, "De
arboribus", parte di un'opera più vasta. C. scrive in una prosa limpida e
scorrevole, e anche i suoi versi sono discreti; le fonti sono quelle consuete
del genere, ma predominante è l' esperienza personale
dell'autore.
Maro Vipsanio Agrippa
Autore di una carta geografica
con relativi commentari.
Pomponio Mela (Tingetela, Gibilterra,
sec. I)
Fu il primo geografo "puro", con la sua "De chorographia", in 3
libri, che con stile "sallustiano" ed attingendo a varie fonti, descrive la
terra prendendo come punto di riferimento-base il Mediterraneo; e l'opera,
benché sia poco più che un repertorio di nomi, è ricca di interessanti
notizie etnografiche e geoclimatiche.
Marco Gavio Apicio (sec. I
d.C.)
Autore di un "De re coquinaria", in cui, più che allo stile
(pedestre), l' attenzione è rivolta alla creatività e alla elaborazione
scenografica dei piatti.
LA LETTERATURA DELLA I ETA'
IMPERIALE.
In questo periodo si assiste alla crisi, in seguito alla
morte di Mecenate, del mecenatismo. Durante il principato di Tiberio non ci
si pone il problema di organizzare un programma di egemonia culturale e si
sviluppa in questo modo una storiografia contraria al principato. La
situazione non migliora con Claudio, che pure aveva una fama di uomo dotto, e
che sappiamo avere scritte molte opere. Solo Nerone, negli anni iniziali del
suo principato, ispirati dalla guida di Seneca, tenta un recupero del
consenso del senato e una ripresa del mecenatismo. Nerone stesso fu un poeta
e promosse in vario modo le attività artistiche, nel 60 istituì una gara
quinquennale di canto, musica, poesia e oratoria. La moda dei pubblici agoni,
in occasione di certe feste, si diffonde più ampiamente sotto il principato
dei Flavi, ma l'avvento della nuova dinastia imperiale segna una netta
inversione di rotta rispetto agli indirizzi culturali di Nerone. Sul piano
letterario spiccano principalmente due fenomeni: la ripresa della poesia
epica, nel segno del primato di Virgilio, e, in prosa, l'assurgere di
Cicerone a modello di una maniera stilistica ma anche di una educazione
fondata sulla retorica. Sappiamo inoltre che un altro poeta epico, Lucano, si
dedicò all'attività di librettista. In questi anni il teatro torna a godere
di un'immensa fortuna. La pantomima, il genere di spettacolo favorito, era
una rappresentazione in cui un attore cantava il testo del libretto, mentre
un secondo attore, col volto mascherato, mimava la vicenda. Particolare era
il realismo nella descrizione di certi eventi. Un altro importante
fenomeno di questo periodo è lo sviluppo delle declamazioni. La declamatio
era un tipo di esercizio in uso nelle scuole di retorica. Possediamo in
proposito un'opera di Seneca il Vecchio, frutto dei suoi ricordi di
scuola.
Seneca il vecchio (Cordova, 55 ca a.C. - Roma 40 ca
d.C.)
VITA. Di estrazione equestre, discendente di una famiglia di
coloni romani stabilitasi in Spagna, S. divise la sua lunga vita tra Roma
(frequentandone gli ambienti socialmente più elevati) e la Spagna,
probabilmente fino a vedere il regno di Caligola.
OPERA. La sua
opera più importante ("Oratorum et rhetorum sententiae, divisiones, colores")
ci testimonia il mutamento che l'avvento del principato ha prodotto sulla
situazione intellettuale a Roma, in particolare sull'attività retorica: viene
meno la sua funzione civile e si immiserisce in futili esercitazioni che
vertono su temi e argomenti fittizi ("declamationes"), romanzeschi e un po'
singolari, che attirano gli studenti delle scuole ma anche il pubblico
generico. S. personalmente non è uno scrittore di "mestiere", ma un "vir
bonus" che, durante la sua giovinezza, ha seguito a Roma l'insegnamento delle
scuole di retorica e che, in età matura, per istruire i propri figli, mette
per iscritto i suoi ricordi. Dotato di una memoria molto precisa, cita non
solo i temi sui quali abitualmente si esercitavano i giovani, ma anche
ampi frammenti delle loro "composizioni". S. illustra così i due tipi di
esercizi più in voga: - la "controversia", un dibattito su argomento
giudiziario su due posizioni contrapposte (anche sulla base di legislazioni
immaginarie): generalmente verteva su fatti immaginari della vita quotidiana
; - la "suasoria", che consisteva nel tentativo da parte dell'oratore
di orientare l'azione di un personaggio famoso (un'esortazione in piena
regola) di fronte ad una situazione incerta o difficile: generalmente verteva
su temi del mito e della storia (ad esempio, discorso rivolto a Silla
nel momento dell'abbandono del potere, o ad Achille che rifiuta di riprendere
a combattere nel campo degli achei). Essendo destinate ad un vasto
pubblico, e basandosi su situazioni fittizie, le declamationes miravano a
stupire l'uditorio, attraverso impreviste situazioni e ricche figure
retoriche, ricreando effetto e uno stile brillante e prezioso. La loro
lettura fa capire, così, con quale spirito esse erano condotte: sviluppare
l'immaginazione degli allievi, la loro ingegnosà nello scoprire argomenti
imprevisti, il loro virtuosismo nel trattamento dei luoghi comuni. Un allievo
di levatura media finiva per acquisire un repertorio di svolgimenti tematici
che, assimilati definitivamente, potevano essere riutilizzati nelle più
diverse circostanze. In questo modo, non avrebbe mai corso il pericolo di
trovarsi sprovvisto di argomenti. Un insegnamento di tal genere presentava,
tuttavia, alcuni aspetti negativi: non tanto il carattere artificiale delle
situazioni immaginarie e della tematica, così distanti dalla realtà
quotidiana, quanto una certa meccanicità dell'eloquenza, la riduzione a
principi codificati di ciò che sarebbe dovuto essere manifestazione spontanea
di un talento personale. La situazione ebbe conseguenze che si ripercossero
sull'intero sviluppo della letteratura latina: essendo la retorica la base
stessa della cultura, essa diffuse un gusto del virtuosismo fine a se stesso,
e impose a tutti i generi, tanto poetici che in prosa, uno stile tutto
particolare. Nessuno scrittore vi sfugge. Tutti, più o meno coscientemente,
applicano le ricette dell'"arte di persuadere". Ciò che in realtà hanno da
dire comincia solo al di là di questa barriera.
Fedro (Tracia o
Macedonia, 15 ca a.C. - 50 ca d.C.)
VITA. F. nacque durante il
principato di Augusto, fu attivo sotto Tiberio, Caligola e Claudio. E' uno
dei pochissimi autori di nascita non libera nella letteratura della I età
imperiale: egli era infatti uno schiavo di origine tracia, e nei manoscritti
delle sue opere è citato come liberto di Augusto (sembra quindi che fosse
stato liberato dall'imperatore). Da accenni nella sua stessa opera, si ricava
che il poeta sarebbe stato perseguitato da Seiano, il braccio destro di
Tiberio, rimasto offeso da allusioni colte in alcuni scritti. Dopo la
condanna, F. soffrì umiliazioni e, probabilmente,
la povertà.
OPERA. Ci sono tramandate poco più di 90 "Favole",
divise in 5 libri, e tutte in senari giambici. Sono sicuramente di F. anche
le circa 30 favole raccolte nella cosiddetta "Appendix Perottina", che prende
nome dall'umanista Niccolò Perotti, curatore della raccolta. Di altre ci
resta la parafrasi in prosa. F. ha una posizione sociale modesta e come poeta
non si può definire un virtuoso: pratica un genere letterario minore,
anch'esso marginale rispetto alle grandi corrente dell'età imperiale.
Tuttavia, a questo umile artigiano tocca una priorità storica importante: è
il primo autore che ci presenta una raccolta di temi favolistici, concepiti
come autonoma opera di poesia, destinata alla lettura. Come narratore, egli
inventa ben poco: prese una per una, le sue favole sono poco originali,
indebitate con la tradizione esotica e con una raccolta di favole di età
ellenistica (soprattutto nel I libro, mentre nei seguenti l'arricchisce con
altre di altra provenienza); quanto alla rielaborazione letteraria nessuna
delle favole di F. può superare le opere dei grandi poeti. Il merito di F.
sta invece nell'impegno costante e metodico per dare alla favola una misura,
una regola, una voce ben definita e riconoscibile. La tradizione esopica
di storielle che presentavano spunti umoristici e pillole di saggezza si era
fissata in Grecia intorno al IV sec. a. C. in raccolte letterarie composte in
prosa. Si era intanto affermato una premessa o una postilla in cui veniva
spiegato il tema della favola o la morale che si poteva trarre da essa.
Lavorando su queste raccolte F. creò una regolare forma poetica per la favola
includente premessa o postilla. Tipico del genere è l'uso di animali come
maschere, personaggi umanizzati dotati di una psicologia fissa. Inoltre è
sempre presente la morale che F. vuole estrarre a tutti i costi da ciascuna
fiaba. Tuttavia le morali di F. esprimono una mentalità sociale, ossia il
punto di vista delle classi subalterne della società romana. Egli è l'unico a
dare voce al mondo degli emarginati: in questo la sua opera contiene
un'istanza realistica. Al contrario, è quasi del tutto assente un realismo
descrittivo e linguistico, anzi il mondo delle favole è piuttosto generico,
il linguaggio asciutto e poco caratterizzato. Non mancano spunti di
adesione alla realtà contemporanea: F., infatti, non si limita sempre alla
tradizione della fiaba d'animali, e talora sembra inventare di suo, come nel
racconto che ha per protagonista Tiberio; altrove ricava aneddoti dalla
storia. Nei prologhi dei singoli libri il poeta manifesta notevole
consapevolezza letteraria; difende il suo tipo di poesia e ne esalta i pregi,
sottolineando la sua indipendenza dal modello esopico. F. non manca di
accenni polemici verso la società, e nel suo stile quasi satirico colpisce
tipi di uomini e regole del vivere. Le sue favole vogliono essere divertenti
ed insieme istruttive (una sorta, dunque, di "realismo comico"). Comunque,
non ebbe molta fortuna nei suoi tempi.
Lucio Annèo
Seneca (Cordova, Spagna 4 ca a.C - Roma 65 d.C.)
VITA. S. nacque a
Cordova (nella Spagna Betica) da una famiglia del rango equestre che aveva
per costume l'attività dell'intelletto (figlio di S. il Vecchio). Venne
presto a Roma dove si dedicò agli studi filosofici (suoi maestri lo stoico
Attalo e P. Fabiano). Nella carriera forense rivelò straordinarie qualità
oratorie e, ottenuta la questura, entrò nel senato dove la sua eloquenza
durante il regno di Caligola gli valse il senato e gli accrebbe onori,
reputazioni e pericoli. Tuttavia, nel 41 la principessa Giulia Livilla,
sorella di Caligola, venne accusata dalla gelosa Messalina, e la rovina della
principessa travolse anche S. (non si sa per quali pretesti di complicità):
fu relegato nella solitudine aspra della Corsica e soltanto nel 49, dopo 8
anni di esilio, per intercessione di Agrippina, nuova imperatrice, poteva
tornare a Roma come maestro del giovane Nerone, divenuto, per l'adozione di
Claudio, il designato successore dell'impero. Nell'ott. 54, Claudio (zio
di Caligola, principato dal 41 al 54) muore avvelenato (pare da Agrippina) e
Nerone sale al trono. Dunque morto Claudio, S. restò il più autorevole e
ascoltato consigliere del principe, e pur senza assumere cariche pubbliche,
fu in realtà il vero regolatore della politica imperiale (molti atti del
principato neroniano per circa 7 anni fanno sentire il nobile e benefico
influsso di S.: è il cosiddetto periodo del "buon governo"). Ma Nerone
volle forzare ben presto le tappe verso un governo autocratico: ne pagarono
le conseguenze Britannico, la stessa Agrippina e S. appunto, il quale - dopo
la morte del prefetto del pretorio Afranio Burro (62) - pensò bene di
ritirarsi a vita privata e di dedicarsi completamente alla meditazione. Ma
il destino era segnato: nel 65 fu scoperta la congiura contro Nerone
che aveva a capo un grande signore romano, Calpurnio Pisone. La
congiura comprendeva personaggi civili e militari e ufficiali delle
milizie pretoriane. Non si sa quanto sia stata fondata l'accusa di complicità
nei riguardi di S., ma Nerone colse con gioia l'occasione di sbarazzarsi del
suo vecchio e odioso consigliere. S., ricevuto l'ordine di morire,
dimostrò effettivamente nel suo ultimo giorno di saper sfidare quella morte
che egli aveva dichiarato di attendere con serenità in tutti i giorni della
sua vita.
OPERE: TEMI E CONSIDERAZIONI.
Ben poche fra le opere
senecane rimaste sono databili con sicurezza, sicché è difficile cercare di
seguire un eventuale sviluppo del suo pensiero. Il genere della consolatio si
costituisce attorno a un repertorio di temi morali che fondano gran parte
della riflessione filosofica di Seneca: la fugacità del tempo, la precarietà
della vita e la morte come destino ineluttabile dell'uomo. Molte opere
filosofiche di S. sono state raccolte, dopo la sua morte, in 12 libri di
"Dialogi" su questioni etiche e filosofiche: insomma, scritti morali,
confidenze e dichiarazioni dello scrittore al personaggio a cui ogni scritto
è dedicato. Le singole opere costituiscono, così, piuttosto che dialoghi in
senso stretto, vere e proprie trattazioni autonome di aspetti o problemi
particolari di etica, in un quadro generale ch'è quello essenzialmente di un
eclettismo di propensione stoica (scuola di mezzo"): "De providentia" (62
d.C.?): vi si espone la tesi (opposta a quella epicurea), che tende a
giustificare la constatazione di una sorte che sembra spesso premiare i
malvagi e punire gli onesti: ma è solo la volontà divina che vuole mettere
alla prova i buoni ed attestarne la virtù. Il sapiens stoico realizza la sua
natura razionale nel riconoscere il posto che il logos gli ha assegnato
nell'ordine cosmico, accettandolo serenamente. "De brevitate vitae": vi sono
trattati i temi del tempo, della sua fugacità e dell'apparente brevità della
vita: la condizione umana ci sembra tale solo perché noi non sappiamo
afferrare l'essenza della vita, e la disperdiamo in occupazioni
futili. "De ira libri III" (41 d.C.?): sono una sorta di fenomenologia
delle passioni umane, poiché analizzano i meccanismi di origine e i modi
per inibirle e controllarle. "De consolatione" (posteriore al 37
d.C.). "De vita beata" (58 d.C.?): esamina il problema della ricchezza e
dei piaceri (nei quali non si trova l'essenza della felicità), ma se è vero
che il saggio sa vivere secondo natura, saggezza e ricchezza non
sono necessariamente antitetiche ("nessuno ha condannato la saggezza
alla povertà"): l'importante non è non possedere ricchezze, ma non
farsi possedere da esse. Così, S. legittima l'uso della ricchezza se questa
si rivela funzionale alla ricerca della virtù. "De costantia
sapientis", "De otio (62 d.C. ?), "De tranquillitate animi" (62 d.C.?):
in questa trilogia, dedicata all'amico Sereno, S. cerca una mediazione tra
l'otium contemplativo e l'impegno del civis romano, suggerendo una posizione
intermedia tra neoteroi (Catullo) e Cicerone. Il comportamento
dell'intellettuale deve essere rapportato alle condizioni politiche, ma la
scelta di una vita totalmente appartata può essere resa necessaria da una
grave posizione politica, che non lascia al saggio altro che rifugiarsi nella
solitudine contemplativa. In effetti, più specificamente, questo è il tema
del secondo dei dialoghi, mentre il primo esalta l'imperturbabilità del
saggio stoico di fronte alle ingiurie e alle avversità e il terzo affronta il
problema della partecipazione del saggio alla vita politica. A tutti e tre i
dialoghi, però, comune è l'obiettivo da seguire: quello, cioè, della serenità
d'animo capace di giovare agli altri, se non con l'impegno pubblico, almeno
con l'esempio e con la parola. Sempre di filosofia trattano: "De
beneficiis" (7 libri): si parla della natura e delle varie modalità degli
atti di beneficenza, dei legami tra benefattore e beneficiato e dei doveri
che ne conseguono (si sospetta, qui, una velata allusione al comportamento di
Nerone). In pratica, quest'opera è un appello ai doveri della filantropia e
della liberalità, nell'intento di instaurare rapporti sociali più umani e
cordiali: si configura quindi come risposta alternativa al fallimento del
progetto di una monarchia illuminata. "De clementia", 3 libri dedicati a
Nerone: riguarda l'amministrazione della giustizia e il governo dello stato;
è, cioè, un'indicazione al giovane imperatore per un programma politico di
equità e moderazione (S. non mette, però, in discussione le forme apertamente
monarchiche del governo). Il problema è in sostanza quello di avere un buon
sovrano, che in un regime di potere assoluto potrà far leva soltanto sulla
sua stessa coscienza per non far sfociare nella tirannide il proprio governo.
La clemenza è la virtù che dovrà informare i suoi rapporti con i sudditi,
solo con essa sarà in grado di ottenere la loro benevolenza e il loro
appoggio. E' evidente in una concezione di principato illuminato l'importanza
che acquista l'educazione del principe, e più in generale la funzione della
filosofia come garante e ispiratrice della direzione politica dello stato.
Alla filosofia spetta dunque il ruolo di promuovere la formazione morale del
sovrano e dell'élite politica. Tra i dialogi abbiamo due lettere (ad
Helviam matrem e ad Polybium, un liberto di Claudio) basate sul genere della
consolazione, ripreso dall'antica Grecia, che indaga su temi morali e sulla
precarietà della vita o sulla morte come destino. In particolare, la lettera
a Polibio si rivela un tentativo di adulare l'imperatore, e per questo S.
viene accusato anche di opportunismo. Quindi abbiamo: 124 "Epistulae
morales ad Lucilium" (20 libri, composte negli ultimi anni di vita): S. vi
riassume la sua filosofia e la sua esperienza, la sua saggezza e il suo
dolore: vi sono insomma esposti i caratteri della filosofia stoica, spesso
avvicinandosi alla tradizione diatribica. L'opera ci è giunta incompleta e si
può datare al periodo del disimpegno politico (62). Lo spunto per la
composizione di queste lettere sarà venuto probabilmente a S. da Platone e da
Epicureo: in ogni caso, egli mostra la consapevolezza di introdurre nella
cultura letteraria latina un genere nuovo, distinto dalla tradizione più
illustre rappresentata da Cicerone. Il modello cui egli intende uniformarsi è
Epicuro, colui che nelle lettere agli amici ha saputo arrivare ad un alto
grado di formazione e di educazione spirituale. Se si tratti di un
epistolario reale o fittizio è questione dibattuta; fatto sta che S. è
convinto che lo scambio di lettere permetta di ottenere un'unione con l'amico
che, fornendo direttamente un esempio di vita, si rivela più efficace di un
insegnamento dottrinale. La lettera è maggiormente vicina alla vita reale e
permette di proporre ogni volta un nuovo tema: S. utilizza la lettera come
strumento ideale soprattutto per la prima fase della direzione spirituale (di
curvatura profondamente aristocratica), fondata sull'acquisizione di alcuni
principi basilari. Inoltre, il genere epistolare si rivela appropriato ad
accogliere un tipo di filosofia, come quella dell'autore, priva di
sistematicità e incline soprattutto alla trattazione di aspetti parziali o
singoli temi etici (si dice, di questa forma, "parenetica"). Col tono pacato
di chi non si atteggia a maestro severo ma ricerca egli stesso la sapientia,
e attraverso un vero e proprio colloquim, S. propone l'ideale di una vita
indirizzata al raccoglimento e alla meditazione, ad un perfezionamento
interiore mediante un'attenta riflessione sulle debolezze e i vizi propri e
altrui. Il distacco dal mondo e dalle passioni che lo agitano si accentua,
nelle Epistole, parallelamente al fascino della vita appartata e
all'assurgere dell'ozio a valore supremo: un ozio che non è inerzia, ma
alacre ricerca del bene. La progressività del processo di formazione, così,
non a caso si rispecchia in quella della forma: le singole lettere, man mano
che l'epistolario procede, tendono ad assimilarsi al trattato
filosofico. Di carattere scientifico sono i 7 libri delle "Naturales
quaestiones", dedicati a Lucilio: trattati scientifici nei quali S. analizza
i fenomeni atmosferici e celesti, dai temporali ai terremoti alle comete.
L'interesse dell'autore per le scienze - ritenute parte integrante della
filosofia - non è "gratuito", ma è legato ad una profonda istanza morale:
quella di liberare gli uomini da vani e superstiziosi terrori. Ci sono
poi: 9 tragedie cothurnatae, cioè di argomento (mitologico) greco:
Hercules furens, Troades, Phoenissae, Medea, Phaedra, Oedipus, Agamemnon,
Thyestes, Hercules Oetus. Molto poco si sa sulle tragedie di S.: tuttavia,
sono le uniche tragedie latine a esserci pervenute in forma non frammentaria,
e inoltre sono molto importanti anche come documento della ripresa del teatro
latino tragico: esse, infatti, rappresentano il punto di arrivo, ai limiti
dell' espressionismo verbale, della "tragedia retorica". Tuttavia, appunto
la scarsità di notizie esterne sulle tragedie senecane non ci permette
di sapere nulla di certo sulle modalità della loro rappresentazione: non è
da escludere l'ipotesi che fossero tragedie destinate soprattutto alla
lettura in pubblico, in cui quindi l'azione drammatica è sostituita
dalla declamazione dei sentimenti (fine e profonda ne è la psicologia) e
dalla sottigliezza del dialogo sofistico. Quelle ritenute autentiche sono,
come detto, nove cothurnatae: sul modello dell'autore greco Euripide abbiamo,
ad es., le Phoenissae, che narra del tragico destino di Èdipo e dell'odio che
divide i suoi due figli Etèocle e Polinice. Il mito tebano di Èdipo è
presente anche nell'Oedipus: causa inconsapevole dell'uccisione del padre,
alla scoperta di ciò il protagonista si acceca. Nel Thyestes si narra della
vendetta di Átreo, che animato da odio mortale per il fratello Tieste (gli ha
sedotto la sposa), lo invita a un finto banchetto di riconciliazione in cui
imbandisce al fratello ignaro le carni dei figli. Tuttavia, il rapporto
con i modelli greci è abbastanza conflittuale: se da una parte S. sente la
necessità di una ferrea autonomia, dall'altra ha sempre in mente i modelli
greci. Il linguaggio poetico delle tragedie ha la sua base, poi, nella poesia
augustea, dalla quale l'autore mutua anche le raffinate forme metriche, come
i metri lirici oraziani usati negli intermezzi corali. Le tracce della
tragedia latina arcaica si avvertono, invece, soprattutto nel gusto del
pathos, e spesso l'esasperazione della tensione drammatica è ottenuta
mediante l'introduzione di lunghe disgressioni, che alterano i tempi dello
sviluppo inserendosi nella tendenza a isolare singole scene come quadri
autonomi. Sul filone delle tragedie di età giulio-claudia è infine evidente
la generalizzata ispirazione antitirannica. Le tragedie sono sempre
alimentate dalla filosofia e dalla dottrina stoica dell'autore, i cui tratti
fondamentali sono illustrati sotto forma di exempla nelle opere: le vicende
si configurano infatti come conflitti di forze contrastanti, soprattutto
all'interno dell'animo, nell'opposizione tra mens bona e furor, la ragione e
la passione. Questo, tuttavia, è da considerarsi più che altro come
substratum delle tragedie, sia perché abbiamo ben presenti le esigenze
letterarie del tempo, sia perché nella tragedia di Seneca il logos si rivela
incapace di frenare le passioni e di arginare, quindi, il male. Nascono
perciò toni cupi e atroci, scenarî d'orrori e di forze maligne, in una lotta
tra il bene e il male che oltre ad avere dimensione individuale, all'interno
della psiche umana, assume un aspetto più universale. Ad es., la figura del
tiranno sanguinario è quella in cui si manifesta più spesso il male,
tormentato com'è dalla paura e dall'angoscia, nel suo eterno problema del
potere. A parte va considerata l'Octavia, una commedia praetexta (cioè di
argomento romano, e l'unica rimastaci della letteratura latina), ove si
rappresenta la sorte di Ottavia, la prima moglie di Nerone e da lui ripudiata
e fatta uccidere. Il fatto però che venga preannunciata in maniera
troppo corrispondente alla realtà la morte di Nerone, lascia trasparire forti
dubbi sulla paternità della tragedia (S., che vi compare peraltro
come protagonista, morì prima di Nerone), attribuita invece dalla
tradizione manoscritta, data l'affinità stilistica con le precedenti
tragedie. l' "Apokolokýntosis" o "Ludus de morte Claudii", una satira
menippea sull'apoteosi dell'imperatore: Il componimento narra appunto la
morte di Claudio e la sua ascesa all'Olimpo nella vana pretesa di essere
assunto fra gli dei, i quali invece lo condannano agli inferi dove finisce
schiavo del nipote Caligola e del liberto Menandro: una sorta di contrappasso
dantesco per chi, durante il suo impero, ha riempito di liberti il governo
romano. Si tratta, evidentemente, di una satira, che assume spesso
toni parodisticamente solenni, aspetti coloriti e situazioni fortemente
ironiche a scapito del poco amato imperatore Claudio (è la tipica opposizione
stoica al potere arbitrario ed incontrollato), mentre con gioia viene
salutato l' avvento al potere di Nerone. Apokolokýntosis è il titolo greco
dell'opera e significherebbe "deificazione di una zucca", con evidente
riferimento alla fama poco simpatica che si era fatto Claudio. Un'opera
simile contrasta però con la laudatio funebris dell'imperatore morte
presentata dallo stesso S. a Nerone, e fa nascere qualche dubbio sulla sua
autenticità. Si attribuisce infine a S. una raccolta di ca 70 epigrammi, di
cui tuttavia solo 3 vanno sotto il suo nome; sicuramente apocrifa è, invece,
la corrispondenza con San Paolo.
CONSIDERAZIONI SULLO STILE. Se il
fine della filosofia è giovare al perfezionamento interiore, il filosofo
dovrà badare all'utilità delle parole, e non alla loro elaboratezza. S.
rifiuta la compatta architettura classica del periodo ciceroniano, che nella
sua disposizione organizzava anche la gerarchia interna, e dà vita a uno
stile eminentemente paratattico, che frantuma l'impianto del pensiero in un
susseguirsi di frasi aguzze, il cui collegamento è affidato soprattutto
all'antitesi e alla ripetizione: continua è la ricerca dell'effetto,
dell'espressione appunto epigrammatica, quasi a voler riprodurre il "sermo
familiaris", e il tono oscilla ben volentieri tra quello di una rigorosa
analisi interiore e quello di una sapiente predica ad intelligenti
ascoltatori. S., insomma, fa uso di questo stile (che affonda le sue radici
nella retorica asiana e nella predicazione cinica) come di una sonda per
esplorare i segreti dell'animo umano e le contraddizioni che lo lacerano, ma
anche per parlare al cuore degli uomini ed esortare al bene.
Marco
Anneo Lucano (Cordova 39 - Roma 65 d.C.)
VITA. Figlio di Anneo Mela
fratello di Seneca, è dunque nipote del grande filosofo. Nel 40 si
trasferisce con la famiglia a Roma dove compie i suoi primi studi, sotto la
guida di ottimi maestri e del filosofo stoico Cornuto. Entra ben presto nella
corte di Nerone, anzi fra i suoi intimi, e proprio per volontà di
quest'ultimo diviene questore prima dell'età minima prevista, entrando poi a
far parte del collegio degli àuguri. Nel 60 L. recita le Laudes del principe,
in occasione delle sue feste (e ciò gli valse l' incoronazione di poeta), e
pubblica i primi 3 libri della "Pharsalia", con un'enfatica dedica a
Nerone. Subentra però una brusca rottura con l'imperatore, causata - secondo
la tradizione - dalla gelosia letteraria che questi provava nei suoi
confronti o, più probabilmente, dal fatto che L. s'andasse accostando sempre
più alle posizioni della propaganda stoica anticesariana, e quindi avesse
idee troppo marcatamente improntate a un nostalgico repubblicanesimo, come
appare evidente dal tono dei successivi libri del suo capolavoro, cui fra
l'altro sostituì la dedica. In seguito, L. aderì alla congiura di Pisone
e, una volta scoperto il complotto, ricevette l'ordine di darsi la morte. Si
tolse la vita nel 65, a meno di 26 anni, non senza aver cercato di salvarsi
con delazioni.
OPERE. *Tra le opere perdute ricordiamo, invece, un
"Iliacon" (componimento in versi sulla guerra di Troia); un "Catachtonion"
(carme sulla discesa negli inferi); i 10 libri di "Silvae", raccolta di
poesie di vario genere; la tragedia incompleta "Medea"; epigrammi e 14
"fabulae salticae" (libretti per pantomime). Il numero e la varietà delle
composizioni di cui si ha notizia indicano un eccezionale precocità
artistica, unità ad una notevole versatilità. Dalle opere perdute sembra di
poter cogliere una totale adesione ai gusti neroniani: nell'Iliacon veniva
incontro alla passione del principe per le antichità troiane; Silvae e
libretti per pantomime ben si inserivano nel quadro generale della poesia di
intrattenimento. *Ma il suo capolavoro, e tra l'altro l'unica sua opera
pervenutaci, è il poema epico "Bellum civile" o "Pharsalia", in 10 libri e
ancora incompiuto (il libro X infatti viene interrotto bruscamente per la
morte dell'autore). Quest'opera risulta essere di tutt'altro genere rispetto
le sue precedenti: il modo in cui L. ha scelto di trattare l'argomento della
guerra civile tra Cesare e Pompeo si risolve in un'esaltazione dell'antica
libertà repubblicana e in una condanna del regime imperiale. Dopo
l'esposizione dell'argomento del poema e un lungo elogio di Nerone, L. espone
le cause della guerra e il passaggio del Rubicone da parte di Cesare. Lamenti
dei romani che ricordano il precedente conflitto civile tra Mario e Silla.
Dibattito notturno tra Bruto e Catone sulla guerra imminente. Appare in sogno
a Pompeo la figura di Giulia, figlia di Cesare e sua prima moglie, per
minacciargli terribili sciagure. Cesare entra in Roma, poco dopo la guerra si
sposta a Marsiglia. Azioni di Cesare in Spagna e grande eroismo di un
pompeiano. Il Senato, esule da Roma, si riunisce in Epiro. Il pompeiano Appio
si reca a consultare l'oracolo di Delfi ma il responso resta dubbio. Cesare
entra in Epiro e sconfigge l'esercito di Pompeo che è costretto a lasciare
Cornelia nell'Isola di Lesbo: dolore dei due sposi per la separazione. Pompeo
viene assediato a Durazzo con il suo esercito. I due eserciti arrivano in
Tessaglia, che sarà luogo dello scontro decisivo. Uno dei figli di Pompeo,
Sesto, si reca a consultare la maga Erittone. Sesto riesce a richiamare in
vita un soldato caduto in battaglia, il quale rivela a Sesto la rovina che
incombe su di lui, sulla sua famiglia e sull'intero ordinamento politico di
Roma. Si tiene il consiglio di guerra e Pompeo sconsiglia l'attacco, la
volontà dei partigiani è, tuttavia, più forte della sua e così sii iniziano i
preparativi per la battaglia. Scontro finale dei due nemici e vittoria
definitiva di Cesare. Pompeo fugge e Cesare rifiuta gli onori funebri ai
caduti. Ripresa con sé Cornelia Pompeo si rifugia in Egitto, dove spera di
trovare rifugio. Ma il re Tolomeo, dietro consiglio dei suoi cortigiani, lo
fa uccidere al suo arrivo. Il corpo decapitato di Pompeo viene lasciato sul
litorale, gli dà degna sepoltura un certo Cordo. Dopo la morte dei Pompeo,
Catone assume il comando dell'esercito dei repubblicani, e attraversa il
deserto libico affrontando pericoli di ogni sorta. Rifiuta di consultare
l'oracolo di Ammone: la conoscenza del futuro non può modificare le decisioni
del saggio. Ad Alessandria Cesare visita la tomba di Alessandro Magno, quasi
suo maestro di Tirannide. Gli alessandrini tentano una sollevazione contro
Cesare e a questo punto si interrompe il poema.
CONSIDERAZIONI SULLA
FARSAGLIA. La critica antica dei grammatici e dei retori ha mosso al poema di
Lucano una serie di censure: l'uso e l'abuso delle sententiae concettistiche,
che avvicinerebbero lo stile della Pharsalia a quello oratorio, la rinuncia
agli interventi divini, un ordine della narrazione quasi annalistico, tipico
più delle opere storiche (e si ricordino Nevio ed Ennio) che di quelle
poetiche. In alcune parti del poema, la fedeltà scrupolosa alla fonte storica
viene sacrificata alle deformazioni della verità a fini ideologici,
soprattutto per quel che riguarda Cesare, Pompeo e i rispettivi
sostenitori. A ragione si è potuto parlare della Pharsalia come di una sorta
di anti-Eneide, e del suo autore come di un anti Virgilio. Il poema epico
era stato celebrazione solenne delle glorie dello stato e dei suoi
eserciti; nelle mani di L. il poema epico diventa invece la denuncia della
guerra fratricida, del sovvertimento di tutti i valori, dell'avvento di
un'era di ingiustizia. Appunto Virgilio diventa per L. il modello da
rovesciare e da confutare: per lui, il mantovano ha coperto con un velo di
mistificazioni la trasformazione dell'antica repubblica in tirannide. La via
che l'autore sceglie per sconfessare Virgilio è prima di tutto il mutamento
dell'oggetto: non si tratta di rielaborare racconti mitici, ma di esporre,
con sostanziale fedeltà, una storia recente e ben documentata, soprattutto
universalmente riconosciuta. Questa scelta di fedeltà al vero spiega anche la
rinuncia agli interventi divini che tanto faceva scandalizzare la critica
antica. Come detto, è abbastanza probabile che il pessimismo di L. sia
andato maturando progressivamente nel corso della stesura del poema. La
polemica antivirgiliana comincia a delinearsi fino dai versi successivi al
proemio, mentre nell'epos di Virgilio il tema storico delle guerre civili
si affacciava qua e là nel testo, L. vuole invece riprodurlo in tutta la
sua ineludibile realtà storica, presentandone le nefaste conseguenze
sulla storia successiva. L'elogio a Nerone riprende da Virgilio alcuni
motivi rivolti alla glorificazione del principe (d'altro canto,
l'attribuzione a Nerone di tratti augustei era diffusa nella letteratura del
tempo):tuttavia, agli occhi di L. il mito del nuovo Augusto è molto migliore
del primo, e tesserne l'elogio significa entrare in velata polemica con
Virgilio: Nerone, e non Augusto, è la vera realizzazione delle promesse del
Giove virgiliano (Giove aveva profetizzato a venere l'avvento di una nuova
età dell'oro). Resta il fatto che, all'interno della Pharsalia, l'elogio di
Nerone suona come una nota stridente: nello stesso progetto del poema era
insita la contraddizione fra la visione radicalmente pessimista dell'ultimo
secolo di storia romana, che L. era venuto maturando, e le aspettative
suscitate dal nuovo principe. Nel seguito del poema, il pessimismo di L. si
fa sempre più radicale, e approda a una concezione apparentemente priva di
luci: un vero e proprio "anti-mito" di Roma, il mito del suo tracollo, che si
contrappone a quello virgiliano dell'ascesa della Città da umilissime
origini. Come l'Eneide, anche la Pharsalia si articola attorno a una serie di
profezie, che rivelano non le future glorie di Roma, ma la rovina che
l'attende. La più importante è costituita soprattutto dalla negromanzia del
libro VI. La collocazione dell'episodio in tale libro costituisce un
probabile indizio della posizione di centralità che l'autore intendeva
accordargli nell'architettura del poema. L. rovescia il modello virgiliano
fin nei minimi particolari. Il soldato richiamato in vita dalla maga racconta
di aver visto gli inferi in grande agitazione; in lacrime le anime dei
grandi eroi di Roma; esultanti gli spiriti degli antichi antenati di Cesare,
gli eterni nemici dello stato romano. La scelta di Sesto si spiega col fatto
che L. intendeva collegare la stirpe di Pompeo con il mito della rovina di
Roma. Per di più Sesto, figlio empio e degenere, rappresenta per molti
rispetti un rovesciamento del pio Enea. La Pharsalia non ha un personaggio
principale, ma ruota soprattutto attorno alle personalità di Cesare, Pompeo e
Catone. Cesare domina a lungo la scena con la sua malefica grandezza: egli
assurge a incarnazione del furore che un'entità ostile, la Fortuna, scatena
contro l'antica potenza di Roma. In alcuni punti il poeta sembra quasi
soccombere al fascino sinistro del suo personaggio, il quale in fondo
rappresenta il trionfo di quelle forze irrazionali che nell'Eneide venivano
dominate e sconfitte: il furor, l'ira e l'impazienza. Inoltre, nel suo poema,
L. spoglia Cesare del suo attributo principale, la clemenza verso i vinti, a
costo di stravolgere la verità storica. Alla frenetica energia di Cesare
si contrappone una relativa passività da parte di Pompeo, questo tipo di
caratterizzazione serve tuttavia a limitare la responsabilità di Pompeo: la
forsennata brama di potere di Cesare è la principale causa della catastrofe
che porterà Roma al tracollo. L. cerca di fare di Pompeo una sorte di Enea il
cui destino si mostra avverso piuttosto che favorevole: in questo senso la
figura di Pompeo è l'unica che nello svolgimento del poema subisce una
trasformazione psicologica. La Pharsalia rappresenta infatti il precipitare
di Pompeo dai vertici più alti, mentre la Fortuna gli si rivolge contro con
ostile determinazione. Alla fine, abbandonato dalla Fortuna, Pompeo va
incontro a una sorta di purificazione: diviene consapevole della malvagità
dei fati, comprende che la morte in nome di una giusta causa costituisce
l'unica via di riscatto morale. Questa consapevolezza costituisce per Catone
un solido possesso fin dalla sua prima apparizione nel poema. Lo sfondo
filosofico del poema è senza dubbio di natura stoica: ma nel personaggio di
Catone si consuma la crisi dello stoicismo tradizionale. Di fronte alla
consapevolezza di un fato che cerca la distruzione di Roma, diviene
impossibile per Catone l'adesione volontaria alla volontà del destino. Matura
così la convinzione che il criterio della giustizia sia ormai da ricercarsi
altrove che nel volere del cielo: esso d'ora in poi risiede unicamente nella
coscienza del saggio. Catone si fa pari agli dei (titanismo): non ha più
bisogno dei loro consigli per cogliere il discrimine tra il giusto e
l'ingiusto. In una parola, è qui evidente il rifiuto di ogni
concezione provvidenzialistica della storia umana, in nome dei principi
stoici della virtù e della fortuna. Ardente e concitato, così viene
definito da Quintiliano lo stile di L., riferendosi probabilmente
all'incalzante ritmo narrativo dei periodi, che si susseguono senza freno e
lasciano debordare parti della frase oltre i confini dell'esametro: così
l'urgenza dei pensieri si esplicita nel continuo enjambement, e la sintassi
delle parole aspira ad uscire dai vincoli dello schema esametrico. L'opera
è l'espressione tipica d'un nuovo gusto anticlassico, sostenuto da una
perenne tensione retorica e da un patetismo sincero (non alieno da alcune
sostanziali "deformazioni"). L'io del poeta è praticamente onnipresente per
giudicare e spesso condannare in tono indignato. E' senza dubbio uno stile
che di rado conosce dominio e misura: per questo esso può rapidamente saziare
il lettore. Ma la rappresentazione di una catastrofe come la guerra civile
poteva ancora continuare a basarsi su una forma tradizionale quale era quella
che il genere epico offriva? La tradizione epica aveva costituito tutto
un linguaggio complesso, capace di dare l'attraente forma di narrazione
ai grandi modelli culturali cui si ispirava la società romana. L. non ha
la forza di sbarazzarsi di una forma letteraria che pure sente insufficiente
ai suoi bisogni. Più che tentare una rifondazione del linguaggio epico ,
egli cerca un rimedio di compenso nell'ardore ideologico con cui ne denuncia
la crisi. Così la presenza di un'ideologia politico moralista si fa in
lui ossessiva, invade il suo linguaggio e si riduce infine a retorica. Ma
la retorica che anima questo linguaggio non è vana artificiosità
ornamentale, ma ricerca di una propria autenticità, per essere sicuro di non
tradire con le parole il messaggio di un'ideologia disperata.
Gaio
Petronio (? - m. Cuma 66 d.C.)
VITA. Per molto tempo si è parlato
di una questione petroniana, finché è durata l'incertezza sull'epoca, la
persona, il nome completo e il titolo dell'opera narrativa di P.. Se
l'autore del Satyricon è il personaggio rappresentato da Tacito in Annales
16, T. Petronius Niger. Il P. di Tacito era stato un uomo di potere (console
nel 62), ma la qualità che lo rendeva caro a Nerone era la raffinatezza, il
gusto estetico ("elegantiae arbiter"). Questo P., spinto al suicidio nel 66
da intrighi di corte, stupì ancora una volta realizzando un suicidio in
grande stile. Incidendosi le vene, e poi rallentando il momento della fine,
P. passò le ultime ore a banchetto occupandosi di poesia. Ma volle mostrarsi
anche serio e responsabile: si occupò dei suoi servi, e scelse di denunciare
apertamente i crimini dell'imperatore, distrusse poi il suo anello perché non
potesse venire riutilizzato in qualche intrigo. Le qualità che Tacito dà alla
figura di P. sono tutte qualità che l'autore del Satyricon deve aver
posseduto in modo elevatissimo. Non sappiamo se Tacito conoscesse
direttamente il romanzo; se lo conosceva è lecito pensare che ne abbia tenuto
conto nella sua descrizione di P., ma non era tenuto a citare nella sua
severa opera storica un testo così eccentrico e scandaloso. Certi aspetti del
testo possono rimandare all'ambiente neroniano e il gusto di P. per la vita
dei bassi fondi può avere una sottile complicità con i gusti dell'imperatore.
Se l'autore è in realtà il P. di Tacito dobbiamo aspettarci certamente
allusioni anche sottili all'ambiente della corte neroniana. Tutti gli
elementi di datazione interni concordano con una datazione non oltre
il principato di Nerone. Le allusioni a personaggi storici e i nomi di tutte
le figure del romanzo sono perfettamente compatibili con il contesto
del periodo storico di Nerone.
OPERA. Del "Satyricon", come detto,
sono incerti l'autore, la data di composizione, il titolo e il significato di
questo, l'estensione originaria, la trama, il genere letterario e le
motivazioni per cui quest'opera venne scritta e pubblicata. In effetti,
l'unico attestato delle opere di P. è un lungo frammento narrativo in prosa,
con parti in versi, residuo di una narrazione molto più ampia; il titolo,
Satyrica, sembra formato da due grecismi: Satyri (i personaggi del mito e del
folklore greco) più il suffisso di derivazione greca -icus. La parte che
abbiamo copre parte dei libri XIV e XVI e la totalità del libro XV. Non
sappiamo di quanti libri fosse composto il romanzo. Il testo ebbe un destino
complesso, fu antologizzato in età tardo antica, con intervento anche di vere
e proprie interpolazioni. Questa, brevemente, la trama: Encolpio,
perseguitato dal dio Priapo che gli ha tolto la virilità, vaga con l'efebo
Gitone e l'amico Ascilto per le città dell'Italia meridionale, incorrendo in
varie avventure mariolesche ed erotiche, nelle quali spiccano, fra le altre,
le figure di Quartilla, Psiche, Circe, di insaziabile sensualità. Al terzetto
si aggiunge Eumolpo, un vecchio ribaldo, ma poeta e fine critico, che in un
episodio canta "La presa di Troia" (65 senari giambici) e "La guerra civile"
(295 esametri), probabili parodie di opere di Nerone e Lucano. Frammenti
famosi sono la "cena di Trimalcione", un incredibile banchetto offerto da un
arricchito, e la novella della matrona di Efeso, che si dà ad un soldato
sulla tomba stessa del marito.
IL SATYRICON E IL ROMANZO ANTICO. E'
noto che il Satyricon costituisce, insieme alle "Metamorfosi" di
Apuleio, l'unico testo della letteratura latina appartenente al genere del
romanzo. Riguardo il romanzo antico, è possibile distinguerne tre
tipologie differenti: 1) il romanzo "di avventure e di prove",
rappresentato eminentemente dal cosiddetto "romanzo greco" o "sofistico": le
Etiopiche di Eliodoro, Leucippe e Clitofonte di Achille Tazio, Le avventure
di Cherea e Calliroe di Caritone, Abrocome e Anzia o Racconti Efesii di
Senofonte Efesio, e Le avventure pastorali di Dafni e Cloe di Longo Sofista.
2) il romanzo "biografico", al quale sono ricondotti l' Apologia di Socrate e
il Fedone di Platone, oltre alle biografie retoriche che hanno origine
dagli encomi, a loro volta discendenti dagli antichi threnoi o, in
ambiente latino, dalle laudationes funebres; ne sono un esempio le
Retractationes di Agostino; all'interno di questa tipologia Bachtin distingue
poi la biografia "energetica", rappresentata dalle Vite di Plutarco, che
porta ad una progressiva rivelazione del carattere del protagonista, dalla
biografia "analitica", il cui autore più tipico è Svetonio; 3) il romanzo
"di avventure e di costume", rappresentato in senso stretto solo dalle
già citate Metamorfosi di Apuleio e dal Satyricon di P., che Bachtin avvicina
al romanzo picaresco europeo moderno, in quanto in entrambi quello che
egli definisce "tempo di avventura" si intreccia strettamente nella
narrazione al "tempo quotidiano". Al contrario dei romanzi latini questa
serie di opere greche è unita da una notevole omogeneità e permanenza di
tratti distintivi. La trama è quasi invariabile: si tratta delle traversie di
una coppia di innamorati che vengono separati e che devono affrontare mille
pericoli prima di potersi riabbracciare. Il tono è quasi sempre serio, lo
scenario è invece variabile e spazia nei paesi del Mediterraneo. L'amore è
trattato con pudicizia, come una passione seria ed esclusiva: l'eroina riesce
sempre ad arrivare alla fine del romanzo ancora casta. Nel romanzo di P.
l'amore è visto in modo ben diverso. Non c'è spazio per la castità, e nessun
personaggio è un serio portavoce di valori morali. Il protagonista è
sballottato tra peripezie sessuali di ogni tipo, è il suo partner preferito è
maschile. Il rapporto omosessuale tra Encolpio e Gitone diventa quasi una
parodia dell'amore romantico che lega gli innamorati dei romanzi greci. A
partire dal I secolo d.C. ha grande fortuna una letteratura novellistica,
caratterizzata da situazioni comiche, spesso piccanti e amorali. Un filone
importante è quello che gli antichi spesso etichettano come fabula Milesia;
sappiamo con certezza che P. utilizzò ampiamente questo filone di narrativa
non idealizzata. Una tipica storia milesia è quella raccontata da Eumolpo:
una matrona di Efeso, vedova inconsolabile, cede alle voglie di un soldato e
finisce per esporre sulla croce la salma di suo marito per salvare l'amante.
I temi tipici di questa novellistica si oppongono a qualsiasi idealizzazione
della realtà: gli uomini sono sciocchi e le donne pronte a
cedere. Tuttavia nessun testo narrativo classico si avvicina anche
lontanamente alla complessità letteraria di P.. Se la trama del romanzo si
presenta molto complessa, ancora più complessa è la forma del romanzo. La
prosa narrativa è interrotta frequentemente con inserti poetici: alcune di
queste parti in versi sono affidate alla voce dei personaggi, ma molte altre
parti poetiche sono strutturate come interventi diretti del narratore, che
nel vivo della sua storia abbandona le relazioni con gli eventi esterni e si
abbandona a commenti che hanno funzione ironica. La presenza di un narratore
passivo che subisce i capricci della fortuna è tipica di P. come del romanzo
di Apuleio, ma l'uso libero e ricorrente di inserti poetici allontana
quest'opera dalla tradizione del romanzo e la avvicina agli altri generi
letterari. Il punto di riferimento più vicino al Satyricon è la satira
menippea, questo tipo di satira si configurava infatti come un contenitore
aperto, molto vario per contenuti e per forma e che alternava momenti seri a
situazioni giocose, il tutto sorvegliato da un'abile tecnica di composizione.
Rimangono tuttavia delle differenze nette: la satira di Seneca è una
narrazione molto breve, ed è impossibile paragonala allo sviluppo del
Satyricon. Inoltre è un testo di satira intesa come libello, come attacco
personale concepito in una precisa situazione e rivolto contro un bersaglio
esplicito: Claudio. In P. invece nessun intento del genere è
percepibile. Ancora Bachtin sottolinea in particolare la caratteristica
della pluridiscorsività del Satyricon, che si manifesta sia nella varietà
dei punti di vista che si incrociano nel romanzo, sia nella molteplicità
di allusioni e riprese dei più svariati generi letterari. Proprio su
questo aspetto si è incentrato il dibattito critico successivo,
sviluppando ampiamente le ricerche sulla intertestualità nel Satyricon
soprattutto per quanto riguarda la messa a fuoco delle parodie dei generi
letterari su cui il testo appare costruito. Così è stato particolarmente
studiato il rapporto tra il romanzo greco e il Satyricon, ed in questo ambito
è stato spesso sostenuto che il romanzo di P. si pone come inversione
parodistica dei modelli greci: il tema strutturante di opere come quelle
citate di Caritone o di Senofonte Efesio, costituito dall'amore contrastato
di una coppia di giovani e dalle peripezie che attraversano per coronare la
loro unione, risulta rovesciato nel Satyricon nel rapporto omosessuale dei
due protagonisti. Ci sono d'altra parte studiosi che, come Sullivan,
non condividono appieno questa ipotesi, e sostengono invece che sia il
Satyricon sia i romanzi greci si rifarebbero al comune modello dell' epos, e
che quindi le analogie strutturali che si riscontrano tra il romanzo latino
e quelli greci sarebbero giustificate da questa comune ascendenza. Ancora,
sono stati oggetto di indagine anche i riferimenti che P. dissemina nella sua
opera ad autori latini, in particolare a Virgilio, la cui opera sarebbe
parodiata e/o imitata nel cosiddetto Bellum civile, cioè quella sezione in
versi che Eumolpo, uno dei protagonisti, recita nella parte iniziale del
testo (che, come è noto, è un prosimetro, cioè un componimento misto di prosa
e versi): anche su questo argomento però i pareri sono discordi, dal momento
che secondo altri qui P. intenderebbe parodiare il poema epico di Lucano, più
che quello di Virgilio. Molto nota invece e sicuramente più fondata è
l'individuazione nel Satyricon di un intento parodistico dell'Odissea,
individuato e descritto tra gli altri anche da Courtney, Klebs e Fedeli. I
punti a sostegno di questa tesi sono molti, e probanti: si tratta non tanto
della ripresa dell'ira di Poseidon che perseguita Odisseo nel poema,
parodisticamente adombrata da P. nella persecuzione del dio Priapo nei
confronti del protagonista Encolpio, né della struttura "odissiaca"
(incentrata cioè sulle peripezie di viaggio) delle avventure narrate nel
romanzo, quanto piuttosto di elementi di dettaglio, ma perciò stesso assai
più significativi, che depongono a favore di questa tesi. Ad esempio è molto
significativo che il già nominato Encolpio assuma, in una avventura di
seduzione di una matrona, il nome di Polieno: e nell'Odissea polyainos è un
epiteto che viene attribuito da Omero al solo Odisseo. Analogie evidenti
presentano poi alcuni episodi, come quello in cui il protagonista del
romanzo, per sottrarsi ai suoi inseguitori, si attacca sotto ad un letto, con
un evidente ripresa dell' espediente con cui Odisseo fugge dalla caverna del
Ciclope attaccandosi sotto il ventre dell'ariete avviato al
pascolo. Invece è solo in tempi più recenti che sono stati messi in luce
alcuni riferimenti (oggetto di parodia o di semplice allusione) alla
cultura ebraica che sarebbe possibile riscontrare nel romanzo: uno studioso
in particolare, J. Clarke, ha rilevato nell'episodio centrale della
parte superstite del Satyricon (ovvero la cena di Trimalcione) alcuni
riferimenti all'ebraismo. Sull'esempio di questo studioso, le ricerche di
echi e riprese di elementi della cultura giudaica nel Satyricon si sono
moltiplicati, estendendosi anche all'ambito dell'onomastica. In questo
settore, già da tempo è stato osservato che i nomi dei personaggi sono
assegnati da P. con intenzione allusiva a personaggi o vicende del mito:
Labate ad es. osservava che Corace (nome del servo che rivela agli
heredipetae l'inganno di Encolpio ed Eumolpo nell'avventura di Crotone) è con
ogni evidenza ripreso dal mito della cornacchia (korax) punita da Apollo per
la sua attività di delazione di cui parla Callimaco in un suo inno.
Estendendo l'indagine anche all'area linguistica semitica alla ricerca di
analoghe allusioni, Bauer ha interpretato il nome di Trimalcione come
composto da un prefisso tri-, di significato intensivo, associato alla radice
semitica mlk, portatrice dell' idea di regalità. Trimalcione sarebbe quindi
il "tre volte re", titolo certo adatto alla sua smania di esibizionismo e
alla volontà di autocelebrazione che lo contraddistinguono come parvenu
desideroso di ostentare la propria smisurata
ricchezza.
CONSIDERAZIONI. Il Satyricon deve molto alla narrativa per
trama e struttura del racconto, e qualcosa alla tradizione menippea, per la
tessitura formale, ma trascende, in complessità e ricchezza di effetti,
entrambe le tradizioni. Il tratto più originale della poetica di P. è forse
la forte carica realistica, evidente soprattutto nel capitolo 15, dove
diventa anche un fenomeno linguistico. L'autore ha un vivo interesse per le
mentalità delle varie classi sociali, oltre che per il loro linguaggio
quotidiano. Mentre il realismo della satira latina si soffermava in genere su
tipi sociali ben precisi e questi erano tutti costruiti attraverso un filtro
morale, che coincideva con poi con l'ideale del poeta, P. non offre ai suoi
lettori nessun strumento di giudizio. Non potrebbe essere altrimenti, in una
narrazione condotta in prima persona, da un personaggio che è dentro fino al
collo in quel mondo sregolato. L'originalità del realismo di P. sta quindi
non tanto nell'offrirci frammenti di vita quotidiana, ma nell'offrirci una
visione del reale che è critica quanto disincantata. Infine, è da dire che
il livello culturale dei lettori a cui il Satyricon si rivolgeva era
sicuramente alto, come notava già Auerbach quando scriveva: "P. attende
lettori di tale levatura sociale e cultura letteraria da poter subito
intendere tutte le sfumature del mal comportamento sociale e
dell' abbassamento della lingua e del gusto ... un'élite sociale e letteraria
che riguarda le cose dall'alto ... anche P. dunque scrive dall'alto, e per
il ceto delle persone dotte".
Carmina Priapea.
E' una
raccolta giuntaci anonima (I sec. d.C.?), circa 80 componimenti di lunghezza
e metro variabili, legati tra loro dalla figura del dio Priapo. Si tratta
dunque di un tipo particolare di epigramma, di tono scherzoso e tematica per
lo più esplicitamente sessuale. E così, data la relativa monotonia del tema,
la bravura dell'autore (infatti, probabilmente è singolo) sta nel produrre
effetti di varietà, sia di situazioni che di forma metrica (carmi di dedica,
ritratti satirici, maledizioni, enigmi.).
Aulo Persio
Flacco (Volterra, 34 - Roma, 62 d.C.)
VITA. Rimasto orfano di
padre, a 12-13 anni venne a Roma ad educarsi presoo le migliori scuole di
grammatica e retorica: a segnarlo fu l'incontro col filosofo stoico Anneo
Cornuto, che lo mise in contatto con gli ambienti dell 'opposizione senatoria
(P. legò soprattutto con Tràsea Peto). La conversione alla filosofia lo portò
a condurre una vita austera e appartata, nel culto degli studi e degli
affetti familiari. Fu Cornuto ad incoraggiarlo alla poesia e a ritoccare le
"Satire" per l' edizione, postuma, curata da Cesio Basso.
OPERA. P.
scrisse "Satire", in numero di 6, in esametri dattilici, precedute da
un proemio di 14 versi "coliambi", che polemizza aspramente contro le
mode letterarie del tempo. La I satira illustra i vizi deplorevoli della
poesia contemporanea e la degenerazione morale che le si accompagna, cui il
poeta oppone lo sdegno e la protesta dei propri versi, rivolti ad uomini
liberi; la II attacca la religiosità formale ed ipocrita; la III biasima un
giovane lavativo e lo esorta ad accostarsi alla morale stoica; la IV illustra
la necessità di praticare la norma del "nosce te ipsum" per chi ambisca alla
carriera politica; la V, rivolta a Cornuto, svolge il tema della libertà
secondo il saggio stoico, ch'è consapevolezza razionale; la VI, infine,
rivolta a C. Basso, deplora l'avarizia, cui contrappone al "moderazione"
propria degli stoici.
CONSIDERAZIONI. P., imbevuto dell'ambiente
stoico e lontano dalle esperienze della vita, parla col tono del moralista
intransigente, ma astratto; così, gli uomini diventano pretesto per una
denuncia e per un esame "scientifico" (esemplato sui manuali morali del
tempo) e "fenomenologico" del vizio (per cui si fa volentieri ricorso ad un
lessico, come dire, "corporale"), col risultato di mettere a fuoco, anziché
l'uomo, il suo comportamento tipizzato: la sua poesia è dunque anzitutto
ispirata da una forte esigenza etica; ma un'etica distruttiva, o solo
marginalmente costruttiva (sono poche, cioè, le indicazioni del "recte
vivere"). Ma non è solo esuberante esercizio di moralismo filosofico:
bisogna riconoscervi la presenza di modelli e autori esemplari, nel loro
intreccio: innanzitutto Orazio; poi Lucrezio, ma più che altro come
"antimodello", nel senso che in P. il rapporto
"maestro-poeta/discepolo-destinatario" si risolve in una reciproca
"incomprensione", che li allontana; e se il nostro autore si riallaccia alla
tradizione della satira e della diatriba (esasperandola in un "barocchismo"
macabro), di contro tale comunicazione viene a ritagliarsi un nuovo spazio:
il monologo della confessione. L'esigenza realistica è all'origine della
scelta di un linguaggio ordinario e paritempo scabro, che si avvale della
tecnica della "iunctura acris" (il nesso urtante per la sua asprezza sia dal
punto di vista fonico che soprattutto semantico) e quindi si "deformi",
condizione necessaria ad esprimere verità profonde e accecanti: l'oscurità è
dunque, più che altro, una scelta estetica.
Decimo Giunio
Giovenale (Equino, 50/65 - 140 ca d.C.)
VITA. Della sua biografia
ignoriamo quasi tutto. Ciò che è possibile ricostruirne non può che reggere
su ipotesi. Adottato da un ricco liberto, fu probabilmente soldato e poi
maestro di scuola, prima di redigere, a Roma, le 16 "Satire" che compongono
la sua opera. Forse esercitò l'avvocatura, probabilmente con scarso successo.
Visse nella disagiata condizione di "cliente", come il suo amico Marziale,
conobbe rovesci di carriera, e fu mandato in esilio, in una remota
guarnigione dell'Egitto. E in esilio sarebbe morto. Queste sono tutte cose
che si possono dedurre dalla sua opera, a meno che non si tratti, nei brani
dove si pensa di cogliere un'allusione, di semplici finzioni
letterarie.
OPERA. Torna al sommario G. scrisse "Satire" (100-127
d.C.?), in numero di 16 (l'ultima è incompleta), pubblicate - forse da lui
stesso - in 5 libri, che uscirono dopo la morte di Domiziano, quando il clima
politico lo permise. Nella I satira, proemio programmatico, il poeta afferma
che il disgusto per la corruzione morale dilagante lo spinge a scrivere, e
che però, per evitare le più che certe reazioni violente degli uomini del suo
tempo, parlerà dell' immoralità dei tempi passati; la II bersaglia
l'ipocrisia in generale, l' omosessualità in particolare (come la IX); la III
parla di Umbricio, amico di G., costretto ad allontanarsi da Roma perché non
resiste al caos e allo spettacolo dei vizi che la inquinano; la IV,
sferzante, è contro la cortigianeria e lo stupido uso del potere in cui narra
la storia di un grosso rombo che si fa pescare per essere offerto a Domiziano
che convoca un consiglio di militari per decidere in che modo cuocerlo; la V
descrive l' umile condizione dei "clienti" e l'arroganza dei padroni durante
i banchetti (cui contrappone il proprio, frugale, nell' XI); la VI, la più
lunga e certamente la più famosa, costituisce un attacco veemente contro i
vizi delle donne, tutte corrotte, nobili o di umili origini che siano (è
la satira che ha fatto passare alla storia la moglie dell'Imperatore
Claudio, la celeberrima Messalina, come esempio di donna dissoluta e
depravata); la VII depreca la triste condizione dei letterati, in tempo di
assente mecenatismo; l' VIII afferma che l'unica vera nobiltà è quella
dell'anima, che agisce secondo virtù e che è lontana dagli eccessi (com'è
ribadito nella X); la XII si scaglia contro chi cerca la ricchezza ad ogni
costo, in questo caso attraverso la "caccia" ai testamenti; la XIII consola
l'amico di G., Calvino che, fiducioso, ha prestato denaro che poi non gli è
stato restituito; la XIV tratta della responsabilità dei genitori
nell'educazione dei figli, da attuarsi non con l'imposizione, ma soprattutto
tramite l' esempio; la XV attacca le superstizioni religiose; la XVI elenca i
privilegi della vita militare.
CONSIDERAZIONI. G. non crede che la
sua poesia possa influire sul comportamento degli uomini, giudicati prede
irrimediabili della corruzione: la sua satira si limiterà a denunciare, a
gridare la sua protesta astiosa ("indignatio", placata - apparentemente? -
solo verso la fine, nelle satire XV e XVI), senza coltivare illusioni di
riscatto, rifiutando in toto la connotazione consolatoria del pensiero
moralistico tradizionale romano. L'invettiva e il sarcasmo di G., allora,
sono rivolti contro tutto il "sistema" (soprattutto nei suoi gangli
rappresentativi), quel sistema che lo ha emarginato (il "democraticismo" del
poeta è così solo apparente) e che gli fa rimpiangere, ed idealizzare, la
tradizione nazionale e repubblicana, coi suoi valori morali e politici,
oramai mortificati. Nella civiltà che gli sta intorno, G. ha in orrore tutto
ciò che non è "romano", nella buona tradizione del termine. Detesta gli
orientali, l'ellenismo, i liberti arricchiti, tutto ciò che, a suo giudizio,
sottrae ai romani le proprie conquiste. Ma non detesta meno i senatori che
non hanno il coraggio di opporsi al tiranno, o le donne che si fanno beffe
della fedeltà coniugale e rendono la vita del proprio marito un lungo
martirio. In ogni modo, combatte con pari vigore tanto i vizi e le semplici
forme di ridicolaggine, la donna che pratica aborti come la pedante. Per
cui ci si può chiedere fino a che punto queste satire non siano anzitutto
delle "amplificazioni", espressioni volontarie di estremismo, che non
meritano di essere confuse con delle testimonianze obiettive. Le Satire
recano l'impronta della retorica. Declamatore, G. lo è per i temi che
affronta ("luoghi comuni" sui costumi del tempo, la povertà, la ricchezza,
ecc), e più ancora per il tono che lo distingue, fatto di una virulenza
appassionata e di un'eloquenza che hanno contribuito a modificare fortemente
l'evoluzione del genere satirico. E alla violenza dell' "indignatio" (e alla
mostruosità del mondo che ne è oggetto) s'addice - per contrasto - un'altezza
di tono e una grandiosità di stile che accostano la satira -
rivoluzionariamente - alla tragedia, analogamente "sublime". Infine, del
nostro poeta sono i celeberrimi detti che vanno dall'ottimistica "mens sana
in corporae sano" agli amari "set quis custodiet ipsos custodes ?" e "panem
et circences" di cui si accontenterebbero tanti uomini non desiderosi
d'altro, secondo lui, appunto che di mangiare e divertirsi.
Publio
Papinio Stazio (Napoli 45 ca - 96 d.C.)
VITA. Figlio di un maestro
di scuola napoletano, S. incarna la figura del poeta "professionista". Si
trasferì a Roma per tentare la fortuna durante l'impero di Domiziano. In
breve, si guadagnò - nelle recitazioni pubbliche e nelle gare poetiche - il
favore del pubblico e dei grandi signori, che divennero suoi
protettori. D'ingegno duttile e versatile, in questo primo periodo compose
libretti per mimi e, oltre al suo primo poema epico, la "Tebaide", alcune
"Silvae", componimenti lirici di circostanza in uno stile facile ed elegante.
Ma, dopo alcuni rovesci, nonostante le preghiere insistenti della moglie
Claudia, una musicista, decise di abbandonare la città per far ritorno in
Campania. Vi condusse lo stesso genere di esistenza di poeta mondano al
servizio dei nobili romani, che vi approdavano in massa per i loro soggiorni
sotto il cielo di Napoli. In questo periodo della sua attività, scrisse
alcune "Silvae" e una seconda epopea, l' "Achilleide", che non gli fu
possibile compiere.
OPERE. *"Tebaide" (pubblicata nel 92). E' in 12
libri e narra la lotta fra i due fratelli Eteocle e Polinice per la
successione in Tebe al trono di Edipo (ma anche se il tema è mitologico,
dotato di un complesso apparato divino, la sostanza del contenuto riporta
irresistibilmente verso la "Farsaglia" di Lucano). In un insolito epilogo
programmatico, S. dichiara di avere un modello altissimo, coi dovuti
rispetti: l "Eneide", di cui le due esadi ne riproducono fedelmente la metà
iliadica di preparazione e quella odisseica. I modelli poetici sono legione:
S. dimostra una buona conoscenza della tragedia greca (Antimaco di Colofone e
Eschilo) e forse anche di alcuni poemi ciclici o di loro riassunti. Talora
(oltre che l'Omero mediato da Virgilio) appaiono anche modelli più insoliti:
Euripide, Apollonio Rodio, persino Callimaco; infine, lo stile narrativo e la
metrica risentono della lezione tecnica di Ovidio, mentre la sua immagine del
mondo dell'influsso di Seneca. Insomma, proprio qui - ovvero nel contrasto
tra fedeltà alla tradizione virgiliana e inquietudini modernizzanti - sta il
vero centro dell' ispirazione epica di S. . Posta sotto tale costellazione
di influssi, l'opera non manca affatto di unità: anzi, il difetto tipico è
piuttosto l'ossessiva ricorsività di motivi e atmosfere: tutta la storia è
dominata da una ferrea "necessità universale" (la cui funzione è enfatizzata
in un apparato divino come detto tipicamente virgiliano), che appiattisce le
cose, gli uomini e le stesse divinità (è qui che S. si avvicina invece più a
Lucano). *"Achilleide" (interrotta all'inizio del II libro dalla morte del
poeta). Poema epico sull'educazione e le vicende della vita di Achille, fino
alla sua partenza per Troia. Il tono è più disteso ed idillico che nella
barocca "Tebaide". *"Silvae" ("schizzi"?). Una raccolta di 32 poesie in 5
libri di metro vario (dall'esametro ai versi lirici) e temi occasionali
(epitalami, descrizioni di ville e di terme, di statue e di altri oggetti
artistici, epicedi, epistole poetiche, invocazioni.). Esse ci hanno
conservato preziose immagini dell'alta società romana (della sua "mentalità")
e dell'ambiente di corte; e il poeta si propone quasi quale supervisore
sistematico dei pubblici sentimenti o si atteggia a cantore orfico integrato
nella comunità (da qui la patina cortigiana e conformistica di tutto
l'insieme).
CONSIDERAZIONI. S. è un poeta erudito, un cantore della
poesia sentimentale e preziosa, addirittura "estetizzante" (a suo proposito,
si è parlato di "retorica della dolcezza"). I suoi componimenti epici sono
pieni di riferimenti letterari, le leggende da lui trattate sono in molti
casi oscure. In questo, egli si mostra discepolo lontano degli alessandrini,
e spirito alessandrino è quello che appunto si ritrova nell'abbondanza degli
episodi minuti, delle "miniature" sentimentali o pittoresche (si pensi alla
condanna pronunciata da Orazio contro i poeti di tale scuola, "incapaci di
comporre l'insieme di un'opera"). Nonostante la sua volontà di imitare
Virgilio, S., ne fosse cosciente o meno, discende dalla tradizione ovidiana,
quella che un giorno verrà rappresentata dalle "Dionisiache" di
Nonno.
Caio Valerio Flacco Balbo Setino (m. 93
d.C.?)
VITA. Nulla si sa di lui, tranne che fu "quidecemvir". La sua
attività si compie sotto l'impero di Domiziano. non visse abbastanza a lungo
per portare a termine il suo poema delle "Argonautiche".
OPERA E
CONSIDERAZIONI. In tacita polemica con Lucano, che aveva trattato un tema
d'attualità, F. tornò al mito e scrisse un poema epico mitologico in
esametri, dedicato a Vespasiano: "Argonautica", iniziato verso l'80,
interrotto bruscamente al libro VIII. La materia, derivata liberamente
dall'omonimo poema di Apollonio Rodio, racconta la conquista del vello d'oro
(e nell'enfasi sul dominio del mare c' è forse un riferimento all'deologia
vespasianea) e la passione di Medea per Giasone: nei punti in cui F. segue da
vicino il testo greco, la sua rielaborazione appare guidata dalla ricerca
dell'effetto, per ottenere il coinvolgimento emotivo del
destinatario. Dopo Apollonio Rodio, il tema rientrava nel repertorio
dell'epopea ellenistica. Nell'Eneide, Virgilio non aveva trascurato
d'ispirarsi a questo modello, cosicché F. ritrova, indirettamente,
un'ispirazione ellenica tramite la creazione virgiliana, che spinge il nostro
ad una poetica, come dire, "reazionaria", nell'apparato mitologico e divino e
nell'impostazione edificante. L'elemento romano è rappresentato dal
tentativo del poeta di comparare l'impresa degli argonauti a quella di
Vespasiano che esplora i mari intorno alla Bretagna. Più sensibilmente
stoica di quanto non fosse già in Virgilio, è la presenza di Giove come
provvidenza, aspetto per il quale F. subiva l'influenza del pensiero
contemporaneo. E' evidente, inoltre, che il poeta ha conosciuto e apprezzato
le tragedie romane, in modo particolare, forse, quelle di Seneca. Come
quest'ultimo, si mostra sensibile alla poesia "cosmica". Le evocazioni del
cielo stellato, dei venti, del mare sono introdotte non tanto come
forme spettacolari, quanto come presenze di forze naturali. Discepolo dei
poeti tragici, F. lo è anche nelle sue motivazioni psicologiche (il che fa
pensare a Lucano), e nel dar valore all'eroe (Giasone, eccetera) quale eroe
universale, mentre nell' "Eneide" esso era collegato maggiormente al suo
contesto religioso e sociale. Questa poesia "riflessa" ed elaborata - talora
"manieristica" - rischia a volte di disperdersi sotto tali molteplici spinte,
non sempre armonizzate: ma se F. fallisce spesso nella creazione di strutture
narrative articolate, di converso appare elegante e raffinato nel
particolare, nel dettaglio descrittivo, nella notazione psicologica (la
narrazione, nell'opera, esaspera la propensione virgiliana allo stile
soggettivo e alla "psicologizzazione" del racconto). Da tutto ciò, risulta
un testo narrativo assai difficile, spesso oscuro, che si caratterizza come
estremamente dotto anche per quanto riguarda la
sua destinazione.
Tiberio Cazio Asconio Silio Italico (Padova?,
25 ca - Campania 101 d.C.)
VITA. Senatore, cortigiano di Nerone,
consolo nel 68, noto durante i periodi più cupi della tirannide come
delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d'Asia; coltivò la poesia nella
vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male incurabile, si
lasciò morire di fame.
OPERA E CONSIDERAZIONI. *La sua opera maggiore
è un poema epico sulle guerre puniche ("Punica") in 17 libri, ricostruzione
della guerra di Roma contro Annibale, dalla spedizione di questi in Spagna al
trionfo di Scipione dopo Zama. *Il tema, già trattato da Ennio, preannunciato
in qualche modo dal "Bellum Punicum" di Nevio, era questa volta ripresentato
in stile virgiliano. Ma la presenza sensibile dell'epopea "annalistica"
permane: S. non ha saputo liberarsi dai quadri storici, e ciò produce una
specie di miscela di due estetiche, che mette allo scoperto per intero
l'apparato del "meraviglioso" di tipo "omerico", come un complesso di
artifici ormai sorpassati. Seppure la disposizione è "annalistica", non si
può ridurre l'opera ad una semplice versificazione del materiale storico
raccolto ed esposto da Livio nella III decade. Tra le fonti di S. furono
Marrone, Posidonio e Igino; fra le poetiche Ennio (essenzialmente per la già
detta disposizione "annalistica"), Virgilio (essenzialmente per il ricorso a
tutto un apparato mitologico-divino, spesso tuttavia inverosimile) e Lucano
(per le consonanze di taluni "colores" stilistici). *L'opera - che nel suo
complesso si innesta, senza aggiungere molto di nuovo, nel ricco filone della
letteratura patriottica romana - è stata severamente giudicata dalla critica
moderna per la sua macchinosità, l' eccesso di discorsi retorici, la scarsa
poeticità (ma già Plinio il Giovane la disse scritta "più con scrupolo che
non ingegno").
Gaio Plinio Secondo, detto "il Vecchio" (Como,
23-24 d.C - Stabile, odierna Castellammare, 79 d.C.).
VITA. P.
apparteneva all'ordine equestre romano e comandò a lungo uno squadrone
di cavalleria sul Reno. Ricoprì importanti incarichi amministrativi durante
i regni di vari imperatori (Vespasiano e Tito). Prefetto della flotta di
Capo Miseno durante il regno di Tito, egli esercitava ancora questo
comando quando trovò la morte, inghiottito dall'eruzione del Vesuvio che
seppellì le città campane nel 79 d.C. . Una buona parte delle nostre
informazioni su di lui ci vengono dalla corrispondenza di suo nipote e figlio
adottivo, Plinio "il Giovane".
OPERE E CONSIDERAZIONI. *Per noi, P. è
soprattutto un enciclopedista le cui straordinarie conoscenze si trovano
compendiate nei 37 libri della sua "Storia naturale", vasta indagine (finita
nel 77-78) su tutto ciò che esiste in natura, e su argomenti che spaziano
dall'arte alla medicina. L'opera, aperta da un'epistola dedicatoria e
illustrativa rivolta al futuro imperatore Tito, inizia con una prefazione e
una bibliografia, e continua con la trattazione dell'astronomia e della
geografia (libri II-VI), dell' uomo e degli animali (VII-IX), della botanica
(XII-XIX), della medicina (XX-XXXII), della metallurgia e mineralogia, con
ampi excursus sulla storia dell'arte (XXXIII-XXXVII). P. si colloca sulla
linea di Varrone, ma senza l'ampiezza analitica di quest'ultimo. E' piuttosto
un collezionista che un pensatore. Le sue idee filosofiche e religiose,
impregnate di stoicismo, non superano i luoghi comuni abituali del suo tempo,
e anzi la mentalità enciclopedica è per lui un accomodante
eclettismo. Mescolando esperienze personali e testimonianze di fonti antiche
in uno stile manierato e talvolta tortuoso (ma giustificato dalla mole e
dall' intento divulgativo dell'opera), P. ci dà - oltre a innumerevoli,
precise e preziose notizie sulle conoscenze scientifiche e letterarie del
tempo - un esempio unico del profondo umanesimo e della vastità d'interessi
della cultura latina del I sec., nonché una lampante testimonianza
della diffusione e dell'ascesa dei ceti "tecnici" e "professionali", con
la relativa domando di cognizioni appunto tecniche. *Tuttavia, P. non deve
la sua fama unicamente a quest'opera di compilazione. Fu autore anche, come
Plinio il Giovane ci testimonia nel suo elenco, di saggi storici molto
stimati, di cui però purtroppo nulla possediamo: 20 libri su "Le guerre di
Germania" (ispirati alle sue campagne), e 31 "Dalla fine di Aufidio Basso",
che riprendevano il filo degli eventi dal punto in cui si era fermata (gli
ultimi anni dell'impero di Tiberio) l'opera dello storico A. Basso, egli
stesso continuatore di Tito Livio. Questi libri di P. furono una delle fonti
di Tacito. Dovrebbe infine aver scritto anche un "Dubius sermo", ovvero un
manuale su problemi linguistici.
Sesto Giulio Frontino (30 ca -
103/4)
Governatore della Britannia (74-78) e curatore delle acque di Roma
(97), si occupò, per scopi pratici e in uno stile di efficace semplicità (ma
con limitate ambizioni letterarie: si tratta di opere del tipo
"Commentarii"), di agrimensura (dell'opera, in 2 libri, abbiamo estratti), di
idraulica (i 2 libri del "De aquis urbis Romae", buona e concreta
trattazione), tecnica militare e strategia (i 4 libri degli "Strategemata"),
esempi appunto di stratagemmi, tratti dalla storia greco-romana, per
battaglie ed assedi; ma l 'informazione è generica e frutto di compilazione
non sempre puntuale).
Marco Valerio Marziale (Bilbilis, Spagna
Terragonese 40 d.C. ca - 104 ca)
VITA. Dopo essere stato educato in
patria, giunse a Roma nel 64. Fino a quando non uscirono di scena in seguito
alla congiura dei Pisoni, godette dell'appoggio e dell'amicizia di due
importanti suoi compatrioti: il filosofo Seneca e di suo nipote, il poeta
epico Lucano. Si dedicò all'attività forense, sperando di trarre rapidi e
consistenti vantaggi economici da essa. Le cose, però, andarono in ben altro
modo, e M. si ritrovò a percorrere la difficile strada del cliens, il
cliente. I suoi patroni furono certo poco munifici: M., a corto di soldi,
visse a lungo in una brutta e alta dimora, alla quale, come ci informa lo
stesso poeta, si accedeva dopo tre dure rampe di scale. L'attività poetica
gli consentì, comunque, sotto Tito (80 d.C.) di ottenere da parte
dell'imperatore il titolo onorario di tribuno militare, il rango equestre e
benefici economici di varia natura, in cambio di una raccolta di epigrammi
(il "Liber de spectaculis") volta a celebrare l'inaugurazione in quell'anno
dell'Anfiteatro Flavio, il cosiddetto Colosseo. Ma il vero successo
letterario venne a M. solo dopo l'84-85 con la pubblicazione ininterrotta dei
suoi epigrammi: essa durò fino al 98, quando, sotto l'imperatore Neva, lasciò
Roma per ritornare in patria (le spese del viaggio furono pagate da un
importante uomo di cultura del tempo, Plinio il Giovane). In Spagna, nella
sua Bilbilis, si godette un podere donatogli da una ricca vedova e devota
ammiratrice, Marcella. M. si attendeva di trovare al suo ritorno il mondo e
gli amici della giovinezza, ma, senza più questi, e dopo anni trascorsi nella
turbolenta, ma vivace vita della Capitale, Bilbilis e il suo meschino
ambiente di provincia finirono ben presto per stancarlo. Pubblicò nel 101 il
suo ultimo libro di epigrammi, ma continuò a rimpiangere Roma, fino alla
morte.
OPERE. Ci resta una raccolta di "Epigrammi" distribuiti in 12
libri composti e via via pubblicati fra l'86 e il 102. Tale corpo centrale è
preceduto da un altro libro a sé di una trentina di epigrammi, il "Liber
Spectaculorum", e seguito da altri 2 libri (84 - 85 d.C.) anch'essi autonomi,
lo "Xenia" (distici destinati ad accompagnare i "doni per amici e parenti"
nelle feste dei Saturnali) e gli "Apophoreta" (coppie di distici di
accompagnamento agli omaggi offerti nei banchetti e "portati via" dai
convitati). La disposizione attuale dell'intera raccolta riproduce
probabilmente quella di un'edizione antica postuma. Nell'ordinare gli
epigrammi, M. li ha distribuiti in modo equilibrato, secondo il topos della
"varietas", secondo il metro e l'estensione, attento soprattutto ad evitare
ripetitività e piattezza. Così, i metri sono vari: accanto al distico
elegiaco sono frequenti anche falecio e scazonte, ma non mancano altri metri
diversi. Varie sono anche le dimensioni dei componimenti: dall'epigramma di
un solo distico o di un solo verso a quelli di dieci e più versi, fino ad
alcune decine. In totale gli epigrammi sono più di 1500, con un complesso di
10000 versi.
CONSIDERAZIONI. Un aspetto importante della cultura
letteraria dell'età flavia, nel clima di restaurazione morale, è la tendenza
al recupero del genero poetico più alto, ossia l'epica, ma anche alla
diffusione e al successo di un genere come l'epigramma, che è considerato il
più umile di tutti. In realtà non vi era una tradizione che riguardasse gli
epigrammi: solo Catullo svolge una funzione importante di mediazione fra
cultura greca e latina nella storia di questo genere letterario. L'origine
dell'epigramma risale all'età greca arcaica, dove la sua funzione era
essenzialmente commemorativa: era inciso ad esempio su pietre tombali o su
offerte votive. In età ellenistica però l'epigramma, pur conservando la sua
caratteristica brevità, mostra di essersi emancipato dalla forma epigrafica e
dalla destinazione pratica: è un tipo di componimento adatto alla
poesia d'occasione, a fissare nel giro di pochi versi l'impressione di un
momento. I temi sono di tipo leggero: erotico, satirico, parodistico, accanto
a quelli più tradizionali, ad esempio di carattere funebre. Nell'ambito
della poesia latina, l'epigramma non aveva una grande tradizione, e di essa
ben poco ci è rimasto: con l'eccezione di Catullo, quasi nulla sappiamo dei
poeti che M. indica come suoi auctores. A Roma è Catullo che valorizza la
forma breve come la più idonea a esprimere sentimenti, gusti, passioni, cioè
temi della vita individuale, nonché a farsi strumento di vivace aggressione
polemica. M. farà dell'epigramma il suo genere esclusivo, l'unica forma della
sua poesia, apprezzandone soprattutto la duttilità, la facilità ad aderire
ai molteplici aspetti del reale. Questi sono i pregi che egli contrappone
ai generi illustri, all'epos e alla tragedia, coi loro toni seriosi e i
loro contenuti abusati, quelle trite vicende mitologiche tanti lontane
dalla realtà della vita quotidiana. E' proprio il realismo, l'aderenza alla
vita concreta, che marziale rivendica come tratto caratteristico della
sua poesia. Un tipo di poesia, quindi, che coniuga fruibilità pratica
e divertimento letterario, tratteggiando un quadro variegato e incisivo
della realtà quotidiana con le sue contraddizioni e i suoi paradossi. Nelle
scene si riscontrano sempre le stesse tipologie di personaggi: i parassiti,
i ladri, gli spilorci, gli imbroglioni, i medici pericolosi e così via.
Tali deformazioni grottesche sono frutto di una tecnica di rappresentazione
molto ravvicinata, un effetto ottico che focalizza singoli personaggi negando
loro uno sfondo, un contorno, come se, per meglio mostrarli, fossero
strappati al contesto, come fossero sospesi nel vuoto. L'atteggiamento del
poeta è però quello di un osservatore attento ma per lo più distaccato. *I
temi degli epigrammi di M. sono vari: accanto a quelli più radicati
nella tradizione, altri riguardano più da vicino le vicende personali del
poeta o il costume della società del tempo. M. sviluppa fortemente l'aspetto
comico satirico, proseguendo un processo avviato dal poeta greco di età
neroniana Lucilio, che aveva conferito largo spazio a personaggi
caratterizzati da vistosi difetti fisici, a tipi e caratteri sociali
rappresentati comicamente, e si inserisce nella tradizione satirica romana,
attenta all'analisi del costume sociale e pronta a tratteggiarne i caratteri
più rappresentativi. Ma M. copia da Lucilio anche alcuni procedimenti
formali, come ad esempio la tecnica della trovata finale, della battuta che
chiude in maniera brillante il breve giro di pensiero. Le forme composite
sono svariate, ma generalmente si riconducono ad uno schema fisso, basato su
una prima parte, che descrive la situazione, l'oggetto e il personaggio,
suscitando nel lettore una tensione di attesa, e la parte finale che scarica
quella tensione in un paradosso, in un fulmine. *La struttura dell'epigramma.
Il discorso che segue investe in modo particolare gli epigrammi di M.
destinati alla satira sociale. In essi confluiscono, dando vita ad un tipo di
composizione originalissima ed insuperata, apporti della precedente
tradizione epigrammatica: di quella ellenistica per quanto riguarda l'arguzia
e la fine ironia che li pervade, di quella latina repubblicana (Catullo) per
la loro aggressiva vivacità, di quella latina imperiale (Lucillio,
epigrammatista dell'età di Nerone) per la rappresentazione comica di difetti
fisici, di tipi e caratteri sociali. In questo tipo di epigramma è possibile,
schematizzando, enucleare le seguenti caratteristiche: a) il poeta spesso
si rivolge alla vittima dell'epigramma (di regola persona fittizia o comunque
non individuabile) o a una terza persona (che può essere reale o fittizia)
cui addita la figura o il comportamento del personaggio colpito; b)
l'epigramma è solitamente breve (molto raramente di un solo
verso, solitamente da 2 a 10 versi, ma vi sono anche numerosi epigrammi di
più di 20 versi, fino ad un massimo di 51 versi); c) compaiono quasi
sempre apostrofi, interrogazioni, movimenti di dialogo che devono dare
l'impressione di un intervento diretto del poeta in una certa situazione,
davanti a un interlocutore; d) la sinteticità caratterizza la delineazione
della situazione o del tipo. Altre volte ci sono quadri più ampi, di notevole
impegno e complessità, in cui M. dà prova di grandi capacità di
rappresentazione realistica; e) M. ottiene effetti particolarmente felici nel
finale dell'epigramma, che a volte riassume i termini di una situazione in
una formulazione estremamente incisiva e pregnante, altre volte li porta a
una comica iperbole, altre volte li costringe a un esito assurdo o a un
paradosso, altre volte li pone all'improvviso sotto una luce diversa e
rivelatrice (è l' "effetto di sorpresa", per cui M. è particolarmente
celebre). Insomma, il pubblico (ed è questo il segreto del successo) vi
ritrovava, da parte sua, la propria esperienza filtrata e nobilitata da una
forma artistica dotata appunto di agilità e pregnanza espressiva, aperta
alla vivacità dei modo colloquiali e alla ricchezza del lessico quotidiano
(a volte degenerante in un vero e proprio "realismo osceno"), ma capace anche
- all'occorrenza - di limpida sobrietà, se non addirittura di
ricercatezza. Tali caratteristiche compaiono in epigrammi dalla diversa
strutturazione. Il Lessing individuò come schema-tipo dell'epigramma di M. e,
più in generale, del genere epigrammatico, lo schema bipartito
"attesa"/"spiegazione conclusiva". Nella prima parte il poeta, attraverso la
rappresentazione di una situazione o la descrizione di un personaggio crea
nel lettore un'aspettativa, la quale viene soddisfatta dalla battuta
conclusiva, tanto più efficace quanto più lontana dalla previsione del
lettore (effetto di sorpresa). Si può senz'altro, a distanza di tantissimi
anni, utilizzare ancora con profitto la distinzione lessinghiana, a patto,
però, di non farne un idolo critico-letterario. Infatti non si può negare la
presenza per l'epigramma di M. di altre possibilità strutturali. V'è, per
esempio, uno schema bipartito impostato sulla sequenza: "attesa: quesito"/
"spiegazione conclusiva: risposta". In esso la tensione di attesa è suscitata
non già da una descrizione, bensì da un quesito, rispetto al quale la
spiegazione finale costituisce risposta. Spesso, però, la bipartizione lascia
il posto allo schema tripartito nel quale la "spiegazione finale" costituisce
la risposta ad un precedente quesito, scaturito a sua volta dalla descrizione
contenuta nell'attesa: " attesa " / " quesito " / " spiegazione conclusiva:
risposta ". Qualche volta la tripartizione fa seguire all'attesa
descrittiva l'accettazione da parte del poeta dei concetti e delle situazioni
in essa delineati, salvo poi revocare in dubbio tale accettazione, con
la precisazione di nuovi, sorprendenti particolari:" attesa " /
"accettazione" / "revoca in dubbio".
Marco Fabio
Quintiliano (Calahorra, Spagna 35 ca - Roma 95 ca
d.C.)
VITA. Giunto a Roma nel 68 d.C., ivi fu educato alla scuola di
illustri maestri di eloquenza. Esercitò in Spagna l'insegnamento e
l'avvocatura con notevole successo, finchè fu richiamato a Roma da Galba, nel
68 d.C., dove incominciò la sua attività di maestro di retorica (con tanto
successo che nel 78 Vespasiano gli affidò la prima cattedra statale).
Vespasiano gli accordò un onorario annuo di 100.000 sesterzi, dando così
riconoscimento all'importanza dell'arte retorica nella formazione della
gioventù. Fra i suoi numerosi allievi ebbe Plinio il Giovane e, forse,
tacito; Domiziano lo incaricò dell'educazione dei suoi nipoti, cosa che gli
valse gli "ornamenta consolatoria". Nell'88 si ritirò da tutto per
darsi completamente agli studi.
OPERE. Di Q. è andato perduto un
trattato "De causis corruptae eloquentiae", così come le "Artes rethoricae",
sorta di dispense. Spurie le due raccolte di "declamazioni" ("maiores" e
"minores"). Ma il suo capolavoro è l' "Institutio oratoria" (93-96 d.C.), che
compendia l'esperienza di un insegnamento che durò vent'anni (dal 70 al 90
ca). E' un manuale sistematico, 1n 12 libri e pervenutoci integro, che si
delinea come un programma complessivo di formazione culturale e morale che il
futuro oratore deve seguire scrupolosamente dall'infanzia fino al momento in
cui avrà acquistato qualità e mezzi per affrontare un uditorio (e ciò,
in risposta alla corruzione contemporanea dell'eloquenza, che Q. vede in
temi moralistici, e per la quale addita come rimedi il risanamento dei
costumi e soprattutto la rifondazione delle scuole). Il I libro fa parte a
sé, e tratta di problemi vari di pedagogia. Il II chiarisce la didattica del
rètore, consiglia la lettura di autori "optimi", né troppo antichi né troppo
moderni, esorta gli scolari ad impostare le loro declamazioni attinenti alla
vita reale (e che puntassero comunque alla "sostanza delle cose"), con un
linguaggio semplice ed appropriato. I libri dal III al VII trattano dell'
"inventio" e della "dispositio", cioè lo studio degli argomenti da inserire
nelle cause e l'arte di distribuirli; i libri dall'VIII al X, dell'
"elocutio", ovvero della scelta dello stile e dell'orazione. Il X libro
insegna i modi di acquisire la "facilitas", cioè la disinvoltura
nell'espressione (prendendo in esame gli autori da leggere e da imitare, Q.
inserisce qui un famoso excursus storico-letterario sugli scrittori greci e
latini - di uguali meriti - preziosa testimonianza sui canoni critici
dell'antichità: ma i giudizi hanno un carattere esclusivamente retorico).
L'XI libro parla della "memoria" e dell' "actio", cioè dell'arte di tenere a
mente i discorsi e di porgerli. Il XII presenta, infine, la figura
dell'oratore ideale.
CONSIDERAZIONI. Pur nella nuova situazione
politica, in un impero unitario e pacificato, Q. ripropone il modello di
oratore di età repubblicana, di stampo catoniano-ciceroniano; è nel recupero
dell'oratoria per un nuovo spazio di missione civile il vero scopo di Q., in
cui si risolve la problematica dei rapporti fra oratore e principe tracciata
nel XII libro e tacciata - così ingiustamente - di servilismo. Nel suo
tentativo particolare di "recupero formale" della retorica, poi, Q. si oppone
da un lato agli eccessi del "Nuovo Stile", cioè della nuova prosa di tipo
senecano e allo stile acceso delle declamazioni (che mirano a "movere" più
che a "docere"), dall'altro al troppo scarno gusto arcaistico: e propone
anche qui il modello di Cicerone (modello di sanità di espressione ch'è
insieme sintomo di saldezza di costumi), reinterpretato ai fini di un' ideale
equidistanza fra asciuttezza e ampollosità. L'autore, però, sia in teoria,
sia soprattutto nella pratica della sua prosa, concessioni al nuovo gusto per
l'irregolarità e per il colore vivace.
Gaio Plinio Cecilio Secondo, detto
il Giovane (Como 61/62 - 112/3 d.C.)
VITA. Orfano di padre, venne
adottato da Plinio il Veccio, suo zio materno (da cui il nome); a Roma studiò
retorica sotto la guida di Quintiliano e di N. Sacerdote. Incominciò
presto la carriera forense, con notevoli successi, e il "cursus honorum", che
culminò nella nomina a "prefetto dell'erario" (98) e "consul suffectus",
sotto Traiano. Questi lo nominò suo legato in Bitinia (111).
OPERE E
CONSIDERAZIONI. *Considerato dai contemporanei (ancor più da se stesso) un
oratore di primo piano, pronunciò nell'anno 100 il "Panegyricus" ufficiale
dell'imperatore Traiano e questo saggio, di cui disponiamo, ci permette di
giudicare delle sue qualità nell'eloquenza ufficiale. La sua frase è
ampia, lunga e sinuosa; il pensiero aggrovigliato e, per lo più, banale. Ma
bisogna mitigare questa impressione sfavorevole, tenendo conto che il genere
aveva le sue esigenze, la prima delle quali era che l'allusione dovesse
prevalere sulle affermazioni, e che era necessario insinuare e pericoloso
parlare troppo e chiaro. Ci si avvede, quindi, che P., in questo genere, è un
maestro. Dalle sue parole emerge un'immagine dell'imperatore che corrisponde
esattamente al modo in cui Traiano desiderava vedersi con i suoi
occhi. L'eloquenza diventa una specie di lavoro poetico, esattamente ciò
che Platone, in passato, temeva che potesse divenire: maestra di illusione e
di menzogna. Il "panegirico", comunque, risulta interessante - oltre che
per essere l' unico esempio di oratoria romana nella I età imperiale - quanto
meno per l' importante auspicio, contenutovi, di un periodo di rinnovata e
costruttiva collaborazione tra imperatore, senato e ceto equestre 8con
qualche ingenuità, P. sembra rivendicare per sé una sorta di funzione
"pedagogica" nei confronti del Principe). *E' probabile però che
l'eloquenza giudiziaria di P. (fu un avvocato di grido) fosse di diversa
qualità, giacché egli ci appare nelle sue "Epistulae" (parte fondamentale
della sua opera) un onest'uomo, anche piuttosto scrupoloso (perlomeno quando
scrive a Traiano, durante l'esercizio della carica di governo in Bitinia, per
chiedergli consigli sul comportamento da adottare nei confronti dei suoi
amministrati). Le "Lettere" sono in 10 libri: i primi 9, raccolti e ordinati
dallo stesso P. per consiglio di Setticio, contengono lettere di indole
privata, indirizzate ad amici e (meno) a parenti. Si presentano come veri e
propri saggi brevi di cronaca sulla vita mondana, intellettuale e civile (di
cui, visto il suo status, egli è osservatore privilegiato). Il X
libro, pubblicato postumo, è riservato al carteggio ufficiale intercorso,
come detto, tra P. e Traiano. I libri su citati, non meno di quest'ultimo,
rivelano nella forma (il modello è Cicerone, con accenni di "maniera" una
ricercatezza e una lisciatura che direbbero da sole - quand'anche l'autore
stesso non lo avvertisse col suo "paulo maiore cura" - che sono state
rivedute per affrontare il giudizio del pubblico: ben lo testimonia
l'ordinamento interno, attento alla "variatio" degli argomenti. Il nostro
mostra notevoli interessi verso le cose intellettuali, in particolare per la
filosofia, ma più con lo spirito del dilettante che con quello del vero
filosofo. Inoltre, ci offre un esempio esauriente della cultura "umanistica",
così come era concepita al suo tempo. E' un po' poeta: scrive brevi
componimenti in versi ("endecasillabi" ora perduti), rivolge la propria
curiosità verso i fenomeni naturali, ma senza cercare di approfondire nulla.
E' possibile valutare ciò che la perdita della libertà ha potuto produrre
nello spirito romano se si paragonano queste sue Lettere con l'Epistolario di
Cicerone.
Publio (o Gaio?) Cornelio Tacito (55 d.C.? ca - 120
ca)
VITA. T. nacque nella Gallia Narbonese, da una famiglia di ordine
equestre. Studiò a Roma e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola,
statista e comandante militare. Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano
e la proseguì sotto Tito e Domiziano. Questore nell'81-82 e pretore nell'88,
fu per qualche anno lontano da Roma, probabilmente per un incarico in Gallia
o in Germania. Nel 97 fu console e pronunciò un elogio funebre per
Virginio Rufo, il console morto durante l'anno in carica. Abbandonò poi
decisamente oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia
d'Asia, nel 112-113) per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo
amico di Plinio il Giovane.
OPERE. "Dialogus de oratoribus", dell'
80 ca o di poco successivo al 100; è comunque dedicato a Fabio Giusto; "De
Vita Agricolae", pubblicato nel 98; "De origine et situ Germanorum" o
"Germania", dello stesso anno?; "Historiae", composte tra il 100 e il 110, in
12 o 14 libri di cui però ci sono pervenuti solo i primi 4 e metà del
V; "Annales" o "Ab excessu divi Augusti", del 100-117?, comunque
successivi alle "Historie", in 16 o 18 libri, di cui ci rimane, però,
l'opera incompleta: i primi 4 libri, alcuni frammenti del V e del VI
(mancante forse del principio) che trattano del regno di Tiberio; infine, gli
ultimi 6, concernenti Nerone, ma per lo più lacunosi.
CONTENUTI E
COMMENTI DELLE OPERE. *"Dialogus de oratoribus": le cause della decadenza
dell'oratoria. Il "Dialogus de oratoribus" non è probabilmente la prima opera
di T.: la tesi che oggi prevale è che sia stato composto dopo la "Germania" e
dopo l' "Agricola". Il periodo di tale opera ricorda infatti il
modello neociceroniano forbito ma non prolisso, cui si ispirava
l'insegnamento della scuola di Quintilliano: per questo c'è chi suppone che
l'opera sia stata scritta quando T. era ancora giovane e legato alle
predilezioni classicheggianti della scuola di Quintilliano. Se questa ipotesi
fosse vera, resta il fatto che l'opera fu pubblicata solo in seguito, dopo la
morte di Domiziano. Ambientato nel 75 o nel 77, si riallaccia alla
tradizione dei dialoghi ciceroniani su argomenti filosofici e retorici.
Riferisce di una discussione avvenuta a casa di Curiazio Materno fra lui
stesso, Marco Apro, Vipstano Messalla e Giulio Secondo. In un primo momento
si contrappongono i discorsi di Apro e Materno (che forse è la maschera
dietro cui si nasconde lo stesso T.), in difesa rispettivamente
dell'eloquenza e della poesia. L'andamento del dibattito subisce una svolta
con l'arrivo di Messalla, spostandosi sul tema della decadenza dell'oratoria,
la cui causa è il deterioramento dell'educazione. Il dialogo si conclude con
il discorso di Materno: egli sostiene che una grande oratoria forse era
possibile solo con la libertà, o piuttosto con l'anarchia; diviene invece
anacronistica e noiosa in una società tranquilla come quella conseguente
all'instaurazione dell'Impero, caratterizzata dalla degenerazione sociale,
politica e culturale. L'opinione attribuita a Materno rispecchia il pensiero
di T.: egli, infatti, nonostante tutto, sente la necessità dell'Impero come
unica forza in grado di salvare lo stato dal caos delle guerre civili, di
garantire insomma la pace, anche se il principato restringe lo spazio per
l'oratore e l'uomo politico. *"Agricola" e la sterilità
dell'opposizione. Verso gli inizi del regno di Traiano T. approfittò del
ripristino dell'atmosfera di libertà dopo la tirannide per pubblicare il suo
primo opuscolo storico, la sua prima monografia, che tramanda ai posteri
la memoria del suocero Giulio Agricola. Per il suo tono encomiastico, lo
stile di quest'opera si avvicina a quello delle laudationes funebri. Dopo
un riassunto della vita del protagonista, si sofferma sulla conquista
della Britannia, lasciando un certo spazio alle digressioni geografiche
ed etniche. Egli, tuttavia, non perde mai di vista il proprio personaggio:
la Britannia è soprattutto un campo in cui si dispiega la virtus di
Agricola, il teatro delle sue imprese. T. mette in risalto come il suocero
avesse saputo servire lo Stato con fedeltà e onestà anche sotto un pessimo
principe come Domiziano. Anche nella morte Agricola mantiene la sua
rettitudine: egli lascia la vita in silenzio, senza andare in cerca della
gloria di un martirio ostentato. L'esempio di Agricola indica come anche
sotto la tirannide sia possibile percorrere la via mediana (la vera virtù è
appunto la "moderazione") fra quelle del martirio e della indecenza. L'
"Agricola" si può considerare come un punto di intersezione tra diverse
correnti letterarie: si tratta di un panegirico sviluppato in biografia, di
una laudatio funebris integrata con materiali storici ed etnografici.
Notevole è l'influenza di Cicerone soprattutto nella perorazione
finale. *"Germania": virtù dei barbari e corruzione dei romani. Gli
interessi etnografici sono al centro della "Germania", non a caso scritto in
quel particolare momento storico-politico, quando l'agitarsi delle
popolazioni ultrarenane indusse Traiano ad affrontare decisamente il problema
germanico: unica testimonianza, comunque, di una letteratura specificatamente
etnografica che a Roma doveva godere di una certa fortuna. Le considerazioni
etnogeografiche (sui popoli e sui luoghi appunto tra Reno e Danubio)
all'interno della "Germania" non derivano tuttavia da una visione diretta, ma
da fonti scritte, soprattutto dai "Bella Germaniae" di Plinio il Vecchio, che
aveva prestato servizio nelle armate del Reno. T. sembra aver seguito la sua
fonte con fedeltà, aggiungendo qua e là pochi particolari per ammodernare
l'opera: ciò nonostante, rimangono alcune discrepanze, poiché la "Germania"
sembra descrivere abbastanza spesso la situazione come si presentava prima
che gli imperatori flavi avanzassero oltre il Reno e oltre il Danubio. Si
può notare nell'opuscolo di T. l'esaltazione di una civiltà ingenua
e primordiale, non ancora corrotta dai vizi raffinati di una
civiltà decadente. Tutta l'opera sembra percorsa da una vena implicita
di contrapposizione dei barbari, ricchi di energie sane e fresche, ai romani.
E molto probabilmente, al di là di ogni "idealizzazione", T.
intendeva sottolineare la loro pericolosità per l'Impero: i germani
potevano rappresentare una seria minaccia per un sistema politico basato
sul servilismo e sulla corruzione. Ovviamente T. parla anche dei molti
difetti di un popolo che gli appare comunque come essenzialmente
barbarico. *"Historie": i parallelismi della storia. Il progetto di una
vasta opera storica era presente già nell'Agricola, ma nelle "Historiae" tale
progetto appare modificato: mentre la parte che ci è rimasta contiene la
narrazione degli eventi dal regno di Galba fino alla rivolta giudaica,
l'opera nel suo complesso doveva estendersi fino al 96, l'anno della morte di
Domiziano: nel proemio T. afferma di voler trattare durante la vecchiaia dei
principati di Nerva e di Traiano. Le "Historiae" descrivono quindi un periodo
cupo, sconvolta dalla guerra civile e concluso con la tirannide: Il I
libro parla del breve regno di Galba; seguono l'uccisione di questo
e l'elezione all'Impero di Otone. In Germania le legioni acclamano però
come Imperatore Vitellio. Nel II e III libro si parla della lotta tra
Otone e Vitellio, con la sconfitta del primo, e tra Vitellio e Vespasiano.
Quest'ultimo, eletto imperatore in oriente, lascia il proprio figlio Tito ad
affrontare i giudei e fa dirigere le sue truppe a Roma dove si era rifugiato
Vitellio, che viene ucciso. Nel IV libro si parla dei tumulti ad opera dei
soldati flaviani, e dei tumulti contro Vespasiano scoppiati in Gallia e in
Germania. Il V libro parla degli avvenimenti di Germania e dei primi segni
di stanchezza mostrati dai ribelli. Nel 69, anno in cui si apre
l'Historiae, vede succedersi 4 imperatori: questo perché il principe poteva
essere eletto anche fuori da Roma, e la sua forza si basava principalmente
sull'appoggio delle legioni di stanza in paesi più o meno remoti. T.
scrive a distanza di 30 anni dagli avvenimenti del 69, ma la ricostruzione di
quell'anno avveniva nel vivo del dibattito politico che aveva accompagnato
l'ascesa al potere di Traiano. E' stato notato un certo parallelismo tra
questa e gli avvenimenti del 69:il predecessore di Traiano, Nerva, si era
trovato come Galba ad affrontare un rivolta di pretoriani che faceva
traballare le basi del suo potere, e come Galba aveva designato
per "adozione" un suo successore. L'analogia però si ferma a questo
punto: mentre Galba si era scelto come successore Pisone, un nobile di
antico stampo poco adatto, Nerva aveva invece consolidato il proprio
potere associandosi nel governo Traiano, un capo militare autorevole,
comandante dell'armata della Germania superiore. Con il discorso di Galba
in occasione dell'adozione di Pisone, lo storico ha inteso mostrare nella
figura dell'imperatore il divario fra il modello di comportamento
rigorosamente ispirato al mos maiorum e la reale capacità di dominare e
controllare gli avvenimenti. Solo l'adozione di una figura come quella di
Traiano placò i tumulti fra le legioni e pose fine a ogni rivalità. Come già
detto, T. è convinto che solo il principato sia in grado di garantire la pace
e la fedeltà degli eserciti: già il proemio delle "Historiae" sottolinea come
dopo la battaglia di Azio la concentrazione del potere nelle mani di una sola
persona si rivelò indispensabile: ovviamente il principe non dovrà essere uno
scellerato tiranno come Domiziano, né un inetto come Galba. Dovrà invece
assommare in sé quelle qualità necessarie per reggere la compagine imperiale,
e contemporaneamente garantire i residui del prestigio e della dignità del
ceto dirigente senatorio. Quindi per T. l'unica soluzione è nel principato
moderato degli imperatori d'adozione. Lo stile delle "Historiae" ha un ritmo
vario e veloce, che richiede da parte di T. un lavoro di condensazione
rispetto ai dati forniti dalle fonti: a volte qualcosa è omesso, ma più
spesso T. sa conferire efficacia drammatica alle proprie opere suddividendo
il racconto in più scene. Lo storico è molto bravo nella descrizione delle
masse, da cui traspare il timore misto a disprezzo del senatore per le
turbolenze dei soldati e della feccia della capitale. Le "Historiae"
raccontano per la maggior parte fatti di violenza e di ingiustizia: ciò non
toglie che T. sappia tratteggiare in modo abile i caratteri dei propri
personaggi, alternando notazioni brevi a ritratti compiuti come quello di
Muciano o di Otone. Lo storico insiste sulla consapevolezza di questo
personaggio della sua subalternità nei confronti degli strati inferiori
urbani e militari: forse Otone deve proprio a questo servilismo la sua
capacità di incidere nelle cose. Egli è dominato da una virtus inquieta, che
all'inizio della sua vicenda lo porta a deliberare, in un monologo quasi da
eroe tragico, una scalata al potere decisa a non arrestarsi. Ma Otone è un
personaggio in evoluzione e decide così di darsi una morte gloriosa. Nella
sua descrizione T. si affida alla inconcinnitas, alla sintassi disarticolata,
alle strutture stilistiche slegate per incidere nel profondo dei personaggi.
Egli ama ricorrere a costrutti irregolari e a frequenti cambi di soggetto per
dare movimento alla narrazione. *"Annales": le radici del principato. Torna
al sommario Nemmeno nell'ultima fase della sua attività T. mantenne il
proposito di narrare la storia dei principati di Nerva e Traiano. Egli, negli
"Annales", intraprese il racconto della più antica storia del principato,
dalla morte di Augusto a quella di Nerone. Probabilmente T. intendeva la sua
opera come un proseguimento di quella di Livio: in effetti il titolo presente
nei manoscritti di T. ("Ab excessu divi Augusti") sembra ricordare
quello liviano "Ab urbe condita". Come accennato, degli "Annales" sono
conservati i libri I-IV, un frammento del V e parte del VI, comprendenti il
racconto degli avvenimenti dalla morte di Augusto (14) a quella di Tiberio
(37); inoltre sono conservati i libri XI-XVI, col racconto dei regni di
Claudio e di Nerone. Claudio è rappresentato come un imbelle che dopo la
morte della prima moglie Messalina cade nelle mani del potente liberto
Narciso e della seconda moglie Agrippina, che alla fine fa avvelenare il
marito e mette sul trono Nerone, il figlio avuto da un precedente matrimonio.
Quindi è narrato il regno di Nerone, nella giovinezza influenzato dalle
figure della madre, del filosofo Seneca e del prefetto del pretorio Burro.
Poi acquista indipendenza e cade sempre più nella pazzia: instaura quindi un
regime da monarca ellenistico e si dedica soprattutto ai giochi e ai
spettacoli. Riesce a far uccidere la madre Agrippina mentre Seneca si ritira
a vita privata. Nerone si abbandona a eccessi di ogni sorta, ma intorno a
Gaio Pisone si coagula un gruppo di congiurati che si propongono di uccidere
il principe. La congiura di Pisone viene scoperta e repressa. Negli
"Annales" T. sembra mantenere la tesi della necessità del principato: ma il
suo orizzonte sembra essersi notevolmente incupito. La storia del principato
è anche la storia del tramonto della libertà politica dell'aristocrazia
senatoria, anch'essa coinvolta in un processo di decadenza morale e di
corruzione. Scarsa simpatia lo storico presenta anche nei confronti di coloro
l'opposta via del martirio, sostanzialmente inutile allo Stato, e continuano
a mettere in scena suicidi filosofici. T. conduce il lettore attraverso un
territorio umano desolato, senza luce o speranza. Tuttavia la parte sana
dell'élite politica continua a dare il meglio di sé nel governo delle
provincie e nella guida degli eserciti: l'opera bellica di Germanico risulta
grandiosa rispetto alla meschina politica urbana di Tiberio. T. alla forte
componente tragica della sua storiografia assegna soprattutto la funzione di
scavare nelle pieghe dei personaggi per sondarli in profondità e portarne
alla luce le ambiguità e i chiaroscuri. Negli "Annales" si perfeziona
ulteriormente la tecnica del ritratto: il vertice è stato individuato nel
ritratto di Tiberio, del tipo cosiddetto indiretto: lo storico non dà cioè il
ritratto una volta per tutte, ma fa sì che esso si delinei progressivamente
attraverso una narrazione sottolineata qua e là da osservazioni e commenti.
Un certo spazio è anche dato al ritratto del tipo paradossale: l'esempio più
notevole è la descrizione di Petronio. Il fascino del personaggio sta proprio
nei suoi aspetti contraddittori: Petronio si è assicurato con l'ignavia la
fama che altri acquistano dopo grandi sforzi, ma la mollezza della sua vita
contrasta con l'energia e la competenza dimostrate quando ha ricoperto
importanti cariche pubbliche. Egli affronta la morte quasi come un'ultima
voluttà, dando contemporaneamente prova di autocontrollo e di
fermezza. Nello stile degli "Annales" si assiste ad un allontanamento dalla
norma e dalla convenzione, una ricerca di straniamento che si esprime nel
lessico arcaico e solenne. A partire dal libro XIII, invece, pare registrarsi
un' involuzione verso modelli più tradizionali, meno lontani dai dettami
del classicismo: forse il regno di Nerone, abbastanza vicino nel
tempo, richiedeva una trattazione con minore di stanziamento
solenne. Comunque, in linea di massima, gli "Annales" risultano meno
eloquenti, più concisi e austeri. Si accentua il gusto della inconcinnitas,
ottenuta soprattutto grazie alla variatio, cioè allineando un'espressione a
un'altra che ci si attenderebbe parallela, ed è invece diversamente
strutturata.
CONSIDERAZIONI. *Come si vede, l'opera di T. è tutta
sostenuta da un'esplicita e tesa passione etico-politica e alla
partecipazione delle sorti della Roma a lui contemporanea: è il corrosivo
bilancio (soprattutto nelle opere maggiori) del primo secolo di esperienza
monarchica dal punto di vista di un' intellettuale, il quale benché proclami
di voler fare storia in modo imparziale ("sine ira et studio"), esprime il
punto di vista della "sana" opposizione senatoriale alla pratica imperiale
(leitmotiv ne è l' inconciliabile tensione tra "libertas" e
"principatus"). T. individua il "peccato originale" nella svolta
anticostituzionale operata da Augusto, dietro una formale facciata
repubblicana, e denuncia le conseguenze nefaste del sistema dinastico, pur
senza rifiutare totalmente l' istituzione - oramai necessaria per l'unità,
l'ordine e la pace dell' mpero - del "principato". La visione della storia
è, infine, essenzialmente individualistica (tipica della storiografia
antica), e fa discendere la dinamica degli eventi dalla personalità e dalle
scelte dei "grandi". *Ancora aperto è il "problema delle fonti" di T.. Alcuni
punti sono comunque assodati: T. consultò la documentazione ufficiale ("acta
senatus", più o meno i verbali delle sedute; "acta diurna", contenenti gli
atti del governo e notizie su quanto avveniva a corte a Roma) ed ebbe inoltre
a disposizione raccolte di discorsi imperiali. Il tutto vagliato con uno
"scrupolo" inusuale tra gli storici antichi. Numerose anche le fonti
storiche (Plinio, Vipsiano Messala, Pluvio Rufo, F. Rustico.) e letterarie
(epistolografia, memorialistica, libellistica ["Exitus illustrium
virorum"].). Così, al mito dell'utilizzo di un'unica fonte (almeno per
ciascuna sezione delle opere maggiori), si è sostenuta piuttosto l'idea di
una molteplicità di fonti, per giunta talune anche di opposta tendenza, e
utilizzate con una certa libertà.
Gaio Svetonio
Tranquillo (Algeria o Roma, 70? - 14? ca d.C.)
VITA. Nato da una
famiglia dell'ordine equestre, rifiutò tuttavia la carriera di amministratore
o di soldato riservata in genere ai "cavalieri". Uomo dedito agli studi,
intimo amico di Plinio il Giovane, consacrò tutta la sua vita a ricerche
erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone. La sua attività
si limitò quasi interamente al genere biografico. Grazie all'amicizia del
prefetto del pretorio Setticio Claro (un amico di Plinio, sopravvissuto a
quest'ultimo, che aveva continuato a proteggerlo), intorno al 120 S. riuscì
tuttavia a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato della
corrispondenza) nei servizi dell'imperatore Adriano. Ciò gli permise di
accedere liberamente agli archivi del Palatino, per cui le sue informazioni
ci hanno permesso di ricostruire e di conservare documenti che, senza di lui,
sarebbero andati completamente perduti. Nessun altro storico, infatti, poteva
averne conoscenza. L'incarico di S. presso la corte non durò, tuttavia, molto
a lungo. Nel 122, Adriano lo allontanò perché, a quanto pare, alcuni
dignitari, e lui fra gli altri, avevano instaurato un'eccessiva familiarità
nell'ambiente dell'imperatrice Sabina.
OPERE. *S. compose un libro
sugli uomini "illustri" della latinità ("De viris illustribus", dopo il 113)
e una grande opera sulla "vita dei Cesari" ("De vita Caesarum", 121 d.C.),
pervenutaci integralmente. *Nella prima di queste opere, S. non limitava la
propria indagine alla cerchia dei politici e dei militari. Un libro era
dedicato agli oratori, un altro ai poeti, altri ancora ai grammatici, ai
rètori, ai filosofi, eccetera. Di questo panorama così vasto a noi restano
unicamente le notizie riguardanti grammatici e rètori, particolarmente
preziose per la conoscenza dell'insegnamento a Roma e della sua storia. Degli
altri "capitoli", disponiamo solo di notizie staccate. Quelle sugli scrittori
furono utilizzate da san Gerolamo per la sua Cronaca, ed è quindi possibile,
in una certa misura, ricostruirle. In queste biografie erudite, S. si
preoccupa fondamentalmente di raccogliere una documentazione, molto meno di
controllarne e criticarne la validità. E' un testimone (uno dei primi) della
tradizione scolastica (noi diremmo universitaria) che si forma e si
svilupperà, con variazioni diverse, durante tutta la parte finale
dell'antichità e nel Medio Evo, ad es. nei commentari di Donato (su Virgilio
e su Terenzio) alla fine del IV secolo, e in quelli di Servio (che visse
intorno al 400 d.C.) su Virgilio. *Qualunque possa essere l'importanza delle
biografie composte da S. sugli scrittori, nella formazione della storia
letteraria come genere, quella delle "Vite dei Cesari" è, ovviamente, di gran
lunga più considerevole, giacché, per le parti ormai perdute degli "Annali" e
delle "Storie" di Tacito, esse rappresentano una preziosa fonte sostitutiva.
Le biografie degli imperatori (12, da Cesare a Domiziano) non sono opere
storiche nel senso comune del termine. Della cronologia e della
concatenazione degli avvenimenti esse tengono conto in modo molto
approssimativo. Ogni fatto è, invece, classificato (pressappoco) in una
categoria: infanzia, origine, carattere, ritratto fisico, ritratto
intellettuale, attività militari, giochi offerti al popolo, eccetera. Anche
in questo caso, la critica è quasi inesistente. Altro vantaggio per noi
delle "Vite dei Cesari" è il fatto che S. attinge notizie da opere ormai
perdute degli storici dell'impero. Ciò permette di ritrovare una prospettiva
più giusta sugli avvenimenti e sugli uomini che sono stati oggetto a volte di
appassionata ammirazione e a volte di odio feroce. *Il modello, per
entrambe le opere, è quello delle biografie "alessandrine", per non parlare
delle influenze formali più direttamente romane: gli "elogia" e le
"laudationes funebres". Non solo. Riguardo la seconda, si aggiunge la
consapevolezza in S. che quella del genere biografico è la forma
storiografica più idonea a dar conto della nuova forma che il potere ha
assunto (quella individualistica, personale, del principato) e che la
biografia dei singoli imperatori è la più adatta a fungere da criterio di
periodizzazione della storia dell'Impero. Così, nella tendenza - tanto
deplorata come deteriore gusto del pettegolezzo - ad insistere sulla vita
privata degl'imperatori descrivendone eccessi ed intemperanze, sui
particolari futili e scandalistici, si inclina oggi a vedere (anche) la
manifestazione di una volontà obiettiva e demistificante, dell'intento di
fornire un ritratto integrale del personaggio. Ne risulta un tipo di
storiografia "minore" (rispetto a quella "aristocratica" di Tacito) che
attinge alle più varie fonti e che delinea anche, in qualche modo, i tratti
del suo destinatario, che è l'ordine equestre, il punto di vista attraverso
cui le singole vicende sono osservate e valutate. *Riguardo allo stile,
infine, è da dire che S. scrive senza prolissità e/o ricercatezze, con lingua
chiara e semplice, e con un fraseggio rapido e vivace.
L. Anneo (o
Giulio) Floro (secc. I-II d.C.)
VITA E OPERE. Originario
dell'Africa, a somiglianza degli oratori greci della "seconda sofistica",
ebbe un'attività di conferenziere itinerante nelle province. Uno dei temi da
lui affrontato era la questione se "Virgilio era oratore o poeta", problema
sul quale ci è stato conservato uno svolgimento redatto in forma di
dialogo. F. finì per stabilire a Roma la sua dimora, durante l'impero di
Adriano, e nella città compose i suoi 2 libri "sulle guerre romane",
comprente 7 secoli di storia militare romana, dalla fondazione dell'Urbe ad
Augusto. Sotto la vernice del presunto storico, traspare però l'atteggiamento
del rètore: F. elogia più che raccontare. Questo conferenziere, sempre in
cerca di brillanti amplificazioni, immagina di paragonare la vita del
popolo romano a quella di un essere umano le cui differenti età si
caratterizzano per una crescita, una maturità e una decadenza, salvo poi
concludere, per trarsi d'impaccio, che la dinastia antonina aveva restituito
a Roma la sua giovinezza. Quest'opera puerile ci è stata conservata sotto
il titolo, davvero improprio, di "Compendio di Tito Livio" ("Epitome Titi
Livii").
Lucio (?) Apuleio (Madaura, Algeria 125 ca - dopo il 170
d.C.)
VITA. Di estrazione agiata, A. studiò a Cartagine, dove apprese
le regole dell'eloquenza latina; si recò poi ad Atene, per avviarsi allo
studio del pensiero greco. Ciò che principalmente l'attraeva erano le
dottrine nelle quali il pensiero religioso aveva una sua funzione: lo
stoicismo, al quale rimanevano fedeli in gran parte i nobili romani e di cui
Marco Aurelio sarà un adepto, lo attraeva molto meno del platonismo, o della
dottrina che allora passava sotto questo termine (platonismo se così possiamo
dire "teosofico"), impregnata di misticismo e addirittura di magia. A. si
fece iniziare a tutti i culti più o meno segreti che a quei tempi abbondavano
nell'Oriente mediterraneo: misteri di Eleusi, di Mitra, misteri di Iside,
culto dei Cabiri a Samotracia, e tanti altri di minore fama. La sua speranza
era di trovare il "segreto delle cose" e, al pari della sua eroina Psiche, si
abbandonava a tutti i dèmoni della curiosità, avventurandosi fino alle
frontiere del sacrilegio. La strada del ritorno dalla Grecia all'Africa lo
condusse attraverso le regioni asiatiche, in Egitto e quindi in Cirenaica,
dove lo attendeva una straordinaria avventura verso Alessandria (155-156). La
madre di Ponziano, uno dei suoi compagni di studi ad Atene, rimasta vedova,
desiderava riprendere marito. A. le piacque, e i due si sposarono. I parenti
della nobildonna, adirati nel vedere compromessa l'eredità, intentarono
un processo al "filosofo" straniero accusandolo di arti magiche. Gli
imputavano di avere plagiato la loro congiunta, e lo tradussero davanti al
governatore della provincia. Per difendersi, A. compose un'arringa
scintillante di spirito, che ci è stata conservata col titolo di "Apologia"
(158).
OPERE. - "Apologia" o "De magia" (158), come detto versione
successivamente rielaborata della propria, vittoriosa, orazione difensiva. E'
interessante paragonare questo genere di eloquenza, di discorso
effettivamente pronunciato davanti a un tribunale, con quella dei "Florida"
(antherà, "selezioni di fiori"), estratti di conferenze (23 brani oratori)
tenute dallo scrittore a Cartagine e a Roma, antologizzati da un anonimo
ed eccezionali esempi di virtuosismo retorico. - Tre opere
filosofiche: "De mundo", rifacimento - in chiave stoicheggiante -
dell'omonimo trattato pseudoaristotelico; "De Platone et eius domate", una
sintesi della fisica e dell'etica di Platone, cui doveva seguire una logica
("Perì ermeneias"?); "De deo Socratis", un opuscolo in cui A. esamina la
demonologia di Socrate: sotto l'influsso delle filosofie orientali, i
"demoni" (ovvero, divinità) diventano Angeli, o affini ad essi, per A.,
spiriti che fungono da intermediari tra gli dèi e gli uomini, e che
presiedono a rivelazioni e presagi. - "Metamorfosi" (denominato a volte
"L'asino d'oro").
LE "METAMORFOSI". TRAMA E CONSIDERAZIONI. Torna al
sommario *Il romanzo, opera stravagante in 11 libri, è forse l'adattamento
(almeno nei primi 10) di uno scritto di Luciano di cui non siamo in possesso,
ma del quale ci è pervenuto un plagio intitolato "Lucius o L'asino": si
discute se A. abbia seguito il modello solo nella trama principale, o ne
abbia ricavato anche le molte digressioni novellistiche tragiche ed erotiche.
Le "Metamorfosi" gravitano comunque nella tradizione della "milesia", ma
anche in quella del romanzo greco contemporaneo, arricchito però
dall'originale e determinante elemento magico. Dunque, il magico si
alterna con l'epico (nelle storie, vedremo, dei briganti), col tragico, col
comico, in una sperimentazione di generi diversi (ordinati ovviamente in un
unico disegno, con un impianto strutturale abbastanza rigoroso), che trova
corrispondenza nello sperimentalismo linguistico, nella piena padronanza di
diversi registri, variamente combinati nel tessuto verbale: e il tutto in una
lingua, comunque, decisamente "letteraria". *La storia narra di un giovane
chiamato Lucio (identificato da A. con lo stesso narratore), appassionato di
magia. Originario di Patrasso, in Grecia, egli si reca per affari in
Tessaglia, paese delle streghe. Là, per caso, si trova ad alloggiare in casa
del ricco Milone, la cui moglie Panfila è ritenuta una maga: ha la facoltà di
trasformarsi in uccello. Lucio vuole imitarla e, valendosi dell'aiuto di una
servetta, Fotis, accede alla stanza degli unguenti magici della donna. Ma
sbaglia unguento, e viene trasformato in asino, pur conservando coscienza ed
intelligenza umana. Per una simile disgrazia, il rimedio sarebbe semplice
(gli basterebbe mangiare alcune rose), se un concatenarsi straordinario di
circostanze non gli impedisse di scoprire l'antidoto indispensabile. Rapito
da certi ladri durante la notte stessa della metamorfosi, egli rimane bestia
da soma per lunghi mesi, si trova coinvolto in mille avventure, sottoposto ad
infinite angherie e muto testimone dei più abietti vizi umani; in breve, il
tema è un comodo pretesto per mettere insieme una miriade di
racconti. Nella caverna dei briganti, Lucio ascolta la lunga e bellissima
favola di "Amore e Psiche", narrata da una vecchia ad una fanciulla rapita
dai malviventi: la favola racconta appunto l'avventura di Psiche,
l'Anima, innamorata di Eros, dio del desiderio, uno dei grandi dèmoni
dell'universo platonico, la quale possiede senza saperlo, nella notte della
propria coscienza, il dio che lei ama, e che però smarrisce per curiosità,
per ritrovarlo poi nel dolore di un'espiazione che le fa attraversare tutti
gli "elementi" del mondo). Sconfitti poi i briganti dal fidanzato della
fanciulla, Lucio viene liberato, finchè - dopo altre peripezie - si trova
nella regione di Corinto, dove, sempre sotto forma asinina, si addormenta
sulla spiagga di Cancree e, durante una notte di plenilunio, vede apparire in
sogno la dea Iside che lo conforta, gli annuncia la fine del supplizio e gli
indica dove potrà trovare le benefiche rose. Il giorno dopo, il miracolo si
compie nel corso di una processione di fedeli della dea e Lucio, per
riconoscenza, si fa iniziare ai misteri di Iside e Osiride. *L'ultima
parte del romanzo (libro XI), che si svolge in un clima di forte suggestione
mistica ed iniziatica, non ha equivalente nel testo del modello greco. E'
evidente che è un'aggiunta di A., al pari della celebre "favola" di Amore e
Psiche, che si trova inserita verso la metà dell'opera: centralità
decisamente "programmatica", che fa della stessa quasi un modello in scala
ridotta dell'intero percorso narrativo del romanzo, offrendone la corretta
decodificazione. Ci si può chiedere se queste aggiunte non servano a spiegare
l'intenzione dell'autore. In realtà l'episodio di Iside, come quello di Amore
e Psiche, ha un evidente significato religioso: indubbio nel primo;
fortemente probabile nel secondo, interpretato specificamente ora come mito
filosofico di matrice platonica, ora come un racconto di iniziazione al culto
iliaco, ora - ma meno efficacemente - come un mito cristiano. Certo è,
comunque, che tutto il romanzo è carico di rimandi simbolici all' itinerario
spirituale del protagonista-autore: la vicenda di Lucio ha, infatti,
indubbiamente valore allegorica: rappresenta la caduta e la redenzione
dell'uomo, di cui l'XI libro è certamente la conclusione religiosa. Il tutto
farebbe delle "Metamorfosi", così, un vero e proprio romanzo
"mistagogico". Romanzo che, tuttavia, qualunque sia la sua reale intenzione,
ci offre una straordinaria descrizione delle province dell'impero al tempo
degli Antonini e, in modo particolare, della vita del popolo minuto.
Confrontato con quello di Petronio, dà la curiosa impressione che i
personaggi vi siano osservati a maggiore distanza, come in un immenso
affresco dove si muovono, agitandosi, innumerevoli comparse.
Poeti
novelli Nell'età dei rètori e dell'erudizione trionfante, la poesia sembra
aver perso ormai ogni centralità culturale, o addirittura la de-finizione
del proprio genere: essa emerge più che altro come un raffinato hobby
delle classi elevate. Si continua, invece, a praticare un genere di poesia
minore e mistiforme, una sorta di via secondaria della poesia latina, con una
sua continuità, cui appartengono i "poetae novelli", un vero e proprio
"movimento", del sec. II, fiorito all'epoca di Adriano (egli stesso è
pregevole verificatore, di gusto decadente). Al gruppo
appartengono: Terenziano Mauro, "teorico" del gruppo, cui ha assegnato la
definizione. E' autore di un elaborato trattato di metrica - "De litteris
syllabis et metri Horatii" - giuntoci solo in parte, in cui tra l'altro
espone la tesi della scuola "derivazionistica" (e cioè: tutti i metri greci e
latini non sarebbero altro che modificazioni di due strutture metriche
fondamentali: l' esametro e il trimetro giambico). Ammiano, autore dei
"Carmina fallisca" (dal metro anomalo "falisco") e anche dei misteriosi
"Fescennini". Alfio Avito, che poetò sugli uomini illustri della storia di
Roma. Un certo Mariano, che compose dei "Lupercalia". Settimio Severo, che
cantò temi rurali e pastorali. Il nuovo stile puntava a costruire moduli
preziosi, e quasi lambiccanti, su temi semplici e anche futili, riducendo lo
spessore dei sentimenti e dei concetti. Comune è lo sperimentalismo
metrico: si escogitano forme nuove (ad es., il falisco), oppure, sempre in
segno di rottura rispetto ai grandi classici, si cantano temi tradizionali su
metri inattesi e apparentemente impropri (abbiamo addirittura forme di
metrica figurata). Concorrevano a formare il loro gusto la tendenza
arcaicizzante dell'età adrianea, i modi dei "neoteroi" previrgiliani e la
poesia greca contemporanea.
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