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STORIA ANTICA 1

STORIA ANTICA

IL NOMADISMO E LA NASCITA DELLA SEDENTARIETA'
Con il nomadismo tutto il mondo apparteneva all'uomo, non esistevano proprietà nè confini, ci si spostava seguendo i percorsi delle mandrie di animali
selvatici, si praticava caccia e pesca là dove esisteva una selvaggina
relativamente sufficiente. Per il resto si viveva di bacche, radici,
frutti...
Con lo sviluppo dell'agricoltura e dell'allevamento il mondo deve essere
suddiviso in forme di proprietà appartenenti a determinati clan o tribù,
fino alle comunità di villaggio. I confini sono inevitabili. E' il prezzo
del relativo benessere.
Le tribù possono anche diventare nemiche, specie se una è dedita più
all'agricoltura che all'allevamento e l'altra più a questo che a quella, o
se addirittura una è dedita ad attività stanziali e l'altra pratica solo il
nomadismo.
Tuttavia, in assenza di forme sociali antagonistiche interne a una tribù, vi
sono scarse motivazioni per dominare altre tribù. Non esistono guerre di
conquista. Vi possono essere battaglie per la difesa di un territorio, ma
queste battaglie non arrivano mai a trasformarsi in guerre vere e proprie.
Non esisteva infatti la concezione di poter usare gratuitamente il lavoro
altrui.
Questa concezione implica già uno svolgimento di rapporti sociali, interni
alla tribù, in direzione dello schiavismo: il che ovviamente presuppone una
qualche differenziazione nella gestione della proprietà.
Se all'interno di una tribù esiste la possibilità di schiavizzare qualcuno,
allora esiste anche la possibilità di trasformare una parte della proprietà
pubblica in proprietà privata.
Diversamente, ogni forma di lavoro servile può essere spiegata solo nel
senso che determinate persone, uscite sconfitte da uno scontro bellico,
venivano considerate da tutti i membri della tribù come persone di seconda
categoria, i cui diritti erano limitati, e che sostanzialmente dovevano
porsi al servizio di tutti i membri della tribù.
Se anche qualcuno della tribù poteva pretendere che una determinata persona
sconfitta da lui stesso in battaglia, si ponesse al suo diretto servizio, di
regola questa persona non svolgeva mai una quantità tale di mansioni da
permettere a chi la dominava di non fare più nulla.
Spesso anzi lo stato di servitù era a tempo determinato e veniva considerato
come propedeutico alla totale integrazione negli usi e costumi della tribù.
Persino nei tempi delle formazioni schiavistiche erano previsti
periodicamente degli anni sabbatici in cui era possibile un qualche
affrancamento degli schiavi.
La nascita dello Stato nelle societA' antiche
1. Introduzione
La concezione materialistica della storia spiega la nascita dello Stato come
effetto dello sviluppo delle forze produttive che producendo differenze
sociali (di casta e poi di classe), e quindi lo sfruttamento, rende
necessario il controllo e la repressione degli sfruttati. La forma che
assume lo sfruttamento determina l'intera struttura sociale e la fisionomia
delle forme politiche e ideologiche prevalenti. Ogni livello di sviluppo
delle forze produttive avviene all'interno di determinate relazioni sociali.
Pertanto non esiste un livello assoluto di sviluppo delle forze produttive
poiché queste sono specifiche di ogni modo di produzione. Il rapporto tra
forze produttive e rapporti di produzione è dialettico e si connette alle
forme politiche a cui lo sviluppo della produzione da luogo. Lo Stato, le
istituzioni politiche, sono assieme parte dei rapporti di produzione ed
espressione delle forze produttive. Per questo le trasformazioni sociali,
che sono nella loro essenza modificazioni dei rapporti di produzione atte a
garantire un nuovo periodo di sviluppo delle forze produttive, partono dall'
abbattimento dello Stato che è il custode delle vecchie forme di produzione.
La storiografia occidentale, da Hegel ai filosofi francesi e inglesi, ha per
secoli considerato la società asiatica come forma congenita di esistenza dei
popoli orientali, fonte della loro arretratezza storica rispetto all'
occidente. Relegando quel modo di produzione alle popolazioni asiatiche,
essa ha anche immaginato una successione di fasi storiche lineare, semplice,
meccanica.
I fondatori del marxismo dimostrarono che questa visione lineare della
storia è assolutamente inadeguata e che sono proprio gli influssi reciproci
tra le diverse civiltà e forme di produzione, oltre che i fattori
ambientali, a spiegare lo sviluppo più o meno rapido delle diverse
regioni[1]. Essi dimostrarono anche che il modo di produzione asiatico si
era esteso ben oltre quanto si era supposto in precedenza ed era alla base
della stessa civiltà europea: "è una menzogna storica che questa proprietà
collettiva sia mongolica. Come accennai diverse volte nei miei scritti, essa
è di origine indiana e si riscontra perciò presso tutti i popoli civili
europei all'inizio del loro sviluppo. La forma specificamente slava (non
mongolica) di essa in Russia (e che si ripete anche presso degli slavi
meridionali non russi) ha anzi la maggiore somiglianza, mutatis mutandis,
con la variante antico-tedesca della proprietà collettiva indiana."[2]
La società asiatica ha preceduto funzionalmente lo sviluppo delle classi in
tutti i paesi in cui nacque originariamente lo Stato, anche se, in alcune
zone, la fase asiatica è stata talmente breve da risultare appena
percettibile, lasciando rapidamente il passo al modo di produzione antico.
Questo vale soprattutto per i paesi europei, tanto che gli stessi fondatori
del marxismo, che cominciarono a studiare la nascita dello Stato proprio
dall'esperienza europea, considerarono inizialmente questa linea di sviluppo
come il caso generale (Engels nell'Origine della famiglia discute solo della
nascita dello Stato a Roma ed Atene). Scoprirono in seguito che la nascita
dello Stato avvenuta in Grecia e in Italia (e forse in Giappone) è
abbastanza rara mentre un lungo periodo "asiatico" è la norma, anche se
parlare di norma, nell'analisi storica, è improprio. Non si tratta, infatti,
di un calcolo statistico ma, appunto, di un legame funzionale. Il modo di
produzione asiatico rappresenta un livello più primitivo di sviluppo della
società divisa in classi, ne rappresenta il presupposto naturale anche se la
fase asiatica può essere saltata o ridotta, per effetto delle influenze
reciproche delle diverse civiltà.
Lo studio del modo di produzione asiatico da parte dei fondatori del
marxismo non rispondeva solo a finalità di analisi storica ma era, come
sempre nella storia del movimento operaio, strettamente intrecciato a
questioni di scottante attualità politica. I populisti russi ritenevano
possibile, per la Russia, evitare il capitalismo, passando dalla comunità
rurale al socialismo. Marx ed Engels non esclusero che ciò fosse possibile a
patto che si desse come condizione preliminare la vittoria della rivoluzione
socialista in occidente. Analizzando la situazione russa, Marx ed Engels
approfondirono la natura e l'estensione del modo di produzione asiatico.
Abbiamo tracce di questo lavoro teorico sia nelle opere di Marx (tra cui,
soprattutto, le Forme) sia nella loro corrispondenza. In particolare, in uno
scambio epistolare concernente la proprietà fondiaria, svoltosi nel giugno
del 1853, Marx sostiene che per capire l'arcano delle società orientali
occorre partire dal fatto che non vi esisteva proprietà privata della terra
e Engels risponde: "l'assenza della proprietà fondiaria è in realtà la
chiave per tutto l'Oriente; qui risiede la storia politica e religiosa. Ma
per quale motivo gli orientali non arrivano ad avere una proprietà
fondiaria, neanche quella feudale? Io credo che la ragione risieda
soprattutto nel clima, assieme con le condizioni del suolo.l'irrigazione
artificiale è la prima condizione dell'agricoltura, e questa è cosa o dei
comuni o delle province o del governo centrale"[3].
E Marx a sua volta osserva, sintetizzando i tratti fondamentali del modo di
produzione asiatico: "Ciò che spiega completamente il carattere stazionario
di questa parte dell'Asia.sono le due condizioni che si sostengono a
vicenda: 1) i public works come cosa del governo centrale; 2) accanto ad
essi tutto l'impero, escluse le poche città maggiori, dissolte in villages,
che possedevano una completa organizzazione a sé e costituivano un piccolo
mondo a sé"[4].
Dopo la morte di Marx, del modo di produzione asiatico si parlò poco e
alcuni teorici marxisti, come Plechanov, ne negarono l'esistenza. Questo
avvenne soprattutto per ragioni politiche. Alla maggioranza riformista della
Seconda internazionale faceva comodo asserire che tutti i paesi si dovessero
sviluppare come le potenze europee. Si trattava della famosa politica
coloniale socialista, giustificazione teorica dell'appoggio all'
imperialismo.
La Terza internazionale, la cui nascita si accompagnò al risveglio delle
masse dei paesi coloniali, si occupò ampiamente del problema. Alcuni
studiosi (Rjazanov, Varga) diedero interessanti contributi sul tema.
Purtroppo, questo, come ogni altro dibattito teorico, si spense con la
stalinizzazione dell'Internazionale. Il concetto di modo di produzione
asiatico cadde in disgrazia per due ragioni: innanzitutto Stalin, volendo
giustificare l'alleanza con il Kuomintang, aveva interesse a che la Cina
fosse equiparata a un paese feudale il cui sviluppo avrebbe ricalcato il
modello europeo; in secondo luogo, la discussione di uno Stato di casta
faceva in qualche modo risaltare la natura della stessa Russia stalinista.
Ad esempio nel 1930 Rakovskij, dirigente dell'opposizione di sinistra,
paragonò apertamente la burocrazia sovietica al funzionariato asiatico. Da
lì in poi i sostenitori del modo di produzione asiatico vennero identificati
con i trotskisti e con ciò bollati di infamia e spesso messi a tacere dal
plotone di esecuzione.
Nel dopoguerra alcuni studiosi hanno fornito dei contributi a questo
dibattito, soprattutto affrontando il rapporto tra società asiatica e
stagnazione socio-economica. Purtroppo con rare eccezioni, non compresero il
nocciolo della posizione di Marx ed Engels sul modo di produzione asiatico,
confinandolo ad oriente e confondendo classi e caste. Ad esempio in La
formazione del pensiero economico di Marx, Mandel, riduce la formazione
asiatica all'India e della Cina, e la caratterizza con lo strapotere dello
Stato che impedisce lo sviluppo del capitalismo. Mandel scrive anche
"accanto ai contadini esistono non solo i funzionari pubblici ma anche dei
proprietari fondiari che s'appropriano illegalmente della proprietà del
suolo, dei mercanti e dei banchieri"[5] considerandoli tutti come classi. Al
contrario, i funzionari non sono una classe, la proprietà privata della
terra non esiste e mercanti e banchieri vivono del tutto ai margini di
questo modo di produzione.
Sin dalle prime riflessioni di Marx ed Engels sulla società asiatica, la
questione decisiva da approfondire è stata perché questa formazione
sopravvisse per millenni ad oriente mentre in Grecia e a Roma entrò subito
in crisi. La risposta è da ricercarsi nel diverso ritmo di sviluppo delle
forze produttive: in Attica e nel Lazio, l'esplosione demografica condusse
rapidamente ad un crescente surplus che andava oltre le ambizioni
 "palaziali" e che era dunque destinabile allo scambio. Inoltre la crescita
della popolazione metteva in contatto gentes confinanti, rendendo possibile
materialmente, e concepibile alla mentalità gentilizia, lo scambio stesso.
Questo portò ad un veloce sviluppo della proprietà privata della terra. Una
volta che la produzione divenne mercantile e la proprietà privata dei mezzi
di produzione arrivò a dominare la società, anche una immane distruzione
delle forze produttive non poteva ricondurre la civiltà alle forme
proprietarie precedenti. Così, quando i barbari distrussero l'impero romano,
non vi si ricreò il modo di produzione asiatico perché i capi guerrieri si
divisero le terre vincolandovi i contadini che dunque sfruttavano
privatamente. Il genio del valore di scambio e del denaro, una volta uscito
dalla bottiglia dei rapporti di produzione, non vi tornò più.
Certo, gli effetti dell'emergere di rapporti mercantili di produzione non
furono istantanei: ci vollero circa 400 anni per disgregare il carattere
collettivo del sistema feudale nell'Europa occidentale e molto di più nelle
steppe russe, dove la comunità slava sopravvisse fino alla rivoluzione d'
ottobre. La proprietà feudale veniva esercitata da una classe che aveva
ancora alcuni caratteri della casta (il cavaliere "vinceva" la terra grazie
al sovrano, dunque il carattere di casta fu prevalente fino a Carlo Magno),
ma nel complesso era proprietaria dei mezzi di produzione (i contadini e la
terra). In definitiva, in Europa, il modo di produzione asiatico finì già
quando i Greci respinsero l'invasione persiana.
Storicamente, lo Stato è dunque sorto prima delle classi sociali e per tutta
un'epoca si è mantenuto più indipendente da queste rispetto a quanto accade
nei modi di produzione classisti in quanto non vi era piena coincidenza tra
classi economiche, sociali e politiche e la natura delle classi era ancora
annebbiata da aspetti non economici. Nella società asiatica la
differenziazione sociale è politica prima ancora che proprietaria, talché
occorre parlare di casta (politicamente dominante) che domina un'unica
classe produttiva (in questo senso economicamente dominante) di contadini
che sono proprietari collettivi della terra.
L'esercizio della proprietà collettiva trova paradossalmente espressione
proprio nella dominazione politica della casta che utilizza un privilegio
politico per promuovere il proprio privilegio economico finché questo non
arriva a cristallizzarsi in differenziazione proprietaria della terra. Non
dalle classi ma da un surplus appropriabile nasce il primo Stato e la casta
che lo domina sfrutta la popolazione non direttamente, tramite i rapporti di
produzione, ma attraverso il suo ruolo politico, il suo "potere funzionale".
Si può dunque dare sfruttamento al di fuori dei rapporti di produzione di
classe. E' anzi lo sfruttamento stesso che ha contribuito storicamente a
creare i primi rapporti di produzione propriamente classisti.
2. Dalle orde primitive al modo di produzione asiatico
Per la stragrande maggior parte del suo tempo, da che è divenuto un animale
cosciente attraverso il lavoro associato, l'uomo ha vissuto in formazioni
sociali prive di qualunque gerarchia sociale o sessuale, dove la divisione
del lavoro o la presenza di un capo non comportavano l'accumulo di alcun
privilegio. L'umanità si è staccata evolutivamente dagli altri ominidi in
quello che Engels definiva lo stato selvaggio, quando superò le condizioni
di produzione date, ovvero la semplice raccolta. Le orde di uomini divennero
cacciatori sempre più efficienti, il che portò ad un aumento della
popolazione, che a sua volta condusse alla necessità di procacciarsi sempre
più cibo, cacciando più animali e soprattutto animali più grandi. Così si
instaurò un circolo virtuoso di sviluppo delle forze produttive che ruppe l'
equilibrio naturale dando all'uomo il controllo, seppur parziale, sulle
condizioni materiali della propria esistenza.
La caccia ai grossi erbivori richiedeva un grado di complessità della
produzione già irraggiungibile da altri animali, e spingeva verso uno
sviluppo tecnologico (armi più efficienti, l'uso del fuoco) che portò all'
estinzione di molte delle stesse prede. Questo costrinse l'uomo a cercare
nuove forme di sostentamento. Lo sviluppo della popolazione, che all'epoca
equivaleva, almeno nel medio periodo, allo sviluppo tout court delle forze
produttive, richiedeva la nascita di nuove attività. Così si svilupparono l'
allevamento e la coltivazione nei luoghi in cui ciò era possibile
(Mesopotamia, valle dell'Indo, ecc.). Lo sviluppo di queste attività
permetteva comunità più numerose che si espandevano su territori sempre più
vasti relegando le tribù ancora nomadi in terre sempre peggiori[6].
Lo sviluppo delle forze produttive consentito dalla pastorizia e dall'
agricoltura condusse ad altre innovazioni, che accompagnarono l'ultimo
periodo di quella che Engels definisce la fase della barbarie: la fusione
del ferro, la scrittura alfabetica ecc. Ma esse portarono in dote all'uomo,
oltre al formidabile aumento delle forze produttive, regali molto
spiacevoli. Innanzitutto, l'alimentazione basata su animali nutriti a
cereali e in seguito direttamente sui cereali, seppure permise un aumento
notevole (fino a cento volte) della densità della popolazione, ne minò
completamente la salute. Non appena il sostentamento di un uomo divenne un
costo per un altro uomo, la ricerca di cibo di qualità peggiore a scapito
della salute divenne l'aspetto decisivo dello sviluppo tecnologico. La nuova
alimentazione era il riflesso delle profonde trasformazioni indotte nella
comunità dai nuovi rapporti di produzione.
L'allevamento e l'agricoltura si prestavano ad una appropriazione privata:
nacque prima il possesso e poi la proprietà individuale, e con essi la
famiglia monogamica. Dalle nuove forme produttive proveniva un surplus che
poteva essere scambiato al di fuori della gens, ma anche appropriato:
nasceva il commercio e la sua inseparabile compagna: la guerra. La proprietà
privata, il commercio, la moneta, la schiavitù, la guerra, la subordinazione
della donna e la repressione sessuale e, alla fine, lo Stato furono il
frutto dello sviluppo delle forze produttive. Per la prima volta l'umanità
si divise socialmente e una sua parte ebbe bisogno di un'ideologia a difesa
dei propri privilegi. Nacquero la religione, la morale. Ma la divisione
sociale del lavoro poneva anche la necessità di un suo coordinamento,
ottenuto impersonalmente tramite la moneta, i prezzi, il mercato.
L'ultima epoca della società gentilizia abbracciò un lungo periodo di tempo
e condusse alla società asiatica. La crisi della gens venne causata, come
ogni crisi sociale, dal successo produttivo dell'uomo. Questa struttura
produttiva non fu più in grado di racchiudere il livello crescente di
sviluppo dell'umanità. Anche allo stadio massimo di sviluppo della società
gentilizia (la lega delle tribù degli indiani d'America o delle popolazioni
barbariche europee), essa non poteva accogliere al suo interno alcuna
differenziazione sociale degna di nota e dunque lo Stato. Come scrisse
Engels: "la gens aveva vissuto. Essa venne distrutta dalla divisione del
lavoro che spartì la società in classi e fu sostituita dallo Stato"[7]. In
questa osservazione Engels sottolinea che la divisione del lavoro precede la
spartizione in classi, che genera come sua conseguenza. L'essenza del modo
di produzione asiatico è che questo effetto non si produce.
La divisione funzionale del lavoro, di per sé sufficiente a produrre lo
Stato e lo sfruttamento, non basta a generare le classi. Quello che manca è
l'appropriazione individuale del sovrappiù. Per questo, anche lo sviluppo
del commercio e del valore di scambio vennero successivamente alla
strutturazione di un apparato repressivo. La prima formazione statale si
basava sulla proprietà fondiaria comune, e vi vigeva un divieto rigoroso di
compravendita della terra. Lo scambio, la divisione del lavoro e la moneta
non vi giocavano alcun ruolo. Il lavoro astratto e concreto non si
distinguevano, e il lavoro era immediatamente sociale. Perciò, quando si
diede inizio allo scambio, si trattò di uno scambio di valori d'uso tra
famiglie, tribù, non tra individui, e l'accumulazione, oltre a essere in
valori d'uso, non era privata. Finché la situazione rimase questa, la
società asiatica andò avanti uguale a se stessa.
3. Il modo di produzione asiatico. Storia e caratteristiche essenziali
Il percorso dei popoli del Mediterraneo, prima orde di cacciatori, poi tribù
stanziali di pastori e agricoltori, aveva dunque condotto allo sviluppo di
villaggi gentilizi in cui l'attività produttiva vi si svolgeva su proprietà
collettive (con le diverse modalità analizzate da Marx nelle Forme che
precedono la produzione capitalistica). La proprietà della terra era comune
anche se l'appropriazione poteva già essere privata. Questo tipo di
produzione richiedeva due attività di supporto: la gestione delle terre
collettive e la loro difesa militare. Nacquero così due caste: quella degli
amministratori-sacerdoti e quella dei guerrieri. Tali caste si appropriavano
del pluslavoro comune del villaggio a cui fornivano il proprio sapere
(scientifico e militare). Il pluslavoro era estratto da lavoratori liberi,
per la stragrande maggioranza piccoli contadini, mentre il lavoro schiavile
rimaneva del tutto secondario.
Per rendere fertili le terre occorrevano grandi lavori (irrigazione,
costruzione di canali, ecc.). Ma dato il basso livello di sviluppo delle
forze produttive, conveniva intraprendere questi lavori solo laddove le
terre erano comuni e vi era una casta che aveva acquisito le conoscenze
astronomiche e ingegneristiche necessarie. Senza centralizzazione della
proprietà e dunque del potere politico non poteva sorgere l'agricoltura
stanziale moderna. Il coordinamento dei lavori pubblici, la costruzione dell
'esercito, richiedevano un potere centrale e dunque urbano. Nascevano le
città Stato. Non appena sorse questo potere centrale, tese ad espandersi,
dato che la crescita territoriale era l'unico strumento di sviluppo delle
forze produttive. Le città Stato diventarono imperi. La trasformazione del
pluslavoro rurale in soldati, canali, palazzi e piramidi è l'essenza dello
sviluppo storico della società asiatica; la fusione del comunismo rurale con
una struttura politica centralizzata di carattere statale.
Anche se i primi esempi di questa società li abbiamo in Egitto e in
Mesopotamia, dove già molto anticamente si crearono imperi estesi, spesso in
lotta tra loro, tutte le formazioni statali furono originariamente
asiatiche. La differenza è che in alcuni territori la società venne come
congelata dal basso livello di sviluppo delle forze produttive, e il modo di
produzione asiatico vi sopravvisse fino a quando non incontrò il
capitalismo[8] . In altre regioni entrò rapidamente in crisi per via della
crescita della popolazione o di minacce esterne. Questo condusse ad un'epoca
di passaggio verso nuove forme sociali. L'esito finale di questo processo fu
la nascita della società antica di tipo greco-romano. Nel periodo di
transizione si svilupparono diverse strutture miste in cui si conservavano
vestigia "asiatiche" a volta significative, altre marginali. Ad esempio, in
Attica l'invasione dorica portò alla fusione con le popolazioni preesistenti
con la completa scomparsa dei villaggi gentilizi, base del modo di
produzione asiatico. Così ben presto, accanto alla proprietà fondiaria
collettiva, si svilupparono rapporti di produzione basati sulla proprietà
individuale.
Viceversa a Sparta l'invasione dorica non portò alla fusione con le
popolazioni autoctone ma alla loro totale e permanente sottomissione. Così l
'oligarchia dorica dominava una popolazione di servi che coltivava terreno
pubblico, come poi accadrà con la plebe romana: "Gli Spartiati, tra i quali
era diviso il terreno coltivato dagli iloti, non attendevano che ad attività
militari"[9]. Questa maggior presenza di elementi asiatici spiega l'
arretratezza politica e culturale di Sparta ma anche il fatto che gli
Spartani fossero gli unici guerrieri professionisti dell'Ellade, il che era
anche necessario, dato che le dure condizioni degli iloti producevano
continue rivolte.
Possiamo sintetizzare le caratteristiche essenziali del modo di produzione
asiatico delineate da Marx come segue.
La società asiatica si regge sulla produzione agricola e, in misura assai
più ridotta, artigianale, esercitata da comunità di villaggi, indipendenti
ed autarchici, dove permane la proprietà comune tribale. Lo Stato si
appropria del lavoro coatto degli abitanti dei villaggi con il quale porta
avanti lavori di irrigazione e canalizzazione, necessari allo sviluppo dell'
agricoltura, costruisce opere pubbliche (piramidi, valli difensivi, ecc.),
mantiene l'esercito. Inoltre, si appropria di gran parte del plusprodotto
agricolo per la sussistenza delle caste urbane. Come è naturale, poiché la
produzione è produzione di valori d'uso, anche lo sfruttamento avviene
requisendo valori d'uso (lavoro coatto, sovrappiù alimentare), mentre il
valore di scambio, il commercio e la moneta sussistono ai margini del modo
di produzione[10].
Sotto il profilo della proprietà, seppure la terra è posseduta in concreto
dalle comunità di villaggio, essa è formalmente dello Stato, del re. Quest'
ultimo è un sovrano assoluto la cui autorità promana direttamente dal cielo.
E' il capo dell'esercito e della burocrazia. Esercita la giustizia, nomina i
governatori, tramanda il potere ai propri eredi. Per certi versi, come
detto, è proprietario dei mezzi di produzione, ma solo nel senso che incarna
il vertice della casta che collettivamente si appropria del surplus prodotto
dal lavoro dei contadini. Il re è infine garante dell'unità territoriale
dello Stato che va difesa non solo dai nemici esterni ma anche dalle spinte
centrifughe dei governanti delle singole province che mirano a divenire essi
stessi re o a rendere la propria carica politica una proprietà personale.
Sotto il profilo sociale, la formazione delle classi è appena cominciata:
"le caste, embrione di una differenziazione in classi, sono il prodotto
delle antiche funzioni pubbliche esercitate da alcune persone mantenute a
carico di tutta la comunità"[11]. La casta dominante viene emergendo dal
seno della proprietà fondiaria collettiva, e tende a divenire una classe, ma
non lo è ancora. Finché prevale il carattere collettivo della proprietà, non
può aversi la formazione delle classi. Le classi sorgono proprio dal
processo di creazione della proprietà privata, mentre la proprietà
collettiva, il primo modo di appropriazione umano, mantiene caratteristiche
antitetiche alla proprietà privata così che una proprietà privata collettiva
è semplicemente inconcepibile. Il potere statale è la base del dominio
economico, non viceversa. I funzionari non sono servitori di un rapporto di
produzione ma in un certo qual modo suoi creatori. In quanto depositari del
sapere (essenzialmente connesso alla previsione delle piene e alla
costruzione di canali) possono gestire la produzione e lo Stato. Inoltre,
sono i depositari dell'ideologia dominante[12]. Tutte queste funzioni gli
consentono, successivamente, di trasformarsi in classe dominante ancor più
facilmente di quanto riusciranno a fare i capi militari.
4. Alcuni esempi storici di modo di produzione asiatico
I primi Stati asiatici sorgono in Medio Oriente: "A partire dalla seconda
metà del IV millennio sorgono, fra la Mesopotamia e l'Egitto, le prime
società che sembrano richiamarsi alla forma asiatica. I caratteri essenziali
sono la monarchia.l'amministrazione retta da funzionari, la direzione
accentrata dell'economia, l'invenzione della scrittura."[13]
Nel quadro di queste caratteristiche generali, il modo di produzione
asiatico si sviluppò, come ogni altra formazione sociale, in forme
storicamente specifiche. Alcuni regni (come quello persiano) ebbero un più
spiccato carattere feudale, con una casta di veri e propri vassalli (i
satrapi), seppure anche in tal caso vi era un'importanza decisiva delle
opere pubbliche. In altri casi, la società asiatica nacque da un'invasione.
Ad esempio, in India gli Arya invasori imposero la loro struttura: una tribù
retta da un re (rajan), capo militare, coadiuvato dal consiglio (nobili e
"monaci"). Da quel poco che sappiamo sulla proprietà della terra nella
civiltà Mogol sembra che i pascoli fossero comuni ma, formalmente, il re ne
era l'unico proprietario. Nota Rosa Luxemburg: "L'antichissima
organizzazione economica degli indiani - la comunità di villaggio di tipo
comunista - si era conservata per millenni in diverse forme e aveva compiuto
una lunga parabola storica interna nonostante le tempeste politiche."[14]
Gli Arya trattarono i popoli preesistenti come iloti, senza mai fondersi con
essi, tanto da dare origine al sistema delle caste. Il potere dei sacerdoti
era enorme e produceva, come ovunque si dia separazione tra lavoro manuale e
intellettuale, un'ontologia idealista: "Il sole non sorgerebbe se il
sacerdote non offrisse di buon'ora il sacrificio del fuoco"[15].
La storia di questa casta è analoga a quella di tutti questi gruppi: in
origine il brahamano era il consigliere spirituale della tribù, col tempo
venne a far parte di una casta chiusa (si pensi ai Leviti di cui parla l'
Esodo) spina dorsale dello Stato.
Per trasformare l'India in qualcosa di appetibile gli Inglesi "regalarono"
la terra al Gran Mogol e costrinsero alla vendita i campi comunali, dopo di
che, se ne appropriarono. Così si passò dalla terra collettiva al
latifondismo in pochi anni. Ma come notò la Luxemburg, a differenza di tutti
i conquistatori precedenti "gli inglesi furono i primi.a mostrare una
completa indifferenza per le opere pubbliche di carattere economico", come è
ovvio, per la classe capitalista. Ne seguirono carestie a non finire, un
efficace strumento per creare un consistente proletariato urbano.
Per la Cina sembrerebbe effettivamente esservi stata un'epoca feudale prima
del sorgere dell'Impero, come dimostrerebbero le continue rivolte contadine
contro i nobili. Il feudalesimo era però combinato con elementi precedenti
(clan gentilizi su base religiosa). Ad esempio, solo gli appartenenti al
clan (corrispondenti ai patrizi romani) potevano avere proprietà feudale e
cariche pubbliche. Questo dimostrerebbe che il feudalesimo era in realtà una
forma estrema di dominazione di tipo spartano, come anche si vede dal fatto
che, come a Sparta, i nobili attendevano quasi esclusivamente ad attività
militari e che queste gli erano riservate. I feudatari erano dunque più
simili a capi tribù che a vassalli. Ad ogni modo l'indipendenza venne meno e
questi "nobili" diventarono col tempo semplici funzionari imperiali, gestori
del fondo del "principe".
Per la massa della popolazione che viveva nelle classiche comunità rurali di
villaggio, non mutava molto, continuavano a lavorare terre di cui avevano il
possesso ma non la proprietà che veniva ascritta all'imperatore. Il potere
centrale cercò di sostenere la classe contadina arginando la concentrazione
fondiaria e impedendo addirittura la compravendita di terra. Ma come in
situazioni analoghe a Roma o in Grecia, senza successo. Allo Stato i
contadini dovevano: varie tasse, il servizio militare, il lavoro coatto in
opere pubbliche. Gli schiavi erano per lo più pubblici (minatori, lavoratori
dei monopoli statali, ma anche impiegati), e costituivano forse l'1-2% della
forza-lavoro. Come per gli imperi mesopotamici o per Roma, vi era un
continuo attrito con le popolazioni nomadi (qui gli Unni) che accrebbe la
necessità di un esercito permanente, di opere pubbliche, ecc.
Gli Etruschi rappresentarono per certi versi una situazione intermedia tra
oriente ed occidente. Crearono città Stato aristocratiche, non estranee a
influssi greci, ma allo stesso tempo con notevoli residui asiatici. L'Italia
etrusca emerse dall'età del bronzo con la civiltà villanoviana, villaggi
collinari fortificati dominati da una tribù, con una società ancora
gentilizia e la proprietà comune delle terre. La successiva fase di
dissoluzione dei rapporti tribali non portò però alla nascita della classica
casta urbana asiatica ma al sorgere di gruppi aristocratici che seppure
possedevano la proprietà fondiaria collettivamente, la facevano lavorare da
loro servitori personali (i clientes, la cui origine era gentilizia, ma che
erano divenuti dipendenti del singolo aristocratico). Questa novità, che fu
la base dello sviluppo di Roma, si univa poi a palazzi ricchi e maestosi, a
tombe opulente, classiche caratteristiche "orientali". Allo stesso modo
anche l'esercito vedeva la compresenza di elementi greci ed asiatici. Gli
etruschi usavano la tattica oplitica, ma a capo della falange c'era l'
aristocratico sul carro come tra i persiani. In sintesi:
"La società arcaica, formatasi lentamente nella "grande Etruria" sulla
distruzione dell'economia di villaggio avviata all'indomani dell'
appropriazione privata della terra tra X e IX secolo a.C., ha trovato già
nell'VIII secolo a.C. nella servitus di larghi strati contadini lo strumento
economico e il rapporto sociale di produzione ideale.l'elemento dominante
della produzione era rappresentato dal lavoro involontario non schiavile:
ciò che ha reso peculiare l'area etrusca è stata la capacità di riproduzione
del sistema fino alla piena età ellenistica, laddove nel resto del
Mediterraneo più civilizzato era da tempo scomparso."[16]
Quanto all'America, quando arrivarono gli spagnoli, il regno azteco
attraversava la fase di declino del modo di produzione asiatico. Gli
Aztechi, come gli Arya o gli spartani, avevano invaso il territorio di
popolazioni più evolute e le avevano sottomesse. Si erano appropriati
collettivamente delle terre che venivano coltivate dalle comunità rurali
secondo lo schema asiatico classico: "Nel dominio fondiario, la società
azteca non conosce il diritto di proprietà. Le terre possono appartenere
allo Stato che le gestisce sia direttamente, sia per il tramite di
istituzioni pubbliche. Oppure appartengono a comunità, le città stesse."
[17].
Ogni cittadino aveva il diritto-dovere trasmissibile di coltivare un lotto
di terra "naturalmente inalienabile" (come per l'ager publicus romano). Il
signore, che era un guerriero, veniva premiato dall'imperatore con il
diritto di usufrutto di un dominio imperiale. All'arrivo degli spagnoli il
commercio e il denaro erano già presenti, seppur ancora in posizione
secondaria. In questa società si conosceva la schiavitù di guerra, per
debiti, per punizione e anche volontaria (la più frequente). In pratica un
povero si rivolgeva ad un signore, stipulando un contratto con cui otteneva
subito il pagamento del proprio lavoro di una vita e viveva di quello.
Finito di spendere andava a servire il padrone (una pratica che presenta
tratti di similitudine al rapporto tra clientes e aristocratico tipico della
civiltà etrusca). A dominare lo Stato vi erano le classiche due figure,
guerrieri e sacerdoti: "Due caste dominanti si spartiscono il terribile
compito di governare: i preti e i guerrieri"[18] .
Come successe in India e nel Peloponneso, dalla sottomissione dei popoli
indigeni emerse un'ideologia della violenza che, nel caso azteco, si
incentrava sui sacrifici umani rituali. Ma poiché i guerrieri avevano un
compito agevole, dato che gli scontri armati si risolvevano in brevi
scaramucce quasi rituali volte a catturare prigionieri da sacrificare, erano
i preti a gestire il vero apparato repressivo: i sacrifici. I sacerdoti
aztechi svilupparono pratiche sacrificali raffinate e spaventose. Il
prigioniero veniva drogato, ubriacato e poi spesso fatto faticare fino allo
sfinimento e infine ucciso in vari modi (scuoiato, accoltellato, decapitato,
buttato in una pentola ecc.), i teschi esposti in lugubri monumenti. Sebbene
alcuni abbiano voluto vedere in questo un'usanza "tribale" o legata all'
innato sadismo umano, la realtà è che si trattava di pratiche aventi una ben
precisa connotazione sociale: "La presenza perpetua e pletorica di questi
trofei, visi suppliziati ben presto ridotti allo stato di crani perforati,
ispira al popolo un rispetto misto a terrore.il sacrificio si impone come
strumento di dominio; esso instaura, tramite il superamento che esso stesso
promuove, una legge "soprannaturale" che conferisce potenza al suo
 detentore"[19].
Questo vale anche per l'antropofagia, che non serviva certo a sfamare ma
come estremo avvertimento: "l'antropofagia appare chiaramente come una
cerimonia di casta: bisogna essere nobili, militari o negozianti per avere
il diritto di mangiare la carne umana; quanto alla gente comune e ai
contadini, essi ne sono privi"[20].
Infine, il modo di produzione asiatico prevaleva anche in Africa, laddove la
società aveva superato il livello gentilizio: "Quando i francesi
conquistarono l'Algeria.dominavano le antichissime istituzioni sociali ed
economiche. se nelle città. dominava la proprietà privata e, nelle campagne,
già grandi estensioni di terra erano state usurpate come demanio statale dai
vassalli turchi, tuttavia, quasi la metà della terra coltivata continuava ad
appartenere in proprietà indivisa alle tribù arabo-cabile; e qui vigevano
ancora secolari, patriarcali costumi"[21].
Cioè dominava una struttura semigentilizia simile alla zadruga slava. I
francesi distrussero questa proprietà collettiva. Lo stesso fecero gli
europei nel Transvaal, seppure con finalità diverse: i boeri per sviluppare
la piccola economia schiavile, l'imperialismo britannico per appropriarsi di
nuove colonie. Alla fine i boeri vennero spazzati via e gli inglesi
trasformarono i capitribù in proprietari terrieri: "Ciò urtava in pieno con
la tradizione e coi rapporti sociali dei negri, giacché la terra era
possesso collettivo delle tribù indigene, e perfino i capi più crudeli e
dispotici.avevano soltanto il diritto e il dovere di assegnare ad ogni
famiglia un appezzamento, che però rimaneva in suo possesso solo finché
effettivamente coltivato"[22].
La stessa situazione si trovava in Egitto, dove le terre dei villaggi furono
privatizzate con gravi conseguenze (dato che, come ovunque, solo la
proprietà collettiva rendeva conveniente e necessario lavorare per il
sistema di irrigazione, le dighe, ecc.).
Le fonti storiche dimostrano dunque che il modo di produzione asiatico lungi
dall'essere confinato in Medio oriente, è la forma storicamente "ordinaria"
in cui viene ad esaurirsi la società gentilizia. In alcune zone ha dominato
indisturbato per millenni fino all'arrivo delle navi europee.
5. L'origine dello Stato nella Grecia classica
Lo Stato ateniese, che ha poi influenzato la nascita degli altri Stati
analoghi nel Mediterraneo, sarebbe così un'eccezione storica e non la
regola. E' quindi tanto più opportuno analizzarne le caratteristiche
specifiche[23].
In Grecia la formazione asiatica dello Stato durò molto poco rispetto ai
paesi vicini (Persia, Egitto, ecc.). Infatti, le civiltà tipicamente
asiatiche cretese e micenea vennero distrutte da una combinazione di
invasioni, crisi interne e sconvolgimenti naturali. L'età minoica
rappresentò la fase puramente asiatica della storia greca. La terra era
ancora formalmente comune, anche se l'appropriazione dei suoi frutti era
parzialmente individuale e il re (come indica Omero) si considerava già il
proprietario dei terreni quale rappresentante della comunità. La schiavitù
era appena all'inizio, infatti, ad esempio, i marinai, nell'Odissea sono
tutti volontari, mentre i piccoli contadini che coltivavano la terra
comunitaria rappresentavano ancora la forma dominante di produzione.
Infatti, una vera divisione del lavoro e gerarchia vigeva solo tra i
funzionari del re o del tempio. Sulle ceneri della civiltà minoica si
sviluppò la civiltà micenea che, in sintesi, rappresentò un passaggio verso
il mondo greco classico con diversi tratti di similitudine con la civiltà
etrusca.
L'epoca asiatica greca, l'età del bronzo, terminò con l'invasione dei Dori,
che diedero inizio all'età del ferro. La sconfitta della civiltà micenea non
fu un caso ma dipese dal fatto che gli invasori, essendo organizzati in
strutture tribali, non temevano di armare con il ferro tutto il popolo. Così
non solo avevano una superiorità tecnologica (il ferro sul bronzo) ma anche
numerica (non avendo classi armavano tutti gli uomini, mentre i micenei
dovevano tenerne disarmata la maggior parte).
Per diversi secoli, la distruzione del modo di produzione asiatico lasciò la
Grecia in uno stato di stagnazione. Nel tempo, le tribù di invasori
divennero stanziali e si appropriarono delle terre attraverso dei clan che
avevano acquisito un carattere quasi nobiliare escludendo dalla proprietà le
popolazioni precedenti. La proprietà privata della terra andava creando una
classe di lavoratori all'inizio, liberi, poi, per il fenomeno della
schiavitù per debiti, schiavi. La nascita di una classe senza terra sviluppò
il commercio, lo scambio di lavoro astratto, la circolazione monetaria
grazie all'usura e al debito. Inesorabilmente le terre si andarono
concentrando nelle mani di pochi mentre cresceva il numero di schiavi e
poveri. Cominciò così un'epoca di scontri sociali permanenti citata, ad
esempio da Aristotele nella Costituzione degli ateniesi, in cui descrive
quella che è già una vera lotta di classe tra proprietari terrieri e
braccianti che si innestava su una struttura politica che escludeva dalla
proprietà e dal potere politico tutti coloro che non appartenevano ai clan
nobiliari dominanti. Il sorgere delle classi e dunque della povertà, pose la
società in uno stato di perenne conflitto.
Alle crescenti minacce l'aristocrazia rispose con la creazione di corpi di
uomini armati a difesa della sua proprietà privata. Nasceva lo Stato
antico[24]. Ma la semplice repressione non poteva tenere sotto controllo le
classi subalterne che costituivano ormai gran parte della popolazione.
Occorreva un patto sociale. Questo fu il senso della riforma di Solone ad
Atene, che concesse ai lavoratori "tanti privilegi quanti bastavano"
(Finley), ovvero abolì la schiavitù per debiti e concesse la partecipazione
alla vita politica, permettendo all'imperialismo ateniese due-tre secoli di
sviluppo economico e culturale. In questo periodo gli schiavi erano ormai la
gran parte della popolazione (almeno il 95% con i meteci, secondo Engels,
secondo altre fonti il 50-60%), ma la struttura di classe si mescolava con i
residui della vecchia divisione gentilizia che venne definitivamente
eliminata solo con la costituzione di Clistene, che suddivise la popolazione
in base al demo di appartenenza e alla classe censuaria-militare
(cavalleria, opliti, flotta), facendo scomparire ogni riferimento alla gens.
In altre città, le vecchie strutture gentilizie si mantennero anche dopo il
sorgere dello Stato, come vediamo a Sparta dove accanto a istituzioni
politiche a quelle ateniesi si manteneva la apella che era un residuo della
democrazia militare tribale.
Le città Stato greche, circondate da nemici assai più forti, non potevano
espandere l'economia schiavile oltre il limitato ambito delle popolazioni
elleniche. Per questo, quando la Macedonia unificò il paese e conquistò il
regno persiano, non vi condusse la società schiavile ma ne assunse le
caratteristiche: Alessandro divenne un re persiano. Costruì un impero che si
definisce "ellenico" per la cultura, ma che per la struttura sociale era
molto più vicino alle formazioni asiatiche che al mondo delle poleis.
6. Roma, l'apogeo della forma statale schiavile
A Roma toccò in sorte di perfezionare e portare alle sue forme più estreme
il sistema economico schiavile, sviluppando compiutamente i contrasti
sociali insiti in esso.
Roma nacque fondendo la struttura sociale tipica di una città etrusca (lo
stesso nome Ruma deriva da una famiglia etrusca) con le ancora forti
strutture gentilizie in una formazione peculiare. Si mantennero deboli
tratti "asiatici" (l'ager publicus di proprietà di tutta la popolazione ma
formalmente del re), con i senatori che si appropriavano dei frutti delle
terre pubbliche di cui non avevano ancora la proprietà individuale e per
certi versi, nemmeno quella collettiva. La struttura politica era di stampo
gentilizio-ellenico. I capi delle famiglie gentilizie originali,
tradizionalmente 300, formavano il senato. Anche se questa istituzione si
andava staccando dal suo ruolo originale, sopravvivevano altre strutture
gentilizie, come i comitia curiata in cui il popolo raccolto per curie (cioè
fratrie) approvava o respingeva le proposte a maggioranza assoluta ed era
retta da un funzionario eletto, il rex, residuo della democrazia militare
gentilizia.
Lo Stato romano nacque come corpo di uomini armati e di istituzioni a difesa
non della proprietà, che era ancora comune, ma del diritto di appropriarsi
collettivamente dei suoi frutti secondo uno schema solo parzialmente
asiatico. Ciò dipese soprattutto dal rapido aumento demografico. Ben presto
le gentes originali della zona divennero una minoranza della popolazione - i
patrizi - trasformandosi in una corporazione chiusa separata dai nuovi
venuti, la plebe. Ma finché la casta senatoriale basava il proprio potere
sullo sfruttamento collettivo, permaneva il carattere asiatico dello Stato.
A questa appropriazione comune si affiancò assai presto il ruolo dei
clientes, come nell'Etruria, servitori al servizio diretto di un senatore.
Così, quando Roma cominciò ad espandersi, lo Stato era già di tipo greco
piuttosto che asiatico. Allo stesso tempo, anche i residui della società
gentilizia stavano scomparendo per la rapida espansione territoriale e
demografica, incompatibile con la suddivisione del popolo in curie. L'
invasione di Roma da parte dei Galli nel 387 a.C. accelerò il ritmo delle
riforme sociali. A dire il vero, una prima riforma avvenne anche prima,
essendo tradizionalmente attribuita a Servio Tullio che si sarebbe ispirato
a Solone per creare una costituzione censuaria di tipo attico.
Questa riforma aveva contribuito alla concentrazione della ricchezza in mano
al senato, tanto che a seguito della sconfitta contro Brenno ci furono
rivolte e sommosse che portarono a una totale revisione dei rapporti tra
patrizi e plebei (le leggi Licinie). L'essenza del nuovo patto sociale fu un
'alleanza tra i patrizi, casta-classe dominante dello Stato romano[25], e la
plebe, a cui il senato fece diverse concessioni economiche e politiche e in
cambio ne ricevette l'arruolamento in massa nell'esercito. Fra le altre
cose, fu vietato a chiunque di possedere oltre 500 iugeri di terra pubblica
e fu dato più peso all'assemblea popolare (quella che ad Atene era la
bulè)[26]. Il rapporto tra patrizi e plebei non era un rapporto tra
proprietari dei mezzi di produzione e lavoratori liberi. La ricchezza e il
prestigio tradizionale del senato si basavano ancora sulla gestione
collettiva dell'ager publicus.
Ma questa forma di proprietà non veniva estesa alle terre conquistate,
talché, col passare del tempo, l'ager publicus perse rilevanza. L'espansione
militare (che ampliava il territorio della città ma anche l'importanza del
commercio) avvantaggiava solo coloro i quali riuscivano ad accaparrarsi le
nuove terre (di solito, singoli senatori) e non tutta la casta dominante. Ma
sebbene il commercio, e particolarmente il commercio di uomini, cominciasse
a diventare importante, nel primo periodo repubblicano, la schiavitù non era
ancora il rapporto di produzione dominante. Nel terzo secolo a.C. la società
romana comprendeva circa 3 milioni di cittadini liberi e 2 di schiavi.
Questi ultimi, quasi tutti autoctoni, erano parte della famiglia (lo
dimostra il fatto che la parola famiglia deriva dal termine latino famulus,
schiavo domestico), e seppur senza diritti personali, non conducevano una
vita particolarmente dura.
La forma principale di reclutamento dello strato schiavile era ancora la
schiavitù per debiti e per necessità familiare o la semplice riproduzione
degli schiavi. Prevaleva ancora la produzione di valori d'uso, e il
pluslavoro estorto ai plebei e agli schiavi veniva ancora principalmente
utilizzato per accrescere i valori d'uso dei senatori, anche se non era
sconosciuta l'accumulazione sotto forma di denaro. Lo sviluppo del commercio
condusse a quello della circolazione monetaria, dato che nel mondo antico la
moneta è strettamente connessa al commercio di schiavi. Solo nel 269 a.C.
Roma sentì l'esigenza di iniziare il conio delle monete. Il valore di
scambio stava avvolgendo l'urbe, il modo di produzione asiatico l'aveva
abbandonata.
L'accordo tra patrizi e plebei fu la carta vincente dell'espansionismo
romano. La pace sociale permise di armare la plebe e dunque superare i
piccoli eserciti di clientes tipici delle città Stato etrusche ma anche le
formazioni oplitiche della Grecia classica. Secondo la suddivisione delle
famose 12 tavole, l'esercito aveva circa 20.000 effettivi, una cifra
inaudita per l'Italia dell'epoca. Naturalmente, l'altra faccia di questo
esercito più ampio ed efficiente, era costituito dalle numerose concessioni
fatte dal senato alla plebe. Nel tempo la plebe, soprattutto nel suo strato
più ricco, acquistò un peso crescente sulla gestione dello Stato e modificò
le istituzioni in tal senso (ad esempio attraverso la conquista di uno dei
consoli, che doveva essere di estrazione plebea, con la possibilità di
accedere alle più alte cariche ecc.). Questo dimostra che con lo sviluppo
della produzione schiavile diversi strati della plebe erano ormai divenuti
una frazione della classe dominante, interessati pertanto al rafforzamento
dello Stato e non più al suo rovesciamento.
Dunque, ai patres, la casta senatoriale che aveva ormai un carattere di
classe, si aggiunse una nuova classe mercantile, dedita soprattutto al
commercio di schiavi, che spingeva per una politica espansionista. Il senato
divenne la struttura in cui gli interessi di questi due gruppi si andavano
fondendo per una obiettiva convergenza storica: anche i vecchi ceti
dominanti ormai avevano un interesse diretto nell'espansione militare.
Questa espansione mutò i caratteri politici e sociali di Roma. Innanzitutto,
creò un esercito e una casta di ufficiali permanenti. Ad una struttura
ancora fortemente democratica, dove ogni carica pubblica era elettiva,
temporanea e collegiale (ad esempio, il centurione veniva scelto dagli
stessi soldati per meriti di guerra) si sostituì una casta di militari di
professione, laddove nella Grecia classica ciò era avvenuto solo con l'
invasione macedone.
Le esigenze della guerra avevano dimostrato che la durata annuale delle
cariche era inadeguata e spesso si ricorse alle proroghe. Ciò accrebbe
enormemente il peso de comandanti militari. In secondo luogo, per facilitare
l'espansione territoriale, l'aristocrazia romana concedeva i diritti
giuridici romani ai propri omologhi dei paesi conquistati. In questo modo, i
nobili di ogni città divenivano la quinta colonna romana e Roma assimilava
di fatto la classe dominante locale. Lo Stato perse dunque le
caratteristiche etnico-cittadine delle poleis greche e divenne uno Stato
nazionale. Questo processo fu accelerato dalla vittoria nelle guerre puniche
dalle quali lo Stato romano ritrasse immense ricchezze, appropriandosi di un
impero commerciale che abbracciava metà del Mediterraneo[27].
L'espansionismo al fine di procacciarsi schiavi e tributi divenne il
carattere dominante dello Stato romano e condusse alla fine della plebe,
annientata dalle continue guerre e incapace di competere con le nuove forme
di agricoltura estensiva. La vecchia classe di coltivatori diretti dei fondi
collettivi venne spazzata via dai latifondisti, i quali prendevano le terre
pubbliche, ormai abbandonate, oppure espellevano i coltivatori con la forza.
Alla plebe non rimaneva che entrare nell'esercito o riversarsi in città,
divenendo la massa di manovra di questo o quel demagogo. Senza più nessun
rapporto con il processo produttivo, la plebe viveva di bottino e di sussidi
statali e aveva un interesse diretto all'espansionismo. Così si formò un
nuovo contratto sociale tra senato e plebe, che non si incentrava più sulla
terra pubblica ma su un'alleanza politica basata sull'estrazione del
pluslavoro dagli schiavi e dai popoli sottomessi.
Durante questo periodo i rapporti di produzione divennero definitivamente
schiavili. Nel secondo secolo avanti Cristo, solo a Delo si vendevano
diecimila schiavi al giorno, per lo più destinati all'Italia. In un semestre
arrivava in Italia l'equivalente della popolazione totale di schiavi che vi
viveva solo un secolo prima. Gli schiavi non erano più un complemento al
lavoro familiare nei campi ma il perno della produzione. Non solo gli
schiavi erano sempre di più, e sempre più concentrati (in Spagna c'erano
miniere dove lavoravano 40.000 schiavi), ma vivevano sempre peggio. Infatti
lo sviluppo della produzione schiavile comportava un crollo delle condizioni
di vita della massa degli schiavi come conseguenza delle crescente
difficoltà di procurarsi schiavi tramite l'espansione militare.
Tutto ciò rendeva la classe oppressa sempre più difficile da controllare.
Una volta il pater familias trattava con una certa benevolenza il suo
famulus, una sorta di figlio acquisito. Ora si passò alla brutalità più
spinta. I padroni consideravano gli schiavi parte dei propri beni mobili e
Varrone coniò la famosa definizione di instrumenti genus vocale. Catone,
rappresentante tipico di questo ceto, scrisse un manuale divenuto famoso per
la gestione della manodopera schiavile in cui consigliava ogni brutalità
possibile (come far lavorare gli schiavi legati uno all'altro; uccidere i
vecchi e i malati, frustare e crocifiggere i ribelli e così via).
Gli schiavi cercarono di ribellarsi a questa situazione, dando vita a
rivolte sempre più estese. Le prime ebbero luogo in Sicilia nel 135-132 a.
C. Poi si svilupparono nelle colonie con connotati anche di liberazione
nazionale e religiosa. Ma fu in Italia, dove era concentrata gran parte
degli schiavi, che raggiunsero le proporzioni maggiori con la seconda guerra
civile siciliana e la rivolta capeggiata da Spartaco. Naturalmente, il
livello di sviluppo delle forze produttive rendeva impossibile, da una
parte, tornare alla civiltà senza classi che aveva preceduto la nascita di
Roma, dall'altro il superamento della produzione schiavile. Pertanto i
rivoltosi, dopo aver "liberato" una zona non avevano nulla con cui
sostituire lo schiavismo. Così, si davano al brigantaggio, cercavano di
tornarsene a casa o costituivano piccole città Stato simili alla Roma delle
origini.
Alla fine, questi movimenti vennero annientati, ma terrorizzarono la classe
dominante tanto che una parte di essa cercò di riformare il sistema per
garantirne la sopravvivenza. Questo in sintesi fu il movimento dei Gracchi.
I Gracchi furono protagonisti di un movimento nato come circolo
intellettuale di aristocratici illuminati e divenuto in pochi anni un
partito rivoluzionario che il Senato dovette combattere e distruggere con la
forza. Tiberio era cresciuto politicamente nel circolo degli Scipioni, dove
aveva maturato la necessità di una riforma agraria che arginasse il
latifondismo, esploso dopo le guerre puniche. Nel 133 a.C. venne eletto
tribuno della plebe e presentò una legge agraria che prevedeva:
- il limite di 500 iugeri (125 ettari) sulla sulla quantità massima di terra
dell'ager pubblicus (all'epoca circa il 30% dei terreni sotto il Rubicone)
che poteva essere assegnata ad un singolo individuo;
- la restituzione allo stato di quelle parti di ager pubblicus date in
affitto e la loro redistribuzione ai cittadini poveri, suddivise in quote di
5 ettari ciascuna.
L'aristocrazia senatoria si mosse subito per fermare la legge convincendo un
altro tribuno a porre il suo veto. A questo punto Tiberio Gracco ruppe gli
indugi "parlamentari" e in aperta violazione della costituzione romana
propose all'assemblea la destituzione del tribuno che aveva tradito la
volontà del popolo. Cominciò poi a proporre altre leggi di contenuto
radicale e nominò la commissione che si sarebbe dovuta occupare della
effettiva distribuzione della terra. Il confronto finale avvenne quando morì
il re di Pergamo, Attalo III, lasciando tutti i suoi beni in eredità a Roma.
Tiberio pensò di sfruttare l'occasione e promise di distribuire le ricchezze
tra tutti coloro che avrebbero ricevuto le terre in base alla nuova legge
Sempronia.
Gli aristocratici a questo punto aspettavano la fine del suo mandato per
eliminarlo. Per evitare la reazione aristocratica, Tiberio decise di
candidarsi nuovamente al tribunato per l'anno successivo, violando così
ancora una volta una regola costituzionale. Con queste mosse Tiberio Gracco
enfatizzava la sovranità popolare come forma di potere assoluto. Quando
venne il giorno delle elezioni, un gruppo di senatori con i loro uomini
uccisero Tiberio e tutti i suoi seguaci. Per qualche anno il Senato ebbe
partita vinta. Ma dopo circa dieci anni, il fratello di Tiberio, Gaio
Gracco, divenne tribuno e propose nuovamente leggi a favore della plebe tra
cui la legge frumentaria che fissava un prezzo politico del pane, modifiche
nelle modalità di elezione dei giudici, l'aumento della paga dei soldati,
ecc. Ovviamente, fece la fine del fratello e il movimento venne
definitivamente annientato. Non poteva essere diversamente. Roma era
divenuta una potenza schiavista, dedita alla ricerca di nuovi territori e
popolazioni da sfruttare. L'esercito divenne, per conseguenza, non più il
garante dell'accordo tra patrizi e plebei ma la guardia personale del
condottiero, da cui si aspettava il bottino, ma a cui garantiva lealtà anche
contro la stessa Roma.
Tutte le tendenze politiche, e di conseguenza i capi militari, pur con
diverse posizioni, accettavano la continua espansione territoriale come
unica base per lo sviluppo delle forze produttive. Solo reclutando altri
schiavi era possibile per questa società non crollare su se stessa. Per
questo le idee soggettive dei diversi condottieri ("democratici" come Mario
e Cesare, "conservatori" come Silla e Pompeo) non indicavano sviluppi
sociali differenti ma semmai diversità circa i modi e i tempi di questo
percorso. Questo valeva sia nelle campagne militari all'estero (ad esempio
il "democratico" Cesare nella decennale campagna di Gallia conquistò la
attuale Francia uccidendo un milione di uomini e facendone prigionieri
altrettanti), ma anche nella guerra civile quasi permanente che ormai
dilaniava la capitale. I generali, il cui potere si basava esclusivamente
sulle proprie truppe, si scontravano ripetutamente, arrivando, come Silla, a
marciare su Roma che fu messa brutalmente al sacco come una città nemica.
Continue campagne militari contro popolazioni italiche, o schiavi ribelli,
accelerarono la fine della Roma repubblicana, creando, nei fatti, degli
imperatori a cui, per divenire tali, mancava solo il nome e di restare unici
pretendenti al trono.
Le strutture politiche repubblicane si dimostrarono inadatte a risolvere
questi conflitti sociali che ponevano lo Stato romano in una crisi perenne,
consegnando inevitabilmente la soluzione dei conflitti ai dirigenti
militari. Dalle rovine della repubblica nacque l'impero, conseguenza del
pieno dispiegamento del modo di produzione schiavile. Augusto attuò un
programma di rafforzamento dello schiavismo: sottomise i liberti e rese
molto più difficile liberare gli schiavi, epurò il senato e l'apparato
statale per renderlo consono al nuovo potere che si reggeva su un esercito
che aveva ormai 300.000 effettivi permanenti necessari a garantire la
continua sottomissione di nuovi schiavi e colonie. Per questo la politica
imperiale era spietata verso chi si ribellava: solo nelle guerre contro gli
ebrei, i romani uccisero quasi 600.000 uomini.
Ma la ferocia delle legioni non poteva supplire al fatto che il lavoro degli
schiavi rendeva sempre meno. Il costo irrisorio del lavoro, che per giunta
non ricadeva sul singolo proprietario ma sullo Stato stesso, impediva ogni
avanzamento tecnologico. Di fatto, le tecniche della coltivazione della
terra rimasero immutate per secoli. Gli aristocratici potevano rimediare
alla scarsa produttività semplicemente ampliando le proprie terre[28].
Addirittura ci fu uno sforzo cosciente in questo senso; Vespasiano e altri
imperatori vietarono la diffusione di innovazioni perché avrebbero distrutto
occupazione quando, ancora circa il 90% della popolazione viveva in
campagna. Così, non potendosi aumentare la produttività (il plusprodotto
relativo), l'unico modo per accrescere la ricchezza era accrescere l'
estensione dei propri terreni. La cultura e l'ideologia del tempo
riflettevano la ferocia del potere e insieme la sua lenta decadenza.
Cinismo, disillusione, mancanza di ogni ferma convinzione, sincretismo,
sostituivano le scuole filosofiche del passato. I segni del declino erano
evidenti, a partire da un totale vuoto morale e ideologico in cui si
inserirono facilmente le diverse forme di culti orfici, soprattutto il
cristianesimo.
Più l'impero si ingrandiva e più era costretto a ingrandirsi. Nel tardo
impero gli schiavi costituivano circa due terzi della popolazione, ma poiché
venivano liberati in massa, occorreva un loro approvvigionamento altrettanto
massiccio. Per tutte queste ragioni, nei meandri della società schiavile,
nei latifondi ormai rovinati, cominciarono a sorgere nuove forme di
produzione, in primo luogo il colonato. Giuridicamente era una forma ibrida
perché si trattava di lavoratori liberi che però avevano obblighi verso il
padrone. Il latifondo non veniva frazionato perennemente ma solo affittato,
come era stato una volta per l'ager publicus.
Anche se durò secoli, l'impero fu comunque una forma transitoria di società,
che nascose la sua intrinseca debolezza grazie ad un continuo ampliamento
territoriale[29]. Lo sperpero che la casta imperiale faceva del sovrappiù
era intollerabile per una società che non aveva modo di aumentare le forze
produttive. Non appena l'esercito non riuscì più a difendere un confine
lungo decine di migliaia di chilometri, la stagnazione si trasformò in
tracollo. L'impero soffocava a tal punto la società che parti crescenti
delle province preferivano vivere sotto i barbari. I rovesci militari contro
gli Unni e i Goti portarono alla catastrofe. A queste tribù che puntavano
verso Roma non fu difficile passare, poiché la popolazione li considerava
dei liberatori.
Con la calata dei barbari si chiuse il cerchio. Tribù gentilizie, fino ad
allora sospinte ai margini del mondo dallo sviluppo del modo di produzione
asiatico e poi schiavile, spazzarono via l'impero romano, la forma più
sviluppata e feroce dello schiavismo. Esse avevano dato inizio alla società
antica. Vi posero anche fine.
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Terray E., Il marxismo e le società primitive, (1971)
Tokei F., Essays on the Asiatic Mode of Production, (1979)
Torelli M., Storia degli Etruschi, (2000)
Woods A., Civilization, Barbarism and the Marxist View of History, (2002)



[1] Gli storici stalinisti, basandosi su alcuni passi di Marx, tornarono
alla concezione "lineare" per difendere la politica della burocrazia
sovietica. Un brano utilizzato a questo proposito è il noto passo in cui
Marx enumera i modi di produzione uno dopo l'altro: "A grandi linee, i modi
di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere
designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica
della società.", Prefazione a per la critica dell'economia politica, p. 6.
[2] Marx K., Lettere a Kugelmann, lettera del 17-2-1870, sottolineatura
nostra.
[3] Engels F., Marx K., Carteggio, vol. I, lettera del 6-6-1853.
[4] Op. cit., lettera del 14-6-1853.
[5] Mandel E., La formazione del pensiero economico di Marx, p. 141.
[6] L'analisi materialistica dei rapporti tra le diverse popolazioni
terrestri ha trovato nei recenti lavori dello scienziato americano Jared
Diamond approfondimenti e conferme (si vedano in particolare Il terzo
scimpanzé e Armi, acciaio e malattie). Diamond ha corroborato le idee
fondamentali del marxismo, aggiungendovi ulteriori elementi che ne
rafforzano le conclusioni. L'unica critica che si può muovere a questo
brillante studioso è che spesso ha ripetuto argomenti esposti da Engels o
altri senza saperlo o almeno senza dirlo. Ad esempio, nell'Origine della
famiglia Engels anticipa Diamond su due punti essenziali: spiega il
differente ritmo di sviluppo delle zone del mondo con le "naturali
differenze dei due grandi continenti" e il fatto che sul vecchio mondo c'
erano la quasi totalità degli animali addomesticabili e le piante di cereali
coltivabili; in secondo luogo analizza la storia del linguaggio estraendone
preziose indicazioni sulla diffusione degli indoeuropei in Europa: "i nomi
propri degli animali sono ancora comuni agli Ariani d'Europa e d'Asia, non
così quelli delle piante coltivate". Questi stessi commenti vengono fatti da
Diamond senza riferirsi ad Engels o ad altri studiosi marxisti della Seconda
internazionale (come Plechanov e Labriola), che seppur in modo spesso
deterministico, avevano analizzato questi problemi.
[7] Engels F., L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello
Stato, p. 211.
[8] Come nota la Luxemburg: "l'elemento dominante nell'economia è la
produzione per la soddisfazione dei rapporti interni.Perciò il capitalismo
conduce sempre e ovunque una preventiva campagna di annientamento contro l'
economia naturale in qualsivoglia forma storica gli si presenti", L'
accumulazione del capitale, p. 356.
[9] AA VV, Storia universale, vol. 2, p. 24.
[10] Come nota Marx: "La purezza (l'astratta determinatezza) con la quale i
popoli commerciali - fenici, cartaginesi - apparvero nel mondo antico, è
data precisamente dal predominio dei popoli agricoli" (Introduzione a per la
critica dell'economia politica).
[11] Sofri G., Il modo di produzione asiatico, p. 152.
[12] Esemplare a questo proposito è l'epopea di Gilgamesh, una delle
leggende più antiche della Mesopotamia, forse il prototipo stesso di
narrazione mitica. Questo racconto ci parla di Gilgamesh, re di Uruk, figlio
di semidei, in un'epoca risalente a circa 4500 anni fa dove: "Serviva i
templi una casta sacerdotale nelle cui mani era una volta accentrata quasi
tutta la ricchezza dello stato e dalla quale provenivano archivisti e
maestri, studiosi e matematici. Nei primissimi tempi costoro erano stati i
depositari di tutto il potere temporale in qualità di servitori del dio di
cui amministravano i beni. In seguito, fu un singolo individuo a divenire
'agricoltore affittuario e custode; poi 'la sovranità discese dal cielo', il
potere venne secolarizzato e sorsero le dinastie regali" (N.K. Sandars). La
dimostrazione del pieno carattere asiatico di questa storia la troviamo nel
fatto che nel pantheon, accanto a dei "classici" (il sole, la luna, la
terra, il cielo, il creatore degli uomini ecc.) c'è anche il dio "Ennugi,
guardiano dei canali". La narrazione di come le tribù nomadi vengano
sottomesse alle città, esempio chiarissimo di sviluppo del modo di
produzione asiatico, racconta di quali novità comportò questo sviluppo.
Così, tra le altre cose che Enkidu, l'amico di Gilgamesh che rappresenta una
tribù nomade, ottiene con l'urbanizzazione vi sono nuovi cibi: "davanti a
lui posero il pane, ma Enkidu sapeva solo suggere il latte degli animali
selvatici. Annaspò maldestro, stette a bocca aperta, e non sapeva cosa fare
o come dovesse mangiare il pane e bere il vino forte.". Questo perché, come
si è osservato, la società gentilizia non conosceva i cereali. D'altra
parte, il modo di produzione asiatico è basato su una densità della
popolazione che senza cereali non sarebbe possibile.
Si noti poi che questi culti sono strettamente intrecciati con il potere
politico e con i compiti produttivi della casta sacerdotale. Una classica
invocazione dell'epoca recita: "Ahuramazda, che ha creato questa terra/ che
ha creato quel cielo/ che ha creato gli uomini/ che ha dato agli uomini la
ricchezza delle messi/ che ha posto Dario sul trono" , cit. in AA VV,
Propilei, vol. 2, p. 164.
[13] A. Carandini, L'anatomia della scimmia, p. 108.
[14] R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, p. 359.
[15] Shatapatra B., cit. In AA VV, Propilei, vol. 2, p. 439.
[16] Torelli M., Storia degli Etruschi, p. 280.
[17] Duverger C., Il fiore letale. Il sacrificio nella civiltà azteca, p.
56.
[18] Op. cit., p. 87.
[19] Op. cit., p. 166.
[20] Op. cit., p. 178.
[21] R. Luxemburg, L'accumulazione del capitale, pp. 364-5.
[22] Op. cit., p. 403.
[23] Possiamo limitare ad alcuni brevi cenni queste considerazioni, dato che
la nascita dello Stato nell'antica Grecia è stata delineata magistralmente
da Engels nell'Origine della famiglia.
[24] Curiosamente, questi corpi armati metropolitani all'inizio erano
composti da schiavi: nessun gentile voleva un mestiere tanto degradante.
[25] Utilizziamo questo termine doppio per indicare la natura duplice dei
senatori, casta asiatica in via di trasformazione in classe di proprietari t
errieri.
[26] Sebbene la tradizione attribuisca tanto la riforma serviana quanto le
leggi Licinie ad un calco sull'esempio ateniese, molti osservatori fanno
notare come questa derivazione sia con ogni probabilità una congettura
successiva, dato che all'epoca i contatti tra le due città erano
trascurabili. Avremmo invece un classico esempio di come le stesse
condizioni oggettive conducano a uno sviluppo delle strutture sociali
pressoché identico.
[27] La lotta tra Roma e Cartagine fu una lotta tra due formazioni sociali
inconciliabili. Ma per quanto fossero incompatibili, rimanevano due sistemi
basati sullo sfruttamento. Così quando nel 241-238 a.C. a Cartagine si
sviluppò una lotta rivoluzionaria di contadini e schiavi (Polibio la definì:
"la guerra più crudele e più selvaggia di tutte le guerre della storia che
conosciamo"), Roma restituì i prigionieri alla città e si rifiutò di aiutare
i ribelli, manifestando una chiara solidarietà di classe che aiutò la
spietata repressione.
[28] Possiamo pertanto concludere che la nota osservazione di Rosa Luxemburg
sulla crisi del modo di produzione capitalistico come conseguenza del venir
meno di zone non capitalistiche, seppure non fondata per questa società, si
attaglia perfettamente al modo di produzione schiavile che non aveva un
motore di sviluppo propriamente endogeno e sopravviveva con l'espansione
territoriale.
[29] In questo senso ha una certa somiglianza con lo stalinismo. Le vittoria
nella seconda guerra mondiale (con la conseguente conquista di mezza Europa)
e successivamente, in Cina, Corea, Vietnam, Cuba ecc., nascosero il suo
carattere di degenerazione storica per alcuni decenni rimandando una crisi
comunque inevitabile che i marxisti si aspettavano, in un primo tempo, già
negli anni '40.
INTRODUZIONE GILGAMESH
Che cos'è l'epopea di Gilgamesh? E' uno dei più antichi poemi conosciuti e
narra le gesta di un antichissimo e leggendario re sumerico, Gilgamesh, alle
prese con il problema che da sempre ha assillato l'umanità: la morte e il
suo impossibile superamento.
L'epopea (o più semplicemente "il Gilgamesh") è anteriore ai poemi omerici
(VIII sec. a.C.) e ai Veda indiani (1500 a.C.). Le prime redazioni sumeriche
del poema sono fatte risalire ad oltre il 2000 a.C. Documenti su Gilgamesh
sono stati rinvenuti più o meno ovunque in Mesopotamia, ma anche al di
fuori, come in Anatolia (Hattusa, capitale dell'impero ittita) o in
Palestina (Megiddo).

La terra tra i fiumi
Per orientarvi meglio è bene osservare questa mappa dell'antica Mesopotamia.

La terra che dai libri di storia conosciamo sotto il nome di Mesopotamia si
chiama oggi Iraq e confina a nord con la Turchia, a ovest con la Siria e la
Giordania, a sud con l'Arabia Saudita e a est con la Persia, l'odierno Iran.
I due fiumi che fecero di questa terra la culla di una civiltà, così come il
Nilo per l'Egitto, nascono in Turchia. Essi sono l'Eufrate e il Tigri,
scorrono da nord-ovest a sud-est e sfociano nel Golfo Persico. Secondo il
mito babilonese della creazione, fu il dio Marduk a creare i due fiumi dagli
occhi della dea madre Tiamat.
L'Assiria si estendeva a nord lungo il rapido corso del Tigri. La bassa
Mesopotamia era occupata dalla Babilonia, ma prima ancora era suddivisa in
due regioni. La più meridionale, delimitata a sud dal Golfo Persico era
chiamata «paese di Sumer». L'altra era chiamata «paese di Akkad» da cui
derivò il nome delle prime genti semitiche stanziatesi nel paese.
Il fatto che testi del Gilgamesh siano stati trovati non solo in Mesopotamia
testimonia che fin dall'antichità fu avvertito l'enorme valore artistico di
quest'opera: il Gilgamesh fu subito sentita come un'opera dalla portata
universale. La dimostrazione di questo successo in antichità è data
dall'elevato numero di documenti su Gilgamesh attualmente in nostro
possesso, circa novanta dispersi fra i musei di tutto il mondo. Considerando
che settant'anni fa il numero di testi disponibili era meno della metà, è
probabile che nuovi documenti emergeranno dalle sabbie dell'Iraq.
NASCITA DEL POEMA
Quanto abbiamo visto insieme finora è solo l'ultima, cronologicamente
parlando, di una serie di redazioni che si sono succedute con aggiustamenti
e continui perfezionamenti nel corso dei secoli.
Essa corrisponde alla cosiddetta Epopea Classica o ninivita. Il nome ha
origine dal luogo del ritrovamento: Ninive, capitale dell'impero assiro,
dove si trovava una delle maggiori biblioteche dell'antichità: la biblioteca
di Assurbanipal.

Questa redazione è la più lunga, la più complessa e la meglio conservata
giunta ai giorni nostri. Infatti il Gilgamesh non è un'opera completa. I
documenti a nostra disposizione sono spesso frammentari, scritti in lingue
diverse, appartenenti a epoche diverse, e dal contenuto non sempre omogeneo.
I testi furono scritti in cuneiforme, scrittura più adatta al tipo di
supporto finale, argilla modellata in forma di tavoletta.
Nonostante le lacune, il quadro d'insieme dell'opera è ormai chiarito e
costanti scoperte archeologiche consentono di aggiungere nuovi tasselli sia
all'epopea Ninivita sia alle versioni più antiche, comprese quelle di epoca
sumerica.
L'epopea classica risale a circa il 1200 a.C. ma ci è giunta nella
posteriore redazione neoassira (ca. 700 a.C.). Essa è composta di dodici
capitoli scritti in accadico (non sumerico, anche se luoghi e personaggi
sono spiccatamente di Sumer) su altrettante tavolette.
L'epopea classica è frutto di un'elaborazione letteraria risalente
addirittura agli albori della scrittura e che, per semplicità, ho suddiviso
in quattro fasi.
Fase 1: i poemetti sumerici
Questi poemi scritti in sumerico risalgono al terzo millennio a.C. e
presentano, indipendentemente uno dall'altro, temi o vicende che
confluiranno nell'epopea classica. Non costituivano un corpus epico
unitario. Infatti Gilgamesh, se vi compare, ha ruoli molto eterogenei
(avventuriero, sovrano di Uruk, giudice dell'oltretomba, fratello di Ishtar
dea dell'amore, ecc.).
>>> Approfondimenti sui poemetti sumerici
Fase 2: il poema paleo-babilonese
Il primo vero tentativo di composizione epica unitaria sulle gesta del re di
Uruk avvenne verso il 1800-1600 a.C., ovvero al periodo della prima dinastia
di Babilonia con il suo re prestigioso Hammurabi noto per il "primo" codice
delle leggi (i primi codici sono in realtà di epoca sumerica). Questa saga è
detta poema paleobabilonese di Gilgamesh. Dal poema di Gilgamesh sono tratti
questi splendidi versi che ammoniscono il protagonista ossessionato dalla
ricerca dell'immortalità:
"Gilgamesh, dove vai? La vita che cerchi, non la troverai. Quando gli dei
crearono l'umanità le assegnarono la morte, e tennero per sé la vita! Riempi
il tuo stomaco, Gilgamesh. Fai festa giorno e notte, i tuoi vestiti siano
puliti! Lava il tuo capo, lavati con acqua! Gioisci del bambino che ti tiene
per mano, possa tua moglie godere di te. Questo è il destino degli uomini!"
(riportati in Sap 2001, pp. 161-162)
Questi sono praticamente gli ultimi versi di quanto ci è rimasto del poema
di Gilgamesh. Il protagonista, vagando alla ricerca del segreto per sfuggire
alla morte, viene ammonito da Siduri, la taverniera di Shamash (dio della
giustizia) per aver trascurato l'esercizio del potere cercando una chimera.
Non sappiamo se il poema contenesse la narrazione del diluvio ma è certo che
conteneva almeno l'incontro di Gilgamesh col lontano antenato che
sopravvisse al Diluvio.
>>> Approfondimenti sul poema paleobabilonese
Fase 3: le saghe medio-babilonesi e il mito di Atramkhasis
Al poema di Gilgamesh si ispireranno le posteriori saghe redatte in lingue
extra-babilonese (ittita, elamico, khurrico) e trovate in Anatolia, Siria,
Israele a testimonianza dell'enorme fortuna del poema in antichità. Queste
risalgono al periodo mediobabilonese (XIV-XII sec. a.C.) e contengono un
"dettaglio" in più rispetto al poema: l'intera narrazione del Diluvio
universale. Questa versione è incredibilmente simile a quella che troviamo
nella Genesi.
Le saghe mediobabilonesi più o meno si equivalgono nel contenuto ma sono
assai diverse nella forma. Abbiamo per esempio, saghe in lingua diversa,
saghe in prosa, altre in versi, oppure con estensione variabile da una
all'altra.
Più o meno nello stesso periodo circolava un'edizione autonoma del diluvio,
l'Atramkhasis (il Grande Saggio). Anche questa sarà utilizzata a modello
dagli scribi assiri.
>>> Altre notizie sulle saghe mediobabilonesi
>>> Approfondimenti sull'Atramkhasis
Fase 4: il canone
Riepilogando, le fasi letterarie che porteranno all'epopea di Gilgamesh sono
le seguenti:
 poemetti sumerici (2500 a.C.)
 poema paleobabilonese di Gilgamesh (1700 a.C.)
 saghe mediobabilonesi di Gilgamesh e poema del Grande Saggio (1200 a.C.)
Intorno al XII secolo a.C. il materiale letterario (epico e mitologico) è
pronto per una nuova risistemazione. Forse proprio in quest'epoca, al più
tardi un secolo dopo, avvenne la compilazione in versi delle avventure di
Gilgamesh secondo una struttura unitaria, giunta a noi nella tarda redazione
assira (VIII sec. a.C.).
Se i testi delle origini erano caratterizzati da un forte contenuto mitico,
il canone assiro è invece di contenuto mitico più rarefatto. Il canone è un
opera arricchita nei contenuti, di imponente bellezza lirica e riflessione
filosofica.
La qualità letteraria dell'opera fu tale che venne ricopiata, studiata a
scuola, commentata e tradotta incessantemente fino al VII secolo. Qualcosa
di molto simile avvenne anche per i poemi omerici, base culturale degli
antichi greci. Proprio le copie più tarde dell'epopea, redatte nella
capitale dell'impero assiro, grazie al loro migliore stato di conservazione
consentirono agli studiosi una lettura completa della storia di Gilgamesh.
AUTORE DEL POEMA
Gli scribi assiri nel loro lavoro di ricopiatura furono molto zelanti.
Infatti ogni biblioteca aveva i suoi cataloghi dove erano elencate tutte le
opere presenti negli scaffali e il rispettivo numero di copie. Bisogna
precisare che all'epoca non c'era il costume di dare un titolo alle opere.
Ciò che veniva riportato nei cataloghi, ad indicazione di un'opera presente,
era semplicemente la prima riga della composizione.

Ipotizziamo per un momento di poter consultare una biblioteca del primo
millennio a.C. e di saper leggere l'accadico. Se questa biblioteca conserva
qualche copia del Gilgamesh non dobbiamo cercarla sul catalogo come "Epopea
di Gilgamesh" bensì come
"Di colui che vide ogni cosa"
che è appunto il primo verso della versione canonica. Supponiamo ora di
entrare in una biblioteca del secondo millennio a.C. Il Gilgamesh andrà
stavolta cercato sotto la voce
"Egli è superiore agli altri re"
che è il primo verso del poema paleobabilonese.
La cosa strabiliante è che, a differenza di molte opere dell'antichità,
grazie ai cataloghi ritrovati nella biblioteca di Assurbanipal possiamo
conoscere anche il nome dell'autore dell'epopea classica.
"Di colui che vide ogni cosa" è da attribuirsi a Sin-leqi-unnini, il prete
esorcista
Il nome gotico di questo fantomatico autore significa "O Sin (=dio luna)
accogli la mia supplica". Dato che la redazione ninivita è copia di una
compilazione di epoca babilonese, Sinleqiunnini, ammesso che sia esistito,
doveva essere uno scriba di Babilonia. Purtroppo siamo sicuri dell'esistenza
di Sinleqiunnini così come siamo sicuri di quella di Omero.
Infatti da una delle tanti liste reali pervenuteci leggiamo
Durante il regno di Enmerkar era consigliere Nungalpiriggal
Durante il regno di Gilgamesh era consigliere Sinleqiunnini
(citato in Dag 1997 p. 77)
Quindi la tradizione attribuisce il resoconto delle avventure di Gilgamesh
allo stesso consigliere del re di Uruk! che sarebbe vissuto attorno al 2700
a.C., millenni prima di Babilonia. L'autorità di Sinleqiunnini come nume
tutelare degli scribi era comunque indiscutibile al punto che spesso gli
scribi si dichiaravano suoi discendenti firmando i documenti.
Oltre ai cataloghi gli scribi avevano l'abitudine di porre delle annotazioni
in fondo alle tavolette. Tali annotazioni, chiamate colofoni riportavano:
 il titolo (ossia la prima riga)
 il numero d'ordine della tavola (per lunghe composizioni che occupavano più
di una tavola)
 il nome dello scriba ricopiatore (più eventuale riferimento all'antenato
Sinleqiunnini)
 l'indicazione se l'opera era copiata da un originale più antico
 l'indicazione della serie (es. Serie di Gilgamesh)
 (solo nei colofoni ittiti) l'indicazione di ultima tavola. Ovvero "serie
non finita" per una tavola non conclusiva dell'opera e "serie finita" per
l'ultima tavola.
Grazie quindi allo zelo dei bibliotecari babilonesi i primi scopritori e
traduttori moderni della saga poterono stabilire il titolo originale ("Di
colui che vide ogni cosa"), il numero di tavole che ne facevano parte (12) e
quindi la lunghezza approssimativa dell'opera (ca. 3000 versi).
CONTENUTO DEL POEMA
Sarebbe ingiusto etichettare l'epopea solo come una parabola della ricerca
dell'immortalità. Le peripezie di Gilgamesh hanno risvolti etici, filosofici
e antropologici affrontati con una tale maturità e bellezza poetica, che da
tempo la critica letteraria ha elevato il poema al rango di capolavoro,
accanto alle opere di Omero, Virgilio e Dante (1).
Un meritevole accenno ai suddetti temi sarebbe incauto senza tuttavia
conoscere di cosa parla l'opera. Veniamo pertanto subito alla trama
dell'epopea di Gilgamesh. L'opera è divisa in dodici capitoli, detti
"tavole".

Tavola I
L'opera inizia con un inno al re Gilgamesh e alla sua città, Uruk. I
sudditi, viene detto, sono però vessati dal loro sovrano e si lamentano con
gli dei. Il dio An, sovrano del firmamento, accoglie la supplica e, per dare
sollievo al popolo, dispone la nascita di Enkidu. Costui è l'uomo selvaggio
che vive con gli animali nella steppa, che potrà tenere a freno la smisurata
potenza di Gilgamesh ma anche stargli accanto nei momenti di pericolo.
Enkidu però deve essere prima educato alla civiltà. A questo compito
provvede la prostituta sacra Shamkhat che gli insegna le basi della vita
cittadina prima di condurlo a Uruk.
pagina dall'epopea: Prologo, l'eroe Gilgamesh
Tavola II
Enkidu giunge a Uruk in tempo per evitare che Gilgamesh varchi la soglia di
una novella sposa. Infatti, a Gilgamesh, in quanto sovrano, spettava lo ius
primae noctis, uno dei maggiori fattori di lagnanza popolare. Gilgamesh e
Enkidu si fronteggiano ma la forza dei contendenti è paritaria, per questo
cessano le ostilità e i due diventano fraterni amici. Gilgamesh, in cerca di
fama e avventura, propone allora a Enkidu una spedizione nella foresta dei
Cedri dove mille pericoli li attendono.
pagina dall'epopea: I giovani e gli anziani di Uruk
Tavola III
Gilgamesh convince gli anziani di Uruk ad appoggiare la missione. La madre
Ninsun, sacerdotessa del tempio, tuttavia è angosciata della partenza del
figlio. Ninsun leva un'intensa preghiera a Shamash, dio del sole, affinché
protegga Gilgamesh dai pericoli. Dopo che gli artigiani di Uruk hanno
forgiato le armi della missione i due eroi si mettono in viaggio.
pagina dall'epopea: La dea Ninsun e il dio Sole
Tavola IV (la "tavola dei sogni")
Il viaggio verso la foresta avviene in un clima di magica sospensione. Ogni
sera, i due eroi, prima di coricarsi dal lungo cammino eseguono un
sacrificio al dio Shamash. Un demone della sabbia, inviato dal dio, incanta
Gilgamesh per fargli avere sogni premonitori. Contemporaneamente il demone
infonde a Enkidu il potere di interpretare i sogni. I cinque sogni di
Gilgamesh sono tutti a tinte fosche, ma ogni volta Enkidu li interpreta come
segnali di buon auspicio da parte del loro dio protettore.
pagina dall'epopea: Primo sogno premonitore di Gilgamesh
Tavola V
Gilgamesh e Enkidu giungono nella foresta dei cedri e cercano i tronchi
migliori da tagliare e portare a Uruk. Vengono scoperti dal mostro Khubaba,
posto a guardia della foresta dal signore degli dei, Enlil. Il mostro
maledice i due uomini, sperando d'impaurirli, ma gli eroi non indietreggiano
e lo scontro ha inizio. Con l'aiuto di Shamash, Gilgamesh e Enkidu riescono
a sopraffare il mostro che chiede pietà. Enkidu tuttavia avverte Gilgamesh
che le parole del mostro contengono menzogna e sprona l'amico a finire la
creatura. Il bottino è grande. Gli alberi sacri vengono tagliati e portati a
Uruk.
pagina dall'epopea: La foresta dei cedri
Tavola VI
Gilgamesh è acclamato e Ishtar, dea dell'amore, osservando il sovrano in
tutto il suo splendore se ne invaghisce. La dea scende a Uruk e propone a
Gilgamesh di sposarla. L'eroe rifiuta la sua proposta in termini che
oltraggiano la dea. Ishtar allora fa liberare il Toro Celeste che come una
calamità si abbatte sulla città. Intervengono Gilgamesh e Enkidu che come in
una corrida riescono a bloccare e uccidere il mostro. La gloria di Gilgamesh
raggiunge l'apoteosi e mentre tutto il popolo lo acclama, Ishtar piange il
Toro con le sue ancelle.
pagine dall'epopea: Gli amori di Ishtar, Uccisione del toro Celeste
Tavola VII
Spente le libagioni, Enkidu sogna il consiglio degli dei. L'olimpo non è
contento ma offeso dai ripetuti sacrilegi. Enlil decreta che uno dei due
eroi muoia. Poiché Gilgamesh ha sangue divino nelle vene, la pena ricade su
Enkidu che cade in agonia. Gilgamesh è disperato, perché non può fare nulla
per il moribondo che, vaneggiando, maledice la porta costruita col cedro
della foresta e la prostituta che lo aveva introdotto alla civiltà. Shamash
però rincuora Enkidu preparandolo al trapasso. In un ultimo sogno Enkidu ha
la visione della Casa della Polvere, il regno dei morti dove è destinato.
pagina dall'epopea: Enkidu sogna il regno dei morti
Tavola VIII
Enkidu muore e Gilgamesh lo piange intonando un lamento funebre al quale si
unisce tutto il popolo in lutto. Viene preparato un regale corredo funebre
che accompagnerà il defunto nell'aldilà.
pagina dall'epopea: Il pianto di Gilgamesh per la morte di Enkidu
Tavola IX
Gilgamesh è sconvolto dalla morte del compagno e s'interroga se anche lui
dovrà un giorno perire nello stesso modo. In cerca di una risposta abbandona
Uruk disperato, vagando per la steppa affamato e derelitto. Giunge fino alla
porta di una montagna sorvegliata da creature metà uomo e metà scorpione. I
guardiani mostruosi riconoscono in lui carne divina e lo lasciano passare.
Gilgamesh attraversa l'oscurità della montagna e all'uscita si ritrova nello
splendente giardino di Shamash dove diamanti e lapislazzuli crescono sugli
alberi.
pagina dall'epopea: Incontro con gli uomini-scorpione
Tavola X
Il giardino di Shamash è sorvegliato dalla vivandiera Siduri che commossa
dalle implorazioni di Gilgamesh gli spiega come raggiungere l'antenato
Utnapishtim, reso immortale dagli dei per aver superato la prova del diluvio
universale. Incontrato il traghettatore Urshanabi, Gilgamesh può
attraversare le acque della morte che separano la dimora di Utnapishtim dal
resto dell'umanità. Gilgamesh infine raggiunge l'antenato che però non ha
alcun segreto di lunga vita da rivelare.
pagina dall'epopea: Il destino dell'uomo nelle parole di Utanapishtim
Tavola XI (la "tavoletta del Diluvio")
Gilgamesh non crede a Utnapishtim. L'antenato racconta allora come riuscì a
salvarsi dal grande diluvio. Fu solo al termine di questa calamità,
scagliata dagli dei per sopprimere gli uomini, che si creò l'unica
situazione in cui fu garantita vita eterna ad un mortale. Gli dei, infatti,
riunitisi in consiglio per decidere il destino di Utnapishtim, lo elessero a
loro pari destinandolo a vivere lontano dal mondo. Fu quindi grazie a un
consiglio divino che Utnapishtim divenne immortale, ma tale consiglio non
potrà mai ripetersi per Gilgamesh. Il re di Uruk prova allora a sottoporsi
alla prova del sonno per mostrare di meritare una simile possibilità,
fallendo però miseramente. Gilgamesh si sente sconfitto, ma Utnapishtim gli
fa un ultimo dono prima del viaggio di ritorno: la pianta dell'irrequietezza
che restituisce vigore al fisico.
Sulla strada per Uruk, Gilgamesh fa una sosta in un'oasi lasciando
incustodita la pianta magica. Quanto basta affinché un serpente, possa
avvicinarsi e divorare la pianta, perdendo la pelle e ridiventare giovane. A
Gilgamesh non rimane che accettare il suo destino mortale e tornare a Uruk
dove riprende l'esercizio del potere con i suoi strumenti: il pukku e il
mekku (il tamburo e la bacchetta della guerra).
pagina dall'epopea: Il racconto del diluvio (vedi anche la pagina
Giuda-Israele)
Tavola XII
I lamenti delle vedove fanno cadere il pukku e il mekku agli inferi. Enkidu
(di nuovo vivo, come in un flashback) si accolla il compito di recuperare
gli arnesi del potere. Gilgamesh raccomanda a Enkidu di rispettare tutti i
tabù degli inferi per garantirsi il ritorno. Purtroppo Enkidu infrange i
tabù e viene intrappolato. Gilgamesh riesce a far liberare Enkidu grazie all
'aiuto di Shamash che intercede presso Nergal, signore dell'oltretomba. Ma
Enkidu è già morto come apprende Gilgamesh quando al suo cospetto torna solo
un'ombra. Nel corso dell'ultimo incontro col vecchio compagno di avventure,
Enkidu spiega il destino degli abitanti dell'oltretomba.
pagina dall'epopea: La sorte dell'uomo nell'aldilà



L'immortalità e i temi connessi sono frequenti nella letteratura
mesopotamica come spiega il signore degli Dei nel celebre mito di Adapa:
«Non sognano forse tutti gli uomini di diventare immortali?».
In epoca moderna l'argomento è stato affrontato, per esempio, nel racconto
di Jorge Luis Borges, L'immortale (da L'Aleph, 1949, Tutte le Opere di J.L.
Borges, pp. 773-788 vol. I, Mondadori ed. 1985).
Altre splendide pagine dedicate all'immortalità si trovano nel viaggio di
Gulliver a Luggnagg (capitolo X, parte III del noto romanzo di Jonathan
Swift). Qui Gulliver aspira a diventare uno struldbrugg (= immortale in
balnibarnese), in modo da avere tutto il tempo per arricchirsi o per
studiare tutte le arti e le scienze diventando "oracolo" d'Inghilterra.
Gulliver cambierà presto idea apprendendo quale triste destino tocca agli
struldbrugg sopra i 30 anni.
Nel capolavoro di Michail Bulgakov, il Maestro e Margherita, l'immortalità
turba Ponzio Pilato subito dopo avere condannato al supplizio il Nazareno:
«L'immortalità... è venuta l'immortalità. L'immortalità di chi? Non riusciva
a capirlo, ma il pensiero  di questa misteriosa immortalità gli mise freddo
sotto quel gran sole» (dall'ediz. Rizzoli 1977, p. 68).
A teatro, il tema dell'immortalità è stato recentemente affrontato nello
spettacolo-installazione Infinities diretto da Luca Ronconi (scritto da John
D. Barrow) in scena alla Bovisa di Milano in via Baldinucci 85 tra l'8 e il
28 marzo 2002. La rappresentazione ripartita tra cinque stanze toccava con
ironia e intelligenza alcune tipologie di infinito. La seconda stanza, dal
titolo Vivere in eterno, era tra le più suggestive.
Il pubblico, guidato da un dottore e due assistenti, imperscrutabili sotto
pallide maschere, attraversa una claustrofobica scenografia: la clinica
dell'immortalità. Un invito poco rassicurante accoglie gli spettatori:
"Aaah! vivere in eterno! L'argomento è affrontato rappresentando una serie
di reazioni umane paradossali all'idea di vivere per sempre. Prego,
accomodaaatevi!".
Nella clinica, l'immortalità è descritta nei suoi risvolti più complicati:
immaginate di poter vivere in eterno senza poter evitare l'invecchiamento
(gli struldbrugg ne sanno qualcosa). Risvolto che già suggestionò gli
antichi nel mito di Aurora e Titone (citato da Dante nella Commedia).
Al termine della quinta stanza, agli spettatori si offrono due opzioni:
infinito lineare (tornare a casa) o circolare (ricominciare dalla prima
stanza).
SIGNIFICATO DEL POEMA
La ricerca dell'immortalità di Gilgamesh può apparire come un avventuroso
mito, come quello, per esempio, degli Argonauti a caccia del vello d'oro. Ma
se l'epos di Giasone ha richiesto secoli di reinterpretazioni per emergere
in tutto il suo senso tragico (come nella Medea di Euripide), l'epos di
Gilgamesh è  contenuto all'ennesima potenza già nei primi poemetti sumerici.
Questo epos sviluppato con estrema sensibilità nel canone, si articola su
quattro temi principali: il viaggio, la tradizione culturale, il tema della
coppia, il tema della morte.

Il tema del viaggio
Molti critici vedono nell'opera un percorso educativo del protagonista
attraverso i luoghi del poema. La parabola di Gilgamesh evidentemente doveva
essere d'insegnamento per i destinatari dell'opera. Leggiamo nel bellissimo
prologo:
Gilgamesh vide ogni cosa, ebbe esperienza di ogni cosa, in ogni cosa
raggiunse la completa saggezza... (tav. I)
E' inteso che questo è un giudizio a posteriori del narratore dato che,
inizialmente, Gilgamesh è
...uno scalpitante toro selvaggio, le sue armi sono sempre sollevate e al
suono del suo pukku debbono accorrere i suoi camerati. Giorno e notte il suo
comportamento è oppressivo (tav. I)
La società di Uruk si lamenta invocando addirittura l'intervento di An, dio
del firmamento, affinché Gilgamesh la lasci in pace. L'ego prevaricatore del
sovrano impedisce il corretto svolgersi delle attività commerciali (perché i
sudditi sono impegnati nella guerra o nel consolidamento della mura della
città) e sociali (perché al sovrano spetta lo ius primae noctis).
Gilgamesh è assetato d'azione e d'avventure ma a metà del poema perde la sua
spavalderia. Uruk non è più un ovile accogliente (appellativo frequente
della città sumerica) perché non ha saputo proteggere l'amico Enkidu dal
"destino dell'umanità". L'eroe deve abbandonare Uruk perseguitato da
profonde inquietudini. E' uno strappo antropologico denso di significati. A
Uruk tutto era agio e sicurezza; fuori da Uruk c'é solo fame, freddo e
solitudine.
Gilgamesh deve viaggiare a lungo, perché lontana è la dimora di chi può
dargli delle risposte. L'oracolo è un antenato, Utnapishtim, reso immortale
dagli dei per meriti eccezionali. La necessità del viaggio è enunciata
persino con ridondanza, come suggerisce l'appellativo di Utnapishtim, "il
lontano".
La metafora del viaggio educativo si dispiega anche attraverso la scansione
del tempo. Prima smisurata e mitica (vedi la rapidità con cui Gilgamesh ed
Enkidu procedono verso la Foresta dei Cedri), poi umanizzata e resa con
enorme precisione (vedi le "doppie ore" che scandiscono il faticoso cammino
attraverso l'oscurità per giungere alla luce di Shamash, tav. IX). Nella
prima parte del poema Gilgamesh vive quindi in una dimensione irreale e
appartata dal resto della società che non lo comprende.
Per contrasto, la seconda parte del poema ci presenta un Gilgamesh in una
dimensione reale e soprattutto sociale. Rivelatore è il discorso di
Gilgamesh al battelliere Urshanabi durante il viaggio di ritorno a Uruk. Un
discorso fatto di inedite buone intenzioni verso i sudditi:
«Urshanabi, questa è la pianta dell'irrequietezza;
grazie ad essa l'uomo ottiene la vita.
Voglio portarla ad Uruk e voglio darla da mangiare
agli anziani e sperimentare la pianta.
Il suo nome sarà "l'uomo anziano ringiovanirà"» (tav. XI)
Il viaggio dell'eroe culmina con la conquista (o la consapevolezza) della
dignità del sovrano. Il re sumerico non deve mai prescindere dai propri
doveri, da cui dipende l'esistenza stessa della comunità.
Il tema culturale
Il buon governo è solo uno dei due effetti dell'eredità di Utnapishtim.
Infatti il prologo anticipa come la saggezza acquisita da Gilgamesh al
termine dell'epopea si manifesterà in un puro gesto culturale:
egli fece incidere tutte le sue fatiche su una stele di pietra (tav. I)
Nell'atto della scrittura, la cui invenzione è attribuita secondo un mito a
Enmerkar, nonno di Gilgamesh, si condensa tutta la sapienza sumerica. Con la
scrittura nasce la storia, non solo quella di Gilgamesh, ma di tutto il
genere umano:
solleva la tavoletta di lapislazzuli e leggila:
vi è la storia di quell'uomo, di Gilgamesh che
sperimentò ogni possibile sofferenza (tav. I)
Il senso della storia traspare non solo nella registrazione scritta degli
eventi ma anche nel recupero dei templi distrutti dal Diluvio (di cui
Utnapishtim fu testimone oculare):
dopo aver raggiunto Utnapishtim, che abita in un lontanissimo luogo,
Gilgamesh restaurò i centri di culto distrutti dal diluvio (tav. I)
In conclusione l'epopea è un viaggio di formazione durante il quale un eroe
mitico diventa eroe culturale. L'esperienza di Gilgamesh condensa conquiste
storico-culturali dei sumeri. Egli sa scavare pozzi nel deserto
dopo trenta leghe di marcia si fermarono per la notte
essi scavarono un pozzo davanti a Shamash
e riempirono d'acqua i loro otri (tav. IV)
taglia i cedri dei Monti Libano per usarli come materiale da costruzione a
Sumer
Gilgamesh abbattè gli alberi ed Enkidu raccolse i ciocchi
«Amico mio è stato abbattuto un meraviglioso cedro,
io voglio fare con esso una porta...» (tav. V)
inventa la corrida
Enkidu affrontò il Toro Celeste
e lo prese per la sua spessa coda
e Gilgamesh colpì il Toro con mano ferma e sicura
egli immerse la spada tra le corna e i tendini della nuca (tav. VI)
si improvvisa speleologo
Gilgamesh entrò nella porta della montagna
egli ha percorso una doppia ora
densa è l'oscurità, non vi è alcuna luce
e non gli è concesso di vedere nulla dietro di sé (tav. IX)
escogita la navigazione a vela
Gilgamesh e Urshanabi fecero salpare la nave e si misero in viaggio.
«Stai indietro Gilgamesh! Prendi un palo,
le acque della morte non devono sfiorare la tua mano [...]».
Quando Gilgamesh esaurì tutti i pali
lui e Urshanabi si spogliarono dei loro vestiti
e li legarono con la cintura attorno all'albero della nave (tav. X)
e la pesca sottomarina
Gilgamesh aprì un foro e si legò ai piedi grandi pietre,
si immerse nell'abisso e prese la pianta che punse le sue mani,
slegò quindi le grandi pietre che aveva ai piedi
e così il mare lo fece risalire fino alla sponda (tav. XI)
Ma l'epopea è ricchissima di dettagli che ne fanno un'enciclopedia di Sumer.
Il testo spiega (o suggerisce) come i templi accoglievano gli orfani, perché
sul calendario c'erano due feste di Anno Nuovo, perché i pastori vivevano in
tende. Si affrontano la prostituzione e i costumi sessuali, la pratica
oracolare dell'incubazione (tav. IV) e non mancano dimostrazioni eziologiche
(perché i serpenti fanno la muta, ecc.).
Il senso della vita
Abbiamo accennato al passo dove Siduri redarguisce Gilgamesh su come
dovrebbe comportarsi piuttosto che dar la caccia a segreti divini senza
risposta. Il destino dell'uomo è segnato dalla mortalità (come racconta il
finale dell'Atramkhasis, poema babilonese del diluvio) e Utnapishtim lo
ricorda nei seguenti versi:
tutto assomiglia alle libellule che sorvolano il fiume
il loro sguardo si rivolge al sole,
e subito non c'è più nulla
(tav. X, vv. 315-317)
anche se Gilgamesh medesimo ne ha sentore all'inizio del poema
L'umanità conta i suoi giorni
e qualunque cosa faccia è vento
(tav II, lacuna al v. 200 circa integrata in Sap 2001 p. 55)
Nessuno può oltrepassare i limiti della vita, e si sa dall'etimologia che
limite è in corrispondenza biunivoca con necessità. La necessità (ananke)
non è una divinità vera e propria, quanto piuttosto il riconoscimento di una
forza cosmica superiore alle cose, superiore allo stesso destino di uomini e
dei (fato = Namtar in Mesopotamia, la Moira in Grecia, poi personificata in
tre entità: Atropo che fila, Cloto che avvolge e Lachesi che recide il filo
della vita umana).
Tuttavia Gilgamesh non accetta questa situazione, forse ingannato dalla
somiglianza fisica con l'antenato. Ma Utnapishtim vuole convincere Gilgamesh
con la parabola del diluvio, al termine della quale si svolse l'emblematica
adunanza divina che promuove Utnapishtim tra gli dei.
(Enlil) ci benedisse:
"Prima Utnapishtim era uomo,
ora Utnapishtim e sua moglie siano simili a noi dei.
(tav. XI, vv. 191-196)
Ma nessuna sessione di Anunnaki si può tenere per Gilgamesh, negandogli
d'ufficio l'immortalità! Rimprovera infatti l'eroe del diluvio a Gilgamesh:
...ed ora chi potrà far radunare per te gli dei
in modo che tu trovi la vita che tu cerchi?
(tav. XI, vv. 198-199)
La volontà di sopravvivenza di Gilgamesh è rivelatrice di uno stato d'animo
che vive la precarietà quotidiana con ansia di sopravvivenza. Questo stato
d'animo è comune in Mesopotamia come in Grecia. Ricordo l'esempio di Admeto
che inseguito da Thanatos chiede al padre di rinunciare alla vita in vece
sua ma il rifiuto del vecchio padre Ferete non ammette repliche:
"la vita è breve ma è così dolce"
(v. 695 Alcesti)
O nelle parole di Eracle:
Tutti gli uomini devono soggiacere alla morte, e non c'è uno tra i mortali
che sappia se domani sarà ancora vivo: perché l'oscuro cammino della sorte
non è cosa che si possa insegnare, ne si coglie grazie a un'arte. Dunque ora
che hai ascoltato e appreso da me tutto questo, cerca di divertirti, bevi,
pensa alla tua vita giorno per giorno e affidati alla sorte. (v. 785-.
Alcesti)
Di stesso tenore è l'ammonimento dei cittadini ateniesi a Ioalo, vecchio
compagno di avventure di Eracle:
Il tempo non ha ancora spento il tuo ardore: esso è giovane, ma il corpo è
sfinito. Perché ti affatichi inutilmente in imprese che ti nuoceranno e ben
poco potranno giovare alla nostra città? All'età che hai, devi riconoscere l
'errore e rinunciare all'impossibile: la giovinezza non troverai modo di
riacquistarla (702-708 Eraclidi)
Sono ammonimenti che ricordano da vicino le parole di Siduri nel poema
paleobabilonese. L'adunanza divina che Gilgamesh auspica è tuttavia di
cattivo auspicio. Gilgamesh dovrebbe ricordarsi di Enkidu che, prima di
cadere in agonia, chiese di spiegargli l'incubo presagio di morte:
Amico mio, perché i grandi dei erano a consulto?
(tav. VI, v. 188)
Nei miti sumeri la riunione degli dei a consiglio è generalmente fonte di
sventure! La cronaca del consiglio è interpolat nella tav. VII dal canto
ittita di Gilgamesh:
An, Enlil, Ea e Shamash erano radunati a consiglio e An disse a Enlil:
"Poiché hanno ucciso Humbaba, che custodiva la foresta dei Cedri, uno dei
due dovrà morire". Allora Shamash rispose a Enlil, all'eroe: "Fu per tuo
ordine che uccisero il Toro Celeste e Humbaba: dovrà dunque Enkidu morire
benché sia innocente?". Enlil si rivolse furibondo a Shamash: "Proprio tu
osi dire questo, che te ne andavi con loro tutti i giorni come uno di
loro?".
(da San 1994, p. 115)
Come sottilmente ha osservato Jan Kott il porre in questione l'equità di un
verdetto emanato degli dei riuniti in consiglio - come Shamash - è molto
umano e umanamente toccante.
STRUTTURA DEL POEMA
In questa sezione introduttiva si parla della struttura dell'epopea come è
nota a noi oggi e della sua prima ricostruzione eseguita da George Smith, lo
scopritore della saga nel 1872. In chiusura si affronta il problema del
finale della saga.
Le prime tracce dell'Epopea di Gilgamesh furono portate alla luce tra le
rovine della biblioteca di Assurbanipal e del tempio di Nabu a Ninive verso
la metà dell'800. Pur da pochi lacunosi documenti fu possibile fin
dall'inizio risalire alla struttura generale dell'opera e al suo numero di
versi.

I cataloghi
I popoli dell'antico oriente non avevano l'abitudine di dare un titolo alle
composizioni letterarie, né gli scrittori di allora spasimavano per avere il
proprio nome inciso sulle tavolette (p. 12 Pet 1992). L'Epopea di Gilgamesh
è quindi un titolo coniato da noi moderni, e la sua attribuzione ad uno
specifico autore è dovuta alle scuole tribali dei periodi posteriori.
Secondo il costume degli scribi babilonesi e, prima di loro, sumerici, un'
opera letteraria era citata nei cataloghi, che ci sono giunti in numero
considerevole, riportando la sua riga iniziale. Così, scorrendo il catalogo
di una biblioteca del primo millennio a.C., avremmo potuto trovare
Sha naqba imuru (trad. "di colui che vide ogni cosa")
che è appunto il primo verso della versione canonica. In una biblioteca del
secondo millennio a.C. avremmo invece trovato
Shutur eli sharri (trad. "egli è superiore agli altri re")
che è il primo verso del poema paleobabilonese, versione all'epoca in
circolazione.
Infine, nel catalogo di una biblioteca sumera della fine del III millennio
(come quella di Nippur) avremmo invece trovato non uno ma numerosi incipit,
uno per ogni poemetto legato alla figura di Gilgamesh:
Lu kij-gi-a ag (trad. "Gli inviati di Agga...", inizio di "Gilgamesh e
Agga")
En-e kur lu til-la-ce (trad. "Il signore del paese del vivente...", inizio
di "Gilgamesh e Huwawa" versione A)
I-a lum-lum (trad. "Evviva!", inizio di "Gilgamesh e Huwawa" versione B)
Cul me-ka (trad. "Eroe in battaglia...", inizio di "Gilgamesh e il Toro
Celeste")
Ud re-a (trad. "Tanto tempo fa...", inizio di "Enkidu agli inferi")
(vv. 7, 10-14 da OB catalogue from NIBRU N2, dal sito ETCSL)
A rendere complicata l'identificazione di un'opera era poi il fatto che
frequenti erano le composizioni con lo stesso inizio. Per esempio, l'ultimo
fra gli incipit citati ("Tanto tempo fa...") era comune non solo al poemetto
della discesa agli inferi di Enkidu, ma anche alla Sfida tra Enki e Ninmah,
al Viaggio di Enki a Nippur e alle Istruzioni di Shuruppak! Del resto, non
iniziano tutte le fiabe con un bel "c'era una volta..."?
I colofoni
Oltre ai cataloghi, che elencano le opere conservate in una Biblioteca,
abbiamo un altro elemento per determinare i titoli dei testi antichi, e cioè
le annotazioni scribali alla fine di una tavoletta. Ciò vale soprattutto per
le composizioni il cui testo era suddiviso, perché troppo lungo, in più
tavole. Tali annotazioni, dagli studiosi definite con il nome greco di
colofoni, possono essere molto semplici
Tavola I: "Di colui che vide ogni cosa". Serie di Gilgamesh
oppure assai eleborate
Tavola XII della serie di Gilgamesh; si tratta di quella finale. La tavola è
stata ricopiata secondo l'originale e quindi archiviata.
Tavoletta dello scriba Nabu-zuqup-kina, figlio di Marduk-shuma-ikisha,
discendente di Gabbi-ilani-eresh, il capo scriba
(colofone riportato in Dag 1997 p. 39)
Il numero di colofoni relativi alla stessa composizione ci consente di
capire il numero minimo di esemplari archiviati in una biblioteca, anche in
assenza del catalogo. Per esempio, nella Biblioteca di Assurbanipal  sono
stati rinvenuti ben quattro colofoni della tav. VI - mentre per tutte le
altre da uno a tre. Possiamo quindi affermare che vi erano conservate almeno
quattro copie dell'Epopea classica .
Un colofone poteva contenere moltissime informazioni e, ancor oggi qualunque
assiriologo che si accinga a tradurre un testo controlla prima di tutto il
colofone. Le informazioni che vi si possono leggere possono essere
determinanti per capire il contenuto e la provenienza del documento:
 il titolo (ossia la prima riga della composizione)
 il numero d'ordine della tavola (per lunghe composizioni che occupavano più
di una tavola)
 il nome dello scriba ricopiatore (più eventuale riferimento all'antenato
Sinleqiunnini)
 l'indicazione se l'opera era copiata da un originale più antico
 l'indicazione della serie (es. Serie di Gilgamesh)
 (solo nei colofoni ittiti) l'indicazione di ultima tavola. Ovvero "serie
non finita" per una tavola non conclusiva dell'opera e "serie finita" per
l'ultima tavola.
Che gli scribi antichi non considerassero una qualsiasi tavola precedente l'
ultima come qualcosa di unitario e in sé concluso, è dimostrato da alcuni
colofoni ittiti che, talvolta, dopo la I e II tavola, aggiungono l'
annotazione "non finita":
Tavola I: "Di colui che vide ogni cosa". Canto di Gilgamesh. Non finita
come pure dal colofone della XII tavola dell'Epopea classica che recita:
Tavola XII: "Di colui che vide ogni cosa". Serie di Gilgamesh. Finita
Una costante di tutti i colofoni rinvenuti, oltre alla citazione della prima
riga è l'aggiunta: "Serie di Gilgamesh". Va rilevato che, a differenza dell'
Epopea classica, nei cui colofoni compare "Serie di Gilgamesh", quella
ittita ha forse un titolo vero e proprio, quello di "Canto".
"Serie di Gilgamesh" non può essere considerato un titolo poiché è un tipo
di annotazione scribale che si riscontra in moltissime opere costituite da
più tavole. Per esempio un colofone dal Libro dei Sogni assiro, anch'esso
proveniente dalla biblioteca di Assurbanipal recita:
"Se un uomo nel suo sogno è vestito d'argento".
Tavola IV: Serie del dio Ziqiqu,
palazzo di Assurbanipal, re d'Assiria, re della totalità...
a cui gli dei Nabu e Tashmetu hanno donato intelligenza
e che possiede occhi acuti...
Tra i re miei predecessori
(citato in Sap 1996 p. 195)
Già la designazione di "Canto" porta inevitabilmente alla struttura dell'
Epopea in forma poetica: è questo infatti il significato originale del
termine sumerico shìr con cui vengono indicate tutte le opere in poesie. L'
epopea assira è quindi strutturata in versi a differenza di altre versioni,
come l'epopea ittita, scritta chiaramente in prosa.
In conclusione, dai documenti a nostra disposizione veniamo informati che la
grande composizione constava di 12 tavole, come fin dall'inizio della sua
scoperta ebbe a riconoscere lo stesso George Smith.
Prima ricostruzione dell'epopea di Gilgamesh
George Smith individuò fin dall'inizio, con incredibile precisione, il
numero di tavole dell'Epopea di Gilgamesh, la loro divisione, e il numero di
versi. L'argomento e la finalità dell'epopea rimasero a lungo oggetto di
congetture a causa dello stato fortemente lacunoso dell'opera, come mostra
la prima ricostruzione dell'opera che compare nel Chaldean account of
Genesis (1875).
«Le leggende di Izdubar sono incise su 12 tavole, di cui ci rimangono almeno
quattro edizioni. Tutte le tavole sono in frammenti e nessuna è completa, ma
è una coincidenza fortunata che quella in migliori condizioni sia
l'undicesima, che descrive il diluvio, ed è quindi la più importante della
serie.
Tutti i frammenti delle nostre copie appartengono al regno di Assurbanipal,
re di Assur, nel settimo secolo a.C. Dallo stato mutilato di molti di essi è
impossibile farsi un'idea precisa del significato delle leggende. Molti
parti andate perdute sono state quindi compensate da congetture e persino
l'ordine di alcune tavole è incerto. Nel mio studio ho voluto dividere i
frammenti in gruppi corrispondenti approssimativamente con gli argomenti
delle tavole.
Ogni tavola era divisa in sei colonne di testo [tre nella parte anteriore e
tre in quella posteriore], ognuna di 50 righe circa per un numero
complessivo di 3000 versi di testo cuneiforme. Ecco la divisione da me
adottata allo stato di conoscenza attuale dei frammenti.
Tavola I (frammenti terza colonna)
possibile argomento: conquista di Babilonia degli elamiti, nascita e
parentela di Izdubar
Tavola II (frammenti terza e quarta colonna)
Tavola III (quasi integra a parte lacune prima e sesta colonna)
Probabile argomento: sogno di Izdubar, arrivo di Heabani a Uruk
Tavola IV (frammenti dalle prime tre colonne)
Tavola V (prima e seconda colonna)
Probabile argomento: scontri con animali selvaggi, uccisione del tiranno
Khubaba
Tavola VI (integra con poche lacune)
Tavola VII (quinta e sesta tavola ricostruite per congettura dalla discesa
di Ishtar agli inferi)
Probabile argomento: l'amore di Ishtar per Izdubar, altri amori di Ishtar,
sua salita al cielo, distruzione del suo toro, sua discesa all'inferno
Tavola VIII (possibili frammenti delle prime tre e dell'ultima colonna)
Tavola IX (conservata con lacune)
Tavola X (conservata con lacune)
Probabile argomento: discorso agli alberi, sogni, malattia di Izdubar, morte
di Heabani, peregrinazioni di Izdubar in cerca dell'eroe del Diluvio.
Tavola XI (quasi integra)
Tavola XII (frammenti delle prime 4 colonne, ultima quasi integra)
Probabile argomento: descrizione del diluvio, cura di Izdubar, sue
lamentazioni su Heabani»
(Smi 1876 p. 170-172, traduzione di T. Porzano © 2001).
Noterete che nel testo di Smith non compare mai il nome "Gilgamesh". Ai
tempi di Smith gli assiriologi, non sapendo ancora come pronunciare i
caratteri cuneiformi, utilizzavano una pronuncia sillabica provvisoria.
Eccovi dunque la chiave di lettura: Izdubar al posto di Gilgamesh, Heabani
al posto di Enkidu.
Il finale della discordia
Ad alcuni non piace il finale che si trova nella XII tavola perché
apparentemente slegato dalle precedenti vicende. Altri finali, appartenenti
a versioni precedenti o coeve, vengono a volte proposti.
Un tema ozioso di cui ogni tanto si torna a parlare è quello legato alla
conclusione del poema. Si preferisce considerare la saga come strutturata
dalle prime undici tavole ed incollare finali apocrifi (per esempio il canto
funebre di Gilgamesh) rispetto alla versione canonica. Tuttavia si consideri
che in base alla catalogazione assira per colofoni la forma canonica
dell'epopea consiste delle sole 12 tavole che ho riportato nel sito e che
non include in alcun modo la morte di Gilgamesh. La morte dell'eroe per
quanto suggestiva (predizione di Enlil, visione dell'eroe immobile sul
letto,...) stravolgerebbe il messaggio finale fortemente educativo
dell'epopea classica.
Nell'ambito della versione canonica l'interpolazione della morte di
Gilgamesh rimane un gesto gratuito e inutile sul piano narrativo; un po'
come far morire Achille nell'Iliade (1). Che l'eroe debba morire è scontato
e inevitabile ma all'autore non interessa sviluppare in versi l'inesorabile
destino bensì educare alla sua consapevolezza (vedi paralleli con l'epica
greca).
Che la tavola XII sia un inserimento posteriore di Sinlequiunnini è quasi
certo; che essa sia meno affascinante rispetto al canto funebre di Gilgamesh
è a mio parere ipotesi tendenziosa: la visione disperata dell'aldilà
mesopotamico rimane insuperata nella sua splendida e asciutta descrizione;
che essa si integri col resto dell'epopea secondo un piano educativo del
sovrano (tesi di Pettinato in Pet 92) è discutibile.
Tutto ciò può autorizzare certi autori a rimpiazzare deliberatamente la XII
tavola con altri finali ritenuti più azzeccati? La Sandars (San 1994), per
esempio, 1) rinuncia a rendere l'epopea in versi, 2) rinuncia alla
suddivisione in tavole, 3) integra o sostituisce il canone con fonti non
assire ritenute di qualità superiore. Tutte queste operazioni sono
assolutamente arbitrarie ed allontanano il lettore dalla comprensione
dell'opera (2).
All'epoca della stesura del canone il tema della discesa agli inferi era
molto popolare e gettonato (come il mito di Ishtar agli inferi dove
ricompaiono temi e personaggi del Gilgamesh) e non a caso fu scelto come
finale ufficiale del poema. Così com'era molto popolare il mito
dell'Atramkhasis. Infatti anche gran parte della tavola del diluvio è
un'interpolazione.
Cosa ci autorizza allora a togliere la discesa di Enkidu agli inferi e a
lasciare invece il diluvio? Cosa autorizza a modificare un'opera compiuta in
virtù di un gioco accademico arbitrario? La SUMERICA "morte di Gilgamesh"
potrebbe costituire un finale più soddisfacente, per l'apparente
incompatibilità col resto della saga della discesa agli inferi di Enkidu, ma
purtroppo, non è stata scelta dall'autore ASSIRO del canone.
Altrettanto discutibile è quanto fanno certi autori accorciando l'epopea di
una tavola anche se l'effetto drammaturgico è altissimo. Per esempio in
"Gilgames o la mortalità" (vedi Bibliografia) si ignora la XII tavola
considerando finale migliore il semplice ritorno di Gilgamesh a Uruk. A
giustificazione si adduce che "nel vero poema epico l'inizio è la fine e la
fine è la ripetizione dell'inizio. Il poema di Gilgamesh inizia e termina
con la lode delle mura di Uruk". Non volendomi fossilizzare su una posizione
ortodossa non posso fare a meno di osservare che, per quanto basata su
errori interpretativi, tale analisi rimane molto suggestiva.
Anche l'Odissea sarebbe forse più divertente eliminando la Telemachia e
sostituendola con alcune delle avventure apocrife di Ulisse, oppure venendo
subito al sodo dopo l'arrivo a Itaca del protagonista, facendo a meno delle
interminabili reticenze verso gli astanti. Ma non sarebbe più l'Odissea, e
soprattutto non sarebbe più l'Odisseo che conosciamo! Per un approfondimento
rimando alla mia lezione sui miti del ritorno degli eroi omerici. (torna su)
Col tempo ho moderato questa mia posizione oltranzista, come si può notare
nella mia recensione a Gilgamesh: il primo eroe, antiche storie della
Mesopotamia di Simonetta Ponchia per i tipi Nuove Edizioni Romane, ottobre
2000.

SCOPERTA DEL POEMA
La scoperta in epoca moderna della saga di Gilgamesh avvenne intorno al 1870
grazie al lavoro dell'assiriologo inglese George Smith che ne diede notizia
nel corso di una concitata assemblea della Società londinese di Archeologica
Biblica.



Vorrei qui ricordare alcuni punti fondamentali. Questo documento non solo
rivelò al mondo l'esistenza di una letteratura precedente a quella greca e
biblica, ma addirittura confermò narrazioni contenute nell'Antico Testamento
(qualche esempio è fornito nella monografia sui regni di Giuda e Israele).
La sua scoperta pertanto diede un fortissimo impulso agli studi biblici,
alla nascente assiriologia, all'epigrafia ed ovviamente all'archeologia
mediorientale.

Il rapporto con la Bibbia e l'interesse che ne scaturì segnò la fase
iniziale dello studio della cultura mesopotamica. Col tempo, tuttavia, si
cominciò a considerare le creazioni letterarie degli antichi popoli della
Mesopotamia per il loro valore intrinseco. La più alta opera poetica di
queste culture scomparse fu, fin dal principio, considerata l'epopea di
Gilgamesh, dove la materia mitologica si era piegata per esprimere le più
segrete e perenni inquietudini dell'uomo...

Il 3 dicembre 1872, a Londra, durante un'assemblea della Società
Archeologica Biblica (1), fu comunicata una sensazionale notizia: fra le
migliaia di tavolette d'argilla riportate alla luce dagli archeologi in
Mesopotamia (2) era stata identificata una versione caldea del Diluvio
universale (p. 22 McCall 95, p. 82 Pet 1992).

L'annuncio provocò enorme stupore perché la scoperta mostrava che un testo
pagano anticipava e confermava narrazioni contenute nell'Antico Testamento.
Lo scopritore, George Smith (fotogr. p. 47, Bot 1994), era un ex-incisore
della Zecca di Stato inglese: mentre ricercava e ordinava i testi assiri di
contenuto mitologico, si rese conto di avere identificato un racconto molto
simile a quello narrato nel testo sacro:

«Trovai presto la metà di una curiosa tavoletta che doveva contenere in
origine sei colonne di testo. Esaminando la terza colsi la descrizione di
una nave approdata sopra i monti Nisir, seguita dal resoconto della vana
missione della colomba in cerca di un posto dove posarsi e del suo ritorno.
Capii immediatamente che avevo scoperto almeno una parte del racconto caldeo
del Diluvio» (Smi 1876 p. 4, traduzione T. Porzano).

Le due righe faticosamente lette da Smith fanno parte del racconto del
Diluvio contenuto nella XI tavola dell'Epopea di Gilgamesh, che lo stesso
Smith, proseguendo le ricerche, avrebbe presto identificato.

L'antefatto
Quando Smith si apprestava a comunicare al mondo il frutto dei suoi studi
aveva 32 anni ed era animato da una passione incontenibile per tutto ciò che
riguardava le scoperte in Medio Oriente.

«Ognuno ha qualche inclinazione, che se è accompagnata da circostanze
favorevoli, darà un senso al resto della sua vita. La mia personale
predisposizione è stata sempre rivolta agli studi orientali e fin dalla
giovinezza ho provato sempre un gran interesse per le esplorazioni e le
scoperte del Medio Oriente, specialmente nel grande lavoro in cui furono
impegnati Layard e Rawlinson» (George Smith, Assyrian Discoveries, London
1875, p. 9).

I due inglesi citati sono strettamente legati alle sensazionali e
controverse scoperte dei primi palazzi assiri, che tanto appassionarono l'
opinione pubblica. Sir Henry Layard era noto soprattutto per aver riportato
alla luce tra il 1845 e il 1851 due capitali assire, Calah (la moderna
Nimrod) e la famosa Ninive, simbolo del potere invincibile di questo popolo,
mentre Sir Henry Rawlinson venne alla ribalta per aver contribuito alla
decifrazione dell'antica lingua persiana. Molto di ciò che era stato trovato
da Layard in Medio Oriente venne portato, non senza difficoltà a Londra, e
nell'ottobre del 1848 fu inaugurata al British Museum la prima collezione
inglese di antichità assire.

Nelle gallerie del British Museum, fra gli stupendi ortostati in cui erano
incise scene di guerra e di massacri (fotogr. p. 36, Bot 1996), il "riposo
sotto il pergolato del re assiro" (fotogr. p. 30, Bot 1996) e la famosa
caccia al leone del re Assurbanipal (fotogr. p. 68, Bot 1994), accanto all'
obelisco nero di Salmanassar III, agli stupendi e maestosi leoni androcefali
alati (fotogr. p. 41, Bot 1994), George Smith soleva passare gran parte del
suo tempo libero.

Il suo interesse per gli Assiri era accresciuto dal profondo significato
religioso che questo mondo, da poco riportato alla luce, cominciava a
rivelare, coinvolgendo la veridicità storica dei racconti biblici. Fino al
1843, quando fu riportato alla luce il primo palazzo assiro per opera di un
francese, Paul-Emile Botta, al di là delle parziali notizie forniteci dalla
Bibbia e da alcuni storici greci, quasi nulla si conosceva degli Assiri, e
la fortuna volle che i primi reperti archeologici appartenessero proprio ai
re menzionati nel Testo Sacro: Salmanassar III e V, Tiglat-Pileser III
(menzionato con l'appellativo Pulu), Sargon II, Sennacherib, Asarhaddon.

Le collezioni assire esposte nel British Museum sembravano così dar vita ai
racconti biblici in cui si narrava la sottomissione dei regni di Giuda e
Israele alla potenza di Assur, la presa di Samaria e la deportazione degli
Israeliti a Calah, soprattutto nel II libro dei Re (XVII-sgg.) (3).

Ma per comprendere i rapporti tra gli Assiri e gli antichi ebrei era
necessario conoscere la lingua assira, così da leggere ciò che era scritto
sui reperti archeologici. Smith si apprestò dunque sulla scia di Rawlinson a
studiare l'accadico, la lingua assiro-babilonese. L'interesse di Smith per
possibili paralleli tra la storia assira e quella biblica era condiviso da
tutti gli orientalisti. Possiamo anzi affermare che il grande impulso che
ebbero, fin dalla metà del secolo scorso, gli scavi archeologici di Ninive e
di Muqayyar - quest'ultima esplorata a più riprese fin dal 1625, ma
identificata solo in quegli anni come la famosa Ur dei Caldei, la città di
Abramo secondo la Genesi (XI, 28) - fu dovuto essenzialmente al desiderio di
dimostrare la veridicità storica della Bibbia.

La prima scoperta di un parallelismo fra gli annali assiri e la storia
biblica avviene quando Smith studia l'obelisco nero di Salmanassar III (4).
Ma la scoperta che rese Smith immortale avvenne quando egli cominciò a
studiare la collezione Kouyunjik proveniente dalla biblioteca di
Assurbanipal:

«Avevo raggruppato l'intera collezione di iscrizioni cuneiformi del British
Museum in sei sezioni per comodità di lavoro. Una di queste era dedicata
alle "tavolette mitologiche". Essa conteneva tutte le tavolette con miti e
leggende relative a divinità, oltre a preghiere e iscrizioni religiose.
Raggruppando tutte le tavolette ed i frammenti di una stessa classe, fui in
grado di ricostruire vari testi, di trovare le tavolette connesse allo
stesso mito, e di farmi un'idea generale del contenuto della collezione»
(Smi 1876 p. 4, traduzione T. Porzano).

La serie di "Izdubar"
Fu così che Smith giunse al ritrovamento di un incredibile documento:

«Cominciando un'attenta ricerca fra questi frammenti, trovai presto la metà
di un'interessante tavoletta che in origine doveva probabilmente contenere
sei colonne di testo. Due di queste (la terza e la quarta) erano ancora
quasi in perfetto stato; altre due (la seconda e la quinta) conservate solo
a metà; le rimanenti colonne (la prima e la sesta) erano andate perdute.
Esaminando la terza colonna colsi la descrizione di una nave approdata sopra
i monti Nisir, seguita dal resoconto della vana missione della colomba in
cerca di un posto dove posarsi e del suo ritorno. Capii immediatamente che
avevo scoperto almeno una parte del racconto caldeo del Diluvio.

Mettendomi a studiare il documento compresi che era nella forma di un
discorso diretto, rivolto dall'eroe del Diluvio ad una persona il cui nome
sembrava essere Izdubar (5). Mi ricordai allora di un altro frammento, che
avevo in precedenza catalogato come K.231, relativo allo stesso eroe
Izdubar. Mi accorsi che i reperti appartenevano alla stessa serie e iniziai
una ricerca di tutti i frammenti mancanti.
Il compito non era dei più semplici data l'enorme mole di testi da
controllare, spesso di tali dimensioni e stato da renderne difficilissima la
comprensione. Ugualmente la mia ricerca diede i suoi frutti. Scovai il
frammento di un'altra copia del mito del Diluvio, contenente di nuovo la
missione degli uccelli, e gradualmente raccolsi altri pezzi di questa
tavola. Ricomposi i frammenti fino a quasi completare la seconda colonna.
Grazie poi al ritrovamento di frammenti di una terza copia del mito, potei
completare una parte considerevole della prima e della sesta colonna. Avevo
ora il mito del Diluvio nella ricostruzione che presentai all'assemblea
della Società per l'Archeologia Biblica il 3 dicembre 1872.
Avevo scoperto che la serie di Izdubar conteneva almeno 12 tavole e in
seguito scoprii che questo era il loro numero esatto. In questa serie, la
tavoletta che descrive il Diluvio era l'undicesima mentre il frammento K.
231 apparteneva alla sesta» (Smi 1876 p. 5, traduzione T. Porzano).

Come riuscì Smith a identificare l'esatto numero delle tavole? Egli in fondo
aveva solo ricostruito parte dell'undicesima tavola e riconosciuto un
frammento della sesta! Ebbene, gli scribi mesopotamici avevano escogitato un
sistema interessante dai notevoli risvolti pratici: alla fine di ogni
tavoletta essi scrivevano oltre al numero d'ordine - tavola I, tavola II,
tavola III, ecc. - anche la riga iniziale della serie. A quel tempo non
esisteva la pratica di assegnare un titolo ad un'opera limitandosi a
indicarla con la sua prima riga di testo. Così alla fine della I tavola dell
'Epopea lo scriba aveva inciso il seguente colofone:

Tavola prima. "Di colui che vide ogni cosa". Serie di Gilgamesh
Palazzo di Assurbanipal, re della totalità
Re del paese di Assur

Inoltre la tavola seguente iniziava con l'ultima riga della tavola
precedente. Smith era riuscito a ricostruire, della tavola XI, anche la
sesta e ultima colonna dove era inciso il colofone, e non gli fu difficile
intuite che ci dovevano essere almeno altre 10 tavole della stessa opera. Al
lettore/lettrice suggerisco una digressione sulla prima geniale
ricostruzione di Smith dell'epopea.

Le reazioni
La relazione di Smith all'assemblea della Società Archeologica Biblica
suscitò forte clamore:

«Nella mia conferenza all'assemblea sulle tavolette del Diluvio, fornii un
resoconto generale delle leggende di Izdubar ed espressi personale
convinzione che le iscrizioni caldee contenessero molti altri racconti
strettamente connessi col libro della Genesi, che avrebbero stimolato grande
interesse» (Smi 1876 p. 6, traduzione T. Porzano).

e persino importanti conseguenze:

«Fu proprio in questa occasione che avvenne l'intervento dei proprietari del
quotidiano "Daily Telegraph". Immediatamente dopo la mia conferenza,  il
signor Edwin Arnold,  caporedattore del giornale, che già in passato mi
aveva espresso il suo interesse per queste scoperte, mi presentò un'offerta
dei proprietari del "Daily Telegraph": riprendere, a loro spese, gli scavi
in Assiria per aggiungere nuovi elementi al soggetto di questi miti.

Questa offerta venne sottoposta ai curatori del British Museum che mi
concessero sei mesi durante i quali avrei dovuto recarmi in Assiria e
condurre gli scavi» (Smi 1876 p. 6, traduzione T. Porzano; le vicende di
questa spedizione sono argomento di un altro libro di Smith, Assyrian
discoveries, 1875).

L'iniziativa del Daily Telegraph corrispondeva ad una concezione
dilettantesca, sportiva, della ricerca archeologica. Allora l'archeologia
non era considerata una professione vera e propria, ma prevalentemente come
un affascinante hobby. Basti pensare che Paul-Emile Botta, lo scopritore di
Khorsabad, scavava quando la sua professione di console a Mossul glielo
permetteva e Henry Layard iniziò la sua avventura nutrendo però la segreta
speranza di intraprendere la carriera diplomatica. Ciononostante Botta e
Layard, così come gli altri "archeologi" del tempo, sono stati veri e propri
pionieri dell'archeologia.

Smith comunque rispetto a loro era totalmente inesperto, e uomini come
Layard e Hormuzd Rassam, che vent'anni prima avevano scavato a Ninive,
sarebbero certo stati più adatti per questa nuova missione, ma ambedue erano
già impegnati altrove: Layard in Spagna, Rassam a Aden per svolgere un
delicato incarico politico per conto del Governo delle Indie. La scelta
cadde così su Smith.

Smith in Mesopotamia
Dopo tre mesi di viaggio per mare e per terra, Smith giunge a Mossul e,
ottenuti i permessi necessari dalle autorità turche, il 7 maggio comincia lo
scavo a Kouyunjik, nel sito dove era stata trovata la Biblioteca Reale di
Assurbanipal. E il 14 maggio raggiunse il suo scopo:

«Trovai un nuovo frammento della versione caldea del diluvio appartenente
alla prima colonna della tavoletta [maggior parte delle prime diciassette
righe], relative l'ordine di costruire e allestire l'arca. Questa scoperta
colmò in pratica la più grave lacuna nel racconto» (Smi 1876 p. 6-7,
traduzione T. Porzano).

Sappiamo oggi che il frammento trovato da Smith non faceva veramente parte
del racconto del Diluvio dell'Epopea ma di un'opera più antica, l'
Atramkhasis, alla quale l'epopea in parte si ispirava. Nell'Atramkhasis
l'episodio del Diluvio occupa solo la parte finale dell'opera. Successivi
ritrovamenti rivelarono che l'Atramkhasis si occupava principalmente
dell'origine del mondo e della creazione dell'uomo, rivelando straordinarie
influenze sul racconto della Genesi.

Le ricerche di Smith portarono alla scoperta di molti capolavori della
letteratura mesopotamica, in redazione assira. Oltre alle leggende di
Izdubar Smith scoprì varie versioni del mito della creazione (nota oggi col
titolo Enuma Elish), la Discesa agli inferi e il mito di Etana. Ma Smith
continuò a imbattersi nelle vicende di Izdubar scoprendo un frammento che
descriveva la sconfitta del toro celeste di Ishtar da parte di Izdubar e
Heabani (Gilgamesh e Enkidu) appartenente alla sesta tavoletta. E' possibile
dare un'idea di quanto fosse faticoso e complicato il lavoro dei primi
assiriologi osservando la figura a fianco. Rappresenta la ricostruzione di
Smith di una delle tre copie dell'undicesima tavola partendo da ben 16
frammenti di terracotta.

Dopo aver telegrafato la notizia al Daily Telegraph parve ai finanziatori
che Smith avesse raggiunto lo scopo che quindi si rifiutarono di finanziare
ulteriormente gli scavi. Smith, così, fu indotto, con suo grande disappunto
dato che gli scavi erano appena iniziati, a tornare a Londra.

Le scoperte di Smith non finiscono qui. Negli anni che gli restarono da
vivere - morì infatti a soli 36 anni - si recò a Ninive altre tre volte e
ogni volta la sua ricerca fu coronata da successo, riportando alla luce
circa 2.300 tavolette e acquistandone a Bagdad altre 2000. L'ultimo viaggio
gli fu fatale: morì nella città di Aleppo, in Siria, il 19 agosto del 1876.

In vita Smith non ricevette alcun titolo accademico per le sue scoperte ma
ugualmente si distinse per il grande rispetto verso i colleghi (Rawlinson
soprattutto). L'introduzione al Chaldean account of Genesis (1876) è
rivelatrice dell'ammirevole onestà intellettuale e senso critico verso il
proprio lavoro di Smith:

«L'attuale condizione dei miti e la loro recente scoperta mi impedisce di
definire la mia opera qualcosa di più di un lavoro provvisorio [...]. Ho
evitato alcuni importanti confronti e conclusioni nei confronti del libro
della Genesi poiché il mio primo desiderio è stato di ottenere il
riconoscimento dell'evidenza senza pregiudizi» (Smi 1876 p. VII, traduzione
T. Porzano).

Uno, cento, mille Gilgamesh
Smith e Rawlinson pubblicarono nel 1875 le Cuneiform Inscriptions of Western
Asia. Il quarto volume dell'antologia conteneva un'esauriente ricostruzione
della VI e XI tavola dell'epopea. Ma questo fu solo l'inizio: dopo la morte
di Smith, il lavoro di ricomposizione e traduzione del poema fu continuato
da altri. Apparvero varie traduzioni dell'Epopea in inglese, in francese e
in tedesco via via sempre più aggiornate grazie al rinvenimento continuo di
nuove tavolette relative all'Epopea. Verso il 1930 erano state recuperati
frammenti da tutte le dodici tavole dell'epopea ninivita.

Nonostante i continui ritrovamenti (come quelli recenti di Tell Haddad, p.
22 Sap 2001) l'epopea rimane in buona misura lacunosa. A volte è quindi
necessaria l'integrazione del testo canonico da fonti più antiche come il
poema paleobabilonese o l'Atramkhasis. L'operazione è, pur con le dovute
cautele, non audace dato che, a volte, i miti più antichi sono ripresi
parola per parola nella versione ninivita.

I poemetti sumerici
Già nel 1889 gli scavi condotti a Nippur da John Punnet Peters per conto
dell'università di Philadelphia avevano portato alla luce documenti su
Gilgamesh risalenti addirittura al periodo sumerico (III millennio a.C.).

Conosciamo almeno cinque poemetti sumerici. Essi presentano,
indipendentemente uno dall'altro, temi o vicende che confluiranno (ma solo
in parte) nel poema paleobabilonese e nell'epopea classica.

 Gilgamesh e Agga
 Gilgamesh e Huwawa, versione A (Gilgamesh e il 'paese del vivente')
 Gilgamesh e Huwawa, versione B
 Gilgamesh e il Toro Celeste
 Enkidu agli inferi (Gilgamesh e l'aldilà)
 La morte di Gilgamesh
Questi poemetti non costituivano un corpus epico unitario (vedi gli incipit
sparsi nei cataloghi). Infatti Gilgamesh, se vi compare, ha ruoli molto
eterogenei (avventuriero, sovrano di Uruk, giudice dell'oltretomba, fratello
di Ishtar dea dell'amore, ecc.). Un'aggiornata versione dei poemetti è
disponibile in Geo 1999.

Il poema paleobabilonese
Nel 1902 il tedesco Bruno Meissner pubblicò il testo di un manufatto
antecedente di oltre mille anni la versione ninivita. Il documento, di epoca
paleobabilonese e proveniente da Sippar, conteneva - a differenza dei
poemetti sumerici - un testo molto simile a quello contenuto nell'epopea
(tav. X). Quindi il testo paleobabilonese era quasi sicuramente servito da
modello per il canone.

Alla tavoletta Meissner (nota come la tavoletta di Berlino, dal nome del
museo dov'è attualmente conservata) se ne aggiunsero con gli anni altre,
tutte appartenenti al cosiddetto poema paleobabilonese (1800 a.C.). Sono
pochissimi documenti d'immenso valore storico-letterario e vale la pena
citarli tutti:

 tavoletta Meissner (o di Berlino)
 tavoletta di Pennsylvania
 tavoletta di Yale (proseguimento della tavoletta di Pennsylvania)
 tavoletta di Chicago
 tavoletta di Londra (proseguimento della tavoletta di Berlino)
 tavoletta di Bagdad (ammesso che quest'ultima sia sopravvissuta al
saccheggio successivo alla sciagurata invasione americana dell'aprile 2003).
Il poema è il primo vero tentativo di composizione epica unitaria sulle
gesta del re di Uruk. Venne compilato nel periodo della prima dinastia di
Babilonia con il suo re prestigioso Hammurabi noto per il "primo" codice
delle leggi (i primi codici sono in realtà di epoca sumerica). Dalla
tavoletta di Berlino e Londra sono tratti i seguenti versi, tra i migliori
tramandataci dalla letteratura mesopotamica:

"Gilgamesh, dove vai? La vita che cerchi, non la troverai. Quando gli dei
crearono l'umanità le assegnarono la morte, e tennero per sé la vita! Riempi
il tuo stomaco, Gilgamesh. Fai festa giorno e notte, i tuoi vestiti siano
puliti! Lava il tuo capo, lavati con acqua! Gioisci del bambino che ti tiene
per mano, possa tua moglie godere di te. Questo è il destino degli uomini!"
(riportati in Sap 2001, pp. 161-162)

Questi sono praticamente gli ultimi versi di quanto ci è rimasto del poema
di Gilgamesh. Il protagonista, vagando alla ricerca del segreto per sfuggire
alla morte, viene ammonito da Siduri, la taverniera di Shamash (dio della
giustizia) per aver trascurato l'esercizio del potere cercando una chimera.
Non sappiamo se il poema contenesse la narrazione del diluvio ma è certo che
conteneva almeno l'incontro di Gilgamesh col lontano antenato che
sopravvisse al Diluvio.

E' interessante osservare che praticamente tutti questi frammenti
appartenenti al poema paleobabilonese ci sono pervenuti in ottimo stato di
conservazione. Infatti non furono rinvenuti scavando tra le rovine di
antiche capitali bensì sulle bancarelle degli antiquari! La tavoletta
Meissner fu acquistata nel 1902 da un rivenditore di Bagdad. Anche la
tavoletta di Pennsylvania fu acquistata da un antiquario nel 1914 per conto
dell'università di Philadelphia. L'università di Yale si rivolse allo stesso
mercante d'arte per l'acquisto della continuazione della tavoletta della
Pennsylvania (tavola III).

Non è casuale che alcune tavolette siano una prosecuzione dell'altra.
Infatti, l'interesse per gli occidentali stimolò iniziative illecite degli
antiquari che, spesso spezzavano le tavole in più pezzi contando su un
maggiore profitto derivante da più di un acquirente. L'esempio più
scandaloso ci è dato dalla celeberrima tavoletta di Londra e Berlino. Essa è
formata dalla tavoletta Meissner (conservata a Berlino) e da un frammento
comprato nel 1902 presso lo stesso antiquario da G.F. Loftus per conto del
British Museum. Questo secondo frammento venne riscoperto negli archivi del
museo londinese da A.R. Millard soltanto nel 1964.

Le saghe mediobabilonesi
Oltre all'epopea ninivita e al poema paleobabilonese si scoprirono redazioni
di epoca intermedia al di fuori della Mesopotamia (Siria, Anatolia,
Palestina) scritte in lingue diverse dall'accadico: ittita (lingua non
semitica ma indoeuropea), elamico e hurrico. Era la dimostrazione che il
successo riscosso dalle storie di Gilgamesh in antichità aveva valicato
confini geografici e culturali. Queste versioni mediobabilonesi sono in
genere più simili al poema paleobabilonese che all'epopea ninivita. Talvolta
però contengono varianti autonome che stanno a significare che le avventure
di Gilgamesh venivano riadattate ai gusti del pubblico.

Le differenze tra queste versioni naturalmente moltiplicano l'interesse per
il Gilgamesh. Se l'epopea canonica, per economia della narrazione, sacrifica
meravigliosi dialoghi o dettagli, possiamo arricchirla - pur mantenendo le
dovute distinzioni - dalla lettura delle versioni "apocrife". Per esempio la
splendida tavola X (le peregrinazioni di Gilgamesh) è molto lacunosa. Poco
male: la versione mediobabilonese ittita ci svela il mistero di
"quelli-di-pietra", il poema paleobabilonese (tavoletta di Berlino)
arricchisce il dialogo tra Siduri e Gilgamesh sul senso della vita, la
versione mediobabilonese elamita contiene una variante che richiama il mito
di Etana (la ricerca della pianta della fertilità).

"Babel und Bibel"
Il ritrovamento di Megiddo mostra che l'Epopea di Gilgamesh era conosciuta
in Palestina prima del X secolo, cioè prima dell'arrivo degli Ebrei nella
terra promessa. La stessa versione del diluvio contenuta nell'Atramkhasis
(che non è nemmeno la più antica se rapportata al sumerico mito di Ziusudra)
ed inglobata nell'Epopea, è molto più antica della versione biblica del
diluvio che risale al più tardi all'ottavo secolo.

Tra la fine dell'800 e l'inizio del '900 gli studiosi si accorsero che il
racconto biblico derivava, attraverso una sapiente rilettura in chiave
monoteistica, più o meno direttamente da quello babilonese. A questo
risultato si pervenne ufficialmente il 13 gennaio 1902 nel corso di un
convegno della Società Orientale Tedesca (p. 24 McCall 95).

In questo incontro l'assiriologo tedesco Friedrich Delitzsch, stupì il
pubblico (e tra i presenti lo stesso Kaiser Guglielmo II) con la relazione
intitolata Babel und Bibel. Delitzsch presentò traduzioni aggiornate che
mostravano che la Bibbia non era, come si era fino ad allora creduto, il più
antico libro del mondo, ma che era stata preceduta da una letteratura di
epoca anteriore.

Ne nacque un acceso dibattito scientifico-teologico a livello internazionale
che coinvolse anche autorità politiche. Infatti le grandi similitudini tra i
due mondi antichi minavano la fondamentale autorità della Bibbia. Era dai
tempi di Darwin, che per spiegare la teoria della selezione naturale aveva
bollato come «palesemente falsa» la storia della Genesi, che non si
assisteva a un simile scandalo!

Tuttavia, una volta sedimentate, le scoperte degli assiriologi furono
accettate da un pubblico sempre più vasto al punto da innescare una
rivoluzione negli studi teologici e delle religioni all'inizio del '900. Di
questi anni è infatti la celebre ipotesi documentaria formulata da Julius
Wellhausen.

L'ipotesi documentaria si basa su un'analisi comparata del Pentateuco in
rapporto con documenti coevi o preesistenti di area prevalentemente
mesopotamica. Essa rivela almeno quattro fonti o "tradizioni" del Pentateuco
escludendo così la tesi sostenuta dalla tradizione sinagogale di un unico
leggendario autore (Mosè). Mi limito ad elencarvi le fonti rimandando alla
sezione dedicata per utili approfondimenti: tradizione jahvista (sec. X a.C.
e VIII-VII a.C.); tradizione elohista (VIII-VII a.C.); tradizione
deuteronomista (VII a.C.); tradizione sacerdotale (VI-V a.C.).

Pietre miliari per gli studi comparati Bibbia-cultura mesopotamica furono
Altorientalische Texte und Bilde zum alten Testament di H. Gressmann (1909),
Cuneiform Parallels in the Old Testament di R.W. Rogers (1912), Archaeology
and the Bible di G. A. Burton (1916) fino all'immensa antologia Ancient Near
Eastern Texts (Ane 1955) della Princeton University.

Tutto ciò illustra come l'interesse verso la cultura mesopotamica fosse a
lungo vincolato al suo rapporto con la Bibbia. Emblematico rimane il
chilometrico titolo della prima edizione a stampa del Gilgamesh (Smi 1876):
La versione caldea della Genesi contenente la descrizione della creazione,
il diluvio, la torre di Babele, la distruzione di Sodoma, i tempi dei
patriarchi...

Ancora più esplicativo l'approccio dello Delitzsch:

«Perché tutte queste fatiche in una terra lontana, inospitale e pericolosa?
Perché questo costoso rovistare tra i detriti di migliaia di anni fino alla
falda freatica, dove non c'è ne oro ne argento? Perchè questa lotta tra le
nazioni per assicurarsi con sempre maggiore vigore gli scavi su queste
desolate colline? E donde proviene questo gratuito interesse, sempre
crescente, che di qua e di là dell'Oceano viene dedicato agli scavi
nell'Assiria-Babilonia? A queste domande c'è una risposta, che benché non
esauriente tuttavia spiega per buona parte il motivo e lo scopo: la Bibbia»
(Friedrich Delitzsch, citato in Dag 1997 p. 42).

Fortunatamente, dalla seconda metà del '900, grazie all'immensa quantità di
documenti ritrovati e dell'apertura di nuovi campi di indagine ignoti alla
Bibbia (= cultura sumerica) si cominciò a considerare autonomamente il
valore letterario delle numerose tradizioni culturali mesopotamiche. La più
alta opera poetica di queste culture scomparse è, manco a dirlo, l'epopea di
Gilgamesh.

Continua...>