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STORIA DEL POPOLO EBRAICO (4)

STORIA ANTICA - STORIA DEL POPOLO EBRAICO

STORIA DEL POPOLO EBRAICO
LE ORIGINI

Nella nostra ricerca seguiremo l'ordine di lettura della Bibbia stessa,
cominciando dunque dalla Genesi ma non tutte le considerazioni verranno
esposte secondo il filo conduttore biblico: troppi sono infatti gli
argomenti che necessitano di una serie di dati ulteriori per poter essere
apprezzati in modo più approfondito.
E la Genesi è proprio quel genere di libro che nasconde tesori importanti,
che non possono essere gustati senza una adeguata preparazione. Perché è fin
dalle prime pagine che vediamo come i redattori della Bibbia siano subito
alla ricerca di risposte sul Tutto, attingendo dal bagaglio culturale
esistente nel Mediterraneo come dimostrano la leggenda del diluvio e il
racconto dell'albero della vita, tramandati da civiltà ben più antiche di
quella ebraica.
Dal punto di vista narrativo, il loro è un progetto ambizioso in quanto
cercano di riassumere tutto quello che è accaduto dall'inizio della storia.
E all'inizio c'è Dio, quel Dio che i testi originali chiamano in termini
diversi (Elohim) rispetto al Signore (Adonai) Yahweh [2] di Mosè.
Non vogliamo addentrarci nelle implicazioni di questa incongruenza e di come
i teologi la risolvono, ma soffermiamoci su come i sacerdoti antichi
riescano a individuare fin dall'inizio della creazione le origini degli
ebrei. Una serie di dinastie che serviranno anche a due evangelisti (Matteo
e Luca) quando vorranno ricostruire la genealogia di Gesù. Quanto poco
questo sia convincente per la maggior parte degli studiosi moderni si desume
dal seguente passo:
La questione più controversa e complicata nella ricerca sul passato di
Israele resta la ricostruzione delle origini. Secondo Bright, esse sono
state decisive per l'identità di Israele; tuttavia, molti degli studiosi non
sostengono più una simile tesi. Se la testimonianza biblica è davvero un
prodotto o una "invenzione" del tardo periodo esiliaco e quello persiano,
piuttosto che il frutto di una tradizione risalente alle origini di Israele,
come alcuni sostengono, allora non c'è ragione di ritenere che esista una
continuità tra il primo "Israele" (se si può usare questa definizione) e
l'Israele della restaurazione del giudaismo.
Anche tra gli storici sembra quindi serpeggiare l'idea che i resoconti
biblici derivino da una ricostruzione fatta da dei sacerdoti o degli scribi
che erano tornati dall'esilio in terre straniere e che hanno recuperato
racconti più antichi o addirittura inventati per fini sociali. Mentre invece
per un religioso tutto il Pentateuco, che comprende i primi 5 libri della
Bibbia, è stato scritto da Mosè stesso, il grande sacerdote che YHWH scelse
come condottiero per far uscire gli ebrei dalla schiavitù d'Egitto. Una
scelta che presuppone una datazione della Bibbia attorno al XIII sec. a.C.,
ben più antica rispetto a quella prevista da altri studiosi che la collocano
oltre il periodo dell'esilio, cioè dopo il 587 a.C.
Di fronte alla difficoltà di accreditare questa o quella versione dei fatti,
ritorniamo al primo libro della Bibbia e applichiamo le nostre analisi alle
narrazioni traendo tutte quelle informazioni che risultino coerenti con
fatti storici, cioè verosimili per l'epoca in cui vengono narrati.
I racconti della Genesi spaziano dalla creazione dell'uomo fino all'entrata
degli ebrei in Egitto. Concentriamo per il momento l'attenzione sulle
peripezie dell'umanità, dislocata su territori che attualmente andrebbero
dall'alto Egitto fino all'Iraq.
Le vicende ruotano attorno alla storia degli ebrei, un popolo che si pone al
centro dei racconti proclamandosi l'unico prediletto dal Signore. Il termine
"ebreo" viene utilizzato per la prima volta ad indicare Abramo (Gn 14.13),
un nomade il cui padre, Terach, si era spostato dalla città di Ur, in
Mesopotamia, per raggiungere Canaan, l'attuale Palestina.
Ma non sarà lui bensì proprio suo figlio Abramo che la raggiungerà partendo
da Carran, sul fiume Eufrate al confine sud dell'attuale Turchia, dove
resterà per poco tempo per colpa di una carestia, prima di emigrare fino in
Egitto. Come si capisce Abramo era un capo tribù di pastori nomadi, che
necessitava di terreni e pozzi per i suoi animali e che quindi facilmente si
spostava da un luogo ad un altro per sopperire a queste necessità.
Dal soggiorno in Egitto si desume un primo modo di comportarsi dei capi
tribù nomadi, che ci vengono descritti come uomini abituati a fornire la
propria moglie come prostituta presso i funzionari e i re che li ospitavano,
in cambio di beni materiali e protezione:
La cosa non fu senza conseguenze, in quanto la scarsa igiene di questi
pastori era furiera di malattie tra i popoli sedentari abituati a condizioni
di vita più civilizzate. [1] Questo potrebbe in realtà esser stato il vero
motivo per cui Abramo dovette andarsene, anche se il narratore lo giustifica
in altra maniera (Gn 12,17), sempre chiamando in causa il Signore e
occultando le responsabilità materiali dei protagonisti della storia. Che il
popolo in questione vivesse in condizioni igieniche pericolose lo si desume
infatti a chiare lettere in tutti i successivi libri e nella legislazione
emanata in seguito da Mosè.
Mentre tornava indietro nella Palestina, costretto a lottare contro invasori
che venivano da Oriente, Abramo ricevette da Dio il grande patto di
vassallaggio (Genesi 15) così riassumibile: la terra che andava dal
"torrente d'Egitto" fino "al fiume grande l'Eufrate" e i popoli che
l'abitavano sarebbe stata per sempre di Abramo e della sua discendenza. In
pratica questo "Stato" comprendeva una parte dell'attuale Egitto
(sostanzialmente la penisola del Sinai), Israele, il Libano, la Giordania,
la Siria e una parte dell'Iraq; quindi, visto il viaggio finora percorso da
Abramo, includeva tutte le terre da lui conosciute.
Gli mancava però un erede perché sua moglie Sara non riusciva a dargliene,
problema comunque facilmente risolvibile perché a quel tempo vigeva la
poligamia: Abramo aveva infatti la disponibilità di molte donne ed ebbe
infatti il primo figlio Ismaele proprio da una sua schiava egiziana. Ma non
appena Sara partorì Isacco, la schiava egiziana e il figlio furono cacciati
nel deserto (Gn 21), iniziando così la serie di rifiuti dei figli di sangue
misto che vedremo perpetuarsi in tutta la storia degli ebrei.
Ad una prima lettura ciò potrebbe rispecchiare la necessità di mantenere una
razza pura, ma vedremo che questa non sembra essere la motivazione più
ragionevole. Ciò si rileva anche dalla risposta del Signore:
Ma Dio disse ad Abramo: «Non ti dispiaccia questo, per il fanciullo e la tua
schiava: ascolta la parola di Sara in quanto ti dice, ascolta la sua voce,
perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io farò
diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è tua
prole». (Genesi 21:12-13)
E' prematuro anticipare la spiegazione se non dopo aver percorso ancora
diversa strada con questi primi capi tribù, che dovevano lottare
continuamente con le popolazioni dei luoghi in cui arrivavano con gli
armenti e il resto delle piccole comunità. [2]
E' significativo al riguardo la narrazione della strage di Sichem (Gn 34).
In essa, oltre a far risaltare l'ingratitudine e il cinismo dei figli di
Giacobbe, vengono descritti i modi con cui venivano trattate le popolazioni
che facevano dei torti agli ebrei, con metodi che verranno ripresi e
addirittura prescritti dal YHWH nella successiva conquista di Canaan:
[.] i due figli di Giacobbe, Simeone e Levi, i fratelli di Dina, presero
ciascuno una spada, entrarono nella città con sicurezza e uccisero tutti i
maschi. Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem, portarono
via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono. I figli di Giacobbe si
buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città, perché quelli avevano
disonorato la loro sorella. Presero così i loro greggi e i loro armenti, i
loro asini e quanto era nella città e nella campagna. Portarono via come
bottino tutte le loro ricchezze, tutti i loro bambini e le loro donne e
saccheggiarono quanto era nelle case. (Genesi 34:25-29)
L'odio verso gli stranieri deve essere stato così forte che Abramo stesso
vietò al suo figlio Isacco di sposarsi con mogli non ebree e lo invitò
invece a prendere in moglie Rebecca sua cugina. Il discendente che erediterà
il destino promesso da Dio sarà Giacobbe, padre di 12 figli, che emigrerà in
Egitto per salvarsi da una carestia al seguito del figlio Giuseppe entrato
nelle grazie del faraone.
Anche se gli ebrei rimarranno in Egitto ben 430 anni (Es 12.40), Giuseppe
volle essere seppellito in Canaan, dove era morto suo padre Isacco e il
nonno Abramo e prima di morire pronunciò la profezia secondo la quale Dio
avrebbe visitato i suoi fratelli per condurli indietro in Canaan.
Come si vede è insistente il richiamo alla terra "promessa", Canaan su cui
gravitano i pensieri di questi nomadi nonostante di fatto non potesse essere
considerata una terra loro, essendo essi pastori nomadi in continuo
spostamento con le loro greggi. E' così che si erano infatti presentati in
Egitto al faraone, da cui ottennero un particolare territorio:
[Al faraone] voi risponderete: Gente dedita al bestiame sono stati i tuoi
servi, dalla nostra fanciullezza fino ad ora, noi e i nostri padri. Questo
perché possiate risiedere nel paese di Gosen». Perché tutti i pastori di
greggi sono un abominio per gli Egiziani. (Genesi 46:34)
Abbiamo già visto, ed è inutile rimarcarlo, che l'abominio degli Egiziani
per i pastori derivava molto probabilmente da questioni igieniche.
Ricordiamo infatti che la coabitazione in luoghi come le città e in climi
caldi e umidi erano condizioni ideali per il diffondersi di epidemie, cosa
che poteva essere in parte evitata isolando eventuali gruppi più facilmente
a rischio.
Il finale di Genesi offre una mirabile descrizione di come una civiltà passa
da una condizione di ricchezza distribuita a una con una sua forte
concentrazione, raccontando a parola quello che noi abbiamo schematizzato
con le piramidi numeriche e misurato tramite l'indice di Gini. Tutto sembra
cominciare con una carestia:
Ora non c'era pane in tutto il paese, perché la carestia era molto grave: il
paese d'Egitto e il paese di Canaan languivano per la carestia. Giuseppe
raccolse tutto il denaro che si trovava nel paese d'Egitto e nel paese di
Canaan in cambio del grano che essi acquistavano; Giuseppe consegnò questo
denaro alla casa del faraone. Quando fu esaurito il denaro del paese di
Egitto e del paese di Canaan, tutti gli Egiziani vennero da Giuseppe a dire:
«Dacci il pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Infatti non c'è
più denaro». (Genesi 47:13-15)
SCHIAVITU' EGIZIA
Come si nota, durante la narrazione, Egitto e Canaan appaiono insieme - e
non è l'unico caso - come appartenessero ad uno stesso stato. Canaan figura
come una dependance dello stato egiziano, da cui non solo provengono
popolazioni ma da cui vengono drenati soldi per pagare i servizi ricevuti
dal faraone. Giuseppe è il funzionario del faraone chiamato ad affrontare
l'emergenza e lo fa in questo modo:
Rispose Giuseppe: «Cedetemi il vostro bestiame e io vi darò pane in cambio
del vostro bestiame, se non c'è più denaro». Allora condussero a Giuseppe il
loro bestiame e Giuseppe diede loro il pane in cambio dei cavalli e delle
pecore, dei buoi e degli asini; così in quell'anno li nutrì di pane in
cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell'anno, vennero a lui l'anno
dopo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito il
denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore, non rimane
più a disposizione del mio signore se non il nostro corpo e il nostro
terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi, noi e la nostra terra?
Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi del
faraone noi con la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che possiamo
vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!». Allora Giuseppe
acquistò per il faraone tutto il terreno dell'Egitto, perché gli Egiziani
vendettero ciascuno il proprio campo, tanto infieriva su di loro la
carestia. Così la terra divenne proprietà del faraone. (Genesi 47:16-20)
In questo episodio, supponendo (anche se non è riportato) che vi siano state
precedenti condizioni climatiche che hanno scatenato la carestia, ci si
accorge che la miseria e la fame perdureranno negli anni nonostante la
popolazione sembri possedere bestiame, sementi e terre. Nel frattempo
infatti non solo tutta la ricchezza distribuita è stata convogliata in mano
a un'unica persona, ma questa è diventata anche padrona degli individui
stessi. In cambio ha fornito loro "di che seminare" su terreni che non
appartengono più agli individui ma che sono a completa disposizione del
potere centralizzato, riuscendo addirittura a far credere loro di averli
"salvati".
Questo farà sì che il potere dominante riesca a dislocare tutto il popolo
concentrandolo nelle città:
Quanto al popolo, egli lo fece passare nelle città da un capo all'altro
della frontiera egiziana. (Genesi 47:21)
Non vi è quindi solo una accumulazione di ricchezza, costituita dalla
proprietà terriera e dai beni primari, ma anche un ammassamento di persone
che conduce ad una urbanizzazione concentrata e non più diffusa. Come
abbiamo evidenziato altrove, questo è un esempio di concentrazione edilizia
per ridurre le spese e aumentare il controllo sulla popolazione.
Vi furono comunque dei privilegiati che non dovettero sottostare a queste
imposizioni? La Bibbia ci riporta i rappresentanti di una certa categoria a
noi ben nota:
Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non acquistò, perché i sacerdoti
avevano un'assegnazione fissa da parte del faraone e si nutrivano
dell'assegnazione che il faraone passava loro; per questo non vendettero il
loro terreno. (Genesi 47:22)
Mentre a tutti gli altri venne applicata una tassazione di tipo
proporzionale:
Poi Giuseppe disse al popolo: «Vedete, io ho acquistato oggi per il faraone
voi e il vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi
sarà il raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno
vostre, per la semina dei campi, per il nutrimento vostro e di quelli di
casa vostra e per il nutrimento dei vostri bambini». Gli risposero: «Ci hai
salvato la vita! Ci sia solo concesso di trovar grazia agli occhi del mio
signore e saremo servi del faraone!». Così Giuseppe fece di questo una legge
che vige fino ad oggi sui terreni d'Egitto, per la quale si deve dare la
quinta parte al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero del
faraone. (Genesi 47:23-26)
La Bibbia introduce una posizione di particolare prestigio riservata agli
ebrei che contraddice quanto più sopra scritto:
Gli Israeliti intanto si stabilirono nel paese d'Egitto, nel territorio di
Gosen, ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi. (Genesi
47:27)
Sembra infatti che venga enfatizzata una posizione di particolare rilievo
che distingue gli ebrei rispetto agli altri popoli, facendoli figurare come
dei privilegiati. Cosa che si spiega nell'economia del racconto biblico
complessivo, in cui gli israeliti vengono sempre dipinti come un popolo
fiero e distinto, nonostante quello che passerà e farà passare alle
popolazioni con cui verrà a contatto.
Quando studiavamo la teoria dei triangoli abbiamo fatto uso della storia di
Adamo ed Eva, ambientata nel paradiso, parola usata per indicare un
"giardino", ad esempio quelli meravigliosi e pensili di Babilonia che erano
conosciuti dagli ebrei in quanto Terach, il padre di Abramo, veniva da Ur
vicino al Golfo persico. Luoghi che rappresentano giorni passati nel
benessere, luoghi che i primi ebrei sembrano ritrovare e riconoscere nella
terra di Canaan, attorno la quale gravitano come un pendolo le migrazioni di
questi pastori nomadi.
Le popolazioni di questa terra vedranno un continuo via vai di popoli che
cercheranno di conquistarla. Dal punto di vista di una moderna analisi
economico territoriale, potremmo dire che la centralità di questa regione
rispetto alle direttrici dei commerci ha sempre fatto sì che fosse
importante averne il possesso per poter controllare i flussi di ricchezza.
La Bibbia dà invece una spiegazione legata ad una maledizione comminata da
padre a figlio (Gn. 9,22) e, anche se inizialmente due fratelli (Sem e
Iafet) sembrano essere predestinati a dominare i discendenti di Canaan, la
narrazione cambia indirizzo per mezzo di Dio che invece promette quella
terra solo ad Abramo, discendente di Sem.
Questo è un artificio del narratore, che deve spiegare perché gli ebrei
discendenti di Abramo debbano, loro soli, aver diritto a quella terra:
questo criterio è persistente e si ritrova tanto nella Genesi che in altri
capitoli della Bibbia, in cui vengono narrate le dispute tra famiglie
tribali che condurranno allo sfacelo di un regno ebraico che non riuscirà a
resistere più di 80 anni.
Gli ebrei si presentano quindi né più né meno che come una serie di clan
rivali che si ritrovano in tutta la storia umana, in lotta per
l'accaparramento del benessere di cui la regione di Canaan rappresentava
l'agognata fonte. Pastori nomadi che, spostandosi, occupavano continuamente
terre di altri e per questo entravano con essi in conflitto, che perdurava
anche nel momento in cui vi era da spartire il bottino.
Da qui le lotte anche solo per appropriarsi dei pozzi per il bestiame, a cui
si aggiungono le furbizie e le ladrerie tra parenti più o meno stretti.
Esempi sono: Rebecca che inganna Isacco approfittando della sua cecità per
passare la primogenitura da Esaù a Giacobbe; o il comportamento di Labano
con Giacobbe e le ritorsioni di quest'ultimo nei suoi confronti.
Inoltre si incontrano le stragi più orrende giustificate con motivi
sproporzionati alle razzie successive; per questo l'episodio di Sichem è
illuminante anche per capire come erano depredate le città: venivano uccisi
tutti i maschi ma risparmiate le donne, razziate come animali. Un chiaro
prototipo del triangolo del benessere: mantenere in vita le donne, simbolo
di riproduzione e piacere sessuale, e far fuori tutti gli eventuali
contendenti al benessere.
La predominanza del maschio si nota nelle discendenze (tutte maschili), come
nella facilità con cui gli uomini si avvicinavano a mogli e schiave pur di
generare figli. L'importante era che il maschio fosse ebreo, cioè del ramo
di Abramo e quindi circonciso, mentre le donne potevano anche appartenere ad
altre tribù, ma i figli nati da queste non potevano aver parte all'eredità
(quello che succede a Ismaele che è figlio di una schiava egiziana).
Erano inoltre permessi i matrimoni tra consanguinei e la poligamia
(ovviamente solo maschile) era assolutamente normale, per chi ovviamente
poteva permettersela visto che una donna costava in termini di dote. [1] La
stessa tolleranza era riservata alla prostituzione (Genesi 38) che però
veniva punita addirittura con la morte se conduceva a gravidanza.
Il popolo "eletto" conserva cultura e tradizioni che lo paragonano a quelli
limitrofi con cui entra a contatto, senza dimostrarsi migliore: gli ebrei
massacrano più che dimostrarsi magnanimi con i vicini, mentre atteggiamenti
di bontà si trovano nei re di Sodoma e Gomorra prima della loro distruzione,
in Melchisedek, "sacerdote del Dio altissimo" e negli egiziani che accolgono
e salvano gli ebrei che morivano di fame a causa della carestia.
Anche se questo aiuto avviene nel rispetto delle regole del popolo
ospitante: ebrei ed egiziani non mangiano assieme a tavola "perché gli
Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei" (Genesi 43,32). Ma
l'ospitalità degli egiziani sembra essere così grande che gli ebrei prendono
posto addirittura nella terra di Gosen "la parte migliore del paese".
La Genesi ci evidenzia due carestie particolarmente gravi che costringono le
tribù ad emigrare, in due ondate successive, nel vicino Egitto. Al centro di
entrambe le narrazioni troviamo la figura di Giuseppe, un ebreo promosso
funzionario al servizio del re e che si occupa della distribuzione delle
risorse nella nazione. La prima carestia viene risolta attraverso un
particolare tipo di accumulazione, che ci dimostra che la concentrazione
delle ricchezze non ha risvolti necessariamente negativi, sempre che il suo
utilizzo sia pensato dai governanti a favore della comunità:
In capo a due anni, ecco che Faraone ebbe un sogno; e dal fiume salivano
sette vacche di bell'aspetto e grasse, che si misero a pascolare nella
giuncaia. Dopo di esse, ecco altre sette vacche salire dal Nilo, brutte e
magre, e si fermarono accanto alle prime sulla riva del fiume. E le vacche
brutte e magre divorarono le sette belle e grasse. [...] Allora Giuseppe
disse a Faraone: [...] Ecco, stan per venire sette anni di grande abbondanza
in tutto l'Egitto. E dopo quelli verranno sette anni di carestia, e tutta
l'abbondanza non sarà che un ricordo in Egitto, perché la fame consumerà il
paese.
Quali sarebbero potute essere le soluzioni da porre in atto di fronte ad una
tale eventualità? Ammesso che le previsioni del sogno fossero veritiere,
Giuseppe avrebbe potuto consigliare al sovrano espedienti simili a quelli
proposti dalle teste d'uovo delle moderne istituzioni:
far lavorare il popolo a grande lena per costruire deviazioni artificiali ai
corsi d'acqua al fine di creare nuove zone coltivabili
obbligare il popolo, negli anni di carestia, a privarsi del poco a
disposizione per far sopravvivere comunque la casta regnante, che avrebbe
così continuato a governare assicurando la coesione sociale in vista di un
futuro migliore
ingaggiare guerre di conquista di altri territori fertili dove probabilmente
la carestia avrebbe potuto non abbattersi
chiedere ai sacerdoti di immolare sacrifici sempre più cruenti, anche umani,
alle divinità per scongiurarle dall'affliggere il regno con tali carestie.
A parte l'ultimo consiglio, comunque verosimile per l'epoca, tutti gli altri
sono di ordine economico, interessano cioè la ricchezza e il lavoro. Sono
campi in cui troppi, per fortuna non tutti, gli economisti giurano di essere
i prescelti per dire l'ultima parola. Ma Giuseppe non conosceva le curve di
Simon Kuznets né le previsioni della Scuola di Chicago e si accontentò di
esprimere un consiglio di ben altro tenore:
[...] Si provveda dunque Faraone di un uomo accorto e saggio, e lo metta a
capo dell'Egitto. Procuri faraone di stabilire dei commissari su tutto il
paese, per riscuotere il quinto del raccolto durante i sette anni
d'abbondanza; si raduni tutto il raccolto dei prossimi sette anni fertili e
si ammassi il grano sotto la mano di Faraone, per provvigione delle città, e
lo conservino. E questa provvista servirà di riserva per il paese nei sette
anni di carestia, che verranno poi in Egitto; e così il paese non sarà
decimato dalla fame.
Faraone si comportò esattamente come disse Giuseppe. Così, quando vennero
gli anni di carestia, anche dai paesi vicini arrivò gente per comprare il
grano e il pane che solo in Egitto si trovavano. In questo modo Giuseppe
aveva violato i principi della massima produttività e minima spesa proposti
dalle nostre istituzioni, semplicemente utilizzando un'altra via, sempre
presente come ci insegnano le filosofie antiche, meno scontata ma
assolutamente efficace.
E' la via che hanno abbandonato i governi attuali, che invece preferiscono
usurpare il più possibile i risparmi dei cittadini per alimentare debiti
pubblici incredibili, nascosti attraverso raggiri contabili di cui abbiamo
già elencato alcuni esempi.
Se, per fare un esempio, lo Stato italiano non avesse da recuperare un
vergognoso disavanzo pubblico, che in pratica significa una mancanza di
scorte, non assisteremmo ai casi di paesi terremotati i cui cittadini vivono
per anni nelle baracche di fortuna. Né assumerebbe tanta gravità la crisi
idrica (ancora la pioggia che manca!) che ha colpito il Sud Italia nel 2002,
sintomo di interventi strutturali mai effettuati perché in presenza di
amministrazioni dalle tasche senza più risorse:
Il presidente della regione Puglia, Raffaele Fitto, [ha detto che] "[.] è
inimmaginabile risolvere in pochi giorni una situazione che ha ricevuto
disattenzione totale per un decennio". [.] Il presidente della regione
Sicilia, Salvatore Cuffaro [.] ha spiegato "[.] i danni ammontano a 3.000
miliardi di vecchie lire, ma sappiamo di non poter chiedere un impegno del
genere."
* * *
L'arrivo in Egitto si può leggere come l'ingresso di una piccola piramide in
una grande dove sta aumentando la differenza tra i vari strati sociali per
colpa della concentrazione della ricchezza. La carestia, iniziata come
preannunciato da Giuseppe, non finisce ma si acuisce sempre più. Le misure
messe in atto da questo governatore sconfessano la capacità che la sua
accumulazione di risorse potesse far fronte per tanti anni a una calamità
che non è certo per altro sia stata dovuta a cause naturali: il narratore in
effetti non le cita (come farà in altra sede quando parlerà di periodi senza
pioggia, cfr. I Re 18) e non sarebbe spiegabile un periodo così lungo di
ristrettezze per i raccolti.
Il narratore infatti non dice "la terra non dava i frutti necessari" bensì
"non c'era più pane" cioè si riferisce già ad un prodotto dell'uomo. Il
narratore puntualizza anche come il popolo pian piano rinuncia a tutto pur
di avere qualcosa di cui sopravvivere, in cambio solo della semente per i
campi.
Il faraone, che possiamo supporre venga indicato come rappresentante della
classe più ricca, entra in possesso delle ricchezze fino a che la gente è
costretta a vendere la propria terra e addirittura si adatta alla schiavitù
in cambio dell'esistenza. Il re può quindi disporre di tutto l'Egitto e dei
suoi abitanti: solo i beni dei sacerdoti vengono risparmiati in quanto il
faraone stesso li manteneva, a conferma che la classe sacerdotale godeva di
privilegi legati ai servizi che rendeva al re nella gestione del suo
predominio.
La gente allora venne ammassata nelle città e per vivere gli venne data
della semente, così che molti da pastori divennero agricoltori sedentari,
più legati ai centri urbani dell'epoca e meno nomadi. Il faraone era
detentore della semente e della terra, mezzi di sostentamento di un intero
popolo; un po' come succede ai nostri tempi: poche grosse imprese che
detengono i brevetti dei frutti della terra, le risorse dell'acqua, le vie
di comunicazione e via discorrendo.
Giuseppe non affrontò quindi la carestia in maniera soddisfacente, bensì
agevolò la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi a scapito
della popolazione. I risultati di questo aumento della sperequazione non
possono essere stati che un ribollire degli strati sociali teso a migliorare
la propria situazione all'interno di una piramide sociale che andava
assottigliandosi sempre più verso il vertice.
Come ci insegna la teoria delle piramidi, di tutte le strade che questa
società poteva percorrere per risolvere la propria instabilità interna, la
via scelta fu quella di una guerra di conquista con scissione. In questo
senso può benissimo essere letta tutta la vicenda degli ebrei che se ne
vanno dall'Egitto e che andremo a spiegare nel prossimo capitolo.
L'ESODO
Il libro dell'Esodo comincia con il racconto degli ebrei ridotti in
schiavitù dagli egiziani e disprezzati dal faraone, anche se nella Genesi
appare chiaro che la stessa sorte era capitata a tutto il resto della
popolazione. Iniziando da questa condizione servile il narratore innesta la
ribellione che farà fuggire gli ebrei per ritornare in Palestina.
Figura centrale di questo momento fu Mosè, un personaggio la cui identità
viene raccontata adducendo particolari subdoli, come il fatto che il bambino
sia abbandonato nelle acque ma arrivi proprio in mano alla figlia del
faraone e che questa riesca a crescerlo senza che il re, che aveva imposto
l'uccisione dei neonati maschi, la riprenda in qualche modo. Questo può far
pensare ad una costruzione tendente a nascondere una verità di fondo, che si
trova tra le seguenti ipotesi, supponendo che Mosè sia stato:
un bambino ebreo salvato dalla figlia del faraone (se la narrazione è vera)
un appartenente alle famiglie ricche che però fugge per qualche motivo
particolare, ad esempio un omicidio (Gn 2:11-15), forse perché pretendente
al trono
un ebreo ribelle di cui si vuole nobilitare i natali.
Il fatto che Mosè sia così libero di frequentare il faraone e vi siano nella
narrazione incongruenze nei fatti riportati fa più propendere per la seconda
possibilità (anche perché tanto Mosè che suo fratello Aronne portano nomi
egiziani).
Che non possa essere stato un ebreo ce lo testimonia anche il fatto che
prende in sposa la figlia di un sacerdote egiziano, contravvenendo quindi
alla regola principale che Mosè sembra dare, proprio lui che
fondamentalmente sarà il principale artefice della nuova religione ebrea;
cioè quella che vietava di congiungersi con gente straniera.
Anche non volendo accettare questa ipotesi, dobbiamo comunque ammettere che,
per il ruolo che svolge Mosè di fronte agli ebrei, ai sacerdoti e alla
gerarchia egiziana, egli sia stato un personaggio altamente influente,
appartenente ad una classe agiata e non un pastore qualsiasi. Probabilmente
non un oratore, se si avvale di Aronne come aiutante (Gn 4,10-16).
E' comunque con lui che prendono forza le recriminazioni degli ebrei di
fronte all'aumento delle fatiche imposte dal faraone (Es 5,6-10): sforzi
crescenti che aumentano il carico lavorativo degli "scribi dei figli
d'Israele" che cominciano a ribellarsi contestando addirittura l'operato di
Mosè presso il faraone (Es 5, 10-21).
Della piramide sociale non sono quindi i ceti più umili a sollevarsi
spontaneamente contro le imposizioni regali, essendo per natura senza voce
in capitolo e abituati ai sacrifici, quanto le classi più benestanti che
vedono calare il loro benessere. E sono queste che alimentano la rivolta.
A questo punto il narratore si avvale di una serie di artifizi narrativi per
celare la rivolta sociale, evento verosimile, alla base dei racconti
seguenti. Scatena così le tremende "piaghe" che si abbattono sugli egiziani
e rivela in Mosè insospettati poteri, all'apparenza sovrumani. Anche gli
esegeti moderni ridimensionano queste narrazioni al loro valore di mere
invenzioni o reinterpretazioni dei probabili fatti secondo "la cultura
popolare".
Noi possiamo considerare questa fantasia come tipica dell'epoca notando le
contraddizioni del racconto, in cui gli stessi atti "miracolosi" vengono
parimenti ripetuti dai maghi egiziani (Es 7:11,22; 8:3,14), nelle
esagerazioni in cui sembra che tutto venga distrutto dalle piaghe salvo poi
ritrovarlo da un'altra parte (cfr. Gn 9,6 con Gn 9,19-21) e nel sadismo
della divinità che ogni volta "indurisce" il cuore di un faraone pronto ad
assecondare il suo interlocutore.
Sotto l'enfasi della narrazione intravediamo invece le intenzioni di una
popolazione che probabilmente voleva salvaguardare il proprio benessere di
fronte alla continua usurpazione di questo da parte del potere al vertice
della piramide sociale. O di una classe sociale che ambiva a salire nella
stessa piramide, ricorrendo a qualsiasi mezzo pur di raggiungere il proprio
fine.
Il narratore invece spiega i fatti come un intervento divino nelle vicende
umane, compreso il massacro dei primogeniti egiziani, utilizzando una
discutibile visione di un Dio sanguinario che se la prende addirittura con
gli innocenti animali per perpetrare la sua vendetta, così assetato e reso
cieco dall'odio da aver bisogno di un segnale preciso per poter trovare le
proprie vittime (un segno rosso sugli stipiti delle porte!).
Il narratore insiste a non spiegare gli eventi come una ribellione del
popolo ebreo contro quello egiziano, addirittura facendo apparire la
spoliazione dei beni di quest'ultimo da parte dei rivoltosi come una
benevola concessione di oggetti preziosi d'ogni genere (Es 3:21-22; 11,2;
12:35-36).
Per poter ricondurre su un piano ragionevole la lettura di questi passi,
dobbiamo tralasciare molti particolari che brillano di una raccapricciante
immaginazione e riflettere sulla narrazione riconsiderando i fatti alla luce
delle schematizzazioni sociali conosciute, come faremo nel prossimo
capitolo.
PARTENZA PROGRAMMATA DALL'EGITTO
Gli ebrei trascorsero in Egitto 430 anni (Es 12.40). Non sappiamo molto di
come abbiano vissuto in questo lungo periodo, se non quanto ci riporta il
narratore:
I figli d'Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto
potenti e il paese ne fu ripieno. (Esodo 1:7)
Quindi questa popolazione costituiva un insieme di una certa rilevanza
all'interno del dominio faraonico. Ad un certo punto della loro storia ci
viene presentato un faraone che li prende in malocchio perché ha paura della
loro moltitudine; dei nuovi nascituri cerca di uccidere i maschi e
salvaguarda le femmine, oltre ad aumenta il carico di lavoro sulla
popolazione. Compare allora Mosè, supportato dal resto dei leviti, a
perorare la causa del popolo di fronte al faraone, con una richiesta ben
precisa: lasciare l'Egitto per dirigersi in Canaan.

Ricordiamo che questa terra non è mai stata degli ebrei e tanto meno poteva
esserlo dopo averla abbandonata per quasi 5 secoli. Ma quella zona del Medio
Oriente, costituita da verdi colline che contrastano con l'arido deserto
tutto intorno, diventando simbolo del giardino primordiale agognato da
chiunque, proprio quella zona era diventata oggetto delle aspirazioni di chi
cercava di uscire dall'Egitto.
Anche se la Bibbia enfatizza le operazioni di fuga degli ebrei, non sembra
che il faraone le abbia contrastate più di tanto. Se inoltre si tiene conto
che la fuga durò ben 40 anni nel deserto, per coprire un tragitto di qualche
mese, si capisce che avendolo voluto il faraone avrebbe potuto con il suo
esercito decimare in ogni momento e modo una popolazione che si spostava con
il fardello dei suoi armenti, a quanto pare poco o male armata e guidata da
persone che molto somigliavano a sacerdoti più che a veri capi guerrieri.
E' quindi più probabile che siamo di fronte ad una partenza concordata,
anche se avvenuta dopo grosse diatribe sfociate in ritorsioni e sabotaggi da
parte degli ebrei, osteggiata dal faraone a causa dei grossi problemi che
una traversata di tante persone avrebbe comportato per andare in luoghi già
abitati da altri popoli.
I vantaggi che derivarono all'Egitto da questa dipartita li vedremo nel
prosieguo del racconto: ma è chiaro fin d'ora che stiamo assistendo alla
grande piramide (l'Egitto) che scarica al di fuori le tensioni interne,
facendo conquistare da una parte della sua popolazione una terra che, forse,
non era del tutto sotto il suo dominio.
Questo è un esempio di conquista con scissione, già presentata nella teoria
delle piramidi, che contribuisce a diminuire la disuguaglianza interna,
riducendo gli individui che affollano gli strati più poveri della
popolazione. Un parallelo relativamente recente di questa conquista con
scissione lo si trova nella nascita degli U.S.A., una nazione sorta
guadagnandosi un territorio lontano dalla madre patria.
Questo non è avvenuto senza contrasti, sfociati addirittura in guerre, ma
ciò non ha evitato che successivamente U.S.A. e Gran Bretagna abbiano
convolato in preziosi accordi di mutuo soccorso, cosa che accadde tra Egitto
ed Ebrei come vedremo più avanti.
Però il faraone era conscio delle difficoltà nel guidare un tale popolo
lontano dalla propria terra e preoccupato che in seguito quel popolo, una
volta divenuto una nazione, si rivoltasse contro di lui. Cosa che
effettivamente non avverrà mai perché tra i due Paesi ci saranno scambi
intensi o, alla peggio, sarà ancora l'Egitto a dettare legge dalle parti di
Canaan.
Un risultato che il faraone riuscì ad ottenere modellando il futuro stato in
modo da non nuocere alla patria di origine. Vedremo tra poco come.
Durante il viaggio degli ebrei, [1] avvennero dei fatti importanti che
andremo a ricordare.
Mosè fu subito raggiunto da suo suocero, di origine medianita e non ebrea,
che gli suggerì come amministrare la gente che stava guidando (Es 18). Era
infatti riuscito a convincere una certa quantità di persone a lasciare un
paese in cui dimorava da più di quattro secoli e ora doveva fornirgli anche
le nuove norme di convivenza.
Era una fatica immane, perché Mosè si trovava di fronte non a un popolo ma a
un gruppo di persone con interessi particolari e personali, cui non bastava
la prospettiva di una terra propria per sopportare le fatiche di una
fuoriuscita da un luogo dove tutto sommato non moriva di fame.

Teniamo anche conto che l'attraversata nel deserto durerà ben 40 anni e
comporterà la morte di tutti quelli che erano partiti; d'altra parte le
popolazioni di Canaan non stavano ad aspettare questi stranieri lontani con
le porte aperte, ma avrebbero difeso a denti stretti i loro possedimenti.
Per conseguire il risultato voluto, cioè amalgamare le persone e consentire
una durevole convivenza, furono stabilite le leggi, di cui il decalogo non
era che una minima parte.
Nei tre libri dell'Esodo, Levitico e Deuteronomio troviamo infatti
un'immensa legislazione che tocca tutte le fasi dell'esistenza umana. Come
spiegarla con le nostre schematizzazioni? Dalla teoria dei triangoli abbiamo
visto che le relazioni che si instaurano tra gli elementi di ogni sistema
(individui e Terra) sono influenzate da problematiche non indifferenti, che
possiamo così rappresentare:
la Terra non produce più i suoi frutti, interrompendo il flusso di risorse
che tengono in vita l'uomo
l'uomo non è capace di raccogliere frutti dalla Terra: ciò lo conduce al
deperimento.
A cambiare queste situazioni viene in soccorso l'aiuto reciproco tra
individui, che comporta una serie di atteggiamenti che non sono
identificabili con le "cure" ma significano passaggio di risorse raccolte da
un individuo a quello che ne ha bisogno.
Questa forma di aiuto, per il quale modernamente viene spesso utilizzato il
termine di "solidarietà", determina una dipendenza vitale uomo-uomo. Ma essa
non è scevra dal poter essere utilizzata a vantaggio di chi è in forze
rispetto a quello che si trova in stato di bisogno e viceversa.
Oltre a ciò abbiamo visto che la corsa al benessere inchioda certuni in
posizioni di sottomissione ad altri individui fino a situazioni che non solo
incidono sul loro benessere, annullandolo, ma ne pregiudicano anche lo stato
di salute.
Queste differenze generano tensioni che si tramutano in scontri fino a
regredire nell'eliminazione fisica dell'avversario. Battaglie che però non
hanno un risultato scontato: non solo non è detto che prevalga la parte
supposta in situazione di vantaggio, ma vi sono anche difficoltà da
affrontare per mantenere il predominio.
Conviene perciò intervenire per ridurre le disparità. Il termine su cui si
agisce è l'individuo che, se è manipolabile al punto da indurlo in stato di
schiavitù, a maggior ragione gli si può imporre di rispettare alcuni limiti
nel proprio agire. Questi limiti sono tracciati nelle regole della
convivenza, che in termini di diritto, vengono chiamate Leggi.
LE LEGGI
Mosè, nel compiere quanto ci venne raccontato, era sostenuto sia dallo scopo
finale (la promessa di una terra che mai era appartenuta ad un popolo di
pastori) che dal supporto di alcune persone chiave. Nella sua opera
organizzativa e legislativa sicuramente Mosè non agì da solo, ma venne
aiutato dai capi tribù come testimoniano alcuni passi (Es 4,29ss) e la
vicenda del vitello d'oro (Es 32), dove dalla sua parte si schierarono tutti
"i figli di Levi".
Non possiamo allora credere che le leggi ebree fossero avulse dal contesto
sociale dell'epoca, come dipinte per la prima volta da un individuo
sovrumano. In realtà assomigliavano moltissimo a quelle dei loro contermini,
anche se costituiscono un corpus così monolitico da diventare punto di
riferimento per le comunità che si formeranno. Altra convinzione da
sciogliere è la certezza che queste norme di vita sociale siano state tutte
elaborate nel corso della traversata nel deserto. Se infatti le prime
stesure dei libri biblici sono iniziate all'epoca di Davide, cioè circa nel
IX secolo a.C., allora sono passati probabilmente circa 4 secoli dall'Esodo,
momento in cui si racconta siano state istituite.
E' perciò verosimile che esse siano il risultato di elaborazioni continue
fino alla versione a noi pervenuta.
In base alla teoria dei triangoli la loro struttura legislativa si può
allora dividere in due filoni:
regole di convivenza uomo-Terra
regole di convivenza uomo-uomo
a cui si aggiunge un terzo ramo che esprime gli obblighi dell'uomo nei
confronti di Yahweh. Nel decalogo [1] per esempio appartengono al terzo
gruppo i primi due comandamenti, al secondo gruppo quelli dal 4° al 10°,
mentre il 3° comandamento abbraccia tutte e tre i campi. La sua formulazione
[2] è infatti:
Ricordati del giorno di sabato per santificarlo: sei giorni faticherai e
farai ogni tuo lavoro; ma il settimo giorno è il sabato in onore del
Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua
figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né il tuo bestiame, né il
forestiero che dimora presso di te. Perché in sei giorni il Signore ha fatto
il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi, ma si è riposato il giorno
settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno di sabato e lo ha
dichiarato sacro. (Esodo 20,8-11)
In esso compaiono gli elementi del triangolo (uomini da una parte e animali,
cioè Terra, dall'altra) cui viene aggiunto il Signore. Il terzo comandamento
richiama, attraverso l'uso dei termini "riposo" e "lavoro", la questione
della fatica come viene anche enfatizzato da un altro precetto, quello del
digiuno e del riposo il decimo giorno del settimo mese (Lv 16, 29). Fatica
cui è sottoposto l'uomo ma che interessa anche la Terra, che verrà
fortemente chiamata in causa con l'instaurazione dell'anno sabbatico e di
quello giubilare.
Su questi due periodi ci siamo già concentrati in un precedente studio [3]
evidenziando la loro profonda valenza ai fini della ridistribuzione della
ricchezza. Ora, dopo aver introdotto il concetto di benessere ed aver quindi
allargato su un campo non solo quantitativo ma anche qualitativo l'analisi
dell'esistenza umana, possiamo vedere come il tema della fatica sia il
legame (che i passi della Bibbia ci confermano) che intercorre tra ricchezza
e benessere e come fosse intravisto un comportamento "umano" da parte della
terra a cui si concedeva il riposo:
[.] il settimo anno sarà come sabato, un riposo assoluto per la terra [.].
Ciò che la terra produrrà durante il suo riposo servirà di nutrimento a te,
al tuo schiavo, alla tua schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è
presso di te; anche al tuo bestiame e agli animali che sono nel tuo paese
servirà di nutrimento quanto essa produrrà. (Levitico 25,4-7)
L'anno giubilare era ancora più strategico, perché non solo veniva concesso
ancora riposo a quella terra, ma essa doveva ritornare in possesso di quelli
cui apparteneva. Il possesso della terra non poteva essere esclusivo e
perenne: il legislatore aveva fatto tesoro di quanto era accaduto secoli
prima in Egitto, quando il faraone era entrato in possesso di tutte le terre
riducendo il popolo alla sua mercé e generando miseria e schiavitù. Il
legislatore aveva compreso, senza formalizzarlo, il triangolo sociale di cui
la Terra costituisce un vertice importantissimo.
Un geniale "ecologista ante-litteram", ma dalle misure ben più efficaci
delle misere messe in scena dei nostri giorni, che riuscì nel contempo a
elaborare norme di solidarietà che però furono quasi da subito snaturate o
non applicate: il desiderio di benessere, che conduce alla sua
accumulazione, passa al di sopra di qualsiasi legge, per quanto questa sia
considerata addirittura di origine divina.
Molto prima degli Indiani d'America, il problema della sopraffazione di una
società fredda da parte di una calda è storicamente provato anche nella
Bibbia. Bisogna riconsiderare la legge del giubileo che gli Ebrei
abbandonarono successivamente all'esilio in Babilonia. Non sta scritto da
nessuna parte perché ciò avvenne: sappiamo soltanto che questa norma non
venne inserita nel documento che firmarono gli Ebrei di ritorno dall'esilio,
ove venne ribadito solamente:
[.] il settimo anno, di lasciar riposare incolta la terra e condonare ogni
debito.

Rispetto agli obblighi imposti dal giubileo, le restrizioni
all'accumulazione di ricchezza vengono sostanzialmente annullate. Alla luce
delle considerazioni finora svolte, vi è da supporre che ciò sia
interpretabile come il tentativo di difesa di un popolo a bassa
"temperatura" sociale.
E' probabile infatti che gli Ebrei si fossero resi conto delle conseguenze
del problema della piramide, ovvero che la loro società, costituita da una
bassa segregazione interna in quanto livellata dalla legge giubilare, doveva
continuamente soccombere di fronte a società più diseguali.
Il mantenimento della perequazione sociale sarebbe stato possibile solo se
avessero potuto rimanere un popolo isolato dagli altri; visto che tutti
dovevano rispettare la legge levitica, si evitava la possibilità che
qualcuno diventasse così potente da sopraffare il resto della popolazione.
Ma questo indeboliva il popolo nei confronti dell'esterno: in un precedente
studio abbiamo infatti visto che l'applicazione della legge levitica
corrispondeva ad un abbattimento della produzione e di conseguenza una
riduzione delle risorse, sia tecnologiche che di riserva per la società.
Finché la società vive in un ambiente chiuso, senza relazioni con altri, la
perequazione evita la richiesta di ricchezza e quindi riduce la necessità di
sviluppo tecnologico. Ma anche l'accumulazione di difese viene meno con la
conseguenza che, una volta che essa entra in contatto con strutture sociali
più forti e progredite in quanto non soggette agli stessi dettami sociali,
il sopravvento di quest'ultime su di essa risulta scontato.
L'abbandono della legge levitica, che diventò essenziale per la
sopravvivenza del popolo che si riteneva prediletto da Yahweh, non fu
comunque una scelta semplice ed immediata. Storicamente la legge giubilare
si colloca nel momento in cui vennero gettate le basi dello Stato di Israele
quando, a seguito dell'uscita dall'Egitto, le 12 tribù si unirono nella
"terra promessa" (XIII secolo circa a.C.). Da quel momento Israele vivrà
diverse lotte con i popoli vicini (i Filistei) e interne fino alla scissione
del regno in due (Israele e Giuda).
Ciò ovviamente "indebolì" la struttura sociale che difatti subì due
invasioni e deportazioni, prima da parte degli Assiri (721 a.C.) e poi dei
Babilonesi (597 a.C.). Dal ritorno nella terra promessa (538 a.C.), gli
Ebrei non applicarono più l'anno giubilare, ancor prima che Antioco IV
vietasse l'osservanza della legge mosaica (167 a.C.).
Questo non fu casuale ma, secondo il ragionamento esposto, frutto di una
scelta adottata per sopravvivere all'interno di un ambiente dove altre
società avevano optato per una maggiore 'temperatura' interna.
Gli Ebrei avevano capito che il giubileo negava loro la possibilità di una
crescita economica che avrebbe assicurato un maggiore potere da parte dei
loro regnanti, con conseguente incremento delle risorse, materiali e umane a
disposizione per l'apparato difensivo.
Ma non fu questo a salvarli dalle successive occupazioni da parte di
Alessandro Magno (336 a.C.) e dei Romani (63 a.C.), [3] all'interno dei cui
imperi però riuscirono ad adattarsi rinunciando alla parte più forte del
dettato divino, quella che disciplinava l'accumulazione di ricchezza.
Assumendo proprio loro al contrario il ruolo di gestori di scambi
commerciali e soprattutto dei crediti monetari e adottando atteggiamenti di
attaccamento al potere economico simili ai benestanti delle società ricche.
Una scelta che valse loro i successivi anatemi di Gesù:
Guai a voi, guide cieche, che dite: Se uno giura per il Tempio, non è
niente; ma se uno giura per l'oro del tempio, resta obbligato. Insensati e
ciechi! Che cosa è più importante, l'oro o il Tempio che santifica l'oro? E
voi dite ancora: Se uno giura per l'altare, non è niente; ma se giura per
l'offerta che c'è sopra, resta obbligato. Ciechi! Che cosa è più importante,
l'offerta o l'altare che santifica l'offerta? [.] Guai a voi, Scribi e
Farisei ipocriti! Che pagate la decima della menta, dell'aneto e del cimino,
e trascurate le cose più essenziali della Legge: la giustizia, la
misericordia e la fedeltà.
Oh, come difficilmente coloro che posseggono ricchezze entrano nel regno di
Dio!
La diatriba si acuì successivamente tra gli Ebrei e i primi cristiani,
mentre questi tentavano di instaurare comunità 'fredde' con una pressoché
nulla accumulazione della ricchezza interna:
La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un'anima sola: né vi era
chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era tra loro comune. [.] E
non vi era alcun bisognoso fra loro. Perché quanti possedevano terreni o
case, li vendevano, poi, preso il prezzo delle cose vendute, lo deponevano
ai piedi degli Apostoli, e si distribuivano a ciascuno secondo il bisogno.
Comunità che però, come abbiamo già visto, sarebbero state anch'esse
successivamente assorbite all'interno dell'Impero romano, la società calda
dell'epoca.
Vale comunque la pena citare alcune norme che interessavano la vita sociale,
senza pretendere di esaurirle in un breve riassunto:
non molestare e opprimere lo straniero (Es 22, 20), il prossimo (Lv 19, 13)
e l'immigrante (Lv 19, 33)
non favorire nei processi i più deboli (Es 23, 3) né far onore ai più
potenti (Lv 19,15)
pagare l'operaio entro un giorno (Lv 19, 13)
prestare soldi agli indigenti senza richiedere interesse (Lv 25, 35-43)
l'uomo sposato non deve andare nell'esercito o fare alcun servizio per un
anno in modo da rimanere a casa ed allietare la sua moglie (Dt 24,5)
il povero non deve essere oppresso e i frutti dei campi non devono venir
raccolti per intero in modo che ne rimanga per i forestieri, gli orfani e le
vedove (Dt 24,19ss)
i padri non possono essere messi a morte per colpa dei figli e viceversa (Dt
24,16ss)
il divorzio è permesso secondo certe regole (Dt 24,1-4).
Noi non possiamo che magnificare questo impianto legislativo per quanto esso
riesce ad insegnare ancora alla nostra società nonostante siano passati
millenni dalla sua prima redazione. Con questo non si illuda il lettore di
poter trovare nei testi ritenuti sacri solo fondamenti che potrebbero essere
applicati al giorno d'oggi. In molti di essi ritroviamo invece l'eco di una
cultura a cui le nostre difficilmente potrebbero piegarsi, o punizioni
sproporzionate alle azioni da biasimare, come si legge dai seguenti
obblighi:
non mangiare sangue di animali e volatili e il grasso di alcuni (Lv 7,
22-26); non mangiare, tra gli altri, carne di lepre e di maiale (Lv 11)
non tagliare in tondo l'orlo della capigliatura e non rasare l'orlo della
barba (Lv 19, 27)
bruciare le figlie dei sacerdoti che si prostituiscono (Lv 21, 9)
le donne non possono portare indumenti da uomo e gli uomini quelli da donna
(Dt 22,5).
Inoltre più di un paragrafo viene dedicato alla legge del taglione (Lv 24,
28-22).
Mentre in altre norme si leggono consuetudini vissute anche in epoche
successive non tanto distanti dalla nostra:
isolare i lebbrosi che devono distinguersi gridando "impuro, impuro" (Lv 13,
45-46)
non rivolgersi agli spettri e agli indovini (Lv 19, 21) e lapidare
negromanti e indovini (Lv 20, 27) e uccidere le maghe (Es 22, 4).
Per assicurarsi che le regole della convivenza fossero rispettate da tutti
senza trasgressioni, il legislatore stabiliva una serie di maledizioni, come
riporta un passo per quei comportamenti che sembrano ritenuti i più
abominevoli (Dt 27).
In un crescendo profetico, viene anche prefigurato il destino di chi
trasgredisce il Signore, rappresentato con le più indicibili immagini tra
quelle incontrate in letteratura e che descrivono bene il deperimento di una
società che non rispetta le regole (Dt 28,53).
Molte infatti erano le benedizioni per gli israeliti che avessero obbedito
alle leggi divine, ma anche le maledizioni in caso contrario (Lv 26). Per il
rispetto di queste norme si espone lo stesso Mosè prima di morire, quando
prescrive con vigore di prestare attenzione a tutto quello che aveva
insegnato perché tutti potessero prolungare i loro giorni nella tanto
agognata terra promessa (Dt 32,45-47).
LA CONQUISTA DELLA TERRA PROMESSA
Il passaggio nel deserto effettivamente non fu facile, perché le rivolte
interne non furono isolate ma ripetute (Es 32, Numeri 11, 14, 16, 17, 25) e
sedate spesso col sangue. Questo modo di condurre la popolazione era
richiesto dalla necessità di mantenerla unita per fronteggiare i nemici che
si sarebbero parati davanti (Numeri 32) in una teorica terra promessa i cui
confini vengono fatti coincidere a grandi linee con quella già mostrata ad
Abramo (Es 23, 31).
Ma una volta arrivati lì, come avrebbero dovuto essere trattati i popoli che
in essa già vi risiedevano? Cacciati, dopo aver distrutto prima i loro
altari e idoli (Es 34,13), perché era vietato fare alleanza con loro o
imparentarsi in qualche modo.

Le lotte contro le popolazioni che vengono incontrate furono di una crudeltà
abominevole: furono sistematicamente depredate e distrutte le loro città,
preferibilmente sterminando i maschi e rapendo donne e bambini che venivano
schiavizzati (Numeri 21,31), anche se per le città di Canaan il verdetto è
ancora più tremendo in quanto dovevano essere sterminati tutti (Dt 20,
16ss).
Per inciso, in questa terra si ritrovano gli ebrei che erano rimasti in
Canaan e non erano andati in Egitto qualche secolo prima (Dt 2), cioè i
discendenti di Esaù da cui gli ebrei, per ordine divino, non dovevano
pretendere alcunché.
Una volta conquistato il territorio e uccisi in parte i precedenti
possessori, fu ripartito tirando a sorte e destinando le aree maggiori a chi
era già "grande" (Numeri 33,54), stabilendo che l'eredità doveva rimanere
all'interno di ogni tribù (Numeri 36) e individuando una tribù che era
sottoposta a regole particolari in quanto era gente che doveva dedicarsi al
culto e che non poteva permettersi possedimenti. Questi erano i Leviti che
vivevano di quanto proveniva dai fratelli delle altre tribù, prelevando
altrettanto proporzionalmente, cioè molto dal grande e poco dal piccolo
(Numeri 35,8).
E' in questo momento che viene precisato il motivo per cui solo agli ebrei
era toccata questa sorte, perché cioè Dio avesse scelto Israele e non altri
popoli per portarli nella terra promessa:
Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi
di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -
ma perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto
ai vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi ha
riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone, re
di Egitto. (Deuteronomio 7:7-8)
In un altro passo si attesta che non è che Israele meriti la benevolenza del
Signore, è solo che le altre nazioni sono perverse e il Signore deve
mantenere la parola data (Dt 9,4-6). Per questo Israele doveva sterminare
senza misericordia gli altri popoli (Dt 7, 16ss).
Vi è anche un modo per discernere i falsi profeti, vedendo semplicemente se
riescono a prevedere il futuro (Dt 18, 21ss), che vedremo avere una
importante relazione con la teoria della conoscenza.
Con il libro di Giosuè il nuovo popolo ebreo oltrepassa il fiume Giordano e
comincia la conquista della terra per la quale era partito dall'Egitto. Ma
la terra di cui riescono a impadronirsi non coincideva con quella sognata e
già delineata ad Abramo e sorsero da subito difficoltà nell'eseguire gli
ordini divini, che erano di sterminare tutte le popolazioni senza riserva
alcuna.
Per raggiungere lo scopo prefisso vengono ingaggiate lotte contro le
popolazioni locali utilizzando una crudeltà abominevole; Gerico venne rasa
al suolo, uccidendo tutti i suoi abitanti e armenti, e depredando le
ricchezze in oro e argento. Della città di Ai vennero uccise dodicimila
persone, ma risparmiato il bestiame e gli oggetti di valore, e la città
incendiata. I Gaboniti, abitanti della zona, si arresero e diventarono
invece schiavi degli israeliti. Altri massacri furono compiuti a Makkeda,
Lachis, Eglon, Ebron, Debir, Azor. Così gli ebrei avevano messo in atto il
piano che gli aveva ordinato il Signore (Gs 10,40).
Questo modo di agire si spiega con la teoria dei triangoli. Essa rende
infatti conto dei seguenti fatti:
I maschi vengono tutti uccisi per poter annullare le forze maggiormente
resistenti e concorrenti nella ricerca del benessere
La città viene depredata di tutti i beni materiali (corrispondenti all'
''energia" nel triangolo sociale)
Vengono risparmiati i bambini, che non essendo ebrei potevano essere ridotti
in schiavi, e le donne, oggetto di servizio lavorativo e procreativo oltre
che di piacere.
Come si vede la gente si stava muovendo per trovare una terra che offrisse
le risorse che erano andate concentrandosi nelle mani di pochi nell'impero
egiziano d'origine. La prospettiva di impadronirsi delle fertili terre
palestinesi fu ingigantita dalle tribolazioni sopportate nell'attraversare
il torrido deserto del Sinai.
Quando arrivarono a destinazione, i luoghi erano occupati da altre genti che
ovviamente non volevano certo lasciare le terre di cui erano proprietari da
centinaia di anni e che costituivano indubbie risorse di vita per
popolazioni che, dopo la nascita di città, da tempo si dedicavano più ad
attività sedentarie e di commercio piuttosto che al nomadismo. La città,
come dimostra il caso dell'Egitto narrato dalla Bibbia, sono sintomo però di
una non equa distribuzione della ricchezza che crea latifondismo e
concentrazione di popolazioni in borghi alle dipendenze di pochi facoltosi
signori.
Come sembrano suggerire studi recenti, l'arrivo degli ebrei turbò il
delicato equilibrio che sottoponeva i ceti emarginati alle élite dominanti e
mise in subbuglio anche strati emarginati della popolazione locale che si
allearono agli invasori destabilizzando l'intera zona. [1]
Gli ebrei entrarono perciò in possesso della terra promessa ma,
contrariamente a come gli era stato imposto dai dettami di Mosè, non
riuscirono a decimare le popolazioni locali. Cosa che era assolutamente
importante, in quanto distruggere le popolazioni era una prassi supportata
da norme ben specifiche miranti a isolare il popolo israelita dagli altri.
Esempio di questa legislazione isolazionista sono le seguenti regole:
Le popolazioni locali dovevano venir cacciate, dopo aver distrutti prima di
tutto i loro altari e idoli (Es 34,13)
Con le altre era vietato fare alleanza, né imparentarsi in alcun modo
Dal punto di vista economico allo straniero poteva essere chiesto
l'interesse nei prestiti, ma non a un fratello israelita (Dt 23,21)
Dalle nazioni straniere gli ebrei non potevano chiedere prestiti; piuttosto
erano gli ebrei che dovevano risultare sempre in credito per aver ragione di
dominarle (Dt 15,6) e, ovviamente, non avere mai come capo un re straniero
(Dt 17,15).
La risposta al motivo per cui il grande sacerdote - condottiero avesse
imposto chiare regole di minime relazioni con le altre nazioni si ottiene
ragionando ancora con la teoria dei triangoli. Prendendo come termini di
paragone la nazione ebrea ed una qualsiasi contermine, è chiaro che il
legislatore cercava di ridurre al minimo i contatti tra le due in modo che
la situazione non degenerasse in quella rappresentata di Rappresentazione
geometrica della gerarchia sociale, dove gli ebrei finivano coll'assumere la
parte della società sottomessa. Questa era una condizione da cui gli ebrei
erano fuggiti avendola subita quando erano in Egitto e non potevano
sopportare di ricaderci nuovamente. Un modo per impedirlo era appunto quello
di mantenere la costituenda società - una specie di esperimento sociale
creato a tavolino - isolata dalle altre.
Una volta entrati nella terra promessa v'era da decidere quale
organizzazione politica avrebbe retto una tale massa di gente. Quale
struttura sociale avrebbe fatto fronte alle diatribe interne e alle
pressioni esterne dei popoli che potevano bramare quel territorio come gli
ebrei stessi. Prima di vedere cosa accadde, leggiamo il passo che descrive
cosa "non" avrebbe dovuto accadere secondo la volontà di Yahweh:
Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e ne
avrai preso possesso e l'abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di me
un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, dovrai costituire sopra
di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto. Costituirai sopra di
te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te uno
straniero che non sia tuo fratello. Ma egli non dovrà procurarsi un gran
numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran
numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: Non tornerete più indietro
per quella via! Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il suo cuore
non si smarrisca; neppure abbia grande quantità di argento e d'oro. Quando
si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una copia di
questa legge secondo l'esemplare dei sacerdoti leviti. La terrà presso di sé
e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a temere il Signore
suo Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e tutti questi statuti,
perché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi fratelli ed egli non si
allontani da questi comandi, né a destra, né a sinistra, e prolunghi così i
giorni del suo regno, lui e i suoi figli, in mezzo a Israele. (Deuteronomio
17:14-20)
Il tono di queste raccomandazioni risuona come un monito a sfuggire la
situazione già vissuta in Egitto, senza biasimarla ma evitando di emularla.
Non viene infatti tanto deprecato l'esempio egiziano di un re che regna su
tutti in mezzo al fasto, quanto la necessità che gli ebrei non si
organizzassero alla stessa maniera.
Tra le righe è chiaro il fatto che un paese potente come l'Egitto non poteva
permettere la crescita di un regno altrettanto forte ai suoi confini,
proprio quando era stato il faraone a far spostare una tale massa di gente
perché generava tensioni al suo interno.
Ma questa popolazione non avrebbe dovuto costituire un pericolo per il regno
d'origine caso mai, come vedremo più avanti, un cuscinetto contro le
scorrerie di eventuali invasori da Oriente, insomma una specie di territorio
occupato da una fedele massa inerme.
Da notare come nel racconto sia inserito il monito "Non tornerete più
indietro per quella via" riferito al popolo tutto, che non è un divieto ad
avere rapporti commerciali, come effettivamente sarà, quanto la proibizione
ad una "retro invasione" per procurarsi mezzi militari, come si legge dalle
parole: "Ma egli [il re] non dovrà procurarsi un gran numero di cavalli né
far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di cavalli". Un
modo per evitare un armamento in grande stile della nuova nazione a spese
del regno egiziano, sua patria d'origine.
Questo non significa che l'istituzione di un re non fosse permessa, come si
legge, ma tanto vincolanti erano le condizioni cui doveva sottostare da
risultare poco più di un rappresentante del popolo con una forza quasi
simbolica.
La sicurezza della nuova nazione avrebbe dovuto per forza basarsi
sull'isolamento dalle altre e su una fiera identità da salvaguardare in base
ad un primato di elezione da parte del nuovo dio Yahweh. Ma le cose non
andarono così: la spinta alla concentrazione della ricchezza si sarebbe
fatta sentire anche da queste parti, facendo balenare tempi di non facile
gestione.
Al termine della guerra di conquista la terra promessa venne ripartita a
sorte tra le varie tribù: a 9 tribù e mezza (quella di Manasse) fu data la
zona a ovest del Giordano (Canaan), a due e mezza fu data quella a est del
Giordano, mentre ai Leviti furono assegnate solo delle città come aveva
stabilito Mosè (Gs 14). Questa suddivisione non fu accettata comunque senza
discordie (Gs 17,14ss e 22,9ss).
I crucci degli ebrei continuavano a essere i Cananei, discendenti da Canaan,
figlio di Cam che abbiamo trovato nella Genesi quando venne maledetto da Noè
per aver visto la sua nudità. La famosa Gerusalemme era infatti ancora in
mano loro: sicché gli israeliti la assalirono e, come al solito prima di
incendiarla, passarono a fil di spada i suoi abitanti.
L'artefice delle conquiste fu Giuda, succeduto a Giosuè, che però,
nonostante le grandi battaglie condotte, non riuscì ad occupare tutti i
territori e si rassegnò a sottomettere alcuni a pagare pedaggi di
vassallaggio.
Fu in questa conquista solo parziale che il narratore intravide la causa
delle disgrazie per la nuova nazione. Il mantenimento di popolazioni diverse
all'interno del territorio contribuiva, dal punto di vista religioso, a far
serpeggiare la tendenza all'adorazione di idoli diversi da Yahweh; dal punto
di vista politico ed economico faceva stringere alleanze proibite con i
popoli di quelle terre.
Il narratore biblico giustifica questa perniciosa tendenza perché dopo la
morte della generazione che era sopravvissuta all'esodo e aveva condotto la
prima conquista della Palestina, i nuovi nati non si ricordavano già più
quello che il Signore aveva fatto per Israele (Gdc 2,10): così gli israeliti
cominciarono ad adorare il dio locale Baal e sua moglie Astarte. Adorazione
che, secondo il narratore, scatenò l'ira del Signore che mise contro gli
ebrei i popoli vicini, dai Cananei ai Filistei.
Da questo momento cominciarono una serie di racconti di battaglie e atti di
tradimento (Gdc 3,12ss, 4,17ss) contro i quali sorsero sempre nuove persone,
dette "giudici", che raccoglievano il popolo contro le genti che l'
opprimevano. Non erano però veri e propri re, perché le tribù non sopportano
che vi fosse una persona al disopra di tutte loro, tanto che anche quando
con Gedeone questo atteggiamento sembrava cambiare fu lui stesso a rifiutare
la nomina.
Ma suo figlio Abimelech non era della stessa stoffa e infatti sembrò deciso
a istituire il suo potere su Israele, tanto che uccise 70 fratelli per
accentrare in se stesso l'autorità. Riuscì a compiere il suo piano solo su
tre di essi, ma poi gli si rivoltarono contro i signori di Sichem, prima
suoi alleati, che lui non esitò a far morire bruciando un tempio in cui si
erano rifugiati. [1]
Il seguito di questi episodi di sofferenza termina con il famoso Sansone,
che noi conosciamo come il primo kamikaze della storia, quando morì
uccidendo i filistei radunati nel palazzo che fece crollare (Gdc 16,29).
Che l'ago dell'equilibrio tra i poteri delle tribù stesse pendendo verso
l'accentramento del governo nelle mani di un'unica persona ce lo testimonia
la fine del libro dei Giudici, che sembra essere stata aggiunta da un ignoto
autore filomonarchico per dimostrare quanto disordine vi fosse tra il popolo
quando non vi regnava ancora un re. [2]
Vengono narrati due episodi che traggono entrambi spunto dalle mosse di un
levita. Nel primo, il levita viene da Betlemme, si chiama Gionatan ed è
nipote di Mosè: diventa sacerdote di Micea, dopo avergli fatto un dio, come
recita il testo (Gdc 18,24). Ma entrano in scena quelli della tribù di Dan,
che lo rapiscono e fanno proprio quel dio, mentre successivamente assaltano
un popolo "pacifico e che si sentiva al sicuro" (Gdc 18,27) e lo sterminano.
Il secondo episodio è ancora più brutale. Un levita di Efraim è in viaggio
per ricondurre a casa la concubina che lo aveva abbandonato. Fermatosi in un
posto, incappa in alcuni uomini che vogliono abusare di lui e per salvarsi
offre in cambio di se stesso la moglie, che così viene violentata a morte;
per vendicarsi, squarta la moglie in dodici pezzi e li invia alle tribù di
Israele, che accorrono per fare giustizia.
Il risultato fu un massacro di uomini e bestie della tribù di Beniamino, cui
apparteneva la città in cui era avvenuto lo stupro: della stessa città
furono risparmiate solo 400 vergini perché i maschi di Beniamino potessero
perpetuare la specie. Ma gli uomini erano troppi per quelle poche ragazze.
Allora fu suggerito loro di andare a rapire le donne di Silo. [3]
[1] Solo una donna riuscì a fermarlo, fracassandogli la testa con una macina
da mulino. A testimonianza del forte maschilismo imperante, mentre moriva
l'aspirante re chiese ai suoi fedeli di ucciderlo di spada, perché si
vergognava di essere stato ucciso da una donna.
[2] Cfr. [Bibbia1] pag. 327.
[3] Le donne continuavano ad essere considerate come meri oggetti per la
riproduzione del maschio.
In questo periodo la nazione ebrea soffrì delle rivalità tra le tribù e le
difficoltà nel contrastare tutti uniti le insidie che venivano dalle
popolazioni esterne. Questa poca unità era vista dal narratore in maniera
negativa: l'isolamento degli ebrei, necessario secondo gli schemi
predisposti durante l'esilio, veniva inficiato dalle continue relazioni con
le popolazioni locali, di cui figurava come orrendo emblema l'adorazione
degli dei stranieri.
Il narratore imputa a questi costumi la vendetta di Yahweh che abbandonò il
popolo in mano agli attentati dei nemici, in quanto lui stesso non era più
al centro delle adorazioni dovute. Ma il rifiuto dei costumi delle
popolazioni straniere costituiva un tutt'uno col la rescissione dei rapporti
con esse per assicurarsi condizioni di difesa permanente.
Le tribù non riescono però nell'intento di estirpare le popolazioni locali,
anche perché alcune di esse erano state loro alleate nella presa di quella
regione. Il popolo ebreo accettava perciò una commistione di commerci e
usanze che avrebbero alla lunga inficiato la tenuta dell'imponente sistema
legislativo impostato da Mosè. La società isolata di Mosè non era neanche
mai nata, perché aveva provato ad insediarsi in una regione ambita da tutti
per la posizione e la somiglianza al "giardino" primitivo che assicurava
benessere senza eccessiva fatica.
Vi era una soluzione a tutto questo? No. I disagi causati dalle pressioni
esterne dei filistei ed altri, di cui probabilmente facevano parte i
discendenti dei pochi scacciati dalle proprie terre e che ora alimentavano
desideri di vendetta, si associavano alla tendenza di ogni società a
sviluppare meccanismi di accumulazione della ricchezza.
Questi due fattori spinsero la neonata società ebrea, composta da 12 tribù -
che, nelle nostre schematizzazioni, altro non sono che piccole piramidi
autosufficienti - a percorrere l'irresistibile strada della concentrazione
della ricchezza e quindi del potere. Di là a qualche anno l'amministrazione
di tutte le ricchezze finirono nelle mani di un solo uomo: il re.
Dai racconti biblici sembra che sia il popolo a chiedere che venga
istituito, attraverso l'individuazione di una persona con l'unzione da parte
di un sacerdote. Il re era il "messia", l'unto designato da Yahweh
attraverso il sacerdote. Eppure Samuele, prima di compiere l'atto, avverte i
suoi concittadini con parole tremendamente profetiche, palesando che un re
li avrebbe sfruttati come era accaduto in Egitto:
Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi: prenderà i vostri
figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li farà correre
davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di cinquantine; li
costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad apprestargli
armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri. Prenderà anche le
vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie. Si farà
consegnare ancora i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti più
belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle vostre
vigne prenderà le decime e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi ministri.
Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori e i
vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sui vostri
greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi. Allora griderete a causa del
re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà. (1 Samuele
8,11-18)
Ma
Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di ascoltare la sua voce, ma
gridò: «No, ci sia un re su di noi. Saremo anche noi come tutti i popoli; il
nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra testa e combatterà le
nostre battaglie». (1 Samuele 8,19-20)
Samuele allora scelse Saul, che era della tribù di Beniamino, nonostante non
incontrasse il favore di tutti. Questo primo re riuscì a imporsi in
battaglia, ma travalicò i suoi compiti offrendo addirittura olocausti, atto
che era di competenza dei sacerdoti, e attirandosi perciò l'ira di Samuele.
Che però non gli indirizzò l'anatema neanche quando, disubbidendo ad un
ordine divino di massacrare tutto il popolo di Amalek, Saul risparmiò del
bestiame e altri beni come bottino.
DAVIDE E SALOMONE
E' in questa atmosfera che si inserisce la figura di Davide. Una persona che
la tradizione dipinge come l'emblema del re per antonomasia, ma di cui in
realtà vengono narrati fatti di un cinismo e un'inumanità disdicevoli. In
pratica, per poter riuscire nei suoi scopi non esitò ad adottare qualsiasi
atto, dal più menzognero a quello di più alta vigliaccheria.
Si rilegga ad esempio l'episodio in cui sconfigge il gigante Golia. Nella
tradizione viene rappresentata la sconfitta del cattivo (Golia) per mano del
buono (Davide) supportato da Dio.
Il racconto biblico invece spiega che Davide, che doveva sfidare Golia in
duello, si presentò vestito come un pastore, e quindi ingannando il gigante
che si aspettava un guerriero vestito di tutto punto, cogliendolo di
sorpresa con un'arma non convenzionale quale era la fionda, utilizzata per
cacciare bestie e non per duellare.
Davide conquistò il potere dopo varie peripezie, doppi giochi e inganni
degni del più cinico dei capi, addirittura alle spese di Saul che
inizialmente lo aveva protetto. In principio viene nominato solo re di Giuda
e vi regna per sette anni e mezzo, mentre Is-Baal, un altro figlio di Saul,
regna su Israele per due anni.
La Palestina ebrea si vide perciò divisa nelle mani di due re, aprendo
presto le porte ad una guerra civile, che terminò con la disfatta del figlio
di Saul e l'ascesa di Davide a unico re di Giuda e Israele, senza per altro
spegnere le rivalità tra i due regni.
Nell'ascesa al potere Davide fece trasportare l'arca dell'alleanza a
Gerusalemme, città nel territorio della tribù di Beniamino, centralizzando
quindi il culto in modo da controllare meglio i sacerdoti. Questi infatti
nelle guerre tra contendenti non si dimostravano al di sopra delle parti e
quelli che avevano dimostrato preferenze per il candidato perdente venivano
subito destituiti.
Dopo Davide prese il potere suo figlio Salomone, che fu perciò il primo re
per successione dinastica, che la Bibbia ricorda per la sua saggezza e per
aver condotto il regno ad un certo periodo di splendore e pace. Ma,
contrariamente al dettato divino (Dt 17,17) si permise più di 700 moglie e
300 concubine (1 Re 11,3), e tra le mogli anche donne straniere,
contravvenendo alle proibizioni d'imparentarsi con altre popolazioni.
Sotto di lui venne costruito il muro di Gerusalemme e il primo tempio, per
il quale fece faticare trentamila lavoratori forzati (1 Re 5,27) reclutati
tra le popolazioni non ebree a lui sottomesse. Riuscì a terminarlo in sette
anni, mentre il suo palazzo personale gli costò tredici anni di lavori. Il
giorno in cui fu dedicato il tempio furono immolate 120.000 pecore e 20.000
buoi (1 Re 8,63)!
La descrizione delle fastosità del tempio e del palazzo non deve trarre in
inganno sopravvalutando la ricchezza del regno: le spese per costruire tanto
sfarzo comportarono un grande dissesto finanziario che costrinse Salomone a
vendere delle intere città (1 Re 9,10ss).
Il narratore non ci risparmia che, dal punto di vista religioso, Salomone
non fu migliore del resto della popolazione: oltre ad aver sposato mogli di
altri popoli, ne seguì anche le divinità (1 Re 11,4) erigendo anche a queste
dei santuari. Perciò venne richiamata l'ira di Dio che promise sventure non
durante il suo ma il regno dei suoi figli.
A proposito delle sue donne: divenne anche genero del faraone d'Egitto.
Ancora gli egiziani: ciò conferma che le relazioni tra ebrei e egiziani non
fossero così negative come ci voleva dimostrare il racconto dell'Esodo, come
per altro dimostrano altri episodi tra le due società.
Certo viene da chiedersi come abbia fatto Salomone a diventare così ricco
visto che il re non doveva moltiplicare i propri averi per accrescere la
propria ricchezza (Dt 15, 16). Ci chiediamo infatti come poteva un figlio
ereditare le ricchezze di un padre se doveva anch'egli sottostare ai dettati
degli anni giubilari che prevedevano il ritorno delle ricchezze ai
proprietari precedenti? Possiamo rispondere supponendo che con la
successione dinastica venne meno la norma principe dell'anno giubilare.
V'è cioè da ritenere che, una volta usurpate le terre attraverso l'uccisione
dei proprietari, non aveva più ragione alcuna il timore della loro cessione
per cui esse rimanevano di proprietà dell'ultimo detentore.
Perciò, dopo aver scorso velocemente le biografie di questi due re, padre e
figlio, possiamo trarre la seguente naturale considerazione: entrambi
aumentarono il proprio potere e le proprie ricchezze, ma contemporaneamente
per poterlo fare dovettero contravvenire alle leggi bibliche. Lo fecero
scavalcando tutti i vincoli che le norme ponevano all'agire umano, nella
ricerca sfrenata del potere e del benessere. Lo fece già Davide, come
abbiamo visto, nonostante i rimproveri che gli mandarono i sacerdoti. Lo
fece maggiormente suo figlio Salomone, che invece di raccogliere sdegno
perpetuo, ebbe perenne memoria nelle popolazioni successive.
L'operato di Davide e Salomone è ben in linea con quello di accentratori di
potere e ricchezza, ruolo ottenuto non attraverso lo sfoggio di capacità al
di sopra della media, bensì violando le regole dettate per la convivenza
sociale.
Accumulazione di potere e ricchezza e violazione delle regole vanno di pari
passo come avevamo già stabilito in un precedente studio per i nostri tempi
attuali.
IL POTERE DEI SACERDOTI
Il ruolo strategico dei sacerdoti è sempre più evidente negli scritti
biblici. Tutto viene infatti giustificato in base a quanto il comportamento
del popolo è conforme ai dettati divini, ovvero alle disposizioni cui
sovrintendono i sacerdoti. Le disgrazie vengono giustificate con l'idolatria
che porta il popolo ad allontanarsi dal dio nazionale, Yahweh; dove si
erigono altari e santuari arriva l'ira del sacerdote che corre a
distruggerli.
Non si può non leggere in queste prime guerre di religione la paura di
perdere il predominio da parte di una costituenda casta sacerdotale
centralizzata. Potere assicurato soprattutto dalle entrate che pervenivano
al Tempio attraverso un sistema di norme che faceva corrispondere ad ogni
"peccato" dei cittadini una corrispondete offerta materiale. Norme che
inoltre avevano comportato anche una legislazione specifica per gli addetti
al culto, mutuata dalle tradizioni egiziane e che di fatto assicurava loro
un benessere particolare.
Per renderci conto di tutto questo dobbiamo fare qualche passo indietro
nelle narrazioni che abbiamo a disposizione.
Nel libro dei Numeri troviamo vari esempi di censimenti della popolazione.
Essi non hanno solo un valore storico, ma per ogni epoca hanno sempre
significato il poter contare su numeri certi per riscuotere le imposte.
Proprio per questo motivo hanno costituito motivo di malumore che anche la
Bibbia ci riporta (2 Sam 24).
Ma, sempre per l'epoca, il censimento significava anche rimpinguare le casse
dei sacerdoti in quanto "per il riscatto della sua vita" al Signore, ogni
israelita con età maggiore di vent'anni, sia povero che ricco, doveva
versare mezzo siclo (Es 30, 13) che andava impiegato per il servizio della
tenda, cioè per i sacerdoti. Questi erano scelti tra i figli di Aronne,
della casata levita come era Mosè, i cui membri non vennero censiti e quindi
non dovettero pagare l'obolo (Numeri 1, 49), ma verranno contati a parte
(Numeri 3, 14).
Questa figura di officiante responsabile del culto la troviamo citata
relativamente tardi nella Bibbia. Prima infatti l'invocazione del Signore
sembrava regolata da alcunché e veniva fatta risalire ai nipoti di Adamo (Gn
4,26).
Il primo sacerdote citato è Melchisedek (Genesi 14, 18) ma dobbiamo arrivare
in Egitto per incontrarne ancora (Genesi 41, 45) quando Giuseppe sposerà
proprio una figlia di un sacerdote egiziano, come farà lo stesso Mosè, quei
sacerdoti che in Egitto abbiamo visto godere di privilegi particolari. Per
il popolo israelita l'importanza di questa casta si capisce da questa frase
fatta pronunciare al Signore:
"Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". (Es 19, 6)
Così quando Aronne e i suoi figli verranno nominati sacerdoti (Es 28, 1) non
faranno che perpetuare una tradizione fatta risalire a tempi ben più
antichi, riservandosi privilegi che già erano propri dei predecessori, o
almeno portavano con sé la stessa dose di benessere:
i sacerdoti mangiavano le vittime offerte come sacrificio espiatorio dei
peccati (Es 6, 19)
ai sacerdoti spettavano per mogli solo vergini o la vedova di un altro
sacerdote (Lv 21, 13-14)
gli israeliti dovevano portare alla casa del Signore il meglio delle
primizie del suolo (Es 34, 26)
ai leviti spettavano tutte le decime di Israele ma nessun possesso
territoriale (Numeri 18, 20)
anche se ai leviti vennero date 48 città e il territorio limitrofo (Numeri
35). Perciò, rispetto alla casta sacerdotale egiziana, quelli ebrei non
possedevano terra: fatto che però gli permetteva di vivere con entrate di
tutto rilievo senza dover faticare (fortunati loro!) nel lavoro dei campi
per procurarsi di che vivere.
LA FINE DELLA NAZIONE
Ma cosa capitò dopo la morte di Salomone? Il primo a succedergli, dopo
quaranta anni di regno, fu Roboamo che dovette subito affrontare quelli che
si lamentavano per le pene che suo padre aveva imposto al fine di erigere
templi e palazzi, [1] e che si erano alleati con un altro figlio di
Salomone, Geroboamo, da questo fatto fuggire in Egitto.
Ma Roboamo, dando ascolto più ai consiglieri giovani che a quelli anziani,
provocò la divisione di Israele da Giuda; frattura prima politica, in quanto
Geroboamo fu eletto re d'Israele e Roboamo restò a regnare su Giuda, e poi
religiosa, in quanto Geroboamo eresse santuari in vari posti e nominò
sacerdoti non di provenienza levita, forgiando come immagine da adorare due
torelli che chiamò "il dio che fece uscire Israele dall'Egitto" (1 Re
12,28). Regnò per 22 anni, mentre suo fratello Roboamo regnò 17 anni in
Giuda.

Seguirono altri re che continuarono a macchiarsi dell'adorazione sempre più
spinta agli dei di altre popolazioni, in particolare a Baal dei Cananei. E'
durante il regno di Acab su Israele (874-853 a.C.) che incontriamo la figura
del profeta Elia, cui seguiranno tutta una serie di altri profeti che
risuonano come voci preannuncianti disgrazie e redarguiscono ora questo ora
quel regnante per la condotta non sempre ortodossa.
Oggetto di continui anatemi sono tutti gli atti che prefigurano un
allontanamento dal culto, unico ammissibile, per Yahweh e che portano questi
profeti ad appoggiare pretendenti al trono che siano ortodossi dal punto di
vista religioso. Ad esempio il profeta Eliseo farà consacrare re Ieu, un
israelita che si dimostrò ben presto abile nel massacrare senza ritegno re e
loro famigliari nonché i sacerdoti che seguivano Baal.
Ma, nonostante il suo regno sia stato piuttosto lungo (28 anni) il narratore
gli rinfaccia il fatto che non abbandonò i torelli che erano stati fatti in
Betel e Dan da Geroboamo e che rappresentavano un punto di attrazione
evidentemente in antitesi con il centro di Gerusalemme.
Nel tempio intanto ritroviamo sacerdoti adagiati sul benessere raggiunto,
tanto da accumulare continuamente tesori senza spenderne alcuno per fare la
manutenzione dell'edificio. Così il re Ioas, dovette subire l'affronto di
questi sacerdoti che disubbidirono agli ordini di restaurare il tempio
utilizzando l'oro ivi depositato, costringendo lui stesso a farne la dovuta
manutenzione utilizzando parte delle offerte che venivano dalla popolazione.
[2]
[1] Da un passo (1 Re 12,18) si comprende che gli stessi Israeliti erano
stati soggetti da Salomone ai lavori forzati.
[2] Un esempio che sarebbe da non seguire ma che ci ricorda da vicino le
ingenti tassazioni che gravano sui cittadini italiani per mantenere tutti i
beni delle diocesi sparse sul territorio.
ACCENTRAMENTO DELLA RICCHEZZA E POTERE
La concentrazione del potere e della ricchezza, che dalle 12 tribù condusse
alla nascita dei due regni del nord (Israele) e del sud (Giuda), li portò ad
essere uniti in questo periodo sotto la guida di un unico re.
Le guerre interne per il predominio al vertice della piramide sociale
portarono successivamente alla divisione di un regno ebraico che vide il
proprio territorio unito solo durante il periodo di Davide e Salomone.
L'esistenza di una nazione che appartenesse agli ebrei come promessa da
Yahweh ai loro antenati durò forse solo 80 anni, dal 1000 a 922 a.C.. Le
disparità sociali però continuarono ad aumentare negli anni successivi; come
dimostrato in Rappresentazione geometrica della gerarchia sociale la
scissione di una piramide in due con la stessa struttura non diminuisce
infatti l'indice di Gini che misura la disuguaglianza sociale.
Nel libro del profeta Amos sono chiari i riferimenti ad un'epoca di
benessere con un vistoso accentramento della ricchezza misurata dalla
nascita di latifondisti terrieri che schiacciano i piccoli agricoltori. Amos
è un pastore, senza preparazione e cultura, ma che si sente mandato da Dio
per condannare i nuovi costumi e l'ingiustizia, soprattutto gli abusi subiti
dai poveri di Samaria.
Il suo rimprovero parte quindi dal benessere economico, che schiaccia i meno
fortunati; include anche la corruzione dell'amministrazione tesa al
permissivismo e al continuo uso della forza per sottomettere gli altri e far
valere il proprio potere.
Ha parole dure anche contro i traffici economici che non rispettano i
poveri, i giorni di riposo, l'utilizzo di strumenti di imbroglio quali la
contraffazione dei sistemi di misura e peso e la speculazione sui prezzi; a
cui si aggiunge la sua battaglia contro le città, dove i poveri non possono
dimorare per l'alto costo degli edifici e degli affitti.
Michea, che vive e opera nel regno di Giuda, attacca l'iniquità e l'
accaparramento delle proprietà, le città in cui vivono i ricchi che
proferiscono menzogne, i funzionari e i giudici che operano o giudicano in
modo iniquo e i falsi profeti che si fanno comprare e profetizzano secondo
quanto vengono pagati, o che pensano che nulla possa accadere al popolo
ebreo in quanto prediletto di Yahweh.
In lui vi è anche un risvolto di speranza, in quanto annuncia la venuta del
Signore per restaurare un regno universale, quando da Betlemme di Efrata
nascerà colui che avrebbe dovuto regnare sopra Israele. La stessa Betlemme
in cui fu seppellita Rachele moglie di Giobbe, di dov'era anche Iesse, il
padre di Davide.
Le idee del profeta Isaia sono simili a quelle dei suoi predecessori:
"imparate a fare il bene; cercate la giustizia, rialzate l'oppresso, fate
giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova! (Is 1,17)
sono parole che sintetizzano il suo interesse per la situazione sociale. In
lui vi è anche la condanna dell'idolatria, dell'accumulazione della
ricchezza, del culto vacuo, dei funzionari corrotti, ma anche la speranza in
un mondo migliore, in cui da Gerusalemme uscirà la legge e la parola del
Signore (Is 2,3). Anche Isaia, come Michea, profetizzò l'avvento di un uomo
mandato da Dio, che doveva chiamarsi Emmanuele (Is 7,10), nascendo dalla
casa di Iesse (Is 11,1) il padre di Davide.
Abacuc (6° secolo a.C.) è invece preoccupato dal problema del bene e del
male che rappresenta con la figura del giusto (che è oppresso) e dell'
ingiusto (che è l'oppressore). Dipinge la miseria del povero insistendo
sulle malvagità che sono portate avanti a causa della mania di ricchezza e
potenza. La risposta a questo problema viene da Dio, che gli dice:
[.] soccombe chi non ha l'animo retto; il giusto invece sopravvive per la
sua fedeltà. (Ab 2,4)
I profeti insomma furono le persone che tentarono di riabilitare la teologia
mosaica che, a causa delle umiliazioni subite con le continue invasioni e
saccheggi, sarebbe stata dimenticata mentre il popolo cadeva in mano agli
idoli stranieri. I profeti lessero gli avvenimenti negativi che capitavano
agli ebrei come il conseguente castigo per i loro comportamenti che avevano
rotto l'alleanza con Yahweh, dio che comunque non avrebbe abbandonato il suo
popolo.
E' in questo contesto che si inserisce l'annuncio più originale e foriero di
conseguenze epocali in tutto il mondo: il Signore invierà ebrei superstiti
presso le nazioni del mondo per condurle a venerare il suo nome a
Gerusalemme; anche tra questi popoli il Signore susciterà dei sacerdoti e
dei leviti, così che il suo nome sarà riconosciuto e venerato da tutti i
popoli (Is 66,18ss).
E' il primo messaggio di globalizzazione.
Se le disuguaglianze sociali andavano accentuandosi in una piramide che però
non riusciva a scaricare all'esterno le crescenti tensioni interne, v'è da
chiedersi perché la nazione ebrea non si espanse come avrebbe richiesto la
teoria della piramide sotto l'impulso della concentrazione di ricchezza.
Ciò fu dovuto alla forza insita nella struttura legislativa originaria che
di fatto tendeva a schermare la nuova nazione. Norme che però, per poter
funzionare, presupponevano l'isolamento della nazione stessa da qualsiasi
tipo di influsso che avrebbe potuto condannarla ad una sottomissione a forze
esterne.
Questa necessità richiedeva che fin dall'inizio, durante la conquista del
territorio, si mettessero in atto misure di estirpazione di possibili
contatti con altre popolazioni, che voleva dire né più né meno che lo
sterminio degli abitanti originari.

D'altro canto, lasciare in vita dei popoli con tradizioni e usanze diverse,
necessitava di una tolleranza religiosa verso culti diversi, il che avrebbe
minato i privilegi di una casta sacerdotale sempre più ambiziosa e in
simbiosi con il potere dominante. Ma l'isolazionismo fu di fatto una strada
che per gli ebrei divenne fatale.
La loro piramide non riusciva a svilupparsi quanto quelle esterne che
cominciavano a diventare sempre più grandi e quindi minacciavano i suoi
territori. La nazione ebrea non riusciva neanche a prendere e mantenere una
strada chiara rispetto al dettato divino: non fu capace di sconfiggere e
sterminare le popolazioni locali e quindi sostenere un atteggiamento di
completa autosufficienza e autonomia rispetto all'esterno.
Ma non ebbe neppure una capacità difensiva tale da poter sopportare
qualsiasi attacco esterno. Perciò quando si trovarono di fronte a imperi più
potenti, i due piccoli regni non poterono che crollare. Eco dell'incapacità
della nuova nazione di fronte a questa difficoltà politica tanto interna che
estera si riscontrerà ancora nei profeti.
Uno di loro, Osea, si muoverà nel regno del Nord nel momento in cui l'
avanzata degli Assiri faceva presumere che questi lo avrebbero annientato.
Osea denunciava la situazione sociale, che andava dalla "prostituzione" ad
altri dèi da parte di un clero corrotto, fino ai dirigenti, tanto di Israele
che di Giuda, che allacciavano alleanze pericolose con popoli vicini e si
comportavano come quelli che spostano i confini dei campi (Os 5,10),
moltiplicando i loro palazzi e le loro fortezze, che però il Signore avrebbe
distrutto.
Il profeta Geremia assiste alla caduta di Giuda e alla deportazione dei
superstiti nel 587 a.C. a Babilonia. Egli comincia a delineare la
possibilità di trovare intese con il nuovo impero che avanza, mentre invece
i re giudei proponevano di unirsi con l'Egitto per contrastare l'avanzata
babilonese, [1] anche se rimane di principio fedele all'alleanza solo con
Yahweh e non con altri popoli. Come Osea, Geremia parla di Giuda e Israele
come di due sorelle che si prostituiscono non restando fedeli al Signore che
però avverte:
Come voi mi avete abbandonato e avete servito dèi stranieri nel vostro
paese, così servirete gli stranieri in un paese che non è vostro. (Gr 5,19)
Anche Geremia attacca i falsi profeti e i sacerdoti e anche lui, come Isaia,
fa dire a Yahweh che i popoli che lo seguiranno potranno godere della sua
grazia (Gr 12, 14-17). Si ostina altresì sull'osservanza del Sabato e l'
abbandono degli dèi pagani, sul rispetto del lavoro e contro l'oppressione
del povero (Gr 22). Per l'insistenza del suo messaggio funesto nei confronti
di Giuda e Gerusalemme, Geremia non solo non venne ascoltato, ma venne
arrestato e processato.
[1] Ancora una volta compare l'Egitto come paese con il quale gli ebrei
stringono accordi e amicizie (Salomone) o contro il quale non si ribellano
(come fece Roboamo) o di cui cercano addirittura l'alleanza. Ironia della
sorte Geremia non fu deportato in Babilonia ma fuggì in Egitto da dove non
ritornò più.
ESILIO E RITORNO
Per evitare la sottomissione ad un impero esterno, il regno del Nord
cominciò ad accettare il pagamento di tributi agli stranieri. Nel 721 a.C.
si ebbe una prima svolta determinante. Accadde infatti che, a seguito di
imposte non pagate da Israele al re assiro, i suoi abitanti furono deportati
in Assiria e al loro posto vennero fatti arrivare in Samaria popolazioni
della Babilonia.
Il risultato, dal punto di vista religioso, fu che i nuovi abitanti
cominciarono a venerare tanto il dio ebreo che le loro divinità (2 Re
17,33), contravvenendo perciò alle leggi di Yahweh. Questo atteggiamento,
racconta il narratore, rimase tramandato fino ai tempi in cui venne scritto
il libro. Gli assiri non si limitarono a depredare solo Israele, ma
assediarono anche Giuda deportando il tesoro del tempio e altre sue
ricchezze.
Nell'unico regno ora in mano agli ebrei, quello di Giuda, la situazione
socio-politica rovinò nella più grande confusione, con re che a volte si
dimostravano religiosamente ortodossi, distruggendo altari idolatri e
massacrandone i sacerdoti e altri invece, come Manasse, che, nonostante
adorasse Baal, regnò per ben 55 anni, più dei tanto lodati Davide e
Salomone!
Ma la fine definitiva dei due regni era ormai vicina: Giuda subì prima un'
invasione Egizia che impose grossi tributi e un re nuovo, [1] poi l'
invasione di Nabucodònosor, re di Babilonia, che si spinse fino al Nilo
costringendo alla resa anche gli egiziani. Fu questo imperatore che
saccheggiò Gerusalemme e deportò tutta la sua popolazione in Babilonia,
lasciando i poveri a lavorare la terra nei villaggi nei dintorni delle
città.
La seconda deportazione avvenne 11 anni dopo e in questo caso la sorte di
Gerusalemme fu ancora più grave, perché subì un tremendo assedio seguito dal
suo incendio e distruzione. Anche in questo caso rimasero solo degli ebrei
nelle campagne a lavorare la terra e per loro Nabucodònosor scelse un re che
non apparteneva alla dinastia davidica.
Tutte le piramidi prima o poi cadono sotto i colpi esterni e le debolezze
interne. Anche i babilonesi cedettero all'avanzata dell'impero persiano
guidato da Ciro, imperatore prediletto degli ebrei, tanto da venir indicato
come unto del Signore (Is 45,1) perché sarà lui che permetterà agli esuli il
ritorno nella madre patria.
Il libro di Esdra comincia con la citazione dell'editto di Ciro, re
persiano, che "allo scopo di realizzare la parola del Signore" rimanda a
Gerusalemme gli esuli tratti da Nabucodònosor nelle precedenti battaglie, fo
rnendoli addirittura delle necessarie provviste e del tesoro del Tempio
trafugato.
Ebbe inizio così di nuovo la ricostruzione della città, compreso il Tempio
che era stato distrutto e derubato delle sue ricchezze. Questi lavori però
non erano ben visti dalle popolazioni vicine, definite "i nemici di Giuda e
Beniamino" (Esd 4,15) che comunque sembra volessero semplicemente associarsi
in questa ricostruzione in quanto anch'esse adoravano lo stesso Dio.
Ma gli ebrei che arrivavano da Babilonia non ne vollero sapere e questo fu
causa di una ritorsione che si materializzò in una lettera inviata al
reggente persiano, Artaserse, in cui i nemici dei rimpatriati sostenevano
che questi stavano ricostruendo Gerusalemme, dipinta come "città ribelle e
malvagia" (Esd 4,12) e che non avrebbe più pagato tributi in quanto fin dai
tempi antichi era assodato che Gerusalemme era stata una città "perniciosa
ai re" ove si fomentavano ribellioni.
Al re fu ventilato che la ricostruzione di questa città gli avrebbe fatto
perdere i suoi possedimenti oltre l'Eufrate. La ricostruzione venne dunque
sospesa finché non sorsero altri profeti, in particolare Aggeo e Zaccaria,
che incitarono la popolazione a continuare i lavori, ripresi finalmente e
terminati sotto il re Dario.
[1] Ancora si vede l'influenza dell'Egitto addirittura sulla politica
interna di Giuda.
Lo sforzo comunicativo esercitato dall'amministrazione di un popolo per
mantenerne la coesione ha tradizioni antiche. Un esempio per tutti fu il
popolo ebreo. Esso subì diverse traversie che culminarono nella deportazione
di parte delle tribù originarie per opera degli Assiri (nel 778 a. C.) e poi
di un'altra grossa fetta condotta a forza in Babilonia nel 586 a. C., eventi
questi che misero in serio pericolo la sua coesione sociale. Avvenne allora
un fatto importante:
Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che l'istituzione della
Sinagoga abbia origine dall'esilio babilonese e sia nata in Babilonia.
L'espressione ebraica che la designa, Beth Hakenéseth (casa di assemblea) ne
indica esattamente lo scopo primitivo. Era il centro di riunione di una
nazione senza patria, nel quale si leggevano e si interpretavano le
Scritture. In progresso di tempo si aggiunsero alcune preghiere e la
Sinagoga si trasformò in luogo di culto. [...] Occorreva all'ebreo una
religione che non soltanto lo distinguesse continuamente dal pagano, ma
anche gli ricordasse costantemente la sua appartenenza alla razza e alla
fede ebraica. [1]
Leggere la Torah, che significa "insegnamento", fu la soluzione adottata
dagli anziani di Giuda, riuniti nella casa di Ezechiele, al problema della
dispersione del popolo ebraico. La religione, intesa come corpus di idee che
cementano una comunità, fu legata così ad un efficace veicolo di
trasmissione raccolto negli scritti letti nelle sinagoghe.
Uno Stato che non si fondi sulla religione utilizzerà altri mezzi per unire
i suoi cittadini, enfatizzando prima di tutto la tutela del benessere
collettivo. L'Impero romano - coacervo di razze che adoravano divinità
diverse - adottò altri metodi per imporre una certa coesione tra i suoi
cittadini edificando un po' ovunque circhi equestri, arene, terme, luoghi
insomma di divertimento e ozio.
E questo non fu solo il risultato di un'economia florida, ma il metodo
utilizzato da uno Stato non fondato sulla preminenza di una particolare
religione al fine di soddisfare l'esigenza di benessere, secondo una
strategia mutuata dalla più antica tradizione ellenistica.
Ma l'agiatezza può creare assuefazione e la corsa a passatempi sempre più
entusiasmanti allontanava dall'impegno personale e sociale, sfociando in
quella deriva dei costumi testimoniata da alcuni scrittori dell'epoca, quale
ad esempio Petronio nel suo "Satyricon". Di più, essa richiedeva continue
spese per mantenere questo "luxus", generando inoltre classi meno produttive
ma sempre più numerose, che ovviamente esercitavano una crescente pressione
sui pochi che fornivano i beni da consumare.
Ecco quindi la necessità di un esercito impegnato alle frontiere ma anche
tra le ville produttrici per controllare gli schiavi prima, e i servi della
gleba poi. L'Impero romano non aveva perciò altro sistema di coesione
interna se non quello dell'accrescimento del benessere, che però comportava
continue guerre per racimolare schiavi e prodotti a basso prezzo, mentre
accresceva il numero dei cittadini parassiti.
[1] Cfr. [Talmud]
ESDRA, NEEMIA ED EZECHIELE
A questo punto appare la figura di Esdra, uno scriba esperto nella legge e
discendente dai sacerdoti di Aronne, impiegato presso la corte di Artaserse.
Egli partì con altri connazionali verso Gerusalemme, dove iniziò una vera e
propria epurazione dalle intromissioni straniere nel popolo eletto.
Prima fra queste fu lo scioglimento di tutti i matrimoni tra ebrei e
individui delle popolazioni contermini: tutte le donne straniere e i figli
nati da esse furono scacciati di casa. L'obbligo fu imposto sotto la
minaccia di sequestro dei beni appartenenti a quanti non vi avessero
aderito, pena l'esclusione del colpevole dall'assemblea degli esuli; questa
punizione fece sì che la norma venne rispettata quasi in massa.

La formalizzazione delle nuove imposizioni legislative ebbe luogo facendo
firmare un documento dai capi, leviti e sacerdoti del paese, in cui si
impegnavano a rispettare "la legge di Dio", riassunta in una forma
particolare (Ne 10) in cui spiccano i seguenti precetti: divieto di
matrimoni misti, divieto di acquistare nei giorni di festa mercanzie dai
popoli vicini, ripristino dell'anno sabbatico, obblighi di sostentamento dei
leviti e dei sacerdoti che erano esentati dalle tasse.
Anche Esdra si preoccupò quindi del fatto che i giudei non procurassero il
benessere delle popolazioni vicine, per poter loro godere dal meglio della
terra, puntando all'autosufficienza di Gerusalemme e al suo dominio sulla
regione.
Oltre a Esdra vi fu Neemia, eunuco coppiere del re Dario che partì verso
Gerusalemme dove cominciò la ricostruzione delle mura, suddividendo il
lavoro tra vari gruppi, compresi leviti e sacerdoti. Anche Neemia racconta
dei rancori delle popolazioni vicine per l'opera che stavano compiendo e le
misure di difesa che dovette compiere al fine di salvaguardare la città.
Ma, cosa che non troviamo in Esdra, egli si occupò delle ingiustizie sociali
che riducevano molti in miseria, scagliandosi contro notabili e magistrati
che esercitavano l'usura riducendo in schiavitù i loro fratelli dopo avergli
confiscato i beni, mentre lui proponeva che gli fosse restituito tutto
attraverso un condono generale. Le nuove norme di Esdra e Neemia non furono
accettate facilmente, tanto che Neemia, che nel frattempo se n'era tornato
dal suo re, dovette rimpatriare di nuovo per cercare, anche se inutilmente,
di ripristinare i costumi imposti.
Il difficile periodo accompagnato dalla forte speranza di ricostruzione
viene sottolineato da molti esuli rimasti con un ricordo idilliaco della
Palestina. Ecco allora che si presentarono visionari che descrivono come
avrebbe dovuto essere il nuovo regno di Giuda e la sua capitale, la rinata
Gerusalemme.
Uno di questi è il sacerdote Ezechiele. Egli si immaginava una città ideale
e un nuovo tempio che non sarebbe stato più appannaggio dei leviti in genere
ma solo dei sacerdoti leviti di Zadòk, i quali potevano entrare nel tempio e
avevano una serie di prerogative, tra le quali anche quella antica di
riservare a sé solo mogli vergini o al massimo vedove di un altro sacerdote
(Ez 44).
Inoltre Ezechiele si dedicò a descrivere come doveva essere divisa la terra,
redarguendo i prìncipi che fino ad allora avevano oppresso il popolo e
governato male. Per evitare questo sarebbe stato destinato ai re un
appezzamento di terra in modo che fossero autosufficienti e non gravassero
sul popolo; la popolazione doveva comunque offrire tributi e le primizie del
raccolto al principe, e questo era obbligato ad offrire gli olocausti e gli
altri sacrifici. Inoltre le proprietà dei principi dovevano sempre rimanere
o ritornare al loro casato, anche se erano state usate per ricompensare i
loro servi (Ez 46,16).
Ai leviti sarebbero invece state date sia delle città, come era già previsto
nel Pentateuco, ma anche dei terreni adiacenti a queste per il loro
sostentamento. Inoltre sia ad essi che ai sacerdoti sarebbe stata riservata
una striscia di territorio pari ad un tredicesimo della sua estensione:
questo territorio era da considerarsi come sacro tributo al Signore, mentre
le altri dodici parti andavano alle restanti tribù d'Israele.
Il mutamento dell'ideale mosaico di nazione ebraica fu lento ma cominciava a
imporsi.
UNA TERRA SOTTOMESSA
Nel 539 a.C. i persiani conquistano la Mesopotamia e permettono agli ebrei
di tornare in Palestina come loro sudditi

La strategia di Ciro per mantenere il dominio su un immenso territorio fu
quella di collocare a capo dei popoli sottomessi alcuni governatori fidati.
Lo stesso fece con gli ebrei, rispedendo in Palestina funzionari e sacerdoti
per ripristinare l'ordine in una provincia che era vitale per la sua
posizione strategica vicino all'Egitto. [1]
In pratica si assicurava degli alleati in quella regione, assecondando le
loro aspettative di ritorno in patria, ristabilendo a capo del culto non
persone qualsiasi ma fidate, in modo che la religione stessa non dovesse
divenire miccia per altri tumulti. [2]
Comunque non tutti gli ebrei ritornarono in patria: probabilmente quelli che
avevano trovato fortuna e accumulato proprietà nei paesi in cui erano stati
esiliati non vi fecero ritorno. [3] E quelli che arrivarono nel posto non
vissero begli anni, come testimonia il profeta Aggeo e come viene narrato in
Esdra e Neemia, a causa di carestie e difficoltà d'inserimento tra i vicini
che non gradivano la presenza dei reintegrati.
Per questo i lavori di ricostruzione si prolungarono per molto tempo mentre,
dal punto di vista religioso, nel popolo ma anche tra i sommi sacerdoti
serpeggiavano 'eresie' dalla religione ortodossa, come si legge nel profeta
Malachia. [4]
Eppure gli ebrei non avevano spento l'aspirazione a riorganizzarsi in una
nazione autonoma. Quando anche l'impero persiano di Dario cominciò a
manifestare i primi segnali di cedimento, e qua e là scoppiarono tumulti,
questi si fecero sentire anche in Giuda. Zaccaria ed Ezechiele testimoniano
questa rinnovata speranza di affermazione del regno prediletto. [5]
Sta di fatto che di un re del momento, tale Zorobabele che governava su
Gerusalemme, la Bibbia non dice che fine fece; probabilmente fu tolto dalla
scena visto che dopo di lui nessuno della stirpe davidica salì sul trono
sotto i persiani e il governo fu dato in mano ai samaritani o ai sacerdoti.
[6]
Solo che a questo punto, (400 a.C. circa) la Bibbia sembra quasi fermarsi e
passare di colpo a due secoli dopo.
Anche se proprio in questo periodo sono state redatte le ultimissime parti
dell'Antico Testamento e i primi scritti ebraici non canonici, queste opere
non offrono cronache sugli ebrei del tempo.
Sappiamo molto di quello che stava succedendo nel Medio Oriente e nel resto
del mondo, ma gli ebrei sembrano quasi occultati dalla scena, a parte alcuni
residenti nella città egiziana di Elefantina, sopravvissuti come nucleo a sé
con un proprio culto a Yahweh redatto in maniera sincretica. [7]
Il loro sincretismo consisteva nell'adattamento alle usanze del luogo per
non incorrere in eventuali ritorsioni da parte degli altri abitanti che
vedevano in loro dei privilegiati; dal punto di vista religioso gli ebrei
facevano ancora sacrifici animali, invisi tanto agli egiziani quanto ai
persiani. [8]
Vi è inoltre da dire che anche da un punto di vista linguistico l'ebraico
stava perdendo colpi lasciando il passo all'aramaico, ormai lingua di uso
comune nel Medio Oriente. [9]
Il fatto poi che l'arrivo di Alessandro Magno (336-323 a.C.) passi
inosservato nella Bibbia la dice lunga sulla possibilità che gli ebrei l'
abbiano semplicemente vissuto come un cambio di padrone, non come una
conquista. Non si hanno infatti notizie di particolari rivolte, tranne una
scoppiata in Samaria ma subito sedata dallo stesso Alessandro.
[1] Cfr. [Storia Israele] pag. 386-387.
[2] Cfr. [Storia Israele] pag. 412.
[3] Cfr. [Storia Israele] pag. 387.
[4] Cfr. [Storia Israele] pag. 390, 403-404.
[5] Cfr. [Storia Israele] pag. 396.
[6] Cfr. [Storia Israele] pag. 377,402.
[7] Cfr. [Storia Israele] pag. 431.
[8] Cfr. [Storia Israele] pag. 432-433.
[9] Cfr. [Storia Israele] pag. 437.
LE RIVOLTE DEI MACCABEI
Gli ultimi due libri della Bibbia ricchi di eventi sono i due testi dei
Maccabei che raccontano del periodo tra il 175 e il 135 a.C.: dopo queste
date nulla più ci viene descritto dalla Bibbia fino all'avvento del
cristianesimo. Bisogna poi anche tener conto che neppure questi due libri
sono inseriti nel canone ebraico che quindi non li considera 'ispirati da
Dio'.
Ma, almeno per quanto riguarda i commenti delle bibbie in commercio, [1] i
fatti narrati sono verosimili e inseriti nel periodo di Antioco Epìfane,
imperatore siriano. In quei tempi i giudei si erano alleati con le genti
vicine e a Gerusalemme cominciavano ad infiltrarsi costumi ellenistici,
tanto che in quella città fu costruito un ginnasio. Le sue ricchezze
subirono comunque diversi saccheggi: Antioco Epìfane asportò dal tempio il
suo tesoro e dopo due anni la città subì un altro saccheggio.
Parte della sua popolazione venne resa schiava, oltre a doversi sottomettere
ad un editto reale che imponeva il culto degli dèi greci. In questo
frangente molti ebrei accettarono l'editto: furono infatti costruiti altari
pagani e i libri della legge dati alle fiamme.
A ciò si aggiunse però anche una vera e propria persecuzione, se era vero
che tutti le madri di figli circoncisi e i loro parenti vennero messi a
morte. Questo fece scatenare una rivolta capeggiata da Mattatia e i suo
figli che raccolsero seguaci e circoncisero a forza i bambini che trovavano
in giro per il paese (1 Mc 2,46).
Suo figlio Giuda cominciò a combattere anche battaglie campali contro l'
esercito siriano che gli veniva contro, strappando vittorie che gli
avrebbero consentito di ristabilire il dominio anche sui costumi adottati
dal popolo, primo tra tutti quello religioso con il culto ebraico nel
tempio. La sua collera si rivolse anche contro Edomiti e Ammoniti che
trucidò bruciandoli vivi nelle torri in cui si erano rifugiati per scampare
alla morte:
Si ricordò poi della perfidia dei figli di Bean, che erano stati di laccio e
inciampo per il popolo tendendo insidie nelle vie. Pressati da lui si
rinchiusero nelle torri ed egli si accampò contro di loro, li votò allo
sterminio e diede fuoco alle torri di quella città con quanti vi stavano. (1
Mc 5,4-5)
Massacro che ricorda quelli più moderni:
[.] Sono stati quasi tutti uccisi i 600 prigionieri che ieri hanno scatenato
una violenta rivolta nella fortezza di Qala-i-Jhangi, a Mazar-i-Sharif, nel
nord dell'Afghanistan. Lo ha detto oggi ai giornalisti Olim Razm, il
consigliere politico del generale di origine uzbeka Abdul Rashid Dostum, il
comandante militare dell'Alleanza del Nord che ha strappato la città' al
controllo dei Taleban. [2] [.] Per stanarli, le milizie dell'Alleanza del
Nord avevano inondato con gasolio incendiato i rifugi. Molti ribelli sono
morti ustionati, racconta un superstite, e i loro corpi sono
irriconoscibili. [3] [.] Le fonti del Pentagono hanno confermato
l'intervento di aerei americani per "avere ragione della sommossa", che
sarebbe stata generata da circa 300 combattenti talebani non afghani "con
intenzioni suicide". [4] [.] Stamani il ministro degli Esteri britannico
Jack Straw aveva escluso l'apertura di un'inchiesta sulla morte delle
centinaia di prigionieri a Mazar-i-Sharif. L'inchiesta era stata domandata
dall'associazione per i diritti dell'uomo come Amnesty International. "Non
vediamo il bisogno di un'inchiesta a questo stadio" aveva detto Straw alla
Bbc. "La situazione era terribile, tutti ammettono che c'è stato un massacro
di prigionieri. Ma non stiamo parlando di una comoda situazione occidentale.
Stiamo parlando di una situazione terribile dove non c'erano ordine ne'
legge. L'idea che in queste difficili circostanze possiamo aprire
un'inchiesta giudiziaria e' difficilmente applicabile alla realtà sul
terreno". [5]
Nel frattempo si formarono dissensi interni ai giudei che venivano
attribuiti all'iniquità di alcuni ebrei, sospinti dall'aspirazione al ruolo
di sommo sacerdote (1 Mc 7), che passavano anche attraverso la corruzione e
depredazione degli oggetti preziosi del Tempio (2 Mc 4).
E' in questo periodo che gli ebrei vengono a conoscenza dei Romani, citati
in maniera importante nel capitolo ottavo del libro, con in quali cominciano
a stringere alleanze, e a cui l'autore del libro non risparmia onori e
benevolenze, che a noi, lettori del 21° secolo, suonano come melense righe
di prostituzione politica.
Ma fu proprio in questo periodo che cadde in battaglia Giuda il Maccabeo, a
cui succedette suo fratello Gionata. La sua impresa cominciò in modo
brutale, con un massacro dei partecipanti ad un matrimonio di genti
avversarie:
Si ricordarono allora del sangue del loro fratello Giovanni, perciò si
mossero e si appostarono in un antro del monte. Ed ecco alzando gli occhi
videro un corteo numeroso e festante e lo sposo con gli amici e fratelli,
che avanzava incontro al corteo, con tamburi e strumenti musicali e grande
apparato.
Balzando dal loro appostamento li trucidarono; molti caddero colpiti a morte
mentre gli altri ripararono sul monte ed essi presero le loro spoglie. Le
nozze furono mutate in lutto e i suoni delle loro musiche in lamento. Così
vendicarono il sangue del loro fratello e ritornarono nelle paludi del
Giordano. (1 Mc 9,39-42)
Anche questo evento a ricordare altre imprese odierne:
Sarebbero almeno una quarantina i morti causati dal bombardamento americano
avvenuto nella prima mattina di lunedì su un villaggio afghano nella
provincia di Uruzgan, nel centro del paese, dove era in corso una festa di
matrimonio. Il Pentagono ha inviato in Afghanistan una missione per indagare
su quella che sembra essere l'ennesima strage di civili. Appena un mese fa,
infatti, i festeggiamenti di un matrimonio, con tanto di spari, avevano
fatto pensare ad un raggruppamento nemico e provocato la reazione americana.
In quel caso il bilancio dei morti e dei feriti non era stato però così
alto. [6]
Diventando alleato di Alessandro Bala, Gionata viene nominato anche sommo
sacerdote, estromettendo in questo modo la famiglia che fino ad allora aveva
fornito i candidati a tale carica. [7]
Aiuta quindi Alessandro contro Demetrio II, ma appena quest'ultimo si unisce
a Tolomeo d'Egitto, passa dalla sua parte e ottiene concessioni in merito
all'abolizione di gravosi tributi che Giuda doveva pagare fino ad allora.
Nel frattempo compie anche un assedio con incendio e successivo saccheggio
della città di Gaza solo perché questa non l'aveva ben accolto.
Ma appena anche Demetrio II comincia a declinare, Gionata passa dalla parte
di un regnante in piena ascesa, Antioco VI figlio di Alessandro Bala, e
stringe anche alleanza con Roma e Sparta. Il suo comportamento così
incostante nelle alleanze gli procurò comunque una morte per tradimento da
parte di Trifone, un altro presunto alleato di Antioco VI.
Al suo posto si instaura Simone suo fratello che ritorna sui passi di
Gionata e si allea con Demetrio II. Ma anche Simone viene ucciso a
tradimento, questa volta da parte di un suo generale. Gli succederà Giovanni
Ircano, che regnerà fino al 104 a.C.
[1] Cfr. [Bibbia1].
[2] Cfr. [RaiNews24] 26/11/01.
[3] Cfr. [Televideo] 01/12/01.
[4] Cfr. [RaiNews24] 25/11/01.
[5] Cfr. [RaiNews24] 30/11/01.
[6] Cfr. [Rai News] 02/07/02.
[7] Cfr. [Bibbia1] pag. 670.
UNA NAZIONE SENZA FUTURO
Nei precedenti capitoli abbiamo visto come gli ebrei fossero entrati in
contatto con l'Impero romano con atteggiamenti di assoluta benevolenza, in
piena contraddizione con quello che accadde di là a qualche secolo.
I romani venivano possibilmente invocati per contrastare la prepotenza di
altri dominatori, ma divennero poi essi stessi simbolo dell'oppressione non
appena la sfera d'influenza dell'impero fu così allargata da sottomettere le
volontà giudaiche a quelle di Roma.
Parliamo di Giuda soltanto, perché ormai dell'antica nazione ebraica non
restano infatti che i giudei a rappresentare il vecchio orgoglio nato con
l'esodo dall'Egitto.
Nel vecchio regno d'Israele dimorano popolazioni che non rappresentano quasi
per niente i depositari della saggezza mosaica: vi si sono infatti
infiltrate popolazione di diversa origine che praticano culti idolatri per
gli ebrei, sottoposti all'influsso della cultura ellenica prima e romana
dopo.
Quel che rimane del culto di Yahweh è nelle mani di sacerdoti amalgamati ad
una classe dominante in simbiosi con gli interessi romani. Ma le frange che
ancora nutrono sentimenti nostalgici nei confronti di un passato ormai
lontano di secoli sono presenti e manifestano il proprio dissenso in maniera
politicamente e militarmente impegnata.
Le proteste vengono però sempre sedate giustiziando i capi delle rivolte,
anche se un crescendo di contestazioni non correttamente controllate dai
governatori locali costringerà infine le legioni romane a marciare
direttamente su Gerusalemme fino a incendiarla e distruggerla nel 70 d.C.
(non prima di averne comunque trafugato i tesori!).
La religione di Yahweh sembrava aver subito un colpo senza precedenti. In
realtà si trattava solo di una situazione temporanea: per mezzo di una nuova
impostazione data ad hoc dai suoi primi proseliti oltre i confini della
terra di Palestina fino a confini ben più ampi, nascerà il cristianesimo.
LA PALESTINA
Quanto conosciamo della storia di Israele (dai libri biblici dei Maccabei
fino al 73 d.C.) ci è giunto sostanzialmente attraverso le opere di Giuseppe
Flavio: "Antichità giudaiche" e "Guerra giudaica". Per questo faremo
riferimento a tali testi per le ricerche che seguono, seppur talvolta
supportati da studi riassuntivi più recenti. [1]
Giuseppe Flavio, storico giudeo nato nel 37 d.C., discendeva, da parte del
padre, dalla nobiltà sacerdotale, da parte della madre dalla famiglia reale
degli Asmonei. E' chiaro che con uno status sociale così elevato poté
acquisire una cultura non indifferente come si evince dalle sue stesse
parole: "I miei compatrioti riconoscono che nella nostra cultura giudaica io
li supero di molto". [2]

Così anche grazie a Giuseppe ci sono tramandate molte imposizioni mosaiche,
ad esempio questa: "i condannati alla crocifissione vengono deposti e
sepolti prima del calar del sole". [3]
Il periodo raccontato nei libri biblici dei Maccabei sembra fermarsi al 135
a.C. (cfr. Le rivolte dei Maccabei ) ma i discendenti di Mattatia riuscirono
a tenere le redini della Palestina fino al 63 a.C. quando Pompeo assediò
Gerusalemme e determinò la fine dell'indipendenza della regione.
Giuseppe Flavio ci dice a proposito di Pompeo che "fece Gerusalemme
tributaria dei Romani, tolse ai suoi abitanti le città di Cele-Siria che
avevano conquistato, e pose sotto il suo governatore; e l'intera nazione che
prima si era alzata così in alto, la restrinse nei suoi confini". [4]
Secondo lo storico. "di questa sfortuna che colpì Gerusalemme furono
responsabili Ircano e Aristobulo, a motivo della loro discordia. Noi,
infatti, abbiamo perso la nostra libertà e siamo divenuti soggetti ai
Romani, e il territorio conquistato con le nostre armi e preso ai Siri,
siano stati costretti a restituirlo, e in più, in breve tempo, i Romani
riscossero da noi oltre diecimila talenti, e il regno che prima era concesso
a coloro che erano della stirpe dei sommi sacerdoti, diventò un privilegio
di uomini del popolo". [5]
Per capire quanto sia costata la sottomissione ai nuovi conquistatori va
precisato che un talento - misura o d'oro o d'argento - pesava circa 34.272
kg. [6]
Come potevano i Giudei possedere tanta ricchezza?
Non vi è motivo che qualcuno si meravigli che nel nostro tempio ci fosse
tanta ricchezza, poiché tutti i Giudei dall'ecumene e quanti adorano Dio
mandavano contributi da molto tempo persino dall'Asia e dall'Europa. [7]
Questo non significa che ai Giudei non fossero permessi privilegi in
considerazione delle loro tradizioni religiose, come per esempio non pagare
tributi nell'anno sabbatico quando non potevano raccogliere, o essere esenti
dal servizio militare tenuto conto del sabato dove non potevano tra le altre
faccende prendere neppure le armi. [8]
Il discendente asmoneo, Ircano II, restò in carica solo come sommo sacerdote
fino a quando Giulio Cesare stesso, avendo sconfitto Pompeo, non gli assegnò
anche il titolo di etnarca (governatore di una certa popolazione associata
ad una particolare provincia) nel 47 a.C.
Alla morte di Giulio Cesare (44 a.C.) la Giudea fu sottoposta allo
sfruttamento da parte di Cassio, finché non venne sconfitto da Marco Antonio
e Ottaviano a Filippi e i Romani nominarono Erode re nel 40 a.C.
Egli prese possesso della Giudea nel 37 a.C. e la governò fino alla morte,
avvenuta nel 4 a.C. ma non riuscì mai ad accattivarsi le simpatie dei
Giudei, che anzi lo odiavano essendo lui un idumeo, quindi un semi-giudeo.
Ebbe in particolar modo difficoltà in Galilea, dove bande di "ladroni" che
abitavano in caverne gli opposero fiera resistenza. Ecco un esempio
riportato da Giuseppe Flavio:
"Ora in una caverna si trovavano chiusi un vecchio con sette figli e la
moglie: quando essi lo pregarono di lasciarli scivolare verso il nemico,
egli si pose ritto all'ingresso della caverna e scannò tutti i figli a mano
a mano che venivano fuori, in fine la moglie; finalmente gettando i loro
cadaveri nel precipizio, si gettò su di loro, sottomettendosi alla morte
piuttosto che alla schiavitù". [9]
Erode allora:
"[.] alcuni li uccise, quelli che si erano rifugiati in luoghi
inaccessibili, li catturò con l'assedio e li uccise, distrusse i loro luoghi
fortificati. Così pose fine alla ribellione e impose alle città una tassa di
cento talenti". [10]
[1] Cfr. [Commentario].
[2] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.263.
[3] Cfr. [Guerra giudaica] 4.317.
[4] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.74.
[5] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.77-78.
[6] Cfr. [Bibbia1] pag. 2009. In tutto questo studio il punto viene usato
per separare i decimali.
[7] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.110.
[8] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.200ss.
[9] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.429.
[10] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.432-433.
LE RIVOLTE GALILEE E GIUDAICHE
Dopo la morte di Erode, come previsto dal suo testamento che Augusto
rispettò, il regno fu diviso fra tre dei suoi figli:
Archelao (4 a.C. - 6 d.C.) regnò come etnarca sulla Giudea, Samaria e Idumea
Antipa I (4 a.C. - 39 d.C.) ereditò la Galilea e la Perea come tetrarca
Filippo (4 a.C. - 34 d.C.) fu tetrarca della regione a est e nord della lago
di Galilea (Auranitide, Batanea, Gaulanitide, Paneas, Traconitide.
Fin dall'inizio il passaggio di poteri non fu facile, soprattutto per
Archelao che "parlava con mansuetudine e dolcezza" tanto che la popolazione
rivolgeva a lui richieste insistenti:

"[.] alcuni gridavano di alleggerire i tributi che annualmente pagavano,
altri domandavano il rilascio dei prigionieri incarcerati da Erode: molti di
questi erano in prigione da molto tempo. Altri ancora domandavano
l'esenzione dalle tasse che erano state poste sullo stesso livello delle
vendite pubbliche, estorte in maniera spietata". [1]
Il nuovo re non riuscì a sedare il malcontento e nel 6 d.C. fu esiliato e il
territorio a lui assegnato affidato a governatori Romani, che si
interessavano al mantenimento dell'ordine pubblico e alla raccolta dei
tributi. Infatti nello stesso anno P. Sulpicio Quirino intraprese un
censimento che sollevò la protesta popolare capeggiata da Giuda il Galileo.
Questi era discendente di un certo Ezechia che con la sua banda aveva
infestato la Galilea ai confini della Siria e fu catturato e ucciso da
Erode, appena entrato in possesso della regione (37 a.C.). Di Giuda così ci
parla Giuseppe Flavio:
"Divenuto ormai lo spavento di tutti, depredava quanti incontrava, aspirava
a cose sempre più grandi, la sua ambizione erano ormai gli onori reali,
premio che egli aspettava di ottenere non con la pratica della virtù, ma con
la prepotenza che usava verso tutti". [2]
"[.] Giuda spinse gli abitanti alla ribellione, colmandoli di ingiurie se
avessero continuato a pagare il tributo ai Romani e ad avere, oltre dio,
padroni mortali. Questi era un dottore che fondò una sua setta particolare,
e non aveva nulla in comune con gli altri". [3]
Giuda non era un semplice bandito, bensì un dottore benestante se lo storico
giudeo asserisce che lui e un certo Saddoc,
"[.] diedero inizio tra noi a una astrusa scuola di filosofia, e quando
acquistarono una quantità di ammiratori, subito riempirono il corpo politico
di tumulto e vi inserirono ancora i semi di quei torbidi che in seguito
sopraffecero; e tutto avvenne per la novità di quella filosofia finora
sconosciuta che ora descrivo. Il motivo per cui do questo breve resoconto è
soprattutto perché lo zelo che Giuda e Saddoc ispirarono nella gioventù fu
l'elemento della rovina della nostra causa". [4]
[1] Cfr. [Antichità giudaiche] 17.204-205.
[2] Cfr. [Antichità giudaiche] 17.272.
[3] Cfr. [Guerra] 2.118. Cfr. anche [Guerra] 2.433.
[4] Cfr. [Antichità giudaiche] 18.9-10.
GLI ZELOTI
Giuseppe Flavio sembra quindi attribuire alle idee di questi ribelli
"banditi" il ruolo di miccia che infiammò le sorti della Giudea fino a
condurla alla completa distruzione ad opera dei Romani. La loro "filosofia"
viene così descritta:
"Questa scuola concorda con tutte le opinioni dei farisei eccetto nel fatto
che costoro hanno un ardentissimo amore per la libertà, convinti come sono
che solo Dio è loro guida e padrone. Ad essi poco importa affrontare forme
di morte non comuni, permettere che la vendetta si scagli contro parenti e
amici, purché possano evitare di chiamare un uomo "padrone". Ma la
maggioranza del popolo ha visto la tenacia della loro risoluzione in tali
circostanze che posso procedere oltre la narrazione. Perché non ho timore
che qualsiasi cosa riferisca a loro riguardo sia considerata incredibile. Il
pericolo, anzi, sta piuttosto nel fatto che la mia esposizione possa
minimizzare l'indifferenza con la quale accettano la lacerante sofferenza
delle pene". [1]
Giuseppe anticipa anche che:
"Questa frenesia iniziò ad affliggere la nazione dopo che il governatore
Gessio Floro [2] con le sue smisurate prepotenze e illegalità provocò una
disperata ribellione contro i Romani". [3]
Sembra quindi che proprio le idee di Giuda abbiano ispirato quello "zelo"
sui giovani, e nella popolazione in genere, da scatenare la guerra poi persa
contro l'impero romano:
"tale, infatti, era il nome [Zeloti] che quelli si erano dati, quasi fossero
zelatori di opere buone e non invece al massimo grado delle più turpi". [4]
I sentimenti anti-romani trovavano facile alimento in una regione che da
sempre aveva cercato la propria autonomia. Senza un re della statura di
Erode la regione sembrò sprofondare in un clima di assoluta anarchia:
"Fu un periodo di follia che si installò nella nazione perché non aveva un
vero e proprio re che con la sua autorità vegliasse e tenesse a freno un
popolo e perché gli stranieri che vennero da loro per smorzare le ribellioni
erano essi stessi una causa di provocazione con la loro arroganza e la loro
superiorità". [5]
Così un primo romano che si prodigò a massacrare gli abitanti della zona fu
Varo, governatore della Siria, che arrivò a crocifiggere duemila rivoltosi
per sedare le ribellioni.
Oltre a pagare tributi ai dominatori ed essere obbligati ad accettare culti
all'imperatore, i Giudei dovettero, come altre popolazioni limitrofe,
sottostare agli effetti devastanti di una forte carestia
"[.] molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di
cui abbisognava". [6]
Questa calamità si abbatté mentre era procuratore Tiberio Giulio Alessandro
(46-48 d.C.). Fu sotto di lui che vennero processati e crocifissi due figli
di Giuda Galileo. Come lui, anche i successivi procuratori sembra non
avessero rispetto particolare per le usanze giudaiche e prendessero pretesto
da qualsiasi occasione per soffocare nel sangue le proteste. Tra i vari
procuratori vi era infatti chi
"[.] non soltanto commetteva ruberie a danno di tutti nella trattazione dei
pubblici affari, né si limitava a schiacciare tutto il popolo sotto il peso
dei tributi [.]" [7]
oppure
"[.] si diede a spogliare intere città e a taglieggiare popolazioni intere
[.]" [8]
Questo non servì a frenare le sommosse capitanate da personaggi che
istigavano il popolo alla ribellione:
"Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da dio e
macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al fanatismo
religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi dio avrebbe
mostrato loro segni premonitori della liberazione". [9]
"[.] i ciarlatani e i briganti, riunitisi insieme, istigavano molti a
ribellarsi e li incitavano alla libertà, minacciando di morte chi si
sottometteva al dominio dei Romani e promettendo che avrebbero fatto fuori
con la violenza chi volontariamente si piegava alla schiavitù". [10]
Rivolte che, secondo Giuseppe Flavio, furono la causa di tutti i mali della
regione e della spietata risposta dei procuratori Romani:
"Intanto gli affari della Giudea stavano andando di male in peggio; perché
la regione era nuovamente infestata da bande di briganti e impostori che
ingannavano la gente. Non passava giorno che Felice non prendesse e
condannasse a morte molti di questi impostori e ribelli". [11]
[1] Cfr. [Antichità giudaiche] 18.23-24.
[2] Procuratore dal 64 al 66 d.C.. Cfr. [Commentario] 75:142.
[3] Cfr. [Antichità giudaiche] 18.25.
[4] Cfr. [Guerra giudaica] 4.161.
[5] Cfr. [Antichità giudaiche] 17.277.
[6] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.51.
[7] Cfr. [Guerra] 2.273.
[8] Cfr. [Guerra] 2.279.
[9] Cfr. [Guerra] 2.259.
[10] Cfr. [Guerra] 2.264.
[11] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.160-161.
CONSEGUENZE SOCIALI
Per Giuseppe Flavio la causa "teorica" della guerra è così riassumibile:
"nell'uomo è insito un naturale desiderio di guadagno, e nessuna passione è
così pronta ad affrontare qualsiasi rischio come l'avidità. In altre
circostanze, certamente, queste brame hanno un limite e sono tenute a freno
dalla paura, ma questa volta era il dio che aveva condannato tutto il popolo
e indirizzava alla rovina ogni loro via di scampo". [1]
Lo storico non lesina critiche al governo di alcuni Romani che con il loro
comportamento alimentarono la ribellione, un procuratore in particolare:
"Gessio Floro, inviato da Nerone quale successore di Albino, portò al colmo
le molte disgrazie dei Giudei. [.] Floro era tanto malvagio e arbitrario
nell'esercizio della sua autorità che i Giudei, per la loro estrema misera,
lodavano Albino come benefattore. Quest'ultimo infatti, teneva nascosta la
sua infamia [.], ma Gessio Floro [.] ostentatamente sfoggiava la sua [.].
Non conosceva pietà, nessun guadagno lo saziava, era una persona che
ignorava la differenza tra i guadagni più grandi e i più modesti, tanto che
si associava persino ai briganti. [.] Era Floro che ci costringeva alla
guerra contro i Romani, perché preferivamo perire insieme piuttosto che a
poco a poco". [2]
Giuseppe rifiuta comunque, di principio, la ribellione:
"Certamente era bello combattere per la libertà, ma bisognava farlo al
principio; ora, una volta sottomessi e rimasti soggetti per tanto tempo, il
voler scuotere il giogo non era da persone amanti della libertà, ma da
persone che volevano fare una brutta fine. Si doveva certo disprezzare dei
padroni di poco conto, ma non quelli che dominavano il mondo intero. [.]
Legge suprema in vigore presso le bestie come presso gli uomini era quella
di cedere al più forte, e che il dominare spettava a che aveva armi più
potenti". [3]
I risvolti di queste rivolte sfociarono dapprima in una resa dei conti
intestina, in cui i ceti benestanti diventarono bersaglio prescelto dei
rivoltosi:
"Distribuitisi in squadre per il paese, saccheggiavano le case dei signori,
che poi uccidevano [...]" [4]
Ogni farabutto, circondato da una propria banda, s'innalzava al di sopra dei
suoi come un capobanda o un signorotto, e si serviva dei suoi scherani per
angariare la gente dabbene. [5]
Ma i benestanti non volevano la guerra:
"Quelli, che erano persone di rango e che, avendo delle proprietà,
desideravano la pace, [.]" [6]
A rimetterci furono anche i sacerdoti di rango inferiore, quest'ultimi
alleatisi ormai con i ceti sociali meno abbienti, tanto da bisticciare anche
per il cibo:
"Era allora accesa una mutua inimicizia e lotta di classe tra i sommi
sacerdoti, da una parte; e i capi della plebaglia di Gerusalemme dall'altra.
Ognuna delle fazioni formava e raccoglieva persone temerarie e
rivoluzionarie pronte ad agire come i loro capi. [.] Tale era poi la
petulanza vergognosa e l'ardire dei pontefici, che non dubitavano di mandare
schiavi sulle aie del grano battuto e prelevare le decime dovute ai
sacerdoti, col risultato che i sacerdoti più bisognosi morivano di fame. [7]
[.] Così accadeva che i sacerdoti, che negli antichi giorni vivevano delle
decime, ora erano ridotti a morire di fame". [8]
Il risvolto di tale comportamento da parte dei sommi sacerdoti si ebbe nel
momento in cui i ribelli presero il sopravvento:
"Alla fine il popolo giunse a tale estremo di impotenza e di terrore, e
quelli di follia, da voler prendere nelle loro mani anche l'elezione dei
sommi sacerdoti. Pertanto abolirono i privilegi delle famiglie da cui si
erano sempre presi a turno i sommi sacerdoti, e nominarono individui comuni
e di bassa estrazione per averli alleati nelle loro empie ribalderie [.]".
[9]
[1] Cfr. [Guerra giudaica] 5.558ss.
[2] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.252-257.
[3] Cfr. [Guerra giudaica] 5.365ss.
[4] Cfr. [Guerra giudaica] 2.265.
[5] Cfr. [Guerra giudaica] 2.275.
[6] Cfr. [Guerra giudaica] 2.358.
[7] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.180-181.
[8] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.207.
[9] Cfr. [Guerra giudaica] 4.147-148.
IL RUOLO DEI ZELOTI NELLA RIVOLTA DEL 66 D.C.
La rivolta scoppiò nel settembre del 66. Menahem, figlio di Giuda il
Galileo, sterminò un reparto romano a Gerusalemme e cominciò a comportarsi
da "tiranno insopportabile" [1] tanto che fu assassinato in breve tempo
dalla folla inferocita. Intanto un altro parente di Giuda, tale Eleazar
figlio di Giairo, occupava la fortezza di Masada, quella che cadrà per
ultima alla fine della guerra.
Nel frattempo tutta la regione fu attraversata da rivolte contro i Giudei
che a loro volta risposero mettendo a ferro e fuoco diverse città: i Romani
non potevano più rimanere a guardare e verso la Galilea mossero allora tutta
la XII legione dalla Siria. [2] Successivamente il generale romano Cestio
provò anche ad attaccare Gerusalemme ma non ebbe il coraggio di portare a
termine l'impresa, tanto che alla fine dovette ritirarsi. Fu allora che:
"Dopo la disfatta di Cestio molti dei Giudei più in vista abbandonarono la
città, come una nave che sta colando a picco". [3]
A inizio guerra, Giuseppe Flavio fu eletto capo delle due Galilee e del
territorio di Gamala. [4] Fu in questa occasione che cominciò a scontrarsi
con un figlio di Levi, Giovanni di Giscala. Per quest'uomo Giuseppe non
spreca buone parole, anzi dall'inizio alla fine dei suoi racconti lo dipinge
con affermazioni di puro disprezzo. Dalla povertà, Giovanni passa per un
banditismo solitario fino a diventare capo di una banda che saccheggiava
l'intera Galilea, soprattutto "a spese dei grossi contribuenti" [5] fino
alla notorietà finale.
Quello che Giovanni sembra indovinare anzitempo su Giuseppe è la sua
propensione a tradire i Giudei per passare dalla parte dei Romani. [6]
L'inimicizia tra i due palesa effettivamente l'incapacità dei Giudei di far
fronte comune contro la minaccia romana che di lì a poco si sarebbe
abbattuta sulla zona.
Mentre accadevano questi fatti, Simone figlio di Ghiora radunava nell'Idumea
un suo manipolo di rivoluzionari con cui depredava le case dei ricchi e
faceva alleanza con quelli che si erano rifugiati a Masada. [7]
Le diatribe e l'incapacità di unirsi nella ribellione anti-romana si
manifestano con particolare ferocia all'interno della stessa Gerusalemme,
dove gli Idumei di Simone si scagliano prima contro la popolazione poi
contro gli Zeloti capeggiati da Giovanni di Giscala. Per questi ultimi i
nemici principali rimanevano comunque gli appartenenti alle classi
benestanti:
"Le loro vittime erano specialmente i coraggiosi e i nobili, che venivano
colpiti gli uni per invidia gli altri per paura; reputavano infatti che
l'unica loro salvezza fosse riposta nell'eliminazione di tutti i personaggi
di rilievo". [8]
D'altro canto, nel momento in cui gli Zeloti presero il sopravvento e
decisero per la difesa ad oltranza della città, la fuga da questa potevano
permetterselo solo i più ricchi che corrompevano le sentinelle poste a
guardia delle vie di fuga "sicché i traditori erano solo quelli che non
potevano pagare, con la conseguenza che ad essere uccisi erano solo i poveri
mentre i ricchi si compravano il lasciapassare". [9]
Tra gli Zeloti poi "si distingueva per disegni delittuosi e per la temerità
il gruppo dei Galilei; erano stati infatti costoro a portare al potere
Giovanni, ed egli li ricompensava del predominio che gli avevano procurato
concedendo a ciascuno di fare ciò che voleva". [10]
Dei "Galilei" Giuseppe non risparmia una descrizione che rasenta l'infamia:
"Con un insaziabile desiderio di preda frugavano le case dei ricchi,
uccidevano gli uomini e stupravano le donne come fosse un gioco; poi col
bottino lordo di sangue gozzovigliavano e infine, sazi, si abbandonavano
senza ritegno all'effeminatezza acconciandosi i capelli, indossando abiti da
donna, cospargendosi di profumi e dandosi il bistro agli occhi per farsi più
belli. E le donne non le imitavano soltanto nel modo di agghindarsi, ma
anche nelle pratiche amorose, ideando con frenetica dissolutezza infami
amplessi, rotolandosi nella città come in un bordello, dopo averla tutta
insozzata con le loro nefandezze. Ma se avevano visi di donna, le loro erano
mani d'assassini: mentre procedevano con molle andatura all'improvviso si
trasformavano in audaci uomini d'arme, ed estraendo le spade da sotto alle
vesti dai colori sgargianti trafiggevano chiunque capitava". [11]
Come si legge, i rappresentanti della nobiltà erano continuamente vittime:
"infatti con una falsa accusa di diserzione venivano messi a morte perché le
loro sostanze facevano gola". [12]
[1] Cfr. [Guerra giudaica] 2.442.
[2] Cfr. [Guerra giudaica] 2.500-510.
[3] Cfr. [Guerra giudaica] 2.556.
[4] Cfr. [Guerra giudaica] 2.568.
[5] Cfr. [Guerra giudaica] 2.585ss.
[6] Cfr. [Guerra giudaica] 2.594.
[7] Cfr. [Guerra giudaica] 2.652ss.
[8] Cfr. [Guerra giudaica] 4.357.
[9] Cfr. [Guerra giudaica] 4.379.
[10] Cfr. [Guerra giudaica] 4.559.
[11] Cfr. [Guerra giudaica] 4.560ss.
[12] Cfr. [Guerra giudaica] 5.424.
RAPPRESAGLIE CONTRO I GIUDEI
Gli abitanti di Damasco furono i primi a trucidare i Giudei della loro città
(più di diecimila o forse diciottomila persone disarmate). Ma le
rappresaglie più eclatanti furono a opera dei Romani. Il primo scontro
avvenne ad Ascalona, città che i Giudei cercarono invano di espugnare ai
Romani. Vespasiano intanto scese con le sue truppe da Antiochia verso la
Galilea: gli abitanti di Sepphoris gli dichiararono fedeltà cosicché i
Romani poterono dedicarsi al saccheggio della zona, "uccidendo tutti gli
uomini validi alle armi e trascinando in schiavitù i più deboli". [1]
Fu poi la volta della città di Gabara (o Gadara o Gabora) in cui furono
trucidati tutti i giovani, appiccato il fuoco alla città, ai villaggi e alle
borgate vicini. [2] A Iata Traiano, allora genero di Vespasiano e non ancora
imperatore, uccise 15 mila cittadini, senza distinzione tra giovani e
vecchi, mentre i bambini furono ridotti in schiavitù assieme alle loro madri
in numero di 2.130. Eravamo nel luglio dell'anno 67 d.C. [3]
Dei Samaritani che non morirono per fame e sete i Romani ne trucidarono
11.600. [4] Iotapata, la città su cui comandava Giuseppe Flavio, fu
distrutta e incendiata e vide la morte di 40 mila persone. [5] In Ioppe
perirono altri 4.200 Giudei. [6] Altra disfatta giudea si ebbe a Tarichee. A
quelli che non ammazzò subito, Vespasiano, tese un tranello rinchiudendoli
in uno stadio a Tiberiade: poi
"i vecchi e gli inabili, in numero di mille e duecento, li fece uccidere;
dei giovani scelse i più robusti, in numero di seimila e li màndò a Nerone
per i lavori sull'istmo; tutti gli altri, in numero di trentamila e
quattrocento, li vendette schiavi, tranne quelli che mandò in dono ad
Agrippa [.]". [7]
Gamala resistette per tredici mesi prima di cadere: i Romani uccisero
quattromila persone, senza risparmiare neppure i bambini, che prendevano e
scagliavano giù dalla rocca, mentre altre cinquemila si suicidarono
gettandosi dalla stessa.
Altri quindicimila perirono in scontri presso il Giordano, mentre un numero
incalcolabile si suicidò gettandosi nel fiume e 2'200 vennero fatti
prigionieri. [8] A Betabris e Cafartoba Vespasiano uccise più di 10 mila
uomini e fece più di mille prigionieri. [9] A Gerasa un ufficiale romano
"uccise un migliaio di giovani [.], fece prigionieri le donne e i bambini e
diede il permesso ai soldati di saccheggiare ogni cosa; poi, appiccato il
fuoco alle case, si gettò sulle borgate vicine. Chi ne aveva la forza
riusciva a fuggire, mentre i più deboli venivano uccisi, e tutto ciò che
essi abbandonavano era dato alle fiamme". [10]
Nell'assedio di Gerusalemme Giuseppe fornisce la cifra di 600 mila cadaveri
giudei [11] e, alla fine dell'assedio, afferma che "Nella città non si
trovava un posto libero, ma c'erano morti dappertutto, vittime di fame o dei
ribelli". [12]
Mentre i soldati Romani "escludendo soltanto i cittadini, essi vendettero
schiavi tutti quanti gli altri assieme alle mogli e ai figli, ma a un prezzo
bassissimo per l'abbondanza della merce e la penuria dei compratori". [13]
Quando Gerusalemme venne definitivamente presa
"Cesare ordinò di sopprimere soltanto chi aveva armi e opponeva resistenza,
e il resto di farli prigionieri. Ma i soldati, oltre alle persone
specificate nell'ordine ricevuto, uccisero anche i vecchi e i deboli, mentre
i giovani e i validi li ammassarono nel tempio rinchiudendoli nel recinto
delle donne. [.] Frontone mise a morte tutti i ribelli e i guerriglieri che
s'incolpavano vicendevolmente, e tra i giovani scelse i più alti e di
bell'aspetto mettendoli da parte per il trionfo. Tutti gli altri, di età
superiore ai diciassette anni, li mandò in catene a lavorare in Egitto, ma
moltissimi Tito ne inviò in dono nelle varie province a dar spettacolo nei
teatri morendo di spada o dilaniati dalle belve feroci; chi non aveva ancora
diciassette anni fu venduto in schiavitù. Nei giorni che Frontone impiegò
per decidere, morirono di fame undicimila prigionieri, alcuni perché non
ebbero da mangiare per la spietatezza delle guardie, altri perché, pur
avendolo avuto, non lo toccarono". [14]
Le cifre che Giuseppe fornisce alla fine della guerra sono le seguenti: "Il
numero complessivo dei prigionieri catturati nel corso dell'intera guerra fu
di novantasettemila, quello dei morti dal principio alla fine dell'assedio
fu di un milione e centomila". [15]
Giuseppe racconta anche che, mentre festeggiava il compleanno di suo
fratello a Cesarea, Vespasiano diede spettacoli in cui venivano impiegati i
prigionieri giudei: "furono più di duemila e cinquecento quelli che caddero
nel combattimento contro le fiere o duellando gli uni contro gli altri o
perirono tra le fiamme". [16]
[1] Cfr. [Guerra giudaica] 3.62.
[2] Cfr. [Guerra giudaica] 3.133.
[3] Cfr. [Guerra giudaica] 3.306.
[4] Cfr. [Guerra giudaica] 3.315.
[5] Cfr. [Guerra giudaica] 3.339.
[6] Cfr. [Guerra giudaica] 3.426.
[7] Cfr. [Guerra giudaica] 3.539ss.
[8] Cfr. [Guerra giudaica] 4.435ss.
[9] Cfr. [Guerra giudaica] 4.447.
[10] Cfr. [Guerra giudaica] 4.488ss.
[11] Cfr. [Guerra giudaica] 5.569.
[12] Cfr. [Guerra giudaica] 6.369.
[13] Cfr. [Guerra giudaica] 6.384.
[14] Cfr. [Guerra giudaica] 6.414ss.
[15] Cfr. [Guerra giudaica] 6.420.
[16] Cfr. [Guerra giudaica] 7.37-38.
DALLA FINE DELLA GUERRA ALL'ULTIMA RIVOLTA DEL 135 d.C.
La I guerra giudaica durò dal 66 al 70 d.C. Tra i trofei condotti a Roma vi
furono anche i due capi della rivolta: a Giovanni di Giscala fu riservata la
prigione a vita mentre Simone bar Ghiora venne decapitato alla fine del
corteo trionfale che Vespasiano e suo figlio Tito condussero nella capitale.
Strenua resistenza mantenne fino al 73 Eleazar figlio di Giairo a Masada. La
capitolazione non avvenne per un attacco dei Romani ma per decisione degli
stessi assediati di togliersi la vita attraverso un suicidio collettivo. A
tanto erano disposti gli Zeloti come ci ha tramandato Flavio Giuseppe nel
discorso finale di Eleazar:
"Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri figli senza
provare la schiavitù, e dopo la fine scambiamoci un generoso servigio
preservando la libertà per farne la nostra veste sepolcrale. Ma prima
distruggiamo col fuoco e i nostri averi e la fortezza; resteranno male i
romani, lo so bene, quando non potranno impadronirsi delle nostre persone e
vedranno sfumare il bottino. Risparmiamo soltanto i viveri, che dopo la
nostra morte resteranno a testimoniare che non per fame siamo caduti, ma per
aver preferito la morte alla schiavitù, fedeli alla scelta che abbiamo fatta
fin dal principio." [1]
Cosa accade da allora in poi? Non avendo più uno storico che ce lo racconti
con la stessa passione e dovizia di particolari che ci ha lasciato Giuseppe
Flavio, siamo costretti a riprodurre alcuni stralci riassuntivi trovati in
testi moderni:
"Iudaea capta era l'iscrizione che, da allora in poi, apparve sulle monete
coniate per la provincia romana. [.] Vespasiano reclamò tutto il territorio
come sua proprietà privata [2] mentre dei coloni lavoravano la terra per
lui. La comunità giudaica, abituata a pagare mezzo siclo come tassa per il
tempio di Jahvèh, doveva ora dare lo stesso contributo al fiscus iudaicus
per il tempio romano di Giove Capitolino". [3]
Ma tra gli Ebrei continuò a serpeggiare sempre l'idea di restaurare il
proprio regno e ciò contribuì ad alimentare alcune rivolte nel 115-116 d. C.
seguite da quella più consistente avvenuta nel 132-135 d.C., anch'essa
sedata in modo violento dai Romani. L'imperatore Adriano in carica "[.]
decretò che tutta la nazione giudaica non potesse da allora in poi entrare
nel distretto attorno a Gerusalemme, cosicché nemmeno da lontano potesse
vedere la sua patria". [4]
[1] Cfr. [Guerra giudaica] 7.334-336.
[2] Cfr. [Guerra giudaica] 7.217.
[3] Cfr. [Commentario] 75:164-165.
[4] Cfr. [Commentario] 75:169.
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del mondo antico che si è conservata con qualche piccola variante fino ai
nostri giorni". (Le religioni del mondo antico, ed. Teti, Milano 1983, p.
113)
Fonte principale per lo studio di questa religione è la Bibbia (dal greco
biblia, libri), suddivisa in Pentateuco, Libri storici, Libri sapienziali e
Libri profetici: il che fa parte di quello che i cristiani definiscono col
nome di Antico Testamento (in latino testamentum significa "patto"), per
distinguerlo dal Nuovo, che gli ebrei non riconoscono.
Alla base del Pentateuco (cinque rotoli) vi sono almeno quattro diverse
fonti, chiarite solo nel XIX sec.: quella jahvista, composta in Giudea
intorno al 950 a.C., quella elohista, composta in Efraim intorno all'800
a.C., quella deuteronomica, composta verso il 621 a.C. e rielaborata verso
il 500 a.C. e quella sacerdotale, composta verso il 550-500 a.C.
Altre fonti importanti che si possono esaminare sono i testi di Giuseppe
Flavio, La guerra giudaica e Antichità giudaiche, nonché tutti i testi
ritrovati a Qumran.
La storia del popolo ebraico [1] inizia nella Bibbia con le vicende di
Abramo, che risalgono circa al 1850 a.C., ma questo popolo ha origini ancora
più antiche, risalenti a un periodo in cui viveva, semplicemente, come tribù
di allevatori, nomadi, nell'Arabia settentrionale, la cui religione aveva
sicuramente caratteristiche molto diverse da quelle che poi vennero
codificate.
Gli stessi patriarchi nominati nella Bibbia sono probabilmente soltanto
delle personificazioni di distinzioni tribali, in quanto le loro vicende
sono mescolate a fatti del tutto leggendari.
Stando comunque alla cronologia di questi testi, Abramo avrebbe avuto come
antenati i Cananei, nomadi in Mesopotamia e, nel tempo in cui uscì dalla
terra di Ur per dirigersi verso Canaan (nome originario della Palestina), i
sumeri vivevano una florida civiltà schiavista, mentre l'altra grande
civiltà schiavista, quella egizia, sul versante opposto della cosiddetta
"mezzaluna fertile", controllava la costa siro-palestinese, adiacente a
quella di Canaan.
Poiché ad un certo punto gli egizi erano in grado di sfruttare la Palestina
come una loro colonia, e poiché questa non riusciva a liberarsi da quella
dominazione, buona parte delle tribù israelitiche si vide costretta, in
occasione di una grave carestia, a trasferirsi direttamente in Egitto
(epopea di Giuseppe, divenuto primo ministro, e dei suoi fratelli), al tempo
in cui regnavano gli stranieri Hyksos, nella speranza di migliorare la loro
sorte.
Tuttavia, cacciati gli Hyksos, durante il Nuovo Regno gli ebrei furono
costretti a lavorare in Egitto in condizioni molto dure, come operai nelle
fornaci di mattoni, come manovali e muratori per costruire edifici di ogni
genere.
Il periodo della schiavitù egizia durò all'incirca dal 1700 al 1250 a.C.,
dopodiché, alla guida di Mosè (un leader egizio la cui riforma
politico-religiosa in direzione del monoteismo aveva incontrato l'ostilità
dei sacerdoti), gli ebrei, con un grande "esodo", ritornarono nella terra di
Canaan. Praticamente approfittarono di un momento di debolezza dell'impero
alle prese coi cosiddetti "Popoli del Mare".
Con Mosè nasce il culto di Jahweh, che significa "Io sono". Sua
caratteristica fondamentale era che non si poteva rappresentare in alcun
modo e che andava rispettato sulla base di alcune precise leggi o
comandamenti. Questo dio prometteva in cambio del rispetto delle leggi una
terra in cui poter vivere come popolo libero.
Tuttavia Mosè morì prima di raggiungere questa terra. Infatti solo verso il
1220-1200 a.C., alla guida di Giosuè, le tribù ebraiche sono in grado di
occupare militarmente tutta la Palestina, con l'intenzione di stabilirvisi
definitivamente. Viene praticamente sconfitta quasi tutta la popolazione
indigena della regione, specie i Filistei, dal cui nome proviene
"Palestina".
Nasce l'epoca dei Giudici (1200-1025 a.C.), una sorta di federazione
democratica di tutte le tribù israelite, che da nomadi diventano
sostanzialmente sedentarie, dedicandosi prevalentemente ai lavori agricoli.
Ancora non esisteva il culto di un dio imposto come unico, ma semplicemente
la dominanza prevalente del culto di Jahvè (monolatria), appartenente alle
tribù giudee. E' solo a partire dal X sec., con la nascita della monarchia,
che questo culto comincia a diventare una religione di stato (monoteismo).
La monarchia nasce quando s'impongono le differenze di classe e
l'ordinamento tribale non è più in grado di tenerle sotto controllo coi
mezzi e metodi tradizionali; inoltre quando i Filistei tornano a rivendicare
il possesso dei loro territori.
Il primo potere reale che s'impone è quello della tribù di Beniamino, con
Saul (1030-1010 a.C.), che morì combattendo appunto contro i Filistei, poi
sarà quello, ben più importante, della tribù di Giuda, con Davide (1010-970
a.C.), che ridimensionò decisamente il potere dei Filistei e che pose la
capitale del regno a Gerusalemme, e Salomone (970-931 a.C.), sotto il cui
regno i confini si estesero fino al golfo di Aqaba sul mar Rosso.
Salomone trasformò Israele in uno Stato organizzato, non molto diverso da
quelli schiavistici del tempo: fece costruire una flotta navale, le mura di
Gerusalemme e fece edificare un tempio per centralizzare il culto di Jahvè,
affidandolo alla gestione esclusiva dei sacerdoti provenienti dalla tribù di
Levi.
Questa situazione piaceva sempre meno e molte tribù cominciavano a
rimpiangere le libertà del passato, sicché alla morte di Salomone ne
approfittano per separare il regno (931 a.C.): quello a nord, composto da 10
tribù, si chiamerà "Israele", con capitale Samaria, e durerà circa due
secoli (nel 721 a.C. verrà sconfitto dagli assiri di Sargon II e i suoi
abitanti saranno deportati); quello del sud, composto da due sole tribù, si
chiamerà "Giuda", con capitale Gerusalemme, e conserverà l'indipendenza per
poco più di tre secoli (tra il 598 e il 587 a.C. verrà sconfitto dai
babilonesi di Nabucodonosor e gli abitanti vengono deportati in
Mesopotamia).
Nel periodo di divisione dei due regni, sino alla fine dell'esilio
babilonese, è molto forte l'attività di critica, da parte dei profeti (Elia,
Eliseo, Isaia, Geremia...), del malcostume, dello sfruttamento e
dell'idolatria. I profeti non avevano rapporti col clero ufficiale dei
templi. Decisiva fu l'attività dei profeti Ezechiele e Daniele durante la
"cattività babilonese" (dal latino captivitas, che significa "prigionia")
per mantenere la coesione di popolo e la speranza del ritorno in Palestina.
Nel 539 a.C. i persiani, con Ciro, conquistano la Mesopotamia e permettono
agli ebrei di tornare in Palestina come loro sudditi, ma con la possibilità
di ricostruire il tempio, ch'era stato distrutto dai babilonesi. Tutto il
potere politico-religioso passa in mano ai sacerdoti di Gerusalemme, che
devono soltanto rendere conto ai sovrani persiani.
I sacerdoti e gli scribi (in particolare Esdra e Neemia) ridanno vigore alla
riforma del re Giosia (640-609 a.C.), il quale, dicendo di aver trovato un
nuovo libro nel 621 a.C.: il Deuteronomio, che in realtà era stato scritto
ex-novo, aveva praticamente reinterpretato tutti gli eventi dalla partenza
dal Sinai fino alla morte di Mosè.
Il codice sacerdotale composto durante l'esilio babilonese da Ezechiele e da
altri sacerdoti (587-538 a.C.) venne fuso da Esdra con gli altri testi del
Pentateuco allo scopo di affermare il rigido monoteismo, la centralizzazione
del culto e la canonizzazione dei testi biblici.
Per fronteggiare la crisi sociale e limitare le proteste contro le
ingiustizie economiche, i sacerdoti elaborano un'ideologia che avrà un certo
peso nello corso della lotta per l'indipendenza nazionale: quella del
"popolo eletto", secondo cui gli ebrei sono oppressi per colpa dei loro
tradimenti ma possono riscattarsi agli occhi di dio combattendo contro i
nemici esterni. Furono dunque proibiti i matrimoni misti e considerati
"impuri e pagani" tutti i non ebrei, i non circoncisi e chiunque non
accettasse il culto di Jahvè a Gerusalemme (p.es. i samaritani). La Giudea
diventa uno Stato teocratico.
L'epoca persiana finisce con l'inizio di quella ellenistica di Alessandro
Magno (333-63 a.C.). Alla sua morte l'impero viene diviso e la Palestina
prima viene sottomessa ai re lagidi d'Egitto (in questo periodo la Bibbia
viene tradotta in greco), poi, dal 200 a.C., ai re seleucidi di Siria,
contro i quali gli ebrei si ribellano sotto la guida della famiglia dei
Maccabei, ottenendo una breve relativa indipendenza dopo il 141 a.C.
(dinastia asmonea).
Ma la dominazione più dura che devono sopportare sarà quella romana. Nel 63
a.C. Pompeo occupa Gerusalemme e la Palestina diventa una provincia
imperiale. Gli ebrei tentano più volte di ribellarsi, ma non avendo mai
raggiunto una sufficiente coesione nazionale, subiscono una disfatta
gravissima nella prima rivolta del 66-70 d.C., finché nel 132-135, con la
sconfitta della seconda rivolta, Gerusalemme viene chiamata Aelia Capitolina
e se ne vieta l'ingresso agli ebrei.
La diaspora è irreversibile. Da alcuni settori dell'ebraismo nasce il
cristianesimo, il quale, con la corrente paolina, che risulterà poi
dominante, si rinuncia a qualunque forma di lotta politica, ma anche a
qualunque particolarità ebraica che impedisca ai pagani di accettare la
nuova religione.
Cinque secoli dopo, caduto l'impero romano, si stabiliscono in Palestina gli
arabi, di religione islamica.
Dal 1948 è stato ricostituito in Palestina, per decisione del Consiglio di
sicurezza dell'Onu, lo stato di Israele, permettendo agli ebrei di ritornare
sulle loro antiche terre. A partire da quella data si fanno risalire i
conflitti tra israeliani e palestinesi, quest'ultimi di religione islamica.
[1] Ebrei significa "colui che è al di là"; così venivano chiamate in
Palestina le popolazioni provenienti da oltre l'Eufrate.

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