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STORIA DEL POPOLO
EBRAICO (4)
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STORIA ANTICA - STORIA
DEL POPOLO EBRAICO |
STORIA DEL POPOLO EBRAICO LE ORIGINI
Nella nostra ricerca seguiremo
l'ordine di lettura della Bibbia stessa, cominciando dunque dalla Genesi ma
non tutte le considerazioni verranno esposte secondo il filo conduttore
biblico: troppi sono infatti gli argomenti che necessitano di una serie di
dati ulteriori per poter essere apprezzati in modo più approfondito. E la
Genesi è proprio quel genere di libro che nasconde tesori importanti, che non
possono essere gustati senza una adeguata preparazione. Perché è fin dalle
prime pagine che vediamo come i redattori della Bibbia siano subito alla
ricerca di risposte sul Tutto, attingendo dal bagaglio culturale esistente
nel Mediterraneo come dimostrano la leggenda del diluvio e il racconto
dell'albero della vita, tramandati da civiltà ben più antiche di quella
ebraica. Dal punto di vista narrativo, il loro è un progetto ambizioso in
quanto cercano di riassumere tutto quello che è accaduto dall'inizio della
storia. E all'inizio c'è Dio, quel Dio che i testi originali chiamano in
termini diversi (Elohim) rispetto al Signore (Adonai) Yahweh [2] di
Mosè. Non vogliamo addentrarci nelle implicazioni di questa incongruenza e di
come i teologi la risolvono, ma soffermiamoci su come i sacerdoti
antichi riescano a individuare fin dall'inizio della creazione le origini
degli ebrei. Una serie di dinastie che serviranno anche a due evangelisti
(Matteo e Luca) quando vorranno ricostruire la genealogia di Gesù. Quanto
poco questo sia convincente per la maggior parte degli studiosi moderni si
desume dal seguente passo: La questione più controversa e complicata nella
ricerca sul passato di Israele resta la ricostruzione delle origini. Secondo
Bright, esse sono state decisive per l'identità di Israele; tuttavia, molti
degli studiosi non sostengono più una simile tesi. Se la testimonianza
biblica è davvero un prodotto o una "invenzione" del tardo periodo esiliaco e
quello persiano, piuttosto che il frutto di una tradizione risalente alle
origini di Israele, come alcuni sostengono, allora non c'è ragione di
ritenere che esista una continuità tra il primo "Israele" (se si può usare
questa definizione) e l'Israele della restaurazione del giudaismo. Anche
tra gli storici sembra quindi serpeggiare l'idea che i resoconti biblici
derivino da una ricostruzione fatta da dei sacerdoti o degli scribi che erano
tornati dall'esilio in terre straniere e che hanno recuperato racconti più
antichi o addirittura inventati per fini sociali. Mentre invece per un
religioso tutto il Pentateuco, che comprende i primi 5 libri della Bibbia, è
stato scritto da Mosè stesso, il grande sacerdote che YHWH scelse come
condottiero per far uscire gli ebrei dalla schiavitù d'Egitto. Una scelta che
presuppone una datazione della Bibbia attorno al XIII sec. a.C., ben più
antica rispetto a quella prevista da altri studiosi che la collocano oltre il
periodo dell'esilio, cioè dopo il 587 a.C. Di fronte alla difficoltà di
accreditare questa o quella versione dei fatti, ritorniamo al primo libro
della Bibbia e applichiamo le nostre analisi alle narrazioni traendo tutte
quelle informazioni che risultino coerenti con fatti storici, cioè verosimili
per l'epoca in cui vengono narrati. I racconti della Genesi spaziano dalla
creazione dell'uomo fino all'entrata degli ebrei in Egitto. Concentriamo per
il momento l'attenzione sulle peripezie dell'umanità, dislocata su territori
che attualmente andrebbero dall'alto Egitto fino all'Iraq. Le vicende
ruotano attorno alla storia degli ebrei, un popolo che si pone al centro dei
racconti proclamandosi l'unico prediletto dal Signore. Il termine "ebreo"
viene utilizzato per la prima volta ad indicare Abramo (Gn 14.13), un nomade
il cui padre, Terach, si era spostato dalla città di Ur, in Mesopotamia, per
raggiungere Canaan, l'attuale Palestina. Ma non sarà lui bensì proprio suo
figlio Abramo che la raggiungerà partendo da Carran, sul fiume Eufrate al
confine sud dell'attuale Turchia, dove resterà per poco tempo per colpa di
una carestia, prima di emigrare fino in Egitto. Come si capisce Abramo era un
capo tribù di pastori nomadi, che necessitava di terreni e pozzi per i suoi
animali e che quindi facilmente si spostava da un luogo ad un altro per
sopperire a queste necessità. Dal soggiorno in Egitto si desume un primo modo
di comportarsi dei capi tribù nomadi, che ci vengono descritti come uomini
abituati a fornire la propria moglie come prostituta presso i funzionari e i
re che li ospitavano, in cambio di beni materiali e protezione: La cosa
non fu senza conseguenze, in quanto la scarsa igiene di questi pastori era
furiera di malattie tra i popoli sedentari abituati a condizioni di vita più
civilizzate. [1] Questo potrebbe in realtà esser stato il vero motivo per cui
Abramo dovette andarsene, anche se il narratore lo giustifica in altra
maniera (Gn 12,17), sempre chiamando in causa il Signore e occultando le
responsabilità materiali dei protagonisti della storia. Che il popolo in
questione vivesse in condizioni igieniche pericolose lo si desume infatti a
chiare lettere in tutti i successivi libri e nella legislazione emanata in
seguito da Mosè. Mentre tornava indietro nella Palestina, costretto a lottare
contro invasori che venivano da Oriente, Abramo ricevette da Dio il grande
patto di vassallaggio (Genesi 15) così riassumibile: la terra che andava
dal "torrente d'Egitto" fino "al fiume grande l'Eufrate" e i popoli
che l'abitavano sarebbe stata per sempre di Abramo e della sua discendenza.
In pratica questo "Stato" comprendeva una parte dell'attuale
Egitto (sostanzialmente la penisola del Sinai), Israele, il Libano, la
Giordania, la Siria e una parte dell'Iraq; quindi, visto il viaggio finora
percorso da Abramo, includeva tutte le terre da lui conosciute. Gli
mancava però un erede perché sua moglie Sara non riusciva a
dargliene, problema comunque facilmente risolvibile perché a quel tempo
vigeva la poligamia: Abramo aveva infatti la disponibilità di molte donne ed
ebbe infatti il primo figlio Ismaele proprio da una sua schiava egiziana. Ma
non appena Sara partorì Isacco, la schiava egiziana e il figlio furono
cacciati nel deserto (Gn 21), iniziando così la serie di rifiuti dei figli di
sangue misto che vedremo perpetuarsi in tutta la storia degli ebrei. Ad
una prima lettura ciò potrebbe rispecchiare la necessità di mantenere
una razza pura, ma vedremo che questa non sembra essere la motivazione
più ragionevole. Ciò si rileva anche dalla risposta del Signore: Ma Dio
disse ad Abramo: «Non ti dispiaccia questo, per il fanciullo e la
tua schiava: ascolta la parola di Sara in quanto ti dice, ascolta la sua
voce, perché attraverso Isacco da te prenderà nome una stirpe. Ma io
farò diventare una grande nazione anche il figlio della schiava, perché è
tua prole». (Genesi 21:12-13) E' prematuro anticipare la spiegazione se
non dopo aver percorso ancora diversa strada con questi primi capi tribù, che
dovevano lottare continuamente con le popolazioni dei luoghi in cui
arrivavano con gli armenti e il resto delle piccole comunità. [2] E'
significativo al riguardo la narrazione della strage di Sichem (Gn 34). In
essa, oltre a far risaltare l'ingratitudine e il cinismo dei figli
di Giacobbe, vengono descritti i modi con cui venivano trattate le
popolazioni che facevano dei torti agli ebrei, con metodi che verranno
ripresi e addirittura prescritti dal YHWH nella successiva conquista di
Canaan: [.] i due figli di Giacobbe, Simeone e Levi, i fratelli di Dina,
presero ciascuno una spada, entrarono nella città con sicurezza e uccisero
tutti i maschi. Passarono così a fil di spada Camor e suo figlio Sichem,
portarono via Dina dalla casa di Sichem e si allontanarono. I figli di
Giacobbe si buttarono sui cadaveri e saccheggiarono la città, perché quelli
avevano disonorato la loro sorella. Presero così i loro greggi e i loro
armenti, i loro asini e quanto era nella città e nella campagna. Portarono
via come bottino tutte le loro ricchezze, tutti i loro bambini e le loro
donne e saccheggiarono quanto era nelle case. (Genesi 34:25-29) L'odio
verso gli stranieri deve essere stato così forte che Abramo stesso vietò al
suo figlio Isacco di sposarsi con mogli non ebree e lo invitò invece a
prendere in moglie Rebecca sua cugina. Il discendente che erediterà il
destino promesso da Dio sarà Giacobbe, padre di 12 figli, che emigrerà
in Egitto per salvarsi da una carestia al seguito del figlio Giuseppe
entrato nelle grazie del faraone. Anche se gli ebrei rimarranno in Egitto
ben 430 anni (Es 12.40), Giuseppe volle essere seppellito in Canaan, dove era
morto suo padre Isacco e il nonno Abramo e prima di morire pronunciò la
profezia secondo la quale Dio avrebbe visitato i suoi fratelli per condurli
indietro in Canaan. Come si vede è insistente il richiamo alla terra
"promessa", Canaan su cui gravitano i pensieri di questi nomadi nonostante di
fatto non potesse essere considerata una terra loro, essendo essi pastori
nomadi in continuo spostamento con le loro greggi. E' così che si erano
infatti presentati in Egitto al faraone, da cui ottennero un particolare
territorio: [Al faraone] voi risponderete: Gente dedita al bestiame sono
stati i tuoi servi, dalla nostra fanciullezza fino ad ora, noi e i nostri
padri. Questo perché possiate risiedere nel paese di Gosen». Perché tutti i
pastori di greggi sono un abominio per gli Egiziani. (Genesi
46:34) Abbiamo già visto, ed è inutile rimarcarlo, che l'abominio degli
Egiziani per i pastori derivava molto probabilmente da questioni
igieniche. Ricordiamo infatti che la coabitazione in luoghi come le città e
in climi caldi e umidi erano condizioni ideali per il diffondersi di
epidemie, cosa che poteva essere in parte evitata isolando eventuali gruppi
più facilmente a rischio. Il finale di Genesi offre una mirabile
descrizione di come una civiltà passa da una condizione di ricchezza
distribuita a una con una sua forte concentrazione, raccontando a parola
quello che noi abbiamo schematizzato con le piramidi numeriche e misurato
tramite l'indice di Gini. Tutto sembra cominciare con una carestia: Ora
non c'era pane in tutto il paese, perché la carestia era molto grave:
il paese d'Egitto e il paese di Canaan languivano per la carestia.
Giuseppe raccolse tutto il denaro che si trovava nel paese d'Egitto e nel
paese di Canaan in cambio del grano che essi acquistavano; Giuseppe consegnò
questo denaro alla casa del faraone. Quando fu esaurito il denaro del paese
di Egitto e del paese di Canaan, tutti gli Egiziani vennero da Giuseppe a
dire: «Dacci il pane! Perché dovremmo morire sotto i tuoi occhi? Infatti non
c'è più denaro». (Genesi 47:13-15) SCHIAVITU' EGIZIA Come si nota,
durante la narrazione, Egitto e Canaan appaiono insieme - e non è l'unico
caso - come appartenessero ad uno stesso stato. Canaan figura come una
dependance dello stato egiziano, da cui non solo provengono popolazioni ma da
cui vengono drenati soldi per pagare i servizi ricevuti dal faraone. Giuseppe
è il funzionario del faraone chiamato ad affrontare l'emergenza e lo fa in
questo modo: Rispose Giuseppe: «Cedetemi il vostro bestiame e io vi darò pane
in cambio del vostro bestiame, se non c'è più denaro». Allora condussero a
Giuseppe il loro bestiame e Giuseppe diede loro il pane in cambio dei cavalli
e delle pecore, dei buoi e degli asini; così in quell'anno li nutrì di pane
in cambio di tutto il loro bestiame. Passato quell'anno, vennero a lui
l'anno dopo e gli dissero: «Non nascondiamo al mio signore che si è esaurito
il denaro e anche il possesso del bestiame è passato al mio signore, non
rimane più a disposizione del mio signore se non il nostro corpo e il
nostro terreno. Perché dovremmo perire sotto i tuoi occhi, noi e la nostra
terra? Acquista noi e la nostra terra in cambio di pane e diventeremo servi
del faraone noi con la nostra terra; ma dacci di che seminare, così che
possiamo vivere e non morire e il suolo non diventi un deserto!». Allora
Giuseppe acquistò per il faraone tutto il terreno dell'Egitto, perché gli
Egiziani vendettero ciascuno il proprio campo, tanto infieriva su di loro
la carestia. Così la terra divenne proprietà del faraone. (Genesi
47:16-20) In questo episodio, supponendo (anche se non è riportato) che vi
siano state precedenti condizioni climatiche che hanno scatenato la carestia,
ci si accorge che la miseria e la fame perdureranno negli anni nonostante
la popolazione sembri possedere bestiame, sementi e terre. Nel
frattempo infatti non solo tutta la ricchezza distribuita è stata convogliata
in mano a un'unica persona, ma questa è diventata anche padrona degli
individui stessi. In cambio ha fornito loro "di che seminare" su terreni che
non appartengono più agli individui ma che sono a completa disposizione
del potere centralizzato, riuscendo addirittura a far credere loro di
averli "salvati". Questo farà sì che il potere dominante riesca a
dislocare tutto il popolo concentrandolo nelle città: Quanto al popolo,
egli lo fece passare nelle città da un capo all'altro della frontiera
egiziana. (Genesi 47:21) Non vi è quindi solo una accumulazione di ricchezza,
costituita dalla proprietà terriera e dai beni primari, ma anche un
ammassamento di persone che conduce ad una urbanizzazione concentrata e non
più diffusa. Come abbiamo evidenziato altrove, questo è un esempio di
concentrazione edilizia per ridurre le spese e aumentare il controllo sulla
popolazione. Vi furono comunque dei privilegiati che non dovettero sottostare
a queste imposizioni? La Bibbia ci riporta i rappresentanti di una certa
categoria a noi ben nota: Soltanto il terreno dei sacerdoti egli non
acquistò, perché i sacerdoti avevano un'assegnazione fissa da parte del
faraone e si nutrivano dell'assegnazione che il faraone passava loro; per
questo non vendettero il loro terreno. (Genesi 47:22) Mentre a tutti gli
altri venne applicata una tassazione di tipo proporzionale: Poi Giuseppe
disse al popolo: «Vedete, io ho acquistato oggi per il faraone voi e il
vostro terreno. Eccovi il seme: seminate il terreno. Ma quando vi sarà il
raccolto, voi ne darete un quinto al faraone e quattro parti saranno vostre,
per la semina dei campi, per il nutrimento vostro e di quelli di casa vostra
e per il nutrimento dei vostri bambini». Gli risposero: «Ci hai salvato la
vita! Ci sia solo concesso di trovar grazia agli occhi del mio signore e
saremo servi del faraone!». Così Giuseppe fece di questo una legge che vige
fino ad oggi sui terreni d'Egitto, per la quale si deve dare la quinta parte
al faraone. Soltanto i terreni dei sacerdoti non divennero del faraone.
(Genesi 47:23-26) La Bibbia introduce una posizione di particolare prestigio
riservata agli ebrei che contraddice quanto più sopra scritto: Gli
Israeliti intanto si stabilirono nel paese d'Egitto, nel territorio di Gosen,
ebbero proprietà e furono fecondi e divennero molto numerosi.
(Genesi 47:27) Sembra infatti che venga enfatizzata una posizione di
particolare rilievo che distingue gli ebrei rispetto agli altri popoli,
facendoli figurare come dei privilegiati. Cosa che si spiega nell'economia
del racconto biblico complessivo, in cui gli israeliti vengono sempre dipinti
come un popolo fiero e distinto, nonostante quello che passerà e farà passare
alle popolazioni con cui verrà a contatto. Quando studiavamo la teoria dei
triangoli abbiamo fatto uso della storia di Adamo ed Eva, ambientata nel
paradiso, parola usata per indicare un "giardino", ad esempio quelli
meravigliosi e pensili di Babilonia che erano conosciuti dagli ebrei in
quanto Terach, il padre di Abramo, veniva da Ur vicino al Golfo persico.
Luoghi che rappresentano giorni passati nel benessere, luoghi che i primi
ebrei sembrano ritrovare e riconoscere nella terra di Canaan, attorno la
quale gravitano come un pendolo le migrazioni di questi pastori nomadi. Le
popolazioni di questa terra vedranno un continuo via vai di popoli
che cercheranno di conquistarla. Dal punto di vista di una moderna
analisi economico territoriale, potremmo dire che la centralità di questa
regione rispetto alle direttrici dei commerci ha sempre fatto sì che
fosse importante averne il possesso per poter controllare i flussi di
ricchezza. La Bibbia dà invece una spiegazione legata ad una maledizione
comminata da padre a figlio (Gn. 9,22) e, anche se inizialmente due fratelli
(Sem e Iafet) sembrano essere predestinati a dominare i discendenti di
Canaan, la narrazione cambia indirizzo per mezzo di Dio che invece promette
quella terra solo ad Abramo, discendente di Sem. Questo è un artificio del
narratore, che deve spiegare perché gli ebrei discendenti di Abramo debbano,
loro soli, aver diritto a quella terra: questo criterio è persistente e si
ritrova tanto nella Genesi che in altri capitoli della Bibbia, in cui vengono
narrate le dispute tra famiglie tribali che condurranno allo sfacelo di un
regno ebraico che non riuscirà a resistere più di 80 anni. Gli ebrei si
presentano quindi né più né meno che come una serie di clan rivali che si
ritrovano in tutta la storia umana, in lotta per l'accaparramento del
benessere di cui la regione di Canaan rappresentava l'agognata fonte. Pastori
nomadi che, spostandosi, occupavano continuamente terre di altri e per questo
entravano con essi in conflitto, che perdurava anche nel momento in cui vi
era da spartire il bottino. Da qui le lotte anche solo per appropriarsi dei
pozzi per il bestiame, a cui si aggiungono le furbizie e le ladrerie tra
parenti più o meno stretti. Esempi sono: Rebecca che inganna Isacco
approfittando della sua cecità per passare la primogenitura da Esaù a
Giacobbe; o il comportamento di Labano con Giacobbe e le ritorsioni di
quest'ultimo nei suoi confronti. Inoltre si incontrano le stragi più orrende
giustificate con motivi sproporzionati alle razzie successive; per questo
l'episodio di Sichem è illuminante anche per capire come erano depredate le
città: venivano uccisi tutti i maschi ma risparmiate le donne, razziate come
animali. Un chiaro prototipo del triangolo del benessere: mantenere in vita
le donne, simbolo di riproduzione e piacere sessuale, e far fuori tutti gli
eventuali contendenti al benessere. La predominanza del maschio si nota
nelle discendenze (tutte maschili), come nella facilità con cui gli uomini si
avvicinavano a mogli e schiave pur di generare figli. L'importante era che il
maschio fosse ebreo, cioè del ramo di Abramo e quindi circonciso, mentre le
donne potevano anche appartenere ad altre tribù, ma i figli nati da queste
non potevano aver parte all'eredità (quello che succede a Ismaele che è
figlio di una schiava egiziana). Erano inoltre permessi i matrimoni tra
consanguinei e la poligamia (ovviamente solo maschile) era assolutamente
normale, per chi ovviamente poteva permettersela visto che una donna costava
in termini di dote. [1] La stessa tolleranza era riservata alla prostituzione
(Genesi 38) che però veniva punita addirittura con la morte se conduceva a
gravidanza. Il popolo "eletto" conserva cultura e tradizioni che lo
paragonano a quelli limitrofi con cui entra a contatto, senza dimostrarsi
migliore: gli ebrei massacrano più che dimostrarsi magnanimi con i vicini,
mentre atteggiamenti di bontà si trovano nei re di Sodoma e Gomorra prima
della loro distruzione, in Melchisedek, "sacerdote del Dio altissimo" e negli
egiziani che accolgono e salvano gli ebrei che morivano di fame a causa della
carestia. Anche se questo aiuto avviene nel rispetto delle regole del
popolo ospitante: ebrei ed egiziani non mangiano assieme a tavola "perché
gli Egiziani non possono prender cibo con gli Ebrei" (Genesi 43,32).
Ma l'ospitalità degli egiziani sembra essere così grande che gli ebrei
prendono posto addirittura nella terra di Gosen "la parte migliore del
paese". La Genesi ci evidenzia due carestie particolarmente gravi che
costringono le tribù ad emigrare, in due ondate successive, nel vicino
Egitto. Al centro di entrambe le narrazioni troviamo la figura di Giuseppe,
un ebreo promosso funzionario al servizio del re e che si occupa della
distribuzione delle risorse nella nazione. La prima carestia viene risolta
attraverso un particolare tipo di accumulazione, che ci dimostra che la
concentrazione delle ricchezze non ha risvolti necessariamente negativi,
sempre che il suo utilizzo sia pensato dai governanti a favore della
comunità: In capo a due anni, ecco che Faraone ebbe un sogno; e dal fiume
salivano sette vacche di bell'aspetto e grasse, che si misero a pascolare
nella giuncaia. Dopo di esse, ecco altre sette vacche salire dal Nilo, brutte
e magre, e si fermarono accanto alle prime sulla riva del fiume. E le
vacche brutte e magre divorarono le sette belle e grasse. [...] Allora
Giuseppe disse a Faraone: [...] Ecco, stan per venire sette anni di grande
abbondanza in tutto l'Egitto. E dopo quelli verranno sette anni di carestia,
e tutta l'abbondanza non sarà che un ricordo in Egitto, perché la fame
consumerà il paese. Quali sarebbero potute essere le soluzioni da porre in
atto di fronte ad una tale eventualità? Ammesso che le previsioni del sogno
fossero veritiere, Giuseppe avrebbe potuto consigliare al sovrano espedienti
simili a quelli proposti dalle teste d'uovo delle moderne istituzioni: far
lavorare il popolo a grande lena per costruire deviazioni artificiali
ai corsi d'acqua al fine di creare nuove zone coltivabili obbligare il
popolo, negli anni di carestia, a privarsi del poco a disposizione per far
sopravvivere comunque la casta regnante, che avrebbe così continuato a
governare assicurando la coesione sociale in vista di un futuro
migliore ingaggiare guerre di conquista di altri territori fertili dove
probabilmente la carestia avrebbe potuto non abbattersi chiedere ai
sacerdoti di immolare sacrifici sempre più cruenti, anche umani, alle
divinità per scongiurarle dall'affliggere il regno con tali carestie. A parte
l'ultimo consiglio, comunque verosimile per l'epoca, tutti gli altri sono di
ordine economico, interessano cioè la ricchezza e il lavoro. Sono campi in
cui troppi, per fortuna non tutti, gli economisti giurano di essere i
prescelti per dire l'ultima parola. Ma Giuseppe non conosceva le curve
di Simon Kuznets né le previsioni della Scuola di Chicago e si accontentò
di esprimere un consiglio di ben altro tenore: [...] Si provveda dunque
Faraone di un uomo accorto e saggio, e lo metta a capo dell'Egitto. Procuri
faraone di stabilire dei commissari su tutto il paese, per riscuotere il
quinto del raccolto durante i sette anni d'abbondanza; si raduni tutto il
raccolto dei prossimi sette anni fertili e si ammassi il grano sotto la mano
di Faraone, per provvigione delle città, e lo conservino. E questa provvista
servirà di riserva per il paese nei sette anni di carestia, che verranno poi
in Egitto; e così il paese non sarà decimato dalla fame. Faraone si
comportò esattamente come disse Giuseppe. Così, quando vennero gli anni di
carestia, anche dai paesi vicini arrivò gente per comprare il grano e il pane
che solo in Egitto si trovavano. In questo modo Giuseppe aveva violato i
principi della massima produttività e minima spesa proposti dalle nostre
istituzioni, semplicemente utilizzando un'altra via, sempre presente come ci
insegnano le filosofie antiche, meno scontata ma assolutamente
efficace. E' la via che hanno abbandonato i governi attuali, che invece
preferiscono usurpare il più possibile i risparmi dei cittadini per
alimentare debiti pubblici incredibili, nascosti attraverso raggiri contabili
di cui abbiamo già elencato alcuni esempi. Se, per fare un esempio, lo
Stato italiano non avesse da recuperare un vergognoso disavanzo pubblico, che
in pratica significa una mancanza di scorte, non assisteremmo ai casi di
paesi terremotati i cui cittadini vivono per anni nelle baracche di fortuna.
Né assumerebbe tanta gravità la crisi idrica (ancora la pioggia che manca!)
che ha colpito il Sud Italia nel 2002, sintomo di interventi strutturali mai
effettuati perché in presenza di amministrazioni dalle tasche senza più
risorse: Il presidente della regione Puglia, Raffaele Fitto, [ha detto che]
"[.] è inimmaginabile risolvere in pochi giorni una situazione che ha
ricevuto disattenzione totale per un decennio". [.] Il presidente della
regione Sicilia, Salvatore Cuffaro [.] ha spiegato "[.] i danni ammontano a
3.000 miliardi di vecchie lire, ma sappiamo di non poter chiedere un impegno
del genere." * * * L'arrivo in Egitto si può leggere come l'ingresso di
una piccola piramide in una grande dove sta aumentando la differenza tra i
vari strati sociali per colpa della concentrazione della ricchezza. La
carestia, iniziata come preannunciato da Giuseppe, non finisce ma si acuisce
sempre più. Le misure messe in atto da questo governatore sconfessano la
capacità che la sua accumulazione di risorse potesse far fronte per tanti
anni a una calamità che non è certo per altro sia stata dovuta a cause
naturali: il narratore in effetti non le cita (come farà in altra sede quando
parlerà di periodi senza pioggia, cfr. I Re 18) e non sarebbe spiegabile un
periodo così lungo di ristrettezze per i raccolti. Il narratore infatti
non dice "la terra non dava i frutti necessari" bensì "non c'era più pane"
cioè si riferisce già ad un prodotto dell'uomo. Il narratore puntualizza
anche come il popolo pian piano rinuncia a tutto pur di avere qualcosa di cui
sopravvivere, in cambio solo della semente per i campi. Il faraone, che
possiamo supporre venga indicato come rappresentante della classe più ricca,
entra in possesso delle ricchezze fino a che la gente è costretta a vendere
la propria terra e addirittura si adatta alla schiavitù in cambio
dell'esistenza. Il re può quindi disporre di tutto l'Egitto e dei suoi
abitanti: solo i beni dei sacerdoti vengono risparmiati in quanto il faraone
stesso li manteneva, a conferma che la classe sacerdotale godeva di privilegi
legati ai servizi che rendeva al re nella gestione del suo predominio. La
gente allora venne ammassata nelle città e per vivere gli venne data della
semente, così che molti da pastori divennero agricoltori sedentari, più
legati ai centri urbani dell'epoca e meno nomadi. Il faraone era detentore
della semente e della terra, mezzi di sostentamento di un intero popolo; un
po' come succede ai nostri tempi: poche grosse imprese che detengono i
brevetti dei frutti della terra, le risorse dell'acqua, le vie di
comunicazione e via discorrendo. Giuseppe non affrontò quindi la carestia in
maniera soddisfacente, bensì agevolò la concentrazione della ricchezza nelle
mani di pochi a scapito della popolazione. I risultati di questo aumento
della sperequazione non possono essere stati che un ribollire degli strati
sociali teso a migliorare la propria situazione all'interno di una piramide
sociale che andava assottigliandosi sempre più verso il vertice. Come ci
insegna la teoria delle piramidi, di tutte le strade che questa società
poteva percorrere per risolvere la propria instabilità interna, la via scelta
fu quella di una guerra di conquista con scissione. In questo senso può
benissimo essere letta tutta la vicenda degli ebrei che se ne vanno
dall'Egitto e che andremo a spiegare nel prossimo capitolo. L'ESODO Il
libro dell'Esodo comincia con il racconto degli ebrei ridotti in schiavitù
dagli egiziani e disprezzati dal faraone, anche se nella Genesi appare chiaro
che la stessa sorte era capitata a tutto il resto della popolazione.
Iniziando da questa condizione servile il narratore innesta la ribellione che
farà fuggire gli ebrei per ritornare in Palestina. Figura centrale di questo
momento fu Mosè, un personaggio la cui identità viene raccontata adducendo
particolari subdoli, come il fatto che il bambino sia abbandonato nelle acque
ma arrivi proprio in mano alla figlia del faraone e che questa riesca a
crescerlo senza che il re, che aveva imposto l'uccisione dei neonati maschi,
la riprenda in qualche modo. Questo può far pensare ad una costruzione
tendente a nascondere una verità di fondo, che si trova tra le seguenti
ipotesi, supponendo che Mosè sia stato: un bambino ebreo salvato dalla figlia
del faraone (se la narrazione è vera) un appartenente alle famiglie ricche
che però fugge per qualche motivo particolare, ad esempio un omicidio (Gn
2:11-15), forse perché pretendente al trono un ebreo ribelle di cui si
vuole nobilitare i natali. Il fatto che Mosè sia così libero di frequentare
il faraone e vi siano nella narrazione incongruenze nei fatti riportati fa
più propendere per la seconda possibilità (anche perché tanto Mosè che suo
fratello Aronne portano nomi egiziani). Che non possa essere stato un
ebreo ce lo testimonia anche il fatto che prende in sposa la figlia di un
sacerdote egiziano, contravvenendo quindi alla regola principale che Mosè
sembra dare, proprio lui che fondamentalmente sarà il principale artefice
della nuova religione ebrea; cioè quella che vietava di congiungersi con
gente straniera. Anche non volendo accettare questa ipotesi, dobbiamo
comunque ammettere che, per il ruolo che svolge Mosè di fronte agli ebrei, ai
sacerdoti e alla gerarchia egiziana, egli sia stato un personaggio altamente
influente, appartenente ad una classe agiata e non un pastore qualsiasi.
Probabilmente non un oratore, se si avvale di Aronne come aiutante (Gn
4,10-16). E' comunque con lui che prendono forza le recriminazioni degli
ebrei di fronte all'aumento delle fatiche imposte dal faraone (Es 5,6-10):
sforzi crescenti che aumentano il carico lavorativo degli "scribi dei
figli d'Israele" che cominciano a ribellarsi contestando addirittura
l'operato di Mosè presso il faraone (Es 5, 10-21). Della piramide sociale
non sono quindi i ceti più umili a sollevarsi spontaneamente contro le
imposizioni regali, essendo per natura senza voce in capitolo e abituati ai
sacrifici, quanto le classi più benestanti che vedono calare il loro
benessere. E sono queste che alimentano la rivolta. A questo punto il
narratore si avvale di una serie di artifizi narrativi per celare la rivolta
sociale, evento verosimile, alla base dei racconti seguenti. Scatena così le
tremende "piaghe" che si abbattono sugli egiziani e rivela in Mosè
insospettati poteri, all'apparenza sovrumani. Anche gli esegeti moderni
ridimensionano queste narrazioni al loro valore di mere invenzioni o
reinterpretazioni dei probabili fatti secondo "la cultura popolare". Noi
possiamo considerare questa fantasia come tipica dell'epoca notando
le contraddizioni del racconto, in cui gli stessi atti "miracolosi"
vengono parimenti ripetuti dai maghi egiziani (Es 7:11,22; 8:3,14),
nelle esagerazioni in cui sembra che tutto venga distrutto dalle piaghe salvo
poi ritrovarlo da un'altra parte (cfr. Gn 9,6 con Gn 9,19-21) e nel
sadismo della divinità che ogni volta "indurisce" il cuore di un faraone
pronto ad assecondare il suo interlocutore. Sotto l'enfasi della
narrazione intravediamo invece le intenzioni di una popolazione che
probabilmente voleva salvaguardare il proprio benessere di fronte alla
continua usurpazione di questo da parte del potere al vertice della piramide
sociale. O di una classe sociale che ambiva a salire nella stessa piramide,
ricorrendo a qualsiasi mezzo pur di raggiungere il proprio fine. Il
narratore invece spiega i fatti come un intervento divino nelle
vicende umane, compreso il massacro dei primogeniti egiziani, utilizzando
una discutibile visione di un Dio sanguinario che se la prende addirittura
con gli innocenti animali per perpetrare la sua vendetta, così assetato e
reso cieco dall'odio da aver bisogno di un segnale preciso per poter trovare
le proprie vittime (un segno rosso sugli stipiti delle porte!). Il
narratore insiste a non spiegare gli eventi come una ribellione del popolo
ebreo contro quello egiziano, addirittura facendo apparire la spoliazione dei
beni di quest'ultimo da parte dei rivoltosi come una benevola concessione di
oggetti preziosi d'ogni genere (Es 3:21-22; 11,2; 12:35-36). Per poter
ricondurre su un piano ragionevole la lettura di questi passi, dobbiamo
tralasciare molti particolari che brillano di una
raccapricciante immaginazione e riflettere sulla narrazione riconsiderando i
fatti alla luce delle schematizzazioni sociali conosciute, come faremo nel
prossimo capitolo. PARTENZA PROGRAMMATA DALL'EGITTO Gli ebrei
trascorsero in Egitto 430 anni (Es 12.40). Non sappiamo molto di come abbiano
vissuto in questo lungo periodo, se non quanto ci riporta il narratore: I
figli d'Israele prolificarono e crebbero, divennero numerosi e molto potenti
e il paese ne fu ripieno. (Esodo 1:7) Quindi questa popolazione costituiva un
insieme di una certa rilevanza all'interno del dominio faraonico. Ad un certo
punto della loro storia ci viene presentato un faraone che li prende in
malocchio perché ha paura della loro moltitudine; dei nuovi nascituri cerca
di uccidere i maschi e salvaguarda le femmine, oltre ad aumenta il carico di
lavoro sulla popolazione. Compare allora Mosè, supportato dal resto dei
leviti, a perorare la causa del popolo di fronte al faraone, con una
richiesta ben precisa: lasciare l'Egitto per dirigersi in
Canaan.
Ricordiamo che questa terra non è mai stata degli ebrei e tanto
meno poteva esserlo dopo averla abbandonata per quasi 5 secoli. Ma quella
zona del Medio Oriente, costituita da verdi colline che contrastano con
l'arido deserto tutto intorno, diventando simbolo del giardino primordiale
agognato da chiunque, proprio quella zona era diventata oggetto delle
aspirazioni di chi cercava di uscire dall'Egitto. Anche se la Bibbia
enfatizza le operazioni di fuga degli ebrei, non sembra che il faraone le
abbia contrastate più di tanto. Se inoltre si tiene conto che la fuga durò
ben 40 anni nel deserto, per coprire un tragitto di qualche mese, si capisce
che avendolo voluto il faraone avrebbe potuto con il suo esercito decimare in
ogni momento e modo una popolazione che si spostava con il fardello dei suoi
armenti, a quanto pare poco o male armata e guidata da persone che molto
somigliavano a sacerdoti più che a veri capi guerrieri. E' quindi più
probabile che siamo di fronte ad una partenza concordata, anche se avvenuta
dopo grosse diatribe sfociate in ritorsioni e sabotaggi da parte degli ebrei,
osteggiata dal faraone a causa dei grossi problemi che una traversata di
tante persone avrebbe comportato per andare in luoghi già abitati da altri
popoli. I vantaggi che derivarono all'Egitto da questa dipartita li vedremo
nel prosieguo del racconto: ma è chiaro fin d'ora che stiamo assistendo
alla grande piramide (l'Egitto) che scarica al di fuori le tensioni
interne, facendo conquistare da una parte della sua popolazione una terra
che, forse, non era del tutto sotto il suo dominio. Questo è un esempio di
conquista con scissione, già presentata nella teoria delle piramidi, che
contribuisce a diminuire la disuguaglianza interna, riducendo gli individui
che affollano gli strati più poveri della popolazione. Un parallelo
relativamente recente di questa conquista con scissione lo si trova nella
nascita degli U.S.A., una nazione sorta guadagnandosi un territorio lontano
dalla madre patria. Questo non è avvenuto senza contrasti, sfociati
addirittura in guerre, ma ciò non ha evitato che successivamente U.S.A. e
Gran Bretagna abbiano convolato in preziosi accordi di mutuo soccorso, cosa
che accadde tra Egitto ed Ebrei come vedremo più avanti. Però il faraone
era conscio delle difficoltà nel guidare un tale popolo lontano dalla propria
terra e preoccupato che in seguito quel popolo, una volta divenuto una
nazione, si rivoltasse contro di lui. Cosa che effettivamente non avverrà mai
perché tra i due Paesi ci saranno scambi intensi o, alla peggio, sarà ancora
l'Egitto a dettare legge dalle parti di Canaan. Un risultato che il
faraone riuscì ad ottenere modellando il futuro stato in modo da non nuocere
alla patria di origine. Vedremo tra poco come. Durante il viaggio degli
ebrei, [1] avvennero dei fatti importanti che andremo a ricordare. Mosè fu
subito raggiunto da suo suocero, di origine medianita e non ebrea, che gli
suggerì come amministrare la gente che stava guidando (Es 18). Era infatti
riuscito a convincere una certa quantità di persone a lasciare un paese in
cui dimorava da più di quattro secoli e ora doveva fornirgli anche le nuove
norme di convivenza. Era una fatica immane, perché Mosè si trovava di fronte
non a un popolo ma a un gruppo di persone con interessi particolari e
personali, cui non bastava la prospettiva di una terra propria per sopportare
le fatiche di una fuoriuscita da un luogo dove tutto sommato non moriva di
fame.
Teniamo anche conto che l'attraversata nel deserto durerà ben 40
anni e comporterà la morte di tutti quelli che erano partiti; d'altra parte
le popolazioni di Canaan non stavano ad aspettare questi stranieri lontani
con le porte aperte, ma avrebbero difeso a denti stretti i loro
possedimenti. Per conseguire il risultato voluto, cioè amalgamare le persone
e consentire una durevole convivenza, furono stabilite le leggi, di cui il
decalogo non era che una minima parte. Nei tre libri dell'Esodo, Levitico
e Deuteronomio troviamo infatti un'immensa legislazione che tocca tutte le
fasi dell'esistenza umana. Come spiegarla con le nostre schematizzazioni?
Dalla teoria dei triangoli abbiamo visto che le relazioni che si instaurano
tra gli elementi di ogni sistema (individui e Terra) sono influenzate da
problematiche non indifferenti, che possiamo così rappresentare: la Terra
non produce più i suoi frutti, interrompendo il flusso di risorse che tengono
in vita l'uomo l'uomo non è capace di raccogliere frutti dalla Terra: ciò lo
conduce al deperimento. A cambiare queste situazioni viene in soccorso
l'aiuto reciproco tra individui, che comporta una serie di atteggiamenti che
non sono identificabili con le "cure" ma significano passaggio di risorse
raccolte da un individuo a quello che ne ha bisogno. Questa forma di
aiuto, per il quale modernamente viene spesso utilizzato il termine di
"solidarietà", determina una dipendenza vitale uomo-uomo. Ma essa non è
scevra dal poter essere utilizzata a vantaggio di chi è in forze rispetto a
quello che si trova in stato di bisogno e viceversa. Oltre a ciò abbiamo
visto che la corsa al benessere inchioda certuni in posizioni di
sottomissione ad altri individui fino a situazioni che non solo incidono sul
loro benessere, annullandolo, ma ne pregiudicano anche lo stato di
salute. Queste differenze generano tensioni che si tramutano in scontri fino
a regredire nell'eliminazione fisica dell'avversario. Battaglie che però
non hanno un risultato scontato: non solo non è detto che prevalga la
parte supposta in situazione di vantaggio, ma vi sono anche difficoltà
da affrontare per mantenere il predominio. Conviene perciò intervenire per
ridurre le disparità. Il termine su cui si agisce è l'individuo che, se è
manipolabile al punto da indurlo in stato di schiavitù, a maggior ragione gli
si può imporre di rispettare alcuni limiti nel proprio agire. Questi limiti
sono tracciati nelle regole della convivenza, che in termini di diritto,
vengono chiamate Leggi. LE LEGGI Mosè, nel compiere quanto ci venne
raccontato, era sostenuto sia dallo scopo finale (la promessa di una terra
che mai era appartenuta ad un popolo di pastori) che dal supporto di alcune
persone chiave. Nella sua opera organizzativa e legislativa sicuramente Mosè
non agì da solo, ma venne aiutato dai capi tribù come testimoniano alcuni
passi (Es 4,29ss) e la vicenda del vitello d'oro (Es 32), dove dalla sua
parte si schierarono tutti "i figli di Levi". Non possiamo allora credere
che le leggi ebree fossero avulse dal contesto sociale dell'epoca, come
dipinte per la prima volta da un individuo sovrumano. In realtà
assomigliavano moltissimo a quelle dei loro contermini, anche se
costituiscono un corpus così monolitico da diventare punto di riferimento per
le comunità che si formeranno. Altra convinzione da sciogliere è la certezza
che queste norme di vita sociale siano state tutte elaborate nel corso della
traversata nel deserto. Se infatti le prime stesure dei libri biblici sono
iniziate all'epoca di Davide, cioè circa nel IX secolo a.C., allora sono
passati probabilmente circa 4 secoli dall'Esodo, momento in cui si racconta
siano state istituite. E' perciò verosimile che esse siano il risultato di
elaborazioni continue fino alla versione a noi pervenuta. In base alla
teoria dei triangoli la loro struttura legislativa si può allora dividere in
due filoni: regole di convivenza uomo-Terra regole di convivenza
uomo-uomo a cui si aggiunge un terzo ramo che esprime gli obblighi dell'uomo
nei confronti di Yahweh. Nel decalogo [1] per esempio appartengono al
terzo gruppo i primi due comandamenti, al secondo gruppo quelli dal 4° al
10°, mentre il 3° comandamento abbraccia tutte e tre i campi. La sua
formulazione [2] è infatti: Ricordati del giorno di sabato per
santificarlo: sei giorni faticherai e farai ogni tuo lavoro; ma il settimo
giorno è il sabato in onore del Signore, tuo Dio: tu non farai alcun lavoro,
né tu, né tuo figlio, né tua figlia, né il tuo schiavo, né la tua schiava, né
il tuo bestiame, né il forestiero che dimora presso di te. Perché in sei
giorni il Signore ha fatto il cielo e la terra e il mare e quanto è in essi,
ma si è riposato il giorno settimo. Perciò il Signore ha benedetto il giorno
di sabato e lo ha dichiarato sacro. (Esodo 20,8-11) In esso compaiono gli
elementi del triangolo (uomini da una parte e animali, cioè Terra,
dall'altra) cui viene aggiunto il Signore. Il terzo comandamento richiama,
attraverso l'uso dei termini "riposo" e "lavoro", la questione della fatica
come viene anche enfatizzato da un altro precetto, quello del digiuno e del
riposo il decimo giorno del settimo mese (Lv 16, 29). Fatica cui è sottoposto
l'uomo ma che interessa anche la Terra, che verrà fortemente chiamata in
causa con l'instaurazione dell'anno sabbatico e di quello giubilare. Su
questi due periodi ci siamo già concentrati in un precedente studio
[3] evidenziando la loro profonda valenza ai fini della ridistribuzione
della ricchezza. Ora, dopo aver introdotto il concetto di benessere ed aver
quindi allargato su un campo non solo quantitativo ma anche qualitativo
l'analisi dell'esistenza umana, possiamo vedere come il tema della fatica sia
il legame (che i passi della Bibbia ci confermano) che intercorre tra
ricchezza e benessere e come fosse intravisto un comportamento "umano" da
parte della terra a cui si concedeva il riposo: [.] il settimo anno sarà
come sabato, un riposo assoluto per la terra [.]. Ciò che la terra produrrà
durante il suo riposo servirà di nutrimento a te, al tuo schiavo, alla tua
schiava, al tuo bracciante e al forestiero che è presso di te; anche al tuo
bestiame e agli animali che sono nel tuo paese servirà di nutrimento quanto
essa produrrà. (Levitico 25,4-7) L'anno giubilare era ancora più strategico,
perché non solo veniva concesso ancora riposo a quella terra, ma essa doveva
ritornare in possesso di quelli cui apparteneva. Il possesso della terra non
poteva essere esclusivo e perenne: il legislatore aveva fatto tesoro di
quanto era accaduto secoli prima in Egitto, quando il faraone era entrato in
possesso di tutte le terre riducendo il popolo alla sua mercé e generando
miseria e schiavitù. Il legislatore aveva compreso, senza formalizzarlo, il
triangolo sociale di cui la Terra costituisce un vertice
importantissimo. Un geniale "ecologista ante-litteram", ma dalle misure ben
più efficaci delle misere messe in scena dei nostri giorni, che riuscì nel
contempo a elaborare norme di solidarietà che però furono quasi da subito
snaturate o non applicate: il desiderio di benessere, che conduce alla
sua accumulazione, passa al di sopra di qualsiasi legge, per quanto questa
sia considerata addirittura di origine divina. Molto prima degli Indiani
d'America, il problema della sopraffazione di una società fredda da parte di
una calda è storicamente provato anche nella Bibbia. Bisogna riconsiderare la
legge del giubileo che gli Ebrei abbandonarono successivamente all'esilio in
Babilonia. Non sta scritto da nessuna parte perché ciò avvenne: sappiamo
soltanto che questa norma non venne inserita nel documento che firmarono gli
Ebrei di ritorno dall'esilio, ove venne ribadito solamente: [.] il settimo
anno, di lasciar riposare incolta la terra e condonare
ogni debito.
Rispetto agli obblighi imposti dal giubileo, le
restrizioni all'accumulazione di ricchezza vengono sostanzialmente annullate.
Alla luce delle considerazioni finora svolte, vi è da supporre che ciò
sia interpretabile come il tentativo di difesa di un popolo a
bassa "temperatura" sociale. E' probabile infatti che gli Ebrei si fossero
resi conto delle conseguenze del problema della piramide, ovvero che la loro
società, costituita da una bassa segregazione interna in quanto livellata
dalla legge giubilare, doveva continuamente soccombere di fronte a società
più diseguali. Il mantenimento della perequazione sociale sarebbe stato
possibile solo se avessero potuto rimanere un popolo isolato dagli altri;
visto che tutti dovevano rispettare la legge levitica, si evitava la
possibilità che qualcuno diventasse così potente da sopraffare il resto della
popolazione. Ma questo indeboliva il popolo nei confronti dell'esterno: in un
precedente studio abbiamo infatti visto che l'applicazione della legge
levitica corrispondeva ad un abbattimento della produzione e di conseguenza
una riduzione delle risorse, sia tecnologiche che di riserva per la
società. Finché la società vive in un ambiente chiuso, senza relazioni con
altri, la perequazione evita la richiesta di ricchezza e quindi riduce la
necessità di sviluppo tecnologico. Ma anche l'accumulazione di difese viene
meno con la conseguenza che, una volta che essa entra in contatto con
strutture sociali più forti e progredite in quanto non soggette agli stessi
dettami sociali, il sopravvento di quest'ultime su di essa risulta
scontato. L'abbandono della legge levitica, che diventò essenziale per
la sopravvivenza del popolo che si riteneva prediletto da Yahweh, non
fu comunque una scelta semplice ed immediata. Storicamente la legge
giubilare si colloca nel momento in cui vennero gettate le basi dello Stato
di Israele quando, a seguito dell'uscita dall'Egitto, le 12 tribù si unirono
nella "terra promessa" (XIII secolo circa a.C.). Da quel momento Israele
vivrà diverse lotte con i popoli vicini (i Filistei) e interne fino alla
scissione del regno in due (Israele e Giuda). Ciò ovviamente "indebolì" la
struttura sociale che difatti subì due invasioni e deportazioni, prima da
parte degli Assiri (721 a.C.) e poi dei Babilonesi (597 a.C.). Dal ritorno
nella terra promessa (538 a.C.), gli Ebrei non applicarono più l'anno
giubilare, ancor prima che Antioco IV vietasse l'osservanza della legge
mosaica (167 a.C.). Questo non fu casuale ma, secondo il ragionamento
esposto, frutto di una scelta adottata per sopravvivere all'interno di un
ambiente dove altre società avevano optato per una maggiore 'temperatura'
interna. Gli Ebrei avevano capito che il giubileo negava loro la possibilità
di una crescita economica che avrebbe assicurato un maggiore potere da parte
dei loro regnanti, con conseguente incremento delle risorse, materiali e
umane a disposizione per l'apparato difensivo. Ma non fu questo a salvarli
dalle successive occupazioni da parte di Alessandro Magno (336 a.C.) e dei
Romani (63 a.C.), [3] all'interno dei cui imperi però riuscirono ad adattarsi
rinunciando alla parte più forte del dettato divino, quella che disciplinava
l'accumulazione di ricchezza. Assumendo proprio loro al contrario il ruolo di
gestori di scambi commerciali e soprattutto dei crediti monetari e adottando
atteggiamenti di attaccamento al potere economico simili ai benestanti delle
società ricche. Una scelta che valse loro i successivi anatemi di
Gesù: Guai a voi, guide cieche, che dite: Se uno giura per il Tempio, non
è niente; ma se uno giura per l'oro del tempio, resta obbligato. Insensati
e ciechi! Che cosa è più importante, l'oro o il Tempio che santifica l'oro?
E voi dite ancora: Se uno giura per l'altare, non è niente; ma se giura
per l'offerta che c'è sopra, resta obbligato. Ciechi! Che cosa è più
importante, l'offerta o l'altare che santifica l'offerta? [.] Guai a voi,
Scribi e Farisei ipocriti! Che pagate la decima della menta, dell'aneto e del
cimino, e trascurate le cose più essenziali della Legge: la giustizia,
la misericordia e la fedeltà. Oh, come difficilmente coloro che posseggono
ricchezze entrano nel regno di Dio! La diatriba si acuì successivamente
tra gli Ebrei e i primi cristiani, mentre questi tentavano di instaurare
comunità 'fredde' con una pressoché nulla accumulazione della ricchezza
interna: La moltitudine dei credenti aveva un cuor solo e un'anima sola: né
vi era chi dicesse suo quello che possedeva, ma tutto era tra loro comune.
[.] E non vi era alcun bisognoso fra loro. Perché quanti possedevano terreni
o case, li vendevano, poi, preso il prezzo delle cose vendute, lo
deponevano ai piedi degli Apostoli, e si distribuivano a ciascuno secondo il
bisogno. Comunità che però, come abbiamo già visto, sarebbero state
anch'esse successivamente assorbite all'interno dell'Impero romano, la
società calda dell'epoca. Vale comunque la pena citare alcune norme che
interessavano la vita sociale, senza pretendere di esaurirle in un breve
riassunto: non molestare e opprimere lo straniero (Es 22, 20), il prossimo
(Lv 19, 13) e l'immigrante (Lv 19, 33) non favorire nei processi i più
deboli (Es 23, 3) né far onore ai più potenti (Lv 19,15) pagare l'operaio
entro un giorno (Lv 19, 13) prestare soldi agli indigenti senza richiedere
interesse (Lv 25, 35-43) l'uomo sposato non deve andare nell'esercito o fare
alcun servizio per un anno in modo da rimanere a casa ed allietare la sua
moglie (Dt 24,5) il povero non deve essere oppresso e i frutti dei campi non
devono venir raccolti per intero in modo che ne rimanga per i forestieri, gli
orfani e le vedove (Dt 24,19ss) i padri non possono essere messi a morte
per colpa dei figli e viceversa (Dt 24,16ss) il divorzio è permesso
secondo certe regole (Dt 24,1-4). Noi non possiamo che magnificare questo
impianto legislativo per quanto esso riesce ad insegnare ancora alla nostra
società nonostante siano passati millenni dalla sua prima redazione. Con
questo non si illuda il lettore di poter trovare nei testi ritenuti sacri
solo fondamenti che potrebbero essere applicati al giorno d'oggi. In molti di
essi ritroviamo invece l'eco di una cultura a cui le nostre difficilmente
potrebbero piegarsi, o punizioni sproporzionate alle azioni da biasimare,
come si legge dai seguenti obblighi: non mangiare sangue di animali e
volatili e il grasso di alcuni (Lv 7, 22-26); non mangiare, tra gli altri,
carne di lepre e di maiale (Lv 11) non tagliare in tondo l'orlo della
capigliatura e non rasare l'orlo della barba (Lv 19, 27) bruciare le
figlie dei sacerdoti che si prostituiscono (Lv 21, 9) le donne non possono
portare indumenti da uomo e gli uomini quelli da donna (Dt 22,5). Inoltre
più di un paragrafo viene dedicato alla legge del taglione (Lv
24, 28-22). Mentre in altre norme si leggono consuetudini vissute anche in
epoche successive non tanto distanti dalla nostra: isolare i lebbrosi che
devono distinguersi gridando "impuro, impuro" (Lv 13, 45-46) non
rivolgersi agli spettri e agli indovini (Lv 19, 21) e lapidare negromanti e
indovini (Lv 20, 27) e uccidere le maghe (Es 22, 4). Per assicurarsi che le
regole della convivenza fossero rispettate da tutti senza trasgressioni, il
legislatore stabiliva una serie di maledizioni, come riporta un passo per
quei comportamenti che sembrano ritenuti i più abominevoli (Dt 27). In un
crescendo profetico, viene anche prefigurato il destino di chi trasgredisce
il Signore, rappresentato con le più indicibili immagini tra quelle
incontrate in letteratura e che descrivono bene il deperimento di una società
che non rispetta le regole (Dt 28,53). Molte infatti erano le benedizioni per
gli israeliti che avessero obbedito alle leggi divine, ma anche le
maledizioni in caso contrario (Lv 26). Per il rispetto di queste norme si
espone lo stesso Mosè prima di morire, quando prescrive con vigore di
prestare attenzione a tutto quello che aveva insegnato perché tutti potessero
prolungare i loro giorni nella tanto agognata terra promessa (Dt
32,45-47). LA CONQUISTA DELLA TERRA PROMESSA Il passaggio nel deserto
effettivamente non fu facile, perché le rivolte interne non furono isolate ma
ripetute (Es 32, Numeri 11, 14, 16, 17, 25) e sedate spesso col sangue.
Questo modo di condurre la popolazione era richiesto dalla necessità di
mantenerla unita per fronteggiare i nemici che si sarebbero parati davanti
(Numeri 32) in una teorica terra promessa i cui confini vengono fatti
coincidere a grandi linee con quella già mostrata ad Abramo (Es 23,
31). Ma una volta arrivati lì, come avrebbero dovuto essere trattati i popoli
che in essa già vi risiedevano? Cacciati, dopo aver distrutto prima i
loro altari e idoli (Es 34,13), perché era vietato fare alleanza con loro
o imparentarsi in qualche modo.
Le lotte contro le popolazioni che
vengono incontrate furono di una crudeltà abominevole: furono
sistematicamente depredate e distrutte le loro città, preferibilmente
sterminando i maschi e rapendo donne e bambini che venivano schiavizzati
(Numeri 21,31), anche se per le città di Canaan il verdetto è ancora più
tremendo in quanto dovevano essere sterminati tutti (Dt 20, 16ss). Per
inciso, in questa terra si ritrovano gli ebrei che erano rimasti in Canaan e
non erano andati in Egitto qualche secolo prima (Dt 2), cioè i discendenti di
Esaù da cui gli ebrei, per ordine divino, non dovevano pretendere
alcunché. Una volta conquistato il territorio e uccisi in parte i
precedenti possessori, fu ripartito tirando a sorte e destinando le aree
maggiori a chi era già "grande" (Numeri 33,54), stabilendo che l'eredità
doveva rimanere all'interno di ogni tribù (Numeri 36) e individuando una
tribù che era sottoposta a regole particolari in quanto era gente che doveva
dedicarsi al culto e che non poteva permettersi possedimenti. Questi erano i
Leviti che vivevano di quanto proveniva dai fratelli delle altre tribù,
prelevando altrettanto proporzionalmente, cioè molto dal grande e poco dal
piccolo (Numeri 35,8). E' in questo momento che viene precisato il motivo
per cui solo agli ebrei era toccata questa sorte, perché cioè Dio avesse
scelto Israele e non altri popoli per portarli nella terra promessa: Il
Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di
tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli - ma
perché il Signore vi ama e perché ha voluto mantenere il giuramento fatto ai
vostri padri, il Signore vi ha fatti uscire con mano potente e vi
ha riscattati liberandovi dalla condizione servile, dalla mano del faraone,
re di Egitto. (Deuteronomio 7:7-8) In un altro passo si attesta che non è
che Israele meriti la benevolenza del Signore, è solo che le altre nazioni
sono perverse e il Signore deve mantenere la parola data (Dt 9,4-6). Per
questo Israele doveva sterminare senza misericordia gli altri popoli (Dt 7,
16ss). Vi è anche un modo per discernere i falsi profeti, vedendo
semplicemente se riescono a prevedere il futuro (Dt 18, 21ss), che vedremo
avere una importante relazione con la teoria della conoscenza. Con il
libro di Giosuè il nuovo popolo ebreo oltrepassa il fiume Giordano e comincia
la conquista della terra per la quale era partito dall'Egitto. Ma la terra di
cui riescono a impadronirsi non coincideva con quella sognata e già delineata
ad Abramo e sorsero da subito difficoltà nell'eseguire gli ordini divini, che
erano di sterminare tutte le popolazioni senza riserva alcuna. Per
raggiungere lo scopo prefisso vengono ingaggiate lotte contro le popolazioni
locali utilizzando una crudeltà abominevole; Gerico venne rasa al suolo,
uccidendo tutti i suoi abitanti e armenti, e depredando le ricchezze in oro e
argento. Della città di Ai vennero uccise dodicimila persone, ma risparmiato
il bestiame e gli oggetti di valore, e la città incendiata. I Gaboniti,
abitanti della zona, si arresero e diventarono invece schiavi degli
israeliti. Altri massacri furono compiuti a Makkeda, Lachis, Eglon, Ebron,
Debir, Azor. Così gli ebrei avevano messo in atto il piano che gli aveva
ordinato il Signore (Gs 10,40). Questo modo di agire si spiega con la teoria
dei triangoli. Essa rende infatti conto dei seguenti fatti: I maschi
vengono tutti uccisi per poter annullare le forze maggiormente resistenti e
concorrenti nella ricerca del benessere La città viene depredata di tutti i
beni materiali (corrispondenti all' ''energia" nel triangolo
sociale) Vengono risparmiati i bambini, che non essendo ebrei potevano essere
ridotti in schiavi, e le donne, oggetto di servizio lavorativo e procreativo
oltre che di piacere. Come si vede la gente si stava muovendo per trovare
una terra che offrisse le risorse che erano andate concentrandosi nelle mani
di pochi nell'impero egiziano d'origine. La prospettiva di impadronirsi delle
fertili terre palestinesi fu ingigantita dalle tribolazioni sopportate
nell'attraversare il torrido deserto del Sinai. Quando arrivarono a
destinazione, i luoghi erano occupati da altre genti che ovviamente non
volevano certo lasciare le terre di cui erano proprietari da centinaia di
anni e che costituivano indubbie risorse di vita per popolazioni che, dopo la
nascita di città, da tempo si dedicavano più ad attività sedentarie e di
commercio piuttosto che al nomadismo. La città, come dimostra il caso
dell'Egitto narrato dalla Bibbia, sono sintomo però di una non equa
distribuzione della ricchezza che crea latifondismo e concentrazione di
popolazioni in borghi alle dipendenze di pochi facoltosi signori. Come
sembrano suggerire studi recenti, l'arrivo degli ebrei turbò il delicato
equilibrio che sottoponeva i ceti emarginati alle élite dominanti e mise in
subbuglio anche strati emarginati della popolazione locale che si allearono
agli invasori destabilizzando l'intera zona. [1] Gli ebrei entrarono perciò
in possesso della terra promessa ma, contrariamente a come gli era stato
imposto dai dettami di Mosè, non riuscirono a decimare le popolazioni locali.
Cosa che era assolutamente importante, in quanto distruggere le popolazioni
era una prassi supportata da norme ben specifiche miranti a isolare il popolo
israelita dagli altri. Esempio di questa legislazione isolazionista sono le
seguenti regole: Le popolazioni locali dovevano venir cacciate, dopo aver
distrutti prima di tutto i loro altari e idoli (Es 34,13) Con le altre era
vietato fare alleanza, né imparentarsi in alcun modo Dal punto di vista
economico allo straniero poteva essere chiesto l'interesse nei prestiti, ma
non a un fratello israelita (Dt 23,21) Dalle nazioni straniere gli ebrei non
potevano chiedere prestiti; piuttosto erano gli ebrei che dovevano risultare
sempre in credito per aver ragione di dominarle (Dt 15,6) e, ovviamente, non
avere mai come capo un re straniero (Dt 17,15). La risposta al motivo per
cui il grande sacerdote - condottiero avesse imposto chiare regole di minime
relazioni con le altre nazioni si ottiene ragionando ancora con la teoria dei
triangoli. Prendendo come termini di paragone la nazione ebrea ed una
qualsiasi contermine, è chiaro che il legislatore cercava di ridurre al
minimo i contatti tra le due in modo che la situazione non degenerasse in
quella rappresentata di Rappresentazione geometrica della gerarchia sociale,
dove gli ebrei finivano coll'assumere la parte della società sottomessa.
Questa era una condizione da cui gli ebrei erano fuggiti avendola subita
quando erano in Egitto e non potevano sopportare di ricaderci nuovamente. Un
modo per impedirlo era appunto quello di mantenere la costituenda società -
una specie di esperimento sociale creato a tavolino - isolata dalle
altre. Una volta entrati nella terra promessa v'era da decidere
quale organizzazione politica avrebbe retto una tale massa di gente.
Quale struttura sociale avrebbe fatto fronte alle diatribe interne e
alle pressioni esterne dei popoli che potevano bramare quel territorio come
gli ebrei stessi. Prima di vedere cosa accadde, leggiamo il passo che
descrive cosa "non" avrebbe dovuto accadere secondo la volontà di
Yahweh: Quando sarai entrato nel paese che il Signore tuo Dio sta per darti e
ne avrai preso possesso e l'abiterai, se dirai: Voglio costituire sopra di
me un re come tutte le nazioni che mi stanno intorno, dovrai costituire
sopra di te come re colui che il Signore tuo Dio avrà scelto. Costituirai
sopra di te come re uno dei tuoi fratelli; non potrai costituire su di te
uno straniero che non sia tuo fratello. Ma egli non dovrà procurarsi un
gran numero di cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi
gran numero di cavalli, perché il Signore vi ha detto: Non tornerete più
indietro per quella via! Non dovrà avere un gran numero di mogli, perché il
suo cuore non si smarrisca; neppure abbia grande quantità di argento e d'oro.
Quando si insedierà sul trono regale, scriverà per suo uso in un libro una
copia di questa legge secondo l'esemplare dei sacerdoti leviti. La terrà
presso di sé e la leggerà tutti i giorni della sua vita, per imparare a
temere il Signore suo Dio, a osservare tutte le parole di questa legge e
tutti questi statuti, perché il suo cuore non si insuperbisca verso i suoi
fratelli ed egli non si allontani da questi comandi, né a destra, né a
sinistra, e prolunghi così i giorni del suo regno, lui e i suoi figli, in
mezzo a Israele. (Deuteronomio 17:14-20) Il tono di queste raccomandazioni
risuona come un monito a sfuggire la situazione già vissuta in Egitto, senza
biasimarla ma evitando di emularla. Non viene infatti tanto deprecato
l'esempio egiziano di un re che regna su tutti in mezzo al fasto, quanto la
necessità che gli ebrei non si organizzassero alla stessa maniera. Tra le
righe è chiaro il fatto che un paese potente come l'Egitto non
poteva permettere la crescita di un regno altrettanto forte ai suoi
confini, proprio quando era stato il faraone a far spostare una tale massa di
gente perché generava tensioni al suo interno. Ma questa popolazione non
avrebbe dovuto costituire un pericolo per il regno d'origine caso mai, come
vedremo più avanti, un cuscinetto contro le scorrerie di eventuali invasori
da Oriente, insomma una specie di territorio occupato da una fedele massa
inerme. Da notare come nel racconto sia inserito il monito "Non tornerete
più indietro per quella via" riferito al popolo tutto, che non è un divieto
ad avere rapporti commerciali, come effettivamente sarà, quanto la
proibizione ad una "retro invasione" per procurarsi mezzi militari, come si
legge dalle parole: "Ma egli [il re] non dovrà procurarsi un gran numero di
cavalli né far tornare il popolo in Egitto per procurarsi gran numero di
cavalli". Un modo per evitare un armamento in grande stile della nuova
nazione a spese del regno egiziano, sua patria d'origine. Questo non
significa che l'istituzione di un re non fosse permessa, come si legge, ma
tanto vincolanti erano le condizioni cui doveva sottostare da risultare poco
più di un rappresentante del popolo con una forza quasi simbolica. La
sicurezza della nuova nazione avrebbe dovuto per forza
basarsi sull'isolamento dalle altre e su una fiera identità da salvaguardare
in base ad un primato di elezione da parte del nuovo dio Yahweh. Ma le cose
non andarono così: la spinta alla concentrazione della ricchezza si
sarebbe fatta sentire anche da queste parti, facendo balenare tempi di non
facile gestione. Al termine della guerra di conquista la terra promessa
venne ripartita a sorte tra le varie tribù: a 9 tribù e mezza (quella di
Manasse) fu data la zona a ovest del Giordano (Canaan), a due e mezza fu data
quella a est del Giordano, mentre ai Leviti furono assegnate solo delle città
come aveva stabilito Mosè (Gs 14). Questa suddivisione non fu accettata
comunque senza discordie (Gs 17,14ss e 22,9ss). I crucci degli ebrei
continuavano a essere i Cananei, discendenti da Canaan, figlio di Cam che
abbiamo trovato nella Genesi quando venne maledetto da Noè per aver visto la
sua nudità. La famosa Gerusalemme era infatti ancora in mano loro: sicché gli
israeliti la assalirono e, come al solito prima di incendiarla, passarono a
fil di spada i suoi abitanti. L'artefice delle conquiste fu Giuda, succeduto
a Giosuè, che però, nonostante le grandi battaglie condotte, non riuscì ad
occupare tutti i territori e si rassegnò a sottomettere alcuni a pagare
pedaggi di vassallaggio. Fu in questa conquista solo parziale che il
narratore intravide la causa delle disgrazie per la nuova nazione. Il
mantenimento di popolazioni diverse all'interno del territorio contribuiva,
dal punto di vista religioso, a far serpeggiare la tendenza all'adorazione di
idoli diversi da Yahweh; dal punto di vista politico ed economico faceva
stringere alleanze proibite con i popoli di quelle terre. Il narratore
biblico giustifica questa perniciosa tendenza perché dopo la morte della
generazione che era sopravvissuta all'esodo e aveva condotto la prima
conquista della Palestina, i nuovi nati non si ricordavano già più quello che
il Signore aveva fatto per Israele (Gdc 2,10): così gli
israeliti cominciarono ad adorare il dio locale Baal e sua moglie Astarte.
Adorazione che, secondo il narratore, scatenò l'ira del Signore che mise
contro gli ebrei i popoli vicini, dai Cananei ai Filistei. Da questo
momento cominciarono una serie di racconti di battaglie e atti di tradimento
(Gdc 3,12ss, 4,17ss) contro i quali sorsero sempre nuove persone, dette
"giudici", che raccoglievano il popolo contro le genti che l' opprimevano.
Non erano però veri e propri re, perché le tribù non sopportano che vi fosse
una persona al disopra di tutte loro, tanto che anche quando con Gedeone
questo atteggiamento sembrava cambiare fu lui stesso a rifiutare la
nomina. Ma suo figlio Abimelech non era della stessa stoffa e infatti sembrò
deciso a istituire il suo potere su Israele, tanto che uccise 70 fratelli
per accentrare in se stesso l'autorità. Riuscì a compiere il suo piano solo
su tre di essi, ma poi gli si rivoltarono contro i signori di Sichem,
prima suoi alleati, che lui non esitò a far morire bruciando un tempio in cui
si erano rifugiati. [1] Il seguito di questi episodi di sofferenza termina
con il famoso Sansone, che noi conosciamo come il primo kamikaze della
storia, quando morì uccidendo i filistei radunati nel palazzo che fece
crollare (Gdc 16,29). Che l'ago dell'equilibrio tra i poteri delle tribù
stesse pendendo verso l'accentramento del governo nelle mani di un'unica
persona ce lo testimonia la fine del libro dei Giudici, che sembra essere
stata aggiunta da un ignoto autore filomonarchico per dimostrare quanto
disordine vi fosse tra il popolo quando non vi regnava ancora un re.
[2] Vengono narrati due episodi che traggono entrambi spunto dalle mosse di
un levita. Nel primo, il levita viene da Betlemme, si chiama Gionatan ed
è nipote di Mosè: diventa sacerdote di Micea, dopo avergli fatto un dio,
come recita il testo (Gdc 18,24). Ma entrano in scena quelli della tribù di
Dan, che lo rapiscono e fanno proprio quel dio, mentre successivamente
assaltano un popolo "pacifico e che si sentiva al sicuro" (Gdc 18,27) e lo
sterminano. Il secondo episodio è ancora più brutale. Un levita di Efraim è
in viaggio per ricondurre a casa la concubina che lo aveva abbandonato.
Fermatosi in un posto, incappa in alcuni uomini che vogliono abusare di lui e
per salvarsi offre in cambio di se stesso la moglie, che così viene
violentata a morte; per vendicarsi, squarta la moglie in dodici pezzi e li
invia alle tribù di Israele, che accorrono per fare giustizia. Il
risultato fu un massacro di uomini e bestie della tribù di Beniamino,
cui apparteneva la città in cui era avvenuto lo stupro: della stessa
città furono risparmiate solo 400 vergini perché i maschi di Beniamino
potessero perpetuare la specie. Ma gli uomini erano troppi per quelle poche
ragazze. Allora fu suggerito loro di andare a rapire le donne di Silo.
[3] [1] Solo una donna riuscì a fermarlo, fracassandogli la testa con una
macina da mulino. A testimonianza del forte maschilismo imperante, mentre
moriva l'aspirante re chiese ai suoi fedeli di ucciderlo di spada, perché
si vergognava di essere stato ucciso da una donna. [2] Cfr. [Bibbia1] pag.
327. [3] Le donne continuavano ad essere considerate come meri oggetti per
la riproduzione del maschio. In questo periodo la nazione ebrea soffrì
delle rivalità tra le tribù e le difficoltà nel contrastare tutti uniti le
insidie che venivano dalle popolazioni esterne. Questa poca unità era vista
dal narratore in maniera negativa: l'isolamento degli ebrei, necessario
secondo gli schemi predisposti durante l'esilio, veniva inficiato dalle
continue relazioni con le popolazioni locali, di cui figurava come orrendo
emblema l'adorazione degli dei stranieri. Il narratore imputa a questi
costumi la vendetta di Yahweh che abbandonò il popolo in mano agli attentati
dei nemici, in quanto lui stesso non era più al centro delle adorazioni
dovute. Ma il rifiuto dei costumi delle popolazioni straniere costituiva un
tutt'uno col la rescissione dei rapporti con esse per assicurarsi condizioni
di difesa permanente. Le tribù non riescono però nell'intento di estirpare le
popolazioni locali, anche perché alcune di esse erano state loro alleate
nella presa di quella regione. Il popolo ebreo accettava perciò una
commistione di commerci e usanze che avrebbero alla lunga inficiato la tenuta
dell'imponente sistema legislativo impostato da Mosè. La società isolata di
Mosè non era neanche mai nata, perché aveva provato ad insediarsi in una
regione ambita da tutti per la posizione e la somiglianza al "giardino"
primitivo che assicurava benessere senza eccessiva fatica. Vi era una
soluzione a tutto questo? No. I disagi causati dalle pressioni esterne dei
filistei ed altri, di cui probabilmente facevano parte i discendenti dei
pochi scacciati dalle proprie terre e che ora alimentavano desideri di
vendetta, si associavano alla tendenza di ogni società a sviluppare
meccanismi di accumulazione della ricchezza. Questi due fattori spinsero la
neonata società ebrea, composta da 12 tribù - che, nelle nostre
schematizzazioni, altro non sono che piccole piramidi autosufficienti - a
percorrere l'irresistibile strada della concentrazione della ricchezza e
quindi del potere. Di là a qualche anno l'amministrazione di tutte le
ricchezze finirono nelle mani di un solo uomo: il re. Dai racconti biblici
sembra che sia il popolo a chiedere che venga istituito, attraverso
l'individuazione di una persona con l'unzione da parte di un sacerdote. Il re
era il "messia", l'unto designato da Yahweh attraverso il sacerdote. Eppure
Samuele, prima di compiere l'atto, avverte i suoi concittadini con parole
tremendamente profetiche, palesando che un re li avrebbe sfruttati come era
accaduto in Egitto: Queste saranno le pretese del re che regnerà su di voi:
prenderà i vostri figli per destinarli ai suoi carri e ai suoi cavalli, li
farà correre davanti al suo cocchio, li farà capi di migliaia e capi di
cinquantine; li costringerà ad arare i suoi campi, a mietere le sue messi, ad
apprestargli armi per le sue battaglie e attrezzature per i suoi carri.
Prenderà anche le vostre figlie per farle sue profumiere e cuoche e fornaie.
Si farà consegnare ancora i vostri campi, le vostre vigne, i vostri oliveti
più belli e li regalerà ai suoi ministri. Sulle vostre sementi e sulle
vostre vigne prenderà le decime e le darà ai suoi consiglieri e ai suoi
ministri. Vi sequestrerà gli schiavi e le schiave, i vostri armenti migliori
e i vostri asini e li adopererà nei suoi lavori. Metterà la decima sui
vostri greggi e voi stessi diventerete suoi schiavi. Allora griderete a causa
del re che avrete voluto eleggere, ma il Signore non vi ascolterà. (1
Samuele 8,11-18) Ma Il popolo non diede retta a Samuele e rifiutò di
ascoltare la sua voce, ma gridò: «No, ci sia un re su di noi. Saremo anche
noi come tutti i popoli; il nostro re ci farà da giudice, uscirà alla nostra
testa e combatterà le nostre battaglie». (1 Samuele 8,19-20) Samuele
allora scelse Saul, che era della tribù di Beniamino, nonostante
non incontrasse il favore di tutti. Questo primo re riuscì a imporsi
in battaglia, ma travalicò i suoi compiti offrendo addirittura olocausti,
atto che era di competenza dei sacerdoti, e attirandosi perciò l'ira di
Samuele. Che però non gli indirizzò l'anatema neanche quando, disubbidendo ad
un ordine divino di massacrare tutto il popolo di Amalek, Saul risparmiò
del bestiame e altri beni come bottino. DAVIDE E SALOMONE E' in questa
atmosfera che si inserisce la figura di Davide. Una persona che la tradizione
dipinge come l'emblema del re per antonomasia, ma di cui in realtà vengono
narrati fatti di un cinismo e un'inumanità disdicevoli. In pratica, per poter
riuscire nei suoi scopi non esitò ad adottare qualsiasi atto, dal più
menzognero a quello di più alta vigliaccheria. Si rilegga ad esempio
l'episodio in cui sconfigge il gigante Golia. Nella tradizione viene
rappresentata la sconfitta del cattivo (Golia) per mano del buono (Davide)
supportato da Dio. Il racconto biblico invece spiega che Davide, che doveva
sfidare Golia in duello, si presentò vestito come un pastore, e quindi
ingannando il gigante che si aspettava un guerriero vestito di tutto punto,
cogliendolo di sorpresa con un'arma non convenzionale quale era la fionda,
utilizzata per cacciare bestie e non per duellare. Davide conquistò il
potere dopo varie peripezie, doppi giochi e inganni degni del più cinico dei
capi, addirittura alle spese di Saul che inizialmente lo aveva protetto. In
principio viene nominato solo re di Giuda e vi regna per sette anni e mezzo,
mentre Is-Baal, un altro figlio di Saul, regna su Israele per due anni. La
Palestina ebrea si vide perciò divisa nelle mani di due re, aprendo presto le
porte ad una guerra civile, che terminò con la disfatta del figlio di Saul e
l'ascesa di Davide a unico re di Giuda e Israele, senza per altro spegnere le
rivalità tra i due regni. Nell'ascesa al potere Davide fece trasportare
l'arca dell'alleanza a Gerusalemme, città nel territorio della tribù di
Beniamino, centralizzando quindi il culto in modo da controllare meglio i
sacerdoti. Questi infatti nelle guerre tra contendenti non si dimostravano al
di sopra delle parti e quelli che avevano dimostrato preferenze per il
candidato perdente venivano subito destituiti. Dopo Davide prese il potere
suo figlio Salomone, che fu perciò il primo re per successione dinastica, che
la Bibbia ricorda per la sua saggezza e per aver condotto il regno ad un
certo periodo di splendore e pace. Ma, contrariamente al dettato divino (Dt
17,17) si permise più di 700 moglie e 300 concubine (1 Re 11,3), e tra le
mogli anche donne straniere, contravvenendo alle proibizioni d'imparentarsi
con altre popolazioni. Sotto di lui venne costruito il muro di Gerusalemme e
il primo tempio, per il quale fece faticare trentamila lavoratori forzati (1
Re 5,27) reclutati tra le popolazioni non ebree a lui sottomesse. Riuscì a
terminarlo in sette anni, mentre il suo palazzo personale gli costò tredici
anni di lavori. Il giorno in cui fu dedicato il tempio furono immolate
120.000 pecore e 20.000 buoi (1 Re 8,63)! La descrizione delle fastosità
del tempio e del palazzo non deve trarre in inganno sopravvalutando la
ricchezza del regno: le spese per costruire tanto sfarzo comportarono un
grande dissesto finanziario che costrinse Salomone a vendere delle intere
città (1 Re 9,10ss). Il narratore non ci risparmia che, dal punto di vista
religioso, Salomone non fu migliore del resto della popolazione: oltre ad
aver sposato mogli di altri popoli, ne seguì anche le divinità (1 Re 11,4)
erigendo anche a queste dei santuari. Perciò venne richiamata l'ira di Dio
che promise sventure non durante il suo ma il regno dei suoi figli. A
proposito delle sue donne: divenne anche genero del faraone d'Egitto. Ancora
gli egiziani: ciò conferma che le relazioni tra ebrei e egiziani non fossero
così negative come ci voleva dimostrare il racconto dell'Esodo, come per
altro dimostrano altri episodi tra le due società. Certo viene da chiedersi
come abbia fatto Salomone a diventare così ricco visto che il re non doveva
moltiplicare i propri averi per accrescere la propria ricchezza (Dt 15, 16).
Ci chiediamo infatti come poteva un figlio ereditare le ricchezze di un padre
se doveva anch'egli sottostare ai dettati degli anni giubilari che
prevedevano il ritorno delle ricchezze ai proprietari precedenti? Possiamo
rispondere supponendo che con la successione dinastica venne meno la norma
principe dell'anno giubilare. V'è cioè da ritenere che, una volta usurpate le
terre attraverso l'uccisione dei proprietari, non aveva più ragione alcuna il
timore della loro cessione per cui esse rimanevano di proprietà dell'ultimo
detentore. Perciò, dopo aver scorso velocemente le biografie di questi due
re, padre e figlio, possiamo trarre la seguente naturale considerazione:
entrambi aumentarono il proprio potere e le proprie ricchezze, ma
contemporaneamente per poterlo fare dovettero contravvenire alle leggi
bibliche. Lo fecero scavalcando tutti i vincoli che le norme ponevano
all'agire umano, nella ricerca sfrenata del potere e del benessere. Lo fece
già Davide, come abbiamo visto, nonostante i rimproveri che gli mandarono i
sacerdoti. Lo fece maggiormente suo figlio Salomone, che invece di
raccogliere sdegno perpetuo, ebbe perenne memoria nelle popolazioni
successive. L'operato di Davide e Salomone è ben in linea con quello di
accentratori di potere e ricchezza, ruolo ottenuto non attraverso lo sfoggio
di capacità al di sopra della media, bensì violando le regole dettate per la
convivenza sociale. Accumulazione di potere e ricchezza e violazione delle
regole vanno di pari passo come avevamo già stabilito in un precedente studio
per i nostri tempi attuali. IL POTERE DEI SACERDOTI Il ruolo strategico
dei sacerdoti è sempre più evidente negli scritti biblici. Tutto viene
infatti giustificato in base a quanto il comportamento del popolo è conforme
ai dettati divini, ovvero alle disposizioni cui sovrintendono i sacerdoti. Le
disgrazie vengono giustificate con l'idolatria che porta il popolo ad
allontanarsi dal dio nazionale, Yahweh; dove si erigono altari e santuari
arriva l'ira del sacerdote che corre a distruggerli. Non si può non
leggere in queste prime guerre di religione la paura di perdere il predominio
da parte di una costituenda casta sacerdotale centralizzata. Potere
assicurato soprattutto dalle entrate che pervenivano al Tempio attraverso un
sistema di norme che faceva corrispondere ad ogni "peccato" dei cittadini una
corrispondete offerta materiale. Norme che inoltre avevano comportato anche
una legislazione specifica per gli addetti al culto, mutuata dalle tradizioni
egiziane e che di fatto assicurava loro un benessere particolare. Per
renderci conto di tutto questo dobbiamo fare qualche passo indietro nelle
narrazioni che abbiamo a disposizione. Nel libro dei Numeri troviamo vari
esempi di censimenti della popolazione. Essi non hanno solo un valore
storico, ma per ogni epoca hanno sempre significato il poter contare su
numeri certi per riscuotere le imposte. Proprio per questo motivo hanno
costituito motivo di malumore che anche la Bibbia ci riporta (2 Sam
24). Ma, sempre per l'epoca, il censimento significava anche rimpinguare le
casse dei sacerdoti in quanto "per il riscatto della sua vita" al Signore,
ogni israelita con età maggiore di vent'anni, sia povero che ricco,
doveva versare mezzo siclo (Es 30, 13) che andava impiegato per il servizio
della tenda, cioè per i sacerdoti. Questi erano scelti tra i figli di
Aronne, della casata levita come era Mosè, i cui membri non vennero censiti e
quindi non dovettero pagare l'obolo (Numeri 1, 49), ma verranno contati a
parte (Numeri 3, 14). Questa figura di officiante responsabile del culto
la troviamo citata relativamente tardi nella Bibbia. Prima infatti
l'invocazione del Signore sembrava regolata da alcunché e veniva fatta
risalire ai nipoti di Adamo (Gn 4,26). Il primo sacerdote citato è
Melchisedek (Genesi 14, 18) ma dobbiamo arrivare in Egitto per incontrarne
ancora (Genesi 41, 45) quando Giuseppe sposerà proprio una figlia di un
sacerdote egiziano, come farà lo stesso Mosè, quei sacerdoti che in Egitto
abbiamo visto godere di privilegi particolari. Per il popolo israelita
l'importanza di questa casta si capisce da questa frase fatta pronunciare al
Signore: "Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa". (Es
19, 6) Così quando Aronne e i suoi figli verranno nominati sacerdoti (Es 28,
1) non faranno che perpetuare una tradizione fatta risalire a tempi ben
più antichi, riservandosi privilegi che già erano propri dei predecessori,
o almeno portavano con sé la stessa dose di benessere: i sacerdoti
mangiavano le vittime offerte come sacrificio espiatorio dei peccati (Es 6,
19) ai sacerdoti spettavano per mogli solo vergini o la vedova di un
altro sacerdote (Lv 21, 13-14) gli israeliti dovevano portare alla casa
del Signore il meglio delle primizie del suolo (Es 34, 26) ai leviti
spettavano tutte le decime di Israele ma nessun possesso territoriale (Numeri
18, 20) anche se ai leviti vennero date 48 città e il territorio limitrofo
(Numeri 35). Perciò, rispetto alla casta sacerdotale egiziana, quelli ebrei
non possedevano terra: fatto che però gli permetteva di vivere con entrate
di tutto rilievo senza dover faticare (fortunati loro!) nel lavoro dei
campi per procurarsi di che vivere. LA FINE DELLA NAZIONE Ma cosa
capitò dopo la morte di Salomone? Il primo a succedergli, dopo quaranta anni
di regno, fu Roboamo che dovette subito affrontare quelli che si lamentavano
per le pene che suo padre aveva imposto al fine di erigere templi e palazzi,
[1] e che si erano alleati con un altro figlio di Salomone, Geroboamo, da
questo fatto fuggire in Egitto. Ma Roboamo, dando ascolto più ai consiglieri
giovani che a quelli anziani, provocò la divisione di Israele da Giuda;
frattura prima politica, in quanto Geroboamo fu eletto re d'Israele e Roboamo
restò a regnare su Giuda, e poi religiosa, in quanto Geroboamo eresse
santuari in vari posti e nominò sacerdoti non di provenienza levita,
forgiando come immagine da adorare due torelli che chiamò "il dio che fece
uscire Israele dall'Egitto" (1 Re 12,28). Regnò per 22 anni, mentre suo
fratello Roboamo regnò 17 anni in Giuda.
Seguirono altri re che
continuarono a macchiarsi dell'adorazione sempre più spinta agli dei di altre
popolazioni, in particolare a Baal dei Cananei. E' durante il regno di Acab
su Israele (874-853 a.C.) che incontriamo la figura del profeta Elia, cui
seguiranno tutta una serie di altri profeti che risuonano come voci
preannuncianti disgrazie e redarguiscono ora questo ora quel regnante per la
condotta non sempre ortodossa. Oggetto di continui anatemi sono tutti gli
atti che prefigurano un allontanamento dal culto, unico ammissibile, per
Yahweh e che portano questi profeti ad appoggiare pretendenti al trono che
siano ortodossi dal punto di vista religioso. Ad esempio il profeta Eliseo
farà consacrare re Ieu, un israelita che si dimostrò ben presto abile nel
massacrare senza ritegno re e loro famigliari nonché i sacerdoti che
seguivano Baal. Ma, nonostante il suo regno sia stato piuttosto lungo (28
anni) il narratore gli rinfaccia il fatto che non abbandonò i torelli che
erano stati fatti in Betel e Dan da Geroboamo e che rappresentavano un punto
di attrazione evidentemente in antitesi con il centro di Gerusalemme. Nel
tempio intanto ritroviamo sacerdoti adagiati sul benessere raggiunto, tanto
da accumulare continuamente tesori senza spenderne alcuno per fare
la manutenzione dell'edificio. Così il re Ioas, dovette subire l'affronto
di questi sacerdoti che disubbidirono agli ordini di restaurare il
tempio utilizzando l'oro ivi depositato, costringendo lui stesso a farne la
dovuta manutenzione utilizzando parte delle offerte che venivano dalla
popolazione. [2] [1] Da un passo (1 Re 12,18) si comprende che gli stessi
Israeliti erano stati soggetti da Salomone ai lavori forzati. [2] Un
esempio che sarebbe da non seguire ma che ci ricorda da vicino le ingenti
tassazioni che gravano sui cittadini italiani per mantenere tutti i beni
delle diocesi sparse sul territorio. ACCENTRAMENTO DELLA RICCHEZZA E
POTERE La concentrazione del potere e della ricchezza, che dalle 12 tribù
condusse alla nascita dei due regni del nord (Israele) e del sud (Giuda), li
portò ad essere uniti in questo periodo sotto la guida di un unico re. Le
guerre interne per il predominio al vertice della piramide sociale portarono
successivamente alla divisione di un regno ebraico che vide il proprio
territorio unito solo durante il periodo di Davide e Salomone. L'esistenza di
una nazione che appartenesse agli ebrei come promessa da Yahweh ai loro
antenati durò forse solo 80 anni, dal 1000 a 922 a.C.. Le disparità sociali
però continuarono ad aumentare negli anni successivi; come dimostrato in
Rappresentazione geometrica della gerarchia sociale la scissione di una
piramide in due con la stessa struttura non diminuisce infatti l'indice di
Gini che misura la disuguaglianza sociale. Nel libro del profeta Amos sono
chiari i riferimenti ad un'epoca di benessere con un vistoso accentramento
della ricchezza misurata dalla nascita di latifondisti terrieri che
schiacciano i piccoli agricoltori. Amos è un pastore, senza preparazione e
cultura, ma che si sente mandato da Dio per condannare i nuovi costumi e
l'ingiustizia, soprattutto gli abusi subiti dai poveri di Samaria. Il suo
rimprovero parte quindi dal benessere economico, che schiaccia i
meno fortunati; include anche la corruzione dell'amministrazione tesa
al permissivismo e al continuo uso della forza per sottomettere gli altri e
far valere il proprio potere. Ha parole dure anche contro i traffici
economici che non rispettano i poveri, i giorni di riposo, l'utilizzo di
strumenti di imbroglio quali la contraffazione dei sistemi di misura e peso e
la speculazione sui prezzi; a cui si aggiunge la sua battaglia contro le
città, dove i poveri non possono dimorare per l'alto costo degli edifici e
degli affitti. Michea, che vive e opera nel regno di Giuda, attacca
l'iniquità e l' accaparramento delle proprietà, le città in cui vivono i
ricchi che proferiscono menzogne, i funzionari e i giudici che operano o
giudicano in modo iniquo e i falsi profeti che si fanno comprare e
profetizzano secondo quanto vengono pagati, o che pensano che nulla possa
accadere al popolo ebreo in quanto prediletto di Yahweh. In lui vi è anche
un risvolto di speranza, in quanto annuncia la venuta del Signore per
restaurare un regno universale, quando da Betlemme di Efrata nascerà colui
che avrebbe dovuto regnare sopra Israele. La stessa Betlemme in cui fu
seppellita Rachele moglie di Giobbe, di dov'era anche Iesse, il padre di
Davide. Le idee del profeta Isaia sono simili a quelle dei suoi
predecessori: "imparate a fare il bene; cercate la giustizia, rialzate
l'oppresso, fate giustizia all'orfano, difendete la causa della vedova! (Is
1,17) sono parole che sintetizzano il suo interesse per la situazione
sociale. In lui vi è anche la condanna dell'idolatria, dell'accumulazione
della ricchezza, del culto vacuo, dei funzionari corrotti, ma anche la
speranza in un mondo migliore, in cui da Gerusalemme uscirà la legge e la
parola del Signore (Is 2,3). Anche Isaia, come Michea, profetizzò l'avvento
di un uomo mandato da Dio, che doveva chiamarsi Emmanuele (Is 7,10), nascendo
dalla casa di Iesse (Is 11,1) il padre di Davide. Abacuc (6° secolo a.C.)
è invece preoccupato dal problema del bene e del male che rappresenta con la
figura del giusto (che è oppresso) e dell' ingiusto (che è l'oppressore).
Dipinge la miseria del povero insistendo sulle malvagità che sono portate
avanti a causa della mania di ricchezza e potenza. La risposta a questo
problema viene da Dio, che gli dice: [.] soccombe chi non ha l'animo retto;
il giusto invece sopravvive per la sua fedeltà. (Ab 2,4) I profeti insomma
furono le persone che tentarono di riabilitare la teologia mosaica che, a
causa delle umiliazioni subite con le continue invasioni e saccheggi, sarebbe
stata dimenticata mentre il popolo cadeva in mano agli idoli stranieri. I
profeti lessero gli avvenimenti negativi che capitavano agli ebrei come il
conseguente castigo per i loro comportamenti che avevano rotto l'alleanza con
Yahweh, dio che comunque non avrebbe abbandonato il suo popolo. E' in
questo contesto che si inserisce l'annuncio più originale e foriero
di conseguenze epocali in tutto il mondo: il Signore invierà ebrei
superstiti presso le nazioni del mondo per condurle a venerare il suo nome
a Gerusalemme; anche tra questi popoli il Signore susciterà dei sacerdoti
e dei leviti, così che il suo nome sarà riconosciuto e venerato da tutti
i popoli (Is 66,18ss). E' il primo messaggio di globalizzazione. Se le
disuguaglianze sociali andavano accentuandosi in una piramide che però non
riusciva a scaricare all'esterno le crescenti tensioni interne, v'è
da chiedersi perché la nazione ebrea non si espanse come avrebbe richiesto
la teoria della piramide sotto l'impulso della concentrazione di
ricchezza. Ciò fu dovuto alla forza insita nella struttura legislativa
originaria che di fatto tendeva a schermare la nuova nazione. Norme che però,
per poter funzionare, presupponevano l'isolamento della nazione stessa da
qualsiasi tipo di influsso che avrebbe potuto condannarla ad una
sottomissione a forze esterne. Questa necessità richiedeva che fin
dall'inizio, durante la conquista del territorio, si mettessero in atto
misure di estirpazione di possibili contatti con altre popolazioni, che
voleva dire né più né meno che lo sterminio degli abitanti
originari.
D'altro canto, lasciare in vita dei popoli con tradizioni e
usanze diverse, necessitava di una tolleranza religiosa verso culti diversi,
il che avrebbe minato i privilegi di una casta sacerdotale sempre più
ambiziosa e in simbiosi con il potere dominante. Ma l'isolazionismo fu di
fatto una strada che per gli ebrei divenne fatale. La loro piramide non
riusciva a svilupparsi quanto quelle esterne che cominciavano a diventare
sempre più grandi e quindi minacciavano i suoi territori. La nazione ebrea
non riusciva neanche a prendere e mantenere una strada chiara rispetto al
dettato divino: non fu capace di sconfiggere e sterminare le popolazioni
locali e quindi sostenere un atteggiamento di completa autosufficienza e
autonomia rispetto all'esterno. Ma non ebbe neppure una capacità difensiva
tale da poter sopportare qualsiasi attacco esterno. Perciò quando si
trovarono di fronte a imperi più potenti, i due piccoli regni non poterono
che crollare. Eco dell'incapacità della nuova nazione di fronte a questa
difficoltà politica tanto interna che estera si riscontrerà ancora nei
profeti. Uno di loro, Osea, si muoverà nel regno del Nord nel momento in cui
l' avanzata degli Assiri faceva presumere che questi lo avrebbero
annientato. Osea denunciava la situazione sociale, che andava dalla
"prostituzione" ad altri dèi da parte di un clero corrotto, fino ai
dirigenti, tanto di Israele che di Giuda, che allacciavano alleanze
pericolose con popoli vicini e si comportavano come quelli che spostano i
confini dei campi (Os 5,10), moltiplicando i loro palazzi e le loro fortezze,
che però il Signore avrebbe distrutto. Il profeta Geremia assiste alla
caduta di Giuda e alla deportazione dei superstiti nel 587 a.C. a Babilonia.
Egli comincia a delineare la possibilità di trovare intese con il nuovo
impero che avanza, mentre invece i re giudei proponevano di unirsi con
l'Egitto per contrastare l'avanzata babilonese, [1] anche se rimane di
principio fedele all'alleanza solo con Yahweh e non con altri popoli. Come
Osea, Geremia parla di Giuda e Israele come di due sorelle che si
prostituiscono non restando fedeli al Signore che però avverte: Come voi
mi avete abbandonato e avete servito dèi stranieri nel vostro paese, così
servirete gli stranieri in un paese che non è vostro. (Gr 5,19) Anche Geremia
attacca i falsi profeti e i sacerdoti e anche lui, come Isaia, fa dire a
Yahweh che i popoli che lo seguiranno potranno godere della sua grazia (Gr
12, 14-17). Si ostina altresì sull'osservanza del Sabato e l' abbandono degli
dèi pagani, sul rispetto del lavoro e contro l'oppressione del povero (Gr
22). Per l'insistenza del suo messaggio funesto nei confronti di Giuda e
Gerusalemme, Geremia non solo non venne ascoltato, ma venne arrestato e
processato. [1] Ancora una volta compare l'Egitto come paese con il quale gli
ebrei stringono accordi e amicizie (Salomone) o contro il quale non si
ribellano (come fece Roboamo) o di cui cercano addirittura l'alleanza. Ironia
della sorte Geremia non fu deportato in Babilonia ma fuggì in Egitto da dove
non ritornò più. ESILIO E RITORNO Per evitare la sottomissione ad un
impero esterno, il regno del Nord cominciò ad accettare il pagamento di
tributi agli stranieri. Nel 721 a.C. si ebbe una prima svolta determinante.
Accadde infatti che, a seguito di imposte non pagate da Israele al re assiro,
i suoi abitanti furono deportati in Assiria e al loro posto vennero fatti
arrivare in Samaria popolazioni della Babilonia. Il risultato, dal punto
di vista religioso, fu che i nuovi abitanti cominciarono a venerare tanto il
dio ebreo che le loro divinità (2 Re 17,33), contravvenendo perciò alle leggi
di Yahweh. Questo atteggiamento, racconta il narratore, rimase tramandato
fino ai tempi in cui venne scritto il libro. Gli assiri non si limitarono a
depredare solo Israele, ma assediarono anche Giuda deportando il tesoro del
tempio e altre sue ricchezze. Nell'unico regno ora in mano agli ebrei,
quello di Giuda, la situazione socio-politica rovinò nella più grande
confusione, con re che a volte si dimostravano religiosamente ortodossi,
distruggendo altari idolatri e massacrandone i sacerdoti e altri invece, come
Manasse, che, nonostante adorasse Baal, regnò per ben 55 anni, più dei tanto
lodati Davide e Salomone! Ma la fine definitiva dei due regni era ormai
vicina: Giuda subì prima un' invasione Egizia che impose grossi tributi e un
re nuovo, [1] poi l' invasione di Nabucodònosor, re di Babilonia, che si
spinse fino al Nilo costringendo alla resa anche gli egiziani. Fu questo
imperatore che saccheggiò Gerusalemme e deportò tutta la sua popolazione in
Babilonia, lasciando i poveri a lavorare la terra nei villaggi nei dintorni
delle città. La seconda deportazione avvenne 11 anni dopo e in questo caso
la sorte di Gerusalemme fu ancora più grave, perché subì un tremendo assedio
seguito dal suo incendio e distruzione. Anche in questo caso rimasero solo
degli ebrei nelle campagne a lavorare la terra e per loro Nabucodònosor
scelse un re che non apparteneva alla dinastia davidica. Tutte le piramidi
prima o poi cadono sotto i colpi esterni e le debolezze interne. Anche i
babilonesi cedettero all'avanzata dell'impero persiano guidato da Ciro,
imperatore prediletto degli ebrei, tanto da venir indicato come unto del
Signore (Is 45,1) perché sarà lui che permetterà agli esuli il ritorno nella
madre patria. Il libro di Esdra comincia con la citazione dell'editto di
Ciro, re persiano, che "allo scopo di realizzare la parola del Signore"
rimanda a Gerusalemme gli esuli tratti da Nabucodònosor nelle precedenti
battaglie, fo rnendoli addirittura delle necessarie provviste e del tesoro
del Tempio trafugato. Ebbe inizio così di nuovo la ricostruzione della
città, compreso il Tempio che era stato distrutto e derubato delle sue
ricchezze. Questi lavori però non erano ben visti dalle popolazioni vicine,
definite "i nemici di Giuda e Beniamino" (Esd 4,15) che comunque sembra
volessero semplicemente associarsi in questa ricostruzione in quanto
anch'esse adoravano lo stesso Dio. Ma gli ebrei che arrivavano da Babilonia
non ne vollero sapere e questo fu causa di una ritorsione che si materializzò
in una lettera inviata al reggente persiano, Artaserse, in cui i nemici dei
rimpatriati sostenevano che questi stavano ricostruendo Gerusalemme, dipinta
come "città ribelle e malvagia" (Esd 4,12) e che non avrebbe più pagato
tributi in quanto fin dai tempi antichi era assodato che Gerusalemme era
stata una città "perniciosa ai re" ove si fomentavano ribellioni. Al re fu
ventilato che la ricostruzione di questa città gli avrebbe fatto perdere i
suoi possedimenti oltre l'Eufrate. La ricostruzione venne dunque sospesa
finché non sorsero altri profeti, in particolare Aggeo e Zaccaria, che
incitarono la popolazione a continuare i lavori, ripresi finalmente
e terminati sotto il re Dario. [1] Ancora si vede l'influenza dell'Egitto
addirittura sulla politica interna di Giuda. Lo sforzo comunicativo
esercitato dall'amministrazione di un popolo per mantenerne la coesione ha
tradizioni antiche. Un esempio per tutti fu il popolo ebreo. Esso subì
diverse traversie che culminarono nella deportazione di parte delle tribù
originarie per opera degli Assiri (nel 778 a. C.) e poi di un'altra grossa
fetta condotta a forza in Babilonia nel 586 a. C., eventi questi che misero
in serio pericolo la sua coesione sociale. Avvenne allora un fatto
importante: Tutti gli studiosi sono concordi nel ritenere che l'istituzione
della Sinagoga abbia origine dall'esilio babilonese e sia nata in
Babilonia. L'espressione ebraica che la designa, Beth Hakenéseth (casa di
assemblea) ne indica esattamente lo scopo primitivo. Era il centro di
riunione di una nazione senza patria, nel quale si leggevano e si
interpretavano le Scritture. In progresso di tempo si aggiunsero alcune
preghiere e la Sinagoga si trasformò in luogo di culto. [...] Occorreva
all'ebreo una religione che non soltanto lo distinguesse continuamente dal
pagano, ma anche gli ricordasse costantemente la sua appartenenza alla razza
e alla fede ebraica. [1] Leggere la Torah, che significa "insegnamento",
fu la soluzione adottata dagli anziani di Giuda, riuniti nella casa di
Ezechiele, al problema della dispersione del popolo ebraico. La religione,
intesa come corpus di idee che cementano una comunità, fu legata così ad un
efficace veicolo di trasmissione raccolto negli scritti letti nelle
sinagoghe. Uno Stato che non si fondi sulla religione utilizzerà altri mezzi
per unire i suoi cittadini, enfatizzando prima di tutto la tutela del
benessere collettivo. L'Impero romano - coacervo di razze che adoravano
divinità diverse - adottò altri metodi per imporre una certa coesione tra i
suoi cittadini edificando un po' ovunque circhi equestri, arene, terme,
luoghi insomma di divertimento e ozio. E questo non fu solo il risultato
di un'economia florida, ma il metodo utilizzato da uno Stato non fondato
sulla preminenza di una particolare religione al fine di soddisfare
l'esigenza di benessere, secondo una strategia mutuata dalla più antica
tradizione ellenistica. Ma l'agiatezza può creare assuefazione e la corsa a
passatempi sempre più entusiasmanti allontanava dall'impegno personale e
sociale, sfociando in quella deriva dei costumi testimoniata da alcuni
scrittori dell'epoca, quale ad esempio Petronio nel suo "Satyricon". Di più,
essa richiedeva continue spese per mantenere questo "luxus", generando
inoltre classi meno produttive ma sempre più numerose, che ovviamente
esercitavano una crescente pressione sui pochi che fornivano i beni da
consumare. Ecco quindi la necessità di un esercito impegnato alle frontiere
ma anche tra le ville produttrici per controllare gli schiavi prima, e i
servi della gleba poi. L'Impero romano non aveva perciò altro sistema di
coesione interna se non quello dell'accrescimento del benessere, che però
comportava continue guerre per racimolare schiavi e prodotti a basso prezzo,
mentre accresceva il numero dei cittadini parassiti. [1] Cfr.
[Talmud] ESDRA, NEEMIA ED EZECHIELE A questo punto appare la figura di
Esdra, uno scriba esperto nella legge e discendente dai sacerdoti di Aronne,
impiegato presso la corte di Artaserse. Egli partì con altri connazionali
verso Gerusalemme, dove iniziò una vera e propria epurazione dalle
intromissioni straniere nel popolo eletto. Prima fra queste fu lo
scioglimento di tutti i matrimoni tra ebrei e individui delle popolazioni
contermini: tutte le donne straniere e i figli nati da esse furono scacciati
di casa. L'obbligo fu imposto sotto la minaccia di sequestro dei beni
appartenenti a quanti non vi avessero aderito, pena l'esclusione del
colpevole dall'assemblea degli esuli; questa punizione fece sì che la norma
venne rispettata quasi in massa.
La formalizzazione delle nuove
imposizioni legislative ebbe luogo facendo firmare un documento dai capi,
leviti e sacerdoti del paese, in cui si impegnavano a rispettare "la legge di
Dio", riassunta in una forma particolare (Ne 10) in cui spiccano i seguenti
precetti: divieto di matrimoni misti, divieto di acquistare nei giorni di
festa mercanzie dai popoli vicini, ripristino dell'anno sabbatico, obblighi
di sostentamento dei leviti e dei sacerdoti che erano esentati dalle
tasse. Anche Esdra si preoccupò quindi del fatto che i giudei non
procurassero il benessere delle popolazioni vicine, per poter loro godere dal
meglio della terra, puntando all'autosufficienza di Gerusalemme e al suo
dominio sulla regione. Oltre a Esdra vi fu Neemia, eunuco coppiere del re
Dario che partì verso Gerusalemme dove cominciò la ricostruzione delle mura,
suddividendo il lavoro tra vari gruppi, compresi leviti e sacerdoti. Anche
Neemia racconta dei rancori delle popolazioni vicine per l'opera che stavano
compiendo e le misure di difesa che dovette compiere al fine di salvaguardare
la città. Ma, cosa che non troviamo in Esdra, egli si occupò delle
ingiustizie sociali che riducevano molti in miseria, scagliandosi contro
notabili e magistrati che esercitavano l'usura riducendo in schiavitù i loro
fratelli dopo avergli confiscato i beni, mentre lui proponeva che gli fosse
restituito tutto attraverso un condono generale. Le nuove norme di Esdra e
Neemia non furono accettate facilmente, tanto che Neemia, che nel frattempo
se n'era tornato dal suo re, dovette rimpatriare di nuovo per cercare, anche
se inutilmente, di ripristinare i costumi imposti. Il difficile periodo
accompagnato dalla forte speranza di ricostruzione viene sottolineato da
molti esuli rimasti con un ricordo idilliaco della Palestina. Ecco allora che
si presentarono visionari che descrivono come avrebbe dovuto essere il nuovo
regno di Giuda e la sua capitale, la rinata Gerusalemme. Uno di questi è
il sacerdote Ezechiele. Egli si immaginava una città ideale e un nuovo tempio
che non sarebbe stato più appannaggio dei leviti in genere ma solo dei
sacerdoti leviti di Zadòk, i quali potevano entrare nel tempio e avevano una
serie di prerogative, tra le quali anche quella antica di riservare a sé solo
mogli vergini o al massimo vedove di un altro sacerdote (Ez 44). Inoltre
Ezechiele si dedicò a descrivere come doveva essere divisa la
terra, redarguendo i prìncipi che fino ad allora avevano oppresso il popolo
e governato male. Per evitare questo sarebbe stato destinato ai re
un appezzamento di terra in modo che fossero autosufficienti e non
gravassero sul popolo; la popolazione doveva comunque offrire tributi e le
primizie del raccolto al principe, e questo era obbligato ad offrire gli
olocausti e gli altri sacrifici. Inoltre le proprietà dei principi dovevano
sempre rimanere o ritornare al loro casato, anche se erano state usate per
ricompensare i loro servi (Ez 46,16). Ai leviti sarebbero invece state
date sia delle città, come era già previsto nel Pentateuco, ma anche dei
terreni adiacenti a queste per il loro sostentamento. Inoltre sia ad essi che
ai sacerdoti sarebbe stata riservata una striscia di territorio pari ad un
tredicesimo della sua estensione: questo territorio era da considerarsi come
sacro tributo al Signore, mentre le altri dodici parti andavano alle restanti
tribù d'Israele. Il mutamento dell'ideale mosaico di nazione ebraica fu lento
ma cominciava a imporsi. UNA TERRA SOTTOMESSA Nel 539 a.C. i persiani
conquistano la Mesopotamia e permettono agli ebrei di tornare in Palestina
come loro sudditi
La strategia di Ciro per mantenere il dominio su un
immenso territorio fu quella di collocare a capo dei popoli sottomessi alcuni
governatori fidati. Lo stesso fece con gli ebrei, rispedendo in Palestina
funzionari e sacerdoti per ripristinare l'ordine in una provincia che era
vitale per la sua posizione strategica vicino all'Egitto. [1] In pratica
si assicurava degli alleati in quella regione, assecondando le loro
aspettative di ritorno in patria, ristabilendo a capo del culto non persone
qualsiasi ma fidate, in modo che la religione stessa non dovesse divenire
miccia per altri tumulti. [2] Comunque non tutti gli ebrei ritornarono in
patria: probabilmente quelli che avevano trovato fortuna e accumulato
proprietà nei paesi in cui erano stati esiliati non vi fecero ritorno. [3] E
quelli che arrivarono nel posto non vissero begli anni, come testimonia il
profeta Aggeo e come viene narrato in Esdra e Neemia, a causa di carestie e
difficoltà d'inserimento tra i vicini che non gradivano la presenza dei
reintegrati. Per questo i lavori di ricostruzione si prolungarono per molto
tempo mentre, dal punto di vista religioso, nel popolo ma anche tra i sommi
sacerdoti serpeggiavano 'eresie' dalla religione ortodossa, come si legge nel
profeta Malachia. [4] Eppure gli ebrei non avevano spento l'aspirazione a
riorganizzarsi in una nazione autonoma. Quando anche l'impero persiano di
Dario cominciò a manifestare i primi segnali di cedimento, e qua e là
scoppiarono tumulti, questi si fecero sentire anche in Giuda. Zaccaria ed
Ezechiele testimoniano questa rinnovata speranza di affermazione del regno
prediletto. [5] Sta di fatto che di un re del momento, tale Zorobabele che
governava su Gerusalemme, la Bibbia non dice che fine fece; probabilmente fu
tolto dalla scena visto che dopo di lui nessuno della stirpe davidica salì
sul trono sotto i persiani e il governo fu dato in mano ai samaritani o ai
sacerdoti. [6] Solo che a questo punto, (400 a.C. circa) la Bibbia sembra
quasi fermarsi e passare di colpo a due secoli dopo. Anche se proprio in
questo periodo sono state redatte le ultimissime parti dell'Antico Testamento
e i primi scritti ebraici non canonici, queste opere non offrono cronache
sugli ebrei del tempo. Sappiamo molto di quello che stava succedendo nel
Medio Oriente e nel resto del mondo, ma gli ebrei sembrano quasi occultati
dalla scena, a parte alcuni residenti nella città egiziana di Elefantina,
sopravvissuti come nucleo a sé con un proprio culto a Yahweh redatto in
maniera sincretica. [7] Il loro sincretismo consisteva nell'adattamento alle
usanze del luogo per non incorrere in eventuali ritorsioni da parte degli
altri abitanti che vedevano in loro dei privilegiati; dal punto di vista
religioso gli ebrei facevano ancora sacrifici animali, invisi tanto agli
egiziani quanto ai persiani. [8] Vi è inoltre da dire che anche da un
punto di vista linguistico l'ebraico stava perdendo colpi lasciando il passo
all'aramaico, ormai lingua di uso comune nel Medio Oriente. [9] Il fatto
poi che l'arrivo di Alessandro Magno (336-323 a.C.) passi inosservato nella
Bibbia la dice lunga sulla possibilità che gli ebrei l' abbiano semplicemente
vissuto come un cambio di padrone, non come una conquista. Non si hanno
infatti notizie di particolari rivolte, tranne una scoppiata in Samaria ma
subito sedata dallo stesso Alessandro. [1] Cfr. [Storia Israele] pag.
386-387. [2] Cfr. [Storia Israele] pag. 412. [3] Cfr. [Storia Israele]
pag. 387. [4] Cfr. [Storia Israele] pag. 390, 403-404. [5] Cfr. [Storia
Israele] pag. 396. [6] Cfr. [Storia Israele] pag. 377,402. [7] Cfr.
[Storia Israele] pag. 431. [8] Cfr. [Storia Israele] pag. 432-433. [9]
Cfr. [Storia Israele] pag. 437. LE RIVOLTE DEI MACCABEI Gli ultimi due
libri della Bibbia ricchi di eventi sono i due testi dei Maccabei che
raccontano del periodo tra il 175 e il 135 a.C.: dopo queste date nulla più
ci viene descritto dalla Bibbia fino all'avvento del cristianesimo. Bisogna
poi anche tener conto che neppure questi due libri sono inseriti nel canone
ebraico che quindi non li considera 'ispirati da Dio'. Ma, almeno per
quanto riguarda i commenti delle bibbie in commercio, [1] i fatti narrati
sono verosimili e inseriti nel periodo di Antioco Epìfane, imperatore
siriano. In quei tempi i giudei si erano alleati con le genti vicine e a
Gerusalemme cominciavano ad infiltrarsi costumi ellenistici, tanto che in
quella città fu costruito un ginnasio. Le sue ricchezze subirono comunque
diversi saccheggi: Antioco Epìfane asportò dal tempio il suo tesoro e dopo
due anni la città subì un altro saccheggio. Parte della sua popolazione venne
resa schiava, oltre a doversi sottomettere ad un editto reale che imponeva il
culto degli dèi greci. In questo frangente molti ebrei accettarono l'editto:
furono infatti costruiti altari pagani e i libri della legge dati alle
fiamme. A ciò si aggiunse però anche una vera e propria persecuzione, se era
vero che tutti le madri di figli circoncisi e i loro parenti vennero messi
a morte. Questo fece scatenare una rivolta capeggiata da Mattatia e i
suo figli che raccolsero seguaci e circoncisero a forza i bambini che
trovavano in giro per il paese (1 Mc 2,46). Suo figlio Giuda cominciò a
combattere anche battaglie campali contro l' esercito siriano che gli veniva
contro, strappando vittorie che gli avrebbero consentito di ristabilire il
dominio anche sui costumi adottati dal popolo, primo tra tutti quello
religioso con il culto ebraico nel tempio. La sua collera si rivolse anche
contro Edomiti e Ammoniti che trucidò bruciandoli vivi nelle torri in cui si
erano rifugiati per scampare alla morte: Si ricordò poi della perfidia dei
figli di Bean, che erano stati di laccio e inciampo per il popolo tendendo
insidie nelle vie. Pressati da lui si rinchiusero nelle torri ed egli si
accampò contro di loro, li votò allo sterminio e diede fuoco alle torri di
quella città con quanti vi stavano. (1 Mc 5,4-5) Massacro che ricorda
quelli più moderni: [.] Sono stati quasi tutti uccisi i 600 prigionieri che
ieri hanno scatenato una violenta rivolta nella fortezza di Qala-i-Jhangi, a
Mazar-i-Sharif, nel nord dell'Afghanistan. Lo ha detto oggi ai giornalisti
Olim Razm, il consigliere politico del generale di origine uzbeka Abdul
Rashid Dostum, il comandante militare dell'Alleanza del Nord che ha strappato
la città' al controllo dei Taleban. [2] [.] Per stanarli, le milizie
dell'Alleanza del Nord avevano inondato con gasolio incendiato i rifugi.
Molti ribelli sono morti ustionati, racconta un superstite, e i loro corpi
sono irriconoscibili. [3] [.] Le fonti del Pentagono hanno
confermato l'intervento di aerei americani per "avere ragione della
sommossa", che sarebbe stata generata da circa 300 combattenti talebani non
afghani "con intenzioni suicide". [4] [.] Stamani il ministro degli Esteri
britannico Jack Straw aveva escluso l'apertura di un'inchiesta sulla morte
delle centinaia di prigionieri a Mazar-i-Sharif. L'inchiesta era stata
domandata dall'associazione per i diritti dell'uomo come Amnesty
International. "Non vediamo il bisogno di un'inchiesta a questo stadio" aveva
detto Straw alla Bbc. "La situazione era terribile, tutti ammettono che c'è
stato un massacro di prigionieri. Ma non stiamo parlando di una comoda
situazione occidentale. Stiamo parlando di una situazione terribile dove non
c'erano ordine ne' legge. L'idea che in queste difficili circostanze possiamo
aprire un'inchiesta giudiziaria e' difficilmente applicabile alla realtà
sul terreno". [5] Nel frattempo si formarono dissensi interni ai giudei
che venivano attribuiti all'iniquità di alcuni ebrei, sospinti
dall'aspirazione al ruolo di sommo sacerdote (1 Mc 7), che passavano anche
attraverso la corruzione e depredazione degli oggetti preziosi del Tempio (2
Mc 4). E' in questo periodo che gli ebrei vengono a conoscenza dei Romani,
citati in maniera importante nel capitolo ottavo del libro, con in quali
cominciano a stringere alleanze, e a cui l'autore del libro non risparmia
onori e benevolenze, che a noi, lettori del 21° secolo, suonano come melense
righe di prostituzione politica. Ma fu proprio in questo periodo che cadde
in battaglia Giuda il Maccabeo, a cui succedette suo fratello Gionata. La sua
impresa cominciò in modo brutale, con un massacro dei partecipanti ad un
matrimonio di genti avversarie: Si ricordarono allora del sangue del loro
fratello Giovanni, perciò si mossero e si appostarono in un antro del monte.
Ed ecco alzando gli occhi videro un corteo numeroso e festante e lo sposo con
gli amici e fratelli, che avanzava incontro al corteo, con tamburi e
strumenti musicali e grande apparato. Balzando dal loro appostamento li
trucidarono; molti caddero colpiti a morte mentre gli altri ripararono sul
monte ed essi presero le loro spoglie. Le nozze furono mutate in lutto e i
suoni delle loro musiche in lamento. Così vendicarono il sangue del loro
fratello e ritornarono nelle paludi del Giordano. (1 Mc 9,39-42) Anche
questo evento a ricordare altre imprese odierne: Sarebbero almeno una
quarantina i morti causati dal bombardamento americano avvenuto nella prima
mattina di lunedì su un villaggio afghano nella provincia di Uruzgan, nel
centro del paese, dove era in corso una festa di matrimonio. Il Pentagono ha
inviato in Afghanistan una missione per indagare su quella che sembra essere
l'ennesima strage di civili. Appena un mese fa, infatti, i festeggiamenti di
un matrimonio, con tanto di spari, avevano fatto pensare ad un raggruppamento
nemico e provocato la reazione americana. In quel caso il bilancio dei morti
e dei feriti non era stato però così alto. [6] Diventando alleato di
Alessandro Bala, Gionata viene nominato anche sommo sacerdote, estromettendo
in questo modo la famiglia che fino ad allora aveva fornito i candidati a
tale carica. [7] Aiuta quindi Alessandro contro Demetrio II, ma appena
quest'ultimo si unisce a Tolomeo d'Egitto, passa dalla sua parte e ottiene
concessioni in merito all'abolizione di gravosi tributi che Giuda doveva
pagare fino ad allora. Nel frattempo compie anche un assedio con incendio e
successivo saccheggio della città di Gaza solo perché questa non l'aveva ben
accolto. Ma appena anche Demetrio II comincia a declinare, Gionata passa
dalla parte di un regnante in piena ascesa, Antioco VI figlio di Alessandro
Bala, e stringe anche alleanza con Roma e Sparta. Il suo comportamento
così incostante nelle alleanze gli procurò comunque una morte per tradimento
da parte di Trifone, un altro presunto alleato di Antioco VI. Al suo posto
si instaura Simone suo fratello che ritorna sui passi di Gionata e si allea
con Demetrio II. Ma anche Simone viene ucciso a tradimento, questa volta da
parte di un suo generale. Gli succederà Giovanni Ircano, che regnerà fino al
104 a.C. [1] Cfr. [Bibbia1]. [2] Cfr. [RaiNews24] 26/11/01. [3] Cfr.
[Televideo] 01/12/01. [4] Cfr. [RaiNews24] 25/11/01. [5] Cfr. [RaiNews24]
30/11/01. [6] Cfr. [Rai News] 02/07/02. [7] Cfr. [Bibbia1] pag.
670. UNA NAZIONE SENZA FUTURO Nei precedenti capitoli abbiamo visto come
gli ebrei fossero entrati in contatto con l'Impero romano con atteggiamenti
di assoluta benevolenza, in piena contraddizione con quello che accadde di là
a qualche secolo. I romani venivano possibilmente invocati per contrastare la
prepotenza di altri dominatori, ma divennero poi essi stessi simbolo
dell'oppressione non appena la sfera d'influenza dell'impero fu così
allargata da sottomettere le volontà giudaiche a quelle di Roma. Parliamo
di Giuda soltanto, perché ormai dell'antica nazione ebraica non restano
infatti che i giudei a rappresentare il vecchio orgoglio nato con l'esodo
dall'Egitto. Nel vecchio regno d'Israele dimorano popolazioni che non
rappresentano quasi per niente i depositari della saggezza mosaica: vi si
sono infatti infiltrate popolazione di diversa origine che praticano culti
idolatri per gli ebrei, sottoposti all'influsso della cultura ellenica prima
e romana dopo. Quel che rimane del culto di Yahweh è nelle mani di
sacerdoti amalgamati ad una classe dominante in simbiosi con gli interessi
romani. Ma le frange che ancora nutrono sentimenti nostalgici nei confronti
di un passato ormai lontano di secoli sono presenti e manifestano il proprio
dissenso in maniera politicamente e militarmente impegnata. Le proteste
vengono però sempre sedate giustiziando i capi delle rivolte, anche se un
crescendo di contestazioni non correttamente controllate dai governatori
locali costringerà infine le legioni romane a marciare direttamente su
Gerusalemme fino a incendiarla e distruggerla nel 70 d.C. (non prima di
averne comunque trafugato i tesori!). La religione di Yahweh sembrava aver
subito un colpo senza precedenti. In realtà si trattava solo di una
situazione temporanea: per mezzo di una nuova impostazione data ad hoc dai
suoi primi proseliti oltre i confini della terra di Palestina fino a confini
ben più ampi, nascerà il cristianesimo. LA PALESTINA Quanto conosciamo
della storia di Israele (dai libri biblici dei Maccabei fino al 73 d.C.) ci è
giunto sostanzialmente attraverso le opere di Giuseppe Flavio: "Antichità
giudaiche" e "Guerra giudaica". Per questo faremo riferimento a tali testi
per le ricerche che seguono, seppur talvolta supportati da studi riassuntivi
più recenti. [1] Giuseppe Flavio, storico giudeo nato nel 37 d.C.,
discendeva, da parte del padre, dalla nobiltà sacerdotale, da parte della
madre dalla famiglia reale degli Asmonei. E' chiaro che con uno status
sociale così elevato poté acquisire una cultura non indifferente come si
evince dalle sue stesse parole: "I miei compatrioti riconoscono che nella
nostra cultura giudaica io li supero di molto". [2]
Così anche grazie
a Giuseppe ci sono tramandate molte imposizioni mosaiche, ad esempio questa:
"i condannati alla crocifissione vengono deposti e sepolti prima del calar
del sole". [3] Il periodo raccontato nei libri biblici dei Maccabei sembra
fermarsi al 135 a.C. (cfr. Le rivolte dei Maccabei ) ma i discendenti di
Mattatia riuscirono a tenere le redini della Palestina fino al 63 a.C. quando
Pompeo assediò Gerusalemme e determinò la fine dell'indipendenza della
regione. Giuseppe Flavio ci dice a proposito di Pompeo che "fece
Gerusalemme tributaria dei Romani, tolse ai suoi abitanti le città di
Cele-Siria che avevano conquistato, e pose sotto il suo governatore; e
l'intera nazione che prima si era alzata così in alto, la restrinse nei suoi
confini". [4] Secondo lo storico. "di questa sfortuna che colpì Gerusalemme
furono responsabili Ircano e Aristobulo, a motivo della loro discordia.
Noi, infatti, abbiamo perso la nostra libertà e siamo divenuti soggetti
ai Romani, e il territorio conquistato con le nostre armi e preso ai
Siri, siano stati costretti a restituirlo, e in più, in breve tempo, i
Romani riscossero da noi oltre diecimila talenti, e il regno che prima era
concesso a coloro che erano della stirpe dei sommi sacerdoti, diventò un
privilegio di uomini del popolo". [5] Per capire quanto sia costata la
sottomissione ai nuovi conquistatori va precisato che un talento - misura o
d'oro o d'argento - pesava circa 34.272 kg. [6] Come potevano i Giudei
possedere tanta ricchezza? Non vi è motivo che qualcuno si meravigli che nel
nostro tempio ci fosse tanta ricchezza, poiché tutti i Giudei dall'ecumene e
quanti adorano Dio mandavano contributi da molto tempo persino dall'Asia e
dall'Europa. [7] Questo non significa che ai Giudei non fossero permessi
privilegi in considerazione delle loro tradizioni religiose, come per esempio
non pagare tributi nell'anno sabbatico quando non potevano raccogliere, o
essere esenti dal servizio militare tenuto conto del sabato dove non potevano
tra le altre faccende prendere neppure le armi. [8] Il discendente
asmoneo, Ircano II, restò in carica solo come sommo sacerdote fino a quando
Giulio Cesare stesso, avendo sconfitto Pompeo, non gli assegnò anche il
titolo di etnarca (governatore di una certa popolazione associata ad una
particolare provincia) nel 47 a.C. Alla morte di Giulio Cesare (44 a.C.) la
Giudea fu sottoposta allo sfruttamento da parte di Cassio, finché non venne
sconfitto da Marco Antonio e Ottaviano a Filippi e i Romani nominarono Erode
re nel 40 a.C. Egli prese possesso della Giudea nel 37 a.C. e la governò fino
alla morte, avvenuta nel 4 a.C. ma non riuscì mai ad accattivarsi le simpatie
dei Giudei, che anzi lo odiavano essendo lui un idumeo, quindi un
semi-giudeo. Ebbe in particolar modo difficoltà in Galilea, dove bande di
"ladroni" che abitavano in caverne gli opposero fiera resistenza. Ecco un
esempio riportato da Giuseppe Flavio: "Ora in una caverna si trovavano
chiusi un vecchio con sette figli e la moglie: quando essi lo pregarono di
lasciarli scivolare verso il nemico, egli si pose ritto all'ingresso della
caverna e scannò tutti i figli a mano a mano che venivano fuori, in fine la
moglie; finalmente gettando i loro cadaveri nel precipizio, si gettò su di
loro, sottomettendosi alla morte piuttosto che alla schiavitù". [9] Erode
allora: "[.] alcuni li uccise, quelli che si erano rifugiati in
luoghi inaccessibili, li catturò con l'assedio e li uccise, distrusse i loro
luoghi fortificati. Così pose fine alla ribellione e impose alle città una
tassa di cento talenti". [10] [1] Cfr. [Commentario]. [2] Cfr.
[Antichità giudaiche] 20.263. [3] Cfr. [Guerra giudaica] 4.317. [4] Cfr.
[Antichità giudaiche] 14.74. [5] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.77-78. [6]
Cfr. [Bibbia1] pag. 2009. In tutto questo studio il punto viene usato per
separare i decimali. [7] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.110. [8] Cfr.
[Antichità giudaiche] 14.200ss. [9] Cfr. [Antichità giudaiche]
14.429. [10] Cfr. [Antichità giudaiche] 14.432-433. LE RIVOLTE GALILEE E
GIUDAICHE Dopo la morte di Erode, come previsto dal suo testamento che
Augusto rispettò, il regno fu diviso fra tre dei suoi figli: Archelao (4
a.C. - 6 d.C.) regnò come etnarca sulla Giudea, Samaria e Idumea Antipa I (4
a.C. - 39 d.C.) ereditò la Galilea e la Perea come tetrarca Filippo (4 a.C. -
34 d.C.) fu tetrarca della regione a est e nord della lago di Galilea
(Auranitide, Batanea, Gaulanitide, Paneas, Traconitide. Fin dall'inizio il
passaggio di poteri non fu facile, soprattutto per Archelao che "parlava con
mansuetudine e dolcezza" tanto che la popolazione rivolgeva a lui richieste
insistenti:
"[.] alcuni gridavano di alleggerire i tributi che
annualmente pagavano, altri domandavano il rilascio dei prigionieri
incarcerati da Erode: molti di questi erano in prigione da molto tempo. Altri
ancora domandavano l'esenzione dalle tasse che erano state poste sullo stesso
livello delle vendite pubbliche, estorte in maniera spietata". [1] Il
nuovo re non riuscì a sedare il malcontento e nel 6 d.C. fu esiliato e
il territorio a lui assegnato affidato a governatori Romani, che
si interessavano al mantenimento dell'ordine pubblico e alla raccolta
dei tributi. Infatti nello stesso anno P. Sulpicio Quirino intraprese
un censimento che sollevò la protesta popolare capeggiata da Giuda il
Galileo. Questi era discendente di un certo Ezechia che con la sua banda
aveva infestato la Galilea ai confini della Siria e fu catturato e ucciso
da Erode, appena entrato in possesso della regione (37 a.C.). Di Giuda così
ci parla Giuseppe Flavio: "Divenuto ormai lo spavento di tutti, depredava
quanti incontrava, aspirava a cose sempre più grandi, la sua ambizione erano
ormai gli onori reali, premio che egli aspettava di ottenere non con la
pratica della virtù, ma con la prepotenza che usava verso tutti". [2] "[.]
Giuda spinse gli abitanti alla ribellione, colmandoli di ingiurie se avessero
continuato a pagare il tributo ai Romani e ad avere, oltre dio, padroni
mortali. Questi era un dottore che fondò una sua setta particolare, e non
aveva nulla in comune con gli altri". [3] Giuda non era un semplice bandito,
bensì un dottore benestante se lo storico giudeo asserisce che lui e un certo
Saddoc, "[.] diedero inizio tra noi a una astrusa scuola di filosofia, e
quando acquistarono una quantità di ammiratori, subito riempirono il corpo
politico di tumulto e vi inserirono ancora i semi di quei torbidi che in
seguito sopraffecero; e tutto avvenne per la novità di quella filosofia
finora sconosciuta che ora descrivo. Il motivo per cui do questo breve
resoconto è soprattutto perché lo zelo che Giuda e Saddoc ispirarono nella
gioventù fu l'elemento della rovina della nostra causa". [4] [1] Cfr.
[Antichità giudaiche] 17.204-205. [2] Cfr. [Antichità giudaiche]
17.272. [3] Cfr. [Guerra] 2.118. Cfr. anche [Guerra] 2.433. [4] Cfr.
[Antichità giudaiche] 18.9-10. GLI ZELOTI Giuseppe Flavio sembra quindi
attribuire alle idee di questi ribelli "banditi" il ruolo di miccia che
infiammò le sorti della Giudea fino a condurla alla completa distruzione ad
opera dei Romani. La loro "filosofia" viene così descritta: "Questa scuola
concorda con tutte le opinioni dei farisei eccetto nel fatto che costoro
hanno un ardentissimo amore per la libertà, convinti come sono che solo Dio è
loro guida e padrone. Ad essi poco importa affrontare forme di morte non
comuni, permettere che la vendetta si scagli contro parenti e amici, purché
possano evitare di chiamare un uomo "padrone". Ma la maggioranza del popolo
ha visto la tenacia della loro risoluzione in tali circostanze che posso
procedere oltre la narrazione. Perché non ho timore che qualsiasi cosa
riferisca a loro riguardo sia considerata incredibile. Il pericolo, anzi, sta
piuttosto nel fatto che la mia esposizione possa minimizzare l'indifferenza
con la quale accettano la lacerante sofferenza delle pene". [1] Giuseppe
anticipa anche che: "Questa frenesia iniziò ad affliggere la nazione dopo che
il governatore Gessio Floro [2] con le sue smisurate prepotenze e illegalità
provocò una disperata ribellione contro i Romani". [3] Sembra quindi che
proprio le idee di Giuda abbiano ispirato quello "zelo" sui giovani, e nella
popolazione in genere, da scatenare la guerra poi persa contro l'impero
romano: "tale, infatti, era il nome [Zeloti] che quelli si erano dati, quasi
fossero zelatori di opere buone e non invece al massimo grado delle più
turpi". [4] I sentimenti anti-romani trovavano facile alimento in una regione
che da sempre aveva cercato la propria autonomia. Senza un re della statura
di Erode la regione sembrò sprofondare in un clima di assoluta
anarchia: "Fu un periodo di follia che si installò nella nazione perché non
aveva un vero e proprio re che con la sua autorità vegliasse e tenesse a
freno un popolo e perché gli stranieri che vennero da loro per smorzare le
ribellioni erano essi stessi una causa di provocazione con la loro arroganza
e la loro superiorità". [5] Così un primo romano che si prodigò a
massacrare gli abitanti della zona fu Varo, governatore della Siria, che
arrivò a crocifiggere duemila rivoltosi per sedare le ribellioni. Oltre a
pagare tributi ai dominatori ed essere obbligati ad accettare
culti all'imperatore, i Giudei dovettero, come altre popolazioni
limitrofe, sottostare agli effetti devastanti di una forte carestia "[.]
molta gente moriva perché sprovvista del denaro per acquistare ciò di cui
abbisognava". [6] Questa calamità si abbatté mentre era procuratore Tiberio
Giulio Alessandro (46-48 d.C.). Fu sotto di lui che vennero processati e
crocifissi due figli di Giuda Galileo. Come lui, anche i successivi
procuratori sembra non avessero rispetto particolare per le usanze giudaiche
e prendessero pretesto da qualsiasi occasione per soffocare nel sangue le
proteste. Tra i vari procuratori vi era infatti chi "[.] non soltanto
commetteva ruberie a danno di tutti nella trattazione dei pubblici affari, né
si limitava a schiacciare tutto il popolo sotto il peso dei tributi [.]"
[7] oppure "[.] si diede a spogliare intere città e a taglieggiare
popolazioni intere [.]" [8] Questo non servì a frenare le sommosse
capitanate da personaggi che istigavano il popolo alla
ribellione: "Individui falsi e bugiardi, fingendo di essere ispirati da dio
e macchinando disordini e rivoluzioni, spingevano il popolo al
fanatismo religioso e lo conducevano nel deserto promettendo che ivi dio
avrebbe mostrato loro segni premonitori della liberazione". [9] "[.] i
ciarlatani e i briganti, riunitisi insieme, istigavano molti a ribellarsi e
li incitavano alla libertà, minacciando di morte chi si sottometteva al
dominio dei Romani e promettendo che avrebbero fatto fuori con la violenza
chi volontariamente si piegava alla schiavitù". [10] Rivolte che, secondo
Giuseppe Flavio, furono la causa di tutti i mali della regione e della
spietata risposta dei procuratori Romani: "Intanto gli affari della Giudea
stavano andando di male in peggio; perché la regione era nuovamente infestata
da bande di briganti e impostori che ingannavano la gente. Non passava giorno
che Felice non prendesse e condannasse a morte molti di questi impostori e
ribelli". [11] [1] Cfr. [Antichità giudaiche] 18.23-24. [2] Procuratore
dal 64 al 66 d.C.. Cfr. [Commentario] 75:142. [3] Cfr. [Antichità giudaiche]
18.25. [4] Cfr. [Guerra giudaica] 4.161. [5] Cfr. [Antichità giudaiche]
17.277. [6] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.51. [7] Cfr. [Guerra]
2.273. [8] Cfr. [Guerra] 2.279. [9] Cfr. [Guerra] 2.259. [10] Cfr.
[Guerra] 2.264. [11] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.160-161. CONSEGUENZE
SOCIALI Per Giuseppe Flavio la causa "teorica" della guerra è così
riassumibile: "nell'uomo è insito un naturale desiderio di guadagno, e
nessuna passione è così pronta ad affrontare qualsiasi rischio come
l'avidità. In altre circostanze, certamente, queste brame hanno un limite e
sono tenute a freno dalla paura, ma questa volta era il dio che aveva
condannato tutto il popolo e indirizzava alla rovina ogni loro via di
scampo". [1] Lo storico non lesina critiche al governo di alcuni Romani che
con il loro comportamento alimentarono la ribellione, un procuratore in
particolare: "Gessio Floro, inviato da Nerone quale successore di Albino,
portò al colmo le molte disgrazie dei Giudei. [.] Floro era tanto malvagio e
arbitrario nell'esercizio della sua autorità che i Giudei, per la loro
estrema misera, lodavano Albino come benefattore. Quest'ultimo infatti,
teneva nascosta la sua infamia [.], ma Gessio Floro [.] ostentatamente
sfoggiava la sua [.]. Non conosceva pietà, nessun guadagno lo saziava, era
una persona che ignorava la differenza tra i guadagni più grandi e i più
modesti, tanto che si associava persino ai briganti. [.] Era Floro che ci
costringeva alla guerra contro i Romani, perché preferivamo perire insieme
piuttosto che a poco a poco". [2] Giuseppe rifiuta comunque, di principio,
la ribellione: "Certamente era bello combattere per la libertà, ma bisognava
farlo al principio; ora, una volta sottomessi e rimasti soggetti per tanto
tempo, il voler scuotere il giogo non era da persone amanti della libertà, ma
da persone che volevano fare una brutta fine. Si doveva certo disprezzare
dei padroni di poco conto, ma non quelli che dominavano il mondo intero.
[.] Legge suprema in vigore presso le bestie come presso gli uomini era
quella di cedere al più forte, e che il dominare spettava a che aveva armi
più potenti". [3] I risvolti di queste rivolte sfociarono dapprima in una
resa dei conti intestina, in cui i ceti benestanti diventarono bersaglio
prescelto dei rivoltosi: "Distribuitisi in squadre per il paese,
saccheggiavano le case dei signori, che poi uccidevano [...]" [4] Ogni
farabutto, circondato da una propria banda, s'innalzava al di sopra dei suoi
come un capobanda o un signorotto, e si serviva dei suoi scherani
per angariare la gente dabbene. [5] Ma i benestanti non volevano la
guerra: "Quelli, che erano persone di rango e che, avendo delle
proprietà, desideravano la pace, [.]" [6] A rimetterci furono anche i
sacerdoti di rango inferiore, quest'ultimi alleatisi ormai con i ceti sociali
meno abbienti, tanto da bisticciare anche per il cibo: "Era allora accesa
una mutua inimicizia e lotta di classe tra i sommi sacerdoti, da una parte; e
i capi della plebaglia di Gerusalemme dall'altra. Ognuna delle fazioni
formava e raccoglieva persone temerarie e rivoluzionarie pronte ad agire come
i loro capi. [.] Tale era poi la petulanza vergognosa e l'ardire dei
pontefici, che non dubitavano di mandare schiavi sulle aie del grano battuto
e prelevare le decime dovute ai sacerdoti, col risultato che i sacerdoti più
bisognosi morivano di fame. [7] [.] Così accadeva che i sacerdoti, che negli
antichi giorni vivevano delle decime, ora erano ridotti a morire di fame".
[8] Il risvolto di tale comportamento da parte dei sommi sacerdoti si ebbe
nel momento in cui i ribelli presero il sopravvento: "Alla fine il popolo
giunse a tale estremo di impotenza e di terrore, e quelli di follia, da voler
prendere nelle loro mani anche l'elezione dei sommi sacerdoti. Pertanto
abolirono i privilegi delle famiglie da cui si erano sempre presi a turno i
sommi sacerdoti, e nominarono individui comuni e di bassa estrazione per
averli alleati nelle loro empie ribalderie [.]". [9] [1] Cfr. [Guerra
giudaica] 5.558ss. [2] Cfr. [Antichità giudaiche] 20.252-257. [3] Cfr.
[Guerra giudaica] 5.365ss. [4] Cfr. [Guerra giudaica] 2.265. [5] Cfr.
[Guerra giudaica] 2.275. [6] Cfr. [Guerra giudaica] 2.358. [7] Cfr.
[Antichità giudaiche] 20.180-181. [8] Cfr. [Antichità giudaiche]
20.207. [9] Cfr. [Guerra giudaica] 4.147-148. IL RUOLO DEI ZELOTI NELLA
RIVOLTA DEL 66 D.C. La rivolta scoppiò nel settembre del 66. Menahem, figlio
di Giuda il Galileo, sterminò un reparto romano a Gerusalemme e cominciò a
comportarsi da "tiranno insopportabile" [1] tanto che fu assassinato in breve
tempo dalla folla inferocita. Intanto un altro parente di Giuda, tale
Eleazar figlio di Giairo, occupava la fortezza di Masada, quella che cadrà
per ultima alla fine della guerra. Nel frattempo tutta la regione fu
attraversata da rivolte contro i Giudei che a loro volta risposero mettendo a
ferro e fuoco diverse città: i Romani non potevano più rimanere a guardare e
verso la Galilea mossero allora tutta la XII legione dalla Siria. [2]
Successivamente il generale romano Cestio provò anche ad attaccare
Gerusalemme ma non ebbe il coraggio di portare a termine l'impresa, tanto che
alla fine dovette ritirarsi. Fu allora che: "Dopo la disfatta di Cestio molti
dei Giudei più in vista abbandonarono la città, come una nave che sta colando
a picco". [3] A inizio guerra, Giuseppe Flavio fu eletto capo delle due
Galilee e del territorio di Gamala. [4] Fu in questa occasione che cominciò a
scontrarsi con un figlio di Levi, Giovanni di Giscala. Per quest'uomo
Giuseppe non spreca buone parole, anzi dall'inizio alla fine dei suoi
racconti lo dipinge con affermazioni di puro disprezzo. Dalla povertà,
Giovanni passa per un banditismo solitario fino a diventare capo di una banda
che saccheggiava l'intera Galilea, soprattutto "a spese dei grossi
contribuenti" [5] fino alla notorietà finale. Quello che Giovanni sembra
indovinare anzitempo su Giuseppe è la sua propensione a tradire i Giudei per
passare dalla parte dei Romani. [6] L'inimicizia tra i due palesa
effettivamente l'incapacità dei Giudei di far fronte comune contro la
minaccia romana che di lì a poco si sarebbe abbattuta sulla zona. Mentre
accadevano questi fatti, Simone figlio di Ghiora radunava nell'Idumea un suo
manipolo di rivoluzionari con cui depredava le case dei ricchi e faceva
alleanza con quelli che si erano rifugiati a Masada. [7] Le diatribe e
l'incapacità di unirsi nella ribellione anti-romana si manifestano con
particolare ferocia all'interno della stessa Gerusalemme, dove gli Idumei di
Simone si scagliano prima contro la popolazione poi contro gli Zeloti
capeggiati da Giovanni di Giscala. Per questi ultimi i nemici principali
rimanevano comunque gli appartenenti alle classi benestanti: "Le loro
vittime erano specialmente i coraggiosi e i nobili, che venivano colpiti gli
uni per invidia gli altri per paura; reputavano infatti che l'unica loro
salvezza fosse riposta nell'eliminazione di tutti i personaggi di rilievo".
[8] D'altro canto, nel momento in cui gli Zeloti presero il sopravvento
e decisero per la difesa ad oltranza della città, la fuga da questa
potevano permetterselo solo i più ricchi che corrompevano le sentinelle poste
a guardia delle vie di fuga "sicché i traditori erano solo quelli che
non potevano pagare, con la conseguenza che ad essere uccisi erano solo i
poveri mentre i ricchi si compravano il lasciapassare". [9] Tra gli Zeloti
poi "si distingueva per disegni delittuosi e per la temerità il gruppo dei
Galilei; erano stati infatti costoro a portare al potere Giovanni, ed egli li
ricompensava del predominio che gli avevano procurato concedendo a ciascuno
di fare ciò che voleva". [10] Dei "Galilei" Giuseppe non risparmia una
descrizione che rasenta l'infamia: "Con un insaziabile desiderio di preda
frugavano le case dei ricchi, uccidevano gli uomini e stupravano le donne
come fosse un gioco; poi col bottino lordo di sangue gozzovigliavano e
infine, sazi, si abbandonavano senza ritegno all'effeminatezza acconciandosi
i capelli, indossando abiti da donna, cospargendosi di profumi e dandosi il
bistro agli occhi per farsi più belli. E le donne non le imitavano soltanto
nel modo di agghindarsi, ma anche nelle pratiche amorose, ideando con
frenetica dissolutezza infami amplessi, rotolandosi nella città come in un
bordello, dopo averla tutta insozzata con le loro nefandezze. Ma se avevano
visi di donna, le loro erano mani d'assassini: mentre procedevano con molle
andatura all'improvviso si trasformavano in audaci uomini d'arme, ed
estraendo le spade da sotto alle vesti dai colori sgargianti trafiggevano
chiunque capitava". [11] Come si legge, i rappresentanti della nobiltà erano
continuamente vittime: "infatti con una falsa accusa di diserzione venivano
messi a morte perché le loro sostanze facevano gola". [12] [1] Cfr.
[Guerra giudaica] 2.442. [2] Cfr. [Guerra giudaica] 2.500-510. [3] Cfr.
[Guerra giudaica] 2.556. [4] Cfr. [Guerra giudaica] 2.568. [5] Cfr.
[Guerra giudaica] 2.585ss. [6] Cfr. [Guerra giudaica] 2.594. [7] Cfr.
[Guerra giudaica] 2.652ss. [8] Cfr. [Guerra giudaica] 4.357. [9] Cfr.
[Guerra giudaica] 4.379. [10] Cfr. [Guerra giudaica] 4.559. [11] Cfr.
[Guerra giudaica] 4.560ss. [12] Cfr. [Guerra giudaica] 5.424. RAPPRESAGLIE
CONTRO I GIUDEI Gli abitanti di Damasco furono i primi a trucidare i Giudei
della loro città (più di diecimila o forse diciottomila persone disarmate).
Ma le rappresaglie più eclatanti furono a opera dei Romani. Il primo
scontro avvenne ad Ascalona, città che i Giudei cercarono invano di espugnare
ai Romani. Vespasiano intanto scese con le sue truppe da Antiochia verso
la Galilea: gli abitanti di Sepphoris gli dichiararono fedeltà cosicché
i Romani poterono dedicarsi al saccheggio della zona, "uccidendo tutti
gli uomini validi alle armi e trascinando in schiavitù i più deboli".
[1] Fu poi la volta della città di Gabara (o Gadara o Gabora) in cui
furono trucidati tutti i giovani, appiccato il fuoco alla città, ai villaggi
e alle borgate vicini. [2] A Iata Traiano, allora genero di Vespasiano e non
ancora imperatore, uccise 15 mila cittadini, senza distinzione tra giovani
e vecchi, mentre i bambini furono ridotti in schiavitù assieme alle loro
madri in numero di 2.130. Eravamo nel luglio dell'anno 67 d.C. [3] Dei
Samaritani che non morirono per fame e sete i Romani ne trucidarono 11.600.
[4] Iotapata, la città su cui comandava Giuseppe Flavio, fu distrutta e
incendiata e vide la morte di 40 mila persone. [5] In Ioppe perirono altri
4.200 Giudei. [6] Altra disfatta giudea si ebbe a Tarichee. A quelli che non
ammazzò subito, Vespasiano, tese un tranello rinchiudendoli in uno stadio a
Tiberiade: poi "i vecchi e gli inabili, in numero di mille e duecento, li
fece uccidere; dei giovani scelse i più robusti, in numero di seimila e li
màndò a Nerone per i lavori sull'istmo; tutti gli altri, in numero di
trentamila e quattrocento, li vendette schiavi, tranne quelli che mandò in
dono ad Agrippa [.]". [7] Gamala resistette per tredici mesi prima di
cadere: i Romani uccisero quattromila persone, senza risparmiare neppure i
bambini, che prendevano e scagliavano giù dalla rocca, mentre altre
cinquemila si suicidarono gettandosi dalla stessa. Altri quindicimila
perirono in scontri presso il Giordano, mentre un numero incalcolabile si
suicidò gettandosi nel fiume e 2'200 vennero fatti prigionieri. [8] A
Betabris e Cafartoba Vespasiano uccise più di 10 mila uomini e fece più di
mille prigionieri. [9] A Gerasa un ufficiale romano "uccise un migliaio di
giovani [.], fece prigionieri le donne e i bambini e diede il permesso ai
soldati di saccheggiare ogni cosa; poi, appiccato il fuoco alle case, si
gettò sulle borgate vicine. Chi ne aveva la forza riusciva a fuggire, mentre
i più deboli venivano uccisi, e tutto ciò che essi abbandonavano era dato
alle fiamme". [10] Nell'assedio di Gerusalemme Giuseppe fornisce la cifra di
600 mila cadaveri giudei [11] e, alla fine dell'assedio, afferma che "Nella
città non si trovava un posto libero, ma c'erano morti dappertutto, vittime
di fame o dei ribelli". [12] Mentre i soldati Romani "escludendo soltanto
i cittadini, essi vendettero schiavi tutti quanti gli altri assieme alle
mogli e ai figli, ma a un prezzo bassissimo per l'abbondanza della merce e la
penuria dei compratori". [13] Quando Gerusalemme venne definitivamente
presa "Cesare ordinò di sopprimere soltanto chi aveva armi e opponeva
resistenza, e il resto di farli prigionieri. Ma i soldati, oltre alle
persone specificate nell'ordine ricevuto, uccisero anche i vecchi e i deboli,
mentre i giovani e i validi li ammassarono nel tempio rinchiudendoli nel
recinto delle donne. [.] Frontone mise a morte tutti i ribelli e i
guerriglieri che s'incolpavano vicendevolmente, e tra i giovani scelse i più
alti e di bell'aspetto mettendoli da parte per il trionfo. Tutti gli altri,
di età superiore ai diciassette anni, li mandò in catene a lavorare in
Egitto, ma moltissimi Tito ne inviò in dono nelle varie province a dar
spettacolo nei teatri morendo di spada o dilaniati dalle belve feroci; chi
non aveva ancora diciassette anni fu venduto in schiavitù. Nei giorni che
Frontone impiegò per decidere, morirono di fame undicimila prigionieri,
alcuni perché non ebbero da mangiare per la spietatezza delle guardie, altri
perché, pur avendolo avuto, non lo toccarono". [14] Le cifre che Giuseppe
fornisce alla fine della guerra sono le seguenti: "Il numero complessivo dei
prigionieri catturati nel corso dell'intera guerra fu di novantasettemila,
quello dei morti dal principio alla fine dell'assedio fu di un milione e
centomila". [15] Giuseppe racconta anche che, mentre festeggiava il
compleanno di suo fratello a Cesarea, Vespasiano diede spettacoli in cui
venivano impiegati i prigionieri giudei: "furono più di duemila e cinquecento
quelli che caddero nel combattimento contro le fiere o duellando gli uni
contro gli altri o perirono tra le fiamme". [16] [1] Cfr. [Guerra
giudaica] 3.62. [2] Cfr. [Guerra giudaica] 3.133. [3] Cfr. [Guerra
giudaica] 3.306. [4] Cfr. [Guerra giudaica] 3.315. [5] Cfr. [Guerra
giudaica] 3.339. [6] Cfr. [Guerra giudaica] 3.426. [7] Cfr. [Guerra
giudaica] 3.539ss. [8] Cfr. [Guerra giudaica] 4.435ss. [9] Cfr. [Guerra
giudaica] 4.447. [10] Cfr. [Guerra giudaica] 4.488ss. [11] Cfr. [Guerra
giudaica] 5.569. [12] Cfr. [Guerra giudaica] 6.369. [13] Cfr. [Guerra
giudaica] 6.384. [14] Cfr. [Guerra giudaica] 6.414ss. [15] Cfr. [Guerra
giudaica] 6.420. [16] Cfr. [Guerra giudaica] 7.37-38. DALLA FINE DELLA
GUERRA ALL'ULTIMA RIVOLTA DEL 135 d.C. La I guerra giudaica durò dal 66 al 70
d.C. Tra i trofei condotti a Roma vi furono anche i due capi della rivolta: a
Giovanni di Giscala fu riservata la prigione a vita mentre Simone bar Ghiora
venne decapitato alla fine del corteo trionfale che Vespasiano e suo figlio
Tito condussero nella capitale. Strenua resistenza mantenne fino al 73
Eleazar figlio di Giairo a Masada. La capitolazione non avvenne per un
attacco dei Romani ma per decisione degli stessi assediati di togliersi la
vita attraverso un suicidio collettivo. A tanto erano disposti gli Zeloti
come ci ha tramandato Flavio Giuseppe nel discorso finale di
Eleazar: "Muoiano le nostre mogli senza conoscere il disonore e i nostri
figli senza provare la schiavitù, e dopo la fine scambiamoci un generoso
servigio preservando la libertà per farne la nostra veste sepolcrale. Ma
prima distruggiamo col fuoco e i nostri averi e la fortezza; resteranno male
i romani, lo so bene, quando non potranno impadronirsi delle nostre persone
e vedranno sfumare il bottino. Risparmiamo soltanto i viveri, che dopo
la nostra morte resteranno a testimoniare che non per fame siamo caduti, ma
per aver preferito la morte alla schiavitù, fedeli alla scelta che abbiamo
fatta fin dal principio." [1] Cosa accade da allora in poi? Non avendo più
uno storico che ce lo racconti con la stessa passione e dovizia di
particolari che ci ha lasciato Giuseppe Flavio, siamo costretti a riprodurre
alcuni stralci riassuntivi trovati in testi moderni: "Iudaea capta era
l'iscrizione che, da allora in poi, apparve sulle monete coniate per la
provincia romana. [.] Vespasiano reclamò tutto il territorio come sua
proprietà privata [2] mentre dei coloni lavoravano la terra per lui. La
comunità giudaica, abituata a pagare mezzo siclo come tassa per il tempio di
Jahvèh, doveva ora dare lo stesso contributo al fiscus iudaicus per il tempio
romano di Giove Capitolino". [3] Ma tra gli Ebrei continuò a serpeggiare
sempre l'idea di restaurare il proprio regno e ciò contribuì ad alimentare
alcune rivolte nel 115-116 d. C. seguite da quella più consistente avvenuta
nel 132-135 d.C., anch'essa sedata in modo violento dai Romani. L'imperatore
Adriano in carica "[.] decretò che tutta la nazione giudaica non potesse da
allora in poi entrare nel distretto attorno a Gerusalemme, cosicché nemmeno
da lontano potesse vedere la sua patria". [4] [1] Cfr. [Guerra giudaica]
7.334-336. [2] Cfr. [Guerra giudaica] 7.217. [3] Cfr. [Commentario]
75:164-165. [4] Cfr. [Commentario] 75:169. FONTI: [Altra Bibbia] -
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Internet nel sito omniway.sm [Yahoo] - it.news.yahoo.com Come dice S.
Tokarev, "La religione degli ebrei è una delle poche religioni del mondo
antico che si è conservata con qualche piccola variante fino ai nostri
giorni". (Le religioni del mondo antico, ed. Teti, Milano 1983,
p. 113) Fonte principale per lo studio di questa religione è la Bibbia
(dal greco biblia, libri), suddivisa in Pentateuco, Libri storici, Libri
sapienziali e Libri profetici: il che fa parte di quello che i cristiani
definiscono col nome di Antico Testamento (in latino testamentum significa
"patto"), per distinguerlo dal Nuovo, che gli ebrei non riconoscono. Alla
base del Pentateuco (cinque rotoli) vi sono almeno quattro diverse fonti,
chiarite solo nel XIX sec.: quella jahvista, composta in Giudea intorno al
950 a.C., quella elohista, composta in Efraim intorno all'800 a.C., quella
deuteronomica, composta verso il 621 a.C. e rielaborata verso il 500 a.C. e
quella sacerdotale, composta verso il 550-500 a.C. Altre fonti importanti che
si possono esaminare sono i testi di Giuseppe Flavio, La guerra giudaica e
Antichità giudaiche, nonché tutti i testi ritrovati a Qumran. La storia
del popolo ebraico [1] inizia nella Bibbia con le vicende di Abramo, che
risalgono circa al 1850 a.C., ma questo popolo ha origini ancora più antiche,
risalenti a un periodo in cui viveva, semplicemente, come tribù di
allevatori, nomadi, nell'Arabia settentrionale, la cui religione
aveva sicuramente caratteristiche molto diverse da quelle che poi
vennero codificate. Gli stessi patriarchi nominati nella Bibbia sono
probabilmente soltanto delle personificazioni di distinzioni tribali, in
quanto le loro vicende sono mescolate a fatti del tutto leggendari. Stando
comunque alla cronologia di questi testi, Abramo avrebbe avuto come antenati
i Cananei, nomadi in Mesopotamia e, nel tempo in cui uscì dalla terra di Ur
per dirigersi verso Canaan (nome originario della Palestina), i sumeri
vivevano una florida civiltà schiavista, mentre l'altra grande civiltà
schiavista, quella egizia, sul versante opposto della cosiddetta "mezzaluna
fertile", controllava la costa siro-palestinese, adiacente a quella di
Canaan. Poiché ad un certo punto gli egizi erano in grado di sfruttare la
Palestina come una loro colonia, e poiché questa non riusciva a liberarsi da
quella dominazione, buona parte delle tribù israelitiche si vide costretta,
in occasione di una grave carestia, a trasferirsi direttamente in
Egitto (epopea di Giuseppe, divenuto primo ministro, e dei suoi fratelli), al
tempo in cui regnavano gli stranieri Hyksos, nella speranza di migliorare la
loro sorte. Tuttavia, cacciati gli Hyksos, durante il Nuovo Regno gli
ebrei furono costretti a lavorare in Egitto in condizioni molto dure, come
operai nelle fornaci di mattoni, come manovali e muratori per costruire
edifici di ogni genere. Il periodo della schiavitù egizia durò all'incirca
dal 1700 al 1250 a.C., dopodiché, alla guida di Mosè (un leader egizio la cui
riforma politico-religiosa in direzione del monoteismo aveva incontrato
l'ostilità dei sacerdoti), gli ebrei, con un grande "esodo", ritornarono
nella terra di Canaan. Praticamente approfittarono di un momento di debolezza
dell'impero alle prese coi cosiddetti "Popoli del Mare". Con Mosè nasce il
culto di Jahweh, che significa "Io sono". Sua caratteristica fondamentale era
che non si poteva rappresentare in alcun modo e che andava rispettato sulla
base di alcune precise leggi o comandamenti. Questo dio prometteva in cambio
del rispetto delle leggi una terra in cui poter vivere come popolo
libero. Tuttavia Mosè morì prima di raggiungere questa terra. Infatti solo
verso il 1220-1200 a.C., alla guida di Giosuè, le tribù ebraiche sono in
grado di occupare militarmente tutta la Palestina, con l'intenzione di
stabilirvisi definitivamente. Viene praticamente sconfitta quasi tutta la
popolazione indigena della regione, specie i Filistei, dal cui nome
proviene "Palestina". Nasce l'epoca dei Giudici (1200-1025 a.C.), una
sorta di federazione democratica di tutte le tribù israelite, che da nomadi
diventano sostanzialmente sedentarie, dedicandosi prevalentemente ai lavori
agricoli. Ancora non esisteva il culto di un dio imposto come unico, ma
semplicemente la dominanza prevalente del culto di Jahvè (monolatria),
appartenente alle tribù giudee. E' solo a partire dal X sec., con la nascita
della monarchia, che questo culto comincia a diventare una religione di stato
(monoteismo). La monarchia nasce quando s'impongono le differenze di classe
e l'ordinamento tribale non è più in grado di tenerle sotto controllo
coi mezzi e metodi tradizionali; inoltre quando i Filistei tornano a
rivendicare il possesso dei loro territori. Il primo potere reale che
s'impone è quello della tribù di Beniamino, con Saul (1030-1010 a.C.), che
morì combattendo appunto contro i Filistei, poi sarà quello, ben più
importante, della tribù di Giuda, con Davide (1010-970 a.C.), che
ridimensionò decisamente il potere dei Filistei e che pose la capitale del
regno a Gerusalemme, e Salomone (970-931 a.C.), sotto il cui regno i confini
si estesero fino al golfo di Aqaba sul mar Rosso. Salomone trasformò Israele
in uno Stato organizzato, non molto diverso da quelli schiavistici del tempo:
fece costruire una flotta navale, le mura di Gerusalemme e fece edificare un
tempio per centralizzare il culto di Jahvè, affidandolo alla gestione
esclusiva dei sacerdoti provenienti dalla tribù di Levi. Questa situazione
piaceva sempre meno e molte tribù cominciavano a rimpiangere le libertà del
passato, sicché alla morte di Salomone ne approfittano per separare il regno
(931 a.C.): quello a nord, composto da 10 tribù, si chiamerà "Israele", con
capitale Samaria, e durerà circa due secoli (nel 721 a.C. verrà sconfitto
dagli assiri di Sargon II e i suoi abitanti saranno deportati); quello del
sud, composto da due sole tribù, si chiamerà "Giuda", con capitale
Gerusalemme, e conserverà l'indipendenza per poco più di tre secoli (tra il
598 e il 587 a.C. verrà sconfitto dai babilonesi di Nabucodonosor e gli
abitanti vengono deportati in Mesopotamia). Nel periodo di divisione dei
due regni, sino alla fine dell'esilio babilonese, è molto forte l'attività di
critica, da parte dei profeti (Elia, Eliseo, Isaia, Geremia...), del
malcostume, dello sfruttamento e dell'idolatria. I profeti non avevano
rapporti col clero ufficiale dei templi. Decisiva fu l'attività dei profeti
Ezechiele e Daniele durante la "cattività babilonese" (dal latino captivitas,
che significa "prigionia") per mantenere la coesione di popolo e la speranza
del ritorno in Palestina. Nel 539 a.C. i persiani, con Ciro, conquistano la
Mesopotamia e permettono agli ebrei di tornare in Palestina come loro
sudditi, ma con la possibilità di ricostruire il tempio, ch'era stato
distrutto dai babilonesi. Tutto il potere politico-religioso passa in mano ai
sacerdoti di Gerusalemme, che devono soltanto rendere conto ai sovrani
persiani. I sacerdoti e gli scribi (in particolare Esdra e Neemia) ridanno
vigore alla riforma del re Giosia (640-609 a.C.), il quale, dicendo di aver
trovato un nuovo libro nel 621 a.C.: il Deuteronomio, che in realtà era stato
scritto ex-novo, aveva praticamente reinterpretato tutti gli eventi dalla
partenza dal Sinai fino alla morte di Mosè. Il codice sacerdotale composto
durante l'esilio babilonese da Ezechiele e da altri sacerdoti (587-538 a.C.)
venne fuso da Esdra con gli altri testi del Pentateuco allo scopo di
affermare il rigido monoteismo, la centralizzazione del culto e la
canonizzazione dei testi biblici. Per fronteggiare la crisi sociale e
limitare le proteste contro le ingiustizie economiche, i sacerdoti elaborano
un'ideologia che avrà un certo peso nello corso della lotta per
l'indipendenza nazionale: quella del "popolo eletto", secondo cui gli ebrei
sono oppressi per colpa dei loro tradimenti ma possono riscattarsi agli occhi
di dio combattendo contro i nemici esterni. Furono dunque proibiti i
matrimoni misti e considerati "impuri e pagani" tutti i non ebrei, i non
circoncisi e chiunque non accettasse il culto di Jahvè a Gerusalemme (p.es. i
samaritani). La Giudea diventa uno Stato teocratico. L'epoca persiana
finisce con l'inizio di quella ellenistica di Alessandro Magno (333-63 a.C.).
Alla sua morte l'impero viene diviso e la Palestina prima viene sottomessa ai
re lagidi d'Egitto (in questo periodo la Bibbia viene tradotta in greco),
poi, dal 200 a.C., ai re seleucidi di Siria, contro i quali gli ebrei si
ribellano sotto la guida della famiglia dei Maccabei, ottenendo una breve
relativa indipendenza dopo il 141 a.C. (dinastia asmonea). Ma la
dominazione più dura che devono sopportare sarà quella romana. Nel 63 a.C.
Pompeo occupa Gerusalemme e la Palestina diventa una provincia imperiale. Gli
ebrei tentano più volte di ribellarsi, ma non avendo mai raggiunto una
sufficiente coesione nazionale, subiscono una disfatta gravissima nella prima
rivolta del 66-70 d.C., finché nel 132-135, con la sconfitta della seconda
rivolta, Gerusalemme viene chiamata Aelia Capitolina e se ne vieta l'ingresso
agli ebrei. La diaspora è irreversibile. Da alcuni settori dell'ebraismo
nasce il cristianesimo, il quale, con la corrente paolina, che risulterà
poi dominante, si rinuncia a qualunque forma di lotta politica, ma anche
a qualunque particolarità ebraica che impedisca ai pagani di accettare
la nuova religione. Cinque secoli dopo, caduto l'impero romano, si
stabiliscono in Palestina gli arabi, di religione islamica. Dal 1948 è
stato ricostituito in Palestina, per decisione del Consiglio di sicurezza
dell'Onu, lo stato di Israele, permettendo agli ebrei di ritornare sulle loro
antiche terre. A partire da quella data si fanno risalire i conflitti tra
israeliani e palestinesi, quest'ultimi di religione islamica. [1] Ebrei
significa "colui che è al di là"; così venivano chiamate in Palestina le
popolazioni provenienti da oltre l'Eufrate.
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