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STORIA ANTICA 3 -
LA NASCITA DELLA SCRITTURA
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LA SCRITTURA - STORIA
ANTICA |
LA SCRITTURA L'invenzione della scrittura (1) Di là dalle affinità
culturali dei miti mesopotamici con la tradizione classica greca e biblica
(primo elemento di attrazione per il gran pubblico) esistono peculiarità che
vale la pena di ricordare. Questi miti sono fra i primi documentati e
certamente fra i primi mai composti poiché nati insieme alla scrittura
stessa.Può stupire come essi siano arrivati a noi direttamente. Non abbiamo,
per esempio, testi originali dei poemi omerici, risalenti all'epoca della
loro ultima stesura (VII secolo a.C.) ma solo "copie" frutto del lavoro
millenario di copisti romani e bizantini. E così, anche se le storie
mesopotamiche possono non essere esattamente coeve col periodo della loro
stesura ci sono giunte attraverso documenti che rappresentano la "preistoria"
della scrittura. I documenti in cuneiforme sono "rozze scalfitture"
dell'argilla o della pietra che paiono impronte di dinosauro ma che sanno
brillare di luce propria svelando miti e storie di altissimo valore
letterario.
Dei e miti della scrittura presso i sumeri Il
primo assiriologo a postulare che la scrittura cuneiforme avesse un'origine
non semitica fu uno dei protagonisti della famosa traduzione a quattro,
Edward Hincks, nel 1852. Da allora gli studiosi hanno accumulato prove su
prove a sostegno dell'invenzione operata dai sumeri tra il IV e il III
millennio del primo sistema valido di scrittura (p.5 Bot 92). Su
questo aspetto ritorneremo più avanti.
Gli stessi sumeri si
preoccuparono di attribuire la paternità dell'invenzione della scrittura a un
loro eroe leggendario: Enmerkar. Un celebre mito narra le traversie di questo
mitico sovrano di Uruk (antenato dello stesso Gilgamesh) alle prese con
Ensukeshdanna, re di Aratta (2). Un messaggero è inviato da una corte
all'altra per riferire messaggi sempre più minacciosi. Ma i discorsi sono
sempre più lunghi e il messaggero fa fatica a ricordare tutte le
parole...
Il Re di Uruk parlò come un torrente in piena. Il suo discorso
crebbe a dismisura e il messaggero, la cui lingua si era fatta pesante, non
riusciva a ripeterlo. Le parole non potevano perdersi nel vento perché il
signore di Aratta doveva conoscere tutto ciò che Enmerkar sentiva e pensava.
Allora Enmerkar prese dell'argilla, l'appiattì come una tavoletta e vi
scrisse sopra. Nessuno prima di lui aveva mai scritto un messaggio, la
scrittura ancora non esisteva. (da Enmerkar vs. Ensukeshdanna, p. 65 Pon
2000)
L'importanza della scrittura fu tale che molte divinità sumeriche
furono investite del mandato di "soprintendenti". Il dio Nabu era patrono
degli scribi; mentre la dea Nidaba fu nume tutelare degli archivi reali.
Nindub era dio-architetto che disegnava progetti templari sulle
tavolette. Belet-Seri era la dea-scriba assunta come "segretaria" dei giudici
dei morti, a lei spettava il compito di scrivere nell'argilla il destino
del defunto nell'aldilà.
L'era arcaica della scrittura Al di là del
mito, la scrittura nacque come supporto mnemonico utilizzato nei primi centri
urbani in espansione. Essa servì inizialmente a contare (il numero di tacche
equivale alla quantità di oggetti di cui voglio tenere il conto). In seguito
servì per registrare direttamente il computo e descrivere gli oggetti contati
(quanti sicli di grano abbiamo raccolto? proviamo a registrarlo mettendo il
disegno di una spiga a fianco delle tacche). Ma nuove necessità accelerarono
lo sviluppo della scrittura. Infatti questo semplice strumento di promemoria
conteneva germi dalle grandi potenzialità.
Se la scrittura arcaica
approssimava i modi con cui il pensiero vedeva i crudi fatti era inevitabile
che, rileggendo i fatti, il pensiero traesse impulso a cercare le cause dei
fatti registrati (ipotesi) o immaginare fatti che potevano accadere
(previsioni). In parole povere, la lettura stimolava astrazione e questa
sensazioni ed emozioni.
Ma l'astrazione richiedeva una forma più
raffinata di rappresentazione scritta (come de-scrivere un'emozione, una
sensazione, un sogno, un'intenzione se i miei strumenti di scrittura
consentono solo di elencare oggetti animati?). L'evoluzione della scrittura
era quindi il passo necessario per dare forme di rappresentazione più consone
al pensiero che "ripensava sé stesso".
Molti testi e siti Internet
descrivono le "prove tecniche" della scrittura primitiva e quindi io non mi
dilungherò in proposito. Vi bastino tre parole chiave per guidare i vostri
motori di ricerca qualora vogliate approfondire il lato "tecnico" della
scrittura primitiva: ideogramma, sillabico, alfabetico... (vedi inoltre le
monografie in Dag 1997 pp. 47-59 e Bot 1992 pp. 32-45).
Scrittura e
identità culturale Se la registrazione delle attività in seno a un centro
urbano (cambiamento della guida della comunità, atti di matrimonio, cessioni
di proprietà, esclusione di funzionari corrotti da cariche pubbliche ecc.)
consentiva di seguirne l'evoluzione è evidente che con la scrittura nasceva
la storia.
Ogni comunità che prima di allora ricordava sé stessa
attraverso la tradizione orale, poté finalmente seguire il proprio sviluppo
attraverso la registrazione di ciò che era stata, in pratica darsi
un'identità. Solo con un'identità un nucleo urbano poteva confrontarsi con
gli altri.
Rispetto per esempio alle raffigurazioni rupestri con cui
l'uomo primitivo in qualche modo conservava tracce della sua identità o del
suo passato, la scrittura appariva come un mezzo più rapido, versatile,
preciso e "trasportabile". Se prima una comunità, che ricordava se stessa
con rappresentazioni figurative e tradizione orale, era sostanzialmente
"muta" verso le altre comunità, adesso, grazie alla scrittura, poteva
interloquire con le altre. Assistiamo dunque a un passo antropologico di
enorme rilievo: la nascita di civiltà.
Il cuneiforme Ma la
diffusione della scrittura all'esterno dalla comunità obbligò ad una sua
codificazione in forma assimilabile all'idioma in uso. Non meraviglia quindi
che la scrittura più arcaica venisse già adottata come strumento versatile
per esprimere lingue diverse. Questa scrittura, definita cuneiforme (vedi
sezione su Grotefend), partorita per esprimere il sumerico venne quasi
immediatamente adottata per l'accadico (di ceppo semitico), e più tardi per
l'ittita (di ceppo indoeuropeo) e tutte le lingue nell'area siro-persiana
(Elam, Mari, Ebla, ecc.).
Va osservato che il cuneiforme, durante il suo
processo di diffusione geografica al di fuori da Sumer, subì modifiche e
miglioramenti nel passaggio da una cultura all'altra. Gli ultimi arrivati non
avevano certo tempo di imparare il cuneiforme ripercorrendone l'evoluzione da
primitiva scrittura ideografica! Evidentemente ne adottavano la variante più
pratica e apprendibile, possibilmente modellandola in base alle loro
necessità linguistiche.
Ma quando il cuneiforme entrava a far parte
del bagaglio culturale di un popolo, più o meno rimaneva "congelato" nella
forma appresa. Più antica la cultura e più difficilmente il suo tipo di
cuneiforme poteva risentire di variazioni apportate da altre culture (a meno
di una soverchiante egemonia culturale dei dominatori). Può apparire
paradossale. Tuttavia non è difficile immaginare che, se una particolare
forma di cuneiforme è parte del retaggio culturale, si è restii a modificarlo
perché questo può voler dire modificare la propria tradizione e
identità.
Ecco perché il cuneiforme è tanto più evoluto, e non poteva
essere altrimenti, quanto più siamo lontani dalla sua zona di origine.
Infatti il cuneiforme più moderno è quello di tipo alfabetico che troviamo
sulla costa del Mediterraneo, confine naturale a Ovest della Mesopotamia.
Proprio a Ugarit sorse nel XIV sec. a.C. l'alfabeto più antico della storia
(p. 109 Sap 1996). Al contrario, tanto per citare una regione vicinissima a
Sumer, in Elam ancora all'epoca di Dario (V sec. a.C.) vigeva un
accadico cuneiforme arcaico (metà sillabico e metà ideografico) come
testimonia l'iscrizione di Behistun.
I fenici, che la tradizione
scolastica vuole "inventori dell'alfabeto", non inventarono la scrittura, e
non ebbero bisogno di ripercorrere millenni di prove ed errori per impararla.
Essi appresero lo "stato dell'arte" della scrittura dal polo
economico-culturale di Ugarit apportandone
un'ulteriore miglioria.
L'incontro con la cultura di Ugarit era
avvenuto nel XIII secolo, con l'arrivo-invasione della compagine
cretese-cipriota dei "popoli del mare". Dato che l'alfabeto fu inventato a
Ugarit non meraviglia che proprio dalla costa di Ugarit si diffusero nel
Mediterraneo, con la colonizzazione fenicia, l'idea e l'utilizzazione
dell'alfabeto.
Tuttavia, poiché i popoli del mare avevano già un loro
sistema stenografico più semplice e rapido dell'elaborato cuneiforme (si
pensi alle "lineari" di Creta) l'alfabeto che venne diffuso aveva aspetto ben
diverso dal cuneiforme. Era cominciato il declino del cuneiforme, protrattosi
fino al I sec. d.C. quando venne definitivamente soppiantato dall'alfabeto
fenicio!
Chi inventò la scrittura? La bassa Mesopotamia all'inizio del
III millennio era abitata da due gruppi etnici. Lo sappiamo proprio dai primi
documenti scritti rinvenuti, che appartengono a due idiomi totalmente
differenti. Il primo è una lingua non è collegabile a nessun ceppo
linguistico. Questa lingua è chiamata sumerico (non sumero!). E' interessante
ricordare che l'esistenza dei sumeri fu postulata dai linguisti (Hinks, 1852)
prima ancora che gli archeologi portassero alla luce resti di città
sumeriche.
Chi parlava il sumerico era prevalentemente stanziato nella
regione chiamata terra di Sumer. Probabilmente i sumeri erano già insediati
prima del 3000 a.C. anche se è impossibile dire da quanto tempo. La seconda
etnia usava un dialetto semitico parlato più a nord di Sumer, in quel
territorio chiamato in seguito terra di Akkad da cui i nomi accadico e accadi
per l'idioma e gli uomini che lo parlavano.
Per dire con certezza chi
fra loro scoprì o inventò la scrittura bastano pochi dati. I documenti più
antichi sono quasi tutti in sumerico e pochissimi in accadico. Inoltre quelli
in accadico sono contaminati da numerosi termini sumerici. I sumeri non
"scoprirono" solo la scrittura ma un'incredibile quantità di cognizioni, di
modelli di comportamento, di tecniche, di situazioni (3). I termini che li
descrivono sono ovviamente in sumerico e tali rimasero una volta "presi a
prestito" dagli accadi. Particolarmente eloquente è la quantità di nomi
sumerici di divinità entrate nel pantheon mesopotamico (p. 21 Bot 92). An,
Enlil, Enki, Apsu, Utu, Inanna, Dumuzi e ovviamente Gilgamesh sono tutti nomi
sumerici.
Ovviamente anche le parole referenti la scrittura e i suoi
supporti sono sumeriche. La tavoletta d'argilla si chiama DUB. Da essa,
secondo le regole agglutinanti del sumerico derivano E-DUB (casa delle
tavolette ovvero biblioteca/scuola) e DUB-SAR (scriba). Ancora nell'Enuma
Elish, poema della creazione babilonese, la reliquia per la quale le divinità
si azzuffano - la celeberrima tavoletta del destino - è espressa da tre
sumerogrammi DUB-NAM-MESH (NAM = destino in sumerico).
Ora la nascita
della scrittura nella Terra di Sumer e la preminenza intellettuale e tecnica
dei suoi abitanti portò alla diffusione della civiltà in tutta la
Mesopotamia. Questa regione, più o meno corrispondente all'attuale Iraq, è
aperta a Nord, a Occidente e a Oriente. Non stupisce quindi che la sua
cultura si diffondesse e contaminasse le genti che vivevano nelle vicinanze.
Gli stessi autori della Bibbia come pure il vecchio mondo greco ed
ellenistico, da cui ha preso spunto questo discorso, non poterono sottrarsi
all'influenza pur mediata di questa cultura.
Anche per questo in
Mesopotamia si debbono cercare i più antichi documenti relativi alla nostra
storia e alla formazione del pensiero umano che, attraverso i secoli, ha dato
vita alla nostra filosofia e alla nostra scienza.
Sumeri e
accadi Per quanto detto può sembrare che gli accadi giunsero dopo i sumeri,
ma non è certo. Gli accadi possono essere stati la popolazione nomade
prestanziale ad avere la fortuna di incontrare la cultura sumerica, fondersi
con essa e darle nuova linfa vitale.
Gli accadi provenivano da nord,
da quella frangia settentrionale del deserto arabo-siriano, serbatoio di
tutti i gruppi semitici che, attirati dalla sua prosperità scenderanno nella
Terra tra i due fiumi. Come i semiti amorrei, giunti dopo gli accadi, intorno
al 2000 a.C. e i semiti aramei, arrivati in Mesopotamia verso il 1000 a.C.
L'afflusso migratorio semitico tenne quindi viva la lingua accadica. I sumeri
invece avevano evidentemente tagliato tutti i ponti con la madre patria (che
non conosciamo) come dimostra il declino della loro lingua, sempre meno
presente nei documenti, in concomitanza con il loro declino
politico.
L'esplosione dell'accadico nei documenti scritti si ha con il
primo grande impero semitico (e primo impero in assoluto d'Oriente!): il
regno di Sargon (2334-2279). Come accennato, tra accadi e sumeri non avvenne
affatto uno scontro tra culture, bensì una commistione, un'assimilazione su
tutti i fronti. Le concezioni religiose e i traguardi politici e culturali
dei sumeri vennero assorbiti dagli accadi. Ugualmente la lingua sumerica
per quanto sempre meno parlata, rimase in uso per gli atti ufficiali,
i documenti economici e soprattutto le belle lettere fino ad almeno il
II millennio (4).
La provenienza del ceppo semitico suggerisce in
direzione opposta la provenienza del ceppo sumerico. Secondo le ipotesi più
verosimili i sumeri provengono da una zona circostante alla Terra di Sumer.
Forse dall'altopiano iranico (est) o forse dal Golfo Persico (sud-est). In
quest'ultimo caso avremmo una conferma indiretta da uno dei miti più antichi:
I Sette Saggi (p. 205 Bot 92). Secondo la tradizione mitica gli uomini
avrebbero appreso la scrittura e la civiltà da sette emissari di Enki usciti
dal mare. La provenienza marina è accentuata dall'aspetto misterioso dei
saggi: metà uomo e metà pesce (apkallu). Nel mito è forse ravvisabile memoria
di una remota ondata civilizzatrice che avrebbe seguito la via del mare. Se
vogliamo quindi prestar fede a questo mito i sumeri sarebbero arrivati da
sud-est seguendo la costa o direttamente per mare. Forse dal leggendario
reame di Dilmun, ma questa è un'altra storia...
Come Grotefend decifrò
la scrittura cuneiforme Nel 1842 Paul-Emile Botta rinvenne a Khorsabad fra i
numerosi reperti, mattonelle d'argilla ricoperte di strani segni. Egli non
aveva idea di come quei segni andassero letti. Ma la chiave di lettura della
scrittura cuneiforme era già stata formulata, senza che Botta lo sapesse,
oltre 40 anni prima, nel 1802, da parte di un supplente di 27 anni alla
scuola civica di Gottinga. Thomas Porzano © 2003
Pietro Della
Valle (Cer 95, p. 227) I caratteri cuneiformi erano conosciuti in occidente
fin dal 1600, grazie alle copie delle iscrizioni pervenute dai
viaggiatori europei che si avventuravano in oriente. Il più celebre di
questi viaggiatori fu l'italiano Pietro Della Valle che pubblicò a Roma nel
1650 la cronaca del suo intinerario in Oriente durato dodici anni.
Nel
1621 Della Valle raggiunse i resti di un'antica città, identificata molto più
tardi con Persepoli, capitale dello scomparso impero persiano. Incuriosito da
strane iscrizioni incise nelle rovine, le ricopiò avendo intuito che dovevano
trattarsi non di motivi decorativi ma di una forma di scrittura
(5):
«E queste iscrizioni, in che lingua e lettera siano, non si sa,
perché è carattere oggi ignoto. Io solo potei notare che è carattere molto
grande, che occupa gran luogo. E che i caratteri non son congiunti un con
l'altro nelle parole, ma divisi e distinti ciascun da se solo, come i
caratteri ebrei [...]. O parole o soli caratteri che siano, al meglio che io
potei ne copiai, tra gli altri quelli che vidi e riconobbi in più luoghi
della scrittura» dai Viaggi di Pietro Della Valle il Pellegrino. La Persia
vol II, p. 340 ediz. 1667
Thomas Hyde Nel 1700 Thomas Hyde,
professore di ebraico a Oxford, scrisse sulle copie di Della Valle un
resoconto dal titolo Segni piramidali o cuneiformi (Dactuli pyramidales seu
cuneiforme). Le congetture di Hyde non aiutarono a svelare il senso di quelle
iscrizioni ma, da allora, l'appellativo "cuneiforme" vi rimase appiccicato
(p. 16 McCall 95).
Quelle iscrizioni dovettero attendere ancora un secolo
prima di svelare il loro segreto. Nel 1802 un giovane studioso tedesco Georg
Friedrich Grotefend, disponendo di copie molto fedeli riuscì a interpretare i
nomi di Dario e di Serse all'interno delle iscrizioni. Se le iscrizioni
provenivano da Persepoli ed erano ricavate da edifici munumentali era
naturale supporre che il loro contenuto fosse inerente personaggi o eventi
dell'antico impero Persiano.
La storia dell'impero persiano era in
parte nota grazie agli storici greci, come Erodoto di Alicarnasso che visitò
Babilonia lasciandone un meravigliato resoconto, poiché essa si intrecciava
con la storia greca. L'incontro-scontro fra la civiltà greca e quella
mesopotamica avvenne nel V sec. a.C., quando l'achemenide Ciro allargò le sue
mire territoriali alle colonie greche dell'Asia minore (Mileto, Pergamo,
Efeso, 6).
Grotefend al lavoro Tornando alle iscrizioni, quelle
analizzate da Grotefend erano ripartite su tre colonne riempite da caratteri
notevolmente diversi fra una colonna e l' altra. Cosa poteva essere se non la
descrizione del medesimo fatto in tre lingue diverse! Era probabile che i
fatti di cui quelle iscrizioni parlavano dovevano aver coinvolto più stati e
più culture, di quei fatti dovevano essere consapevoli dominatori e dominati,
alleati e paesi neutrali. Non poteva quindi che trattarsi di gesta memorabili
nella storia dell'impero persiano, e probabilmente le iscrizioni
commemoravano fortunate campagne di conquista. Inevitabile dunque pensare che
una delle tre lingue fosse persiano antico.
Come avrebbero potuto
essere descritte le gesta dei sovrani persiani? Grotefend ipotizzò che fosse
improbabile che venissero mutate d'un tratto certe consuetudini nelle
iscrizioni dei monumenti. Per esempio il "riposa in pace" delle tombe del suo
paese si trovava sulle tombe dei suoi avi e su quelle degli avi degli avi e
si sarebbe trovato sulle tombe dei figli e su quelle dei figli dei figli.
Perché non si sarebbe dovuto trovare il consueto esordio dei monumenti
persiani islamici anche in quelli della Persia antica? Perché le iscrizioni
di Persepoli non avrebbero dovuto iniziare con lo stereotipato elenco
genealogico e di titoli come
X gran re, re dei re, re di A e di B ,
figlio di Y, gran re, re dei re, figlio di Z, ecc.
Esempi di questa
consuetudine si incontrano ripetutamente. Per esempio nella stele di Rosetta
(tradotta circa 30 dopo Grotefend):
"Nel regno di Tolomeo, figlio di
Tolomeo e Arsinoe, dio fratello e dea sorella, il nono anno, apollonide,
figlio di Mossio, sacerdote di Alessandro."
dal II libro dei
Re:
"Nell'anno terzo di Osea, figlio di Ela, re di Israele, divenne re
Ezechia, figlio di Acaz, re di Giuda"
da un epigrafe
augustea:
"Sotto l'imperatore Cesare Augusto, figlio del divino Cesare,
nel terzo anno dopo il suo divino consolato."
Oppure da un editto di
Carlo Magno:
"Carlo per grazia di Dio re dei Franchi e dei Longobardi e
patrizio dei Romani, ecc.
oppure, 400 anni dopo, dalla Magna Charta
(1215):
"Giovanni, per grazia di Dio re d'Inghilterra, signore d'Irlanda,
Duca di Normandia e di Aquitania e conte d'Angiò, ai suoi
sudditi.
oppure, 300 anni più tardi, dal resoconto sulla conquista del
Perù di Guaman Poma de Ayala:
"Anno del 1525, Papa Clemente VII del
suo pontificato tre, Imperatore Carlo V del suo impero sette e del suo regno
delle Americhe cinque.
In effetti nelle epigrafi di Grotefend, vi erano
parole che si ripetevano con frequenza nella prima parte dell'iscrizione in
tutte e tre le colonne e fra queste era molto probabile trovare la parola re
o sovrano nonché i nomi dei sovrani. Grotefend esaminò numerosi documenti di
Persepoli e quasi tutti iniziavano con uno di due possibili gruppi di cunei,
a cui seguiva sempre un termine che sicuramente stava a indicare la parola
re. Trovò iscrizioni che contenevano entrambi i nomi, iscrizioni che
contenevano uno solo e sempre solo quello dei due nomi.
Tutte le
iscrizioni provenivano da edifici dove, nei bassorilievi e nelle sculture,
venivano commemorati sempre e solo due sovrani. E poiché questi due sovrani
erano nominati uno accanto all'altro era verosimile che si trattasse di padre
e figlio.
Lo schema a cui giunse Grotefend fu:
X-re, figlio di
Z
oppure
Y-re, figlio di X-re
Adesso non rimaneva che
cercare la genealogia dove padre e figlio furono re, ma non il nonno.
Grotefend puntò subito alla dinastia degli Achemenidi, registrata dagli
storici greci con grande attendibilità: Ciro, Cambise, Istape, Dario e Serse,
di questi solo Istape non fu sovrano quindi X era Dario e Y era Serse.
Sfruttando la pronuncia in persiano antico. Non approfondirò il discorso
sulla fonetica dei nomi che consentì di identificare la lingua della colonna
centrale come una forma antica di persiano, nella quale Dario suonava più o
meno come Darayawaush.
Seguirono poi correzioni e perfezionamenti e ci
vollero più di trent'anni prima che si effettuassero nuove e decisive
scoperte ma a Grotefend spetta la priorità della scoperta decisiva che
permise l'interpretazione storica dei grandi scavi della
Mesopotamia.
E' interessante ricordare che proprio in occasione del
bicentenario della nascita di Grotefend, durante un workshop internazionale,
il nostro Giovanni Pettinato rese nota la chiave di traduzione della lingua
eblaita.
I detective del cuneiforme Abbiamo visto che l'ipotesi che
una delle tre lingue delle iscrizioni di Persepoli fosse persiano antico
aiutò Grotefend nella primissima decifrazione dal cuneiforme. Allo stesso
modo, nel 1838, Henry Rawlinson decifrò altre iscrizioni trilingue,
ricavandone molte più parole rispetto ai semplici nomi dei sovrani. L'opera
di Rawlinson offrì una conoscenza della storia persiana di gran lunga più
precisa di quella tramandata da tutti gli autori antichi messi
insieme.
Henry Rawlinson (Cer 95, p. 238) Nell'Iran settentrionale si
trova la regione di Bagistana, la "regione degli Dei", posta sull'antica
strada carovaniera che passava per Babilonia. Qui sorge un ripido monte
roccioso: Behistun (Bisutun). Su una delle due pendici del monte, più di 2500
anni fa, Dario re dei persiani, fece incidere a più di 50 metri dal fondo
della valle, figure e iscrizioni che esaltavano la sua persona, le sue
imprese, le sue vittorie. Qui Henry Creswicke Rawlinson, nel 1835-1836, si
fece calare con l'aiuto di una carrucola da un'alta roccia con l'unico scopo
di copiare le iscrizioni incise nella roccia. Le gesta del sovrano sono
scritte su 14 colonne e in tre lingue differenti che già Grotefend aveva
distinto fra loro identificandone una sola: persiano antico, elamico e
babilonese. Nel 1837 presentò alla Royal Asiatic Society di Londra una prima
valida traduzione della versione persiana dell'iscrizione che inizia
così:
Questo re Darayawaush proclama: Tu, che nei giorni
futuri vedrai questa iscrizione, che io feci incidere nella
roccia, queste figure di uomini, non cancellare e non distruggere
nulla! Bada, finché lasci un seme, di conservarle intatte!
Anni più
tardi si sarebbe cimentato anche con la versione babilonese. Nel 1846
consegnava alla Società Reale Asiatica di Londra la copia esatta
della celebre iscrizione e la sua traduzione quasi completa basata
sulla decifrazione di 246 caratteri su un totale di circa 600 (p. 16 McCall
95).
Le tre classi di Behistun Nel frattempo il tedesco Oppert e
l'irlandese Hincks mediante l'analisi comparata di zendo, sanscrito e di
tutti i principali ceppi linguistici indoeuropei penetravano sempre più a
fondo nella struttura grammaticale del persiano antico. Ma Rawlinson e altri
si erano già dedicati alle altre colonne dell'iscrizione di Behistun (che
superava in ampiezza tutto il materiale finora raccolto). Sulle iscrizioni di
Persepoli e di Behistun erano state riconosciute tre lingue diverse. Con mano
sicura Grotefend aveva fatto leva sul punto di minore resistenza, dove la
maggiore prossimità cronologica permetteva sicuri confronti con gruppi
linguistici più noti cominciando la decifrazione dalla colonna mediana,
designata già prima di lui come classe I. Superate le difficoltà della
scrittura di classe I, si passò alle altre due. Il merito di aver gettato le
vasi per la decifrazione della classe II (babilonese) spetta al danese
Westergaard (1854). Per la classe III (elamico) bisogna invece ricordare da
una parte Oppert e dall' altra Rawlinson allora console generale di
Bagdad.
Nel corso delle indagini intorno alla classe III si giunse presto
ad una scoperta scoraggiante: la classe I era una scrittura a base di
lettere, con un alfabeto paragonabile a quello fenicio dove al segno
corrisponde il suono. Ogni gruppo di cunei stava qui di regola per una
lettera. Nella classe III, invece, ogni singolo segno rappresentava già una
sillaba e spesso addirittura una parola intera.
L'assiriologia apre i
battenti Ma la fortuna venne incontro agli studiosi. Infatti a Kouyunjik,
dove già Botta aveva scavato vennero trovate cento tavole di argilla in una
camera sotterranea. E queste tavole che solo più tardi vennero riconosciute
come appartenenti alla metà del secolo VII, non contenevano altro che
un prontuario di comparazione ad uso degli scolari tra i diversi valori
e significati dei singoli segni della scrittura cuneiforme in rapporto
al significato della scrittura alfabetica. Il valore di questa scoperta
era incalcolabile. Si trattava di veri e propri dizionari, divenuti
necessari per apprendere i rudimenti della scrittura cuneiforme, in un tempo
in cui la lingua aveva cominciato a semplificarsi e a modernizzarsi
evolvendosi da una scrittura figurata e sillabica alla scrittura
letterale.
A poco a poco vennero alla luce interi compendi per
principianti e per scolari più progrediti, poi dizionari nei quali il nome
"sumerico" era contrapposto al nome semitico equivalente, e finalmente
abbozzi di un' enciclopedia dove i sostantivi appartenenti a una stessa
categoria della vita quotidiana erano allineati l'uno accanto all'altro, e al
primo posto era sempre collocato il nome sumerico (conservato solo nella
pratica religiosa e giuridica del tempo) e al secondo il nome
semitico.
La "traduzione a quattro" L'incertezza legata alla
traduzione del cuneiforme fu sciolta definitivamente nel 1857 quando la
Società asiatica di Londra inviò contemporaneamente ai quattro maggiori
esperti di scrittura cuneiforme del tempo il testo di una lunga iscrizione di
Tiglat-Pileser I da poco scoperta ad Assur. Nessuno dei quattro eruditi (gli
inglesi Henry Rawlinson e Fox Talbot, il franco-tedesco Jules Oppert, e
l'irlandese Edward Hincks scopritore dei sumeri) sapeva del coinvolgimento
degli altri. Essi si misero subito al lavoro ignorandosi reciprocamente e
seguendo ciascuno un proprio metodo personale.
Il risultato, esaminato
da una commissione, fu spettacolare. Le quattro versioni concordavano tra
loro nei punti essenziali. Era la dimostrazione che l'assiro cuneiforme
seguiva precise regole linguistico-grammaticali e che poteva essere tradotto
con approccio scientifico. Era il 1857, anno di nascita ufficiale
dell'assiriologia, e già 10 anni dopo si pubblicavano le prime grammatiche
elementari di lingua assira.
I progressi degli assiriologi si univano ai
successi dell'archeologia. Dagli scavi di Khorsabad, di Ninive e Nimrod
emersero capolavori che presto raggiunsero l'Europa. Tra il 1847 e il 1851 le
esibizioni al British Museum dei capolavori assiri crearono una nuova moda
tra i londinesi (fotogr. p. 77, Bot 1994). Per esempio l'arredamento
vittoriano si arricchì di imitazioni kitsch dei bassorilievi e delle sculture
assire ad uso domestico (soprammobili, scrigni, gioielli, ecc.). E Henry
Rawlinson venne simpaticamente preso in giro da Gilbert e Sullivan
nell'operetta The Pirates of Penzance dove il suo alter-ego cantava: «posso
scrivere la lista del bucato in babilonese cuneiforme» (p. 19 McCall
95).
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Parte
del testo è direttamente ripresa dalla mia recensione al libro Gilgamesh: il
primo eroe, antiche storie della Mesopotamia, 2000 Nuove Edizioni Romane.
(torna su) Questa è una delle storie del cosiddetto ciclo di Enmerkar. Molti
dei mitici sovrani di Uruk furono protagonisti di cicli epici, da Lugalbanda
a Gilgamesh. Dagli archivi reali di Ebla, sono emerse recentemente due
copie di un inedito ciclo di Dumuzi, altro sovrano di Uruk e omonimo
della divinità della pastorizia, impegnato, come Enmerkar, nella faida con
la città di Aratta (pp. 290-291 Mat 1995). (torna su) Un noto ma
introvabile testo sull'argomento è eloquentemente intitolato: I sumeri alle
radici della storia, di Samuel Noah Kramer, 1979, Newton Compton. L'autore
passa in rassegna le diverse conquiste culturali delle città-stato sumeriche.
I capitoli del libro sottolineano fin dal titolo il ruolo di scopritori
svolto dai sumeri in ogni campo del sapere. Come "le prime scuole", "il primo
parlamento", "la prima farmacopea", "il primo ideale morale" (l'elenco
completo delle 27 priorità sumeriche è in Cer 1995, p. 305). Su Pro 1986, p.
293, è riportata integralmente l'interessante "prima esenzione fiscale".
(torna su) Il sumerico rimase fino al 2000 a.C. la lingua letteraria per
eccellenza, grazie allo zelo degli scribi che conservarono, ricopiarono,
imitarono i testi sumerici. Un po' come per il latino dal crollo di Roma fino
al Rinascimento, i testi antichi vennero ritrascritti instancabilmente.
Il motivo di tale entusiasmo era legato alla consapevolezza che, poiché
queste opere erano legate a un passato ormai lontano, fosse necessario
preservarle a qualunque costo come un'inestimabile eredità (p. 26 Bot 92).
L'età dell'oro della letteratura sumerica si ha dunque in un'epoca dove il
peso politico dei sumeri è praticamente nullo. Gli ultimi sussulti della
civiltà sumerica si hanno, dopo il crollo dell'impero accadico, tra il 2100 e
il 2000 a.C. (III dinastia di Ur). L'ultimo regno sumerico è caratterizzato
da un fortissimo rispetto delle tradizioni e dal recupero culturale
del passato. Un'epoca definita in molti libri di storia come
rinascimento sumerico. Ancora cinquecento anni dopo (epoca babilonese) un
proverbio recitava: «Uno scriba che non sa il sumerico, che scriba è?»
(riportato in Geo 1999, p. xviii). (torna su) L'identificazione di
Persepoli è dovuta al tedesco Carsten Niebuhr (1774) che, come Della Valle,
portò numerose copie di iscrizioni cuneiformi in Europa. A Persepoli,
oltre al palazzo di Dario, si trova un complesso monumentale ricchissimo di
edifici fra cui il palazzo di Serse, la Sala del Trono e l'Apadana.
Quest'ultimo, molto celebre, è uno dei due palazzi delle udienze, la cui
scalinata è arricchita da bassorilievi di selvaggia bellezza (l'intero
complesso è patrimonio dell'UNESCO dal 1979). L'Apadana risale a circa il 500
a.C. epoca delle conquiste della dinastia degli achemenidi (Ciro, Cambise e
Dario I). Sappiamo da Diodoro e Clitarco che Persepoli venne data alle fiamme
da Alessandro Magno nel 330 a.C. Nel medioevo il palazzo divenne sede di
principi dell'Islam. Poi le pecore pascolarono tra le rovine e, come il
Colosseo a Roma, servì da cava di pietre e mattoni per secoli. (torna
su) Un altro achemenide, Dario, aveva addirittura superato il
Bosforo, sottomesso la Tracia e reso stato vassallo la Macedonia. La storia
greca del sesto e quinto secolo a.C. è quindi un continuo ripetersi di
rivolte e insurrezioni contro i Persiani. Episodi famosissimi quali la
battaglia di Maratona, la battaglia delle Termopili e la battaglia di
Salamina, sono apici di questo scontro culturale. I greci, indeboliti da
fazioni interne (come nella guerra del Peloponneso fra Atene e Sparta) pur di
sventare la minaccia persiana si legheranno a Filippo il macedone. Questo
passo sancirà la fine dell'autonomia politica delle poleis
greche.
CONTAMINAZIONI Fin dalla sua scoperta nell'800, l'arte e la
cultura mesopotamica esercitarono un fascino irresistibile sull'Occidente.
Ecco un mio breve excursus sulle contaminazioni "assiro-babilonesi" nella
moda, la letteratura, il cinema, i fumetti e quant'altro.
Gilgamesh
l'immortale Gilgamesh ha stuzzicato l'immaginario collettivo con la sua
disperata ricerca del segreto dell'immortalità. Un carattere distintivo
talmente forte e caratteristico che non poteva sfuggire agli autori di
novelle d'ogni tempo. Lo scrittore Elias Canetti, premio Nobel per la
letteratura nel 1981, ricorda nella sua autobiografia (Storia di una vita
1921-1931) come da giovane venne folgorato dalla potenza arcaica di
Gilgamesh, "eroe babilonese", durante una piece dell'attore Carl Ebert in un
teatro di Francoforte. Sentite che prosa da brivido:
«Grazie
all'infatuazione per il mio attore preferito incontrai Gilgamesh, che più di
ogni altra cosa ha determinato la mia vita, il suo senso più segreto, la sua
fede, la sua forza e le sue attese. Il lamento di Gilgamesh per la morte di
Enkidu mi penetrò nel cuore. E poi viene l'impresa di Gilgamesh contro la
morte fino a quando raggiunge il suo avo Utnapishtim. Da lui Gilgamesh vuol
sapere come potrà attingere la vita eterna. Gilgamesh, è vero, fallisce e
muore. Ma proprio questo esito non fa che rafforzare il sentimento della
necessità della sua impresa. In questo modo sperimentai su me stesso l'azione
di un mito: come qualcosa su cui, durante il mezzo secolo che da allora è
trascorso, ho riflettuto in molti modi diversi, voltandolo e rivoltandolo
dentro di me, senza mai seriamente metterlo in dubbio neppure una
volta». (Elias Canetti, Il frutto del Fuoco, p. 61, Adelphi 1982)
Già
prima di Canetti, il poeta Rainer Maria Rilke nel 1916 era stato preda di una
fascinazione irreversibile ("intossicazione da Gilgamesh", p. xiii Geo 1999).
Ma Canetti subirà un'impronta profonda a livello filosofico in tutte le sue
opere (da Auto da fè al Cuore segreto dell'orologio, come mostra una recente
indagine di Fabio Brotto). Questo passo testimonia, inoltre, che oltre 70
anni fa, Gilgamesh aveva già aperto una breccia nel cuore del grande
pubblico, uscendo dalla semplice cerchia dei dibattiti degli studiosi. Il
salto nelle pagine di narrativa sarebbe stato breve.
Gilgamesh, per
esempio, è protagonista del fanta-romanzo di Wilson Tucker Signori del Tempo
(The Time Master, 1954; catalogo Urania n. 615). Qui Gilgamesh è un naufrago
dello spazio precipitato sulla Terra che, grazie a un metabolismo più lento,
riesce a vivere più a lungo degli esseri umani anche se non all'infinito.
Giunto ai giorni nostri egli assume l'identità di Gilbert Nash, professione
investigatore privato! Il passo più intrigante è quello dove il signor Nash
affascina un'agente federale sfoggiando erudizione sui sumeri al tavolo di un
ristorante. Il misterioso Nash mostra di saperla lunga sia sull'assiriologo
George Smith che sugli archeologi Henry Layard e Leonard Wooley, senza
peraltro mai nominarli. Ma ecco il punto culminante:
- Non
avete mai sentito parlare dell'epica di Gilgamesh? - Gilgamesh? - ripetè
Shirley. - No. Nash scrollò il capo con amara riprovazione. - Ah, le donne
moderne. - E va bene, ormai sono in trappola. Parlatemi dell'epica di
Gilgamesh. - [...] Il poema parla di un eroe straordinario, simile a un dio,
chiamato Gilgamesh. - Ah... - Lei lo interruppe. Aprì la bocca come per
dire qualcosa, poi cambiò idea. Adesso lo osservava attentamente. - Le
origini di quell'uomo erano ignote ed egli percorse la terra compiendo grandi
imprese. Gilgamesh era una sorta di avventuriero che visitò l'intero mondo
conosciuto a quei tempi. Compariva prima di qua poi di là, sconvolgendo
tiranni e reami. Alla fine si incontrò con un uomo preistorico dal nome
impronunciabile e... - Impronunciabile? - lo interruppe lei. -
Ut-napishtim.
A questo punto il signor Nash riferisce la storia del
diluvio così come la narrano le tavolette argillose scoperte nella biblioteca
di Assurbanipal e al termine del racconto...
...la ragazza alzò gli
occhi dal tovagliolo per guardare gli occhi di lui. Rimaneva sempre colpita,
ogni volta che li vedeva. - Vorrei farvi ancora una domanda - azzardò, dopo
un momento. - Avete già accennato all'argomento, ma poi l'avete lasciato
cadere. Nash si fermò, con la forchetta a mezz'aria. - E cioè? -
Gilgamesh, alla fine, trovò l'immortalità? Nash rimase per un secondo con la
forchetta per aria, poi lentamente infilò il boccone in bocca. Dopo una
brevissima esitazione, osservò la faccia attenta della ragazza. - Trovò quel
che cercava. Ma era troppo tardi per salvarsi la vita. (da I signori del
tempo, ed. Urania 1973 pp. 75-78, adattamento T. Porzano)
Gilbert Nash
tornerà in un altro romanzo di Tucker, L'uomo che veniva dal futuro (Time
Bomb, 1955; catalogo Urania No. 743) di qualità inferiore rispetto al
precedente. Gilgamesh è frettolosamente tirato in causa solo in due punti del
libro (p. 45 e p. 87). Ma l'evocazione dell'eroe sumerico è spogliata di
alcun intento di plausibilità al punto che il romanzo potrebbe benissimo fare
a meno del personaggio di Mr. Nash! Ugualmente curiosa è l'opinione che ha
Gilgamesh dei libri scritti su di lui:
...è tutto contento quando trova
errori nei testi scientifici e sghignazza leggendo romanzi pseudostorici dove
vive le più ridicole e incredibili avventure. (da Time Bomb, ed. Urania
1978 p. 87, adattamento T. Porzano)
Non a caso una nota antologia di
fantascienza si intitolava The Road to Science Fiction: from Gilgamesh to
Wells. La lista degli autori di "romanzi pseudostorici" che ricostruiscono
con eccesso di fantasia le peripezie di Mr. Nash annovera Robert Silverberg,
Angelo R. Mazzarese, Theodor H. Gaster, Mario Pincherle, Paola Capriolo e
chissà quanti altri ancora...
L'italiano Cesare Ossicini ha immaginato e
messo sul Web una meravigliosa serie di racconti filosofici con Gilgamesh
protagonista. La semplicità dello stile e la solenne brevità producono uno
stato di magica sospensione. L'indagine filosofica di Ossicini si sviluppa
prima nei dialoghi tra un dio e un semidio (Utnapishtim e Gilgamesh) e poi
nei "dialoghi tra un semidio e un uomo" (Gilgamesh e Siddharta, Gilgamesh e
Che Guevara, ecc.).
Negli anni '80 lo sceneggiatore paraguaiano Robin
Wood creò per il fumetto un Gilgamesh che finalmente ottiene l'immortalità,
dopo aver soccorso l' alieno Utnapistim precipitato sulla terra. Questa
versione "apocrifa", magistralmente disegnata dall'argentino Lucho Olivera in
stato di grazia, segna la storia del fumetto. Ancora oggi non si contano le
ristampe di questa lunghissima saga a fumetti (in Italia edita dalla Eura
Editoriale). Wood immagina che la vita eterna di Gilgamesh sia vissuta dai
sudditi di Uruk come in uno stato di oppressione. Tutti i vantaggi che essa
potrebbe portare sono vanificati dal pregiudizio. Solo immaginando che il
loro sovrano sia morto, gli abitanti di Uruk si sentono liberi dal giogo
e riprendono a vivere serenamente. Ma Gilgamesh non può morire e
abbandona Uruk per vivere avventure in tutte le epoche come un highlander
ante litteram.
Gilgamesh ha ispirato anche l'immaginazione di
Ludmila Zeman, scrittrice per l'infanzia e ottima illustratrice purtroppo mai
apparsa in Italia. Ecco alcuni dei suoi titoli più famosi: Gilgamesh the King
(1999), The last Quest of Gilgamesh (1998), The revenge of Isthar (1998).
Tutti i titoli sono editi dalla Tundra Books.
Magari vi chiederete
perché non ho ancora parlato del Gilgamesh di Franco Battiato (1992).
Personalmente trovo molto noiosa quest'opera più portata al misticismo che
all'indagine filosofica. Ugualmente contiene brani meritevoli fra cui "Il
diluvio" e "Solo". Una migliore versione in musica di Gilgamesh è l'oratorio
Epos O Gilgamesovi (1955) del ceco Bohuslav Martinu, meno reperibile nei
negozi di dischi rispetto al lavoro di Battiato. Un Gilgamesh atipico ed
idolatra è invece quello portato sulle scene dall'autore/regista Romeo
Castellucci.
Infine non è per censura che taccio in questa sede i
risvolti omofiliaci del personaggio poiché sono già stati affrontati in una
mia nota all'analisi comparata Gilgamesh-Iliade.
La moda "assira"
nella Londra vittoriana Tra il 1847 e il 1851 le esibizioni al British Museum
dei capolavori assiri scoperti dalle missioni inglesi a Calah e Ninive
crearono una nuova moda "assira" tra i londinesi. L'arredamento vittoriano si
arricchì d'imitazioni kitsch dei bassorilievi e delle sculture assire ad uso
domestico (soprammobili, scrigni, gioielli, ecc.). La ditta Henry Wilkinson
& Co. produceva mediante galvanotecnica coppe da vino che recavano
incisioni di tori con testa umana e re assiri. Il toro e il leone alato
divennero figure architettoniche molto comuni in Inghilterra e in Francia. Un
«toro alato di Ninive» fece anche la sua comparsa in una canzone
popolare.
Il libro di Henry Layard dedicato ai suoi scavi a Ninive (1849)
vendette quanto un best-seller il che, secondo il suo stesso autore, «lo
metteva alla pari del testo di cucina di Mrs. Rundell» (p. 16 McCall
95). Persino Henry Rawlinson, traduttore delle iscrizioni di Behistun,
fu simpaticamente preso in giro da Gilbert e Sullivan nell'operetta The
Pirates of Penzance dove un suo alter-ego cantava: «posso scrivere la lista
del bucato in babilonese cuneiforme».
Assurbanipal il "crudele" Su
Assurbanipal e il crollo dell'impero assiro molti scrittori
hanno inevitabilmente ricamato le loro opere, spesso con fantasia
spregiudicata. L'ambientazione suggestionò la stessa Agatha Christie,
moglie dell'archeologo Max Mallowan che nel 1950 ca. lavorò ad Nimrud. Robert
E. Howard, creatore del personaggio heroic fantasy Conan il cimmero,
scrisse intorno al 1930 un racconto dal titolo Il Fuoco di Assurbanipal (lo
trovate nel V volume dei Cicli fantastici di Howard, ediz. Newton Compton
1995, pp. 197-215).
Qui si narra come Assurbanipal conquistò il mondo
antico grazie all'aiuto di un mago e della sua gemma scolpita dalle fiamme
dell'inferno (sic!). Naturalmente la gemma attira un'orrenda maledizione su
Assurbanipal e, trascorsi i millenni, addosso ai cacciatori di tesori sulle
tracce dell' inestimabile gioiello. Ecco dal racconto, la fantasiosa
descrizione della città assira sepolta dalle sabbie del deserto e tomba del
"crudele" sovrano:
«I tori alati di Ninive! I tori con testa umana! Per
tutti i santi, le vecchie leggende sono vere! Sono stati gli assiri a
costruire questa città! È tutto vero! Devono essere giunti qui quando i
babilonesi hanno devastato l 'Assiria. Avanzarono per l'ampia via. Steve
percepiva la lugubre antichità di quel luogo e quasi temeva di veder
comparire fragorosi carri da guerra o di udire l'improvviso squillo
minaccioso di trombe bronzee. I costruttori della città dovevano essere di
tutt'altro stampo rispetto alle genti odierne. La loro architettura era
repellente: poderosa, e tuttavia così massiccia, tetra e brutale da apparire
addirittura incomprensibile per i contemporanei». [ibid pp.
202-204].
L'illustrazione sottostante è tratta dall'adattamento Marvel a
fumetti di questo racconto.
© Editoriale Corno,
1981 Un'immagine più rassicurante di Assurbanipal è data da Robin Wood che lo
fa incontrare addirittura con Gilgamesh nella saga a fumetti omonima
(ne abbiamo già parlato). L'incontro è, per noi lettori moderni, di
sapore surreale dato che le storie di Gilgamesh hanno riposato per millenni
sotto la sabbia tra le rovine della biblioteca di Assurbanipal a
Ninive. Assurbanipal appare a Gilgamesh come un pensatore a capo di un
governo assassino, un uomo debole, non tagliato per l'esercizio del potere ma
per le lettere. Una visione riveduta del più sanguinario tra i sovrani assiri
ma di enorme suggestione.
© Eura Editoriale, 1991 Riparliamo di
Robert E. Howard che aveva una sincera predilezione per l'epica e la storia
mesopotamica. Nel racconto intitolato I figli di Asshur (pubblicato postumo
nel 1968 e che trovate nel IV volume dei Cicli fantastici di Howard, ediz.
Newton Compton 1995, pp. 228-253) lo spadaccino puritano Solomon Kane trova
sugli altopiani del Nord Africa la città perduta di Ninn (Nuova Ninive?).
Sovrano della rocca è Asshur-ras-Arab (sic!), suo antagonista Yamen il
persiano. Solomon si troverà coinvolto nella lotta di potere che vede
opposte fazioni gli assiri (che parlano bantu!), gli elamiti e i Kaldii
(caldei?). Sotto il tempio di Baal si consumerà il bagno di sangue finale per
assicurarsi il dominio dell'ultimo impero assiro. Ahimè in questi frangenti
perirà la bella Siduri (la taverniera di Shamash, ricordate?) compagna di
Solomon. Ma il puritano al termine dell'avventurà si sveglierà come da un
brutto sogno nell'altopiano deserto.
Il demonio a Ninive! Proseguendo
in questa divagazione passiamo dal fantasy al puro horror. William Peter
Blatty ha terrorizzato milioni di lettori con il best-seller L'Esorcista
(1971). Nella finzione, lo scontro col maligno inizia proprio nella reggia di
Assurbanipal:
«Padre Lancaster Merrin era arrivato: si trovava sul
terrapieno dove un tempo splendeva Ninive dalle sette porte, covo
terrificante delle orde assire. Ora la città giaceva frantumata nella polvere
insanguinata della sua predestinazione. Il gesuita si aggirò tra le rovine
come in cerca di una preda. Il tempio di Nabu. Il tempio di Ishtar. Vagliava
le vibrazioni che gravavano nell'aria. Giunto al palazzo di Assurbanipal si
fermò e guardò in tralice una statua di pietra calcarea che si ergeva
sgraziata: il demone Pazuzu...». (da L'esorcista, p. 15 ed. Mondadori
1986, adattamento T. Porzano)
Dal libro di Blatty il regista William
Friedkin ricavò nel 1974 un celeberrimo adattamento cinematografico. Il
prologo del film è appunto ambientato in Iraq, al campo archeologico di
Ninive:
Un dubbio mi assale: ma non era Tebe la città dalle sette
porte?
Nergal e il pulp E' davvero curioso come la mitologia
mesopotamica sia divenuta fonte inesauribile di nomi e fatti per il genere
pulp. Si pensi solo alla migliore invenzione di Lovecraft: il Necronomicon,
spunto per un'infinità di storie e film horror. Ma è Nergal, signore
dell'ade, che più di ogni altro dio mesopotamico ha fatto furore nella
letteratura popolare. A tal proposito ricordo con piacere il racconto La mano
di Nergal di Lin Carter su materiale di Robert E. Howard (in Conan il
Cimmero, editrice Nord 1989, p. 85-102). In questa fosca storia sword &
sorcery Conan il barbaro deve spaccare molti crani prima di impossessarsi
dell'amuleto del dio... Mi chiedo se l'allusione alla «la mano di Ishtar»,
sinonimo di sventura secondo il Libro dei Sogni assiro, sia voluta o casuale.
L'illustrazione sottostante è tratta dall'ennesimo adattamento
Marvel:
In una altra celebre finzione fantasy, il dio Nergal è oggetto
di venerazione dei troll in una guerra di religione contro gli uomini
che adorano Tammuz (lo ricordate? è la versione accadica di Dumuzi). Con
ironica e disincantata allusione alle discordie del presente l'estroso Frank
Thorne, nella saga a fumetti Ghita di Alizarr (stampata in Italia dalla
Editrice Nord, 1981) narra del culto di Nergal nel mondo
"antidiluviano":
«Dilagano in città le schiere troll. Le truppe umane
sconfitte dai servi di Nergal fuggono verso i monti. I cittadini inermi, se
scampano allo sterminio, vedono le case incendiate, le donne violentate. La
foresta dei simulacri di Tammuz è abbattuta! Presto li sostituirà Nergal, dio
dei troll, e una nuova foresta di idoli verrà adorata. Così capita alle dee e
agli dei antidiluviani. Tanti saluti e buon viaggio Tammuz. Ma rimanga il
tuo spirito, poco lontano dalle tue città. L'immagine di Nergal, l'essere
anormale, gonfio e tozzo dio dei Troll, lampeggia nella mente di Ghita. "La
deità più orrenda dopo Baal. Ma Tammuz o Nergal che differenza fa?" sbuffa.
"Qua come là, i sacerdoti sono sempre i maiali più ricchi e più grassi"»
(ibid pp. 3, 17. Adattamento T. Porzano).
Il fascino di Ishtar L.
Sprague de Camp nel suo dizionario dei Nomi Hyboriani (appendice al volume
Conan il barbaro, AA.VV. Mondadori 1980) annota che Ishtar è una dea shemita
pure adorata nelle nazioni hyboriane (sic!). Ricordo che effettivamente
Ishtar è la dea di maggior successo in Mesopotamia che travalica differenze
culturali e riassume in sé prerogative divine femminili da numerosi culti. Il
sincretismo tra credenze immaginarie è proposto con somma plausibilità in
Colosso Nero (1937) di Robert E. Howard. Da questo racconto sword &
sorcery (pp. 135-187, L'era di Conan, Mondadori 1989) leggiamo questo passo
sulla dea Ishtar:
«Principessa, l'incantesimo che i sacerdoti di Ishtar
ti hanno dato è inutile, quindi non ti resta che consultare il perduto
oracolo di Mitra» Yasmela rabbrividì. Gli dèi di ieri erano diventati i
demoni di domani e i kothiani avevano abbandonato da tempo il culto di Mitra,
dimenticando gli attributi della divinità universale iboriana. Yasmela aveva
la vaga sensazione che, essendo molto antico, il dio fosse per ciò stesso
terribile. Ishtar, d'altro canto, era paurosa come le altre dee della
religione kothiana, perché la cultura del paese aveva subito la sottile
contaminazione di elementi shemiti e stigiani: i semplici costumi degli
iboriani erano stati profondamente modificati dalle sensuali, lubriche,
dispotiche abitudini dell'oriente. «E Mitra mi aiuterà? In fondo adoriamo
Ishtar da tanto tempo...» (ibid. p. 146)
Lo scontro tra divinità è una
fissa dei narratori. Dopo quello tra Nergal e Tammuz, e quello tra Mitra e
Ishtar, mi piace ricordare quello tra Bel-Marduk (sic!) e Ishtar ("dea della
gioia"). Teatro dell'azione è la Babilonia di Intolerance (1916) del noto
regista-pioniere D.W. Griffith. Un film da non perdere (la cassetta si trova
in molte videoteche) per la smisurata messa in scena. La capitale babilonese
pare Metropolis con torri degne della skyline di Chicago, mura di cartapesta
e abbondanza di decorazioni egizie e assire!
Arriva il toro del
cielo Splendide ed evidentissime contaminazioni letterarie del Toro
Celeste, emissario del dio del cielo An nella celebre tav. VI dell'Epopea
di Gilgamesh, sono rintracciabili nel racconto Intrusi a palazzo di Robert
E. Howard (incluso nella raccolta Conan il Cimmero, editrice Nord 1989,
p. 65-84). Dall'adattamento Marvel a fumetti, splendidamente disegnato da
Barry Smith, ho tratto l'illustrazione che qui potete ammirare.
La
caduta di Babilonia Babilonia è rappresentata in modo irresistibile nella
Bibbia. Ricordo ad esempio il lirismo del Salmo 137 (i famosi salici
quasimodiani), le beffarde profezie di Isaia ("ti salvino ora i tuoi magi,
impegnati a contemplar le stelle!"), e naturalmente la coloratissima visione
dell'Apocalisse di San Giovanni (la Grande meretrice che fornica coi i re
della terra, seduta sopra una fiera scarlatta piena di nomi di bestemmia,
avente sette teste e dieci corna. Sulla sua fronte un mistero: "Babilonia, la
grande").
Essa costituisce dunque lo scenario ideale per storie ricche di
catastrofi, lussuria ed enigmi. Ecco pochi esempi per suggerirvi quale
fascino abbia esercitato l'esotismo scintillante di Babilonia
sull'immaginario di ieri e di oggi.
Senza scomodare le Storie di
Erodoto (pratica ormai abusata), possiamo subito rivolgerci ai tragediografi
greci, per cogliere le prime "suggestioni babilonesi". Cominciamo con il
prediletto Euripide. Il prologo dionisiaco delle Baccanti dispiega
nell'immaginazione dello spettatore gli orizzonti cangianti
dell'Oriente:
Dioniso: «Ho percorso i campi dalle infinite ricchezze dei
Lidi e dei Frigi, ho attraversato le pianure di Persia sferzate dal
sole, le rocche della Battriana, e la terra tempestosa dei Medi, e
l'Arabia Felice, e tutta l'Asia che si estende di fronte all'acqua salsa del
mare, dove si ergono maestose di torri le città in cui barbari e Greci si
confondono». (Euripide, Baccanti, vv. 13-18, traduz. Giorgio Ieranò,
Mondadori 1999)
Nulla sfugge alla suggestione. Dai regni costieri
dell'Asia Minore (Lidia e Frigia) all'Anatolia (Asia), dalla Mesopotamia e
oltre (Persia, Media Bactriana = Afghanistan) allo Yemen (Arabia Fenice). E
più avanti la parodo delle baccanti orientali prorompe:
«Io vengo
dalla terra d'Asia lasciato il sacro Tmolo accorro per Bromio (=Dioniso) a
un dolce tormento». (Euripide, Baccanti, vv. 64-66, traduz. Giorgio Ieranò,
Mondadori 1999)
Il monte Tmolo riecheggia nei Persiani portati in scena
ad Atene nel 472 a.C. Il soggetto di questa tragedia di Eschilo era, per
l'epoca, d'attualità. Greci e persiani si erano infatti affrontati pochi anni
prima a Salamina. La minaccia dall'Oriente è magnificamente evocata nei versi
che seguono:
Gli abitanti del sacro Tmolo hanno giurato di
aggiogare la Grecia, di farla schiava. E Babilonia ricchissima fa
avanzare in lunga fila una schiera confusa: guerrieri che affollano le
navi o che confidano nella forza dell'arco che si tende. E tutte le stirpi
dell'Asia si accodano con la spada sguainata, spronate dai vigorosi comandi
di Serse. (Eschilo, Persiani, vv. 49-58, traduz. Giorgio Ieranò, Mondadori
1997. Adatt. T. Porzano)
Ma le cose si metteranno male per i
persiani... La parabola della fragilità del potere si era già proposta un
secolo prima quando l'antenato di Serse, Ciro, strappò Babilonia all'ultimo
re caldeo Baltazar (discendente del famoso Nabucodonosor). Se ricordo bene,
il sogno di Baltazar che preannuncia al velleitario sovrano la perdita di
Babilonia è descritta nel libro di Daniele (in realtà la Bibbia confonde
Baltazar con Nabonedo, ma non sottilizziamo). Questa sarà riproposta a teatro
da Calderòn de la Barca e Goethe, in pittura da Rembrandt, in musica da
Haendel e Sibelius, solo per citarne alcuni.
Celebre è la visione di
S. Agostino ne De Civitate Dei. Babilonia è la città terrena contrapposta
alla città celeste. Essa poggia sull'amore egoistico, opposta alla città
celeste poggiata sull'amore di Dio. Babilonia è insomma toponimo di male e di
confusione per tutto il medioevo e i suoi sovrani sono demoni o pazzi. Nel
Paradiso di Dante e anche nell'Orlando Furioso di Ariosto, il più grande dei
sovrani di Babilonia, Nabucodonosor, è ricordato come il folle che muove la
sua ira contro Daniele. Dante insulta i fiorentini chiamandoli "novelli
babilonesi".
Ritroviamo Nabucodonosor protagonista del Nabucco (1842) di
Giuseppe Verdi. Il celeberrimo coro 'Va pensiero', ispirato al citato Salmo
137, esprime il dolore dell'esule popolo ebraico e l'acredine verso il
dominatore caldeo. Molto buffa, se vogliamo, è la conclusione dell'opera di
Verdi dove Nabucodonosor 'rinsavito' fa infrangere la statua di Belo (Marduk)
e libera gli ebrei unendosi a loro festanti la gloria di Yehova! La
reinterpretazione del giovane Verdi (su libretto di Solera) rivela
l'interesse verso temi patriottici, all'epoca particolarmente sentiti,
attraverso rivisitazioni del passato (come già nei Lombardi alla prima
crociata, con stesso librettista).
Facciamo un salto di duemila anni per
ritrovare Babilonia archetipo di civiltà, lusso, progresso e inevitabile
declino. L'energica Berlino pre-hitleriana è vissuta dall'anti-eroe Franz
Biberkopf come una Babilonia prossima alla catastrofe:
Con gli occhi
scintillanti il vecchio rabbino guardò lo straniero [Franz]. Disse Geremia,
noi vogliamo salvare Babilonia, ma Babilonia non voleva essere salvata.
Abbandonatela e ognuno di noi ritornerà alla sua casa. La spada scenda sui
Caldei, sugli abitanti di Babilonia. Il vecchio uscì senza dire più una
parola. (da Berlin Alexanderplatz, Alfred Döblin, ed. Rizzoli 1995, p.
25)
Ho prima accennato alla Babilonia di D.W. Griffith (Intolerance,
1916). La sua fu forse la rappresentazione migliore di cosa divenne, di lì a
pochi anni, la mecca del cinema nell'immaginario collettivo.
L'appellativo Hollywood Babilonia, fu coniato dal giornalista Kenneth Anger
per descrivere lo stato di corruzione e immoralità dell'ambiente
cinematografico americano. Il periodo di massima sregolatezza si ebbe appunto
negli anni '20 dove una sequela vertiginosa di scandali (il caso 'Fatty' ne
fu l'apice) condusse l'America puritana a darsi un codice di
autoregolamentazione (o meglio autocensura), il celeberrimo Codice
Hays.
Babilonia, nel cinema come nei libri. L'arcipelago letterario di
Abarat immaginato da Clive Barker (HarperCollinsPublishers 2002) è un luogo
magico dove ogni ora del giorno corrisponde ad un'isola. L'ora sesta coicide
con l'isola di Babilonium, dove è possibile incontrare una moltitudine
di artisti (mimi, musici, maghi) e attraversare luoghi di piacere
(arene, ippodromi). Ma per arrivare a Babilonium dovrete prima incrociare la
grande Ziggurat di Noè di Soma Plume (sic!).
"Ziggurat", a Babilonia
sinonimo di Esagil (ovvero la torre di Babele), è - guarda un po' - il
grattacielo sede del partito di Marduk (dio di Babilonia...) nell'affresco
animato Metropolis (regia di Rintaro, 2002). E "marduk" è il nome dato ai
funzionari super-armati pronti a farvi fuori se vi intercettano nel
coprifuoco vigente in città. Il monito contro il totalitarismo
ipertecnologico è allegoricamente rappresentato nel crollo finale della
Ziggurat, che ricalca in modo agghiacciante quello del WTC dell'11 Settembre,
mentre placidamente suona una ballata di Ray Charles.
Ma tutto era già
stato previsto dalla sconfinata fantasia di Georges I. Gurdjieff nel quinto
viaggio di Belzebù sulla Terra! E' in quell'occasione che Belzebù ode
l'anatema dell'assiro Hamolinadir contro la torre di Babele, simbolo della
follia umana:
«Noi innalziamo in questo momento qui, nella città di
Babilonia, una 'torre di Babele' internazionale, con la speranza di salire
fino al cielo e vedere coi nostri propri occhi che cosa capita lassù. E' una
torre composta da mattoni di aspetto simile in apparenza ma fatti in realtà
dei materiali più vari. Fra questi mattoni ce ne sono di ferro, di legno,
di 'pasta', e ce ne sono persino di 'piuma'. Ebbene [...] qualsiasi uomo più
o meno cosciente deve ammettere che prima o poi la torre crollerà e
schiaccerà non solo tutti gli abitanti della città, ma tutto quello ch'essa
contiene. Quanto a me, io voglio ancora vivere; non voglio finir schiacciato
dalla torre e me ne vado al più presto. Voialtri fate come vi pare!» (da I
racconti di Belzebù a suo nipote, Neri Pozza Editore, 1999,
pp. 290-291)
Chissà se anche Babylon 5, sorta di la base spaziale
delle Nazioni Unite ipergalattiche, collasserà su sé stessa nell'ultimo
episodio, non ancora uscito, della omonima serie televisiva di fantascienza.
Il pubblico americano va pazzo per questi affreschi pieni di alieni in doppio
petto. La cosa più divertente della serie di Babylon 5, sfacciatamente
ispirata al Deep Space 9 di Star Trek, sono i nomi dei personaggi. Uno fra
tutti: Garibaldi...
Ma concludo osservando che l'esotismo multietnico
di Babilonia, più che la sua depravazione, pare tornato in auge nelle
contaminazioni. Si pensi ai recenti film Matrix dove la navicella degli
artefici della resistenza contro le macchine si chiama Nab ovvero
Nabucodonosor (e l'ammiraglia si chiamava Ninive!). Un omaggio, forse
involontario, al vero spirito libertario, esploratore ed innovatore della
civiltà babilonese.
Ringrazio sentitamente Luigi R., Cesare O., Mauro B.,
Stefano C. e Vittorio A. senza i quali questo articolo sarebbe stato molto
più breve e meno interessante.
GUIDA A ISRAELE Lo scenario
biblico La Bibbia, dall'illuminismo fino alla prima metà dell'Ottocento,
fu considerata dagli studiosi come una raccolta di leggende. Molte di
queste riguardavano popoli e regni mesopotamici. Ecco qualche esempio:
gli spregiudicati mercanti di Babilonia e Ninive, il carattere sanguinario
dei sovrani assiri (Tiglat-Pileser, Salmanassar, Sennacherib, Nabucodonosor),
la torre di Babele, lo splendore dei giardini pensili di Babilonia, le
opere monumentali di Semiramide e Nitocris, i settanta anni di cattività
degli ebrei, i poteri magici degli indovini babilonesi, la vendetta di Dio
sulla "grande meretrice", la sua collera che sette angeli versarono sulle
terre dell'Eufrate, le terrificanti visioni dei profeti Isaia e Geremia
che descrissero la distruzione di Babilona il "più bello dei regni",
la magnificenza di Ur dei Caldei travolta come Sodoma e Gomorra (Cer 95,
McCall 95). Grazie alle scoperte dell'archeologia orientale e
dell'assiriologia a cavallo tra '800 e '900, si capì che nella Bibbia era
rintracciabile un solido nucleo di fatti storici.
I
patriarchi La Genesi racconta di come Abramo, primo "patriarca", partì da Ur,
nella Bassa Mesopotamia, fino a raggiungere la Terra di Canaan per qui
stabilirsi con la sua tribù. Per la precisione leggiamo che
«Terach
prese Abramo, suo figlio, e Lot, figlio di Aron, cioè figlio di suo figlio, e
Sara sua nuora, moglie di Abramo, suo figlio e con loro partì da Ur dei
Caldei per andare nel paese di Canaan. Giunti a Harran vi presero dimora.
Terach morì in Harran...» (Genesi, XI, 31-32, in GEN 2000, p.
27)
Harran (o Charan), crocevia commerciale posto alla congiunzione tra
Siria e Mesopotamia, era, insieme a Ur, centro supremo del culto di Sin, il
dio Luna. Sin era ritenuto dai sumeri (presso i quali si chiamava Nanna)
capo supremo degli dei, più tardi sostituito nei culti mesopotamici da
triadi divine. La tendenza a un primitivo monoteismo nella vita religiosa di
Harran può forse avere avuto influenza sulle azioni successive di Abramo
(1)
«E Abramo se ne partì come gli aveva detto il Signore, e Lot con lui.
Abramo aveva 75 anni quando partì da Harran, e prese con sè sua moglie Sara,
e Lot, figlio di suo fratello, e tutte le sostanze che possedevano e i
servi acquistati in Harran, e partirono per andare nella terran di
Canaan.» (Genesi, XII, 4-5, in GEN 2000, p. 27)
La Terra di Canaan
era così chiamata perché i Cananei furono tra le prime etnie semitiche che vi
si stanziarono. Questa regione comprendeva gli altopiani e le colline che, a
sud della Fenicia, digradano a ovest verso il Mediterraneo e a est dominano
la depressione formata dal lago di Tiberiade, dal fiume Giordano e dal Mar
Morto. Essa è nota anche col termine greco Palestina derivante dal nome del
popolo stabilitosi lungo la costa mediterranea, i Filistei (p. 98 Pro
1986).
Cananei, moabiti, aramei, amaleciti, madianiti, ebrei... (2)
erano popolazioni semitiche (quindi appartenenti allo stesso ceppo
linguistico) che praticavano in antichità il seminomadismo e presso le quali
vigeva un regime patriarcale.
Che cos'era dunque il patriarca? Il più
anziano o il più autorevole dei capifamiglia e dei capitribù, che esercitava
la suprema autorità religiosa, civile e militare (p. 3 Fir 1999) sull'intera
comunità. Primio patriarca dell'etnia ebraica di cui si abbia notizia è
quindi Abramo, figlio di Terach. Successore di Abramo sarà il figlio Isacco
e, dopo di questo, Giacobbe.
Il terzo patriarca, Giacobbe, fu detto
anche Israele e i suoi dodici figli (Giuseppe, Levi, Beniamino, Giuda, Ruben,
ecc.) furono assunti come capostipiti delle dodici tribù in cui il popolo di
Israele era suddiviso.
Al racconto biblico sui patriarchi, passato
attraverso una lunga trasmissione orale, non si può certo richiedere la
completezza e la coerenza di una relazione storica. Tuttavia i fatti si
possono iscrivere in una situazione generale della periferia del mondo
mesopotamico tra la fine della III dinastia di Ur e il regno di Hammurabi
(2000-1700 a.C.) quale risulta dai documenti cuneiformi, in particolare dagli
archivi di Mari (città dell'Eufrate siriano e grande potenza fino all'epoca
di Hammurabi), in cui si parla spesso degli spostamenti delle tribù nomadi
amorrite e si citano nomi personali ed etnici confrontabili con quelli che
troviamo nella Genesi.
Per esempio, un documento dalla biblioteca di Mari
parla esplicitamente di una delle tribù d'Israele. Un alto funzionario chiede
a Zimri-Lim sovrano di Mari (sec. XVIII a.C.) se ci si debba fidare o meno
dei Benianimiti:
«I capi dei Benianimiti e le loro genti sono amici
delle genti di Zimri-Lim?» (riportato in Sap 1996 p. 101)
L'autore
della Torah Ai tempi di Giacobbe una tremenda carestia spinse il patriarca e
la sua gente a riparare in Egitto, dove gli ebrei ricevettero in assegnazione
un territorio, si moltiplicarono, godendo per generazioni di
notevole prosperità grazie al favore dei faraoni (esemplare la scalata al
potere di Giuseppe). Ma quest'ultimo elemento di sicurezza a un certo punto
viene meno: gli ebrei furono costretti a prestazioni di lavoro
coatto, assoggettati ad altre vessazioni, in una parola
asserviti.
Secondo la Bibbia, sorse allora tra gli Ebrei un capo
carismatico, Mosè, che li liberò dalla servitù e guidò il loro esodo (="
uscita ") fuori dell' Egitto. Ovvero: approfittando del periodo di
instabilità politica del governo centrale egizio, causata dalla minaccia
degli Hyksos, gli ebrei ritornarono nella terra d'origine.
La marcia
degli Ebrei verso la Terra Promessa durò, secondo la tradizione, 40 anni.
Traduzione: dopo circa mezzo secolo di vita nomade nella penisola del Sinai
(3) gli ebrei vennero a stanziarsi nuovamente nella terra di Canaan (XIII
secolo a.C.) .
Iniziò così una lunga fase storica, caratterizzata da
attriti incessanti per la conquista del territorio con le popolazioni cananee
che non avevano abbandonato la regione o con alcuni "popoli del mare" (ovvero
i filistei) stanziatesi nel frattempo.
Progressivamente gli ebrei
consolidarono una rispettabile potenza regionale che permise loro di
conservare indipendenza politica, tradizioni culturali e costumi religiosi
condensati nella Torah.
A Mosè la tradizione sinagogale e paleocristiana
attribuì la paternità dei primi cinque libri della Torah, ossia del
Pentateuco. Vedremo più avanti come questa credenza sia stata superata
dall'ipotesi documentaria.
I giudici Gli Ebrei, trasformatisi da
pastori in agricoltori, mantennero tuttavia a lungo le loro strutture
politiche su base tribale. La lega delle 12 tribù era incentrata su un
santuario federale presso il quale si discutevano periodicamente i problemi
riguardanti l'intera comunità. Non era quindi ammesso l'istituto monarchico,
in quanto per antico precetto, si riteneva che solo Dio potesse essere re del
suo popolo. Solo in casi di emergenza il comando di tutto il popolo veniva
assunto da un giudice.
Gli screzi sempre più violenti con le popolazioni
confinanti convinsero tuttavia gli ebrei della necessità di un baluardo di
difesa contro le minacce esterne e di un comando unificato
permanente.
La monarchia Tale trasformazione politica così rilevante
non poteva che avvenire col consenso divino e, infatti, la Bibbia narra come
Dio inviò l'ultimo dei giudici, Samuele, a "ungere", ossia consacrare re di
Israele, Saul, della tribù di Beniamino.
Saul (1020-1000 a.C.)
combatté a lungo contro i Filistei, ma sarà David, suo successore, a
sconfiggerli e a strappare ai Cananei una delle loro ultime roccaforti,
Gerusalemme, che diverrà capitale del regno. Il primo tempio di Gerusalemme
verrà edificato sotto Salomone (970-930 a.C. ca.), figlio di David. Il regno
di Salomone fu essenzialmente pacifico e volto al consolidamento dei
territori e dell'economia del paese. La fama della potenza del nuovo regno
travalicò i confini della regione, estendendosi a terre lontane: l'esempio
più noto è la visita resa a Salomone dalla regina di Saba, una regione
dell'Arabia sud-occidentale corrispondente all'attuale Yemen.
I
profeti Alla morte di Salomone prevalsero le forze centrifughe tribali e lo
stato si scisse in due regni di debole struttura: Israele a nord, formato da
dieci tribù e con capitale prima a Sichem poi a Samaria, e Giuda a sud,
formato dalle tribù di Giuda e Beniamino, con capitale Gerusalemme. Quelle
che ora emergono non sono le figure di monarchi o di condottieri, ma dei
profeti.
L'azione del profetismo e il consenso che raccoglie si spiegano
solo in una società dalle strutture poco rigide, con un'autorità civile priva
di efficaci strumenti coercitivi. Così Elia, Eliseo, Amos, Isaia
(secoli IX-VIII a.C.), più tardi Geremia ed Ezechiele (secoli VII-VI) si
scagliano contro i re e contro il popolo, corrotti dai costumi idolatri,
sforzandosi di restaurare nella sua purezza la tradizione mosaica, che essi
stessi contribuiscono a definire, e annunciando l'incombente castigo
divino.
Una delle vicende più drammatiche e appassionanti di questo
periodo è il colpo di stato di Iehu (ca. 840 a.C.). Unto dal profeta Eliseo,
Iehu soppresse la dinastia di Acab, ristabilendo il culto di Iahvè (II Re
9, 1-37). La "purga" di Iehu travolse Ioram, re di Israele, che tante
energie aveva speso nella difesa da Hazael re del confinante Aram, e Acazia,
nipote di Ioram e re di Giuda. Inutile ricordare che il colpo di stato di
Iehu provocò un forte indebolimento politico di entrambi i regni.
La
dominazione assira Non è un caso che Iehu, padrone in casa, fosse inerme di
fronte al colosso assiro che impose pesanti dazi agli ebrei. Nel celeberrimo
obelisco nero di Salmanassar III, conservato al British Museum, ci sono
cinque registri scolpiti, rappresentanti il tributo al monarca assiro da
differenti paesi. Apposta al secondo registro vi è un'iscrizione che
suona:
«Tributo di Jehu, figlio di Omri, io ho ricevuto».
George
Smith, primo interprete della saga di Gilgamesh, dimostrò che questo Jehu era
proprio lo Iehu della Bibbia. Infatti, nella Collezione Kouyunjik, egli
scoprì un altro documento, col resoconto della guerra fra Assiria e Siria
(ovvero l'Aram, confinante col regno di Israele, e terra degli aramei) che
confermava i tributi di Hazael e Iehu ricevuti da Salmanassar III (858-824
a.C.) nel diciottesimo anno del suo regno.
Quali erano i tributi di
Israele al sovrano di Assiria? Sono elencati nell' iscrizione dell'obelisco
nero: oro, argento, oggetti preziosi, stagno e armi. La debolezza politica
della nazione ebraica coincise con l'affermarsi della monarchia assira. Dal
IX sec. a.C. si può seguire parallelamente il corso degli avvenimenti sui
libri biblici e sugli annali epigrafici assiri. Naturalmente se il racconto
biblico illustra soprattutto le vicende interne dello stato, gli annali
assiri sono intesi per celebrare le glorie di Assur.
Cosa avveniva quando
il regno di Israele non poteva (o non voleva) pagare i tributi? La minaccia
assira si tramutava in aggressione militare. Molti furono i sovrani assiri a
condurre spedizioni punitive nella terra di Canaan. Più esposto a nord e
vulnerabile attraverso la Siria, il regno di Israele ricevette per primo
l'onda delle invasioni, come narra un celebre passo dall'Antico Testamento. I
personaggi che vi compaiono, Osea e Salmanassar V, sono i rispettivi
discendenti di Iehu e Salmanassar III:
«Nel dodicesimo anno di Acaz, re
di Giuda, divenne re in Samaria, su Israele Osea, figlio di Ela. Regnò nove
anni. Fece ciò che è male agli occhi del Signore, ma non come i re di Israele
suoi predecessori. Contro di lui marciò Salmanassar, re di Assiria; Osea
divenne suo servo e gli pagò un tributo. Ma il re di Assiria scoprì una
congiura di Osea che gli aveva inviato messaggi a So, re d'Egitto, e non
spediva più il tributo al re d'Assiria come faceva prima annualmente. Perciò
il re di Assiria lo fece imprigionare e lo chiuse in carcere.» (II Re 17,
1-12)
E il regno di Giuda? Un po' a spese del regno di Israele e un po'
attraverso una buona politica di alleanze riuscì a sopravvivere al giogo
assiro. Ricordiamo Acaz, undicesimo re di Giuda secondo una linea
dinastica ininterrotta dai tempi di Salomone. Egli riuscì a salvare il
regno dall'attacco concertato dei sovrani di Israele e di Aram che si erano
nel frattempo alleati. Stretta Gerusalemme d'assedio, Acaz chiese aiuto al
sovrano assiro di turno, Tiglat-Pileser III, promettendogli fedeltà se lo
avesse aiutato contro gli assalitori. Tiglat-Pileser, persuaso dall'oro e
dall'argento che accompagnavano la richiesta, percorse in lungo e in largo la
regione siro-palestinese, riservando a Damasco, capitale di Aram, e Samaria
il solito trattamento a base di sangue e deportazione.
Fu così che,
sia a causa della perdita di buona parte del suo territorio in seguito
all'incursione di Tiglat-Pileser, sia a causa di una serie di congiure di
palazzo che aveva cambiato per cinque volte la dinastia regnante nello spazio
di pochi decenni, fu minata alla radice la solidità del regno di
Israele.
La Bibbia interpretò i fatti alla luce di Dio: il regno
d'Israele si era reso a lui infedele in modo insanabile nonostante gli
ammonimenti dei profeti. Perciò Dio aveva abbandonato Israele proseguendo la
storia della salvezza con la tribù di Giuda, perché da essa dovrà sorgere il
Messia.
La Bibbia non cita espressamente il nome del sovrano assiro che
abbatté il regno di Israele conquistandone la capitale e deportandone la
popolazione. Tuttavia gli studiosi (p. 115, Pet 1992) sono d'accordo nel
ritenere che fosse Sargon II nel primo anno del suo regno (4):
«Il re
di Assiria invase tutto il paese, salì in Samaria e l'assediò per tre anni.
Nell'anno nono di Osea il re di Assiria occupò Samaria, deportò gli israeliti
in Assiria destinandoli a Calach, alla zona intorno a Cabor, fiume di Gozan,
e alle città della Media. [...] Rimase solo la tribù di Giuda. Ma neppure in
Giuda osservarono i comandamenti del Signore, loro dio, ma seguivano
piuttosto le usanze praticate da Israele.» (II Re 17, 18-19)
Di Sargon
parla anche il profeta Isaia nelle sue sentenze (20, 1). Sul luogo di Samaria
Sargon II insediò altre genti, deportate da più lontane regioni dell'impero
che, mescolandosi con elementi israeliti, costituirono poi la popolazione dei
samaritani, invisa ai giudei per la loro origine mista. Da questo momento
delle dieci tribù settentrionali non esisteranno che residui, aggregatisi col
tempo alla tribù di Giuda o assorbiti alle
altre popolazioni.
Sopravvissuto al crollo di Israele, il regno di
Giuda provò a scrollarsi di dosso il giogo assiro con Ezechia, figlio di
quell'Acaz che aveva giurato fedeltà a Ninive. L'idea non piacque al
successore di Tiglat-Pileser, Sennacherib, che con le sue truppe espugnò
Gerusalemme imponendo pesanti sanzioni:
«Nell'anno quattordicesimo del
re Ezechia, Sennacherib, re d'Assiria, assalì e prese tutte le città
fortificate di Giuda. Ezechia mandò a dire al re di Assiria: "Ho peccato,
allontanati da me e io sopporterò quanto mi imporrai". E il re d'Assiria
impose a Ezechia, re di Giuda, trecento talenti d'argento e trenta talenti
d'oro. Ezechia consegnò tutto il denaro che si trovava nel tempio del Signore
e nei tesori del palazzo reale.» (II Re 19, 13)
Fu grazie a questi
compromessi che il Regno di Giuda sopravvisse al crollo assiro avvenuto nel
612 a.C. Ovviamente anche la caduta dell'impero assiro trova giustificazione
nel disegno divino. Nella Bibbia il giogo assiro è visto come instrumentum
dei invocato dai Profeti per punire i peccati del popolo d'Israele. Ma la
forza assira è effimera e destinata a soccombere - come il Nimrod della Torre
di Babele - al provvidenziale disegno divino per mano di altre genti (Fal
1992 p.9-10).
Egizi e babilonesi La successiva dominazione egizia fu
breve perché nel 605 a.C. il sovrano del neo-impero babilonese Nabucodonosor
sconfisse il faraone Necao a Karkemish assicurandosi così il possesso della
Siria-Palestina. La Giudea da regno tributario divenne vero e proprio stato
vassallo.
Per due volte il regno di Giuda si ribellò a Nabucodonosor ma
con esito disastroso: la prima volta (598 a.C.) Gerusalemme venne risparmiata
ed il re Ioakin, gli alti funzionari e le famiglie aristocratiche deportati
a Babilonia; nella seconda occasione (587 a.C.) la capitale fu
saccheggiata, il tempio distrutto, la città abbandonata alle fiamme e tutta
la popolazione deportata in Babilonia. La vita degli ebrei di Babilonia,
sotto Nabucodonosor e i suoi discendenti, è raccontata nel libro di
Daniele (redatto molto più tardi all'epoca dei Maccabei).
Con la fine
della monarchia davidica, la Giudea divenne una provincia dell'impero ed
iniziò l'esilio (o cattività) babilonese che durerà 50 anni. Nel 538 a.C. il
re persiano Ciro, abbattuto il regno Neo-babilonese, emana un editto con cui
consente il ritorno in patria dei deportati e la riedificazione del Tempio di
Gerusalemme che fu infine consacrato nel 515 a.C.
La Palestina divenne
una divisione territoriale dell'Impero Persiano, sottomessa al satrapo di
Damasco ma sempre con una certa autonomia. L'amministrazione sociale e
religiosa passò in mano alla casta sacerdotale di Gerusalemme, al cui vertice
si trovava il sommo sacerdote coadiuvato da un consiglio di anziani, il
sinedrio. Dopo più di due secoli di dominio persiano verranno altri
padroni: Alessandro Magno (332 a.C.), i Tolomei d'Egitto (301 a.C.), i
Selèucidi di Siria (200 a.C.) e i Romani (64 a.C.).
Il
Pentateuco «L'opera di George Smith fa epoca per la storia culturale e
letteraria dell'antichità, e soprattutto per la scienza biblica, in special
modo per la comprensione e l'apprezzamento delle storie che hanno preceduto
la Genesi e forse anche per la critica del Pentateuco» (F. Delitzsch citato
in Dag 1997, p. 44).
Così scriveva Friedrich Delitzsch, nella
prefazione all'edizione tedesca di Smi 1876, venticinque anni prima della
conferenza "Babel und Bibel" che dimostrò al mondo accademico l'influenza
mesopotamica sulla Bibbia.
Questa influenza si disvela a molti livelli.
Per semplicità ridurrò l'esame a due soli livelli. Il primo è quello storico
ed è quanto visto finora spulciando qua e là nel secondo libro dei Re. Il
secondo, particolarmente evidente nei libri più antichi della Bibbia, è
quello letterario. I due livelli riflettono due coinvolgimenti distinti da
parte dei redattori finali della Bibbia.
Il primo è accidentale. Il
redattore biblico prende atto dell'entrata in gioco di Giuda e Israele nella
"politica internazionale" dell'epoca anche se lo interpreta alla luce dei
peccati commessi dalle case reali ebraiche e alla luce dell'esegesi della
salvezza (filo conduttore dell'intera Bibbia).
Il secondo è intenzionale.
Per rendere comprensibile il messaggio delle origini del patto tra Dio e il
suo popolo, gli autori della Bibbia si servirono del genere letterario più in
voga tra i loro contemporanei, il mito. La tradizione mitico-letteraria del
popolo dominatore (assiro o babilonese) fu certamente materiale accessibile
sia nella terra di Canaan prima dell'esilio, sia - direttamente - durante e
dopo l'esilio a Babilonia.
Per esempio il Libro di Giobbe è accostabile
al poemetto del Giusto Sofferente di Nippur del XIII sec. a.C. (vedi
trascrizione integrale in Pon 1996 pp.73-82; in Sap 1996 pp. 102-103 sono
commentati alcuni passi) oppure la nascita di Mosè è praticamente identica a
quella riportata nelle leggende di Sargon di Akkad. I celebri giganti
(rephaim) della Genesi sono un'alterazione semantica degli antenati regali
(rapi'uma) il cui culto era diffuso presso gli Amorrei (p. 185 Mat
1995)
Ma consideriamo un caso esemplare, il Pentateuco.
Proprio al
periodo del post-esilio babilonese si può ascrivere il completamento del
Pentateuco. Quella sacerdotale fu infatti l'ultima, in ordine di tempo, tra
le numerose tradizioni che contribuirono alla redazione del "libro più antico
del mondo". Prima di affrontare la cosiddetta "ipotesi documentaria" che
spiega questa affermazione sarà bene rivedere qualche concetto
chiave.
Il Pentateuco è la prima sezione della Bibbia. Esso è suddiviso
in cinque libri: Genesi (o Bereshit), Esodo, Levitico (che è la sezione più
antica della Torah), Numeri, Deuteronomio. Senza dubbio costituisce una
pietra miliare della letteratura e della riflessione religiosa dell'umanità.
Esso è basato in parte su ricordi della tradizione orale, su leggende, su
racconti mitici delle origini elaborati da altre culture ma soprattutto
su riflessioni teologiche e liturgiche nate dalla profonda fede in un Dio
unico e universale.
Il Pentateuco è certamente molto antico e, in
virtù della sua sacralità, fu attribuito al personaggio più carismatico della
tradizione ebraica («Mosè scrive ciò che Dio gli rivela»). La paternità di
Mosè venne però letteralmente smantellata dagli studiosi biblici a cavallo
tra '800 e '900 in seguito alle scoperte dell'archeologia mediorientale e
della nascente assiriologia (in proposito si riveda la sezione Babel un
Bibel).
L'ipotesi documentaria I maggiori risultati sull'origine
filologica del Pentateuco sono condensati nella cosiddetta ipotesi
documentaria, elaborata da Julius Wellhausen (1844-1918) e K. H. Graf
(1815-1869). L'ipotesi documentaria è stata nei decenni rivista, messa in
dubbio o accettata in modo oltranzista (vedi le Bibbie protestanti con passi
stampati in colore diverso a seconda della tradizione alla quale vengono
ricondotti!).
Nonostante le controversie (tesi di Klostermann, di Gunkel,
di Bultmann, ecc.) essa resta l'ipotesi più accreditata dagli studiosi - come
mostra una recentissima edizione Einaudi della Genesi (Gen 2000). Tuttavia,
secondo un documento redatto dalla Pontificia Commissione Biblica
sull'interpretazione della Bibbia (1993), l'ipotesi documentaria è solo una
delle fasi del metodo storico-critico che sarebbe
...il metodo
indispensabile per lo studio scientifico del significato dei testi antichi.
Poiché la Sacra Scrittura, in quanto «Parola di Dio in linguaggio umano», è
stata composta da autori umani in tutte le sue parti e in tutte le sue fonti,
la sua giusta comprensione non solo ammette come legittima, ma richiede,
l'utilizzazione di questo metodo (Interpretazione della Bibbia nella Chiesa
1993, sez. 1-A).
Il metodo storico-critico attuale per comprendere
l'intenzione degli autori e redattori della Bibbia, come pure del messaggio
da essi rivolto ai primi destinatari è sommariamente costituito dalle
seguenti fasi: 1) analisi del testo (filologia, morfologia e sintassi) 2)
analisi letteraria (ipotesi documentaria), 3) analisi delle forme
(identificazione del "genere" del passo biblico: liturgico, mitico,
giuridico, ecc.), 4) analisi della redazione (contributo personale del
redattore e suoi orientamenti teologici nel lavoro di
compilazione).
L'applicazione del metodo storico-critico allo studio
della Bibbia non è però invenzione moderna. Già nel XVII secolo Richard Simon
evidenziava la presenza di doppioni con divergenze nel contenuto e di stile
osservabili nel Pentateuco. Nel XVIII secolo Jean Astruc poneva la questione
in termini simili. Questi doppioni (e vedremo degli esempi) mostravano
che
l'«autore» del Pentateuco si era servito di più fonti o tradizioni
orali combinandole assieme l'«autore» del Pentateuco doveva essere
posteriore o coevo alla più recente delle fonti (5) Nel XIX secolo, con
Graf prima e Wellhausen dopo, si sviluppò la critica letteraria della Bibbia.
Essa mirava a individuare l'inizio e la fine delle unità testuali e di
verificare la coerenza interna dei testi. L'esistenza di doppioni, di
divergenze inconciliabili costituiva l'indizio del carattere composito di
certi testi, che venivano allora divisi in piccole unità, di cui si studiava
la possibile appartenenza a fonti diverse. Da qui nacque l'ipotesi
documentaria delle quattro fonti del Pentateuco (p. 135 Gen
2000):
Yahvista (Y). Tradizione proveniente da Gerusalemme e fatta
risalire all'epoca di Salomone (X secolo a.C.). I racconti che la compongono
sono molto vivi e ricchi di immagini a sfondo mitico come si osserva nel
secondo racconto della creazione (Genesi 2, 4b-25) dove Dio appare con
tratti antropomorfici e vive familiarmente con gli uomini. Elohista (E).
Tradizione proveniente dalla parte più settentrionale della Terra di Canaan
(VIII-VII sec. a.C.) Deuteronomista (D). Tradizione del VII secolo a cui si
ascrive il Deuteronomio ma non la Genesi. Sacerdotale (P, dal tedesco
"priester"). Tradizione più recente risalente agli ambienti sacerdotali della
cattività babilonese e della comunità post-esilica (VI-V secolo a.C.). I temi
che affronta sono decisamente "tecnici": cronologie, genealogie, il culto, le
feste, il tempio. Alla fonte P apparterrebbe il redattore finale che diede
struttura in un corpus unitario alle cinque sezioni del Pentateuco. Le prime
due tradizioni prendono nome dal modo con cui, in ciascuna di esse, ci si
riferiva tipicamente a Dio. Nella Y, Dio è indicato dal tetragramma JHWH («io
sono colui che è») che, per il precetto dell'impronunciabilità, veniva
letto Adonai o Kyrios (signore).
Nella fonte E, Dio è indicato dal
plurale ebraico di El: Elohim. El indicava il signore degli dei nella
tradizione pagana di Aram (Siria), di Ugarit e dei fenici. Una figura non
lontanissima da quella degli ebrei se leggiamo nella Storia di Re Kerret (XIV
sec. a.C.) da Ugarit: «nel sogno di Keret apparve El, padre di tutti gli
uomini...» (citato in Sap 1996 p. 109) e in un poemetto del XIV sec. a.C.
sempre da Ugarit: «El il benigno, El il misericordioso, il Creatore delle
creature (ibid. p. 162).
Gli indizi e le fonti mesopotamiche Sarà
utile fornire qualche esempio dei doppioni su cui si basa
l'ipotesi documentaria, perché alcuni di essi riconducono a tradizioni
culturali mesopotamiche.
Nella Genesi troviamo per due volte un
racconto della creazione, per due volte Agar viene allontanato, per tre volte
incontriamo la situazione di un patriarca che spaccia per sorella propria
moglie. Per casa vi assegno il compito di rintracciare questi doppioni sul
testo e di provare inoltre ad assegnare ciascuna versione alla fonte
originaria (le "risposte" sono consultabili nell'appendice storico-critica di
Gen 2000).
Le divergenze più interessanti compaiono nell'episodio biblico
del diluvio. Si dice che gli animali per ciascuna specie sono due (Genesi 6,
19) ma poi si afferma che sono sette (Genesi 7, 2). Oppure si dice che la
calamità durò quaranta giorni (Genesi 7, 17) per poi rettificare a
centocinquanta giorni (Genesi 7, 24). Queste incongruenze sono chiaramente
dovute al fatto che nell'episodio si intrecciano due diverse tradizioni (Y e
P secondo l'ipotesi documentaria). O meglio molte più di due dato che il mito
del diluvio era noto da secoli nella terra di Canaan prima ancora che venisse
redatta la versione biblica! Ecco quali secondo un recentissimo articolo
apparso, udite udite, su Famiglia Cristiana nel marzo 2003:
«Forse
qualche lettore si sorprenderà sentendo dire che Noè non era un ebreo. In
realtà egli è una figura nota - sia pure con nomi diversi - ad altri popoli
della Mesopotamia e la storia del "diluvio", che è connessa a lui, è proposta
anche da antichissimi testi babilonesi di quella regione...» (Gianfranco
Ravasi su Famiglia Cristiana 10/2003 p. 153)
Possiamo agevolmente
ricordare alcuni di questi testi (e citati nel suddetto articolo), che
sovente incontriamo nelle altre sezioni di questo sito:
il mito del
Grande Saggio (Atramkhasis). Per alleviare le fatiche degli dei, Enki crea
l'uomo dall'argilla e dal sangue dio un dio ribelle (= versione Y della
creazione). La proliferazione dell'umanità irrita Enlil che scaglia
il diluvio per sterminare l'uomo. Atramkhasis, seguendo i consigli di Enki
si salva grazie all'arca (=versioni Y+P del diluvio). il mito babilonese
della creazione (Enuma Elish). La teogonia e la cosmogonia mesopotamiche
hanno luogo dal principio maschile Apsu (l'abisso, le acque dolci) e dal
principio femminile Tiamat (il mare). Tiamat compare proprio nei primissimi
versi della Genesi col significato di abisso primordiale (in ebraico thehom)
sopra il quale si muoveva lo spirito di Dio. Anche l'Enuma Elish contiene la
creazione dell'uomo, attuata stavolta da Marduk, in una versione simile
all'Atramkhasis. l'epopea di Gilgamesh. Ripropone il mito del diluvio ma
attraverso un'ottica inedita. (p. 138 Gen 2000) Queste narrazioni sono
utilizzate nella Bibbia a volte nei minimi dettagli. Tuttavia il discorso
biblico parla di un unico Dio creatore, non di un olimpo litigioso che crea
l'uomo per proprio tornaconto. Il Dio degli ebrei promette che non
distruggerà più l'universo dopo il diluvio universale, catastrofe dovuta non
a un cavillo divino (la rumorosità umana?) ma alla malvagità del genere
umano:
«Noè è in realtà l'emblema dei giusti che sono presenti pure nel
mondo pagano. Abramo verrà molti secoli dopo. Dio con Noè stabilisce
già un'alleanza che anticipa quella che stipulerà poi con Israele sul Sinai
(). E' appunto questo l'atto culminante del diluvio. Il Signore nella
sua giustizia irrompe e colpisce il male dilagante e lo fa con le
acque impetuose che sono per l'antico Vicino Oriente il simbolo del nulla e
del caos. Ma egli salva tutti i giusti, incarnati in Noè...» (ibid. p.
153)
La Bibbia trasmette un messaggio universale di speranza e di
salvezza attraverso miti famosi che nella trasposizione biblica assumono
un significato del tutto nuovo. Le narrazioni mesopotamiche non
vengono semplicemente riciclate ma in buona misura demitizzate,
riconducendole a una dimensione realmente umana.
Ringraziamenti:
vorrei ricordare sentitamente Antonio G. dell'Università Statale di Milano
per i preziosi suggerimenti e correzioni. Naturalmente tutti gli errori che
doveste trovare in questa pagina sono miei.
APPENDICE: Paralleli nelle
storie del diluvio Sono riportate le pagine 219-220 da Il Diluvio, mito e
realtà del più grande cataclisma di tutti i tempi, Massimo Baldacci, edizioni
Mondadori 1999. Ecco la chiave delle abbreviazioni: Gn (Genesi), Gilg
(edizione ninivita dell'epopea di Gilgamesh), A-h (poema del Grande Saggio o
'Atramkhasis'). Per completezza ricordo i nomi degli epigoni mesopotamici di
Noè: Atramkhasis nella versione accadica del diluvio, Ziusudra nella
versione sumerica del diluvio, Utnapishtim nel Gilgamesh.
pag.
219
pag.
220
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Tra
gli appellativi del dio Sin abbiamo "Padre, che tieni la vita della Terra
nelle tue mani" o "Signore che stabilisci il destino del cielo e
della Terra". Un tentativo di instaurazione monoteistica del culto di Sin è
di Nabonedo, sfortunato re babilonese (VI sec. a.C.) e figlio di
una sacerdotessa di Harran, che osò - inimicandosi la potente casta
sacerdotale devota al dio Marduk - trasformare l'adorazione di Sin nel culto
nazionale babilonese. Tre stele votive di Nabonedo, scoperte dagli archeologi
nel 1956 ad Harran, glorificano Sin come "padre degli dei". Non i
filistei, di compagine indoeuropea, in quanto erano uno dei "popoli del mare"
(XIV secolo). E' stato addirittura sostenuto che il nome del monte Sinai,
probabile sito di un luogo di culto già rinomato e sotto il quale fu adorato
il Vitello d'Oro, derivasse da Sin, dio Luna babilonese (vedi nota 1). In
effetti il culto del vitello d'oro non avrebbe origine dal culto egizio della
dea della fertilità Hapi - col quale gli ebrei certamente vennero in contatto
durante la loro permanenza nella terra dei faraoni - ma avrebbe radici nei
culti cananei precedenti all'esodo. Il culto del vitello, come simbolo
di fertilità, era infatti dedicato a Sin ed era diffusissimo presso
le popolazioni nomadi semitiche: le statuette votive a forma di vitello
trovate in Israele (vedi servizio di Repubblica, 27 luglio 1990) sono tutte
datate all'epoca precedente l'esodo. Col fortuito ritrovamento della
reggia di Sargon II ebbe nascita l'archeologia orientale nella seconda metà
dell'800. Ho messo il termine autore tra virgolette perché gli studiosi
ritengono che si tratti di più autori, probabilmente appartenenti alla stessa
scuola (per la cronaca la scuola sacerdotale a cui faceva capo Esdra).
L'evidenza è data dall'omogeneità di riflessione religiosa tra le cinque
sezioni del Pentateuco. Ma, in questo ambito, non ci interessa entrare nei
termini della questione.
GILGAMESH - ILIADE Parallelismi Un
ottimo studio comparato tra l'Epopea di Gilgamesh e l'Iliade è
stato affrontato da Vincenzo di Benedetto (parte IV, cap. VIII Ben 94). Ecco
i punti salienti di questa analisi più alcune mie
considerazioni.
Cominciamo con due semplici accostamenti tra i
due poemi:
Epopea di Gilgamesh Iliade Scontro tra la dea Ishtar ed
Enkidu, l'amico dell'eroe Scontro tra la dea Afrodite e l'eroe Diomede, amico
dell'eroe Dialogo tra Gilgamesh ed Enkidu tornato dagli Inferi (t. XII) e
triste abbraccio Dialogo tra Achille e l'ombra di Patroclo (IL., XXIII 65) e
triste ed inutile abbraccio
Interessante, vero? Questi sono solo
alcuni parallelismi evidenti tra le due opere (per approfondimenti vedi la
bibliografia a p. 315 Ben 94). Certamente il parallelismo più evidente ed
importante è dato dal rapporto tra il protagonista (Achille / Gilgamesh) ed
un suo compagno (Patroclo / Enkidu). Il motivo della coppia trova del resto
numerosi esempi sia nell'Antico Testamento che nell'epica greca e germanica:
Eracle e Iolao, Teseo e Piritoo, Castore e Polluce, Eteocle e Polinice (i
figli di Edipo), Oreste e Pilade, Atreo e Tieste, Hagen e Gunther
(1).
Rimanendo sul piano prettamente epico-letterario, il tema della
coppia diviene nei due poemi pretesto per sviluppare contenuti universali.
Per esempio il tema della morte e di come il protagonista si ponga di fronte
ad essa prende avvio dalla perdita del compagno di avventure (di
rango inferiore) in entrambi i poemi. Sono numerosi i punti di contatto, non
solo nel contenuto ma anche nella forma (Ben 94, p. 313-315):
Epopea
di Gilgamesh Iliade Importanza fondamentale e grande rilievo al rapporto a
due tra l'eroe e il compagno Grande rilievo al rapporto a due tra l'eroe e il
compagno Gli dei An ed Enlil decidono la morte del compagno (tav. III
redazione Ittita) Zeus decide la morte del compagno Il compagno muore; la
morte del compagno è messa in grande evidenza e ha enorme impatto sull'eroe:
grande rilievo alle cerimonie funebri, con l'eroe che assolve a una funzione
direttiva nell'organizzazione delle cerimonie (t. VIII 64-241) Il compagno
muore; la morte del compagno è messa in grande evidenza e ha enorme impatto
sull'eroe: grande rilievo alle cerimonie funebri, con l'eroe che assolve a
una funzione direttiva nell'organizzazione delle cerimonie (IL. XXIII
109-897) L'eroe non è in grado di aiutare il compagno di fronte alla morte:
si tratta di un sogno che attraverso un discorso diretto il compagno
riferisce, con tono di rimprovero, all'eroe (t. VII 176-177) L'eroe, in un
discorso diretto rivolto a una terza persona, si autorimprovera per il fatto
che non ha aiutato il compagno di fronte alla morte (IL. XVIII
98-103) L'eroe si rivolge al compagno morto e ricorda le grandi e vittoriose
imprese compiute insieme e le contrappone al fatto che " ora " invece egli
dorme il sonno della morte (t. VIII 48-55) L'eroe si rivolge al compagno
morto e ricorda gli ossequienti servizi che una volta gli prestava
in contrapposizione al fatto che " ora " invece egli giace morto (IL.
XIX 315-19) L'eroe che piange il compagno morto è equiparato a una
leonessa a cui sono stati tolti i cuccioli (t. VIII 60) L'eroe che piange il
compagno morto è equiparato a un leone (una leonessa?) a cui sono stati
rapiti i cuccioli (IL. XVIII 318-320) Dopo la morte del compagno l'eroe
attraverso un discorso diretto rivolto a una terza persona ricorda le grandi
e vittoriose compiute insieme con il compagno e contrappone ad esse la triste
situazione presente (X 54-62, X 128-36, X 226-34) Dopo la morte del compagno
l'eroe ricorda le grandi e vittoriose compiute insieme con il compagno e lo
piange: narrazione secondo il punto di vista dell'eroe (IL. XXIV
6-9) L'eroe attraverso un discorso diretto rivolto a una terza persona
esprime la sua consapevolezza del fatto che ha ottenuto un grande successo,
ma tutto questo - egli dice - non gli procura gioia dal momento che il
compagno è morto (IL. XVIII 79-82)
"L'amico che io amo sopra ogni
cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure | Enkidu che io amo
sopra ogni cosa, che ha condiviso con me ogni sorta di avventure | il destino
dell'umanità lo ha afferrato" (X 60-62, X 134-36, X 232-34) ".giacché è morto
il mio caro compagno | Patroclo che io onoravo più di tutti i compagni | in
modo pari alla mia persona" (IL. XVIII 80-82) Una terza persona
(Utnapishtim) rimprovera - con l'uso anche del modulo della domanda - l'eroe
per il fatto che si abbandona troppo al dolore per il compagno morto (X
267-70, X 299-302) Una terza persona (la madre Theti) rimprovera, con l'uso
del modulo della domanda, l'eroe per il fatto che si abbandona troppo al
dolore per il compagno morto (IL. XXIV 128-30) Un personaggio femminile
(Siduri la taverniera) invita l'eroe ad allentare il dolore per il compagno e
a godere, tra le altre cose, del cibo e dell'amplesso della sua donna; e in
concomitanza la taverniera ricorda all'eroe il destino di morte riservato a
tutti gli uomini (Tavoletta di Berlino e Londra 60-75; poema paleobabilonese
di Gilgamesh) Un personaggio femminile (Theti) invita l'eroe a godere del
cibo e dell'amplesso della donna, e insieme ricorda all'eroe che il destino
di morte è a lui vicino (XXIV 129-32)
Nel Gilgamesh si dà largo
spazio alle avventure dei due eroi (da t. II fino a t. VI) mentre nell'Iliade
alle avventure di Achille e Patroclo si fa solo cenno (le peripezie di
Odisseo sono ovviamente un termine di paragone più apprezzato). Essenziale è
però un punto di contatto tra i due poemi: la morte del compagno svuota di
valore tutto il complesso di vicende che aveva caratterizzato in modo assai
rilevante la parte antecedente del poema.
Naturalmente che l'autore
dell'Iliade conoscesse e presupponesse nel suo poema la Saga di Gilgamesh è
cosa ardua da dimostrare. Volta per volta infatti si potrà supporre che i
contatti tra i due poemi siano dovuti a coincidenze occasionali, sulla base
di similarità di situazioni.
Tuttavia (p. 317, Ben 94) l'utilizzazione da
parte del poeta dell'Iliade di motivi e formulazioni propri del poema
babilonese appare molto probabile. I contatti tra l'Iliade e il Gilgamesh,
non sono isolati ma riguardano un insieme di motivi collegati tra loro.
Soprattutto colpisce che l'essenziale tema della coppia sia strettamente
concomitante col tema - altrettanto fondamentale in entrambi i poemi - della
morte.
D'altra parte il poema di Gilgamesh era largamente diffuso in
molte culture dell'area medio-orientale, per la quale scambi e contatti con
il mondo greco sono, nell'età omerica - teatro di colonizzazioni a est e a
ovest dell'ellade - positivamente documentati.
Anche assumendo che le
"coincidenze" di situazioni e formulazioni tra i due poemi debbano essere
interpretate come frutto di percorsi creativi indipendenti, il confronto tra
i poemi risulta ugualmente produttivo per capirne le specificità
(2).
Di fronte alla morte di Enkidu, Gilgamesh è ripetutamente preso
dalla paura della morte (t. IX 5; X 66, X 139, X 238-39; X 74-75, X 145, X
247-48) ed è per questo che intraprende il viaggio verso il lontano
Utnapishtim per interrogarlo sul significato della vita e cercare il segreto
dell' immortalità. In tal modo la morte del compagno dà all'eroe l'impulso
per una sequenza di nuovi episodi (gli uomini-scorpione, la taverniera,
la traversata del mare della morte, l'incontro con il Noè babilonese con
il racconto - anche - del diluvio) fino a una conclusione del poema
che evidenzia l'inevitabile destino comune agli uomini e l'acquisto
della responsabilità sociale di sovrano (tesi fortemente accolta anche in Pet
92).
Nell'Iliade, invece Achille, di fronte alla morte di Patroclo non è
preso dalla paura, bensì rivela (fin dall'inizio del poema ma in particolare
dopo lo snodo della scomparsa di Patroclo) un atteggiamento di
consapevole accettazione. È come se Achille raccogliesse l'eredità
esistenziale frutto del lungo e faticoso percorso che Gilgamesh aveva
compiuto nella parte finale della sua saga. L'eroe omerico, così smisurato
nelle azioni e nelle emozioni, acquista grazie al taglio che l'autore
dell'Iliade ha voluto dare alla parte finale del poema, un equilibrio sociale
che ne dilata fortemente l'attualità.
Gilgamesh è così umano per la
sua paura della morte e per il suo disperato tentativo di rigetto: non
permette che l'amico venga seppellito per giorni e giorni fino a quando con
orrore non ne osserva il corpo divorato dai vermi, e successivamente
sconvolto e in solitudine inizia il suo lungo viaggio dominato da
interrogativi sull'esistenza.
Achille accetta la morte di Patroclo
bruciandolo su una pira pochissimi giorni dopo la sua morte. Egli poi celebra
i giochi funebri e restituisce il corpo di Ettore al padre Priamo (fatto
rilevantissimo sul piano ideologico e religioso - vedi Antigone di Euripide -
che elimina temporaneamente divisioni tra i greci e i troiani). La
consapevolezza della morte dei compagni di Achille diventa consapevolezza
della propria morte e volontà di vivere la vita per quanto ricca di drammi
possa essere (per esempio Achille accetta l'invito di Theti di tornare ai
piaceri mentre quest'invito rivolto da Siduri a Gilgamesh verrà disatteso,
almeno nel poema). Gilgamesh acquisterà questa consapevolezza solo alla fine
del suo lungo e
doloroso cammino.
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Curioso
l'utilizzo di questi parallelismi in recenti evoluzioni
critiche concentratesi sui temi dell'omosessualità o della - più frequente
- bisessualità nel mondo antico. Sul rapporto Gilgamesh-Enkidu mi limito
a segnalarvi la monografia di Monica Rossi sulla rivista Arti
d'Oriente (settembre 2000) o la recente indagine di Roberta Padovano (Pad
2002). Sul rapporto Achille-Patroclo posso invece suggerire una riflessiva
lettura del Troilo e Cressida di William Shakespeare. Qui i due compagni
sono descritti come pederasti effeminati, sciocchi e litigiosi di cui ride
tutto il campo acheo. Ma attenzione, pur dando a tutta la vicenda una
parvenza di buffonata, gli inquieti personaggi vengono a interrogarsi
profondamente sulla propria esistenza. Per una valutazione approfondita
rimando al bel saggio di Jan Kott, Shakespeare nostro contemporaneo, pp.
71-78, Feltrinelli ed. 2002. (torna su)
E' con questo spirito che vi
invito al leggere il mio commento al testo della tavola VI del poema dove si
analizza l'episodio del Toro Celeste congiuntamente al finale della tragedia
Ippolito di Euripide.
ATRAMKHASIS Oggi sappiamo che l'Epopea di
Gilgamesh ha dietro di sé una lunghissima storia letteraria che risale molto
di là dei tempi biblici, almeno fino al 2000 a.C. Il racconto del diluvio
inizialmente non ne faceva affatto parte: è stato inserito più tardi
nell'edizione ninivita, riprendendolo da un'altra opera nella quale aveva il
suo posto organico, il Grande Saggio. "Grande Saggio", o "Super-Saggio", è la
traduzione del nome accadico dell' eroe del diluvio: Atramkhasis o Atrahasîs
(p.160 Bot 1996).
L'Atramkhasis è un'opera che per lungo tempo è
stata poco conosciuta (attraverso alcuni frammenti sparsi); una serie di
ritrovamenti fortunati ce ne ha restituito da qualche anno, i due terzi:
circa 800 versi della versione babilonese. Sono note almeno sei versioni
mesopotamiche del mito ognuna con elementi originali rispetto alle altre (per
una lettura comparata vedi pp. 559-639 Bot 92).
I manoscritti più
vecchi (1700 a.C.) sono stati portati alla luce a Nippur. Nella versione
sumerica l'eroe del diluvio si chiama Ziusudra (= "lunga vita"), sovrano
dell'antichissima città di Shuruppak (la moderna Tell Fara).
Rimane il
fatto che, sia l'Atramkhasis sia il suo antecedente sumerico Ziusudra, sono
più antichi della versione biblica del diluvio che troviamo nella Genesi (6-8
GEN 2000). Ma questa risale all'ottavo secolo e quindi rimane
cronologicamente antecedente all'edizione ninivita che risale a circa il 650
a.C.
Tuttavia è difficile credere che gli scrittori di Babilonia
mendicassero idee dagli ebrei deportati da Nabucodonosor anche perché la
deportazione risale al 612 a.C. E' più facile ritenere che la tav. XI
dell'epopea sia stata redatta dalle fonti più antiche consultabili
direttamente nella biblioteca di Ninive, dove Assurbanipal aveva fatto
trasferire tutto il patrimonio letterario dei secoli passati.
(p.117
Bot 1996) Il mito di Atramkhasis comincia al tempo in cui l'uomo ancora non
esisteva. Solo gli dei abitavano l'universo, suddivisi secondo
la bipartizione fondamentale nell'economia del tempo e del luogo,
tra produttori e consumatori. Una classe inferiore, gli Igigi, lavorava i
campi per fornire all'aristocrazia degli Anunnaki il necessario per
vivere:
Il loro lavoro era immenso Pesante la loro pena e senza fine
il loro tormento!
Esasperati gli Igigi realizzano quello che noi
chiameremo il primo sciopero per essere dispensati da tali fatiche e essere
trattati alla pari dei loro capi.
"Gettando al fuoco le loro
attrezzature,/ Bruciando le vanghe, incendiando i bigonci" e partendo anche
in piena notte per "accerchiare il palazzo" del loro datore di lavoro e
sovrano, Enlil.
Tutta l'aristocrazia degli Anunnaki è preoccupata e in
subbuglio; come ci si sostenterà se nessuno vuol più produrre il necessario
per vivere? Si riunisce un'assemblea plenaria, e Enlil si fa forte per domare
i rivoltosi, che però si proclamano decisi a resistere fino in fondo: il
lavoro è veramente insopportabile ed essi sono pronti a tutto pur di non
riprenderlo. Sconfitto, Enlil pensa allora di abdicare: disordine ancora più
temibile perché introduceva nella società divina anarchia e
disgregazione.
A questo punto interviene Enki consigliere e visir di
Enlil, che incarna la lucidità, l'intelligenza, l'astuzia, la facoltà di
adattamento e d' invenzione, la padronanza delle tecniche. Per sostituire gli
Igigi recalcitranti all'ingegnoso Enki viene in mente di creare una sorta
di sostituto: l'uomo, fatto di argilla - nasce cioè dalla terra e a
essa ritorna morendo - e del sangue di un dio minore, immolato per
l'occasione, che gli dovrebbe conferire un po' dell'intelligenza,
dell'energia e della produttività degli operai divini (Genesi, 2: " Allora il
Signore plasmò l' uomo con la polvere del suolo e gli soffiò l'alito di
vita").
Dall'Enuma Elish apprendiamo il nome della divinità immolata: il
demone Qingu, emissario di Tiamat e detentore per un breve periodo della
tavoletta dei destini prima di venire sconfitto da Marduk.
Questa è
l'unica ragion d'essere dell'uomo secondo la visione mesopotamica: lo
sfruttamento laborioso e illimitato delle materie prime del mondo per fornire
tutti i prodotti atti a garantire agli dei una vita spensierata e appagata:
la vita umana ha senso solo se posta al servizio degli dei.
[...] gli
uomini costruirono nuovi picconi e zappe, poi edificarono grandi dighe
d'irrigazione, per provvedere alla fame degli uomini e al cibo [degli
dei].
(p. 75 Bot 1996)
Le popolazioni umane moltiplicate al
massimo e "il loro rumore divenuto simile al muggito dei buoi" cominciano a
venire a noia a Enlil poiché disturbano la vita tranquilla e spensierata
degli Dei, che finiscono col perdere il sonno.
Per mettere fine a quel
baccano, Enlil, impetuoso e incline alle soluzioni estreme, si assume la
responsabilità di decimare gli uomini con l'epidemia. Ma Enki, riflessivo e
consapevole del rischio di una riduzione eccessiva del numero degli uomini,
che rappresenterebbe una catastrofe per gli dei, avverte Atramkhasis, il
Grande Saggio che gode della sua fiducia e di una grande autorità sulla
popolazione umana. Enki gli indica come quest'ultima potrà evitare la strage:
basterà far convogliare tutte le offerte alimentari verso Namtar, divinità
dell'epidemia omicida, e gli dei, ridotti alla fame, saranno costretti a
interrompere il male. Cosa che in effetti succede.
Con il ritorno della
sicurezza gli uomini riprendono il loro lavoro rumoroso e tumultuoso, e
spazientiscono nuovamente Enlil, che questa volta manda loro la siccità.
Nuova risposta di Enki, che consiglia ad Atramkhasis di far riservare i
viveri degli dei solo per Ada, padrone delle precipitazioni atmosferiche. Le
lacune del testo ci lasciano comunque supporre che Enlil non cedette subito
ma alla fine tutto rientra nell'ordine e l'umanità rifiorisce.
Dai
resti delle tavolette risulta almeno che il re degli dei, deciso alla fine a
eliminare gli uomini, sempre così chiassosi, farà appello a una catastrofe
ancor più radicale: il Diluvio. Ormai diffidente, egli prende tutte le
precauzioni affinché il suo progetto funesto non possa essere divulgato agli
uomini, e affinché nessuno possa sfuggire alla morte. Ma Enki fa in modo di
annunciare indirettamente ad Atramkhasis il disastro imminente e lo
stratagemma che ha messo a punto per salvarlo; ma questa volta lui solo con i
suoi. Atramkhasis dovrà dunque "costruire una barca a doppio
ponte, solidamente armata, debitamente calafatata e robusta", della quale
Enki gli "disegna lo schema sul pavimento". Atramkhasis si rifornirà e, al
segnale degli dei, vi imbarcherà le sue riserve, il suo mobilio, le sue
ricchezze, la sua sposa, i suoi parenti e affini, i suoi capi officina (per
preservare i segreti delle tecniche acquisite), e animali domestici e
selvatici; poi non dovrà far altro che "entrare nella barca e chiuderne il
boccaporto".
Il seguito lacunoso in quello che ci è rimasto del poema,
può essere tranquillamente sostituito con il racconto dell'Epopea di
Gilgamesh, posteriore di parecchi secoli ma che al poema si è ampiamente
ispirato.
Trovato il modo di spiegare il suo strano comportamento a
quelli che gli erano vicini, senza però allarmarli, Atramkhasis esegue gli
ordini, "imbarca carico e famiglia" e "offre un gran banchetto". Ma intanto è
ansioso:
non fa che entrare e uscire, Senza sedersi e stare
fermo, Col cuore infranto, e preoccupato aspetta il segnale
fatidico.
Finalmente il segnale arriva:
Il tempo cambiò
aspetto e il temporale tuonò tra le nuvole! Quando gli si fece sentire il
brontolio del tuono gli portarono dl bitume per chiudere il boccaporto. E,
chiuso questo, con il temporale che brontolava sempre tra le nuvole i
venti si scatenarono. Così ruppe gli ormeggi, per liberare la nave!
Il
Diluvio, inequivocabilmente un'inondazione provocata da piogge torrenziali,
continuò allora per:
Sei giorni e sette notti: la tempesta infuriava.
Anzu [il rapace divino gigantesco] lacerava dal cielo con i suoi artigli.
Era proprio il Diluvio la cui brutalità si abbatteva sulle popolazioni come
la guerra! Non ci si vedeva più e in quel massacro non si riconosceva più
nessuno! Il Diluvio muggiva come un bue; il vento fischiava, simile a un
aquila che stride le tenebre erano impenetrabili: il sole era
scomparso.
Quando il cataclisma ebbe schiacciato la terra, arrivato il
settimo giorno:
L'uragano bellicoso del diluvio finì, dopo aver
distribuito i suoi colpi [a caso], come una donna nei dolori del parto: la
massa d'acqua si calmò; la burrasca cessò: il diluvio era finito!
Allora
racconta l'eroe:
Aprii il boccaporto e l'aria pungente e l'aria pungente
mi sferzò il viso! Poi cercai con gli occhi la riva, all'orizzonte della
distesa d'acqua: a poche gomene emergeva una lingua di terra. La nave si
accostò: era il monte Nisir dove essa finalmente fece sosta!
Per prudenza
Atramkhasis aspetta ancora una settimana prima di usare uno stratagemma dei
primi navigatori d'altura:
Presi una colomba e la lasciai andare; la
colomba fuggì, ma tornò: non avendo nulla su cui posarsi, era
ritornata! Presi allora una rondine e la lasciai andare; a rondine fuggì,
ma rivenne: non avendo visto nulla su cui posarsi, era ritornata! Infine
presi e lasciai andare un corvo: il corvo fuggì, ma trovando il deposito
delle acque, beccò, gracchiò, e non ritornò più!"
RECENSIONI Ebla,
un impero ritrovato, Paolo Matthiae, Einaudi ed. 1995
Gli italiani sono
stati gli ultimi ad offrire un contributo allo studio delle culture
preellenistiche della Siria a causa di una
... diffusa valutazione
classicistica nella quale le radici del mondo occidentale quasi
esclusivamente affondavano in un terreno che era quello della cultura
ellenica prima e latina poi (p. xxv).
Fortunatamente sono subito entrati
in scena da protagonisti grazie alla scoperta degli immensi Archivi di Ebla
nel 1975. Questo INDISPENSABILE libro di Matthiae traccia un resoconto
esauriente sulla missione italiana a Ebla, dai primi scavi avviati nel 1964,
alle ultime scoperte. Indispensabile perché valido come un manuale
universitario di archeologia. Per esempio, l'incredibile capitolo dedicato
all'indagine pre-scavi a Ebla illustra l'utilizzo di più moderni strumenti di
indagine e la necessità di una preparazione multidisciplinare per
l'ottenimento di risultati. I pregi dell'edizione 1995 sono molti, non ultimi
la carta di pregevole fattura e la ricchissima sezione
iconografica.
Un'unica pecca rimproverabile a Matthiae (ma comune a
Pettinato) è l'infelicissimo stile di scrittura, soprattutto quando Matthiae
si abbandona a verbose esegesi. Ecco un impressionante esempio di groviglio
di subordinate (riuscite a capire qual'è la "singolarità" in
oggetto?):
«E' singolare, ma significativo delle contraddizioni
intrinseche di studi inariditi da una consuetudine a indugiare e perdersi in
una spesso sterile pratica di considerazioni filologiche e antiquarie, che
proprio H. Frankfort, una delle massime personalità dell'archeologia
orientale - finissimo critico, storico assai penetrante, scavatore di talento
- sia stato ad un tempo, agli inizi degli anni '50, l'autore di
illuminanti contributi sulla continuità della tradizione soprattutto
architettonica della Siria, e il responsabile di un'autorevole sintesi in
cui, pur in un quadro storico apparentemente corretto, venivano ripresi e
codificati alcuni dei più antistorici giudizi sulla civiltà artistica della
Siria. Infatti...» (p. xxvi)
Se avessi avuto l'ingrato compito di
correggere le bozze, avrei così tradotto:
«L'archeologo Frankfort,
nonostante i suoi fondamentali contributi sul campo negli anni '50, valutò
frettolosamente la civiltà artistica siriana preellenistica.
Infatti...»
Altra nebulosità del volume è data dai numerosi rilievi
topografici messi in bella posa ma pressoché illeggibili. Cosa sono, per
esempio, A-B-C-D-E... nella pianta di Tell Mardikh a p. 39? Forse
nell'«edizione tascabile» si è voluto risparmiare sulle leggende? Infine
leggo, in q.ta di copertina, della scoperta di templi paleocristiani (sic!)
sul sito di Tell Mardikh... un teorema alla Ramanujan, immagino.
Se
l'intento è la divulgazione dei risultati ottenuti, la chiarezza espositiva è
tutt'altro che opzionale. Soprattutto se la divulgazione è mirata a
promuovere l'assegnazione di fondi statali alle missioni archeologiche
italiane.
IL GILGAMESH "ITALIANO" Il Gilgamesh "italiano" La
versione del Gilgamesh che trovate nel mio sito è in parte basata su quella
contenuta nell'antologia Pet 1992 (Pettinato), con
integrazioni, aggiornamenti e correzioni da Sap 2001 e Geo 1999
(George). Per esigenze di leggibilità ho ripulito il testo da tecnicismi ed
eseguito leggere correzioni sintattiche. Ho cercato di tagliare i lavori di
fantasia, in cui peccano tutti gli autori (in particolare George e
Pettinato), perché impediscono il confronto con altre traduzioni. Del lavoro
di Pettinato ho conservato la divisione interna alle tavole ma ho corretto
interamente la numerazione dei versi e la loro suddivisione in stanze
(solitamente quartine) seguendo l'approccio di George (sempre per agevolare
la lettura comparata dell'epopea).
L'approccio di Pet 1992 ha
fatto scuola per la caratura formale e la resa poetica, divenendo riferimento
bibliografico in numerosi studi italiani (come Ben 1994, Dag 1997 e Sap 2001)
e stranieri (come Geo 1999).
Tuttavia Pettinato non è esattamente un
critico letterario. Il suo commento al testo è piatto e insufficiente
(difetto comune a Bottero e George peraltro). Troverete un ottimo commento al
testo dell'Epopea nel volume Eros e Thanatos di Jan Kott, Ed. SE (pp. 75-103:
Gilgamesh, o la mortalità). L'analisi di Kott, seppure imperfetta poiché
basata sui numerosi accomodamenti di San 1994, vi farà letteralmente amare
Gilgamesh (ringrazio Ferruccio G. per avermi fatto conoscere la maestria di
Kott nel 1997). Altro splendido esempio di esame epico-letterario del
Gilgamesh si trova in Ben 1994.
Va bene, ma cosa posso trovare in
libreria su Gilgamesh? Buona parte dei testi citati, anche se usciti pochi
anni fa, è fuori catalogo e reperibile solo in biblioteca. Ecco i testi più
recenti e disponibili in libreria (cliccate sulle voci per una completa
descrizione):
per il profano o per ragazzi: Pon 2000 per
l'appassionato: Sap 2001 (oppure l'ennesima ristampa di San 1994) per
l'appassionato o l'esperto: Geo 1999 Su Internet è consultabile l'edizione
integrale ottocentesca del primo lavoro di George Smith dedicato a Gilgamesh
(Smi 1876). Molti siti, oltre a questo, contengono un sacco di materiale
interessante sul re di Uruk.
Da non dimenticare che Gilgamesh è
protagonista di molte opere moderne (non solo letterarie) di finzione. Per
una breve carrellata in questo ambito rimando alla sezione delle
contaminazioni.
Non solo Gilgamesh In primo luogo, lo studio della
letteratura sumera/babilonese non può prescindere dalla conoscenza, anche
superficiale, della storia e della geografia della Mesopotamia. Pertanto
procuratevi a qualunque cifra Roa 92.
Edizioni integrali delle pietre
miliari della mitologia mesopotamica sono consultabili in Bot 1992, ancora a
catalogo nelle librerie (costa 67 euro). Le (poche) lacune di questa superba
antologia possone essere integrate con McCall 95, Pon 1996 e Pon
2000.
E sull'archeologia in Siria e Mesopotamia? Oltre al citato Roa 92,
due succosi volumi vi sazieranno: Cer 1995 (Il Libro delle Torri) e Mat
1995. Una passeggiata (non impegnativa) tra i maggiori scenari dell'Iraq, non
solo assiro-babilonesi, come Bagdad, Bassora, Samarra o Mossul è offerta in
Mun 2003.
Lasciate invece perdere le monografie della rivista Archeo
(Rizzoli) per: 1) prezzo elevato; 2) imbarazzante riciclaggio di immagini e
testi; 3) qualità del lavoro a livello di tesine scolastiche redatte
sfogliando enciclopedie; 4) ripetuti e grossolani errori (come l'accostamento
Ea-Enlil a p. 103 monografia apr. 2002, e a p. 101 monografia mag. 2003;
oppure l'errata didascalia della stele degli avvoltoi a p. 31 monografia apr.
2002).
Infine non dimenticate le contaminazioni di
tipo epico-filosofico-letterario-psicanalitico-linguistico curiosando
nella sezione Altri Testi.
Elenco bibliografico Ane 1955 AA.VV,
Ancient Near Eastern texts, relating to the Old Testament, 2nd ed. Princeton
University Press 1955
A cura di James B. Pritchard; citatissima ma datata
antologia di testi egizi, sumeri, accadici, ittiti, ecc. scelti in base a
parallelismi o allusioni a nomi, luoghi, argomenti, forme letterarie della
Bibbia.
E' il testo di riferimento per l'estimatore di commistioni fra
l'Antico Testamento e la letteratura mesopotamica (che ritengo di relativo
interesse perché escludono capolavori come l'Epopea di Erra). Il volume è
tutt'altro che introvabile, specialmente su Internet, ma costa un occhio
della testa. Suggerisco la sola consultazione. Come, per esempio, del numero
di inventario P4778993, collocazione 3.03.H.003, presso la Biblioteca
Centrale di Lettere, Filosofia e Giurisprudenza, Via Festa del Perdono 7,
Milano. La biblioteca si trova al primo piano sopra le ex-segreterie e chiude
alle 19:00 ...
Ben 1994 Vincenzo di Benedetto, Nel Laboratorio di
Omero, Einaudi 1994
Testo universitario per i corsi di letteratura greca
contenente un capitolo che è una vera perla (parte IV, cap. 8: Achille e
Gilgamesh). Vedi: paralleli con l'epica greca.
Bot 1991 Jean
Bottero, Mesopotamia, Einaudi ed. 1991
Sorprendente Bottero, più
lungimirante del solito, in questa eterogenea raccolta di saggi. Saltate
subito le prime 215 pagine, fiacche e ripetitive, e tuffatevi nel sistema
religioso mesopotamico (argomento di cui Bottero è specialista).
Qui
troverete la brillantissima classificazione di sentimento, ideologia
e comportamento religioso (poi ripresa in Bot 1992). Inoltre una
profonda dissertazione su Ea/Enki, dio delle arti e della saggezza,
ricchissima di ellissi mitologiche. Infine le perle: analisi del dialogo del
pessimista e la mitologia della morte, dove la superba analisi di Bottero
raggiunge vertici mai più raggiunti in tutta la sua restante
produzione.
Da segnalare lo squisito assortimento iconografico, che gli
assiriologi italiani, nei loro pur validi saggi, dovrebbero prendere a
modello.
Bot 1992 J. Bottero & S. N. Kramer, Uomini e dèi della
Mesopotamia: alle origini della mitologia, Einaudi ed. 1992
Il titolo
dell'edizione originale è più accattivante: Lorsque les dieux faisaient
l'homme (primo verso dell'Atramkhasis). Questo tomone di oltre 800 pagine
contiene aggiornate traduzioni integrali dei maggiori miti mesopotamici (fra
cui Enuma Elish, Epopea di Erra, Discesa di Ishtar agli Inferi e, il mio
preferito, Ninurta e le pietre). I miti in sumerico sono tradotti dal
sumerologo Samuel Noah Kramer dell'università di Pennsylvania, autore del
celebre ma introvabile I sumeri alle radici della storia (1979, Newton
Compton).
L'enciclopedismo è il pregio di questa indispensabile
antologia, anche se vi sono inspiegabili assenze, come il mito di Etana o
quello di Adapa. Manca del tutto la sottigliezza critica di un Kott o di un
Saporetti, come rivelano i giudizi molto netti e personali che affiorano tra
le pagine. Emblematica è l'Avvertenza degli autori, in cui si giustifica
l'assenza dell'indice analitico, ritenuto superfluo, con pretesti infantili.
Non meraviglia che i francesi lo abbiano premiato col Gran Prix
National d'Histoire 1989.
Bot 1994 J. Bottero & M.-J. Steve, La
Mesopotamia: dalla scrittura all'archeologia, Universale Electa/Gallimard
1994
Bot 1996 J. Bottero, Dai Sumeri ai Babilonesi: i popoli della
Mesopotamia, Universale Electa/Gallimard 1996
Riecco il Bottero
privilegiare le città scoperte da connazionali: Mari e Ugarit in primis.
Minima la considerazione per Ebla, fulcro della civiltà di mezzo tra Egitto e
Mesopotamia, scoperta dagli italiani. Una cosa va detta: i francesi - pur nel
loro stolto campanilismo - hanno un talento manageriale che a noi manca. Nel
buon nome della Gallimard la sezione iconografica è curatissima. Quella
antologica non impaurisce ma è invitante, anche per il profano, grazie ad
un'accattivante selezione dei testi.
Cer 1995 C. W. Ceram, Civiltà
Sepolte, Einaudi 1952 (ed.1995)
Testo datato ma esemplare per la «lezione
etica» (p. xvi), l'organizzazione sistematica e l'efficace stile narrativo
(un esempio: "Consiglio il lettore di non cominciare questo libro dalla prima
pagina").
Il volume è brillantemente diviso in sezioni monotematiche: Il
libro delle Statue (mondo greco); Il libro delle Piramidi (antico Egitto); il
libro delle Torri (Mesopotamia); il libro delle Scale (civiltà
precolombiane); i libri che non si possono ancora scrivere (appendice su
Ittiti, Ugarit e antica Siria); i libri che si potrebbero scrivere (appendice
di Donatella Taverna su Chatal Houyuk, Thera, Seleucia e Ebla). Inutile dire
che gli ultimi due libri sono i più affascinanti.
Nonostante un
«abisso scientifico» separi l'attuale ricerca archeologica da quella
descritta da Ceram (per farsi un'idea si confronti il Libro delle Torri con
Pet 1988), questo libro è «l'iniziazione ancor oggi più
brillante all'archeologia» (p. xx, introduz.).
Dag 1997 Franco
D'Agostino, Gilgames alla conquista dell'immortalità, Piemme 1997
Dopo
generazioni di studiosi per rimettere assieme il Gilgamesh arriva D'Agostino
che lo frantuma di nuovo con incessanti commenti (nemmeno i frammenti di
Eraclito subirono mai simile sorte biginesca). Il Gilgamesh di D'Agostino
risulta ahimè ILLEGGIBILE.
D'Agostino si elegge a «guida che indichi la
strada» perché senza di essa si rischia di finire in «vicoli ciechi, o peggio
a fraintendimenti» (p. 10, introduzione). Ma, per non far sentire solo il
lettore nella sua ignoranza, D'Agostino esibisce un suo bel fraintendimento
già nel sottotitolo al libro: «l'uomo che strappò il segreto agli dei». Chi?
Gilgamesh che tornò a Uruk coi capponi di Renzo? o forse era Utnapishtim, ma
tutto fa brodo?
Perché allora includere questo zagabrio nella mia
bibliografia? La buona iconografia e la gustosa aneddotica zampillante dalle
note riescono a tenere a galla quest'arca nel diluvio
dell'arroganza.
Fal 1992 F. Mario Fales, Lettere dalla corte assira,
Marsilio Editori 1992
Meravigliosa antologia di lettere dalle biblioteche
assire. Da segnalare le commoventi suppliche - splendide sul piano stilistico
- indirizzate ad Assurbanipal dagli esorcisti Adad-Shumur-usur e Urad-Gula.
Pubblicazione unica nel suo genere nel panorama editoriale italiano (testo
neo-assiro a fronte).
Fir 1999 Giulio Firpo, Le rivolte giudaiche,
Editori Laterza 1999
Gal 1969 (a cura di) E. Galbiati, La Storia della
salvezza ne L'Antico Testamento, Mimep 1969
In verità, in verità vi
dico che questo testo è troppo approssimativo per gli scopi del sito. Più
idonee consultazioni bibliche sono il testo CEI del '74 o, meglio ancora, la
Nuovissima Versione dai testi originali pubblicata dalla San Paolo (ringrazio
Antonio G. dell'Università di Milano per i suggerimenti).
Geo
1999 Andrew George, The Epic of Gilgamesh - a new translation, Penguin
Classics 1999 (in inglese)
Una sorta di "bibbia di Gilgamesh"
imperdibile per l'appassionato, splendidamente strutturata e magnificamente
illustrata. Vi troverete "quasi" tutto: dalle tavolette di Pennsylvania agli
esercizi scolastici degli appendisti scribi, fino ai poemetti sumerici di
Bilgames (compresa un'aggiornatissima versione della Morte di Gilgamesh).
Lacunose invece le versioni extrababilonesi dell'epopea (epopee ittita,
hurrita, elamita) che, come al solito, si possono trovare solo su Pet 1992
(citato ed elogiato a p. 142 dal lungimirante George).
Irrilevante
invece la sezione saggistica. Le cinquanta pagine di introduzione sono
veramente sciatte (forse destinate al lettore medio americano) e inutili per
chi voglia andare oltre il testo. Il Ghilgames di Saporetti è anni luce
superiore (e più aggiornato) del testo di George.
GEN 2000 I libri
della Bibbia: Genesi, Einaudi 2000
Tolta la farneticante introduzione di
Steven Rose, il tomo si distingue per la deliziosa appendice storico-critica
di Agnese Cini Tassinario. Qui si evidenzia la stretta parentela tra la
Bibbia, l'Atramkhasis, l'Enuma Elish ed ovviamente il Gilgamesh (soprattutto
pp. 136-139).
Lei 2002 Gwendolyn Leick, Città perdute della
Mesopotamia, Newton & Compton editori 2002
L'esotico titolo
italiano mette fuori strada. Non si parla di misteri o fanta-archeologia,
bensì dello sviluppo urbano in Mesopotamia dai Sumeri ai (neo)Babilonesi.
Ugualmente, la selezione delle città tradisce la visione mesopotamocentrica
dell'autrice. Una concezione, tipicamente anglosassone, superata da decenni
con la scoperta di antichissime capitali in Siria, Anatolia, Iran, area Egea
(come le città del VII millennio a.C. in Tessaglia). Per un'analisi meno
distorta rimando alla collana, edita da Laterza, sulla storia della
città.
Mar 2003 Stefano de Martino, Gli ittiti, Carocci Editore
2003
Inutile ricordare che Gilgamesh è protagonista anche della mitologia
ittita (alcuni esempi in Geo 1999 e Pet 1992). Ma chi diavolo erano gli
ittiti? Se intendete scoprirlo by-passate libri delle rupi e orientatevi
altrove. La povertà iconografica è una costante di questo libretto ma la
serietà filologica assolve l'autore.
Mat 1986 Paolo Matthiae,
Scoperte di archeologia orientale, Laterza 1986
Prosecuzione ideale di
Cer 1995 ma con un piglio più scientifico. Avvincente la critica
fenomenologica dell'archeologia biblica. Altrettanto splendidi gli argomenti,
fra i quali ricordo le colonie sumeriche del lago Assad; l'identificazione di
Anshan; l'enigma di Avaris; la cultura Peleset (filistei); gli archivi reali
di Ebla.
Mat 1995 Paolo Matthiae, Ebla. Un impero ritrovato, Einaudi
(1977) ediz. 1995
Trovate una mia estesa recensione nella sezione
dedicata ai books. Da segnalare l'identificazione del toponimo Ebla con la
Foresta dei Cedri (pp. 60-61).
Mat 2000 Paolo Matthiae, La storia
dell'arte dell'Oriente Antico, Electa 2000
Velleitaria opera che merita
almeno la consultazione. Non l'acquisto a causa del prezzo inverosimile
(quasi 100 euro a volume) e delle molteplici "virtù": 1) stile farragginoso
agli antipodi di Argan (in cui Matthiae indulge più del solito); 2)
imbarazzante qualità di molte illustrazioni; 3) figure non numerate e
conseguente mancanza nel testo di riferimenti alle fotografie; 4) mancanza
delle fonti iconografiche; 5) mancanza di indice analitico; 5) mancanza di
glossario dei termini tecnici...
McCall 95 Henrietta McCall, Miti
mesopotamici, ed. Mondadori 1995
Piccola e carina antologia redatta da
una curatrice della sezione archeologica del British Museum. Molta cura nella
parte iconografica ma frettolosità nella scelte ed ahimè mancante di indice
analitico.
Certe approssimazioni sono tollerabili in simili edizioni per
non specialisti. Ma non datele retta quando traduce "foresta dei pini" al
posto di "foresta dei cedri"!
Naturalmente, per completezza, dovete
procurarvi, nella stessa collana, Miti greci di Lucilla Burn. Scoprirete così
che la scala del cielo non è appannaggio di Nergal o Namtar ma è percorsa da
una folla di greci: Teseo, Piritoo, Eracle, Orfeo, Ulisse, Alcesti,
Persefone, Elena...
Mun 2003 Gilles Munier, Iraq, Diecimila anni in
Mesopotamia, Il leone verde 2003
Roa 1992 Michael Roaf, Atlante della
Mesopotamia e dell'antico Vicino Oriente, Istituto Geografico De Agostini
1992
Pet 1988 Giovanni Pettinato, Babilonia, centro dell'universo,
Rusconi Libri 1988
Buon saggio di Pettinato che ricostruisce l'immagine
storica di Babilonia da dati archeologici ed epigrafici. Per comprendere una
buona volta come la cultura assiro-babilonese sia in realtà 1% assira e 99%
babilonese.
Notevole il florilegio di testi integrali dell'epoca
neobabilonese che si trova in appendice. Fra essi si distinguono l'editto di
Nabucodonosor per il restauro dell'etemenanki (torre di Babele) e l'Enuma Anu
Enlil (serie di presagi da osservazioni astronomiche).
Pet
1992 Giovanni Pettinato, La saga di Gilgamesh, Rusconi Libri
1992
Testo leggendario ma ormai fuori catalogo. Nella mia nota
bibliografica sono proposte alternative di recente pubblicazione. Pur non
essendo aggiornatissimo, rimane la più completa antologia su Gilgamesh
mai pubblicata al mondo (come conferma Geo 1999, p. 142). Un'occhiata
alla bellissima introduzione, alla ricchissima bibliografia e alle
versioni extrababilonesi (epopee ittita, hurrita, elamita) vi
convincerà.
Se trovate l'occasione, non perdetevi gli incontri pubblici
di Pettinato (presentazione libri, seminari, ecc.). C'è solo da
imparare.
Pet 1998 Giovanni Pettinato, La scrittura celeste, Mondadori
1998
Lo studio dell'astrologia babilonese - della quale sommi testi sono
l'Enuma Anu Enlil e il Mul.Apin - è diventata sempre più importante
nella comprensione della storia e della cultura mesopotamica. Per esempio,
la barbara pratica del sostituto regale in Assiria (vedi anche Bot 1991)
trae origine da presagi astrali ritenuti infausti per il sovrano.
In
questo lavoro troviamo un Pettinato ipertrofico ma completo come
sempre (testi, citazioni, appendici, bibliografia, note, indici a non
finire). Da segnalare l'ottima (finalmente!) sezione fotografica e il curioso
il frizzo a Bottero (Introduzione, p. 11) col quale si riconcilia
analizzando, guarda un po', la pratica del sostituto regale (cap.
XI).
Di più facile lettura (anche per le divagazioni alla Martin Mystere
nel capitolo che collega i culti di Harran a Sandro Botticelli o il culto
di Ishtar ai Templari) è il divertente Cielo di Babilonia, Michael
Baigent, Marco Tropea Editore (2003).
Pet 2001 Giovanni Pettinato,
Angeli e demoni a Babilonia, Mondadori 2001
Forse il lavoro meno riuscito
di Pettinato. Un'operazione commerciale (le prime 100 pagine sono riciclate
da lavori precedenti) che delude le aspettative come, per esempio, nella
sezione su Lamashtu e Pazuzu. Avrei suggerito un saggio in forma di
dizionario: A... ASAKKU, G... GALLU, ecc. (Jeremy Black ne sa
qualcosa).
Pon 1996 Simonetta Ponchia, La palma e il tamarisco (e
altri dialoghi mesopotamici), Marsilio Editori 1996
Analisi del
dialogo mesopotamico nelle sue varianti (mito eziologico, disputa amorosa,
ecc.). Un delizioso libriccino contenente, fra gli altri, una versione
aggiornata del dialogo del pessimismo (cfr. Bot 1991), il poemetto del giusto
sofferente (intitolato Teodicea Babilonese) e la tenzone Palma vs. Tamarisco.
Quest'ultimo mito dialogico è indispensabile per capire il mito di Ishtar e
Shukaletuda, precursore - con varianti! - della vicenda di Ishtar e Ishullanu
della tav. VI.
Pon 2000 Simonetta Ponchia, Gilgamesh: il primo eroe,
antiche storie della Mesopotamia, Nuove edizioni Romane, ottobre
2000
Trovate una mia estesa recensione a quest'antologia nella sezione
dedicata ai books. Da segnalare una bellissima versione del mito di Enmerkar
contro Ensukeshdanna e il poemetto Gilgamesh e Hubaba, versione più antica (e
più bella!) delle avventure nella Foresta dei cedri (tavole IV-V
dell'epopea ninivita).
Pro 1986 B. Proto, Alle fonti della storia
vol. I, Mursia ed. 1986
San 1994 (a cura di) N. K. Sandars, L'Epopea
di Gilgamesh ed. Adelphi 1994
Testo molto noto ma ultradatato (l'edizione
originale è del 1972). Un gioco accademico dalle dubbie finalità ma
piacevolissimo alla lettura. Mediocre la traduzione italiana quindi, se la
trovate, gustatevi l'edizione originale (Penguin Classics).
L'autore è
in realtà un'autrice (Nancy) ma nei paesi anglosassoni vige la credenza
sessista che le donne possano vendere libri solo nascondendo il nome sotto
iniziali posticce.
Sap 1996 Claudio Saporetti, Come sognavano gli
antichi, Rusconi 1996
Il migliore lavoro di Saporetti (Sap 2001 non ha lo
stesso smalto). Tra i numerosissimi esempi analizzati troviamo tutti i sogni
del Gilgamesh (i sogni premonitori a Uruk, i cinque sogni nel viaggio alla
Foresta dei Cedri, il sogno del consiglio degli Anunnaki, il sogno della Casa
della polvere, i sogni di Utnapishtim, il sogno della morte di Gilgamesh) con
utili raffronti tra canone e versioni paleo- e
medio-babilonesi.
Notevoli gli esempi tratti dalle letterature ittita,
ugaritica, egizia, greca e biblica. Eccellente e completa la seconda parte
del volume, interamente dedicata al Libro dei Sogni assiro.
Sap
2001 Claudio Saporetti, Il Ghilgames, Simonelli Editore 2001
Per
quanto ne so trattasi della più recente traduzione italiana
integrale dell'epopea di Gilgamesh. Se lo ordinate in libreria state molto
attenti al titolo (GHI e non GI). Il lavoro mi lascia perplesso per molti
motivi. La rilegatura è atroce e non dura una settimana. Non c'è un'immagine
o illustrazione a pagarla, a parte l'immodesto faccione dell'autore in
quarta di copertina. Ma le note più dolenti sono nel
contenuto.
L'autore ha voluto darci una versione arcaica (a suo dire più
autentica) del testo rinunciando all'originale divisione in versi e quindi
alla loro numerazione. Una decisione 1) contraddittoria (l'epopea è un poema,
non un romanzo), 2) mortificante (si confronti la divisione in quartine che
si trova in Geo 1999), 3) osteggiante lo studioso (si nega al lettore
meno paziente la possibilità di raffronto con altre traduzioni,
confronto possibile grazie alla numerazione dei versi).
Veniamo alle
note positive. L'approccio del libro non è per profani ma se avete perso un
po' di tempo leggendo le mie pagine dedicate a Gilgamesh potete affrontare la
lettura senza difficoltà, anzi con godimento. Per esempio, la premessa è una
meraviglia per l'acuta lettura psicologica dell'uomo Gilgamesh ("il
Ghilgames" del titolo perfettissimo). In solo una pagina Saporetti è stato in
grado di cogliere i lati più nascosti di Gilgamesh, a differenza, per
esempio, di un George che spende più di cinquanta pagine in
perifrasi.
Smi 1876 George Smith, The CHALDEAN ACCOUNT of GENESIS,
containing the description of the creation, the deluge, the tower of Babel,
the destruction of Sodom, the times of patriarchs, and Nimrod; Babylonian
fables, and legends of the gods; from the cuneiform inscriptions Ed. 1876
Scribner, Armstrong & CO, New York
Imperdibile edizione originale
pubblicata in America quattro anni dopo la scoperta della tavoletta del
diluvio. Non affannatevi: è liberamente consultabile su Internet nella
Cornell Digital Library Collection. Fedele alla prima edizione inglese
(1875), è certamente alternativa migliore all'irreperibile edizione tedesca
(George Smith, Chaldäische Genesis, Lipsia 1876) citata da Giovanni
Pettinato.
Attenzione! Nel testo non troverete mai il nome "Gilgamesh".
Infatti il pioniere Smith utilizzò una pronuncia sillabica provvisoria:
Gilgamesh fu letto come Izdubar, Enkidu come Heabani, Utnapishtim come
Hasisadra.
Altri Testi Ecco alcuni testi per i lettori desiderosi di
ampliare i propri orizzonti mettendo a frutto la conoscenza della letteratura
mesopotamica. Qui viene la parte divertente!
Ale 1991 Il romanzo di
Alessandro, Einaudi 1991
Mix ellenistico/tardo-latino delle leggende di
Alessandro Magno a cura di Monica Centanni (ottima la sua, non semplice,
introduzione). La tangente di Etana e Gilgamesh parte proprio da qui.
Destinazioni: Persia, Arabia, Armenia, Bisanzio...
Bus 1999 Giulio
Busi, Simboli del pensiero ebraico, Einaudi 1999
Splendido tomone dove
Gilgamesh & CO. sono ripetutamente tirati in ballo. Vedi per esempio le
voci eden (-> la steppa dove vive Enkidu o il giardino di lapislazzuli di
Shamash) o tevah (-> l'arca di Utnapishtim). Ma vedi soprattutto afar
(-> Casa della polvere) con cui Semerano (p. 60, Sem 2001) riformulerà
l'apeiron di Anassimandro.
Pad 2002 Roberta Padovano, Dove sorge
l'arcobaleno, Edizioni Il dito e la luna 2002.
Il motivo della coppia
Gilgamesh-Enkidu colpisce spesso gli esegeti dell'omosessualità nel mondo
classico. A loro consiglio questo grandioso saggio di Roberta Padovano.
L'approfondimento è serio ed esauriente (da Gilgamesh alla psicoanalisi,
dall'India alla Cina, dall'islam al Sudamerica...). Al di là del capitolo su
Gilgamesh (che non commento per evitare conflitti di interesse, vedi la nota
5 a pagina 15!) trovo interessantissime le esplorazioni del Libro dei Morti e
del Corano.
Per 1987 Sylvia Brinton Perera, La grande Dea, ed. Red
Como 1987
La prima parte del volume contiene i miti più belli di Inanna
(nella versione di Kramer): il proemio di Enkidu agli Inferi, viaggio di
Inanna a Eridu, il corteggiamento di Dumuzi e la discesa agli Inferi. Nella
seconda parte i miti sono rivisitati in chiave junghiana sulla base
dell'esperienza dell'autrice con donne in terapia. Memorabile la lettura di
Inanna (discesa in terapia), Gugalanna (animus junghiano), Ereshkigal (doppio
incestuoso e femminile represso), Galatur e Kurgarra (terapisti empatici
asessuati) e Geshtinanna (ascesa dalla terapia). Le "approssimazioni" a fini
dimostrativi (es. Ninlil = Ereshkigal, Enki patrono dei terapisti) non
invalidano il corpus di questa bellissima e imperdibile analisi.
San
1984/2003 Giorgio de Santillana/Hertha von Dechend, Il mulino di Amleto,
Saggio sul mito e sulla struttura del tempo, Adelphi ed. 1984 (o
2003)
La chiave di lettura di questa biblioteca di Balele del mito può
trovare anche dissenzienti:
«Tutte le avventure di Gilgamesh, per
terrestre che sia la loro descrizione, non hanno affatto un corrispettivo
terrestre: sono invece concepite da cima a fondo in termini astronomici» (p.
381, ed. 1984)
Sarà un caso che giusto questa frase sia stata espunta
dall'edizione 2003? Al di là di certi imperdonabili omissis della nuova
edizione, è un saggio da leggere e rileggere in qualsiasi forma.
Sem
2001 Giovanni Semerano, L'infinito: un equivoco millenario, Bruno Mondadori
ed. 2001
Amate le sfide? Confrontatevi con questo tosto testo che
rivoluziona gli studi delle origini del pensiero greco. Semerano, beffardo
sacerdote dell'etimologia, polverizza l'accademica separazione tra semitico
e indoeuropeo. Il tutto, facendo volteggiare tra mani da giocoliere
l'essente di Heidegger, il grande Pan di Penelope, gli immortali mortali di
Eraclito, la dracena marina Tiamat dell'Enuma Elish.
Semerano subisce
una singolare fascinazione per il leggendario re di Uruk: incontriamo
Gilgamesh sovente dalla prima all'ultima pagina del libro. L'autore leviga un
poco il mito ad uso dimostrativo (la pianta dell'irrequietezza è trasformata
in pianta dell'immortalità) ma la sua arte è davvero la scapola di
Pelope.
Imperdibile il capitolo su Eraclito. Una giostra filosofica
mozzafiato un po' fine a se stessa - uno sfoggio di erudizione, direi... - ma
ristoratrice per l'intelligenza.
Sem 2003 Giovanni Semerano, Il
popolo che sconfisse la morte, Bruno Mondadori 2003
Che incanto! Come
dire... l'infinito parte seconda
Link I siti dedicati all'Epopea di
Gilgamesh sono molti - soprattutto in lingua straniera - ma quelli utili
davvero pochi. Spesso questi siti sono superficiali, privi di bibliografia,
si perdono in sciocchezze (ufo, misteri) o vanno subito fuori tema (ebraismo,
ecc.).
digilander.libero.it/porzy/gil/gil.htm
(in italiano)
Segnalato da Virgilio-Enciclopedia come il più completo sito italiano
sull'argomento.
www-etcsl.orient.ox.ac.uk/index.htm
(in inglese ma
imperdibile) The Electronic Text Corpus of Sumerian Literature (ETCSL).
Ottimo sito agibile anche da semplici appassionati (come il sottoscritto che
lo consulta spessissimo).
Cliccando su Catalogues/In full avrete accesso
al menu per argomenti (composizioni religiose, codici delle leggi, esercizi
scribali, ecc.). Cliccando su Narrative and mythological compositions
troverete non solo tutti i poemetti sumerici di Gilgamesh ma anche le
trascrizioni complete di documenti pseudo-storici che accennano imprese del
sovrano Gilgamesh. Tra questi la Lista reale sumerica (Sumerian King List,
vv. 95-133) e la Storia di Tummal (The history of the Tummal, vv. 12-16).
Date pure un'occhiata agli interessantissimi cataloghi dalla biblioteca di
Nippur (Nibru) per i bellissimi incipit in sumerico! Nella Consolidated
Bibliography noterete che Pettinato è spesso citato.
The Epic of
Gilgamish (the Pennsylvania Tablet)
(in inglese) Dopo il ritrovamento,
avvenuto nel 1914, della celebre tavoletta di Pennsylvania, Stephen Langdon
pubblicò tre anni dopo uno splendido studio del frammento del poema
paleobabilonese. L'intero lavoro originale (text-pdf) e le immagini del
reperto (plates) sono ora interamente scaricabili dal database. La sezione
Salles des Antiquités Orientales riporta molte foto delle scoperte di Botta,
tra cui il bassorilievo da Khorsabad di Gilgamesh (Héros étouffant un petit
lion), gli splendidi tori assiri (Taureau ailé assyrien), la dea Ishtar (la
grande déesse babylonienne).
(in inglese) Sito del British Museum. La
ricerca per parole chiave consente di accedere direttamente a magnifiche foto
che riproducono documenti eccezionali: la tavoletta dell'Atramkhasis
(Cuneiform tablet with the Atrahasis Epic); la tavoletta del diluvio (Flood
tablet); la tavoletta dall'Enuma Elish (Epic of Creation); la tavoletta con
la discesa agli Inferi di Ishtar (Ishtar's descent...); la maschera del
guardiano della foresta dei cedri Khubaba (Clay mask of the demon
Huwawa).
(in tedesco) Gilgamesch-Epos. Uno dei pochissimi siti
sull'Epopea veramente ben fatti. Contiene il testo ordinato di tutte le
dodici tavole, una sezione dedicata alle divinità (Babylonische Götterwelt),
un utilissimo regesto (Namen und Erläuterungen) e altro ancora.
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