Le traduzioni dei testi originali di Pëtr Kropotkin, Introduzione 7 Nota
bio-bibliografica 27 I. La nascita dello Stato 33 II. La Rivoluzione
francese 49 III. Questioni di metodo 61 IV. L'aiuto reciproco in natura
79 V. La solidarietà umana 93 VI. L'etica 119 VII. Piccolo è bello
147 VIII. L'integrazione del lavoro 181 IX. Il comunismo anarchico
205 NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842
da famiglia principesca di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva
avuto una posizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo aver
frequentato la scuola militare più esclusiva della Russia zarista - il Corpo
dei Paggi a San Pietroburgo - nel 1862 sceglie di recarsi in Siberia
come esploratore e geografo. In questi anni matura lentamente una
posizione critica verso il potere assolutista, avvicinandosi dapprima alle
idee liberali, poi a quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di
andare in Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli
internazionalisti del Giura e si avvicina alle idee anarchiche. Ritornato nel
proprio Paese, si dedica completamente all'attività rivoluzionaria che
culmina nel 1874 con il suo arresto e la prigionia nella fortezza di S.
Pietro e Paolo. Riesce a fuggire due anni più tardi, raggiungendo
l'Inghilterra e poi ancora la Svizzera, dove collabora attivamente alla
Fédération Jurassienne, dando vita tra l'altro allo stesso giornale della
Federazione, «Le Révolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle
misure controrivoluzionarie prese dopo l'assassinio dello zar Alessandro
II, emigra a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per essere
arrestato e condannato a cinque anni di prigione per attività
sovversiva. Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta campagna di stampa,
promossa tra gli altri da Victor Hugo ed Ernest Renan, si reca
nuovamente in Inghilterra, dove rimarrà fino al 1917. Qui pubblica quasi
tutte le sue opere principali, è tra i fondatori (nel 1886) di «Freedom» e
collabora prolificamente a varie pubblicazioni 27 anarchiche, in
particolare (ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom» e alle parigine «La
Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux» (1897-1914). In questo suo lungo
periodo londinese, collabora anche a varie pubblicazioni scientifiche e a
varie voci dell'Encyclopaedia Britannica, per cui scrive tra l'altro la
voce «Anarchismo». Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin,
insieme ad un gruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a
favore dell'intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui
considerati il pericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio alle
potenze dell'Intesa provoca la rottura con il movimento anarchico
internazionale, schierato nella sua stragrande maggioranza contro la
guerra. Nell'estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la
presa del potere da parte dei bolscevichi è progressivamente emarginato
dal nuovo potere comunista. Qui scrive L'Etica che uscirà postumo
e incompiuto. Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l'ultima grande
manifestazione anarchica in quel Paese. PRINCIPALI OPERE DI
KROPOTKIN Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati
in volumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci limitiamo ad
elencare le sue opere più importanti, indicando, oltre all'anno
di pubblicazione originale, anche l'edizione italiana più recente a
noi nota. VOLUMI Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale,
Milano 1921. La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania
1978. Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 19822. Memorie
di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980. La scienza moderna e
l'anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra 1913. Ideali e realtà nella
letteratura russa (1905), Ricciardi, Napoli 1921. Il mutuo appoggio (1902),
Salerno, Roma 1982. La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania
1975. L'Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990. 28 OPUSCOLI La legge
e l'autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961. La morale anarchica (1890), La
Fiaccola, Ragusa 1984. L'anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896),
Altamurgia, Ivrea 1973. Lo Stato e il suo ruolo storico (1896),
Anarchismo, Catania 1981. Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti
nell'antologia: R.N. Baldwin (a cura di), Kropotkin's Revolutionary Pamphlets
(1922), Dover Publication, New York 1970. PRINCIPALI OPERE SU
KROPOTKIN Per un'introduzione generale al pensiero e alla vita di
Kropotkin: AA.VV., Pierre Kropotkine. L'Ami, L'Homme, L'Anarchiste,
Paris 1921; R. MONDOLFO, Kropotkin, Prince Pëtr Alexyevich, in
Encyclopaedia of the Social Sciences, London 1930, vol. VII, pp. 602-607;
G. WOODCOCK-I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, London 1950 (ora Peter
Kropotkin from Prince to Rebel, Montréal-New York 1990); N. WALTER,
Introduction, in P. KROPOTKIN, Memoirs of a Revolutionist, New York 1971, pp.
V-XXI; E. CAPOUYA-K. TOMPKINS, Introduction, in The essential Kropotkin. A
General Selection from the writings of the great Russian anarchist thinker,
New York 1975, pp. VII-XXIII; M.A. MILLER, Kropotkin, Chicago e London 1976;
H. READ, Introduzione a P. KROPOTKIN, La società aperta (scritti scelti),
Milano 19762; A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin. Ciencia, ética y
anarquía, Madrid 1978; M. LOLLI LARIZZA, Stato e potere
nell'anarchismo, Milano 1986, pp. 66-93; P. MARHALL, Demanding the
Impossible. A History of Anarchism, London 1992, pp. 309-338; J. SLATTER (a
cura di), P.A. Kropotkin's Sesquicentennial: A Reassessment and a
Tribute, Durham 1992. Sulla concezione kropotkiniana del mutuo appoggio si
vedano le varie interpretazioni di P. AVRICH, Introduction in P.
KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, New York 1972, pp. 1-10; W.
RYDZEWSKI, La notion des liens sociaux et la vision de l'histoire dans
la doctrine sociale de Kropotkine, «Archiwum Hist. filozofii i
Mysli Spoecznej» XXIV (1978), pp. 89-123; A. MONTAGU, Foreword, in
P. KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, Boston 1980;
G.P. 29 PRANDSTRALLER, Attualità di Kropotkin, in P. KROPOTKIN, Il
mutuo appoggio. Un fattore dell'evoluzione, cit., pp. 7-48; D. MILLER,
Peter Kropotkin (1842-1921): Mutual Aid and Anarcho-Communism,
in Rediscoveries, a cura di J.A. HALL, Oxford 1986, pp. 85-104; J.
HEWTSON, Mutual Aid and the Social Significance of Darwinism, in P.
KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, London 1987, pp.
VII-XII, 1-11; M. CONFINO-D. RUBISTEIN, Vingt-cinq lettres inédites de
Pierre Kropotkine à Marie Goldsmith, 27 juillet 1901-9 juillet 1915,
«Cahiers du monde russe et soviétique», XXXIII (1992), pp. 243-302; R.
KINNA, Kropotkin's Theory of Mutual Aid in Historical Context,
«International Review of Social History» vol. 40, part. 2 (agosto 1995), pp.
259-283. Sulle idee kropotkiniane di decentramento industriale, di
federalismo e di integrazione città-campagna e lavoro manuale-lavoro
intellettuale, cfr. le appendici di C. WARD ai capitoli dell'edizione
italiana di Campi, fabbriche, officine da lui curata (London 1974, Milano
19822); C. Doglio, Federalismo comunitario (Kropotkin), «Volontà», n.
12, 1950, ora in: C. MAZZOLENI (a cura di), Carlo Doglio. Selezione
di scritti, Venezia 1992; C. WARD, Kropotkin's Federalism, «The Raven»,
vol. 5, n. 4 (1992), pp. 327-341; C. BERNERI, P. Kropotkin federalista
(1925), in Il federalismo libertario, Ragusa 1994, pp. 70-91. Sul concetto di
legge in Kropotkin cfr. C. CAHM, Kropotkin and Law, in Law and Anarchism, a
cura di Thom Holterman e Hene Van Marseveen, Rotterdam 1980, pp. 151-163; C.
BAX, Kropotkin and Law, in Law and Anarchism, cit., pp.
164-172. Sull'etica kropotkiniana cfr. le varie interpretazioni di N.
LEBEDEV, Introduction a P. KROPOTKIN, Ethics. Origin and Development,
New York 1968, pp. IX-XVI; P. AVRICH, Anarchist Portraits, Princeton 1988,
pp. 53-78; G. WOODCOCK, Introduction, in P. KROPOTKIN, Ethics, Montréal 1992,
pp. VII-XXI; A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin, cit., pp. 44-144;
P. MARSHALL, Demanding the Impossible..., cit., pp. 309-338; M.A. MILLER,
Kropotkin, cit., pp. 195-198; G.P. PRANDSTRALLER, Kropotkin: il problema
dell'etica, «Volontà», XXXV (1989), n. 2, pp. 24-33; L. BORGHI, Giustizia e
mutuo appoggio, «A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 198, pp. 27-30; M. LA
TORRE, Dimenticare Kropotkin?, «A rivista anarchica», XXIII (1993), n.
199, pp. 29-38. 30 Sulla teoria kropotkiniana della rivoluzione si veda
l'ampia disamina in C. CAHM, Kropotkin and the Rise of Revolutionary
Anarchism, 1872-1886, Cambridge 1989, pp. 71-209. Ma cfr. pure le
considerazioni di J. FREIRE, Kropotkin tra riforma e utopia, «Volontà»,
XXXV (1981), n. 2, pp. 53-74; G. WOODCOCK, Kropotkin's The Great
French Revolution, «The Anarchist Papers», n. 3, Montréal-New York
1990, pp. 1-17; L. SEKELJ, Bakunin's and Kropotkin's Theories of
Revolution in Comparative Perspective, «The Raven», vol. 5, n. 4 (1992) pp.
358- 378. Sul comunismo kropotkiniano cfr. G. WOODCOCK,
L'anarchia, Milano 1966, pp. 176-182; P. AVRICH, Introduction a P.
KROPOTKIN, The Conquest of Bread, New York 1972, pp. 1-24; M.A. MILLER,
Kropotkin, cit., pp. 191-195; I. SOCHA-TURONSKA, Individuum, société
et nature dans l'anarcho-communisme de P.A. Kropotkine, «Archiwum Hist.
filozofii i Mysli Spoecznej», XXIV (1978), pp. 125-165; A.J. CAPPELLETTI, El
pensamiento de Kropotkin, cit., pp. 229-275. La più completa bibliografia
kropotkiniana è quella a cura di H. HUG, Peter Kropotkin. Bibliographie,
Edition Anares im Trotzdem- Verlag, Berlin 1994. Ampie bibliografie si
trovano anche in G. WOODCOCK - I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, cit., e
in M.A. MILLER, Kropotkin, cit. 31
I Il problema dello Stato è
centrale nel pensiero anarchico. Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri
autori non lo pone come un tema a sé stante perché gli dedica
un'attenzione più storica che teoretica con un saggio pubblicato nel 1897
che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico. In questo volume è
soprattutto storicizzata la genesi, che viene collocata, «classicamente»,
all'inizio dell'età moderna. Con tale interpretazione egli opera un distacco
netto dalla precedente tradizione anarchica, secondo cui l'entità statale
è una forma meta-storica che riassume, par excellence, il principio
informatore del dominio. Sulla scia della sinistra hegeliana, questa
tradizione aveva infatti identificato nello Stato - come del resto nella
religione - l'alienazione suprema del genere umano. Ora, tale concetto non
si ravvisa nell'anarchico russo che, al contrario, vede nella formazione
statale soltanto un momento politico storicamente ben definito e
particolare del dominio dell'uomo sull'uomo. L'umanità, infatti, è vissuta
per secoli senza conoscere questa forma politica. Qual è dunque la natura
politica, sociale ed economica dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una
sola: nell'essere costitutivamente l'intreccio organico delle funzioni
coercitive operanti contro la società. Ciò è particolarmente evidente se si
analizza il ruolo storico da 33 questi assunto nel periodo che va dal XVI
al XIX secolo. Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà,
il meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, la difesa del
territorio hanno rappresentato l'insieme concreto dell'organizzazione
trasversale di tutti i privilegi costituiti senza distinzione di sorta. Ad
esempio, lo sfruttamento economico determinato dal modo di
produzione capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svilupparsi senza
l'aiuto dello Stato, specialmente per quanto riguarda l'originaria formazione
dei grandi interessi dell'industria, del commercio e
dell'agricoltura. Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX
secolo sono state tutte dirette a liberare la persona dal giogo del lavoro
obbligatorio, la reazione dello Stato è stata sempre volta a rifondare la
struttura gerarchica entro le stesse determinazioni storiche dell'economia,
della società e della politica. Lo Stato, infatti, non è
un'entità separata dalla vita degli individui, non costituisce la loro
forma istituzionalmente alienata, la coscienza rovesciata della loro
autentica socialità. Al contrario, esso consiste nell'essere parte integrante
di ogni manifestazione individuale e collettiva. Precisamente,
quale espressione funzionante della somma dei poteri esistenti si
manifesta come principio organizzatore di tutte le espressioni particolari
del conflitto, della violenza e della sopraffazione. Lo Stato -
riassunzione suprema della loro sinergia - acquista forma, identità e
stabilità solo quando inizia l'irreversibile processo della delega di potere:
allora i vincoli umani e comunitari si traducono in istituzioni con una
vita propria, il costume lascia il posto alla legge, il governo finisce per
assorbire l'amministrazione. Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste
funzioni, dalla loro autonomizzazione prende vita la forma statale: si
passa, appunto, dal sociale al politico. I brani riprodotti qui di seguito
sono tratti dall'edizione italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del
1981, nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno. 34 LA NASCITA
DELLO STATO Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo con la
parola Stato. La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere lo
Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati dai migliori
pensatori tedeschi ma anche da molti francesi, in cui gli autori non riescono
a concepire la società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva
la solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere la società»,
di predicare il ritorno a una «guerra permanente di tutti contro
tutti». Eppure, ragionare così significa ignorare completamente i
progressi compiuti nel campo della storia durante gli ultimi trent'anni;
significa ignorare che l'uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima
di aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per 35 le
nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando appena dal XVI secolo;
significa infine disconoscere che i periodi più gloriosi dell'umanità sono
stati quelli in cui le libertà e la vita locale non erano ancora state
distrutte dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano in Comuni
e in libere federazioni. Lo Stato è solo una delle forme che la società
ha assunto nel corso della storia; e non si possono confondere tra loro
queste due entità. Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo. Non
essendo possibile avere Stato senza governo, si è detto, bisogna mirare
all'assenza del governo e non all'abolizione dello Stato. A mio avviso,
tuttavia, nello Stato e nel governo si debbono identificare due nozioni di
ordine diverso. L'idea di Stato indica una cosa ben diversa dall'idea
di governo. Essa comprende non solo l'esistenza di un potere collocato al
di sopra della società, ma anche una concentrazione territoriale e una
concentrazione di molte funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e
comporta altresì l'instaurarsi di nuovi rapporti con i membri della
società. Si tratta, come si vede, di una distinzione che a prima vista può
sfuggire, ma che appare chiara quando si studiano le origini dello
Stato. Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c'è che un mezzo
per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico, cosa che tenteremo di fare nel
presente lavoro. L'impero romano fu uno Stato nel vero senso della parola,
tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di riferimento per l'uomo di
legge. Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima un vasto
dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita economica, la vita militare, i
rapporti giudiziari, le ricchezze, l'educazione e persino la religione. Da
Roma provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere il
territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell'impero risaliva al
Senato, e più tardi a Cesare, l'onnipotente, l'onniscente, il dio
dell'impero. Ogni provincia, ogni distretto, aveva il suo Campidoglio in
miniatura, la sua 36 piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva
tutta la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma, regnava
sull'impero; e questo non era una confederazione di cittadini, ma solo un
gregge di sudditi. Ancor oggi il legislatore e l'autoritario
ammirano l'unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue leggi, la
bellezza - a loro dire - e l'armonia di questa organizzazione. Ma lo
sfacelo interno, assecondato dalle invasioni barbariche, la morte della vita
locale, l'incapacità di resistere agli attacchi esterni e alla cancrena
interna, spezzarono l'impero. Dalle sue rovine nacque una nuova civiltà,
che oggi è la nostra. Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà
antiche per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della giovane
civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a sua volta, dette origine ai
nostri Stati moderni, riusciremo a comprendere meglio l'essenza dello Stato.
Si tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di quello che
sarebbe possibile fare immergendoci nell'esame dell'impero romano o di quello
di Alessandro, oppure nell'esame del dispotismo orientale. Prenderemo
quindi come punto di partenza quei possenti demolitori barbari dell'impero
romano, tentando di rintracciare l'evoluzione della nostra civiltà dalle
sue origini fino alla fase statale. La maggior parte dei filosofi del
XVIII secolo si era fatta un'idea molto elementare dell'origine
delle società. All'inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in piccole
famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro. Questa guerra rappresentava
la condizione normale. Un bel giorno, però, si resero conto degli
inconvenienti di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di
mettersi in società. Un contratto sociale fu concluso tra le famiglie
sparse, che si sottomisero volentieri ad una autorità la quale - ho bisogno
di sottolinearlo? - divenne il punto di partenza e l'iniziatrice di ogni
progresso. Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l'abbiamo appreso a
scuola, che i nostri governi attuali hanno 37 mantenuto questa loro
positiva immagine di sapienti pacificatori e civilizzatori della specie
umana. Questa idea, concepita in un'epoca in cui non si sapeva ancora
molto sulle origini dell'uomo, dominò per tutto il secolo; e va riconosciuto
che nelle mani degli enciclopedisti e di Rousseau, l'idea del «contratto
sociale» diventò un'arma potente per combattere la monarchia di diritto
divino. Però, malgrado i servizi resi in passato, questa tesi deve essere
riconosciuta come falsa. In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci,
nonché alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali vivono in
società. Nella lotta per la vita sono le specie sociali che vincono su quelle
che non lo sono. In ogni classe di animali esse occupano il vertice della
scala, e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi vivessero già
in società. Non è l'uomo quindi che ha creato la società, ma
questa preesisteva all'uomo. Al giorno d'oggi la cosa è nota, avendo
l'antropologia chiarito perfettamente che il punto di partenza
dell'umanità non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La
famiglia patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene dipinta
dalla tradizione ebraica, non fece la sua apparizione che molto più tardi:
trascorsero decine di migliaia di anni durante i quali l'uomo visse nella
fase tribale o clanica; e in questa prima fase - chiamiamola pure, se così
ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio - l'uomo sviluppò tutta una
serie di istituzioni, di usi e di costumi molto anteriori alle istituzioni
della famiglia patriarcale. [...] Questa fase durò diverse migliaia di
anni, e i barbari che invasero l'impero romano l'avevano
attraversata, anzi ne uscivano appena allora. Nei primi secoli della
nostra era immense migrazioni interessarono le tribù e le confederazioni
tribali che abitavano l'Asia centrale e boreale. Enormi fiumane
di popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi 38 dagli
altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla rapida essiccazione di
questi altipiani, si riversarono sull'Europa urtandosi fra loro e
mescolandosi nel tentativo di spingersi verso occidente. Nel corso di
queste migrazioni, durante le quali tante tribù di origine diversa si
trovarono riunite, le tribù primitive che ancora esistevano nella maggior
parte degli insediamenti selvaggi d'Europa, dovettero
necessariamente scomparire. La tribù era basata sulla comunanza di
origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva più esistere alcuna
comunanza di origini in quelle agglomerazioni che uscirono dal confuso
miscuglio delle migrazioni, delle scorribande, delle guerre
inter-tribali, durante le quali, qua e là, incominciava a
scorgersi l'origine della famiglia patriarcale, il nucleo che
andava formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti ad
accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle tribù vicine. Gli
antichi legami vennero così spezzati e sotto pena di dispersione (come
avvenne, infatti, per molte tribù ormai scomparse dalla storia) nuovi legami
dovevano sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso comune
della terra, cioè del territorio sul quale una certa agglomerazione aveva
finito per insediarsi. Il possesso comune di un certo territorio - di valli
e di colline - divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei degli antenati
avevano ormai perduto il loro significato, gli dei locali, della vallata, del
fiume, della foresta, diedero la consacrazione religiosa alle nuove
agglomerazioni sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più tardi il
cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle sopravvivenze pagane, ne fece
dei santi locali. La comunità di villaggio, composta in parte o
interamente di famiglie distinte - unite tutte però dal possesso comune
della terra - divenne per i secoli che seguirono il necessario elemento di
congiunzione. [...] La comunità di villaggio si componeva, come si
com- 39 pone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno stesso
villaggio possedevano la terra in comune. Esse la consideravano come loro
patrimonio comune e la ripartivano in base all'estensione delle famiglie, ai
loro bisogni e alle loro forze. Centinaia di milioni di
uomini, nell'Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono ancora
oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito liberamente dai contadini
russi quando, in epoca recente, lo Stato ha loro permesso di occupare
l'immenso territorio della Siberia. [...] In tutti i suoi affari la
comunità di villaggio era sovrana. L'usanza locale faceva legge e l'assemblea
plenaria di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il giudice - il
solo giudice - in materia civile e penale. Quando un abitante ne «querelava»
un altro, piantava il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità
si riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo il costume
locale, dopo che il fatto contestato dalle due parti fosse stato chiarito dai
giudici. Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa fase offre
di interessante. Basterà ricordare che tutte le istituzioni di cui gli Stati
si impadronirono più tardi a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di
diritto che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze) nei nostri
codici, nonché tutte le forme di procedura giudiziaria che offrono garanzie
per l'individuo, ebbero la loro origine nella comunità di villaggio. Così,
quando crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo, ad
esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che riportare alla luce
un'istituzione dei barbari, dopo averla modificata a vantaggio delle classi
dominanti. Il diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto
consuetudinario. Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento di
unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni di libere comunità di
villaggio. Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione in
comune della terra, sovrana come giudice e come legislatore del diritto
consuetudinario, la comunità di 40 villaggio rispondeva a una buona parte
dei bisogni dell'essere sociale. Ma molti di questi bisogni
restavano ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell'epoca non era portato
a fare appello al governo non appena un nuovo bisogno si faceva sentire; al
contrario, tendeva a prendere autonomamente l'iniziativa per unirsi,
federarsi, creare un'intesa, grande o piccola, allargata o ristretta, che
rispondesse a questo bisogno. La società di allora si trovava letteralmente
ricoperta da una rete di patti di fratellanza, di cooperazioni per il mutuo
appoggio, di «congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella
federazione. [...] L'arbitraggio delle dispute era diventata
un'istituzione profondamente radicata, una pratica giornaliera; malgrado e
contro i vescovi e i reucci nascenti che avrebbero voluto che ogni disputa
venisse portata davanti a loro o davanti ai loro emissari per
approfittare della fred, un'ammenda pagata dal villaggio d'origine dei
violatori della pace pubblica. Con il tempo, centinaia di villaggi si
riunirono in potenti federazioni - germi delle nazioni europee -
che sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e difendere
reciprocamente il loro territorio considerato come un patrimonio comune.
Ancor oggi è possibile studiare queste federazioni dal vivo in seno alle
tribù mongole, ugro-finniche, malesi. [...] Lungi dall'essere quella
bestia sanguinaria che si è voluto dipingere allo scopo di convalidare la
necessità del potere, l'uomo ha sempre amato la tranquillità e la pace.
Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce il suo bestiame e la sua
terra al mestiere delle armi. È per questo che non appena le grandi
migrazioni barbariche hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le orde
e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro rispettivi territori, si è
assistito all'attribuzione dei compiti di difesa territoriale contro nuove
possibili invasioni di altri immigranti a particolari individui, i quali
iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri, di uomini agguerriti o
di briganti, mentre la gran 41 massa degli abitanti continua ad allevare
il bestiame e a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben presto
ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro (allora costosissimi) al
povero, asservendolo; si costituiscono così i primi embrioni del potere
militare. D'altra parte, la tradizione - che fa legge - viene a poco a
poco dimenticata dalla maggior parte degli individui. Resta appena qualche
vecchio che ha conservato nella memoria le strofe e i canti che raccontano i
«precedenti » di cui si compone la legge consuetudinaria, e li recita nei
giorni delle grandi feste davanti alla comunità riunita. E così, a poco a
poco, in alcune famiglie si forma una tradizione trasmessa da padre in
figlio: quella di ritenere a memoria quei canti e quei versetti,
di conservare insomma la «legge» nella sua purezza. Presso queste famiglie
si recano gli abitanti del villaggio per giudicare le loro questioni più
difficili, soprattutto quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano
di accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno. L'autorità
di principi e re è già in germe in queste famiglie, e più approfondisco lo
studio delle istituzioni di quell'epoca, più mi accorgo che la conoscenza
delle leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla costituzione di
questa autorità che non la forza delle armi. L'uomo si è lasciato
sottomettere più dal desiderio di punire secondo la «legge» che per diretta
conquista militare. Infatti la prima «concentrazione di potere », il primo
accordo reciproco a fini di dominio, è stato quello tra il giudice e il capo
militare, accordo che viene fatto contro la comunità di villaggio. Un solo
uomo riveste queste due funzioni, circondandosi di uomini armati per fare
eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi nel suo ridotto,
accumulando per sé e per la propria famiglia le ricchezze dell'epoca -
cereali, bestiame, terra - ed estendendo a poco a poco il suo dominio
sugli abitanti del circondario. L'intellettuale di quel tempo, cioè lo
stregone o il prete, non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne
il dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo 42 temuto
potere di mago, se ne impadronisce per proprio conto. Bisognerebbe
dilungarsi moltissimo su questo argomento, trattandosi di un soggetto pieno
di nuovi insegnamenti che ci fa comprendere come degli uomini
liberi diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare per il
padrone, laico o religioso, del castello; come l'autorità si costituisca man
mano al di sopra dei villaggi e delle borgate; come i contadini si ribellino
lottando contro questa dominazione crescente, ma come le loro lotte si
infrangano contro le robuste mura del castello, contro gli uomini ricoperti
di ferro che lo difendono. Sarà sufficiente dire che, verso il X e l'XI
secolo, l'Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei regimi
barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore dell'Africa, o di quelle
teocrazie, come si conoscono studiando la storia dell'Oriente. Tutto ciò non
avvenne ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e delle
piccole teocrazie già esistevano e si andavano affermando sempre
più. Fortunatamente lo spirito barbaro - scandinavo, sassone, celtico,
germanico, slavo - che aveva spinto gli uomini durante sette o otto secoli a
cercare la soddisfazione dei loro bisogni nell'iniziativa individuale e
nella libera intesa delle fratellanze e delle gilde,
fortunatamente, dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi e nelle
borgate. I barbari si lasciavano dominare, lavoravano per il padrone, ma il
loro spirito di libera intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le
loro fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano fatto
altro che risvegliarle e svilupparle in tutto l'Occidente. Fu allora, tra
l'XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei Comuni urbani sorti dall'unione
tra la comunità di villaggio e le fratellanze - rivoluzione che lo spirito
federativo dell'epoca preparava da lungo tempo - scoppiò con mirabile
accordo. Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici accademici
preferisce ignorare, salvò l'Europa dalla 43 minaccia che gravava su di
essa: arrestò l'evoluzione dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la
nostra civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine. Infatti,
dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa sarebbe stata affossata come
affossate furono le civiltà mesopotamica, assira e babilonese. Questa
rivoluzione schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei
liberi Comuni. Si capisce facilmente perché gli storici moderni,
educati allo spirito romano e preoccupati di far risalire le origini di
tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a capire lo spirito del movimento
comunalista del XII secolo. Questo movimento fu una forte
affermazione dell'individuo, che giunse a costituire la società per mezzo
della libera federazione di uomini, villaggi e città. Esso fu anche
un'assoluta negazione dello spirito unitario e accentratore romano, con il
quale si cerca ancor oggi di spiegare la storia nel nostro
insegnamento universitario. Questo movimento non si ricollega ad alcun
personaggio storico di particolare rilievo né ad alcuna istituzione
centralizzata. Fu uno sviluppo naturale, proprio, come la tribù e la comunità
di villaggio, a una certa fase dell'evoluzione umana e non a
questa nazione o a quella regione. [...] La vittoria dello Stato sui
Comuni e sulle istituzioni federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi
fu anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata da sembrare del
tutto incerta. Un immenso movimento popolare - religioso quanto a forma ed
espressione, ma sostanzialmente egualitario e comunista quanto ad aspirazioni
- si produsse nelle città e nelle campagne dell'Europa centrale.
[...] Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto nelle
campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire a chiunque e montando una
vecchia scarpa su di una picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre
ai signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano pre- 44 te e
giudice e si costituivano in libero Comune. Solo ricorrendo al rogo, alla
ruota e alla forca, al massacro di centinaia di migliaia di contadini
compiuto in pochi anni, il potere regale o imperiale, alleato della
Chiesa papista o riformata - giacché Lutero incitava al massacro dei
contadini ancor più violentemente dello stesso papa - mise fine a questo
movimento che aveva per un certo periodo minacciato la formazione degli
Stati nascenti. Nato dall'anabattismo popolare, il riformismo
luterano massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il movimento
dal quale aveva avuto origine. I resti di quell'immensa ondata si rifugiarono
nelle comunità dei «Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un
secolo dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...] Lo Stato ormai
aveva messo al sicuro la propria esistenza. Il legislatore, il prete, e il
signore-soldato, riunitisi in alleanza solidale intorno al trono, potevano,
d'ora in avanti, compiere la loro opera di distruzione. Sono moltissime le
menzogne su questo periodo accumulate dagli storici stipendiati dallo
Stato. Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo Stato avrebbe
reso il grande servizio di costruire, sulle rovine della società feudale, le
unioni nazionali, rese precedentemente impossibili dalle rivalità
cittadine. L'abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l'abbiamo continuato
a credere anche in età adulta. Oggi invece arriviamo a capire che, malgrado
tutte le loro rivalità, le città medievali avevano lavorato, durante
quattro secoli, a costruire queste unioni per mezzo della
federazione volontaria liberamente accettata, e in pratica vi erano
riuscite. La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città dell'Alta
Italia e aveva la sua cassa federale custodita a Genova e a Venezia. Altre
federazioni si ritrovavano per tutta l'Europa, come la Lega toscana, la Lega
renana (che comprendeva sessanta città), le federazioni della Westfalia,
della Boemia, della Serbia, della Polonia, delle città russe. Nello stesso
tempo l'unione commer- 45 ciale della Lega Anseatica comprendeva le città
scandinave, tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del Mar
Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi di larghe
agglomerazioni umane liberamente organizzate. La prova vivente di tali
raggruppamenti la si può vedere in Svizzera. L'unione, in questo Paese,
si affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi cantoni), non
diversamente da come si costituì, nello stesso periodo, anche in Francia, nel
lionese. E poiché in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio
non fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali, accadde che
le città diedero man forte all'insurrezione dei contadini (nel XVI secolo),
facendo in modo che l'unione risultasse più forte e si mantenesse fino
ai giorni nostri. Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può
tollerare la federazione libera, che rappresenta una cosa orrenda per
l'uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo Stato non può riconoscere
un'unione liberamente accettata che funzioni nel suo seno, esso non riconosce
che sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa, può accampare
il diritto di servire da unione tra gli uomini. Di conseguenza, lo Stato
doveva per forza distruggere le città basate sull'unione diretta tra i
cittadini: doveva abolire ogni unione nella città, abolire la città
stessa, e sostituire infine al principio federativo il principio di
sottomissione e di disciplina. È questa la sostanza stessa dello Stato, che
senza tale principio cesserebbe di esistere. Il XVI secolo - secolo di
massacri e di guerre - si riassume interamente in questa lotta dello Stato
nascente contro le città libere e le loro federazioni. Le città
vengono assediate, prese d'assalto, saccheggiate, e i loro abitanti
decimati ed espulsi. Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea,
ed eccone le conseguenze. Nel XV secolo l'Europa era piena di città
prospere, i cui artefici - muratori, tessitori, cesellatori - producevano
meravigliose opere d'arte, le 46 cui università ponevano le fondamenta
della scienza, le cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli
toccavano tutti i mari e i fiumi. Due secoli dopo resta ben poco di tutto
questo. Città che erano arrivate fino a cinquanta o centomila
abitanti, che avevano posseduto - come Firenze - più scuole e più letti
d'ospedale per abitante di quelli oggi posseduti da città meglio fornite,
sono diventate borghi in rovina. Dopo averne massacrato ed espulso gli
abitanti, lo Stato si è impadronito delle loro ricchezze. L'industria,
sotto la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne. Il
commercio muore. Le strade stesse, che una volta collegavano queste città tra
loro, nel XVII secolo diventano assolutamente impraticabili. Lo Stato è la
guerra, e le guerre devastano l'Europa, finendo di distruggere le città che
lo Stato non ha distrutto direttamente. 47
II Al nodo storico
cruciale della Rivoluzione francese Kropotkin dedica anni intensi di studio
che alla fine producono un'opera di notevole rilievo: La Grande
Rivoluzione. In questo testo l'anarchico russo delinea
contemporaneamente la sua interpretazione storica del 1789 e la sua
concezione di rivoluzione. Nella ricostruzione kropotkiniana della
Rivoluzione francese possiamo osservare la preminenza delle masse anonime
- soprattutto contadine - nei confronti delle singole
personalità storiche, la subordinazione di ogni forma di
soggettività politica all'emergenza oggettiva della corale socialità dal
basso e dunque la supremazia della dimensione collettiva rispetto a quella
individuale; inoltre, la concreta e strutturale tendenza del mutuo
appoggio manifestatasi attraverso la domanda prioritaria
dell'uguaglianza sociale, la quale risulta più profonda e significativa
della spinta ideale verso la libertà politica. In conclusione, la rivoluzione
francese costituisce per Kropotkin la riflessione storica fondamentale da
cui partire per studiare e costruire l'azione
rivoluzionaria futura. Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite
molteplici rivoluzioni (aristocratica, costituzionale,
girondina, giacobina), come è stato affermato dalle varie
storio- 49 grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una
sola rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che nel suo moto
progressivo ha cercato la propria verità nel fondo spontaneo, popolare,
comunista e anarchico che ha attraversato fin dall'inizio lo stesso evento
rivoluzionario. Questo giudizio costituisce la chiave di volta
dell'interpretazione kropotkiniana della Rivoluzione francese: il «fondo»
e l'«essenza» di questa rivoluzione non appartengono veramente alla
borghesia, che è stata rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è
stata trascinata dall'ondata popolare, alla quale ha cercato di opporre la
moderazione del costituzionalismo monarchico. La svalutazione della volontà
rivoluzionaria della borghesia attraversa tutta la ricostruzione
storica dell'anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche nelle
conquiste del liberalismo politico l'effetto di una spinta più grande e
possente: la lotta popolare per il comunismo, nella forma ancora rozza della
semplice, diretta distribuzione egualitaria dei beni. L'opera
kropotkiniana ha influenzato largamente il pensiero rivoluzionario
contemporaneo. Lenin, ad esempio, l'apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è
stata tirata in Unione Sovietica un'edizione di 43.700 copie.
Nella storiografia di sinistra del secondo dopoguerra La Grande
Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle opere di Daniel Guérin (La lutte
de classe sous la Première République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus
1793- 1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte intuizioni
dell'anarchico russo. I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall'antologia La società aperta, a cura di Herbert Read, nella traduzione
(rivista) di Annamaria Savegnago. 50 LA RIVOLUZIONE FRANCESE Due grandi
correnti prepararono e fecero la Rivoluzione francese. Una, la corrente delle
idee, il prorompere di nuove idee sulla riorganizzazione politica
dello Stato, proveniva dalla borghesia. L'altra, la corrente dell'azione,
proveniva dalle masse popolari, dai contadini e dai proletari delle città,
che volevano ottenere miglioramenti immediati e tangibili della loro
condizione economica. E quando queste due correnti si incontrarono in un
obiettivo inizialmente comune, quando praticarono per un certo periodo un
appoggio mutuo, il risultato fu la rivoluzione. I filosofi del XVIII
secolo avevano già da tempo cominciato a scalzare le fondamenta delle società
civili dell'epoca, dove il potere politico e una parte immensa delle
ricchezze apparteneva all'aristocrazia e al clero, 51 mentre la gran massa
del popolo altro non era se non la bestia da soma delle classi al potere.
Proclamando la sovranità della ragione, predicando la fiducia nella natura
umana e dichiarando che quest'ultima, pur corrotta dalle istituzioni che nel
corso della storia avevano ridotto l'uomo in servitù, avrebbe ciononostante
riacquisito tutte le sue qualità una volta riconquistata la libertà,
questi filosofi avevano aperto nuovi orizzonti all'umanità. Decretando
l'uguaglianza di tutti gli uomini, senza distinzione di nascita, chiedendo a
ogni cittadino, fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge, che si
suppone esprima la volontà della nazione quando è stata emanata dai
rappresentanti del popolo, e infine chiedendo la libertà di contratto tra
uomini liberi, nonché l'abolizione delle servitù feudali, e formulando
tutte queste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallo spirito
sistematico caratteristici del pensiero francese, i filosofi avevano senza
dubbio preparato, almeno nelle menti degli uomini, la caduta del vecchio
regime. Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente a
provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare dalla teoria all'azione,
dal concepire un ideale nella propria immaginazione al metterlo in pratica
nei fatti. E ciò che interessa oggi da un punto di vista storico sono le
circostanze che, in un dato momento, resero possibile alla nazione francese
di fare questo sforzo: dare inizio alla realizzazione dell'ideale.
[...] La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio di pochi anni,
di istituzioni che ci avevano messo dei secoli a mettere radici nel suolo e
che sembravano tanto solide e immutabili che persino i più accesi
riformatori a malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È la caduta,
lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tutto ciò che fino a quel
momento costituiva l'essenza stessa della vita sociale, religiosa, politica
ed economica di una nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e
delle nozioni condivise sulle complesse relazioni tra le varie componenti
dell'insieme umano. È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie,
nei 52 rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto
diventano realtà e cominciano così ad espandersi tra le nazioni vicine,
sconvolgendo il mondo e consegnando all'epoca successiva le sue parole
d'ordine, i suoi problemi, la sua scienza, le sue linee di sviluppo
economico, politico e morale. Per arrivare a un risultato di tale
importanza, perché un movimento assuma le proporzioni di una
rivoluzione (come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688 e in Francia
nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente che un movimento di idee, non importa
quanto radicate, si manifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che
le rivolte, non importa quanto frequenti o estese, si producano in seno al
popolo. È necessario che l'azione rivoluzionaria proveniente dal popolo
coincida con il movimento di pensiero rivoluzionario proveniente dalle
classi colte. Deve, cioè, esserci un'unione dei due. [...] Eppure la
storia di questo doppio movimento è ancora da scrivere. La storia della
Grande Rivoluzione francese è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e
da molti punti di vista differenti; ma sino a questo momento gli storici
si sono dedicati a raccontare soprattutto la storia politica, la storia delle
conquiste della borghesia a scapito del partito della Corte e di quanti
difendevano le istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamo molto
bene il risveglio del pensiero che precede la rivoluzione. Conosciamo i
princìpi che dominarono durante la rivoluzione e che si tradussero nella sua
opera legislativa. Siamo estasiati davanti alle grandi idee che lanciò in
tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercato di realizzare nei Paesi
civili. In breve, la storia parlamentare della rivoluzione, le sue guerre, la
sua politica e la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate
in tutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzione rimane
ancora da fare. La parte avuta nella rivoluzione dal popolo delle campagne e
delle città non è mai stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle
due correnti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero è
conosciuta, ma l'altra, quella dell'azione popolare, 53 non è stata ancora
nemmeno abbozzata. Sta a noi, i discendenti di quelli che i
contemporanei chiamavano gli «anarchici», studiare questa
corrente popolare evidenziandone quantomeno i tratti
essenziali. [...] Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a
reclamare l'abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto
di continuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari terrieri
quelle terre che precedentemente erano comuni, a resistere ai nobili, a
lottare contro i preti, a proteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes,
ad arrestare i nobili emigrati che tornavano o il re che scappava. Nelle
città, fu la Comune municipale a ricostruire ogni aspetto della vita, ad
arrogarsi il diritto di scegliere i giudici, a modificare di propria
iniziativa la ripartizione delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi
della rivoluzione, a divenire l'arma dei sans-culottes nella loro lotta
contro la monarchia e i cospiratori monarchici e contro gli invasori
tedeschi. In tempi ancora successivi, nell'Anno II della Repubblica, furono
sempre le Comuni che si assunsero il compito di redistribuire
le ricchezze. E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi
a detronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, il nucleo reale, la
vera forza della rivoluzione, che manterrà il proprio vigore soltanto fino a
quando la Comune sopravviverà. L'anima della Grande Rivoluzione fu dunque
nelle Comuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territorio, la
rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza di abbattere il vecchio regime, di
respingere l'invasione tedesca e di rigenerare la Francia. Sarebbe però
sbagliato rappresentarsi le Comuni di quel tempo come i moderni corpi
municipali ai quali i cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto
alle elezioni, ingenuamente affidano l'amministrazione di 54 tutti i
propri affari, senza occuparsi più di niente. La folle fiducia nel governo
rappresentativo che caratterizza la nostra epoca non esisteva durante la
Grande Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari non si separerà
mai dal popolo. Attraverso i suoi «distretti», «sezioni» o «tribù»,
costituiti come altrettanti organi di amministrazione popolare, rimarrà
del popolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzionaria a tali
organismi. Dal momento che è l'organizzazione e la vita dei «distretti» e
delle «sezioni» di Parigi che sono meglio conosciute, sarà appunto degli
organismi di questa città che parleremo, tanto più che studiando la vita
delle «sezioni» parigine impariamo a conoscere con buona approssimazione
anche la vita delle migliaia di Comuni della provincia. Fin dall'inizio
della rivoluzione, ma già da quando gli eventi avevano spinto Parigi a
prendere l'iniziativa alla vigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua
meravigliosa attitudine per l'organizzazione rivoluzionaria, si stava già
organizzando in vista della lotta che avrebbe dovuto sostenere, e della quale
sentì immediatamente l'importanza. [...] Dopo la presa della Bastiglia,
vediamo subito i distretti agire come organi riconosciuti
dell'amministrazione municipale. [...] Fu per mezzo dei distretti che,
d'allora in poi, Danton, Marat e tanti altri furono messi nella possibilità
di ispirare le masse popolari parigine con il soffio della rivolta; e fu
così che le masse si abituarono a fare a meno dei corpi rappresentativi e
cominciarono a mettere in pratica l'autogoverno. Immediatamente dopo la
presa della Bastiglia, i distretti avevano ordinato ai loro delegati di
preparare, d'accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano
di organizzazione municipale che doveva poi essere nuovamente sottoposto
ai distretti. Ma in attesa di questo schema, i distretti andarono avanti
allargando la sfera delle proprie funzioni a seconda delle
necessità. 55 Quando l'Assemblea nazionale cominciò a
discutere l'ordinamento municipale, lo fece, com'era logico aspettarsi da
un corpo così eterogeneo, con un'esasperante lentezza. «Dopo due mesi», dice
Lacroix, «il primo articolo del nuovo piano municipale doveva ancora
essere scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come «questi
ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da questo momento cominciò a
manifestarsi verso l'Assemblea dei rappresentanti della Comune un'ostilità
sempre più marcata di una parte dei suoi rappresentati. Ma quello che è
importante notare è che, mentre cercavano di dare una forma legale al governo
municipale, i distretti cercavano al contempo di mantenere la
propria indipendenza. Essi cercavano l'unità d'azione, ma
non sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all'interno di una
confederazione. «Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive
ancora Lacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo da
un forte sentimento di unità comunalista e da una tendenza non meno forte
verso l'autogoverno. [.] Parigi non vuol essere una federazione di
sessanta repubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in un proprio
territorio: la Comune è una, è composta dall'insieme di tutti i suoi
distretti [...]. Non si trova un solo esempio di un distretto che pretenda di
vivere appartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo
principio assodato, se n'è manifestato un altro [...], e cioè che
la Comune deve legiferare e amministrare se stessa quanto più direttamente
possibile; il governo rappresentativo deve essere ridotto al minimo; tutto
ciò che nella Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto senza
alcun intermediario, senza alcuna delega, o da delegati ridotti al ruolo di
mandatari con delega univoca, che agiscono sotto il continuo controllo dei
mandanti [.]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assemblee generali
di distretto, che appartiene il diritto ultimo di legiferare e di
amministrare nella Comune». Appare così evidente che i princìpi
dell'anarchismo, espressi qualche anno dopo in Inghilterra da
William 56 Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avuto origine
non in speculazioni teoriche ma nei fatti della Grande Rivoluzione.
[...] Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di rivoluzione. Per
la prima volta dopo secoli il contadino mangia a sazietà. Raddrizza la
schiena! Osa parlare! Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul
ritorno di Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigioniero da
Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chiedersi: «Una cosa simile,
un tale interesse per la cosa pubblica, una tale devozione, e una totale
indipendenza di giudizio e di azione, potevano essere possibili prima del
1789?». Stava nascendo una nuova nazione, proprio come oggi vediamo nascere
una nuova nazione in Russia e in Turchia. Ed è grazie a questa rinascita
che la Francia sarà in grado di reggere tutte le guerre della Repubblica e
di Napoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivoluzione in
Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Germania sino ai confini della
Russia. E quando, dopo tutte quelle guerre, dopo aver visto le armate
francesi arrivare sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovare la
Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla miseria, troviamo invece
che le campagne - persino quelle dell'Est e del Giura - sono molto più
prospere di quello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando a Luigi XVI
le rive lussureggianti della Marna, gli chiese se ci fosse in nessun'altra
parte del mondo un regno più bello di quello. L'energia interiore
accumulatasi nei villaggi è tale che in pochi anni la Francia diventerà un
Paese di contadini benestanti, e ben presto si scoprirà che
nonostante tutto il sangue versato e le perdite subite, la Francia, in
termini di produttività, è il Paese più ricco d'Europa. E la sua ricchezza
non la ricava dalle Indie o dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal
suo suolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità
e 57 industriosità. È il Paese più ricco grazie alla
redistribuzione della sua ricchezza, ed è ancora più ricco grazie alle
possibilità che offre per il futuro. È stato questo l'effetto della
rivoluzione. E se uno sguardo distratto non vede nella Francia di
Napoleone che l'amore per la gloria, lo storico si rende conto che persino
le guerre condotte dalla Francia in quel periodo sono state intraprese per
assicurare i frutti della rivoluzione, ovvero le terre riprese ai signori, ai
preti e ai possidenti, e le libertà sottratte al dispotismo e alla
monarchia. Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi a morte
soltanto per impedire a tedeschi, inglesi e russi di imporre un Luigi XVIII,
ciò è avvenuto perché non vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa
significare che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano le terre
bagnate dal sudore dei contadini e le libertà bagnate dal sangue dei
patrioti. E la Francia combatte così bene per ventitré anni che, quando alla
fine è costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le proprie
condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le terre dovranno rimanere a
coloro che se le sono riprese dai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco
dei Borboni non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà
più restaurato. Questo è ciò che si conquista facendo una
rivoluzione. Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nella storia dei
popoli arriva un momento in cui s'impone un mutamento profondo di tutta la
vita nazionale. Nel 1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo
stanno morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna rinunciarvi. A
questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione. C'è sempre un momento
in cui la riforma è ancora possibile. Ma se non si è approfittato di quel
momento, se si è opposta un'ostinata resistenza alle esigenze del nuovo
modo di vivere, sino al punto di far scorrere il sangue nelle strade, come il
14 luglio 1789, allora non 58 può esserci che la rivoluzione. E una volta
che la rivoluzione ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino alle
sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più alto che, in sintonia con lo
spirito dei tempi, sarà capace di raggiungere, pur se solo
temporaneamente. Se si rappresenta il lento progredire di un periodo
di evoluzione con una linea tracciata su un grafico, si constaterà che
questa linea gradualmente, anche se lentamente, si innalza. Ma ecco che
sopraggiunge una rivoluzione e la linea s'impenna facendo un improvviso
balzo verso l'alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe un'impennata al
tempo della Repubblica puritana di Cromwell; in Francia s'impennerebbe al
tempo della Repubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l'andamento non
può mantenersi a questo livello; tutte le forze ostili si coalizzano contro
e, dopo aver raggiunto questi picchi, le repubbliche crollano e le linee
scendono. Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea
del progresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e quando torna
la pace - nel 1815 in Francia e nel 1688 in Inghilterra - entrambi i Paesi si
trovano a un livello molto più alto di quello che avevano prima delle
loro rivoluzioni. Si torna all'evoluzione, e la nostra linea ricomincia
a salire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello molto più
elevato di quello rilevato prima della turbolenza, e quasi sempre la sua
crescita sarà più rapida. Questa è una legge del progresso umano, ed
anche del progresso individuale. E la storia della Francia moderna, che
passa attraverso la Comune per arrivare alla Terza Repubblica, conferma
proprio questa legge. L'opera della Rivoluzione francese non si limita
solo a ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma la si
ritrova anche nei princìpi che ha tramandato al secolo successivo,
nell'orientamento con cui ha contrassegnato il futuro. Una riforma è
sempre un compromesso con il passato, mentre il progresso ottenuto tramite
una rivoluzione è sempre una promessa di progresso futuro. Se la
Gran- 59 de Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di
evoluzione, sarà poi lei a impostare il programma d'evoluzione che segnerà
il corso del XIX secolo. [.] I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie
istituzioni l'eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione. Tutto ciò che
essa non ha potuto mettere in pratica, tutte le grandi idee messe in circolo
durante quel periodo turbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o
saputo applicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologica nati
durante la rivoluzione, tutto questo costituirà il contenuto dell'evoluzione
che seguirà a tale rivoluzione. A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui
questa evoluzione darà vita quando cercherà di mettere in pratica
il programma ereditato dall'ultimo sommovimento. Poi, una nuova grande
rivoluzione avrà luogo in qualche altra nazione, ed essa fisserà, a sua
volta, i punti di riferimento dell'epoca successiva. È stato appunto
questo il cammino della storia. Due grandi conquiste, in effetti, hanno
caratterizzato il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe hanno
avuto la propria origine nella Rivoluzione francese, che a sua volta portava
avanti l'opera della Rivoluzione inglese, ampliandola e rinvigorendola con
tutto il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva tagliato la
testa al suo re trasferendone il potere al parlamento. Queste due grandi
conquiste sono l'abolizione della servitù e l'abolizione dell'assolutismo,
conquiste che hanno conferito all'individuo libertà personali
inimmaginabili per il servo della gleba e per il suddito del sovrano
assoluto, ma che allo stesso tempo hanno portato anche allo sviluppo della
borghesia e del regime capitalistico. 60 III Il testo kropotkiniano
più importante relativo alle questioni metodologiche è La scienza moderna e
l'anarchia, uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L'opera riassume
i temi attinenti al rapporto fra anarchismo e scienza e stabilisce il primato
assoluto della conoscenza e della ragione nel processo di emancipazione
umana. Kropotkin inserisce la tradizione anarchica
nell'alveo dell'Illuminismo, con l'intento di operare una rottura radicale
con la cultura storicistica e, in modo particolare, con l'hegelismo. Egli
vuole portare l'anarchismo fuori dall'ambito della filosofia idealistica e,
in generale, fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica,
irrazionale. La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a questo
proposito, emblematica. L'anarchismo, per non imboccare la strada
inconcludente della mistificazione del reale, deve rimanere
saldamente agganciato alla grande cultura razionalistica nata con
l'Illuminismo. Specificamente, l'identificazione è fra il metodo anarchico e
quello induttivo delle scienze naturali. Lo scopo è quello di evidenziare,
nell'accostamento metodologico, la sostanziale analogia fra natura e
anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifico per il suo carattere
di «apertura», di «modificabilità», per il suo costituzionale antidogmatismo
svolge, in un 61 certo senso, una funzione analoga a quella svolta
dal pluralismo all'interno del procedimento proprio
dell'anarchismo. L'analogia fra sperimentalismo e pluralismo è data dalla
comune natura di essere entrambi un metodo regolativo più che costitutivo
rispetto al problema di una costruzione sociale e di un pari
sviluppo scientifico. Kropotkin però non si limita ad una
identificazione attinente all'ambito metodologico, ma amplia tale
identificazione al campo più vasto dell'idea anarchica e del concetto di
natura, fondendo così scienza e anarchia in una Weltanschauung di forte
significato generalizzante. A questo proposito Kropotkin fa coincidere il
metodo scientifico con la metodologia anarchica fondata sulla coerenza
logica ed etica fra mezzi e fini. L'adeguamento dei mezzi ai fini vuol
significare che la scienza deve essere completamente al servizio di una
volontà, di un'idea. Se si considera come in questa metodologia
si evidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell'anarchismo, è possibile
a questo punto vedere il senso di tale coniugazione e dunque il tentativo di
superare la stessa concezione meramente deterministica
dell'identificazione fra scienza e anarchia. Il rapporto della
necessaria coerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini
non possono essere raggiunti che attraverso l'adeguamento dei mezzi alla
natura dei fini stessi. Ciò comporta un intervento volontario e cosciente
della mano rivoluzionaria nella modificazione continua della prassi, un
intervento che non fa altro che rimandare ad una
considerazione fondamentale: e cioè che gli scopi - anche se
estrapolati da tendenze latenti del presente - devono essere collocati
volontariamente a dispetto di ogni contingenza. Sono, in altri termini,
immessi coscientemente nel processo storico come obiettivi determinati. I
brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione di Ginevra del 1913
de La scienza moderna e l'anarchia. 62 QUESTIONI DI METODO Benché
l'anarchia, in ciò simile a tutte le correnti rivoluzionarie, sia nata in
seno al popolo, nel tumulto della lotta e non nello studio di un pensatore, è
però utile capire dove si colloca fra le diverse correnti del pensiero
scientifico e filosofico contemporaneo. Come si pone di fronte a queste
diverse correnti? A quale fa riferimento di preferenza? Quale metodo di
ricerca adopera per avallare le sue conclusioni? In altre parole, a
quale scuola di filosofia del diritto appartiene l'anarchia? Con quale
corrente della scienza moderna presenta le maggiori affinità? Di fronte
all'entusiasmo per la metafisica economica che abbiamo visto recentemente nei
circoli socialisti, questa questione è di qualche interesse. Cercherò,
quindi, di rispondervi brevemente e nel modo più semplice 63 possibile,
evitando i termini difficili ogni volta che si possono evitare. Il
movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue origini nell'opera dei
filosofi inglesi e francesi elaborata tra la metà e la fine del secolo
precedente. Il risveglio del pensiero determinatosi in quell'epoca ispirò a
questi pensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze in
un sistema generale: il sistema della natura. Rifiutando interamente la
scolastica e la metafisica medievale, ebbero il coraggio di posare il loro
sguardo su tutta la natura - il mondo delle stelle, il nostro
sistema solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli animali e delle
società umane sulla sua superficie - come su una serie di fatti che possono
essere studiati allo stesso modo in cui si studiano tutte le scienze
naturali. Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico - il metodo
induttivo-deduttivo - quei pensatori intrapresero l'esame di tutto ciò che la
natura ci offre, tanto del mondo stellare o animale quanto di quello delle
credenze e delle istituzioni umane, in modo del tutto eguale a quello che
avrebbe adoperato un naturalista per studiare problemi di fisica. Essi
annotavano dapprima con pazienza i fatti e quando, in seguito, si mettevano a
trarne delle generalizzazioni, lo facevano per via induttiva.
Avanzavano, naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi
non attribuivano maggiore importanza di quella che Darwin aveva attribuito
alla sua ipotesi sull'origine delle nuove specie nella lotta per l'esistenza,
o che Mendeleeff aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola
periodica degli elementi. Essi non vi vedevano che delle supposizioni, le
quali offrivano una spiegazione provvisoria facilitando l'aggregazione dei
fatti e il loro esame, ma non dimenticavano affatto che tali supposizioni
dovevano essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine di
altri fatti e che andavano spiegate anche per via deduttiva. Queste non
potevano diventare «leggi» (cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere
stata sottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause
dei 64 rapporti costanti da loro espressi fossero state
spiegate. Quando il centro del movimento filosofico del XVIII secolo passò
dalla Scozia e dall'Inghilterra alla Francia, i filosofi francesi, con la
propensione per la sistematicità che è loro propria, si misero a ricostruire
su un piano generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le
conoscenze umane, naturali e storiche. Quello che tentarono fu di fondare
il sapere generale - la filosofia dell'universo e della sua vita - con un
metodo strettamente scientifico, respingendo quindi tutte le costruzioni
metafisiche dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni con
l'azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche) che avevano
ritenuto sufficienti a spiegare l'origine e l'evoluzione del globo terrestre.
[.] Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo non cambiavano
di metodo quando nei loro studi passavano dal mondo delle stelle a quello
delle reazioni chimiche, o dal mondo fisico e chimico a quello della
vita delle piante e degli animali, o a quello delle dinamiche economiche e
politiche della società, o delle forme evolutive delle religioni, e così via.
Il metodo era sempre lo stesso. A tutte le branche della scienza essi
applicavano sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono mai, tanto
nello studio delle religioni quanto nell'analisi del senso morale e del
pensiero in generale, anche un solo punto in cui tale metodo si rivelasse
insufficiente e un altro se ne imponesse; poiché non si videro
mai costretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio, anima
immortale, forza vitale, imperativo categorico ispirato da un essere
superiore, ecc.), né a qualsivoglia metodo dialettico, essi cercarono di
spiegare tutto l'universo e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA.
[...] Quale posto occupa dunque l'anarchia nel grande movimento
intellettuale del XIX secolo? La risposta a questa domanda è venuta
delineandosi in base a quan- 65 to abbiamo già detto precedentemente.
L'anarchia è una concezione dell'universo basata su
un'interpretazione meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire
cinetica, ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta la natura, ivi
compresa la vita delle società. Il suo metodo è quello delle scienze
naturali, e in base a questo metodo ogni conclusione scientifica dev'essere
verificata. La sua tendenza è di fondare una filosofia di sintesi, che
includa tutti i fatti della natura, compresa la vita delle società umane e i
loro problemi economici, politici e morali; senza però cadere negli errori
nei quali incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer. È
dunque evidente che per ciò stesso l'anarchia, di fronte a tutte le questioni
poste dalla vita moderna, deve necessariamente dare risposte diverse e
assumere atteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri
partiti politici, non eccettuato in buona misura il Partito
socialista, che non si è ancora sbarazzato delle vecchie
finzioni metafisiche. Indubbiamente, l'elaborazione di una
concezione meccanica complessiva della natura e delle società umane non è
che ai suoi esordi per quanto riguarda gli aspetti sociologici, che trattano
appunto della vita e dell'evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si
è fatto finora presenta già - talvolta addirittura in modo inconscio - il
carattere che abbiamo indicato. Nella filosofia del diritto, nella teoria
della morale, nell'economia politica e nello studio della storia dei popoli e
delle istituzioni, gli anarchici hanno già dimostrato di non accontentarsi
di soluzioni metafisiche, ma di voler dare alle loro conclusioni un
fondamento naturalista. Essi non si lasciano suggestionare dalla metafisica
di Hegel, di Schelling e di Kant, dai commentatori del diritto romano e
del diritto canonico, dai dotti professori di diritto dello Stato o
dall'economia politica dei metafisici; piuttosto, cercano di rendersi
esattamente conto dei vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi
agli studi con la prospettiva naturalista compiuti negli
ultimi quaranta-cinquanta anni. 66 Proprio come la filosofia
materialista (meccanica, o meglio cinetica) ha abbandonato le concezioni
metafisiche del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice della natura»,
«Attrazione simpatica della materia», «Incarnazione dell'Idea», «Finalità
della Natura e sua Ragion d'essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel
senso di entità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentre gli
embrioni delle generalizzazioni occultate dietro queste parole sono stati
tradotti nel linguaggio concreto dei fatti, così noi ci sforziamo di fare
altrettanto quando ci mettiamo ad esaminare i fatti della vita in
società. Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista che la
vita intellettuale e passionale dell'uomo si svolge secondo «le leggi
immanenti dello Spirito», il naturalista scrolla le spalle e continua la sua
indagine paziente dei fenomeni della vita, dell'intelligenza,
delle passioni, al fine di dimostrare che tutti questi possono essere
ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca di scoprire le loro leggi
naturali. Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico che secondo
Hegel «ogni evoluzione rappresenta una tesi, un'antitesi e una sintesi»,
oppure che «il diritto ha per fine l'instaurazione della giustizia, che
rappresenta la sustanziazione materiale dell'Idea suprema», o
ancora quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo della vita»,
anche l'anarchico scrolla le spalle e si domanda: «Come mai, nonostante lo
sviluppo attuale delle scienze naturali, si possono trovare ancora uomini
tanto arretrati da credere a simili baggianate? Uomini tanto retrogradi
che parlano ancora la lingua del selvaggio primitivo, il quale
'antropomorfizzava' la natura, credendola governata da esseri fatti a
somiglianza dell'uomo?». Gli anarchici non subiscono il fascino delle
«parole altisonanti» poiché sanno che queste parole servono sempre a
coprire l'ignoranza - cioè l'investigazione incompiuta - o, il che è peggio,
la superstizione. Ecco perché, quando si parla loro questo linguaggio,
passano oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio
del- 67 le concezioni sociali e delle istituzioni del passato e
del presente in base al metodo naturalista. E così scoprono che lo
sviluppo della vita sociale è infinitamente più complesso (e ben più
interessante dal punto di vista pratico) di quanto si potrebbe supporlo
attenendosi alle formulazioni precedenti. Recentemente, si è molto sentito
parlare del metodo dialettico, che i socialdemocratici raccomandano
per elaborare l'ideale socialista. Noi non accettiamo affatto questo
metodo, che del resto non è riconosciuto da nessuna scienza naturale. Al
naturalista moderno questo «metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto
vecchio, di già vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenticato da
un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX secolo - in meccanica,
astronomia, fisica, chimica, biologia, psicologia o antropologia - si deve al
metodo dialettico. Tutte invece sono frutto del metodo
induttivodeduttivo, il solo veramente scientifico. E poiché l'uomo è parte
della natura, poiché la sua vita personale e sociale è anch'essa un fenomeno
della natura - alla stessa stregua della crescita di un fiore o
dell'evoluzione della vita sociale di formiche e api - non vi è
alcuna ragione perché, passando dal fiore all'uomo, da un gruppo di
castori a una città umana, noi si debba abbandonare il metodo che ci ha
servito così bene fino a questo momento per cercarne un altro nell'arsenale
della metafisica. Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo
nelle scienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nel corso del
XIX secolo, la scienza ha fatto in cento anni più progressi che nei due
millenni precedenti. E da quando si è cominciato (nella seconda metà di
quel secolo) ad applicare questo metodo anche allo studio delle società
umana, non ci si è mai minimamente trovati nella necessità di doverlo
rigettare per far ritorno alla scolastica medievale resuscitata da Hegel.
[...] Aggiungiamo ancora una parola. L'indagine scientifica non è
fruttuosa se non a condizione di avere un obiettivo determinato, d'essere,
cioè, intrapresa con 68 l'intenzione di trovare una risposta a una
questione chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto
più fruttuosa quanto meglio verranno identificate le relazioni esistenti
fra la questione posta e le linee fondamentali della nostra concezione
generale dell'universo. Quanto più una data questione rientra in questa
concezione generale, tanto più facile ne sarà la soluzione. Orbene, la
questione che l'anarchia si propone di risolvere potrebbe esprimersi come
segue: «Quali sono le forme sociali che in una data società, e per
estensione a tutta l'umanità, possono meglio garantire il massimo di
benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità? Quali forme sociali
favoriscono meglio l'accrescimento di questo benessere, il suo sviluppo
quantitativo e qualitativo consentendogli così di divenire quanto più
completo e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi, ci dà
anche la formula del progresso)?». Il desiderio di aiutare in questo senso
l'evoluzione determina le caratteristiche proprie all'anarchico nella sua
attività sociale, scientifica, artistica, ecc. [.] Gli anarchici, guidati
da diverse considerazioni d'ordine storico, politico ed economico, come pure
dagli insegnamenti della vita moderna, giungono, come si è detto, a una
concezione della società ben differente da quella cui si rifanno i vari
partiti politici, che mirano tutti ad arrivare al potere. Noi ci
rappresentiamo una società in cui le relazioni tra i suoi membri non sono più
regolate dalle leggi, eredità d'un passato d'oppressione e barbarie, o da
qualsivoglia autorità, eletta o al potere per diritto ereditario, ma da
impegni reciproci liberamente presi e sempre revocabili, come pure da usi e
costumi liberamente concordati. Questi costumi, però, non devono essere
pietrificati e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione, ma è bene
che abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi ai nuovi bisogni, ai progressi
del sapere e delle invenzioni, e al crescere d'un ideale sociale sempre
più 69 razionale ed elevato. Quindi, nessuna autorità che imponga agli
altri la propria volontà. Nessun governo dell'uomo sull'uomo. Nessuna
immobilità nella vita, ma un'evoluzione continua, alcune volte più rapida,
altre volte più lenta, proprio come nella vita della natura. Piena libertà
d'azione all'individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità naturali,
della sua individualità, di ciò che può avere d'originale, di personale. In
altre parole, nessuna azione imposta all'individuo sotto minaccia d'una
punizione sociale, qualunque essa sia, o d'una pena
soprannaturale, mistica: la società non chiede nulla all'individuo
che questi non abbia liberamente consentito di fare nel momento stesso in
cui lo fa. E inoltre, uguaglianza completa di diritti per tutti. Noi siamo
dunque a favore di una società di uguali, senza alcuna coercizione di sorta,
e malgrado quest'assenza di coercizione non temiamo affatto che gli
atti antisociali di alcuni individui possano assumere in una società di
uguali proporzioni pericolose. Una società di uomini liberi saprà
salvaguardarsi meglio delle nostre società attuali, che demandano la difesa
della moralità sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni
(università del crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro
complici. Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti. È evidente che,
sino ad oggi, non è mai esistita una società che abbia praticato questi
princìpi. Ma in ogni tempo l'umanità ha manifestato una tendenza ad
una loro realizzazione. Ogni volta che certi settori della società
riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare le autorità che li
opprimevano, o a cancellare le ineguaglianze esistenti (schiavitù, servaggio,
autocrazia, governo di certe caste o classi); ogni volta che una
nuova luce di libertà e d'uguaglianza si sprigionava nella società, il
popolo, gli oppressi, cercavano di mettere in pratica, anche solo
parzialmente, i princìpi appena enunciati. Possiamo dire, quindi, che
l'anarchia è uno specifico ideale di società che differisce in modo
essenziale da 70 quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla
maggior parte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini
politici, che hanno tutti avuto la pretesa di governare gli uomini e di
dar loro delle leggi. Non è mai stata l'ideale dei privilegiati, ma è spesso
stata l'ideale più o meno cosciente delle masse. Nondimeno, sarebbe falso
affermare che questa concezione della società sia un'utopia dato che nel
linguaggio ordinario si attribuisce a questa parola l'idea di qualche cosa
che non si può realizzare. [...] Nel nostro caso è ancora più errato parlare
d'utopia in quanto le tendenze da noi identificate hanno già avuto una
parte assai importante nella storia della civiltà, poiché sono esse che hanno
dato origine al diritto consuetudinario, diritto che ha dominato in Europa
dal V al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamente affermando in
quelle società che per più di tre secoli hanno sperimentato lo Stato. È su
questa osservazione, la cui importanza non sfuggirà allo storico della
civiltà, che ci basiamo per considerare l'anarchia come un
ideale possibile, realizzabile. [...] «Utopisti» sono stati coloro che,
guidati solamente dai loro desideri, non hanno voluto tener conto
delle tendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloro che hanno
attribuito troppa stabilità alle cose del passato, senza chiedersi se non
fossero semplicemente il risultato di certe condizioni storiche temporanee.
[...] Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato
cessassero d'esistere, lo Stato stesso non avrebbe più ragion d'essere. E
una volta che i rapporti tra gli uomini non fossero più quelli tra sfruttati
e sfruttatori, nuove forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si
semplificherebbe se il meccanismo che permette ai ricchi di sfruttare il
lavoro dei poveri venisse disattivato. L'idea di comunità indipendenti per
aggregazioni in base al territorio e di ampie federazioni di mestiere
per aggregazioni in base alla funzione sociale - dove le
due 71 s'intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisogni della
società - permette agli anarchici di concepire in modo concreto, reale, la
possibile organizzazione di una società emancipata. Non ci resta che
aggiungere le aggregazioni in base alle affinità personali -
aggregazioni innumerevoli, che possono variare all'infinito, essere di
lunga durata o effimere, costituirsi in base alle necessità del momento e per
gli scopi più disparati - che già abbiamo visto sorgere nella società attuale
al di fuori dei raggruppamenti politici e professionali. Questi tre tipi
di aggregazione, che s'intrecciano tra loro in una grande rete,
consentirebbero di soddisfare tutti i bisogni sociali: il consumo, la salute,
l'istruzione, la protezione reciproca dalle aggressioni, il
mutuo appoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazione dei
bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario, ludico. Un insieme pieno
di vita e sempre pronto a rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni
e alle nuove influenze dell'ambiente sociale e intellettuale. Se una
società di questo tipo si sviluppasse su un territorio abbastanza vasto e
popolato da permettere una gran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe
subito evidente che la coercizione di un'autorità, qualunque essa sia,
sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto per mantenere la vita economica
della società che per impedire la maggior parte degli atti antisociali. In
effetti, il più grave impedimento a sviluppare e mantenere nello stato
attuale il senso morale, necessario alla vita in società, risiede innanzi
tutto nell'assenza dell'uguaglianza. Senza uguaglianza - «senza
uguaglianza di fatto», come si diceva nel 1793 - è
assolutamente impossibile che il sentimento di giustizia si
generalizzi. La giustizia non può che essere egualitaria, mentre i
sentimenti egualitari in questa nostra società stratificata in classi sono
smentiti in ogni istante e in ogni situazione. È necessario praticare
l'uguaglianza perché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino
nei costumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che 72 accadrà in
una società di uguali. Allora, il bisogno di un'autorità coercitiva, o
piuttosto il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe più
sentire. Si maturerebbe la convinzione che la libertà dell'individuo non ha
bisogno di essere limitata, come lo è oggi, dal timore di una punizione,
legale o mistica, oppure dall'ubbidienza ad individui ritenuti superiori o
ad entità metafisiche create dalla paura o dall'ignoranza; cosa che porta
nella società attuale alla servitù intellettuale, alla riduzione
dell'iniziativa personale, al decadimento del senso morale, all'arresto
del progresso. In un contesto egualitario, l'uomo potrebbe
lasciarsi guidare con fiducia dalla propria ragione, che
essendosi sviluppata in questo stesso ambiente avrebbe
necessariamente l'impronta delle abitudini sociali che gli sono proprie. E
potrebbe dunque proporsi di conseguire il pieno sviluppo di tutte le sue
facoltà, il pieno sviluppo, cioè, della sua individualità. All'opposto di
quell'individualismo preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia come un
mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare al pieno sviluppo
dell'essere umano, che altro non è se non un inganno. Questo individualismo è
anzi l'ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità
forti. [.] Quando un economista ci viene a dire: «In un
mercato assolutamente aperto, il valore delle merci si misura in base alla
quantità di lavoro socialmente necessaria per produrre queste merci» (si veda
Ricardo, Proudhon, Marx e tanti altri), non accettiamo
quest'asserzione come un articolo di fede solo perché è stata enunciata da
tali autorità, oppure perché appare «massimamente socialista» affermare che
il lavoro è la vera misura dei valori mercantili. È possibile che sia vero,
diciamo. Ma non vi accorgete che, facendo questa affermazione, ammettete
implicitamente che il valore e la quantità del lavoro necessario sono
proporzionali, proprio come 73 la velocità di un corpo che cade è
proporzionale ai secondi di durata della caduta? Viene così affermata una
certa relazione quantitativa fra queste due grandezze. E allora, avete forse
fatto delle misurazioni, delle osservazioni quantitativamente misurate, che
sole potrebbero confermare una tale asserzione a proposito delle
quantità? Dire che in generale il valore di scambio aumenta se la quantità
di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile. Ed è da parecchio tempo che
Adam Smith si è espresso in questo senso. Ma concludere che, per
conseguenza, le due quantità sono proporzionali, e che una è la misura
dell'altra, significa commettere un errore grossolano. Grossolano come
affermare, ad esempio, che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà
proporzionale alla quantità di millimetri che il barometro segnerà al di
sotto della media stabilita per il tal luogo e per la tal stagione. Chi per
primo ha notato che esiste una certa correlazione tra il basso livello del
barometro e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha constatato
che una pietra caduta da una grande altezza acquista una velocità superiore a
una pietra caduta da appena un metro, ha fatto delle scoperte
scientifiche (come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Ma l'uomo
che venisse dopo di essi ad affermare che la quantità di pioggia caduta si
misura da quanto il barometro è sceso al di sotto della media, oppure che lo
spazio percorso da una pietra che cade è proporzionale alla durata della
caduta e si misura secondo questa, ci direbbe delle bestialità. E proverebbe
inoltre che il metodo di ricerca scientifica gli è assolutamente
estraneo e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zeppo sia di
parole riprese dal gergo della scienza. Notiamo inoltre che se a mo' di scusa
ci si nascondesse dietro la mancanza di dati precisi per stabilire,
grazie a misurazioni esatte, il valore d'una data merce e la quantità di
lavoro necessaria per produrla, questa scusa non sarebbe affatto unica.
Conosciamo nelle scienze esatte migliaia di casi simili, di correlazioni
nelle quali 74 vediamo nettamente che una data quantità dipende
da un'altra, che una s'accresce quando l'altra pure s'accresce. Come nel
caso, ad esempio, della rapidità di sviluppo d'una pianta che dipende, fra
l'altro, dalla quantità di calore e di luce che la pianta riceve, o come in
quello del rinculo d'un cannone che aumenta quando aumenta la quantità di
polvere bruciata nella carica. Tuttavia, quale scienziato degno di questo
nome avrà la ridicola pretesa di affermare - prima d'aver misurato in
quantità i loro rapporti - che, di conseguenza, la rapidità di crescita d'una
pianta e la quantità di luce ricevuta, oppure il rinculo del cannone e la
carica di polvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l'una aumenta
due, tre, dieci volte se l'altra aumenta nella stessa proporzione, cioè se,
in altre parole, si commisurano, come viene affermato per il valore e il
lavoro da Ricardo in poi? E ancora, chi mai, dopo aver fatto l'ipotesi, la
supposizione, che un rapporto di tal genere esista fra le due dette
quantità, oserebbe presentare questa ipotesi come una legge? Non ci sono che
economisti o giuristi - uomini che non hanno alcuna idea di ciò che viene
concepito come «legge» nelle scienze naturali - a fare simili
affermazioni. Generalmente, il rapporto fra due quantità è
estremamente complesso, come è appunto nel caso del valore e del lavoro;
nello specifico, il valore di scambio e la quantità di lavoro non sono mai
proporzionali l'uno all'altra, l'uno non misura mai l'altra. È ciò che
aveva già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il valore di
scambio di ogni oggetto si misura con la quantità di lavoro necessaria per
produrre questo oggetto, si è visto costretto ad aggiungere (in seguito ad
uno studio dei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime
di scambio primitivo, non era più così nel regime capitalista. Cosa
perfettamente vera. Il regime capitalista del lavoro obbligato e dello
scambio finalizzato al profitto distrugge questi semplici rapporti e
introduce parecchi nuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e
valore 75 di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare
economia politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo sviluppo
della scienza economica. L'osservazione appena fatta per il valore s'applica
a quasi tutte le affermazioni economiche che oggi circolano come verità
stabilite (specialmente tra i socialisti che amano definirsi scientifici) e
che vengono presentate, con impagabile ingenuità, come leggi naturali.
Non solamente la maggior parte di queste pretese leggi sono del tutto
erronee, ma siamo pure convinti che coloro che ci credono se ne
accorgerebbero subito da sé se solo arrivassero a comprendere la necessità di
verificare le loro affermazioni quantitative con delle ricerche
altrettanto quantitative. Del resto, tutta l'economia politica si presenta
a noi anarchici sotto un aspetto differente da quello attribuitole dagli
economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici. Essendo il metodo
scientifico induttivo assolutamente estraneo a entrambi, non si rendono
affatto conto di cosa sia una «legge naturale», malgrado la
predilezione che hanno per questa espressione. Essi non s'accorgono che
ogni legge di natura ha un carattere condizionale, che si esprime sempre
così: «Se nella natura si presentano queste condizioni, il risultato
sarà questo o quest'altro. Se una linea retta interseca un'altra linea
retta, in modo da formare degli angoli uguali dalle due parti del punto
d'intersezione, le conseguenze saranno le seguenti. Se i movimenti che
esistono nello spazio interplanetario agiscono in modo esclusivo sopra due
corpi, e se dunque non si incontrano altri corpi agenti su questi due a una
distanza che non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi si
avvicinano a quella data velocità (legge della gravitazione universale)». E
così di seguito, ma sempre con il suo se, sempre con una condizione. Di
conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie dell'economia politica non sono
in realtà che affermazioni che rispondono a quanto segue: «Ammettendo
che si trovi sempre in un dato Paese una quantità conside- 76 revole di
persone che non possono vivere né un mese e neppure quindici giorni senza
accettare le condizioni di lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto
forma di imposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo
Stato riconosce come proprietari del suolo, delle officine, delle
ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulteranno. ». Fino ad oggi,
l'economia politica non è stata altro che una enumerazione di ciò che succede
in simili condizioni: senza però enumerare e analizzare le
condizioni stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano in ogni
caso particolare, né ciò che le mantiene. E se anche capita che queste
condizioni vengano ricordate in un certo frangente, un momento dopo sono già
dimenticate. Ma gli economisti non si limitano solo a simili dimenticanze,
bensì rappresentano i fatti che si producono in seguito a queste condizioni
come leggi fatali e immutabili. Quanto all'economia politica socialista, è
vero che essa critica alcune di queste conclusioni, oppure ne spiega altre
in modo diverso, ma ugualmente commette la stessa dimenticanza e, ad ogni
modo, non si è ancora tracciata un proprio cammino, rimanendo su quello
vecchio. Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di riprendere le
definizioni dell'economia politica metafisica e borghese per dire: «Vedete
bene che, anche accettando le vostre definizioni, si arriva a provare che
il capitalista sfrutta l'operaio», cosa che suonerà forse bene in una
polemica, ma che non ha nulla a che vedere con la scienza. In generale,
riteniamo che la scienza dell'economia politica vada costituita in modo
diverso: deve essere trattata come una scienza naturale e proporsi una
nuova meta; deve occupare in rapporto alle società umane un posto simile a
quello che la fisiologia occupa in rapporto alle piante e agli animali: deve
diventare insomma una fisiologia della società. Il suo scopo deve
essere lo studio dei bisogni sempre crescenti della società e dei diversi
mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare 77 questi mezzi per
vedere fino a che punto sono stati una volta e sono oggi appropriati allo
scopo; e in ultimo - poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione
e l'applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo che Bacone l'ha
affermato) - essa dovrà studiare i mezzi per meglio soddisfare la somma dei
bisogni moderni e ottenere con la minore spesa d'energia (con economia)
i migliori risultati per l'umanità in generale. Si capisce, così, perché
noi si arrivi a conclusioni tanto differenti, sotto molti aspetti, da quelle
cui giunge la maggior parte degli economisti borghesi o
socialdemocratici; perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a
certe correlazioni da loro indicate; perché la nostra «esposizione » del
socialismo differisce dalla loro; perché deduciamo, dallo studio delle
tendenze e delle direzioni di sviluppo attualmente osservabili nella vita
economica, conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto concerne
il desiderabile e il possibile; o in altri termini, perché noi arriviamo al
comunismo libertario, mentre essi giungono al capitalismo di Stato e al
salariato collettivista. Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può
darsi. Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non serve fare dei
commentari bizantini su ciò che questo o quello scrittore ha detto o voluto
dire, né parlarci della trilogia di Hegel, né soprattutto continuare a far
uso del metodo dialettico. Per verificarlo non si può che mettersi a
studiare i rapporti economici allo stesso modo in cui si studiano i fatti
delle scienze naturali. 78 IV L'opera più importante di Kropotkin, Il
mutuo appoggio, è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel 1902 e
costituisce l'approdo di una lunga ricerca iniziata una quindicina d'anni
prima. La ricerca kropotkiniana vuole dimostrare l'inconsistenza scientifica
di quella linea culturale del bellum omnium contra omnes che va da Hobbes
a Huxley, secondo cui la legge della vita si compendia nella lotta tra le
specie e tra gli individui all'interno della stessa specie; linea che porta a
riconoscere l'ineluttabilità dell'affermarsi dei più forti. La valenza
politica di questa credenza «universale», che alla fine del XIX secolo è
riformulata sotto il nome di «darwinismo sociale», si rintraccia nella
giustificazione ideologica al capitalismo più sfrenato e dunque la sua
importanza supera di gran lunga la cifra specificamente scientifica della
stessa teoria. È evidente che Kropotkin considera centrale demistificare
questa concezione conflittualistica del mondo: qualora infatti risultasse che
essa risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad una società
anarchica che, al contrario, pone l'armonia, l'uguaglianza e l'amore tra gli
esseri umani quali premesse indispensabili per il suo stesso
costituirsi. Situandosi all'opposto dell'assunto darwiniano, o meglio
della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto 79 tra gli individui
all'interno della stessa specie costituisca la condizione generale
dell'evoluzione, anche se ammette l'esistenza del conflitto tra le specie.
Kropotkin vede una correlazione strettissima tra la pratica del mutuo
appoggio e la tendenza associativa, nel senso che queste forme sono aspetti
di un'unica realtà: quella della vita in generale. La vita animale è di per
se stessa eminentemente sociale. L'associazione è la regola, la
legge della natura, perché si riscontra in tutti i
gradi dell'evoluzione. Il «mutuo appoggio», come potente forza
evolutiva, opera oltretutto anche a livello interspecifico come
«simbiosi » (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata addirittura
la formazione di organuli intracellulari, come i mitocondri!). I brani
riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione italiana del 1925 de Il
mutuo appoggio, nella traduzione (rivista) di Camillo
Berneri. 80 L'AIUTO RECIPROCO IN NATURA Il concetto di lotta per
l'esistenza come fattore dell'evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin
e da Wallace, ci ha messi in grado di includere un vasto insieme di
fenomeni in un'unica generalizzazione, che è ben presto divenuta la base
stessa delle nostre speculazioni filosofiche, biologiche e sociologiche.
Un'immensa varietà di fatti - adattamento della funzione e della struttura
degli organismi viventi al proprio ambiente; evoluzione fisiologica e
anatomica; progresso intellettivo e sviluppo morale - che venivano spiegati
un tempo con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in un'unica
concezione generale. Egli vi ha identificato uno sforzo continuo, una lotta
contro le circostanze avverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze,
delle specie e delle società, teso al massimo della pienezza, 81 della
varietà e dell'intensità di vita. Può anche darsi che, da principio, lo
stesso Darwin non si sia reso perfettamente conto dell'importanza ben più
generale del fattore da lui primariamente individuato solo per
spiegare una serie di fatti relativi all'accumularsi di
variazioni individuali nelle specie nascenti. Ma egli stesso aveva
previsto che il termine che stava introducendo nella scienza avrebbe perso il
suo significato filosofico, e più vero, se fosse stato impiegato
esclusivamente nel senso più ristretto: quello di una lotta fra singoli
individui per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi capitoli della
sua memorabile opera insisteva perché il termine fosse preso nel suo «senso
largo e metaforico, che comprende l'interdipendenza degli esseri viventi
e che comprende inoltre (cosa ancor più importante) non soltanto la vita
dell'individuo ma anche il successo della sua discendenza» (L'origine delle
specie, cap. III). [...] La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le
teorie che trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla secondo gli
indirizzi che le erano propri, i suoi continuatori l'hanno sempre più
ridotta. E mentre Herbert Spencer, partendo da osservazioni
indipendenti ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione ponendo
il grande quesito su chi sono i più adatti (in modo particolare
nell'appendice alla terza edizione di Princìpi di etica), gli innumerevoli
seguaci di Darwin hanno ridotto la nozione di lotta per l'esistenza al
suo più angusto significato. Essi sono arrivati a concepire il mondo
animale come un mondo di lotta perpetua fra individui affamati, assetati di
sangue, facendo risuonare la letteratura contemporanea del grido di
guerra «Guai ai vinti», come se fosse questa l'ultima parola della moderna
biologia. E per interessi personali hanno elevato questa lotta «spietata»
all'altezza di principio biologico, al quale anche l'uomo deve sottomettersi,
sotto pena di soccombere in un mondo fondato sul reciproco sterminio.
Lasciando da parte gli economisti, che di scienze naturali non sanno che
qualche parola presa a prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna
rico- 82 noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin hanno
fatto del loro meglio per consolidare queste false idee. [...] [Viceversa]
quando studiamo gli animali, non soltanto nei laboratori e nei musei ma anche
nelle foreste e nelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci
accorgiamo subito che, benché in natura siano fortemente presenti la
guerra e lo sterminio fra specie diverse, e soprattutto fra differenti classi
di animali, vi si ritrova al contempo altrettanto se non più mutuo
appoggio, mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali
appartenenti alla stessa specie, o almeno allo stesso gruppo sociale. La
socialità è una legge della natura tanto quanto la lotta reciproca. È senza
dubbio molto difficile valutare, anche approssimativamente,
l'importanza percentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorriamo a
una testimonianza indiretta e domandiamo alla natura: «Quali sono i più
adatti: coloro che sono continuamente in lotta tra loro, o coloro che si
aiutano l'un l'altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio, gli
animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà. Essi hanno maggiori
probabilità di sopravvivere e raggiungono, nelle loro rispettive classi, il
più alto sviluppo delle capacità intellettive e fisiche. Se gli
innumerevoli fatti che possono esser citati a sostegno di questa
tesi vengono presi in considerazione, possiamo affermare con certezza che
il mutuo appoggio è una legge della vita animale tanto quanto la lotta
reciproca, ma che, come fattore dell'evoluzione, il primo ha
probabilmente un'importanza decisamente maggiore in quanto favorisce lo
sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adatti ad assicurare la
preservazione e lo sviluppo della specie, oltre a procurare con una minor
perdita di energia una maggior quantità di benessere e di felicità per
ciascun individuo. [.] 83 Quando si comincia a studiare la lotta per
l'esistenza sotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello
metaforico, ciò che colpisce subito è l'abbondanza di dati sul mutuo
appoggio, e non soltanto per quanto riguarda l'allevamento della prole, come
riconosce la maggior parte degli evoluzionisti, ma anche la
sicurezza dell'individuo e il procacciamento del cibo necessario. In molte
categorie del regno animale l'aiuto reciproco è la regola. Si va scoprendo il
mutuo appoggio anche fra gli animali più in basso nella scala evolutiva, ed è
lecito aspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano
al microscopio la vita elementare individuino forme di mutuo appoggio
incosciente anche fra i microrganismi. Vero è che la nostra conoscenza degli
invertebrati, a eccezione delle termiti, delle formiche e delle api,
è estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che concerne gli animali
inferiori possiamo raccogliere alcuni dati, opportunamente verificati, di
cooperazione. Le innumerevoli società di cavallette, farfalle,
cicindelidi, cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma
il fatto stesso della loro esistenza indica che esse devono essere
organizzate più o meno secondo gli stessi princìpi delle società temporanee
di formiche e api finalizzate alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo
fenomeni di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i necrofori.
Questi hanno bisogno di materia organica in decomposizione per deporvi le
uova e per assicurare il nutrimento delle larve. Ma questa materia
organica non deve decomporsi troppo rapidamente, così hanno l'abitudine di
sotterrare nel suolo i cadaveri di piccoli animali di ogni specie che
incontrano sul proprio cammino. Di norma vivono isolati, ma quando uno di
loro scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli
riuscirebbe difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei o persino
dieci altri necrofori per portare a termine l'operazione riunendo gli sforzi;
se necessario, trasportano il cadavere in un terreno morbido e ve lo
seppelliscono, dando prova di molto buon senso e senza poi entrare in
conflitto per scegliere colui che avrà il privi- 84 legio di deporre le
uova nel corpo sepolto. [...] Anche da questa breve rassegna possiamo
vedere come la vita in società non costituisca l'eccezione nel mondo
animale: essa è piuttosto la regola, la legge della natura che raggiunge il
suo completo sviluppo nei vertebrati superiori. Le specie che vivono isolate
o in piccole famiglie sono relativamente poche e il numero dei loro membri
limitato. Sembra anzi molto probabile che, tranne qualche eccezione, gli
uccelli ed i mammiferi che attualmente non sono gregari, vivessero in società
prima che l'uomo invadesse il globo, intraprendendo una guerra permanente
contro di essi o semplicemente distruggendo le loro fonti primarie di
nutrimento. «Non ci si associa per morire», è stata l'acuta osservazione
di Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe regioni
dell'America quando questo Paese non era ancora stato modificato dall'uomo,
ha scritto nel medesimo senso. La socialità si riscontra nel mondo animale
in tutti i gradi dell'evoluzione, e secondo la grande idea di
Herbert Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie animali di Périer,
nel regno animale essa è all'origine stessa dell'evoluzione. Ma via via che
si sale nella scala evolutiva, possiamo notare come la socialità divenga
sempre più cosciente: essa perde il suo carattere puramente fisico, cessa
di essere semplicemente istintiva, e diventa razionale. Nei vertebrati
superiori è periodica, ovvero gli animali vi ricorrono per la soddisfazione
di un bisogno particolare: la continuazione della specie, le
migrazioni, la caccia o la reciproca difesa. Si produce
anche accidentalmente, ad esempio quando alcuni uccelli s'associano contro
un predatore o quando alcuni mammiferi, sotto la pressione di circostanze
eccezionali, si aggregano per migrare. In quest'ultimo caso è una vera e
propria deroga volontaria ai costumi abituali. L'aggregazione appare qualche
volta a due o più gradi: la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine
l'associa- 85 zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che
si riuniscono in caso di necessità, come abbiamo visto presso i bisonti e
presso altri ruminanti. Questa associazione può prendere anche forme più
sofisticate, assicurando maggiore indipendenza all'individuo senza
privarlo dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i roditori,
l'individuo ha una sua tana particolare nella quale può ritirarsi quando
preferisce restare solo, ma queste tane sono disposte in villaggi e in città
così da assicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi e le
gioie della vita sociale. Infine, presso varie specie come i topi, le
marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale è mantenuta nonostante il carattere
litigioso e alcune tendenze egoistiche del singolo individuo.
Tuttavia, questa associazione non è imposta, come nel caso delle formiche
e delle api, dalla struttura fisiologica degli individui, ma è coltivata per
i benefici che derivano dal mutuo appoggio o per i piaceri che essa procura.
Questo, naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili e con la
maggiore varietà di caratteri individuali e specifici, e la varietà stessa
degli aspetti che assume la vita in società è una conseguenza, e per noi una
prova in più, della sua generalità. Solo recentemente la socialità, vale a
dire il bisogno dell'animale di associarsi con i suoi simili, l'amore
della società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla «gioia di
vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi l'attenzione che meritano.
[.] Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in società sia l'arma
più potente nella lotta per l'esistenza presa nel senso più ampio del
termine, e sarebbe agevole portare ulteriori prove, ammesso che fosse
necessario. La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e i mammiferi
più deboli capaci di lottare e di proteggersi contro i più temibili carnivori
o contro i rapaci; essa favorisce la longevità; rende le specie in grado di
allevare la loro prole con un minimo dispendio di energia, e
di 86 mantenere altresì un numero sufficiente di membri anche se la
loro natalità è ridottissima; consente agli animali gregari di migrare in
cerca di nuovi habitat. Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza,
la rapidità, la colorazione mimetica, l'astuzia, la resistenza alla fame e
alla sete, ricordati da Darwin e Wallace, siano qualità che rendono
l'individuo o la specie più adatti in certe circostanze, affermiamo che, in
ogni circostanza, la socialità rappresenta un grande vantaggio nella lotta
per l'esistenza. Le specie che, volontariamente o no, abbandonano
quest'istinto associativo, sono condannate a regredire. Viceversa, gli
animali che meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità di
sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e questo anche se sono inferiori ad
altri animali in ciascuna delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace, con
l'eccezione di quella intellettiva. I vertebrati superiori, e gli uomini in
particolare, sono la prova migliore di quest'asserzione. Quanto alla facoltà
intellettiva, se tutti i darwinisti sono d'accordo con Darwin nel
pensare che è l'arma più possente nella lotta per la vita e il fattore più
potente di ulteriore evoluzione, non potranno non ammettere altresì che
l'intelligenza è una qualità eminentemente sociale. Il linguaggio,
l'imitazione e le esperienze accumulate sono altrettanti elementi di
progresso intellettuale che mancano all'animale non sociale. Così,
troviamo in cima alle differenti classi di animali le formiche, i pappagalli
e le scimmie, che uniscono tutte un alto grado di socialità con un alto grado
di sviluppo intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli animali
più socievoli, e la socialità appare come uno dei principali fattori
dell'evoluzione, sia direttamente, assicurando il benessere della specie e
diminuendo nel contempo l'inutile dispendio di energia, sia
indirettamente, favorendone lo sviluppo intellettivo. È inoltre evidente
che la vita in società sarebbe assolutamente impossibile senza un
corrispondente incremento dei sentimenti sociali, e particolarmente di
un certo senso di giustizia collettiva che tende a
divenire 87 consuetudinario. Se ciascun individuo
commettesse costantemente abusi a suo personale vantaggio, senza che gli
altri intervenissero in favore di chi ne viene leso, nessuna vita sociale
sarebbe possibile. Sentimenti di giustizia si sviluppano quindi, più o meno,
presso tutti gli animali che vivono in gruppi. [...] Se la visione
sviluppata nelle pagine precedenti è valida, il quesito che necessariamente
ne deriva è fino a che punto questi fatti sono congruenti con la teoria
della lotta per l'esistenza così come l'hanno esposta Darwin, Wallace e i
loro discepoli. Cercherò ora di dare brevemente una risposta a questo
quesito. Innanzi tutto nessun naturalista può dubitare che l'idea di una
lotta per l'esistenza estesa a tutta la natura organica non sia la più
importante generalizzazione dell'ultimo secolo. La vita è lotta, e in questa
lotta il più adatto sopravvive. Ma davanti a domande come: «Quali sono le
armi più adatte a sostenere questa lotta?», le risposte
differiscono grandemente a seconda dell'importanza data ai due diversi
aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio, la lotta per il nutrimento e
la sicurezza dei singoli individui, mentre l'altro è la lotta che Darwin
descriveva come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro le
circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia, in seno a ciascuna
specie, una certa competizione effettiva per il nutrimento, quantomeno in
certi periodi. Ma la questione è sapere se la lotta ha le proporzioni
sostenute da Darwin o anche da Wallace, e se questa lotta ha esercitato
nell'evoluzione del regno animale il compito che le si attribuisce. L'idea
che permea l'opera di Darwin è certamente quella di una reale competizione
all'interno di ogni gruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e
la riproduzione. Il grande naturalista parla spesso di regioni così piene
di vita animale che non potrebbero contenerne di più; da questa
sovrappopolazione deriva la necessità della competizione. Ma quando
cerchiamo 88 nella sua opera prove concrete di questa lotta,
dobbiamo confessare che non le troviamo sufficientemente convincenti. Se
facciamo riferimento al paragrafo intitolato La lotta per la vita è più aspra
tra gli individui e le sottoclassi della stessa specie, non vi
riscontriamo quell'abbondanza di prove e di esempi che
solitamente troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui della
stessa specie non è confermata, in questo stesso paragrafo, da alcun esempio:
è data per scontata. E la lotta tra le specie strettamente imparentate non è
provata che da cinque esempi, di cui uno almeno (concernente due specie di
tordi) sembra ora da porsi in dubbio. Ma quando cerchiamo maggiori
particolari per stabilire fino a che punto il declinare d'una specie sia
stato causato dall'espandersi di un'altra specie, Darwin con la sua buona
fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente intravedere perché la competizione
debba essere più accanita tra specie simili che quasi occupano la
stessa collocazione in natura; ma probabilmente in nessun caso riusciremo
a dire con precisione perché una specie trionfi su un'altra nella grande
battaglia della vita». Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto
un titolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli animali e
le piante strettamente imparentati è spesso delle più aspre, fa la seguente
osservazione che dà tutt'altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi
sono miei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guerra tra le due
specie, in cui la più forte uccide la più debole, ma questo non è in alcun
modo necessario, e ci possono essere casi in cui la specie più debole
trionferà fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida, per
la sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici, o per la sua superiore
abilità nello sfuggire ai comuni nemici». In questi casi ciò che viene
chiamata competizione può non essere affatto una vera competizione. Una
specie soccombe non perché sia sterminata o affamata da un'altra specie,
ma perché non s'adatta bene alle nuove condizioni, mentre l'altra ci si
adatta. Di nuovo, l'e- 89 spressione «lotta per la vita» è qui impiegata
in senso metaforico, e non può averne altro. Quanto
all'effettiva competizione tra individui della stessa specie, di cui
si parla in un altro passo relativo ad una mandria in Sud America durante
un periodo di siccità, il valore dell'esempio è diminuito dal fatto che si
tratta di animali domestici. In condizioni simili, i bisonti migrano
allo scopo d'evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta delle piante -
cosa abbondantemente provata - non possiamo che ripetere l'osservazione di
Wallace, il quale fa rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre
gli animali hanno in larga misura la possibilità di scegliere il proprio
habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a che punto la competizione
esiste realmente in ogni specie animale? Su cosa viene basata questa
opinione? Occorre fare la stessa osservazione anche a
proposito dell'argomento indiretto a favore di un'implacabile
competizione e di una lotta per la vita in seno ad ogni specie, argomento
che si basa sullo «sterminio delle varietà transitorie» così di frequente
ricordato da Darwin. Si sa che per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla
difficoltà che individuava nell'assenza di una ininterrotta catena di
forme intermedie tra le specie prossime, e che ha poi identificato la
soluzione di questa difficoltà nel supposto sterminio delle forme intermedie.
Tuttavia, un'attenta lettura dei differenti capitoli nei quali Darwin e
Wallace parlano di tale soggetto, ci porta ben presto alla conclusione che
non bisogna intendere «sterminio » nel senso letterale della parola; la
stessa osservazione fatta da Darwin sull'espressione «lotta per la vita»
s'applica anche alla parola «sterminio»: non deve essere presa in senso
proprio, bensì «in senso metaforico