Le traduzioni dei testi originali di Pëtr Kropotkin,<BR>Introduzione 7<BR>Nota bio-bibliografica 27<BR>I. La nascita dello Stato 33<BR>II. La Rivoluzione francese 49<BR>III. Questioni di metodo 61<BR>IV. L'aiuto reciproco in natura 79<BR>V. La solidarietà umana 93<BR>VI. L'etica 119<BR>VII. Piccolo è bello 147<BR>VIII. L'integrazione del lavoro 181<BR>IX. Il comunismo anarchico 205<BR>NOTA BIO-BIBLIOGRAFICA<BR>Pëtr Kropotkin nasce a Mosca il 9 dicembre 1842 da famiglia principesca<BR>di antica tradizione, che nel periodo feudale aveva avuto una<BR>posizione preminente nel principato di Smolénsk. Dopo aver frequentato<BR>la scuola militare più esclusiva della Russia zarista - il Corpo dei<BR>Paggi a San Pietroburgo - nel 1862 sceglie di recarsi in Siberia come<BR>esploratore e geografo. In questi anni matura lentamente una posizione<BR>critica verso il potere assolutista, avvicinandosi dapprima alle idee<BR>liberali,<BR>poi a quelle socialiste. Nella primavera del 1872 decide di andare<BR>in Svizzera dove stabilisce importanti relazioni con gli internazionalisti<BR>del Giura e si avvicina alle idee anarchiche. Ritornato nel proprio Paese,<BR>si dedica completamente all'attività rivoluzionaria che culmina nel<BR>1874 con il suo arresto e la prigionia nella fortezza di S. Pietro e Paolo.<BR>Riesce a fuggire due anni più tardi, raggiungendo l'Inghilterra e poi<BR>ancora la Svizzera, dove collabora attivamente alla Fédération Jurassienne,<BR>dando vita tra l'altro allo stesso giornale della Federazione, «Le<BR>Révolté». Espulso nel 1881 da questo Paese in seguito alle misure<BR>controrivoluzionarie<BR>prese dopo l'assassinio dello zar Alessandro II, emigra<BR>a Londra, poi a Thonon, nella Savoia. Qui finisce per essere arrestato<BR>e condannato a cinque anni di prigione per attività sovversiva.<BR>Rilasciato nel 1886 a seguito di una vasta campagna di stampa, promossa<BR>tra gli altri da Victor Hugo ed Ernest Renan, si reca nuovamente<BR>in Inghilterra, dove rimarrà fino al 1917.<BR>Qui pubblica quasi tutte le sue opere principali, è tra i fondatori (nel<BR>1886) di «Freedom» e collabora prolificamente a varie pubblicazioni<BR>27<BR>anarchiche, in particolare (ininterrottamente fino al 1917) a «Freedom»<BR>e alle parigine «La Révolte» (1887-1894) e «Les Temps Nouveaux»<BR>(1897-1914). In questo suo lungo periodo londinese, collabora anche a<BR>varie pubblicazioni scientifiche e a varie voci dell'Encyclopaedia<BR>Britannica,<BR>per cui scrive tra l'altro la voce «Anarchismo».<BR>Allo scoppio della prima guerra mondiale, Kropotkin, insieme ad un<BR>gruppo di altri anarchici molto conosciuti, prende posizione a favore<BR>dell'intervento militare contro gli Imperi centrali, da lui considerati il<BR>pericolo maggiore del momento. Questo suo appoggio alle potenze<BR>dell'Intesa provoca la rottura con il movimento anarchico internazionale,<BR>schierato nella sua stragrande maggioranza contro la guerra.<BR>Nell'estate del 1917 Kropotkin ritorna in Russia, ma dopo la presa<BR>del potere da parte dei bolscevichi è progressivamente emarginato dal<BR>nuovo potere comunista. Qui scrive L'Etica che uscirà postumo e<BR>incompiuto.<BR>Muore nel 1921 e il suo funerale costituisce l'ultima grande manifestazione<BR>anarchica in quel Paese.<BR>PRINCIPALI OPERE DI KROPOTKIN<BR>Kropotkin ha scritto numerosissimi articoli, in parte integrati in<BR>volumi successivi o pubblicati anche come opuscoli. Qui ci limitiamo<BR>ad elencare le sue opere più importanti, indicando, oltre all'anno di<BR>pubblicazione originale, anche l'edizione italiana più recente a noi<BR>nota.<BR>VOLUMI<BR>Parole di un ribelle (1885), Casa Editrice Sociale, Milano 1921.<BR>La conquista del pane (1892), Anarchismo, Catania 1978.<BR>Campi, fabbriche, officine (1899), Antistato, Milano 19822.<BR>Memorie di un rivoluzionario (1899), Loescher, Torino 1980.<BR>La scienza moderna e l'anarchia (1901), Il Risveglio, Ginevra 1913.<BR>Ideali e realtà nella letteratura russa (1905), Ricciardi, Napoli 1921.<BR>Il mutuo appoggio (1902), Salerno, Roma 1982.<BR>La grande rivoluzione (1909), Anarchismo, Catania 1975.<BR>L'Etica (1922), La Fiaccola, Ragusa 1990.<BR>28<BR>OPUSCOLI<BR>La legge e l'autorità (1896), La Fiaccola, Ragusa 1961.<BR>La morale anarchica (1890), La Fiaccola, Ragusa 1984.<BR>L'anarchia: la sua filosofia e il suo ideale (1896), Altamurgia, Ivrea<BR>1973.<BR>Lo Stato e il suo ruolo storico (1896), Anarchismo, Catania 1981.<BR>Vari opuscoli e altri scritti sono raccolti nell'antologia: R.N.<BR>Baldwin (a cura di), Kropotkin's Revolutionary Pamphlets (1922),<BR>Dover Publication, New York 1970.<BR>PRINCIPALI OPERE SU KROPOTKIN<BR>Per un'introduzione generale al pensiero e alla vita di Kropotkin:<BR>AA.VV., Pierre Kropotkine. L'Ami, L'Homme, L'Anarchiste, Paris<BR>1921; R. MONDOLFO, Kropotkin, Prince Pëtr Alexyevich, in Encyclopaedia<BR>of the Social Sciences, London 1930, vol. VII, pp. 602-607; G.<BR>WOODCOCK-I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, London 1950<BR>(ora Peter Kropotkin from Prince to Rebel, Montréal-New York 1990);<BR>N. WALTER, Introduction, in P. KROPOTKIN, Memoirs of a Revolutionist,<BR>New York 1971, pp. V-XXI; E. CAPOUYA-K. TOMPKINS, Introduction,<BR>in The essential Kropotkin. A General Selection from the writings<BR>of the great Russian anarchist thinker, New York 1975, pp. VII-XXIII;<BR>M.A. MILLER, Kropotkin, Chicago e London 1976; H. READ, Introduzione<BR>a P. KROPOTKIN, La società aperta (scritti scelti), Milano 19762;<BR>A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin. Ciencia, ética y anarquía,<BR>Madrid 1978; M. LOLLI LARIZZA, Stato e potere nell'anarchismo,<BR>Milano 1986, pp. 66-93; P. MARHALL, Demanding the Impossible. A<BR>History of Anarchism, London 1992, pp. 309-338; J. SLATTER (a cura<BR>di), P.A. Kropotkin's Sesquicentennial: A Reassessment and a Tribute,<BR>Durham 1992.<BR>Sulla concezione kropotkiniana del mutuo appoggio si vedano le<BR>varie interpretazioni di P. AVRICH, Introduction in P. KROPOTKIN,<BR>Mutual Aid. A Factor of Evolution, New York 1972, pp. 1-10; W. RYDZEWSKI,<BR>La notion des liens sociaux et la vision de l'histoire dans la<BR>doctrine sociale de Kropotkine, «Archiwum Hist. filozofii i Mysli<BR>Spoecznej» XXIV (1978), pp. 89-123; A. MONTAGU, Foreword, in P.<BR>KROPOTKIN, Mutual Aid. A Factor of Evolution, Boston 1980; G.P.<BR>29<BR>PRANDSTRALLER, Attualità di Kropotkin, in P. KROPOTKIN, Il mutuo<BR>appoggio. Un fattore dell'evoluzione, cit., pp. 7-48; D. MILLER, Peter<BR>Kropotkin (1842-1921): Mutual Aid and Anarcho-Communism, in<BR>Rediscoveries, a cura di J.A. HALL, Oxford 1986, pp. 85-104; J. HEWTSON,<BR>Mutual Aid and the Social Significance of Darwinism, in P. KROPOTKIN,<BR>Mutual Aid. A Factor of Evolution, London 1987, pp. VII-XII,<BR>1-11; M. CONFINO-D. RUBISTEIN, Vingt-cinq lettres inédites de Pierre<BR>Kropotkine à Marie Goldsmith, 27 juillet 1901-9 juillet 1915, «Cahiers<BR>du monde russe et soviétique», XXXIII (1992), pp. 243-302; R. KINNA,<BR>Kropotkin's Theory of Mutual Aid in Historical Context, «International<BR>Review of Social History» vol. 40, part. 2 (agosto 1995), pp. 259-283.<BR>Sulle idee kropotkiniane di decentramento industriale, di federalismo<BR>e di integrazione città-campagna e lavoro manuale-lavoro intellettuale,<BR>cfr. le appendici di C. WARD ai capitoli dell'edizione italiana di<BR>Campi, fabbriche, officine da lui curata (London 1974, Milano 19822);<BR>C. Doglio, Federalismo comunitario (Kropotkin), «Volontà», n. 12,<BR>1950, ora in: C. MAZZOLENI (a cura di), Carlo Doglio. Selezione di<BR>scritti, Venezia 1992; C. WARD, Kropotkin's Federalism, «The<BR>Raven», vol. 5, n. 4 (1992), pp. 327-341; C. BERNERI, P. Kropotkin<BR>federalista (1925), in Il federalismo libertario, Ragusa 1994, pp. 70-91.<BR>Sul concetto di legge in Kropotkin cfr. C. CAHM, Kropotkin and<BR>Law, in Law and Anarchism, a cura di Thom Holterman e Hene Van<BR>Marseveen, Rotterdam 1980, pp. 151-163; C. BAX, Kropotkin and Law,<BR>in Law and Anarchism, cit., pp. 164-172.<BR>Sull'etica kropotkiniana cfr. le varie interpretazioni di N. LEBEDEV,<BR>Introduction a P. KROPOTKIN, Ethics. Origin and Development, New<BR>York 1968, pp. IX-XVI; P. AVRICH, Anarchist Portraits, Princeton<BR>1988, pp. 53-78; G. WOODCOCK, Introduction, in P. KROPOTKIN, Ethics,<BR>Montréal 1992, pp. VII-XXI; A.J. CAPPELLETTI, El pensamiento de<BR>Kropotkin, cit., pp. 44-144; P. MARSHALL, Demanding the Impossible...,<BR>cit., pp. 309-338; M.A. MILLER, Kropotkin, cit., pp. 195-198;<BR>G.P. PRANDSTRALLER, Kropotkin: il problema dell'etica, «Volontà»,<BR>XXXV (1989), n. 2, pp. 24-33; L. BORGHI, Giustizia e mutuo appoggio,<BR>«A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 198, pp. 27-30; M. LA TORRE,<BR>Dimenticare Kropotkin?, «A rivista anarchica», XXIII (1993), n. 199,<BR>pp. 29-38.<BR>30<BR>Sulla teoria kropotkiniana della rivoluzione si veda l'ampia disamina<BR>in C. CAHM, Kropotkin and the Rise of Revolutionary Anarchism,<BR>1872-1886, Cambridge 1989, pp. 71-209. Ma cfr. pure le considerazioni<BR>di J. FREIRE, Kropotkin tra riforma e utopia, «Volontà», XXXV<BR>(1981), n. 2, pp. 53-74; G. WOODCOCK, Kropotkin's The Great French<BR>Revolution, «The Anarchist Papers», n. 3, Montréal-New York 1990,<BR>pp. 1-17; L. SEKELJ, Bakunin's and Kropotkin's Theories of Revolution<BR>in Comparative Perspective, «The Raven», vol. 5, n. 4 (1992) pp. 358-<BR>378.<BR>Sul comunismo kropotkiniano cfr. G. WOODCOCK, L'anarchia,<BR>Milano 1966, pp. 176-182; P. AVRICH, Introduction a P. KROPOTKIN,<BR>The Conquest of Bread, New York 1972, pp. 1-24; M.A. MILLER, Kropotkin,<BR>cit., pp. 191-195; I. SOCHA-TURONSKA, Individuum, société et<BR>nature dans l'anarcho-communisme de P.A. Kropotkine, «Archiwum<BR>Hist. filozofii i Mysli Spoecznej», XXIV (1978), pp. 125-165; A.J.<BR>CAPPELLETTI, El pensamiento de Kropotkin, cit., pp. 229-275.<BR>La più completa bibliografia kropotkiniana è quella a cura di H.<BR>HUG, Peter Kropotkin. Bibliographie, Edition Anares im Trotzdem-<BR>Verlag, Berlin 1994. Ampie bibliografie si trovano anche in G. WOODCOCK<BR>- I. AVAKUMOVITCH, The Anarchist Prince, cit., e in M.A.<BR>MILLER, Kropotkin, cit.<BR>31<BR><BR>I<BR>Il problema dello Stato è centrale nel pensiero anarchico.<BR>Kropotkin, tuttavia, a differenza di altri autori non lo<BR>pone come un tema a sé stante perché gli dedica un'attenzione<BR>più storica che teoretica con un saggio pubblicato<BR>nel 1897 che porta il titolo Lo Stato e il suo ruolo storico.<BR>In questo volume è soprattutto storicizzata la genesi, che<BR>viene collocata, «classicamente», all'inizio dell'età moderna.<BR>Con tale interpretazione egli opera un distacco netto<BR>dalla precedente tradizione anarchica, secondo cui<BR>l'entità statale è una forma meta-storica che riassume,<BR>par excellence, il principio informatore del dominio. Sulla<BR>scia della sinistra hegeliana, questa tradizione aveva<BR>infatti identificato nello Stato - come del resto nella religione<BR>- l'alienazione suprema del genere umano. Ora,<BR>tale concetto non si ravvisa nell'anarchico russo che, al<BR>contrario, vede nella formazione statale soltanto un<BR>momento politico storicamente ben definito e particolare<BR>del dominio dell'uomo sull'uomo. L'umanità, infatti, è<BR>vissuta per secoli senza conoscere questa forma politica.<BR>Qual è dunque la natura politica, sociale ed economica<BR>dello Stato? Per Kropotkin la risposta è una sola:<BR>nell'essere costitutivamente l'intreccio organico delle<BR>funzioni coercitive operanti contro la società. Ciò è particolarmente<BR>evidente se si analizza il ruolo storico da<BR>33<BR>questi assunto nel periodo che va dal XVI al XIX secolo.<BR>Si vedrà allora che la legislazione sulla proprietà, il<BR>meccanismo fiscale, la costituzione dei monopoli, la<BR>difesa del territorio hanno rappresentato l'insieme concreto<BR>dell'organizzazione trasversale di tutti i privilegi<BR>costituiti senza distinzione di sorta. Ad esempio, lo<BR>sfruttamento economico determinato dal modo di produzione<BR>capitalistico non avrebbe potuto sussistere e svilupparsi<BR>senza l'aiuto dello Stato, specialmente per<BR>quanto riguarda l'originaria formazione dei grandi<BR>interessi dell'industria, del commercio e dell'agricoltura.<BR>Mentre le rivoluzioni susseguitesi dal XV al XIX secolo<BR>sono state tutte dirette a liberare la persona dal giogo<BR>del lavoro obbligatorio, la reazione dello Stato è stata<BR>sempre volta a rifondare la struttura gerarchica entro le<BR>stesse determinazioni storiche dell'economia, della<BR>società e della politica. Lo Stato, infatti, non è un'entità<BR>separata dalla vita degli individui, non costituisce la<BR>loro forma istituzionalmente alienata, la coscienza rovesciata<BR>della loro autentica socialità. Al contrario, esso<BR>consiste nell'essere parte integrante di ogni manifestazione<BR>individuale e collettiva. Precisamente, quale<BR>espressione funzionante della somma dei poteri esistenti<BR>si manifesta come principio organizzatore di tutte le<BR>espressioni particolari del conflitto, della violenza e della<BR>sopraffazione.<BR>Lo Stato - riassunzione suprema della loro sinergia -<BR>acquista forma, identità e stabilità solo quando inizia<BR>l'irreversibile processo della delega di potere: allora i<BR>vincoli umani e comunitari si traducono in istituzioni<BR>con una vita propria, il costume lascia il posto alla legge,<BR>il governo finisce per assorbire l'amministrazione.<BR>Dalla sovrapposizione sinergica di tutte queste funzioni,<BR>dalla loro autonomizzazione prende vita la forma statale:<BR>si passa, appunto, dal sociale al politico.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana di Lo Stato e il suo ruolo storico del 1981,<BR>nella traduzione (rivista) di Alfredo M. Bonanno.<BR>34<BR>LA NASCITA DELLO STATO<BR>Per prima cosa bisogna intendersi su ciò che indichiamo<BR>con la parola Stato.<BR>La scuola tedesca, la quale si compiace di confondere<BR>lo Stato con la Società, ha prodotto notevoli lavori, elaborati<BR>dai migliori pensatori tedeschi ma anche da molti<BR>francesi, in cui gli autori non riescono a concepire la<BR>società senza la concentrazione statale. Da ciò deriva la<BR>solita accusa rivolta agli anarchici di voler «distruggere<BR>la società», di predicare il ritorno a una «guerra permanente<BR>di tutti contro tutti».<BR>Eppure, ragionare così significa ignorare completamente<BR>i progressi compiuti nel campo della storia<BR>durante gli ultimi trent'anni; significa ignorare che<BR>l'uomo è vissuto in società per migliaia di anni prima di<BR>aver conosciuto lo Stato; significa dimenticare che per<BR>35<BR>le nazioni europee lo Stato è di origine recente, datando<BR>appena dal XVI secolo; significa infine disconoscere che i<BR>periodi più gloriosi dell'umanità sono stati quelli in cui<BR>le libertà e la vita locale non erano ancora state distrutte<BR>dallo Stato, e in cui grandi masse di uomini vivevano<BR>in Comuni e in libere federazioni.<BR>Lo Stato è solo una delle forme che la società ha<BR>assunto nel corso della storia; e non si possono confondere<BR>tra loro queste due entità.<BR>Altri ancora hanno confuso lo Stato con il governo.<BR>Non essendo possibile avere Stato senza governo, si è<BR>detto, bisogna mirare all'assenza del governo e non<BR>all'abolizione dello Stato.<BR>A mio avviso, tuttavia, nello Stato e nel governo si<BR>debbono identificare due nozioni di ordine diverso.<BR>L'idea di Stato indica una cosa ben diversa dall'idea di<BR>governo. Essa comprende non solo l'esistenza di un<BR>potere collocato al di sopra della società, ma anche una<BR>concentrazione territoriale e una concentrazione di molte<BR>funzioni della vita sociale nelle mani di pochi; e comporta<BR>altresì l'instaurarsi di nuovi rapporti con i membri<BR>della società. Si tratta, come si vede, di una distinzione<BR>che a prima vista può sfuggire, ma che appare<BR>chiara quando si studiano le origini dello Stato.<BR>Peraltro, se si vuole comprendere lo Stato, non c'è<BR>che un mezzo per farlo: studiarlo nel suo sviluppo storico,<BR>cosa che tenteremo di fare nel presente lavoro.<BR>L'impero romano fu uno Stato nel vero senso della<BR>parola, tanto che fino ai giorni nostri resta un punto di<BR>riferimento per l'uomo di legge.<BR>Le sue istituzioni ricoprivano con una rete fittissima<BR>un vasto dominio. Tutto affluiva verso Roma: la vita<BR>economica, la vita militare, i rapporti giudiziari, le ricchezze,<BR>l'educazione e persino la religione. Da Roma<BR>provenivano le leggi, i magistrati, le legioni per difendere<BR>il territorio, i prefetti, gli dei. Tutta la vita dell'impero<BR>risaliva al Senato, e più tardi a Cesare, l'onnipotente,<BR>l'onniscente, il dio dell'impero. Ogni provincia, ogni<BR>distretto, aveva il suo Campidoglio in miniatura, la sua<BR>36<BR>piccola porzione di sovrano romano che ne dirigeva tutta<BR>la vita. Una sola legge, la legge imposta da Roma,<BR>regnava sull'impero; e questo non era una confederazione<BR>di cittadini, ma solo un gregge di sudditi.<BR>Ancor oggi il legislatore e l'autoritario ammirano<BR>l'unità di questo impero, lo spirito unitario delle sue<BR>leggi, la bellezza - a loro dire - e l'armonia di questa<BR>organizzazione.<BR>Ma lo sfacelo interno, assecondato dalle invasioni<BR>barbariche, la morte della vita locale, l'incapacità di<BR>resistere agli attacchi esterni e alla cancrena interna,<BR>spezzarono l'impero. Dalle sue rovine nacque una nuova<BR>civiltà, che oggi è la nostra.<BR>Se mettiamo da parte lo studio delle civiltà antiche<BR>per esaminare piuttosto le origini e gli sviluppi della<BR>giovane civiltà barbarica, sino ai periodi in cui essa, a<BR>sua volta, dette origine ai nostri Stati moderni, riusciremo<BR>a comprendere meglio l'essenza dello Stato. Si<BR>tratta di porre in atto uno studio molto più efficace di<BR>quello che sarebbe possibile fare immergendoci nell'esame<BR>dell'impero romano o di quello di Alessandro, oppure<BR>nell'esame del dispotismo orientale.<BR>Prenderemo quindi come punto di partenza quei possenti<BR>demolitori barbari dell'impero romano, tentando<BR>di rintracciare l'evoluzione della nostra civiltà dalle sue<BR>origini fino alla fase statale.<BR>La maggior parte dei filosofi del XVIII secolo si era<BR>fatta un'idea molto elementare dell'origine delle<BR>società. All'inizio, sostenevano, gli uomini vivevano in<BR>piccole famiglie isolate in guerra perpetua fra di loro.<BR>Questa guerra rappresentava la condizione normale.<BR>Un bel giorno, però, si resero conto degli inconvenienti<BR>di queste lotte senza tregua, e quindi decisero di mettersi<BR>in società. Un contratto sociale fu concluso tra le<BR>famiglie sparse, che si sottomisero volentieri ad una<BR>autorità la quale - ho bisogno di sottolinearlo? - divenne<BR>il punto di partenza e l'iniziatrice di ogni progresso.<BR>Non occorre nemmeno aggiungere, poiché l'abbiamo<BR>appreso a scuola, che i nostri governi attuali hanno<BR>37<BR>mantenuto questa loro positiva immagine di sapienti<BR>pacificatori e civilizzatori della specie umana.<BR>Questa idea, concepita in un'epoca in cui non si sapeva<BR>ancora molto sulle origini dell'uomo, dominò per tutto<BR>il secolo; e va riconosciuto che nelle mani degli enciclopedisti<BR>e di Rousseau, l'idea del «contratto sociale»<BR>diventò un'arma potente per combattere la monarchia<BR>di diritto divino. Però, malgrado i servizi resi in passato,<BR>questa tesi deve essere riconosciuta come falsa.<BR>In effetti, salvo alcuni carnivori e alcuni rapaci, nonché<BR>alcune specie che vanno scomparendo, tutti gli animali<BR>vivono in società. Nella lotta per la vita sono le<BR>specie sociali che vincono su quelle che non lo sono. In<BR>ogni classe di animali esse occupano il vertice della scala,<BR>e non può esserci alcun dubbio che i primi umanoidi<BR>vivessero già in società.<BR>Non è l'uomo quindi che ha creato la società, ma questa<BR>preesisteva all'uomo.<BR>Al giorno d'oggi la cosa è nota, avendo l'antropologia<BR>chiarito perfettamente che il punto di partenza dell'umanità<BR>non fu la famiglia ma il clan e la tribù. La famiglia<BR>patriarcale, quale noi la conosciamo e quale ci viene<BR>dipinta dalla tradizione ebraica, non fece la sua<BR>apparizione che molto più tardi: trascorsero decine di<BR>migliaia di anni durante i quali l'uomo visse nella fase<BR>tribale o clanica; e in questa prima fase - chiamiamola<BR>pure, se così ci piace, di tribalismo primitivo o selvaggio<BR>- l'uomo sviluppò tutta una serie di istituzioni, di usi e<BR>di costumi molto anteriori alle istituzioni della famiglia<BR>patriarcale. [...]<BR>Questa fase durò diverse migliaia di anni, e i barbari<BR>che invasero l'impero romano l'avevano attraversata,<BR>anzi ne uscivano appena allora.<BR>Nei primi secoli della nostra era immense migrazioni<BR>interessarono le tribù e le confederazioni tribali che<BR>abitavano l'Asia centrale e boreale. Enormi fiumane di<BR>popolazione, sospinte da popoli più o meno civili discesi<BR>38<BR>dagli altipiani asiatici, probabilmente scacciati dalla<BR>rapida essiccazione di questi altipiani, si riversarono<BR>sull'Europa urtandosi fra loro e mescolandosi nel tentativo<BR>di spingersi verso occidente.<BR>Nel corso di queste migrazioni, durante le quali tante<BR>tribù di origine diversa si trovarono riunite, le tribù primitive<BR>che ancora esistevano nella maggior parte degli<BR>insediamenti selvaggi d'Europa, dovettero necessariamente<BR>scomparire. La tribù era basata sulla comunanza<BR>di origine, sul culto di comuni antenati, ma non poteva<BR>più esistere alcuna comunanza di origini in quelle<BR>agglomerazioni che uscirono dal confuso miscuglio delle<BR>migrazioni, delle scorribande, delle guerre inter-tribali,<BR>durante le quali, qua e là, incominciava a scorgersi<BR>l'origine della famiglia patriarcale, il nucleo che andava<BR>formandosi intorno al possesso, che alcuni erano riusciti<BR>ad accaparrarsi, delle donne conquistate o rapite alle<BR>tribù vicine.<BR>Gli antichi legami vennero così spezzati e sotto pena<BR>di dispersione (come avvenne, infatti, per molte tribù<BR>ormai scomparse dalla storia) nuovi legami dovevano<BR>sorgere. Ed essi sorsero. Furono trovati nel possesso<BR>comune della terra, cioè del territorio sul quale una certa<BR>agglomerazione aveva finito per insediarsi.<BR>Il possesso comune di un certo territorio - di valli e<BR>di colline - divenne la base di un nuovo accordo. Gli dei<BR>degli antenati avevano ormai perduto il loro significato,<BR>gli dei locali, della vallata, del fiume, della foresta, diedero<BR>la consacrazione religiosa alle nuove agglomerazioni<BR>sostituendo le credenze della tribù primitiva. Più<BR>tardi il cristianesimo, sempre pronto ad adattarsi alle<BR>sopravvivenze pagane, ne fece dei santi locali.<BR>La comunità di villaggio, composta in parte o interamente<BR>di famiglie distinte - unite tutte però dal possesso<BR>comune della terra - divenne per i secoli che seguirono<BR>il necessario elemento di congiunzione. [...]<BR>La comunità di villaggio si componeva, come si com-<BR>39<BR>pone ancora, di famiglie distinte. Ma le famiglie di uno<BR>stesso villaggio possedevano la terra in comune. Esse la<BR>consideravano come loro patrimonio comune e la ripartivano<BR>in base all'estensione delle famiglie, ai loro bisogni<BR>e alle loro forze. Centinaia di milioni di uomini,<BR>nell'Europa orientale, nelle Indie, a Giava ecc., vivono<BR>ancora oggi sotto questo regime, che è lo stesso stabilito<BR>liberamente dai contadini russi quando, in epoca recente,<BR>lo Stato ha loro permesso di occupare l'immenso territorio<BR>della Siberia. [...]<BR>In tutti i suoi affari la comunità di villaggio era<BR>sovrana. L'usanza locale faceva legge e l'assemblea plenaria<BR>di tutti i capi di famiglia, uomini e donne, era il<BR>giudice - il solo giudice - in materia civile e penale.<BR>Quando un abitante ne «querelava» un altro, piantava<BR>il suo coltello nel luogo dove di regola la comunità si<BR>riuniva, e questa doveva «emettere la sentenza» secondo<BR>il costume locale, dopo che il fatto contestato dalle<BR>due parti fosse stato chiarito dai giudici.<BR>Sarebbe veramente lungo indicare tutto ciò che questa<BR>fase offre di interessante. Basterà ricordare che tutte<BR>le istituzioni di cui gli Stati si impadronirono più tardi<BR>a vantaggio delle minoranze, tutte le nozioni di diritto<BR>che troviamo (mutilate a vantaggio delle minoranze)<BR>nei nostri codici, nonché tutte le forme di procedura<BR>giudiziaria che offrono garanzie per l'individuo, ebbero<BR>la loro origine nella comunità di villaggio. Così, quando<BR>crediamo di aver fatto un grande progresso introducendo,<BR>ad esempio, la giuria, non abbiamo fatto altro che<BR>riportare alla luce un'istituzione dei barbari, dopo averla<BR>modificata a vantaggio delle classi dominanti. Il<BR>diritto romano non fece che sovrapporsi al diritto consuetudinario.<BR>Nello stesso tempo si andava sviluppando il sentimento<BR>di unità nazionale per mezzo delle grandi federazioni<BR>di libere comunità di villaggio.<BR>Fondata sul possesso e, spessissimo, sulla coltivazione<BR>in comune della terra, sovrana come giudice e come<BR>legislatore del diritto consuetudinario, la comunità di<BR>40<BR>villaggio rispondeva a una buona parte dei bisogni<BR>dell'essere sociale. Ma molti di questi bisogni restavano<BR>ancora da soddisfare. Ora, lo spirito dell'epoca non era<BR>portato a fare appello al governo non appena un nuovo<BR>bisogno si faceva sentire; al contrario, tendeva a prendere<BR>autonomamente l'iniziativa per unirsi, federarsi,<BR>creare un'intesa, grande o piccola, allargata o ristretta,<BR>che rispondesse a questo bisogno. La società di allora si<BR>trovava letteralmente ricoperta da una rete di patti di<BR>fratellanza, di cooperazioni per il mutuo appoggio, di<BR>«congiurazioni», sia nel villaggio che fuori, nella federazione.<BR>[...]<BR>L'arbitraggio delle dispute era diventata un'istituzione<BR>profondamente radicata, una pratica giornaliera;<BR>malgrado e contro i vescovi e i reucci nascenti che<BR>avrebbero voluto che ogni disputa venisse portata<BR>davanti a loro o davanti ai loro emissari per approfittare<BR>della fred, un'ammenda pagata dal villaggio d'origine<BR>dei violatori della pace pubblica.<BR>Con il tempo, centinaia di villaggi si riunirono in<BR>potenti federazioni - germi delle nazioni europee - che<BR>sottoscrissero un patto per mantenere la pace interna e<BR>difendere reciprocamente il loro territorio considerato<BR>come un patrimonio comune. Ancor oggi è possibile studiare<BR>queste federazioni dal vivo in seno alle tribù mongole,<BR>ugro-finniche, malesi. [...]<BR>Lungi dall'essere quella bestia sanguinaria che si è<BR>voluto dipingere allo scopo di convalidare la necessità<BR>del potere, l'uomo ha sempre amato la tranquillità e la<BR>pace. Più battagliero che feroce, egli di norma preferisce<BR>il suo bestiame e la sua terra al mestiere delle armi.<BR>È per questo che non appena le grandi migrazioni barbariche<BR>hanno cominciato a stabilizzarsi, non appena le<BR>orde e le tribù hanno cominciato a insediarsi nei loro<BR>rispettivi territori, si è assistito all'attribuzione dei<BR>compiti di difesa territoriale contro nuove possibili<BR>invasioni di altri immigranti a particolari individui, i<BR>quali iniziano ad arruolare piccole bande di avventurieri,<BR>di uomini agguerriti o di briganti, mentre la gran<BR>41<BR>massa degli abitanti continua ad allevare il bestiame e<BR>a coltivare il suolo. Questi difensori cominciano ben<BR>presto ad accumulare ricchezze: prestano cavalli e ferro<BR>(allora costosissimi) al povero, asservendolo; si costituiscono<BR>così i primi embrioni del potere militare.<BR>D'altra parte, la tradizione - che fa legge - viene a<BR>poco a poco dimenticata dalla maggior parte degli individui.<BR>Resta appena qualche vecchio che ha conservato<BR>nella memoria le strofe e i canti che raccontano i «precedenti<BR>» di cui si compone la legge consuetudinaria, e li<BR>recita nei giorni delle grandi feste davanti alla comunità<BR>riunita. E così, a poco a poco, in alcune famiglie si<BR>forma una tradizione trasmessa da padre in figlio: quella<BR>di ritenere a memoria quei canti e quei versetti, di<BR>conservare insomma la «legge» nella sua purezza. Presso<BR>queste famiglie si recano gli abitanti del villaggio per<BR>giudicare le loro questioni più difficili, soprattutto<BR>quando due villaggi o due confederazioni si rifiutano di<BR>accettare le decisioni degli arbitri scelti al loro interno.<BR>L'autorità di principi e re è già in germe in queste<BR>famiglie, e più approfondisco lo studio delle istituzioni<BR>di quell'epoca, più mi accorgo che la conoscenza delle<BR>leggi consuetudinarie ha contribuito molto più alla<BR>costituzione di questa autorità che non la forza delle<BR>armi. L'uomo si è lasciato sottomettere più dal desiderio<BR>di punire secondo la «legge» che per diretta conquista<BR>militare. Infatti la prima «concentrazione di potere<BR>», il primo accordo reciproco a fini di dominio, è stato<BR>quello tra il giudice e il capo militare, accordo che viene<BR>fatto contro la comunità di villaggio. Un solo uomo riveste<BR>queste due funzioni, circondandosi di uomini armati<BR>per fare eseguire le decisioni giudiziarie, fortificandosi<BR>nel suo ridotto, accumulando per sé e per la propria<BR>famiglia le ricchezze dell'epoca - cereali, bestiame, terra<BR>- ed estendendo a poco a poco il suo dominio sugli<BR>abitanti del circondario.<BR>L'intellettuale di quel tempo, cioè lo stregone o il prete,<BR>non tarda a dargli il suo appoggio e a condividerne il<BR>dominio; oppure, unendo la forza della lancia al suo<BR>42<BR>temuto potere di mago, se ne impadronisce per proprio<BR>conto.<BR>Bisognerebbe dilungarsi moltissimo su questo argomento,<BR>trattandosi di un soggetto pieno di nuovi insegnamenti<BR>che ci fa comprendere come degli uomini liberi<BR>diventino gradatamente dei servi obbligati a lavorare<BR>per il padrone, laico o religioso, del castello; come<BR>l'autorità si costituisca man mano al di sopra dei villaggi<BR>e delle borgate; come i contadini si ribellino lottando<BR>contro questa dominazione crescente, ma come le loro<BR>lotte si infrangano contro le robuste mura del castello,<BR>contro gli uomini ricoperti di ferro che lo difendono.<BR>Sarà sufficiente dire che, verso il X e l'XI secolo,<BR>l'Europa avanzava in pieno verso la costituzione di quei<BR>regimi barbarici, come oggi se ne scoprono nel cuore<BR>dell'Africa, o di quelle teocrazie, come si conoscono studiando<BR>la storia dell'Oriente. Tutto ciò non avvenne<BR>ovviamente in un giorno, ma i germi dei piccoli reami e<BR>delle piccole teocrazie già esistevano e si andavano<BR>affermando sempre più.<BR>Fortunatamente lo spirito barbaro - scandinavo, sassone,<BR>celtico, germanico, slavo - che aveva spinto gli<BR>uomini durante sette o otto secoli a cercare la soddisfazione<BR>dei loro bisogni nell'iniziativa individuale e nella<BR>libera intesa delle fratellanze e delle gilde, fortunatamente,<BR>dicevamo, questo spirito sopravviveva nei villaggi<BR>e nelle borgate. I barbari si lasciavano dominare,<BR>lavoravano per il padrone, ma il loro spirito di libera<BR>intesa non si era ancora lasciato corrompere. Le loro<BR>fratellanze erano più che mai vive e le crociate non avevano<BR>fatto altro che risvegliarle e svilupparle in tutto<BR>l'Occidente.<BR>Fu allora, tra l'XI e il XII secolo, che la rivoluzione dei<BR>Comuni urbani sorti dall'unione tra la comunità di villaggio<BR>e le fratellanze - rivoluzione che lo spirito federativo<BR>dell'epoca preparava da lungo tempo - scoppiò<BR>con mirabile accordo.<BR>Questa rivoluzione, che la maggior parte degli storici<BR>accademici preferisce ignorare, salvò l'Europa dalla<BR>43<BR>minaccia che gravava su di essa: arrestò l'evoluzione<BR>dei regimi teocratici e dispotici, nei quali la nostra<BR>civiltà avrebbe probabilmente trovato la propria fine.<BR>Infatti, dopo alcuni secoli di pomposo sviluppo, essa<BR>sarebbe stata affossata come affossate furono le civiltà<BR>mesopotamica, assira e babilonese. Questa rivoluzione<BR>schiuse invece una nuova fase di vita: la fase dei liberi<BR>Comuni.<BR>Si capisce facilmente perché gli storici moderni, educati<BR>allo spirito romano e preoccupati di far risalire le<BR>origini di tutte le istituzioni a Roma, stentino tanto a<BR>capire lo spirito del movimento comunalista del XII<BR>secolo. Questo movimento fu una forte affermazione<BR>dell'individuo, che giunse a costituire la società per<BR>mezzo della libera federazione di uomini, villaggi e<BR>città. Esso fu anche un'assoluta negazione dello spirito<BR>unitario e accentratore romano, con il quale si cerca<BR>ancor oggi di spiegare la storia nel nostro insegnamento<BR>universitario. Questo movimento non si ricollega ad<BR>alcun personaggio storico di particolare rilievo né ad<BR>alcuna istituzione centralizzata. Fu uno sviluppo naturale,<BR>proprio, come la tribù e la comunità di villaggio, a<BR>una certa fase dell'evoluzione umana e non a questa<BR>nazione o a quella regione. [...]<BR>La vittoria dello Stato sui Comuni e sulle istituzioni<BR>federative medievali non fu tuttavia immediata. Vi fu<BR>anzi un momento in cui tale vittoria fu così minacciata<BR>da sembrare del tutto incerta.<BR>Un immenso movimento popolare - religioso quanto<BR>a forma ed espressione, ma sostanzialmente egualitario<BR>e comunista quanto ad aspirazioni - si produsse nelle<BR>città e nelle campagne dell'Europa centrale. [...]<BR>Nato nelle città, questo movimento si estese ben presto<BR>nelle campagne. I contadini si rifiutavano di obbedire<BR>a chiunque e montando una vecchia scarpa su di una<BR>picca, a guisa di bandiera, riprendevano le terre ai<BR>signori, spezzavano i legami di servitù, scacciavano pre-<BR>44<BR>te e giudice e si costituivano in libero Comune. Solo<BR>ricorrendo al rogo, alla ruota e alla forca, al massacro di<BR>centinaia di migliaia di contadini compiuto in pochi<BR>anni, il potere regale o imperiale, alleato della Chiesa<BR>papista o riformata - giacché Lutero incitava al massacro<BR>dei contadini ancor più violentemente dello stesso<BR>papa - mise fine a questo movimento che aveva per un<BR>certo periodo minacciato la formazione degli Stati<BR>nascenti.<BR>Nato dall'anabattismo popolare, il riformismo luterano<BR>massacrò il popolo insieme allo Stato e schiacciò il<BR>movimento dal quale aveva avuto origine. I resti di<BR>quell'immensa ondata si rifugiarono nelle comunità dei<BR>«Fratelli Moravi», che a loro volta furono, circa un secolo<BR>dopo, distrutte dalla Chiesa e dallo Stato. [...]<BR>Lo Stato ormai aveva messo al sicuro la propria esistenza.<BR>Il legislatore, il prete, e il signore-soldato, riunitisi<BR>in alleanza solidale intorno al trono, potevano, d'ora<BR>in avanti, compiere la loro opera di distruzione.<BR>Sono moltissime le menzogne su questo periodo accumulate<BR>dagli storici stipendiati dallo Stato.<BR>Abbiamo tutti appreso a scuola, ad esempio, che lo<BR>Stato avrebbe reso il grande servizio di costruire, sulle<BR>rovine della società feudale, le unioni nazionali, rese<BR>precedentemente impossibili dalle rivalità cittadine.<BR>L'abbiamo imparato a scuola e quasi tutti l'abbiamo<BR>continuato a credere anche in età adulta. Oggi invece<BR>arriviamo a capire che, malgrado tutte le loro rivalità,<BR>le città medievali avevano lavorato, durante quattro<BR>secoli, a costruire queste unioni per mezzo della federazione<BR>volontaria liberamente accettata, e in pratica vi<BR>erano riuscite.<BR>La Lega lombarda, ad esempio, comprendeva le città<BR>dell'Alta Italia e aveva la sua cassa federale custodita a<BR>Genova e a Venezia. Altre federazioni si ritrovavano<BR>per tutta l'Europa, come la Lega toscana, la Lega renana<BR>(che comprendeva sessanta città), le federazioni della<BR>Westfalia, della Boemia, della Serbia, della Polonia,<BR>delle città russe. Nello stesso tempo l'unione commer-<BR>45<BR>ciale della Lega Anseatica comprendeva le città scandinave,<BR>tedesche, polacche, russe e di tutto il bacino del<BR>Mar Baltico. Vi erano già in tali unioni tutti gli elementi<BR>di larghe agglomerazioni umane liberamente organizzate.<BR>La prova vivente di tali raggruppamenti la si può<BR>vedere in Svizzera. L'unione, in questo Paese, si<BR>affermò dapprima fra le comunità di villaggio (i vecchi<BR>cantoni), non diversamente da come si costituì, nello<BR>stesso periodo, anche in Francia, nel lionese. E poiché<BR>in Svizzera la separazione tra la città e il villaggio non<BR>fu mai così profonda come nelle lontane città commerciali,<BR>accadde che le città diedero man forte all'insurrezione<BR>dei contadini (nel XVI secolo), facendo in modo che<BR>l'unione risultasse più forte e si mantenesse fino ai<BR>giorni nostri.<BR>Ma lo Stato, per il suo stesso principio, non può tollerare<BR>la federazione libera, che rappresenta una cosa<BR>orrenda per l'uomo di legge: «uno Stato nello Stato». Lo<BR>Stato non può riconoscere un'unione liberamente accettata<BR>che funzioni nel suo seno, esso non riconosce che<BR>sudditi, per cui soltanto lo Stato, insieme alla Chiesa,<BR>può accampare il diritto di servire da unione tra gli<BR>uomini. Di conseguenza, lo Stato doveva per forza<BR>distruggere le città basate sull'unione diretta tra i cittadini:<BR>doveva abolire ogni unione nella città, abolire la<BR>città stessa, e sostituire infine al principio federativo il<BR>principio di sottomissione e di disciplina. È questa la<BR>sostanza stessa dello Stato, che senza tale principio cesserebbe<BR>di esistere.<BR>Il XVI secolo - secolo di massacri e di guerre - si riassume<BR>interamente in questa lotta dello Stato nascente<BR>contro le città libere e le loro federazioni. Le città vengono<BR>assediate, prese d'assalto, saccheggiate, e i loro<BR>abitanti decimati ed espulsi.<BR>Lo Stato ha riportato la vittoria su tutta la linea, ed<BR>eccone le conseguenze. Nel XV secolo l'Europa era piena<BR>di città prospere, i cui artefici - muratori, tessitori,<BR>cesellatori - producevano meravigliose opere d'arte, le<BR>46<BR>cui università ponevano le fondamenta della scienza, le<BR>cui carovane percorrevano i continenti, i cui navigli toccavano<BR>tutti i mari e i fiumi.<BR>Due secoli dopo resta ben poco di tutto questo. Città<BR>che erano arrivate fino a cinquanta o centomila abitanti,<BR>che avevano posseduto - come Firenze - più scuole e<BR>più letti d'ospedale per abitante di quelli oggi posseduti<BR>da città meglio fornite, sono diventate borghi in rovina.<BR>Dopo averne massacrato ed espulso gli abitanti, lo Stato<BR>si è impadronito delle loro ricchezze. L'industria, sotto<BR>la minuziosa tutela dei funzionari dello Stato, si spegne.<BR>Il commercio muore. Le strade stesse, che una volta<BR>collegavano queste città tra loro, nel XVII secolo<BR>diventano assolutamente impraticabili.<BR>Lo Stato è la guerra, e le guerre devastano l'Europa,<BR>finendo di distruggere le città che lo Stato non ha<BR>distrutto direttamente.<BR>47<BR><BR>II<BR>Al nodo storico cruciale della Rivoluzione francese<BR>Kropotkin dedica anni intensi di studio che alla fine<BR>producono un'opera di notevole rilievo: La Grande Rivoluzione.<BR>In questo testo l'anarchico russo delinea contemporaneamente<BR>la sua interpretazione storica del<BR>1789 e la sua concezione di rivoluzione. Nella ricostruzione<BR>kropotkiniana della Rivoluzione francese possiamo<BR>osservare la preminenza delle masse anonime -<BR>soprattutto contadine - nei confronti delle singole personalità<BR>storiche, la subordinazione di ogni forma di soggettività<BR>politica all'emergenza oggettiva della corale<BR>socialità dal basso e dunque la supremazia della dimensione<BR>collettiva rispetto a quella individuale; inoltre, la<BR>concreta e strutturale tendenza del mutuo appoggio<BR>manifestatasi attraverso la domanda prioritaria dell'uguaglianza<BR>sociale, la quale risulta più profonda e<BR>significativa della spinta ideale verso la libertà politica.<BR>In conclusione, la rivoluzione francese costituisce per<BR>Kropotkin la riflessione storica fondamentale da cui<BR>partire per studiare e costruire l'azione rivoluzionaria<BR>futura.<BR>Secondo Kropotkin dal 1789 non sono scaturite molteplici<BR>rivoluzioni (aristocratica, costituzionale, girondina,<BR>giacobina), come è stato affermato dalle varie storio-<BR>49<BR>grafie liberali, socialiste e democratiche, ma una sola<BR>rivoluzione, precisamente la Grande Rivoluzione, che<BR>nel suo moto progressivo ha cercato la propria verità nel<BR>fondo spontaneo, popolare, comunista e anarchico che<BR>ha attraversato fin dall'inizio lo stesso evento rivoluzionario.<BR>Questo giudizio costituisce la chiave di volta dell'interpretazione<BR>kropotkiniana della Rivoluzione francese:<BR>il «fondo» e l'«essenza» di questa rivoluzione non<BR>appartengono veramente alla borghesia, che è stata<BR>rivoluzionaria suo malgrado. La classe borghese è stata<BR>trascinata dall'ondata popolare, alla quale ha cercato di<BR>opporre la moderazione del costituzionalismo monarchico.<BR>La svalutazione della volontà rivoluzionaria della<BR>borghesia attraversa tutta la ricostruzione storica<BR>dell'anarchico russo, che tende pertanto a vedere anche<BR>nelle conquiste del liberalismo politico l'effetto di una<BR>spinta più grande e possente: la lotta popolare per il<BR>comunismo, nella forma ancora rozza della semplice,<BR>diretta distribuzione egualitaria dei beni.<BR>L'opera kropotkiniana ha influenzato largamente il<BR>pensiero rivoluzionario contemporaneo. Lenin, ad esempio,<BR>l'apprezzava molto. Ancora nel 1970 ne è stata tirata<BR>in Unione Sovietica un'edizione di 43.700 copie. Nella<BR>storiografia di sinistra del secondo dopoguerra La<BR>Grande Rivoluzione ha avuto ulteriori echi. Nelle opere<BR>di Daniel Guérin (La lutte de classe sous la Première<BR>République 1793-1797 e Bourgeois et bras nus 1793-<BR>1795) si può ad esempio ravvisare la ripresa di molte<BR>intuizioni dell'anarchico russo.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'antologia<BR>La società aperta, a cura di Herbert Read, nella<BR>traduzione (rivista) di Annamaria Savegnago.<BR>50<BR>LA RIVOLUZIONE FRANCESE<BR>Due grandi correnti prepararono e fecero la Rivoluzione<BR>francese. Una, la corrente delle idee, il prorompere<BR>di nuove idee sulla riorganizzazione politica dello<BR>Stato, proveniva dalla borghesia. L'altra, la corrente<BR>dell'azione, proveniva dalle masse popolari, dai contadini<BR>e dai proletari delle città, che volevano ottenere<BR>miglioramenti immediati e tangibili della loro condizione<BR>economica. E quando queste due correnti si incontrarono<BR>in un obiettivo inizialmente comune, quando<BR>praticarono per un certo periodo un appoggio mutuo, il<BR>risultato fu la rivoluzione.<BR>I filosofi del XVIII secolo avevano già da tempo cominciato<BR>a scalzare le fondamenta delle società civili<BR>dell'epoca, dove il potere politico e una parte immensa<BR>delle ricchezze apparteneva all'aristocrazia e al clero,<BR>51<BR>mentre la gran massa del popolo altro non era se non la<BR>bestia da soma delle classi al potere. Proclamando la<BR>sovranità della ragione, predicando la fiducia nella<BR>natura umana e dichiarando che quest'ultima, pur corrotta<BR>dalle istituzioni che nel corso della storia avevano<BR>ridotto l'uomo in servitù, avrebbe ciononostante riacquisito<BR>tutte le sue qualità una volta riconquistata la<BR>libertà, questi filosofi avevano aperto nuovi orizzonti<BR>all'umanità. Decretando l'uguaglianza di tutti gli uomini,<BR>senza distinzione di nascita, chiedendo a ogni cittadino,<BR>fosse egli re o contadino, obbedienza alla legge,<BR>che si suppone esprima la volontà della nazione quando<BR>è stata emanata dai rappresentanti del popolo, e infine<BR>chiedendo la libertà di contratto tra uomini liberi, nonché<BR>l'abolizione delle servitù feudali, e formulando tutte<BR>queste richieste, collegate tra loro dal metodo e dallo<BR>spirito sistematico caratteristici del pensiero francese, i<BR>filosofi avevano senza dubbio preparato, almeno nelle<BR>menti degli uomini, la caduta del vecchio regime.<BR>Questo da solo, tuttavia, non sarebbe stato sufficiente<BR>a provocare la rivoluzione. Bisognava ancora passare<BR>dalla teoria all'azione, dal concepire un ideale nella propria<BR>immaginazione al metterlo in pratica nei fatti. E<BR>ciò che interessa oggi da un punto di vista storico sono<BR>le circostanze che, in un dato momento, resero possibile<BR>alla nazione francese di fare questo sforzo: dare inizio<BR>alla realizzazione dell'ideale. [...]<BR>La rivoluzione è un cambiamento rapido, nello spazio<BR>di pochi anni, di istituzioni che ci avevano messo dei<BR>secoli a mettere radici nel suolo e che sembravano tanto<BR>solide e immutabili che persino i più accesi riformatori<BR>a malapena osavano attaccarle nei loro scritti. È la<BR>caduta, lo sgretolarsi in un breve lasso di tempo di tutto<BR>ciò che fino a quel momento costituiva l'essenza stessa<BR>della vita sociale, religiosa, politica ed economica di una<BR>nazione. È il sovvertimento delle idee acquisite e delle<BR>nozioni condivise sulle complesse relazioni tra le varie<BR>componenti dell'insieme umano.<BR>È infine il fiorire di concezioni nuove, egualitarie, nei<BR>52<BR>rapporti tra cittadini, concezioni che ben presto diventano<BR>realtà e cominciano così ad espandersi tra le<BR>nazioni vicine, sconvolgendo il mondo e consegnando<BR>all'epoca successiva le sue parole d'ordine, i suoi problemi,<BR>la sua scienza, le sue linee di sviluppo economico,<BR>politico e morale.<BR>Per arrivare a un risultato di tale importanza, perché<BR>un movimento assuma le proporzioni di una rivoluzione<BR>(come successe in Inghilterra nel 1648 e nel 1688<BR>e in Francia nel 1789 e nel 1793), non è sufficiente che<BR>un movimento di idee, non importa quanto radicate, si<BR>manifesti tra le classi colte; e non è sufficiente che le<BR>rivolte, non importa quanto frequenti o estese, si producano<BR>in seno al popolo. È necessario che l'azione rivoluzionaria<BR>proveniente dal popolo coincida con il movimento<BR>di pensiero rivoluzionario proveniente dalle classi<BR>colte. Deve, cioè, esserci un'unione dei due. [...]<BR>Eppure la storia di questo doppio movimento è ancora<BR>da scrivere. La storia della Grande Rivoluzione francese<BR>è stata scritta e riscritta innumerevoli volte e da<BR>molti punti di vista differenti; ma sino a questo momento<BR>gli storici si sono dedicati a raccontare soprattutto la<BR>storia politica, la storia delle conquiste della borghesia<BR>a scapito del partito della Corte e di quanti difendevano<BR>le istituzioni della vecchia monarchia. Così, conosciamo<BR>molto bene il risveglio del pensiero che precede la rivoluzione.<BR>Conosciamo i princìpi che dominarono durante<BR>la rivoluzione e che si tradussero nella sua opera legislativa.<BR>Siamo estasiati davanti alle grandi idee che<BR>lanciò in tutto il mondo e che il XIX secolo ha poi cercato<BR>di realizzare nei Paesi civili. In breve, la storia parlamentare<BR>della rivoluzione, le sue guerre, la sua politica<BR>e la sua diplomazia, sono state studiate e raccontate in<BR>tutti i particolari. Ma la storia popolare della rivoluzione<BR>rimane ancora da fare. La parte avuta nella rivoluzione<BR>dal popolo delle campagne e delle città non è mai<BR>stata studiata e narrata nella sua interezza. Delle due<BR>correnti che fecero la rivoluzione, la corrente del pensiero<BR>è conosciuta, ma l'altra, quella dell'azione popolare,<BR>53<BR>non è stata ancora nemmeno abbozzata.<BR>Sta a noi, i discendenti di quelli che i contemporanei<BR>chiamavano gli «anarchici», studiare questa corrente<BR>popolare evidenziandone quantomeno i tratti essenziali.<BR>[...]<BR>Nei villaggi, fu la Comune dei contadini a reclamare<BR>l'abolizione dei tributi feudali e a ratificare il rifiuto di<BR>continuare a pagarli; fu la Comune a riprendere ai proprietari<BR>terrieri quelle terre che precedentemente erano<BR>comuni, a resistere ai nobili, a lottare contro i preti, a<BR>proteggere i patrioti e più tardi i sans-culottes, ad arrestare<BR>i nobili emigrati che tornavano o il re che scappava.<BR>Nelle città, fu la Comune municipale a ricostruire<BR>ogni aspetto della vita, ad arrogarsi il diritto di scegliere<BR>i giudici, a modificare di propria iniziativa la ripartizione<BR>delle tasse e, più tardi, seguendo gli sviluppi della<BR>rivoluzione, a divenire l'arma dei sans-culottes nella<BR>loro lotta contro la monarchia e i cospiratori monarchici<BR>e contro gli invasori tedeschi. In tempi ancora successivi,<BR>nell'Anno II della Repubblica, furono sempre le<BR>Comuni che si assunsero il compito di redistribuire le<BR>ricchezze.<BR>E, come ben sappiamo, fu la Comune di Parigi a<BR>detronizzare il re e a divenire, dopo il 10 agosto, il<BR>nucleo reale, la vera forza della rivoluzione, che manterrà<BR>il proprio vigore soltanto fino a quando la Comune<BR>sopravviverà.<BR>L'anima della Grande Rivoluzione fu dunque nelle<BR>Comuni, e senza questi focolai sparsi su tutto il territorio,<BR>la rivoluzione non avrebbe mai avuto la forza di<BR>abbattere il vecchio regime, di respingere l'invasione<BR>tedesca e di rigenerare la Francia.<BR>Sarebbe però sbagliato rappresentarsi le Comuni di<BR>quel tempo come i moderni corpi municipali ai quali i<BR>cittadini, dopo pochi giorni di eccitamento dovuto alle<BR>elezioni, ingenuamente affidano l'amministrazione di<BR>54<BR>tutti i propri affari, senza occuparsi più di niente. La<BR>folle fiducia nel governo rappresentativo che caratterizza<BR>la nostra epoca non esisteva durante la Grande<BR>Rivoluzione. La Comune nata dai movimenti popolari<BR>non si separerà mai dal popolo. Attraverso i suoi<BR>«distretti», «sezioni» o «tribù», costituiti come altrettanti<BR>organi di amministrazione popolare, rimarrà del<BR>popolo; ed è appunto questo che darà la forza rivoluzionaria<BR>a tali organismi.<BR>Dal momento che è l'organizzazione e la vita dei<BR>«distretti» e delle «sezioni» di Parigi che sono meglio<BR>conosciute, sarà appunto degli organismi di questa città<BR>che parleremo, tanto più che studiando la vita delle<BR>«sezioni» parigine impariamo a conoscere con buona<BR>approssimazione anche la vita delle migliaia di Comuni<BR>della provincia.<BR>Fin dall'inizio della rivoluzione, ma già da quando gli<BR>eventi avevano spinto Parigi a prendere l'iniziativa alla<BR>vigilia del 14 luglio, il popolo, con la sua meravigliosa<BR>attitudine per l'organizzazione rivoluzionaria, si stava<BR>già organizzando in vista della lotta che avrebbe dovuto<BR>sostenere, e della quale sentì immediatamente l'importanza.<BR>[...]<BR>Dopo la presa della Bastiglia, vediamo subito i<BR>distretti agire come organi riconosciuti dell'amministrazione<BR>municipale. [...]<BR>Fu per mezzo dei distretti che, d'allora in poi, Danton,<BR>Marat e tanti altri furono messi nella possibilità di<BR>ispirare le masse popolari parigine con il soffio della<BR>rivolta; e fu così che le masse si abituarono a fare a<BR>meno dei corpi rappresentativi e cominciarono a mettere<BR>in pratica l'autogoverno.<BR>Immediatamente dopo la presa della Bastiglia, i<BR>distretti avevano ordinato ai loro delegati di preparare,<BR>d'accordo con il sindaco di Parigi, Bailly, un piano di<BR>organizzazione municipale che doveva poi essere nuovamente<BR>sottoposto ai distretti. Ma in attesa di questo<BR>schema, i distretti andarono avanti allargando la sfera<BR>delle proprie funzioni a seconda delle necessità.<BR>55<BR>Quando l'Assemblea nazionale cominciò a discutere<BR>l'ordinamento municipale, lo fece, com'era logico aspettarsi<BR>da un corpo così eterogeneo, con un'esasperante<BR>lentezza. «Dopo due mesi», dice Lacroix, «il primo articolo<BR>del nuovo piano municipale doveva ancora essere<BR>scritto» [Actes, t.II, p.XIV]. Si comprende bene come<BR>«questi ritardi sembrassero sospetti ai distretti», e da<BR>questo momento cominciò a manifestarsi verso l'Assemblea<BR>dei rappresentanti della Comune un'ostilità sempre<BR>più marcata di una parte dei suoi rappresentati.<BR>Ma quello che è importante notare è che, mentre cercavano<BR>di dare una forma legale al governo municipale, i<BR>distretti cercavano al contempo di mantenere la propria<BR>indipendenza. Essi cercavano l'unità d'azione, ma non<BR>sottomettendosi a un comitato centrale, bensì all'interno<BR>di una confederazione.<BR>«Lo spirito espresso dai distretti [...]», scrive ancora<BR>Lacroix [Actes, t.II, pp.XIV-XV], «è caratterizzato al contempo<BR>da un forte sentimento di unità comunalista e da<BR>una tendenza non meno forte verso l'autogoverno. [.]<BR>Parigi non vuol essere una federazione di sessanta<BR>repubbliche, ognuna delle quali ritagliata a caso in un<BR>proprio territorio: la Comune è una, è composta<BR>dall'insieme di tutti i suoi distretti [...]. Non si trova un<BR>solo esempio di un distretto che pretenda di vivere<BR>appartato dagli altri [...]. Ma accanto a questo principio<BR>assodato, se n'è manifestato un altro [...], e cioè che la<BR>Comune deve legiferare e amministrare se stessa quanto<BR>più direttamente possibile; il governo rappresentativo<BR>deve essere ridotto al minimo; tutto ciò che nella<BR>Comune può essere fatto direttamente deve essere fatto<BR>senza alcun intermediario, senza alcuna delega, o da<BR>delegati ridotti al ruolo di mandatari con delega univoca,<BR>che agiscono sotto il continuo controllo dei mandanti<BR>[.]. È ai distretti, ai cittadini riuniti in assemblee<BR>generali di distretto, che appartiene il diritto ultimo di<BR>legiferare e di amministrare nella Comune».<BR>Appare così evidente che i princìpi dell'anarchismo,<BR>espressi qualche anno dopo in Inghilterra da William<BR>56<BR>Godwin, datano già dal 1789, e che essi hanno avuto<BR>origine non in speculazioni teoriche ma nei fatti della<BR>Grande Rivoluzione. [...]<BR>Una nuova Francia è nata da questi quattro anni di<BR>rivoluzione. Per la prima volta dopo secoli il contadino<BR>mangia a sazietà. Raddrizza la schiena! Osa parlare!<BR>Bisogna leggere i rapporti particolareggiati sul ritorno<BR>di Luigi XVI a Parigi, quando viene riportato prigioniero<BR>da Varennes, nel giugno del 1791, dai contadini, e chiedersi:<BR>«Una cosa simile, un tale interesse per la cosa<BR>pubblica, una tale devozione, e una totale indipendenza<BR>di giudizio e di azione, potevano essere possibili prima<BR>del 1789?». Stava nascendo una nuova nazione, proprio<BR>come oggi vediamo nascere una nuova nazione in Russia<BR>e in Turchia.<BR>Ed è grazie a questa rinascita che la Francia sarà in<BR>grado di reggere tutte le guerre della Repubblica e di<BR>Napoleone, e di portare i princìpi della Grande Rivoluzione<BR>in Svizzera, Italia, Spagna, Belgio, Olanda e Germania<BR>sino ai confini della Russia. E quando, dopo tutte<BR>quelle guerre, dopo aver visto le armate francesi arrivare<BR>sino in Egitto e a Mosca, ci aspetteremmo di trovare<BR>la Francia del 1815 impoverita, devastata, ridotta alla<BR>miseria, troviamo invece che le campagne - persino<BR>quelle dell'Est e del Giura - sono molto più prospere di<BR>quello che erano ai tempi in cui Pétion, mostrando a<BR>Luigi XVI le rive lussureggianti della Marna, gli chiese<BR>se ci fosse in nessun'altra parte del mondo un regno più<BR>bello di quello.<BR>L'energia interiore accumulatasi nei villaggi è tale<BR>che in pochi anni la Francia diventerà un Paese di contadini<BR>benestanti, e ben presto si scoprirà che nonostante<BR>tutto il sangue versato e le perdite subite, la<BR>Francia, in termini di produttività, è il Paese più ricco<BR>d'Europa. E la sua ricchezza non la ricava dalle Indie o<BR>dal suo commercio con Paesi lontani, ma viene dal suo<BR>suolo, dal suo amore per la terra, dalla sua abilità e<BR>57<BR>industriosità. È il Paese più ricco grazie alla redistribuzione<BR>della sua ricchezza, ed è ancora più ricco grazie<BR>alle possibilità che offre per il futuro.<BR>È stato questo l'effetto della rivoluzione. E se uno<BR>sguardo distratto non vede nella Francia di Napoleone<BR>che l'amore per la gloria, lo storico si rende conto che<BR>persino le guerre condotte dalla Francia in quel periodo<BR>sono state intraprese per assicurare i frutti della rivoluzione,<BR>ovvero le terre riprese ai signori, ai preti e ai possidenti,<BR>e le libertà sottratte al dispotismo e alla monarchia.<BR>Se la Francia è disposta in quegli anni a dissanguarsi<BR>a morte soltanto per impedire a tedeschi, inglesi<BR>e russi di imporre un Luigi XVIII, ciò è avvenuto perché<BR>non vuole che il ritorno dei nobili emigrati possa significare<BR>che i ci-devants, «quelli di prima», si riprendano le<BR>terre bagnate dal sudore dei contadini e le libertà<BR>bagnate dal sangue dei patrioti. E la Francia combatte<BR>così bene per ventitré anni che, quando alla fine è<BR>costretta a riammettere i Borboni, riesce a imporgli le<BR>proprie condizioni: che i Borboni regnino pure, ma le<BR>terre dovranno rimanere a coloro che se le sono riprese<BR>dai signori feudali. E lo stesso Terrore bianco dei Borboni<BR>non oserà toccarle. Il vecchio regime non sarà più<BR>restaurato.<BR>Questo è ciò che si conquista facendo una rivoluzione.<BR>Ma ci sono altre cose che vanno evidenziate. Nella<BR>storia dei popoli arriva un momento in cui s'impone un<BR>mutamento profondo di tutta la vita nazionale. Nel<BR>1789 il dispotismo monarchico e il feudalesimo stanno<BR>morendo: non è più possibile mantenerli, bisogna<BR>rinunciarvi.<BR>A questo punto si aprono due vie: riforma o rivoluzione.<BR>C'è sempre un momento in cui la riforma è ancora<BR>possibile. Ma se non si è approfittato di quel momento,<BR>se si è opposta un'ostinata resistenza alle esigenze del<BR>nuovo modo di vivere, sino al punto di far scorrere il<BR>sangue nelle strade, come il 14 luglio 1789, allora non<BR>58<BR>può esserci che la rivoluzione. E una volta che la rivoluzione<BR>ha inizio, deve necessariamente svilupparsi sino<BR>alle sue estreme conseguenze, cioè sino al punto più<BR>alto che, in sintonia con lo spirito dei tempi, sarà capace<BR>di raggiungere, pur se solo temporaneamente.<BR>Se si rappresenta il lento progredire di un periodo di<BR>evoluzione con una linea tracciata su un grafico, si constaterà<BR>che questa linea gradualmente, anche se lentamente,<BR>si innalza. Ma ecco che sopraggiunge una rivoluzione<BR>e la linea s'impenna facendo un improvviso balzo<BR>verso l'alto. In Inghilterra la linea mostrerebbe<BR>un'impennata al tempo della Repubblica puritana di<BR>Cromwell; in Francia s'impennerebbe al tempo della<BR>Repubblica sans-culotte del 1793. Tuttavia, l'andamento<BR>non può mantenersi a questo livello; tutte le forze<BR>ostili si coalizzano contro e, dopo aver raggiunto questi<BR>picchi, le repubbliche crollano e le linee scendono.<BR>Segue la reazione e, quantomeno in politica, la linea del<BR>progresso precipita. Ma a poco a poco si alza di nuovo e<BR>quando torna la pace - nel 1815 in Francia e nel 1688<BR>in Inghilterra - entrambi i Paesi si trovano a un livello<BR>molto più alto di quello che avevano prima delle loro<BR>rivoluzioni.<BR>Si torna all'evoluzione, e la nostra linea ricomincia a<BR>salire lentamente. Ma questa ascesa parte da un livello<BR>molto più elevato di quello rilevato prima della turbolenza,<BR>e quasi sempre la sua crescita sarà più rapida.<BR>Questa è una legge del progresso umano, ed anche<BR>del progresso individuale. E la storia della Francia<BR>moderna, che passa attraverso la Comune per arrivare<BR>alla Terza Repubblica, conferma proprio questa legge.<BR>L'opera della Rivoluzione francese non si limita solo<BR>a ciò che ha ottenuto e che ha realizzato in Francia, ma<BR>la si ritrova anche nei princìpi che ha tramandato al<BR>secolo successivo, nell'orientamento con cui ha contrassegnato<BR>il futuro.<BR>Una riforma è sempre un compromesso con il passato,<BR>mentre il progresso ottenuto tramite una rivoluzione<BR>è sempre una promessa di progresso futuro. Se la Gran-<BR>59<BR>de Rivoluzione francese riassume in sé un secolo di evoluzione,<BR>sarà poi lei a impostare il programma d'evoluzione<BR>che segnerà il corso del XIX secolo. [.]<BR>I popoli si sforzano di realizzare nelle proprie istituzioni<BR>l'eredità ricevuta dalla precedente rivoluzione.<BR>Tutto ciò che essa non ha potuto mettere in pratica, tutte<BR>le grandi idee messe in circolo durante quel periodo<BR>turbolento ma che la rivoluzione non ha potuto o saputo<BR>applicare, tutti i tentativi di ricostruzione sociologica<BR>nati durante la rivoluzione, tutto questo costituirà il<BR>contenuto dell'evoluzione che seguirà a tale rivoluzione.<BR>A ciò si aggiungeranno le nuove idee cui questa evoluzione<BR>darà vita quando cercherà di mettere in pratica il<BR>programma ereditato dall'ultimo sommovimento. Poi,<BR>una nuova grande rivoluzione avrà luogo in qualche<BR>altra nazione, ed essa fisserà, a sua volta, i punti di<BR>riferimento dell'epoca successiva.<BR>È stato appunto questo il cammino della storia.<BR>Due grandi conquiste, in effetti, hanno caratterizzato<BR>il secolo seguito agli eventi del 1789-1793. Entrambe<BR>hanno avuto la propria origine nella Rivoluzione francese,<BR>che a sua volta portava avanti l'opera della Rivoluzione<BR>inglese, ampliandola e rinvigorendola con tutto<BR>il progresso fatto dopo che la borghesia inglese aveva<BR>tagliato la testa al suo re trasferendone il potere al parlamento.<BR>Queste due grandi conquiste sono l'abolizione<BR>della servitù e l'abolizione dell'assolutismo, conquiste<BR>che hanno conferito all'individuo libertà personali inimmaginabili<BR>per il servo della gleba e per il suddito del<BR>sovrano assoluto, ma che allo stesso tempo hanno portato<BR>anche allo sviluppo della borghesia e del regime<BR>capitalistico.<BR>60<BR>III<BR>Il testo kropotkiniano più importante relativo alle<BR>questioni metodologiche è La scienza moderna e l'anarchia,<BR>uscito per la prima volta a Parigi nel 1913. L'opera<BR>riassume i temi attinenti al rapporto fra anarchismo<BR>e scienza e stabilisce il primato assoluto della conoscenza<BR>e della ragione nel processo di emancipazione umana.<BR>Kropotkin inserisce la tradizione anarchica nell'alveo<BR>dell'Illuminismo, con l'intento di operare una rottura<BR>radicale con la cultura storicistica e, in modo particolare,<BR>con l'hegelismo. Egli vuole portare l'anarchismo<BR>fuori dall'ambito della filosofia idealistica e, in generale,<BR>fuori da ogni ascendenza vitalistica, mistica, irrazionale.<BR>La critica alla dialettica hegeliana e marxista è, a<BR>questo proposito, emblematica.<BR>L'anarchismo, per non imboccare la strada inconcludente<BR>della mistificazione del reale, deve rimanere saldamente<BR>agganciato alla grande cultura razionalistica<BR>nata con l'Illuminismo. Specificamente, l'identificazione<BR>è fra il metodo anarchico e quello induttivo delle scienze<BR>naturali. Lo scopo è quello di evidenziare, nell'accostamento<BR>metodologico, la sostanziale analogia fra natura<BR>e anarchia. In questo modo lo sperimentalismo scientifico<BR>per il suo carattere di «apertura», di «modificabilità»,<BR>per il suo costituzionale antidogmatismo svolge, in un<BR>61<BR>certo senso, una funzione analoga a quella svolta dal<BR>pluralismo all'interno del procedimento proprio dell'anarchismo.<BR>L'analogia fra sperimentalismo e pluralismo<BR>è data dalla comune natura di essere entrambi un<BR>metodo regolativo più che costitutivo rispetto al problema<BR>di una costruzione sociale e di un pari sviluppo<BR>scientifico.<BR>Kropotkin però non si limita ad una identificazione<BR>attinente all'ambito metodologico, ma amplia tale identificazione<BR>al campo più vasto dell'idea anarchica e del<BR>concetto di natura, fondendo così scienza e anarchia in<BR>una Weltanschauung di forte significato generalizzante.<BR>A questo proposito Kropotkin fa coincidere il metodo<BR>scientifico con la metodologia anarchica fondata sulla<BR>coerenza logica ed etica fra mezzi e fini. L'adeguamento<BR>dei mezzi ai fini vuol significare che la scienza deve<BR>essere completamente al servizio di una volontà, di<BR>un'idea. Se si considera come in questa metodologia si<BR>evidenzia la dimensione più rivoluzionaria dell'anarchismo,<BR>è possibile a questo punto vedere il senso di tale<BR>coniugazione e dunque il tentativo di superare la stessa<BR>concezione meramente deterministica dell'identificazione<BR>fra scienza e anarchia. Il rapporto della necessaria<BR>coerenza tra metodo e scopo ci dice infatti che i fini non<BR>possono essere raggiunti che attraverso l'adeguamento<BR>dei mezzi alla natura dei fini stessi. Ciò comporta un<BR>intervento volontario e cosciente della mano rivoluzionaria<BR>nella modificazione continua della prassi, un intervento<BR>che non fa altro che rimandare ad una considerazione<BR>fondamentale: e cioè che gli scopi - anche se estrapolati<BR>da tendenze latenti del presente - devono essere<BR>collocati volontariamente a dispetto di ogni contingenza.<BR>Sono, in altri termini, immessi coscientemente nel processo<BR>storico come obiettivi determinati.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>di Ginevra del 1913 de La scienza moderna e<BR>l'anarchia.<BR>62<BR>QUESTIONI DI METODO<BR>Benché l'anarchia, in ciò simile a tutte le correnti<BR>rivoluzionarie, sia nata in seno al popolo, nel tumulto<BR>della lotta e non nello studio di un pensatore, è però<BR>utile capire dove si colloca fra le diverse correnti del<BR>pensiero scientifico e filosofico contemporaneo. Come si<BR>pone di fronte a queste diverse correnti? A quale fa riferimento<BR>di preferenza? Quale metodo di ricerca adopera<BR>per avallare le sue conclusioni? In altre parole, a quale<BR>scuola di filosofia del diritto appartiene l'anarchia? Con<BR>quale corrente della scienza moderna presenta le maggiori<BR>affinità?<BR>Di fronte all'entusiasmo per la metafisica economica<BR>che abbiamo visto recentemente nei circoli socialisti,<BR>questa questione è di qualche interesse. Cercherò, quindi,<BR>di rispondervi brevemente e nel modo più semplice<BR>63<BR>possibile, evitando i termini difficili ogni volta che si<BR>possono evitare.<BR>Il movimento intellettuale del XIX secolo ha le sue<BR>origini nell'opera dei filosofi inglesi e francesi elaborata<BR>tra la metà e la fine del secolo precedente. Il risveglio<BR>del pensiero determinatosi in quell'epoca ispirò a questi<BR>pensatori il desiderio di raccogliere tutte le umane conoscenze<BR>in un sistema generale: il sistema della natura.<BR>Rifiutando interamente la scolastica e la metafisica<BR>medievale, ebbero il coraggio di posare il loro sguardo<BR>su tutta la natura - il mondo delle stelle, il nostro sistema<BR>solare, la Terra e lo sviluppo delle piante, degli animali<BR>e delle società umane sulla sua superficie - come<BR>su una serie di fatti che possono essere studiati allo<BR>stesso modo in cui si studiano tutte le scienze naturali.<BR>Avvalendosi ampiamente del vero metodo scientifico<BR>- il metodo induttivo-deduttivo - quei pensatori intrapresero<BR>l'esame di tutto ciò che la natura ci offre, tanto<BR>del mondo stellare o animale quanto di quello delle credenze<BR>e delle istituzioni umane, in modo del tutto eguale<BR>a quello che avrebbe adoperato un naturalista per<BR>studiare problemi di fisica.<BR>Essi annotavano dapprima con pazienza i fatti e<BR>quando, in seguito, si mettevano a trarne delle generalizzazioni,<BR>lo facevano per via induttiva. Avanzavano,<BR>naturalmente, talune ipotesi, ma a queste ipotesi non<BR>attribuivano maggiore importanza di quella che Darwin<BR>aveva attribuito alla sua ipotesi sull'origine delle<BR>nuove specie nella lotta per l'esistenza, o che Mendeleeff<BR>aveva attribuito alla sua ipotesi sulla tavola periodica<BR>degli elementi. Essi non vi vedevano che delle supposizioni,<BR>le quali offrivano una spiegazione provvisoria<BR>facilitando l'aggregazione dei fatti e il loro esame, ma<BR>non dimenticavano affatto che tali supposizioni dovevano<BR>essere confermate dalla compatibilità con una moltitudine<BR>di altri fatti e che andavano spiegate anche per<BR>via deduttiva. Queste non potevano diventare «leggi»<BR>(cioè generalizzazioni provate) se non dopo essere stata<BR>sottoposte a tale verifica e solo dopo che le cause dei<BR>64<BR>rapporti costanti da loro espressi fossero state spiegate.<BR>Quando il centro del movimento filosofico del XVIII<BR>secolo passò dalla Scozia e dall'Inghilterra alla Francia,<BR>i filosofi francesi, con la propensione per la sistematicità<BR>che è loro propria, si misero a ricostruire su un piano<BR>generale e secondo gli stessi princìpi, tutte le conoscenze<BR>umane, naturali e storiche. Quello che tentarono<BR>fu di fondare il sapere generale - la filosofia dell'universo<BR>e della sua vita - con un metodo strettamente scientifico,<BR>respingendo quindi tutte le costruzioni metafisiche<BR>dei filosofi precedenti e spiegando tutti i fenomeni<BR>con l'azione di quelle forze fisiche (vale a dire meccaniche)<BR>che avevano ritenuto sufficienti a spiegare l'origine<BR>e l'evoluzione del globo terrestre. [.]<BR>Risulta così evidente che i pensatori del XVIII secolo<BR>non cambiavano di metodo quando nei loro studi passavano<BR>dal mondo delle stelle a quello delle reazioni chimiche,<BR>o dal mondo fisico e chimico a quello della vita<BR>delle piante e degli animali, o a quello delle dinamiche<BR>economiche e politiche della società, o delle forme evolutive<BR>delle religioni, e così via. Il metodo era sempre lo<BR>stesso. A tutte le branche della scienza essi applicavano<BR>sempre il metodo induttivo. E poiché non trovarono<BR>mai, tanto nello studio delle religioni quanto nell'analisi<BR>del senso morale e del pensiero in generale, anche un<BR>solo punto in cui tale metodo si rivelasse insufficiente e<BR>un altro se ne imponesse; poiché non si videro mai<BR>costretti a ricorrere né a concezioni metafisiche (dio,<BR>anima immortale, forza vitale, imperativo categorico<BR>ispirato da un essere superiore, ecc.), né a qualsivoglia<BR>metodo dialettico, essi cercarono di spiegare tutto l'universo<BR>e i suoi fenomeni con il sistema NATURALISTA. [...]<BR>Quale posto occupa dunque l'anarchia nel grande<BR>movimento intellettuale del XIX secolo? La risposta a<BR>questa domanda è venuta delineandosi in base a quan-<BR>65<BR>to abbiamo già detto precedentemente. L'anarchia è<BR>una concezione dell'universo basata su un'interpretazione<BR>meccanica dei fenomeni (meglio sarebbe dire cinetica,<BR>ma è parola meno conosciuta) che abbraccia tutta<BR>la natura, ivi compresa la vita delle società. Il suo<BR>metodo è quello delle scienze naturali, e in base a questo<BR>metodo ogni conclusione scientifica dev'essere verificata.<BR>La sua tendenza è di fondare una filosofia di sintesi,<BR>che includa tutti i fatti della natura, compresa la<BR>vita delle società umane e i loro problemi economici,<BR>politici e morali; senza però cadere negli errori nei quali<BR>incorsero, per le ragioni già indicate, Comte e Spencer.<BR>È dunque evidente che per ciò stesso l'anarchia, di<BR>fronte a tutte le questioni poste dalla vita moderna,<BR>deve necessariamente dare risposte diverse e assumere<BR>atteggiamenti diversi da quelli di tutti gli altri partiti<BR>politici, non eccettuato in buona misura il Partito socialista,<BR>che non si è ancora sbarazzato delle vecchie finzioni<BR>metafisiche.<BR>Indubbiamente, l'elaborazione di una concezione<BR>meccanica complessiva della natura e delle società<BR>umane non è che ai suoi esordi per quanto riguarda gli<BR>aspetti sociologici, che trattano appunto della vita e<BR>dell'evoluzione delle società. Tuttavia, il poco che si è<BR>fatto finora presenta già - talvolta addirittura in modo<BR>inconscio - il carattere che abbiamo indicato. Nella filosofia<BR>del diritto, nella teoria della morale, nell'economia<BR>politica e nello studio della storia dei popoli e delle istituzioni,<BR>gli anarchici hanno già dimostrato di non<BR>accontentarsi di soluzioni metafisiche, ma di voler dare<BR>alle loro conclusioni un fondamento naturalista. Essi<BR>non si lasciano suggestionare dalla metafisica di Hegel,<BR>di Schelling e di Kant, dai commentatori del diritto<BR>romano e del diritto canonico, dai dotti professori di<BR>diritto dello Stato o dall'economia politica dei metafisici;<BR>piuttosto, cercano di rendersi esattamente conto dei<BR>vari problemi emersi in questi campi, rifacendosi agli<BR>studi con la prospettiva naturalista compiuti negli ultimi<BR>quaranta-cinquanta anni.<BR>66<BR>Proprio come la filosofia materialista (meccanica, o<BR>meglio cinetica) ha abbandonato le concezioni metafisiche<BR>del tipo «Spirito universale», «Forza creatrice della<BR>natura», «Attrazione simpatica della materia», «Incarnazione<BR>dell'Idea», «Finalità della Natura e sua Ragion<BR>d'essere», «Inconoscibile», «Umanità» intesa nel senso di<BR>entità animata dal «Soffio dello Spirito», ecc., mentre<BR>gli embrioni delle generalizzazioni occultate dietro queste<BR>parole sono stati tradotti nel linguaggio concreto dei<BR>fatti, così noi ci sforziamo di fare altrettanto quando ci<BR>mettiamo ad esaminare i fatti della vita in società.<BR>Quando i metafisici vogliono persuadere il naturalista<BR>che la vita intellettuale e passionale dell'uomo si<BR>svolge secondo «le leggi immanenti dello Spirito», il<BR>naturalista scrolla le spalle e continua la sua indagine<BR>paziente dei fenomeni della vita, dell'intelligenza, delle<BR>passioni, al fine di dimostrare che tutti questi possono<BR>essere ridotti a fenomeni fisici e chimici. Egli cerca di<BR>scoprire le loro leggi naturali.<BR>Parimenti, quando si viene a dire ad un anarchico<BR>che secondo Hegel «ogni evoluzione rappresenta una<BR>tesi, un'antitesi e una sintesi», oppure che «il diritto ha<BR>per fine l'instaurazione della giustizia, che rappresenta<BR>la sustanziazione materiale dell'Idea suprema», o ancora<BR>quando gli si chiede qual è secondo lui «lo scopo della<BR>vita», anche l'anarchico scrolla le spalle e si domanda:<BR>«Come mai, nonostante lo sviluppo attuale delle scienze<BR>naturali, si possono trovare ancora uomini tanto arretrati<BR>da credere a simili baggianate? Uomini tanto<BR>retrogradi che parlano ancora la lingua del selvaggio<BR>primitivo, il quale 'antropomorfizzava' la natura, credendola<BR>governata da esseri fatti a somiglianza<BR>dell'uomo?».<BR>Gli anarchici non subiscono il fascino delle «parole<BR>altisonanti» poiché sanno che queste parole servono<BR>sempre a coprire l'ignoranza - cioè l'investigazione<BR>incompiuta - o, il che è peggio, la superstizione. Ecco<BR>perché, quando si parla loro questo linguaggio, passano<BR>oltre, senza fermarsi, portando avanti il loro studio del-<BR>67<BR>le concezioni sociali e delle istituzioni del passato e del<BR>presente in base al metodo naturalista. E così scoprono<BR>che lo sviluppo della vita sociale è infinitamente più<BR>complesso (e ben più interessante dal punto di vista<BR>pratico) di quanto si potrebbe supporlo attenendosi alle<BR>formulazioni precedenti.<BR>Recentemente, si è molto sentito parlare del metodo<BR>dialettico, che i socialdemocratici raccomandano per<BR>elaborare l'ideale socialista. Noi non accettiamo affatto<BR>questo metodo, che del resto non è riconosciuto da nessuna<BR>scienza naturale. Al naturalista moderno questo<BR>«metodo dialettico» ricorda qualcosa di molto vecchio, di<BR>già vissuto e che fortunatamente la scienza ha dimenticato<BR>da un pezzo. Non una delle grandi scoperte del XIX<BR>secolo - in meccanica, astronomia, fisica, chimica, biologia,<BR>psicologia o antropologia - si deve al metodo dialettico.<BR>Tutte invece sono frutto del metodo induttivodeduttivo,<BR>il solo veramente scientifico. E poiché l'uomo<BR>è parte della natura, poiché la sua vita personale e<BR>sociale è anch'essa un fenomeno della natura - alla<BR>stessa stregua della crescita di un fiore o dell'evoluzione<BR>della vita sociale di formiche e api - non vi è alcuna<BR>ragione perché, passando dal fiore all'uomo, da un<BR>gruppo di castori a una città umana, noi si debba<BR>abbandonare il metodo che ci ha servito così bene fino a<BR>questo momento per cercarne un altro nell'arsenale della<BR>metafisica.<BR>Il metodo induttivo-deduttivo che adoperiamo nelle<BR>scienze naturali si è rivelato talmente efficace che, nel<BR>corso del XIX secolo, la scienza ha fatto in cento anni<BR>più progressi che nei due millenni precedenti. E da<BR>quando si è cominciato (nella seconda metà di quel<BR>secolo) ad applicare questo metodo anche allo studio<BR>delle società umana, non ci si è mai minimamente trovati<BR>nella necessità di doverlo rigettare per far ritorno<BR>alla scolastica medievale resuscitata da Hegel. [...]<BR>Aggiungiamo ancora una parola. L'indagine scientifica<BR>non è fruttuosa se non a condizione di avere un<BR>obiettivo determinato, d'essere, cioè, intrapresa con<BR>68<BR>l'intenzione di trovare una risposta a una questione<BR>chiara e ben definita. Qualsiasi ricerca sarà tanto più<BR>fruttuosa quanto meglio verranno identificate le relazioni<BR>esistenti fra la questione posta e le linee fondamentali<BR>della nostra concezione generale dell'universo.<BR>Quanto più una data questione rientra in questa concezione<BR>generale, tanto più facile ne sarà la soluzione.<BR>Orbene, la questione che l'anarchia si propone di<BR>risolvere potrebbe esprimersi come segue: «Quali sono<BR>le forme sociali che in una data società, e per estensione<BR>a tutta l'umanità, possono meglio garantire il massimo<BR>di benessere e, di conseguenza, il massimo di vitalità?<BR>Quali forme sociali favoriscono meglio l'accrescimento<BR>di questo benessere, il suo sviluppo quantitativo e qualitativo<BR>consentendogli così di divenire quanto più completo<BR>e generale possibile (cosa che, sia detto fra parentesi,<BR>ci dà anche la formula del progresso)?». Il desiderio<BR>di aiutare in questo senso l'evoluzione determina le<BR>caratteristiche proprie all'anarchico nella sua attività<BR>sociale, scientifica, artistica, ecc. [.]<BR>Gli anarchici, guidati da diverse considerazioni<BR>d'ordine storico, politico ed economico, come pure dagli<BR>insegnamenti della vita moderna, giungono, come si è<BR>detto, a una concezione della società ben differente da<BR>quella cui si rifanno i vari partiti politici, che mirano<BR>tutti ad arrivare al potere.<BR>Noi ci rappresentiamo una società in cui le relazioni<BR>tra i suoi membri non sono più regolate dalle leggi, eredità<BR>d'un passato d'oppressione e barbarie, o da qualsivoglia<BR>autorità, eletta o al potere per diritto ereditario,<BR>ma da impegni reciproci liberamente presi e sempre<BR>revocabili, come pure da usi e costumi liberamente concordati.<BR>Questi costumi, però, non devono essere pietrificati<BR>e cristallizzati dalla legge o dalla superstizione,<BR>ma è bene che abbiano uno sviluppo continuo, adattandosi<BR>ai nuovi bisogni, ai progressi del sapere e delle<BR>invenzioni, e al crescere d'un ideale sociale sempre più<BR>69<BR>razionale ed elevato.<BR>Quindi, nessuna autorità che imponga agli altri la<BR>propria volontà. Nessun governo dell'uomo sull'uomo.<BR>Nessuna immobilità nella vita, ma un'evoluzione continua,<BR>alcune volte più rapida, altre volte più lenta, proprio<BR>come nella vita della natura. Piena libertà d'azione<BR>all'individuo per lo sviluppo di tutte le sue capacità<BR>naturali, della sua individualità, di ciò che può avere<BR>d'originale, di personale. In altre parole, nessuna azione<BR>imposta all'individuo sotto minaccia d'una punizione<BR>sociale, qualunque essa sia, o d'una pena soprannaturale,<BR>mistica: la società non chiede nulla all'individuo che<BR>questi non abbia liberamente consentito di fare nel<BR>momento stesso in cui lo fa. E inoltre, uguaglianza completa<BR>di diritti per tutti.<BR>Noi siamo dunque a favore di una società di uguali,<BR>senza alcuna coercizione di sorta, e malgrado quest'assenza<BR>di coercizione non temiamo affatto che gli atti<BR>antisociali di alcuni individui possano assumere in una<BR>società di uguali proporzioni pericolose. Una società di<BR>uomini liberi saprà salvaguardarsi meglio delle nostre<BR>società attuali, che demandano la difesa della moralità<BR>sociale alla polizia, alle spie, alle prigioni (università<BR>del crimine), agli aguzzini, ai carnefici e ai loro complici.<BR>Soprattutto, essa saprà prevenire tali atti.<BR>È evidente che, sino ad oggi, non è mai esistita una<BR>società che abbia praticato questi princìpi. Ma in ogni<BR>tempo l'umanità ha manifestato una tendenza ad una<BR>loro realizzazione. Ogni volta che certi settori della<BR>società riuscivano, per un certo periodo, a rovesciare le<BR>autorità che li opprimevano, o a cancellare le ineguaglianze<BR>esistenti (schiavitù, servaggio, autocrazia,<BR>governo di certe caste o classi); ogni volta che una nuova<BR>luce di libertà e d'uguaglianza si sprigionava nella<BR>società, il popolo, gli oppressi, cercavano di mettere in<BR>pratica, anche solo parzialmente, i princìpi appena<BR>enunciati.<BR>Possiamo dire, quindi, che l'anarchia è uno specifico<BR>ideale di società che differisce in modo essenziale da<BR>70<BR>quanto è stato preconizzato sino ad oggi dalla maggior<BR>parte dei filosofi, degli intellettuali e degli uomini politici,<BR>che hanno tutti avuto la pretesa di governare gli<BR>uomini e di dar loro delle leggi. Non è mai stata l'ideale<BR>dei privilegiati, ma è spesso stata l'ideale più o meno<BR>cosciente delle masse.<BR>Nondimeno, sarebbe falso affermare che questa concezione<BR>della società sia un'utopia dato che nel linguaggio<BR>ordinario si attribuisce a questa parola l'idea di<BR>qualche cosa che non si può realizzare. [...]<BR>Nel nostro caso è ancora più errato parlare d'utopia<BR>in quanto le tendenze da noi identificate hanno già avuto<BR>una parte assai importante nella storia della civiltà,<BR>poiché sono esse che hanno dato origine al diritto consuetudinario,<BR>diritto che ha dominato in Europa dal V<BR>al XVI secolo. Ora queste tendenze si vanno nuovamente<BR>affermando in quelle società che per più di tre secoli<BR>hanno sperimentato lo Stato. È su questa osservazione,<BR>la cui importanza non sfuggirà allo storico della civiltà,<BR>che ci basiamo per considerare l'anarchia come un ideale<BR>possibile, realizzabile. [...]<BR>«Utopisti» sono stati coloro che, guidati solamente<BR>dai loro desideri, non hanno voluto tener conto delle<BR>tendenze nuove che si facevano strada; sono stati coloro<BR>che hanno attribuito troppa stabilità alle cose del passato,<BR>senza chiedersi se non fossero semplicemente il<BR>risultato di certe condizioni storiche temporanee. [...]<BR>Se i monopoli costituiti e consolidati dallo Stato cessassero<BR>d'esistere, lo Stato stesso non avrebbe più<BR>ragion d'essere. E una volta che i rapporti tra gli uomini<BR>non fossero più quelli tra sfruttati e sfruttatori, nuove<BR>forme di aggregazione sorgerebbero. La vita si semplificherebbe<BR>se il meccanismo che permette ai ricchi di<BR>sfruttare il lavoro dei poveri venisse disattivato.<BR>L'idea di comunità indipendenti per aggregazioni in<BR>base al territorio e di ampie federazioni di mestiere per<BR>aggregazioni in base alla funzione sociale - dove le due<BR>71<BR>s'intersecano e cooperano al fine di soddisfare i bisogni<BR>della società - permette agli anarchici di concepire in<BR>modo concreto, reale, la possibile organizzazione di una<BR>società emancipata. Non ci resta che aggiungere le<BR>aggregazioni in base alle affinità personali - aggregazioni<BR>innumerevoli, che possono variare all'infinito,<BR>essere di lunga durata o effimere, costituirsi in base<BR>alle necessità del momento e per gli scopi più disparati<BR>- che già abbiamo visto sorgere nella società attuale al<BR>di fuori dei raggruppamenti politici e professionali.<BR>Questi tre tipi di aggregazione, che s'intrecciano tra<BR>loro in una grande rete, consentirebbero di soddisfare<BR>tutti i bisogni sociali: il consumo, la salute, l'istruzione,<BR>la protezione reciproca dalle aggressioni, il mutuo<BR>appoggio, la difesa del territorio, e anche la soddisfazione<BR>dei bisogni di tipo scientifico, artistico, letterario,<BR>ludico. Un insieme pieno di vita e sempre pronto a<BR>rispondere con nuovi adattamenti ai nuovi bisogni e<BR>alle nuove influenze dell'ambiente sociale e intellettuale.<BR>Se una società di questo tipo si sviluppasse su un territorio<BR>abbastanza vasto e popolato da permettere una<BR>gran varietà di inclinazioni e bisogni, sarebbe subito<BR>evidente che la coercizione di un'autorità, qualunque<BR>essa sia, sarebbe del tutto inutile. Inutile tanto per<BR>mantenere la vita economica della società che per impedire<BR>la maggior parte degli atti antisociali.<BR>In effetti, il più grave impedimento a sviluppare e<BR>mantenere nello stato attuale il senso morale, necessario<BR>alla vita in società, risiede innanzi tutto nell'assenza<BR>dell'uguaglianza. Senza uguaglianza - «senza uguaglianza<BR>di fatto», come si diceva nel 1793 - è assolutamente<BR>impossibile che il sentimento di giustizia si generalizzi.<BR>La giustizia non può che essere egualitaria,<BR>mentre i sentimenti egualitari in questa nostra società<BR>stratificata in classi sono smentiti in ogni istante e in<BR>ogni situazione. È necessario praticare l'uguaglianza<BR>perché i sentimenti di giustizia verso tutti entrino nei<BR>costumi, nelle consuetudini. Ed è appunto quello che<BR>72<BR>accadrà in una società di uguali.<BR>Allora, il bisogno di un'autorità coercitiva, o piuttosto<BR>il desiderio di ricorrere alla coercizione, non si farebbe<BR>più sentire. Si maturerebbe la convinzione che la<BR>libertà dell'individuo non ha bisogno di essere limitata,<BR>come lo è oggi, dal timore di una punizione, legale o<BR>mistica, oppure dall'ubbidienza ad individui ritenuti<BR>superiori o ad entità metafisiche create dalla paura o<BR>dall'ignoranza; cosa che porta nella società attuale alla<BR>servitù intellettuale, alla riduzione dell'iniziativa personale,<BR>al decadimento del senso morale, all'arresto del<BR>progresso.<BR>In un contesto egualitario, l'uomo potrebbe lasciarsi<BR>guidare con fiducia dalla propria ragione, che essendosi<BR>sviluppata in questo stesso ambiente avrebbe necessariamente<BR>l'impronta delle abitudini sociali che gli sono<BR>proprie. E potrebbe dunque proporsi di conseguire il<BR>pieno sviluppo di tutte le sue facoltà, il pieno sviluppo,<BR>cioè, della sua individualità. All'opposto di quell'individualismo<BR>preconizzato ai nostri giorni dalla borghesia<BR>come un mezzo «adatto alle nature superiori» per arrivare<BR>al pieno sviluppo dell'essere umano, che altro non<BR>è se non un inganno. Questo individualismo è anzi<BR>l'ostacolo più sicuro allo sviluppo di individualità forti.<BR>[.]<BR>Quando un economista ci viene a dire: «In un mercato<BR>assolutamente aperto, il valore delle merci si misura<BR>in base alla quantità di lavoro socialmente necessaria<BR>per produrre queste merci» (si veda Ricardo, Proudhon,<BR>Marx e tanti altri), non accettiamo quest'asserzione<BR>come un articolo di fede solo perché è stata enunciata<BR>da tali autorità, oppure perché appare «massimamente<BR>socialista» affermare che il lavoro è la vera misura dei<BR>valori mercantili. È possibile che sia vero, diciamo. Ma<BR>non vi accorgete che, facendo questa affermazione,<BR>ammettete implicitamente che il valore e la quantità<BR>del lavoro necessario sono proporzionali, proprio come<BR>73<BR>la velocità di un corpo che cade è proporzionale ai<BR>secondi di durata della caduta? Viene così affermata<BR>una certa relazione quantitativa fra queste due grandezze.<BR>E allora, avete forse fatto delle misurazioni, delle<BR>osservazioni quantitativamente misurate, che sole<BR>potrebbero confermare una tale asserzione a proposito<BR>delle quantità?<BR>Dire che in generale il valore di scambio aumenta se<BR>la quantità di lavoro necessario è maggiore, è ammissibile.<BR>Ed è da parecchio tempo che Adam Smith si è<BR>espresso in questo senso. Ma concludere che, per conseguenza,<BR>le due quantità sono proporzionali, e che una è<BR>la misura dell'altra, significa commettere un errore<BR>grossolano. Grossolano come affermare, ad esempio,<BR>che la quantità di pioggia che cadrà domani sarà proporzionale<BR>alla quantità di millimetri che il barometro<BR>segnerà al di sotto della media stabilita per il tal luogo<BR>e per la tal stagione. Chi per primo ha notato che esiste<BR>una certa correlazione tra il basso livello del barometro<BR>e la quantità di pioggia che cade, o chi per primo ha<BR>constatato che una pietra caduta da una grande altezza<BR>acquista una velocità superiore a una pietra caduta da<BR>appena un metro, ha fatto delle scoperte scientifiche<BR>(come appunto ha fatto Adam Smith per il valore). Ma<BR>l'uomo che venisse dopo di essi ad affermare che la<BR>quantità di pioggia caduta si misura da quanto il barometro<BR>è sceso al di sotto della media, oppure che lo spazio<BR>percorso da una pietra che cade è proporzionale alla<BR>durata della caduta e si misura secondo questa, ci<BR>direbbe delle bestialità. E proverebbe inoltre che il<BR>metodo di ricerca scientifica gli è assolutamente estraneo<BR>e che il suo lavoro non è scientifico, per quanto zeppo<BR>sia di parole riprese dal gergo della scienza.<BR>Notiamo inoltre che se a mo' di scusa ci si nascondesse<BR>dietro la mancanza di dati precisi per stabilire, grazie<BR>a misurazioni esatte, il valore d'una data merce e la<BR>quantità di lavoro necessaria per produrla, questa scusa<BR>non sarebbe affatto unica. Conosciamo nelle scienze<BR>esatte migliaia di casi simili, di correlazioni nelle quali<BR>74<BR>vediamo nettamente che una data quantità dipende da<BR>un'altra, che una s'accresce quando l'altra pure s'accresce.<BR>Come nel caso, ad esempio, della rapidità di sviluppo<BR>d'una pianta che dipende, fra l'altro, dalla quantità<BR>di calore e di luce che la pianta riceve, o come in quello<BR>del rinculo d'un cannone che aumenta quando aumenta<BR>la quantità di polvere bruciata nella carica.<BR>Tuttavia, quale scienziato degno di questo nome avrà<BR>la ridicola pretesa di affermare - prima d'aver misurato<BR>in quantità i loro rapporti - che, di conseguenza, la<BR>rapidità di crescita d'una pianta e la quantità di luce<BR>ricevuta, oppure il rinculo del cannone e la carica di<BR>polvere bruciata, sono quantità proporzionali; che l'una<BR>aumenta due, tre, dieci volte se l'altra aumenta nella<BR>stessa proporzione, cioè se, in altre parole, si commisurano,<BR>come viene affermato per il valore e il lavoro da<BR>Ricardo in poi?<BR>E ancora, chi mai, dopo aver fatto l'ipotesi, la supposizione,<BR>che un rapporto di tal genere esista fra le due<BR>dette quantità, oserebbe presentare questa ipotesi come<BR>una legge? Non ci sono che economisti o giuristi - uomini<BR>che non hanno alcuna idea di ciò che viene concepito<BR>come «legge» nelle scienze naturali - a fare simili affermazioni.<BR>Generalmente, il rapporto fra due quantità è estremamente<BR>complesso, come è appunto nel caso del valore<BR>e del lavoro; nello specifico, il valore di scambio e la<BR>quantità di lavoro non sono mai proporzionali l'uno<BR>all'altra, l'uno non misura mai l'altra. È ciò che aveva<BR>già fatto notare Adam Smith. Dopo aver detto che il<BR>valore di scambio di ogni oggetto si misura con la quantità<BR>di lavoro necessaria per produrre questo oggetto, si<BR>è visto costretto ad aggiungere (in seguito ad uno studio<BR>dei valori mercantili) che se ciò avveniva nel regime di<BR>scambio primitivo, non era più così nel regime capitalista.<BR>Cosa perfettamente vera. Il regime capitalista del<BR>lavoro obbligato e dello scambio finalizzato al profitto<BR>distrugge questi semplici rapporti e introduce parecchi<BR>nuovi fattori che alterano i rapporti tra lavoro e valore<BR>75<BR>di scambio. Ignorarli vuol dire smettere di fare economia<BR>politica. Vuol dire imbrogliare le idee e impedire lo<BR>sviluppo della scienza economica.<BR>L'osservazione appena fatta per il valore s'applica a<BR>quasi tutte le affermazioni economiche che oggi circolano<BR>come verità stabilite (specialmente tra i socialisti<BR>che amano definirsi scientifici) e che vengono presentate,<BR>con impagabile ingenuità, come leggi naturali. Non<BR>solamente la maggior parte di queste pretese leggi sono<BR>del tutto erronee, ma siamo pure convinti che coloro che<BR>ci credono se ne accorgerebbero subito da sé se solo<BR>arrivassero a comprendere la necessità di verificare le<BR>loro affermazioni quantitative con delle ricerche altrettanto<BR>quantitative.<BR>Del resto, tutta l'economia politica si presenta a noi<BR>anarchici sotto un aspetto differente da quello attribuitole<BR>dagli economisti, siano essi borghesi o socialdemocratici.<BR>Essendo il metodo scientifico induttivo assolutamente<BR>estraneo a entrambi, non si rendono affatto conto<BR>di cosa sia una «legge naturale», malgrado la predilezione<BR>che hanno per questa espressione. Essi non<BR>s'accorgono che ogni legge di natura ha un carattere<BR>condizionale, che si esprime sempre così: «Se nella<BR>natura si presentano queste condizioni, il risultato sarà<BR>questo o quest'altro. Se una linea retta interseca<BR>un'altra linea retta, in modo da formare degli angoli<BR>uguali dalle due parti del punto d'intersezione, le conseguenze<BR>saranno le seguenti. Se i movimenti che esistono<BR>nello spazio interplanetario agiscono in modo<BR>esclusivo sopra due corpi, e se dunque non si incontrano<BR>altri corpi agenti su questi due a una distanza che<BR>non sia infinita, allora i centri di gravità dei due corpi<BR>si avvicinano a quella data velocità (legge della gravitazione<BR>universale)». E così di seguito, ma sempre con il<BR>suo se, sempre con una condizione.<BR>Di conseguenza, tutte le pretese leggi e teorie<BR>dell'economia politica non sono in realtà che affermazioni<BR>che rispondono a quanto segue: «Ammettendo che<BR>si trovi sempre in un dato Paese una quantità conside-<BR>76<BR>revole di persone che non possono vivere né un mese e<BR>neppure quindici giorni senza accettare le condizioni di<BR>lavoro che vorrà loro imporre lo Stato (sotto forma di<BR>imposte), o che saranno loro offerte da quelli che lo Stato<BR>riconosce come proprietari del suolo, delle officine,<BR>delle ferrovie, ecc., ecco le conseguenze che ne risulteranno.<BR>».<BR>Fino ad oggi, l'economia politica non è stata altro che<BR>una enumerazione di ciò che succede in simili condizioni:<BR>senza però enumerare e analizzare le condizioni<BR>stesse, senza esaminare come queste condizioni agiscano<BR>in ogni caso particolare, né ciò che le mantiene. E se<BR>anche capita che queste condizioni vengano ricordate in<BR>un certo frangente, un momento dopo sono già dimenticate.<BR>Ma gli economisti non si limitano solo a simili<BR>dimenticanze, bensì rappresentano i fatti che si producono<BR>in seguito a queste condizioni come leggi fatali e<BR>immutabili.<BR>Quanto all'economia politica socialista, è vero che<BR>essa critica alcune di queste conclusioni, oppure ne<BR>spiega altre in modo diverso, ma ugualmente commette<BR>la stessa dimenticanza e, ad ogni modo, non si è ancora<BR>tracciata un proprio cammino, rimanendo su quello vecchio.<BR>Il massimo che ha fatto (con Marx) è stato di<BR>riprendere le definizioni dell'economia politica metafisica<BR>e borghese per dire: «Vedete bene che, anche accettando<BR>le vostre definizioni, si arriva a provare che il<BR>capitalista sfrutta l'operaio», cosa che suonerà forse<BR>bene in una polemica, ma che non ha nulla a che vedere<BR>con la scienza.<BR>In generale, riteniamo che la scienza dell'economia<BR>politica vada costituita in modo diverso: deve essere<BR>trattata come una scienza naturale e proporsi una nuova<BR>meta; deve occupare in rapporto alle società umane<BR>un posto simile a quello che la fisiologia occupa in rapporto<BR>alle piante e agli animali: deve diventare insomma<BR>una fisiologia della società. Il suo scopo deve essere<BR>lo studio dei bisogni sempre crescenti della società e dei<BR>diversi mezzi impiegati per soddisfarli; deve analizzare<BR>77<BR>questi mezzi per vedere fino a che punto sono stati una<BR>volta e sono oggi appropriati allo scopo; e in ultimo -<BR>poiché lo scopo finale di ogni scienza è la previsione e<BR>l'applicazione alla vita pratica (ed è un bel pezzo che<BR>Bacone l'ha affermato) - essa dovrà studiare i mezzi<BR>per meglio soddisfare la somma dei bisogni moderni e<BR>ottenere con la minore spesa d'energia (con economia) i<BR>migliori risultati per l'umanità in generale.<BR>Si capisce, così, perché noi si arrivi a conclusioni tanto<BR>differenti, sotto molti aspetti, da quelle cui giunge la<BR>maggior parte degli economisti borghesi o socialdemocratici;<BR>perché non riconosciamo il titolo di «leggi» a certe<BR>correlazioni da loro indicate; perché la nostra «esposizione<BR>» del socialismo differisce dalla loro; perché<BR>deduciamo, dallo studio delle tendenze e delle direzioni<BR>di sviluppo attualmente osservabili nella vita economica,<BR>conclusioni del tutto differenti dalle loro per quanto<BR>concerne il desiderabile e il possibile; o in altri termini,<BR>perché noi arriviamo al comunismo libertario, mentre<BR>essi giungono al capitalismo di Stato e al salariato collettivista.<BR>Siamo forse noi nel torto ed essi nel vero? Può darsi.<BR>Ma per verificare chi di noi ha torto o ragione non serve<BR>fare dei commentari bizantini su ciò che questo o quello<BR>scrittore ha detto o voluto dire, né parlarci della trilogia<BR>di Hegel, né soprattutto continuare a far uso del metodo<BR>dialettico.<BR>Per verificarlo non si può che mettersi a studiare i<BR>rapporti economici allo stesso modo in cui si studiano i<BR>fatti delle scienze naturali.<BR>78<BR>IV<BR>L'opera più importante di Kropotkin, Il mutuo appoggio,<BR>è stata pubblicata per la prima volta a Londra nel<BR>1902 e costituisce l'approdo di una lunga ricerca iniziata<BR>una quindicina d'anni prima. La ricerca kropotkiniana<BR>vuole dimostrare l'inconsistenza scientifica di quella<BR>linea culturale del bellum omnium contra omnes che va<BR>da Hobbes a Huxley, secondo cui la legge della vita si<BR>compendia nella lotta tra le specie e tra gli individui<BR>all'interno della stessa specie; linea che porta a riconoscere<BR>l'ineluttabilità dell'affermarsi dei più forti. La<BR>valenza politica di questa credenza «universale», che alla<BR>fine del XIX secolo è riformulata sotto il nome di «darwinismo<BR>sociale», si rintraccia nella giustificazione ideologica<BR>al capitalismo più sfrenato e dunque la sua importanza<BR>supera di gran lunga la cifra specificamente scientifica<BR>della stessa teoria. È evidente che Kropotkin considera<BR>centrale demistificare questa concezione conflittualistica<BR>del mondo: qualora infatti risultasse che essa<BR>risponde a verità, sarebbe allora impossibile pensare ad<BR>una società anarchica che, al contrario, pone l'armonia,<BR>l'uguaglianza e l'amore tra gli esseri umani quali premesse<BR>indispensabili per il suo stesso costituirsi.<BR>Situandosi all'opposto dell'assunto darwiniano, o<BR>meglio della sua vulgata, Kropotkin nega che il conflitto<BR>79<BR>tra gli individui all'interno della stessa specie costituisca<BR>la condizione generale dell'evoluzione, anche se<BR>ammette l'esistenza del conflitto tra le specie. Kropotkin<BR>vede una correlazione strettissima tra la pratica del<BR>mutuo appoggio e la tendenza associativa, nel senso che<BR>queste forme sono aspetti di un'unica realtà: quella della<BR>vita in generale. La vita animale è di per se stessa<BR>eminentemente sociale. L'associazione è la regola, la legge<BR>della natura, perché si riscontra in tutti i gradi<BR>dell'evoluzione.<BR>Il «mutuo appoggio», come potente forza evolutiva,<BR>opera oltretutto anche a livello interspecifico come «simbiosi<BR>» (e, come simbiosi, è stata recentemente ipotizzata<BR>addirittura la formazione di organuli intracellulari,<BR>come i mitocondri!).<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione<BR>(rivista) di Camillo Berneri.<BR>80<BR>L'AIUTO RECIPROCO IN NATURA<BR>Il concetto di lotta per l'esistenza come fattore<BR>dell'evoluzione, introdotto nella scienza da Darwin e da<BR>Wallace, ci ha messi in grado di includere un vasto<BR>insieme di fenomeni in un'unica generalizzazione, che è<BR>ben presto divenuta la base stessa delle nostre speculazioni<BR>filosofiche, biologiche e sociologiche. Un'immensa<BR>varietà di fatti - adattamento della funzione e della<BR>struttura degli organismi viventi al proprio ambiente;<BR>evoluzione fisiologica e anatomica; progresso intellettivo<BR>e sviluppo morale - che venivano spiegati un tempo<BR>con tante cause diverse, sono stati riuniti da Darwin in<BR>un'unica concezione generale. Egli vi ha identificato<BR>uno sforzo continuo, una lotta contro le circostanze<BR>avverse, per lo sviluppo degli individui, delle razze, delle<BR>specie e delle società, teso al massimo della pienezza,<BR>81<BR>della varietà e dell'intensità di vita. Può anche darsi<BR>che, da principio, lo stesso Darwin non si sia reso perfettamente<BR>conto dell'importanza ben più generale del<BR>fattore da lui primariamente individuato solo per spiegare<BR>una serie di fatti relativi all'accumularsi di variazioni<BR>individuali nelle specie nascenti. Ma egli stesso<BR>aveva previsto che il termine che stava introducendo<BR>nella scienza avrebbe perso il suo significato filosofico, e<BR>più vero, se fosse stato impiegato esclusivamente nel<BR>senso più ristretto: quello di una lotta fra singoli individui<BR>per i puri mezzi di sopravvivenza. Già nei primi<BR>capitoli della sua memorabile opera insisteva perché il<BR>termine fosse preso nel suo «senso largo e metaforico,<BR>che comprende l'interdipendenza degli esseri viventi e<BR>che comprende inoltre (cosa ancor più importante) non<BR>soltanto la vita dell'individuo ma anche il successo della<BR>sua discendenza» (L'origine delle specie, cap. III). [...]<BR>La teoria di Darwin ha avuto la sorte di tutte le teorie<BR>che trattano dei rapporti umani. Invece di svilupparla<BR>secondo gli indirizzi che le erano propri, i suoi<BR>continuatori l'hanno sempre più ridotta. E mentre Herbert<BR>Spencer, partendo da osservazioni indipendenti<BR>ma analoghe, ha tentato di allargare la discussione<BR>ponendo il grande quesito su chi sono i più adatti (in<BR>modo particolare nell'appendice alla terza edizione di<BR>Princìpi di etica), gli innumerevoli seguaci di Darwin<BR>hanno ridotto la nozione di lotta per l'esistenza al suo<BR>più angusto significato. Essi sono arrivati a concepire il<BR>mondo animale come un mondo di lotta perpetua fra<BR>individui affamati, assetati di sangue, facendo risuonare<BR>la letteratura contemporanea del grido di guerra<BR>«Guai ai vinti», come se fosse questa l'ultima parola della<BR>moderna biologia. E per interessi personali hanno<BR>elevato questa lotta «spietata» all'altezza di principio<BR>biologico, al quale anche l'uomo deve sottomettersi, sotto<BR>pena di soccombere in un mondo fondato sul reciproco<BR>sterminio. Lasciando da parte gli economisti, che di<BR>scienze naturali non sanno che qualche parola presa a<BR>prestito dai divulgatori di seconda mano, bisogna rico-<BR>82<BR>noscere che anche i più autorevoli interpreti di Darwin<BR>hanno fatto del loro meglio per consolidare queste false<BR>idee. [...]<BR>[Viceversa] quando studiamo gli animali, non soltanto<BR>nei laboratori e nei musei ma anche nelle foreste e<BR>nelle praterie, nelle steppe e sulle montagne, ci accorgiamo<BR>subito che, benché in natura siano fortemente<BR>presenti la guerra e lo sterminio fra specie diverse, e<BR>soprattutto fra differenti classi di animali, vi si ritrova<BR>al contempo altrettanto se non più mutuo appoggio,<BR>mutua assistenza e mutua difesa tra gli animali appartenenti<BR>alla stessa specie, o almeno allo stesso gruppo<BR>sociale. La socialità è una legge della natura tanto<BR>quanto la lotta reciproca. È senza dubbio molto difficile<BR>valutare, anche approssimativamente, l'importanza<BR>percentuale di queste due serie di fatti. Ma se ricorriamo<BR>a una testimonianza indiretta e domandiamo alla<BR>natura: «Quali sono i più adatti: coloro che sono continuamente<BR>in lotta tra loro, o coloro che si aiutano l'un<BR>l'altro?», vediamo che i più adatti sono, senza dubbio,<BR>gli animali che hanno acquisito abitudini di solidarietà.<BR>Essi hanno maggiori probabilità di sopravvivere e raggiungono,<BR>nelle loro rispettive classi, il più alto sviluppo<BR>delle capacità intellettive e fisiche. Se gli innumerevoli<BR>fatti che possono esser citati a sostegno di questa tesi<BR>vengono presi in considerazione, possiamo affermare<BR>con certezza che il mutuo appoggio è una legge della<BR>vita animale tanto quanto la lotta reciproca, ma che,<BR>come fattore dell'evoluzione, il primo ha probabilmente<BR>un'importanza decisamente maggiore in quanto favorisce<BR>lo sviluppo delle abitudini e dei caratteri più adatti<BR>ad assicurare la preservazione e lo sviluppo della specie,<BR>oltre a procurare con una minor perdita di energia<BR>una maggior quantità di benessere e di felicità per ciascun<BR>individuo. [.]<BR>83<BR>Quando si comincia a studiare la lotta per l'esistenza<BR>sotto i suoi due aspetti, quello proprio e quello metaforico,<BR>ciò che colpisce subito è l'abbondanza di dati sul<BR>mutuo appoggio, e non soltanto per quanto riguarda<BR>l'allevamento della prole, come riconosce la maggior<BR>parte degli evoluzionisti, ma anche la sicurezza<BR>dell'individuo e il procacciamento del cibo necessario. In<BR>molte categorie del regno animale l'aiuto reciproco è la<BR>regola. Si va scoprendo il mutuo appoggio anche fra gli<BR>animali più in basso nella scala evolutiva, ed è lecito<BR>aspettarsi che, prima o poi, i ricercatori che studiano al<BR>microscopio la vita elementare individuino forme di<BR>mutuo appoggio incosciente anche fra i microrganismi.<BR>Vero è che la nostra conoscenza degli invertebrati, a<BR>eccezione delle termiti, delle formiche e delle api, è<BR>estremamente limitata; e tuttavia, anche in ciò che concerne<BR>gli animali inferiori possiamo raccogliere alcuni<BR>dati, opportunamente verificati, di cooperazione. Le<BR>innumerevoli società di cavallette, farfalle, cicindelidi,<BR>cicale, ecc., sono in realtà pochissimo conosciute, ma il<BR>fatto stesso della loro esistenza indica che esse devono<BR>essere organizzate più o meno secondo gli stessi princìpi<BR>delle società temporanee di formiche e api finalizzate<BR>alle migrazioni. Quanto ai coleotteri, abbiamo fenomeni<BR>di mutuo appoggio perfettamente osservabili fra i<BR>necrofori. Questi hanno bisogno di materia organica in<BR>decomposizione per deporvi le uova e per assicurare il<BR>nutrimento delle larve. Ma questa materia organica<BR>non deve decomporsi troppo rapidamente, così hanno<BR>l'abitudine di sotterrare nel suolo i cadaveri di piccoli<BR>animali di ogni specie che incontrano sul proprio cammino.<BR>Di norma vivono isolati, ma quando uno di loro<BR>scopre il cadavere di un topo o di un uccello che gli riuscirebbe<BR>difficile seppellire da solo, chiama quattro, sei<BR>o persino dieci altri necrofori per portare a termine<BR>l'operazione riunendo gli sforzi; se necessario, trasportano<BR>il cadavere in un terreno morbido e ve lo seppelliscono,<BR>dando prova di molto buon senso e senza poi<BR>entrare in conflitto per scegliere colui che avrà il privi-<BR>84<BR>legio di deporre le uova nel corpo sepolto. [...]<BR>Anche da questa breve rassegna possiamo vedere<BR>come la vita in società non costituisca l'eccezione nel<BR>mondo animale: essa è piuttosto la regola, la legge della<BR>natura che raggiunge il suo completo sviluppo nei vertebrati<BR>superiori. Le specie che vivono isolate o in piccole<BR>famiglie sono relativamente poche e il numero dei<BR>loro membri limitato. Sembra anzi molto probabile che,<BR>tranne qualche eccezione, gli uccelli ed i mammiferi che<BR>attualmente non sono gregari, vivessero in società prima<BR>che l'uomo invadesse il globo, intraprendendo una<BR>guerra permanente contro di essi o semplicemente<BR>distruggendo le loro fonti primarie di nutrimento. «Non<BR>ci si associa per morire», è stata l'acuta osservazione di<BR>Espinas; e Houzeau, che ha studiato la fauna di certe<BR>regioni dell'America quando questo Paese non era ancora<BR>stato modificato dall'uomo, ha scritto nel medesimo<BR>senso.<BR>La socialità si riscontra nel mondo animale in tutti i<BR>gradi dell'evoluzione, e secondo la grande idea di Herbert<BR>Spencer, brillantemente sviluppata in Colonie animali<BR>di Périer, nel regno animale essa è all'origine stessa<BR>dell'evoluzione. Ma via via che si sale nella scala evolutiva,<BR>possiamo notare come la socialità divenga sempre<BR>più cosciente: essa perde il suo carattere puramente<BR>fisico, cessa di essere semplicemente istintiva, e diventa<BR>razionale. Nei vertebrati superiori è periodica, ovvero<BR>gli animali vi ricorrono per la soddisfazione di un bisogno<BR>particolare: la continuazione della specie, le migrazioni,<BR>la caccia o la reciproca difesa. Si produce anche<BR>accidentalmente, ad esempio quando alcuni uccelli<BR>s'associano contro un predatore o quando alcuni mammiferi,<BR>sotto la pressione di circostanze eccezionali, si<BR>aggregano per migrare. In quest'ultimo caso è una vera<BR>e propria deroga volontaria ai costumi abituali.<BR>L'aggregazione appare qualche volta a due o più gradi:<BR>la famiglia dapprima, poi il gruppo, ed infine l'associa-<BR>85<BR>zione di gruppi abitualmente sparpagliati, ma che si<BR>riuniscono in caso di necessità, come abbiamo visto<BR>presso i bisonti e presso altri ruminanti. Questa associazione<BR>può prendere anche forme più sofisticate, assicurando<BR>maggiore indipendenza all'individuo senza privarlo<BR>dei vantaggi della vita sociale. Presso quasi tutti i<BR>roditori, l'individuo ha una sua tana particolare nella<BR>quale può ritirarsi quando preferisce restare solo, ma<BR>queste tane sono disposte in villaggi e in città così da<BR>assicurare a tutti gli animali che vi abitano i vantaggi e<BR>le gioie della vita sociale. Infine, presso varie specie<BR>come i topi, le marmotte, le lepri, ecc., la vita sociale è<BR>mantenuta nonostante il carattere litigioso e alcune<BR>tendenze egoistiche del singolo individuo. Tuttavia,<BR>questa associazione non è imposta, come nel caso delle<BR>formiche e delle api, dalla struttura fisiologica degli<BR>individui, ma è coltivata per i benefici che derivano dal<BR>mutuo appoggio o per i piaceri che essa procura. Questo,<BR>naturalmente, si realizza in tutti i gradi possibili e<BR>con la maggiore varietà di caratteri individuali e specifici,<BR>e la varietà stessa degli aspetti che assume la vita<BR>in società è una conseguenza, e per noi una prova in<BR>più, della sua generalità.<BR>Solo recentemente la socialità, vale a dire il bisogno<BR>dell'animale di associarsi con i suoi simili, l'amore della<BR>società per la sua stessa salvaguardia, combinato alla<BR>«gioia di vivere», hanno cominciato a ricevere dagli zoologi<BR>l'attenzione che meritano. [.]<BR>Gli esempi citati ci hanno mostrato come la vita in<BR>società sia l'arma più potente nella lotta per l'esistenza<BR>presa nel senso più ampio del termine, e sarebbe agevole<BR>portare ulteriori prove, ammesso che fosse necessario.<BR>La vita in comune rende gli insetti, gli uccelli e i<BR>mammiferi più deboli capaci di lottare e di proteggersi<BR>contro i più temibili carnivori o contro i rapaci; essa<BR>favorisce la longevità; rende le specie in grado di allevare<BR>la loro prole con un minimo dispendio di energia, e di<BR>86<BR>mantenere altresì un numero sufficiente di membri<BR>anche se la loro natalità è ridottissima; consente agli<BR>animali gregari di migrare in cerca di nuovi habitat.<BR>Dunque, pur ammettendo pienamente che la forza, la<BR>rapidità, la colorazione mimetica, l'astuzia, la resistenza<BR>alla fame e alla sete, ricordati da Darwin e Wallace,<BR>siano qualità che rendono l'individuo o la specie più<BR>adatti in certe circostanze, affermiamo che, in ogni circostanza,<BR>la socialità rappresenta un grande vantaggio<BR>nella lotta per l'esistenza. Le specie che, volontariamente<BR>o no, abbandonano quest'istinto associativo, sono<BR>condannate a regredire. Viceversa, gli animali che<BR>meglio sanno mettersi insieme hanno le maggiori probabilità<BR>di sopravvivenza e di ulteriore evoluzione, e<BR>questo anche se sono inferiori ad altri animali in ciascuna<BR>delle facoltà enumerate da Darwin e Wallace,<BR>con l'eccezione di quella intellettiva. I vertebrati superiori,<BR>e gli uomini in particolare, sono la prova migliore<BR>di quest'asserzione. Quanto alla facoltà intellettiva, se<BR>tutti i darwinisti sono d'accordo con Darwin nel pensare<BR>che è l'arma più possente nella lotta per la vita e il fattore<BR>più potente di ulteriore evoluzione, non potranno<BR>non ammettere altresì che l'intelligenza è una qualità<BR>eminentemente sociale. Il linguaggio, l'imitazione e le<BR>esperienze accumulate sono altrettanti elementi di progresso<BR>intellettuale che mancano all'animale non sociale.<BR>Così, troviamo in cima alle differenti classi di animali<BR>le formiche, i pappagalli e le scimmie, che uniscono<BR>tutte un alto grado di socialità con un alto grado di sviluppo<BR>intellettivo. I più adatti alla vita sono dunque gli<BR>animali più socievoli, e la socialità appare come uno dei<BR>principali fattori dell'evoluzione, sia direttamente, assicurando<BR>il benessere della specie e diminuendo nel contempo<BR>l'inutile dispendio di energia, sia indirettamente,<BR>favorendone lo sviluppo intellettivo.<BR>È inoltre evidente che la vita in società sarebbe assolutamente<BR>impossibile senza un corrispondente incremento<BR>dei sentimenti sociali, e particolarmente di un<BR>certo senso di giustizia collettiva che tende a divenire<BR>87<BR>consuetudinario. Se ciascun individuo commettesse<BR>costantemente abusi a suo personale vantaggio, senza<BR>che gli altri intervenissero in favore di chi ne viene leso,<BR>nessuna vita sociale sarebbe possibile. Sentimenti di<BR>giustizia si sviluppano quindi, più o meno, presso tutti<BR>gli animali che vivono in gruppi. [...]<BR>Se la visione sviluppata nelle pagine precedenti è<BR>valida, il quesito che necessariamente ne deriva è fino a<BR>che punto questi fatti sono congruenti con la teoria della<BR>lotta per l'esistenza così come l'hanno esposta<BR>Darwin, Wallace e i loro discepoli. Cercherò ora di dare<BR>brevemente una risposta a questo quesito. Innanzi tutto<BR>nessun naturalista può dubitare che l'idea di una lotta<BR>per l'esistenza estesa a tutta la natura organica non<BR>sia la più importante generalizzazione dell'ultimo secolo.<BR>La vita è lotta, e in questa lotta il più adatto sopravvive.<BR>Ma davanti a domande come: «Quali sono le armi<BR>più adatte a sostenere questa lotta?», le risposte differiscono<BR>grandemente a seconda dell'importanza data ai<BR>due diversi aspetti di questa lotta, di cui uno è proprio,<BR>la lotta per il nutrimento e la sicurezza dei singoli individui,<BR>mentre l'altro è la lotta che Darwin descriveva<BR>come «metaforica», lotta molto spesso collettiva contro<BR>le circostanze avverse. Nessuno può negare che ci sia,<BR>in seno a ciascuna specie, una certa competizione effettiva<BR>per il nutrimento, quantomeno in certi periodi. Ma<BR>la questione è sapere se la lotta ha le proporzioni sostenute<BR>da Darwin o anche da Wallace, e se questa lotta<BR>ha esercitato nell'evoluzione del regno animale il compito<BR>che le si attribuisce.<BR>L'idea che permea l'opera di Darwin è certamente<BR>quella di una reale competizione all'interno di ogni<BR>gruppo animale per il cibo, la sicurezza individuale e la<BR>riproduzione. Il grande naturalista parla spesso di<BR>regioni così piene di vita animale che non potrebbero<BR>contenerne di più; da questa sovrappopolazione deriva<BR>la necessità della competizione. Ma quando cerchiamo<BR>88<BR>nella sua opera prove concrete di questa lotta, dobbiamo<BR>confessare che non le troviamo sufficientemente<BR>convincenti. Se facciamo riferimento al paragrafo intitolato<BR>La lotta per la vita è più aspra tra gli individui e<BR>le sottoclassi della stessa specie, non vi riscontriamo<BR>quell'abbondanza di prove e di esempi che solitamente<BR>troviamo negli scritti di Darwin. La lotta tra individui<BR>della stessa specie non è confermata, in questo stesso<BR>paragrafo, da alcun esempio: è data per scontata. E la<BR>lotta tra le specie strettamente imparentate non è provata<BR>che da cinque esempi, di cui uno almeno (concernente<BR>due specie di tordi) sembra ora da porsi in dubbio.<BR>Ma quando cerchiamo maggiori particolari per stabilire<BR>fino a che punto il declinare d'una specie sia stato<BR>causato dall'espandersi di un'altra specie, Darwin con<BR>la sua buona fede abituale ci dice: «Possiamo vagamente<BR>intravedere perché la competizione debba essere più<BR>accanita tra specie simili che quasi occupano la stessa<BR>collocazione in natura; ma probabilmente in nessun<BR>caso riusciremo a dire con precisione perché una specie<BR>trionfi su un'altra nella grande battaglia della vita».<BR>Quanto a Wallace, che cita gli stessi fatti sotto un<BR>titolo leggermente modificato, La lotta per la vita tra gli<BR>animali e le piante strettamente imparentati è spesso<BR>delle più aspre, fa la seguente osservazione che dà<BR>tutt'altro aspetto ai fatti sopra citati [i corsivi sono<BR>miei]: «In alcuni casi, si ha senza dubbio una vera guerra<BR>tra le due specie, in cui la più forte uccide la più<BR>debole, ma questo non è in alcun modo necessario, e ci<BR>possono essere casi in cui la specie più debole trionferà<BR>fisicamente per le sue capacità di riproduzione più rapida,<BR>per la sua maggiore resistenza ai mutamenti climatici,<BR>o per la sua superiore abilità nello sfuggire ai<BR>comuni nemici».<BR>In questi casi ciò che viene chiamata competizione<BR>può non essere affatto una vera competizione. Una specie<BR>soccombe non perché sia sterminata o affamata da<BR>un'altra specie, ma perché non s'adatta bene alle nuove<BR>condizioni, mentre l'altra ci si adatta. Di nuovo, l'e-<BR>89<BR>spressione «lotta per la vita» è qui impiegata in senso<BR>metaforico, e non può averne altro. Quanto all'effettiva<BR>competizione tra individui della stessa specie, di cui si<BR>parla in un altro passo relativo ad una mandria in Sud<BR>America durante un periodo di siccità, il valore dell'esempio<BR>è diminuito dal fatto che si tratta di animali<BR>domestici. In condizioni simili, i bisonti migrano allo<BR>scopo d'evitare la lotta. Per quanto dura sia la lotta delle<BR>piante - cosa abbondantemente provata - non possiamo<BR>che ripetere l'osservazione di Wallace, il quale fa<BR>rilevare che «le piante vivono dove possono», mentre gli<BR>animali hanno in larga misura la possibilità di scegliere<BR>il proprio habitat. E allora ci chiediamo di nuovo: fino a<BR>che punto la competizione esiste realmente in ogni specie<BR>animale? Su cosa viene basata questa opinione?<BR>Occorre fare la stessa osservazione anche a proposito<BR>dell'argomento indiretto a favore di un'implacabile competizione<BR>e di una lotta per la vita in seno ad ogni specie,<BR>argomento che si basa sullo «sterminio delle varietà<BR>transitorie» così di frequente ricordato da Darwin. Si sa<BR>che per lungo tempo Darwin si è arrovellato sulla difficoltà<BR>che individuava nell'assenza di una ininterrotta<BR>catena di forme intermedie tra le specie prossime, e che<BR>ha poi identificato la soluzione di questa difficoltà nel<BR>supposto sterminio delle forme intermedie. Tuttavia,<BR>un'attenta lettura dei differenti capitoli nei quali<BR>Darwin e Wallace parlano di tale soggetto, ci porta ben<BR>presto alla conclusione che non bisogna intendere «sterminio<BR>» nel senso letterale della parola; la stessa osservazione<BR>fatta da Darwin sull'espressione «lotta per la<BR>vita» s'applica anche alla parola «sterminio»: non deve<BR>essere presa in senso proprio, bensì «in senso metaforico<BR>
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