Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è popolato da animali al
massimo della sua capacità e che, di conseguenza, si scatena un'aspra
competizione tra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo
quotidiano, allora la comparsa di una nuova varietà
vincente significherebbe in molti casi (benché non sempre)
la 90 comparsa di individui capaci di appropriarsi di una quota
superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza. Il risultato sarebbe
che, affamandole, questi individui trionferebbero prima sulla varietà
primitiva che non possiede le nuove modificazioni e poi sulle
varietà intermedie che non le posseggono al medesimo grado. È possibile
che dapprima Darwin si sia rappresentato in questo modo la comparsa di nuove
varietà, o almeno l'impiego frequente della parola «sterminio» dà
questa impressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppo bene la natura
per non accorgersi che questo processo di cose non è il solo possibile, e
oltretutto non è affatto necessario. Se le condizioni fisiche e biologiche
d'una data regione, l'estensione dell'area occupata da una specie e
le abitudini dei membri di questa specie restassero invariate, la comparsa
subitanea d'una nuova varietà in tali condizioni potrebbe significare
l'annientamento per fame e lo sterminio di tutti gli individui non
sufficientemente dotati delle nuove qualità proprie alla nuova varietà. Ma
un tale concorso di circostanze è precisamente ciò che in natura non si vede.
Ogni specie tende continuamente a estendere il proprio territorio;
le migrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso la lenta
lumaca quanto presso il rapido uccello; le condizioni fisiche si trasformano
incessantemente in ogni regione; e le nuove varietà animali in un
gran numero di casi, se non nella maggioranza, si formano non grazie allo
sviluppo di nuove armi capaci di strappare il nutrimento ai propri simili -
il nutrimento non è che una delle centinaia di condizioni necessarie
alla vita - ma, come lo stesso Wallace mostra in un interessante paragrafo
sulla «divergenza dei caratteri», grazie all'adozione di nuove abitudini,
allo spostamento verso nuovi habitat e all'assunzione di nuovi alimenti. In
questi casi non ci sarà sterminio e neppure competizione, poiché il nuovo
adattamento porta ad attenuare la competizione, ammesso che effettivamente ci
fosse. Tuttavia ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di
forme 91 intermedie, semplicemente per effetto della sopravvivenza dei
meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; e ciò sempre nell'ipotesi dello
sterminio delle forme primitive. È appena necessario aggiungere che se
ammettiamo con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwin stesso,
l'influsso moderatore dell'ambiente sulle specie, diventa ancor meno
necessario ammettere lo sterminio delle forme intermedie.
[.] Fortunatamente la competizione non è la regola né nel mondo animale né
nel genere umano. Negli animali è ristretta a periodi eccezionali, mentre la
selezione naturale trova occasioni decisamente migliori per
operare. Condizioni migliori sono appunto create dalla eliminazione della
competizione per mezzo del reciproco aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande
lotta per la vita - per una vita di massima pienezza e intensità a fronte
di un minimo dispendio di energia - la selezione naturale cerca sempre i
mezzi per evitare la competizione per quanto è possibile. [...] È questa
la tendenza della natura, sempre presente pur se non sempre pienamente
realizzata. È questa la parola d'ordine che ci viene dal cespuglio e dalla
foresta, dal fiume e dall'oceano: «Unitevi! Praticate il mutuo appoggio!
Esso è il mezzo più sicuro per dare a tutti e a ciascuno il massimo di
sicurezza, è la migliore garanzia di esistenza e di progresso fisico,
intellettuale e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che
quegli animali che hanno raggiunto la più elevata posizione nelle loro
rispettive classi mettono in pratica. Ma è pure ciò che l'uomo, anche l'uomo
più primitivo, ha fatto; ed è proprio per questo che l'uomo ha potuto
raggiungere la posizione che occupa attualmente, come vedremo nel capitolo
seguente, consacrato al mutuo appoggio nelle società umane. 92 V Lo
stesso paradigma interpretativo che regge l'idea dell'aiuto intraspecifico
costituisce anche la base teorica del concetto di solidarietà, le cui linee
di fondo sono ricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la
differenza però che qui l'attenzione è rivolta al mondo storico- umano. La
filosofia kropotkiniana della storia è debitrice dell'evoluzionismo in quanto
afferma l'esperienza comune dell'umanità, nel senso che le necessità
della vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso del tempo
gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché uniformi. Secondo
Kropotkin la storia dell'uomo non ha fondazione autonoma, non è creatrice di
proprie forme e di proprie leggi, perché è una variabile della più
grande storia della natura; come questa, a sua volta, non è altro che
l'espressione dinamica della vita intesa nel senso universale del termine. Le
leggi di questa si impongono alle vicende degli uomini e perciò, da questo
punto di vista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza
e disuguaglianza si delinea quale momento di una continua opposizione
trasversale tale da determinare tutti i possibili comportamenti storici. Ne
consegue che nel pensiero kropotkiniano non c'è un concetto di lotta
sociale inteso quale lotta di classe, appunto perché il
conflitto 93 non è precipuo di una specifica situazione
spazio-temporale, ma scaturisce da una contrapposizione universale: il
mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraversano tutta la storia
dell'uomo essendo insiti alle leggi della vita; anzi, sono la vita stessa
intesa sul piano storico- umano. Per mettere in luce la pratica della
solidarietà, egli sceglie l'età medievale e moderna perché, a suo
giudizio, questo periodo mostra con maggior chiarezza lo
spirito comunitario. L'età comunale raffigura, in generale, un modello
societario fondato sull'autonomia e sulla decentralizzazione. Testimonia
un'epoca di libertà e di creatività popolare, di autonoma iniziativa
individuale e di spontanea edificazione collettiva, premesse
fondamentali per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo del
potere da parte del popolo. La linfa vitale della storia, la sua ricorrente
fecondità creativa, si rinviene nelle masse popolari anonime che con le loro
migliaia di atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà
collettiva hanno contribuito alla costruzione societaria, a stratificare
cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata di pratiche, di
consuetudini e di saperi che globalmente costituiscono il work in progress
della perfettibilità umana. La sua tesi si riallaccia comunque, senza
soluzione di continuità, con l'idea proudhoniana dell'autonomia
del sociale rispetto all'eteronomia del politico; vuole
confermare l'esistenza di una spontanea autofondazione della società quale
premessa storica decisiva per concepire la possibilità di una sua
edificazione anarchica. I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall'edizione italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella
traduzione (rivista) di Camillo Berneri. 94 LA SOLIDARIETÀ UMANA Nel
precedente capitolo è stata brevemente analizzata l'immensa parte avuta dal
mutuo appoggio nell'evoluzione del mondo animale. Occorre ora gettare
uno sguardo sulla parte avuta da questo stesso fattore nell'evoluzione del
genere umano. Abbiamo visto come siano rare le specie animali che vivono
isolate e come numerose siano quelle che vivono in società per la
difesa reciproca, per la caccia, per immagazzinare le provviste, per
allevare la prole o semplicemente per godere della vita in comune. Abbiamo
anche visto che sebbene avvengano guerre tra le diverse classi di animali e
le diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa specie, la
concordia e il mutuo appoggio sono la regola all'interno dei gruppi e delle
specie; e abbiamo anche visto che le specie che meglio sanno unirsi ed
evitare la 95 competizione hanno le maggiori probabilità di
sopravvivere e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano, mentre le
specie non sociali deperiscono. Sarebbe dunque del tutto contrario a quello
che sappiamo della natura se gli uomini facessero eccezione a una regola
così generale, e cioè che una creatura disarmata, come fu l'uomo alla sua
origine, avesse trovato sicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come
gli altri animali, ma nella sfrenata competizione per il vantaggio
personale senza riguardo per gli interessi della specie. Per una mente
abituata all'idea di unità in natura, una tale affermazione sembra
assolutamente insostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e
non filosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sono sempre stati
pensatori che hanno giudicato con pessimismo il genere umano. Essi lo
conoscono più o meno superficialmente nei limiti della loro esperienza;
sanno della storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti alle
guerre, alle crudeltà, all'oppressione, e a nient'altro. E ne concludono che
il genere umano non è altro che una fluttuante aggregazione di individui
sempre pronti a battersi l'uno contro l'altro e trattenuti dal farlo solo
grazie all'intervento di una qualche autorità. È stato appunto questo
l'atteggiamento assunto da Hobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII
secolo si sono sforzati di provare che in nessuna epoca della sua
esistenza, neppure nella più primitiva, l'uomo ha vissuto in uno stato di
guerra permanente, ma che è stato sociale anche allo «stato di natura», e che
è stata l'ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze naturali, a
spingere il genere umano agli orrori delle prime epoche storiche, la scuola
di Hobbes ha continuato ad affermare, al contrario, che il preteso «stato di
natura» altro non era se non una guerra permanente tra
individui accidentalmente riuniti dal semplice capriccio della loro
bestiale esistenza. È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes,
ha fatto progressi e che per ragionare su questo soggetto abbiamo ora basi
più sicure di quelle a disposizione di 96 Hobbes e di Rousseau per le loro
speculazioni. Ciononostante, la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi
ammiratori, tanto che ultimamente tutta una scuola di
pensatori, applicando la terminologia di Darwin più che le sue idee
fondamentali, ne ha tratto degli argomenti favorevoli alle opinioni di Hobbes
sull'uomo primitivo, riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica.
Huxley, come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, in un articolo
scritto nel 1888, ha presentato gli uomini primitivi come delle tigri o dei
leoni, privi di qualsiasi concezione etica, capaci di spingere la lotta per
l'esistenza fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita di
«sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue parole, «al di fuori dei
ristretti e temporanei legami familiari, la guerra hobbesiana di tutti contro
tutti era lo stato normale dell'esistenza». Si è fatto notare più d'una
volta che l'errore principale di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo,
è stato di supporre che il genere umano sia cominciato sotto forma di
piccole famiglie isolate, un po' simili alle famiglie «limitate e temporanee»
dei grandi carnivori, mentre ora si sa in modo certo che non è avvenuto così.
Beninteso, non abbiamo testimonianze dirette sul modo di vivere dei primi
esseri umani. Non siamo nemmeno certi dell'epoca della loro prima comparsa,
anche se attualmente i geologi sono inclini a individuarne le prime tracce
nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimenti dell'era terziaria. Ma
abbiamo il metodo indiretto che ci permette di gettare qualche luce su questa
remota antichità. Un'indagine minuziosa delle istituzioni sociali
dei popoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant'anni, ed
essa ha individuato nelle istituzioni attuali tracce di istituzioni molto più
antiche, scomparse da lungo tempo, che tuttavia hanno lasciato
indiscutibili segni della loro esistenza anteriore. Tutta una
scienza consacrata alle origini delle istituzioni umane s'è
così sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan, Morgan, Edwin
Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lub- 97 bock e parecchi altri, stabilendo
con certezza che l'umanità non ha incominciato sotto forma di piccole
famiglie isolate. Lungi dall'essere una forma primitiva di
organizzazione, la famiglia è un prodotto molto tardivo
dell'evoluzione umana. Per quanto indietro ci si possa spingere con la
paleoetnologia, troviamo uomini che vivono in società, in gruppi simili a
quelli dei mammiferi superiori; ed è poi stata necessaria un'evoluzione
estremamente lenta e lunga per condurre questo tipo di
società all'organizzazione clanica, che è passata a sua volta attraverso
un'altra lunghissima evoluzione prima che i germi della famiglia, poligama o
monogama, potessero apparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le
tribù - e non le famiglie - le forme primitive di organizzazione umana
presso gli antenati più remoti. Cosa cui è arrivata l'etnologia dopo
laboriose ricerche, arrivando a dimostrare semplicemente quello che uno
zoologo avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori -
eccetto qualche carnivoro e qualche primate, come gli orangutan e i gorilla,
la cui decadenza è indubitabile - vive in piccole famiglie isolate erranti
nella foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin, peraltro,
avendo ben capito che i primati solitari non avrebbero mai potuto
trasformarsi in esseri umani, ne ha indotto che l'uomo discende da una specie
relativamente debole, ma sociale, quale è quella degli scimpanzé piuttosto
che da una specie più forte, ma non sociale, quale è quella dei gorilla. La
zoologia e la paleoetnologia sono così d'accordo nel ritenere che
il branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita sociale. Le
prime società umane non sono state altro che uno sviluppo ulteriore di quelle
forme associative che avevano costituito l'essenza stessa della vita
presso gli animali superiori. [...] Non si può studiare l'uomo primitivo
senza essere profondamente colpiti dalla socialità della quale dà
pro- 98 va fin dai primi passi della vita. Tracce di società umane sono
state trovate nei reperti dell'età paleolitica e neolitica, e quando studiamo
i selvaggi contemporanei, il cui genere di vita è ancora quello dell'uomo
neolitico, li troviamo strettamente uniti dall'antichissima
organizzazione clanica, che permette loro di mettere insieme le capacità
individuali, altrimenti deboli, di godere della vita in comune e così di
progredire. In natura, l'uomo non è un'eccezione, ma si conforma anche lui
al grande principio del mutuo appoggio, che dà le migliori probabilità di
sopravvivenza a quelli che sanno meglio aiutarsi nella lotta per l'esistenza.
Tali sono le conclusioni alle quali siamo giunti nel precedente
capitolo. Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di civiltà e ci
rivolgiamo alla storia, che ha già qualche cosa da dire su questo periodo,
siamo colpiti dalle lotte e dai conflitti che rivela. Gli antichi legami
sembrano essere interamente spezzati: si vedono clan combattere altri
clan, tribù contro tribù, individui contro individui. Dal caos e dallo
scontro di queste forze ostili, il genere umano esce diviso in caste,
asservito a despoti, separato in Stati sempre pronti a farsi guerra.
Basandosi su questa storia del genere umano, il filosofo
pessimista conclude trionfalmente che la guerra e l'oppressione sono
l'essenza stessa della natura umana, che gli istinti di guerra e di rapina
dell'uomo possono esser contenuti entro certi limiti solo da una forte
autorità che lo costringa alla pace, concedendo a un pugno degli
uomini più nobili l'opportunità di progettare per il genere umano una vita
migliore per il futuro. Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli
esseri umani in periodo storico è stata sottoposta ad una più accurata
analisi, com'è avvenuto recentemente in numerosi e pazienti studi sulle
istituzioni dei tempi remoti, questa vita appare sotto un aspetto del
tutto differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette della maggior
parte degli storici e la loro marcata predilezione per gli aspetti drammatici
della storia, ci rendiamo conto che sono propri i documenti che studiamo
ad 99 esagerare la parte di vita umana votata alle lotte
trascurandone i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiati sono perduti
di vista nelle tormente e negli uragani. Anche nella nostra epoca i
voluminosi documenti che accumuliamo per i futuri storici con la nostra
stampa, i nostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche con i
nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sono gravati della stessa
parzialità. Essi trasmettono alla posterità le più minuziose descrizioni di
ogni guerra, battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogni atto
di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale, mentre riportano a
malapena qualche traccia degli innumerevoli atti di solidarietà e affetto che
ognuno di noi conosce per esperienza personale. Riportano a malapena ciò
che forma l'essenza stessa della nostra vita quotidiana: i nostri istinti e i
nostri costumi sociali. Non c'è da stupirsi se le testimonianze del passato
sono state così inesatte. Coloro che hanno compilato gli annali, infatti,
non hanno mai mancato di raccontare le più piccole guerre o calamità sofferte
dai loro contemporanei senza prestare alcuna attenzione alla vita
delle masse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamente, mentre solo
un piccolo numero di uomini guerreggiavano fra di loro. I poemi epici, le
iscrizioni monumentali, i trattati di pace. quasi tutti i documenti
storici hanno il medesimo carattere: trattano della violazione della pace,
non della pace stessa. Cosicché lo storico, per quanto ben intenzionato, fa
inconsciamente un quadro inesatto dell'epoca che si sforza di illustrare.
Per trovare la proporzione reale tra i conflitti e la
consociazione, occorre ricorrere all'analisi minuziosa di migliaia di
piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservate accidentalmente tra le
reliquie del passato; occorre poi interpretarle con l'aiuto dell'etnologia
comparata e, dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha diviso
gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le istituzioni che li
tenevano uniti. Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una nuova
prospettiva, al fine di tener conto di questi due 100 aspetti della vita
umana e di apprezzare la parte rappresentata da ciascuno dei due
nell'evoluzione. Nell'attesa, possiamo trarre profitto dall'immenso lavoro
preparatorio fatto recentemente con l'intento di ritrovare le linee
principali di quel secondo aspetto fino ad ora così trascurato. Dai tempi
storici meglio conosciuti possiamo già trarre qualche esempio della vita
delle masse, con l'intento di rilevarvi la parte rappresentata dal mutuo
appoggio; e per non estendere troppo il lavoro, possiamo dispensarci dal
risalire fino agli Egizi o anche fino all'antichità greca e romana.
L'evoluzione del genere umano non ha infatti avuto il carattere di una
successione ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in una data
regione, presso un certo popolo, ed è rinata altrove, tra altri popoli. Però,
ad ogni nuovo inizio ricomincia con le stesse istituzioni claniche che
abbiamo già rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamo l'ultima
rinascita, quella degli inizi della nostra attuale civiltà, tra quelli che i
Romani chiamavano i «Barbari», avremo tutta la scala dell'evoluzione,
cominciando dalle gentes e terminando con le istituzioni dei nostri
tempi. Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che seguono.
[.] Nessun periodo della storia può meglio mostrare il potere creatore
delle masse popolari quanto il X e l'XI secolo, allorché i villaggi
fortificati e le loro piazze del mercato, «oasi nella foresta feudale», hanno
cominciato a liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lentamente la
futura organizzazione delle città. Sfortunatamente, è un periodo sul quale le
informazioni storiche sono particolarmente rare: conosciamo i risultati,
ma sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti. Al riparo
delle loro mura, le assemblee popolari delle città - sia completamente
indipendenti, sia rette dalle principali famiglie nobiliari o mercantili -
conquistavano e conservavano il diritto di eleggere il defensor,
il 101 difensore militare della città, e il supremo magistrato,
o quantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano a tale carica. In
Italia i giovani Comuni licenziavano continuamente i loro defensores o
domini, combattendo quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa
cosa accadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme (Bohemicae
gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles) prendevano parte all'elezione;
nelle citta russe le assemblee popolari, le vyeches, eleggevano
regolarmente i loro duchi - tutti regolarmente della famiglia Rurik - e
stipulavano insieme le loro convenzioni, esautorandoli però se ne erano
scontenti. Alla stessa epoca, nella maggior parte delle città dell'Europa
occidentale e meridionale la tendenza era di prendere per defensor un
vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi si sono messi alla testa
della resistenza per proteggere le «immunità» cittadine e difendere le loro
libertà, tanto che, dopo la morte, molti sono stati santificati
divenendo i patroni delle loro città, come san Uthelred di Winchester, san
Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbona, san Heribert di Colonia, san
Adalbert di Praga e così via. Anche molti abati e monaci sono diventati
santi patroni delle città per aver sostenuto i diritti del popolo. Con
questi nuovi defensores - laici o ecclesiastici - i cittadini hanno
conquistato la piena autorità giuridica e amministrativa per le loro
assemblee popolari. [...] Tuttavia, oltre all'idea di comunità rurale,
occorreva un altro elemento capace di dare a questi centri in cerca di
libertà l'unità di pensiero, azione e iniziativa che ha fatto la loro forza
nel XII e XIII secolo. La diversità crescente di arti e mestieri, nonché
l'estensione del commercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare
una nuova forma di aggregazione, il cui elemento necessario sono state le
corporazioni. Si sono scritte molte opere su queste associazioni che sotto il
nome di corporazioni, gilde, fratellanze - o druzhestya, minne, artels in
Rus- 102 sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia, ecc. -
si sono sviluppate in modo considerevole nel Medio evo tanto da rappresentare
una parte sostanziale nell'emancipazione delle città. Ma ci sono voluti
più di sessant'anni perché gli storici riconoscessero l'universalità di
questa istituzione e il suo vero carattere. Solo oggi, dopo che centinaia di
statuti corporativi sono stati pubblicati e studiati e dopo che i loro
rapporti originari con i collegiae romani e le antiche unioni della Grecia
e dell'India sono stati riconosciuti, possiamo parlarne con piena cognizione
di causa e possiamo affermare con certezza che queste fratellanze
rappresentano uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamo visto in
azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...] Così, quando un certo
numero di artigiani - muratori, carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. - si
riunivano per costruire ad esempio una cattedrale, essi
appartenevano tutti a una città con il suo ordinamento politico, e inoltre
ciascuno apparteneva alla propria arte, ma tutti si consociavano altresì per
l'impresa comune, che conoscevano meglio di chiunque, e s'organizzavano
in un corpo, stringendo forti legami, quantunque temporanei, e fondando
una gilda per l'erezione della cattedrale. Anche oggi possiamo riscontrare
questi stessi fatti nel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità
rurale, ma questa associazione non basta per tutti i bisogni politici,
commerciali e personali dell'unione ed essi costituiscono quindi una
fratellanza più stretta nel çof. Quanto ai caratteri sociali delle gilde
medievali, qualsiasi statuto può darne un'idea. Prendiamo ad esempio lo
skraa di qualche primitiva gilda danese: vi leggiamo dapprima un'esposizione
dei sentimenti di fraternità generale che devono regnare nella gilda,
poi vengono le regole relative all'auto-giurisdizione in caso di litigio
tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno; infine vengono enumerati i
doveri sociali dei fratelli. Se la casa di un fratello è distrutta dal fuoco,
o se egli ha perduto il suo bastimento, o ancora se ha sofferto durante un
pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire 103 in suo aiuto. Se un
fratello cade gravemente ammalato, altri due fratelli devono vegliare presso
il suo letto fino a che non sia fuori pericolo; se muore, devono
sotterrarlo - faccenda non da poco in tempi di pestilenze
- accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la sua morte devono
soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno, mentre molto spesso la vedova
diventa una «sorella» della gilda. Questi due caratteri fondamentali
s'incontrano in tutte le fratellanze formate non importa a quale
scopo. Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno, tanto da
chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tutti uguali di fronte alla
gilda. Essi possiedono in comune il cheptel (bestiame, terre, bastimenti,
fondi agricoli). Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare
gli antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di non litigare
nuovamente, devono convenire che nessuna lite deve degenerare in vendetta o
condurre a un processo davanti ad altra corte che non sia il tribunale della
fratellanza. Se uno è implicato in una contesa con qualcuno estraneo alla
gilda, questa lo deve sostenere, sia che abbia torto sia che abbia ragione;
ovvero, tanto nel caso che venga ingiustamente accusato di aggressione
quanto nel caso che sia realmente l'aggressore, i fratelli lo devono
sostenere e condurre le cose a una conclusione pacifica. A meno che non si
tratti di un'aggressione occulta - nel qual caso verrebbe proscritto - la
fratellanza lo difende. Se i parenti dell'uomo leso vogliono vendicarsi
prontamente dell'offesa con una nuova aggressione, la fratellanza gli procura
un cavallo per fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e
un acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano per
proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano di comporre il conflitto.
Inoltre, i fratelli si presentano davanti alla corte di giustizia per
sostenere sotto giuramento la veridicità delle dichiarazioni del loro
fratello, e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano a completa
rovina, né lo fanno diventare schiavo: se egli non può pagare il compenso
dovuto, lo pagano loro, 104 come facevano le gentes nelle epoche
precedenti. Ma se qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli
della gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza «con la fama
di uomo da nulla» (tha scal han maeles af brödrescap met nidings
nafn). Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a poco a poco
si estenderanno a tutti gli aspetti della vita medievale. Infatti, si
conoscono gilde in tutte le professioni immaginabili: gilde di servi, gilde
di uomini liberi e gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate
per uno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o
un'impresa commerciale, e disciolte quando questo scopo specifico viene
raggiunto; gilde che invece per certe professioni o certi mestieri durano
secoli. Via via che le attività si diversificano, il numero delle gilde
cresce. Così, non ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o
contadini uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde di preti, di
pittori, di maestri di scuola primaria e di docenti universitari, gilde per
rappresentare la «passione », per costruire una chiesa, per occuparsi dei
«misteri » di una data scuola o di particolari arti e mestieri, e persino
gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdute », tutte organizzate sotto
il doppio principio dell'autogiurisdizione e del mutuo appoggio. Per la
Russia abbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento è stato tanto
opera dei suoi artels, o associazioni di cacciatori, di pescatori e di
mercanti, quanto del germogliare delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese
è pieno di artels. [...] Un'istituzione così adatta a soddisfare i bisogni
consociativi, senza privare l'individuo della sua iniziativa, non poteva
che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si era presentata quando si era
cercata una forma che permettesse di federare le unioni delle gilde senza
invadere il campo di quelle delle comunità rurali e di federare le une e
le altre in un tutto armonico. Quando questa combinazione venne trovata, e un
insieme di circo- 105 stanze favorevoli permise alle città di affermare la
propria indipendenza, esse lo fecero con un'unità di pensiero che non può
che suscitare la nostra ammirazione, persino nel secolo delle strade ferrate,
dei telegrafi e della stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte» con
le quali le città proclamavano la loro indipendenza e in tutte - nonostante
l'infinita varietà di particolari correlati ad un'emancipazione più o meno
completa - si ritrova la stessa idea dominante: un'organizzazione
cittadina basata sulla federazione di piccole comunità rurali e di gilde.
[...] Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo per tutto il
continente, toccando sia le città più ricche sia i villaggi più poveri. E se
possiamo dire che, in generale, le città italiane furono le prime a
liberarsi, non possiamo identificare alcun centro dal quale il
movimento si sarebbe propagato. Molto spesso un piccolo borgo dell'Europa
centrale prendeva l'iniziativa per la sua regione e i grandi agglomerati
accettavano la carta della piccola città come modello per la loro.
[.] L'auto-giurisdizione era il punto essenziale, e
autogiurisdizione significava auto-amministrazione. Ma il Comune non era
semplicemente una parte «autonoma» dello Stato (queste parole ambigue non
erano ancora state inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva diritti di
guerra e di pace, di federazione e di alleanza con i vicini; era sovrano nei
propri affari e non interferiva con quelli degli altri. Il potere politico
supremo poteva essere rimesso interamente a un foro democratico, come era
il caso a Pskov, la cui assemblea popolare (vyeche) inviava e riceveva
ambasciatori, stipulava trattati, accettava e rifiutava principi, o ne faceva
a meno per decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usurpato, da
un'aristocrazia a volte nobiliare a volte mercantile, come avveniva in
centinaia di città dell'Italia e del centro Europa. Il principio, tuttavia,
rimaneva immutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più
notevole, quando il potere della città veniva usurpato da un'aristocrazia
nobiliare o mercantile, la vita interna 106 della città ne risentiva
marginalmente e il carattere democratico della vita quotidiana non
scompariva: perché l'uno e l'altro dipendevano molto poco da ciò che
si potrebbe chiamare la forma politica dello Stato. Il segreto di questa
apparente anomalia è che una città medievale non era uno Stato accentrato.
Durante i primi secoli della sua esistenza, la città poteva a
malapena essere chiamata uno Stato per quanto riguardava la sua
organizzazione interna, perché il Medio evo non conosceva l'attuale
accentramento delle funzioni né tanto meno l'accentramento territoriale del
nostro tempo. Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...] La città
medievale ci appare così come una doppia federazione: innanzi tutto quella di
tutte le unità domestiche all'interno di territori delimitati - la strada,
la parrocchia, il quartiere - e poi quella degli individui uniti da
giuramento in gilde secondo le loro professioni. Mentre la prima era un
prodotto della comunità rurale, origine della città, la seconda era una
creazione posteriore la cui esistenza derivava dalle mutate
condizioni. Garantire la libertà, l'auto-amministrazione e la pace era lo
scopo principale della città medievale, e il lavoro, come vedremo tra poco
parlando delle gilde di mestiere, ne era la base. Ma la «produzione» non
assorbiva tutta l'attenzione degli economisti del Medio evo. Con il
loro spirito pratico, essi compresero che il «consumo» doveva essere
garantito al fine di ottenere la produzione; di conseguenza, il principio
fondamentale di ogni città era di provvedere alla sussistenza comune e
all'alloggio tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft
und gemach armer und richer). L'acquisto di viveri e di altri beni di
prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima che fossero passati per il
mercato o in condizioni particolarmente favorevoli dalle quali altri fossero
esclusi - in una parola la preemptio - era assolutamente vietata. Tutto
doveva passare dal mercato ed essere offerto in acquisto a tutti fino a
quando la campana non avesse chiuso il mercato. Solo a quel punto il
venditore al minuto poteva comprare ciò che restava, e anche
allora 107 il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un
«onesto guadagno». Di più, quando il frumento veniva comprato all'ingrosso
da un fornaio dopo la chiusura del mercato, ogni cittadino aveva comunque il
diritto di reclamare, al prezzo all'ingrosso, una parte di tale frumento
(circa due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse prima
della chiusura delle contrattazioni; a sua volta, ogni panettiere poteva
reclamare lo stesso diritto nel caso fosse un cittadino a comprare il
frumento per rivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva che da
essere portato al mulino della città per essere macinato a un prezzo
convenuto, e il pane poteva poi essere cotto nel forno comunale. Insomma, se
una carestia colpiva la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a
parte queste calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno vi è
morto di fame, come disgraziatamente oggi avviene anche troppo spesso.
[...] Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più vediamo che non
era una semplice organizzazione politica per la difesa di determinate
libertà. Era un tentativo, su ben più vasta scala rispetto alla comunità
rurale, di organizzare una stretta unione di assistenza e appoggio mutuo
per il consumo, per la produzione e per la vita sociale nel suo insieme,
senza frapporre gli impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà
di espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle arti, nei
mestieri, nelle scienze, in commercio e in politica. Vedremo meglio fino a
che punto questo tentativo ha avuto successo quando analizzeremo, nel
capitolo seguente, l'organizzazione del lavoro nella città medievale e le
relazioni delle città con la popolazione delle campagna circostanti. [.] I
risultati di questo nuovo progresso dell'umanità nella città medievale furono
immensi. All'inizio del secolo XI le città europee erano piccoli
raggruppamenti di capanne miserabili, ornati solamente di chiese basse e
tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la 108 volta. Le arti
- vi erano solo tessitori e fabbriferrai - erano ad uno stadio primitivo; il
sapere non si trovava che in qualche raro monastero.
Trecentocinquant'anni più tardi il panorama europeo era mutato. Il
territorio era disseminato di città benestanti circondate da spesse mura,
munite di torri e porte, ciascuna delle quali era un'opera d'arte. Le
cattedrali, d'uno stile grandioso e riccamente decorate, innalzavano verso il
cielo i loro campanili di una purezza di forme e di un ardire
di immaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente di raggiungere. Le
arti e i mestieri avevano raggiunto in molte attività un grado di perfezione
che oggi non possiamo vantarci di aver superato se diamo maggior
valore all'abilità inventiva dell'operaio e alla perfezione del suo lavoro
che non alla rapidità di esecuzione. Le navi delle città libere solcavano i
mari europei in tutte le direzioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo
ulteriore per varcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il
benessere aveva sostituito la miseria, e il sapere si era sviluppato e
diffuso. Si andavano elaborando i metodi scientifici e ponendo le basi della
fisica, si stava preparando il cammino per tutte le invenzioni
meccaniche delle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furono i
magici cambiamenti compiuti in Europa in meno di quattrocento anni. E se ci
si vuol rendere conto delle perdite subite dall'Europa dopo la distruzione
delle città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV o il
XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la Scozia, la Germania,
le pianure d'Italia, è scomparsa, le strade sono cadute nell'abbandono, le
città sono spopolate, il lavoro è asservito, l'arte è in decadenza, e
lo stesso commercio è in declino. Se anche le città medievali non ci
avessero lasciato alcun documento scritto a testimonianza del loro
splendore, ma solo i monumenti architettonici che vediamo ancor oggi in
tutta Europa, dalla Scozia all'Italia e da Girona in Spagna a Breslavia in
territorio slavo, potremmo comunque affermare che il periodo in cui
le città ebbero una vita indipendente fu quello del più
alto 109 sviluppo dello spirito umano dall'era cristiana fino al XVIII
secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del Medio evo raffigurante
Norimberga con le sue torri e i suoi campanili slanciati, ciascuno dei quali
porta l'impronta di un'arte liberamente creatrice, abbiamo qualche
difficoltà a pensare che trecento anni prima la città non era che un ammasso
di misere capanne. E la nostra ammirazione non fa che crescere quando
entriamo nei particolari dell'architettura e dei fregi di ciascuna delle
innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi municipali, delle porte di
città ecc., presenti in Europa e che arrivano ad est fino alla Boemia e alle
città, oggi morte, della Galizia polacca. Non è unicamente
l'Italia, questa patria delle arti, ma tutta l'Europa ad essere ricoperta
da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tutte le arti sia proprio
l'architettura - arte sociale per eccellenza - a toccare il suo più alto
sviluppo è significativo. Per arrivare al grado di perfezione che ha
raggiunto, quest'arte non poteva che essere il prodotto d'una vita
eminentemente sociale. L'architettura medievale ha raggiunto la sua
grandezza non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un mestiere, come
è stato detto recentemente; non soltanto perché ogni costruzione, ogni
decorazione architettonica era l'opera di uomini che conoscevano con
l'esperienza delle proprie mani gli effetti artistici che si
possono ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o
anche semplicemente da travi e calcina; non soltanto perché ogni monumento
era il risultato dell'esperienza collettiva accumulata in ciascun «mistero» o
mestiere: l'architettura medievale fu grande perché derivò da una
grande idea. Come l'arte greca, essa scaturì da una concezione di
fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva un'audacia che non si può
acquistare se non con lotte audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il
vigore impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un palazzo
comunale, simboleggiavano la grandezza di un insieme del quale ciascun
muratore e ciascun tagliatore di pietra era un costruttore. Un monumento del
Medio 110 evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia di schiavi
eseguivano la parte loro assegnata dall'immaginazione di un solo uomo: tutta
la città vi contribuiva. L'alto campanile svettava su una costruzione che
aveva in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita della
città; non era una costruzione assurda come la torre in ferro alta 300 metri
di Parigi o come quella fabbrica in pietra fatta per nascondere la bruttezza
d'una armatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra. Come l'Acropoli di
Atene, la cattedrale di una città del Medio evo era innalzata con
l'intenzione di glorificare la grandezza della città vittoriosa, di
simboleggiare l'unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere la
fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua propria creazione.
Spesso, compiuta la seconda rivoluzione dei nuovi mestieri, si videro le
città innalzare nuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità, più
profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...] Tutte le arti erano
progredite in modo analogo nelle città medievali. Le arti del nostro tempo
non sono, per la maggior parte, che una continuazione di quelle
sviluppatesi in quest'epoca. La prosperità delle città fiamminghe era
basata sulla fabbricazione di bei tessuti di lana. Firenze all'inizio del XIV
secolo, prima della peste nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di
stoffa di lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d'oro. La
cesellatura dei metalli preziosi, l'arte del fondere, i bei ferri lavorati
furono creazioni dei «misteri» medievali, che riuscirono a eseguire, ciascuno
nel proprio campo, tutto ciò che era possibile fare a mano, senza l'aiuto di
un potente motore. [...] È vero, come dice Whewell, che nessuna di
queste scoperte era stata il risultato di qualche nuovo principio. E
tuttavia la scienza del Medio evo aveva fatto qualcosa di più che la scoperta
propriamente detta di nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti
i nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze meccaniche.
Aveva cioè abituato il ricercatore ad osservare i fatti e a ragionarci sopra.
Era la scienza 111 induttiva, quantunque non avesse ancora
pienamente capito l'importanza e il potere del metodo induttivo; comunque
sia, essa poneva già le basi della meccanica e della fisica. Francesco
Bacone, Galileo e Copernico sono stati i discendenti diretti di un Ruggero
Bacone e di un Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato un
prodotto diretto delle continue ricerche nelle università italiane dell'epoca
sul peso dell'atmosfera e degli studi tecnici e matematici fatti a
Norimberga. Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e delle
arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali nel campo
dell'abilità tecnica o la lingua italiana e i poemi danteschi nel campo del
pensiero per dare immediatamente la misura di ciò che la città
medievale ha creato durante i suoi quattro secoli di vita? Le città del
Medio evo hanno reso un immenso servizio alla civiltà europea: le hanno
impedito di avviarsi verso le teocrazie e gli Stati dispotici dell'antichità;
le hanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo
spirito d'iniziativa e le immense energie intellettuali e materiali che
possiede ancor oggi e che sono la miglior garanzia della sua capacità di
resistere ad una nuova invasione che venga da Oriente. Ma perché
dunque questi centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere a
bisogni così profondi della natura umana e che erano così pieni di vita, non
sopravvissero più a lungo? Forse perché furono colpiti da debolezza senile
nel XVI secolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e aver reagito
inizialmente con vigore alle lotte interne, alla fine soccombettero sotto
questo duplice attacco? Varie cause hanno contribuito a questo
risultato; alcune avevano le loro radici in un lontano passato, altre
rimandavano a colpe commesse dalle città stesse. Verso la fine del XV secolo,
vennero costituiti alcuni potenti Stati che si rifacevano al vecchio modello
romano. In ogni regione, qualche signore feudale, più abile, più avido di
ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi vicini, era riuscito ad
assicurarsi più ricchi possedimenti personali, un più alto numero di
contadini per le sue 112 terre e di cavalieri per il suo seguito, un più
consistente tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenza un
gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancora sviluppata la libera
vita municipale - Parigi, Madrid o Mosca - e con il lavoro dei suoi servi ne
aveva fatto delle città regie fortificate. Là attirava compagni
d'arme, cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cui offriva la
sua protezione per il commercio. Si andava così formando il germe d'un futuro
Stato, che gradatamente avrebbe cominciato ad assorbire altri
centri simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza
di giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti dalla
borghesia e versati nello studio del diritto romano, che detestavano in pari
grado l'alterigia dei signori e ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei
contadini. Trovavano ripugnante la forma stessa della comunità rurale, che
i loro codici ignoravano, e i princìpi federativi, che consideravano
un'eredità dei «barbari»; viceversa, appoggiavano un cesarismo, sostenuto
dalla menzogna del consenso popolare e dalla forza delle armi,
e lavoravano alacremente per quelli che promettevano di attuarlo. La
Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge romana e ora sua alleata,
lavorò nello stesso senso. Essendo fallito il tentativo di costituire in
Europa l'Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più
ambiziosi diedero il loro appoggio a quelli sui quali contavano per
ricostruire il potere dei re d'Israele o degli imperatori di Costantinopoli.
La Chiesa consacrò questi primi dominatori, li incoronò come rappresentanti
di Dio sulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo
spirito politico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le
sue maledizioni, le sue ricchezze e l'influenza che aveva conservato tra i
poveri. I contadini che le città non avevano potuto o voluto liberare,
vedendo come queste non riuscissero a metter fine alle interminabili guerre
tra nobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, volgevano allora
le loro speranze verso re, imperatori e principi; così, mentre li aiutavano a
schiacciare i poten- 113 ti signori feudali, li aiutavano anche a
costruire lo Stato centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei
Turchi, le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili guerre che
ben presto scoppiarono tra i centri della nascente sovranità - tra Ile de
France e Borgogna, Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania
e Polonia, Mosca e Tver, ecc. - contribuirono tutte allo stesso risultato:
vennero costituiti potenti Stati e alle città toccò ora resistere non
solamente a vaghe alleanze di signori, ma anche a centri di potere saldamente
organizzati che avevano armate di servi a loro disposizione. Il peggio fu
che queste autocrazie in ascesa trovarono appoggi grazie anche alle divisioni
che si erano formate in seno alle città stesse. L'idea fondamentale della
città medievale era grande, e tuttavia non era abbastanza vasta. L'aiuto e
il sostegno reciproco non potevano essere limitati ad una piccola
associazione, ma dovevano estendersi al territorio circostante, senza
tuttavia che questo assorbisse l'associazione. Ma sotto questo aspetto il
cittadino del Medio evo aveva commesso fin da principio un grave errore.
Invece di vedere nei contadini e negli operai che si riunivano sotto la
protezione delle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero
contribuito alla prosperità della città - come fu effettivamente il caso -
tracciarono una profonda divisione tra le famiglie della vecchia borghesia e
i nuovi venuti. Ai primi furono riservati tutti i benefici derivanti dal
commercio e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato agli ultimi,
eccetto il diritto di servirsi liberamente dell'abilità delle loro mani. La
città fu così divisa: da una parte i «borghesi» o «il Comune», e dall'altra
«gli abitanti». Il commercio, che era dapprima comunale, diventò il
privilegio di alcune famiglie di mercanti e di artigiani; non vi era ormai
che un passo da fare perché divenisse un privilegio individuale o di un
gruppo di oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto. Tale divisione
si andò consolidando tanto nella città propriamente detta che nei villaggi
circostanti. Il Comune aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare
i 114 contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero, come
abbiamo già detto, guerre per liberare la città dai signori anziché per
liberare i contadini. La città lasciò al signore i suoi diritti sui
contadini, a condizione che non la molestasse più e divenisse un
concittadino. Ma i nobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle
sue mura, non fecero che portare la loro tradizionale bellicosità nella
cinta stessa della città. Benché non tollerassero di sottomettersi a un
tribunale di semplici artigiani e di mercanti, continuarono nelle loro
antiche ostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portate nelle vie
cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna e i suoi Orsini, i suoi
Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle cospicue rendite delle terre che
avevano conservate, si circondarono di numerosi clienti, feudalizzando i
costumi e le abitudini della città stessa. E quando i
dissensi cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrirono le loro
spade e le loro compagnie d'armi per risolvere le liti invece di lasciare che
i dissensi trovassero soluzioni più pacifiche, come tradizionalmente accadeva
nei tempi passati. [.] Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior
parte delle città fu di prendere per base della loro ricchezza il
commercio e l'industria a detrimento dell'agricoltura. Ripeterono in tal modo
l'errore già commesso dalle città della Grecia antica, e proprio per questo
caddero negli stessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un
gran numero di città si trovarono necessariamente trascinate in una
politica avversa ai contadini. Questo divenne sempre più evidente al tempo di
Eduardo III e delle jacqueries in Francia, delle guerre ussite e delle
guerre contadine in Germania. D'altra parte, la politica commerciale le
impegnava in imprese lontane, tanto che colonie furono fondate dalle città
italiane nel sud-est, dalle città tedesche nell'est, dalle città slave
nell'estremo nord-est. Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie
per le guerre coloniali e ben presto anche per la difesa della città
stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in pro- 115 porzioni talmente
smisurate da demoralizzare completamente i cittadini; e la conflittualità
interna imperò a ogni elezione nella quale la politica coloniale, di
cui beneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divisione tra
ricchi e poveri diventò più profonda e, nel secolo XVI, in ogni città
l'autorità regia trovò alleati solleciti e l'appoggio dei poveri. Ci fu
ancora un'altra causa nella rovina delle istituzioni comunali, più profonda e
insieme di ordine più elevato delle precedenti. La storia delle città
medievali rappresenta uno dei più grandiosi esempi del potere delle idee e
dei princìpi sui destini del genere umano, e dell'estrema diversità nei
possibili esiti che accompagnano ogni profonda trasformazione delle idee
prevalenti. La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità di ogni
gruppo e la costituzione del corpo politico dal semplice al complesso, erano
le idee prevalenti nel secolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni
si modificarono profondamente. Gli studiosi di diritto romano e i prelati
della Chiesa, strettamente alleati dall'epoca di Innocenzo III, riuscirono a
neutralizzare l'idea - l'antica idea greca - che aveva presieduto
alla fondazione delle città. Durante due-trecento anni
predicarono dall'alto del pulpito, insegnarono nelle
università, pronunciarono dal banco del tribunale, che occorreva cercare
la salvezza in uno Stato fortemente centralizzato, posto sotto un'autorità
semi-divina. Questa si sarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri,
un dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; in nome della
salute pubblica, questi avrebbe potuto commettere qualunque specie di
violenza: bruciare uomini e donne sul rogo, farli perire a seguito di
indescrivibili torture, sprofondare intere province nella più
abbietta miseria. E non esitarono a mettere in pratica queste teorie con
inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivare la spada del re, o il fuoco della
Chiesa, o tutti e due insieme. Con questi insegnamenti e questi
esempi, costantemente ripetuti fino a condizionare l'opinione pubblica, lo
spirito stesso dei cittadini fu modellato in 116 modo nuovo. Ben presto
nessuna autorità fu trovata eccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve
troppo crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». E con questa nuova
attitudine di spirito, e questa nuova fede nella potenza di un uomo, il
vecchio principio federalista svanì e il genio creatore delle masse si
estinse. L'idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo
Stato accentrato trovò nelle città una facile preda. Nel XV secolo Firenze
offre il miglior esempio di questo mutamento. Nelle epoche precedenti, una
rivoluzione popolare era il segnale d'un nuovo slancio. Ora, quando spinto
dalla disperazione il popolo insorge, non ha più idee costruttive, nessuna
nuova idea lo illumina. Un migliaio di rappresentanti entrano nel
consiglio comunale invece di quattrocento; cento uomini entrano nella
signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione di cifre non vuol dir niente.
Lo scontento del popolo cresce e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa
appello a un salvatore, al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e
tuttavia il disgregamento del corpo comunale continua, peggio che mai.
Quando, dopo una nuova rivolta, il popolo di Firenze si rivolge all'uomo più
popolare della città, Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo
mio, sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato... purifica la
tua anima, e se in questa disposizione di spirito riformerai la tua città,
allora, popolo di Firenze, avrai inaugurato la riforma di tutta l'Italia!».
Vengono bruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si
fa decretare una legge di carità, un'altra contro l'usura. ma la
democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spirito del tempo antico è ormai
morto. Per aver avuto troppa fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato
d'aver fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie. Allo
Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le ultime libertà. E
tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è del tutto inaridita nelle
moltitudini, ma ha continuato a scorrere anche dopo questa disfatta. Si è
ingrossata di nuovo con una forza formidabile agli appelli
comunisti 117 dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato
a scorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscite a realizzare
quell'esistenza che speravano di inaugurare sotto l'ispirazione della
religione riformata, sono nuovamente cadute sotto la dominazione di un
potere autocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di una nuova
manifestazione, che non sarà più lo Stato, né la città del Medio evo, né la
comunità rurale dei barbari, né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di
tutte queste forme, pur superandole grazie a una concezione più ampia e
profondamente umana. 118 VI Per Kropotkin l'idea del bene e del male
esiste nell'umanità, nel senso che il sentimento morale non si configura
come una semplice irruzione soggettiva dell'anima, ma come la verità della
sua datità biologiconaturale giunta al punto del suo
auto-riconoscimento razionale. Perciò diventa legittima la fondazione
di un'etica basata sulle scienze naturali, o meglio sulla ricerca
«etologica» delle leggi del comportamento umano derivato dallo studio
naturalistico dei costumi; ciò che, in termini attuali, può essere definita
la «scuola adattiva » della cultura. La dimensione positivistica ed
evoluzionistica di tale concezione si rende evidente quando si afferma che
è possibile colmare la profonda sfasatura esistente tra lo sviluppo delle
scienze naturali e quello delle scienze morali, tra le prime che hanno fatto
immensi progressi e le seconde che sono rimaste arretrate ad uno stadio di
elaborazione metafisica, compenetrando queste due dimensioni in un'unica
Weltanschauung. A questo proposito ecco che cosa ha recentemente scritto
uno scienziato notissimo a livello mondiale (e che non ha nulla a che vedere
con la scuola socio-biologica), Luca Cavalli Sforza: «Oggi la moralità non è
più considerata una prerogativa della nostra specie. Gli studi effettuati
da trent'anni a questa parte sulla vita sociale 119 di numerose specie di
animali - in particolare mammiferi - e soprattutto su scimmie e primati
indicano che il senso della giustizia [il tondo è mio], di simpatia e
di empatia sono diffusi anche fra parecchi animali. Non solo: se vogliamo
comprendere l'origine di questi fenomeni nella nostra stessa specie ci
conviene guardare al lontano passato, alla lunghissima evoluzione che
i nostri antenati hanno diviso con gli antenati delle
scimmie attuali». In conclusione viene confermato quanto sostenuto
da Kropotkin: la socialità non è una scelta dei protagonisti, ma una
necessità della specie, non discende dalla volontà dei singoli, ma dalla loro
appartenenza alla collettività. E la società, a sua volta, è il risultato
dell'evoluzione spontanea della natura, perché deriva da un lento ma
irreversibile sviluppo delle potenzialità libertarie ed egualitarie latenti
negli esseri viventi, per cui soltanto la piena coscienza scientifica di
questa tendenza naturale trasforma la sua datità deterministica in
una possibilità progettuale di liberazione: gli individui si liberano solo
attraverso il pieno riconoscimento della loro inscindibile appartenenza alla
specie e dunque della loro ineliminabile dimensione collettiva. Per
Kropotkin il punto centrale è rappresentato dall'idea di giustizia quale
pratica immanente alle relazioni sociali. Con il progredire della società,
infatti, si fa largo anche il concetto di uguaglianza. Così equità
e uguaglianza tendono a coincidere con il sentimento innato di socialità,
e in questo senso la giustizia non è un valore soggettivo, o una mera
formulazione ideale, ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale,
la quale non può svolgersi se non viene esplicata la reciprocità fra i
suoi membri. I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall'edizione italiana de L'etica del 1972, nella traduzione (rivista) di
Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria. 120 L'ETICA Lo scopo principale
dell'etica realistica moderna è [...] di dare una definizione del fine morale
cui tendiamo. Ma questo fine, o questi fini, quale che sia il
carattere ideale che essi comportano e quale che sia la lontananza della
loro realizzazione, devono nonostante tutto appartenere al mondo reale. La
morale non può avere per scopo qualche cosa di «trascendente», cioè di
superiore a ciò che in realtà esiste, come vogliono certi idealisti; il suo
scopo deve essere reale. È nella vita, e non in uno stato successivo
al decorso naturale della vita, che dobbiamo trovare la nostra
soddisfazione morale. Quando Darwin ha formulato la sua teoria della
«lotta per l'esistenza» e ha presentato questa lotta come il fattore
principale dell'evoluzione, egli ha sollevato anco- 121 ra una volta il
vecchio problema della moralità o della possibile immoralità della natura.
L'origine delle nozioni di bene e male, che ha occupato il pensiero
filosofico dopo lo Zend-Avesta, è stata nuovamente posta sul tappeto con
maggiore energia e profondità. I darwinisti hanno considerato la natura come
un vasto campo di battaglia dove i più deboli vengono sterminati dai
più forti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni la natura
non può insegnare all'uomo che la lotta, il corpo a corpo. Queste idee,
come sappiamo, si sono diffuse largamente. Partendo da esse il filosofo
evoluzionista ha dovuto però risolvere una grave contraddizione da
lui stesso introdotta nella sua filosofia. In base a questa filosofia,
infatti, non ci si può dichiarare assolutamente certi che l'uomo sia in
possesso di un'idea superiore del «bene» e che la credenza nel trionfo
graduale del bene sul male sia profondamente radicata nella natura
umana. Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare da dove proviene la
nozione di bene, la credenza nel progresso. Essa non può adagiarsi sul comodo
guanciale epicureo che il poeta Tennyson descrive con le seguenti parole:
«In un modo qualsiasi il bene si troverà come risultato definitivo del male».
La dottrina evoluzionistica non può concepire la natura «tinta di sangue» -
red in tooth and clow (con gli artigli e i denti rossi di sangue), come la
descrivono Tennyson e il darwinista Huxley - sempre in lotta contro il bene,
negazione vivente del bene, e affermare nello stesso tempo che «in
ultima analisi» il principio del bene trionferà. Deve,
quantomeno, spiegare questa contraddizione. Se uno studioso riconosce che
la sola lezione che l'uomo da se stesso può ricavare dalla natura è la
lezione della violenza, egli dovrà nello stesso tempo
riconoscere l'esistenza di qualche altra influenza, esterna alla natura,
soprannaturale, che ispira all'uomo l'idea di «bene supremo» e conduce verso
un fine superiore lo sviluppo dell'umanità. E così facendo, annullerà il
suo stesso tentativo di spiegare l'evoluzione dell'umanità 122 con il
solo gioco delle forze naturali. In realtà, le posizioni della teoria
evoluzionistica sono lontane dall'essere così poco solide; esse non
conducono affatto alle contraddizioni in cui è caduto Huxley. Lo studio
della natura, come ha dimostrato Darwin stesso nella sua seconda opera,
L'origine dell'uomo, è lontano dal confermare la prospettiva pessimista di
cui abbiamo appena parlato. La concezione di Tennyson e di Huxley è
incompleta, unilaterale e, conseguentemente, falsa; la anti-scientificità
diventa chiara se si pensa al fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo
libro, di un aspetto assai differente della vita e della natura. La natura
stessa, egli dice, ci mostra, accanto alla lotta, un'altra categoria di fatti
con un significato assolutamente diverso: il mutuo appoggio all'interno
della stessa specie; questi fatti hanno una importanza superiore a quelli
precedenti perché sono necessari a mantenere la prosperità della
specie. Questa tesi estremamente importante, che la maggior parte dei
darwinisti si rifiuta di tenere in conto e che Alfred Russel Wallace è
arrivato persino a negare, io ho cercato invece di svilupparla, citando a tal
proposito una gran quantità di fatti in una serie di articoli in cui ho
dimostrato l'enorme importanza del mutuo appoggio per la sopravvivenza delle
specie animali e dell'umanità, e soprattutto per il loro sviluppo
progressivo, per la loro evoluzione. Senza cercare di attenuare il fatto
che numerosi animali si nutrono di specie appartenenti ad altre classi del
mondo animale o di specie più piccole della stessa famiglia zoologica, ho
dimostrato che in natura la lotta è spesso circoscritta a una lotta fra
specie differenti, ma che all'interno di ciascuna specie, e spesso
all'interno di un raggruppamento formato da specie diverse ma viventi in
comune, il mutuo appoggio è la regola generale. È per questo che il lato
sociale della vita animale svolge in natura un ruolo molto più importante che
il mutuo sterminio, avendo oltretutto un'estensione più vasta. Il numero
delle specie sociali tra i ruminanti, 123 nella maggior parte dei
roditori, presso numerosi uccelli, nelle api, nelle formiche ecc., cioè le
specie che non vivono cacciandosi a vicenda, è in effetti
considerevolissimo, e il numero di individui che comprende ciascuna di
queste specie è estremamente alto. Inoltre, presso tutte le fiere e tutti i
rapaci, soprattutto quelli che non sono in via di estinzione a seguito dello
sterminio condotto dall'uomo o per altre ragioni, viene praticato in certa
misura il mutuo appoggio. Il mutuo appoggio è di fatto dominante in natura.
[...] Essendo necessario alla conservazione, alla prosperità e allo
sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appoggio è diventato ciò che Darwin
ebbe a definire un istinto permanente costantemente in azione presso tutti
gli animali sociali, ivi compreso, naturalmente, l'uomo. Questo istinto,
che si manifesta fin dai primordi dell'evoluzione del regno animale, è, senza
dubbio, profondamente radicato presso tutti gli animali, inferiori e
superiori, come l'istinto materno; anzi si traduce in un vantaggio nei casi
in cui è dubbia l'esistenza di un istinto materno, come nei molluschi, in
certi insetti e nella maggior parte dei pesci. Così Darwin aveva
pienamente ragione quando affermava che l'istinto della mutua attrazione si
manifesta presso gli animali sociali in modo più costante dell'istinto
egoista alla conservazione personale. Egli vi vedeva, come sappiamo, il
rudimento di una coscienza morale: fatto che, malauguratamente, i darwinisti
hanno troppo spesso dimenticato. Ma non è tutto: questo istinto, una volta
apparso, sarà l'origine dei sentimenti di benevolenza e di
accettazione parziale del singolo nel suo gruppo, diventando il punto di
partenza di tutti i sentimenti superiori. È infatti su questa base che si
svilupperanno i sentimenti più elaborati di giustizia, equità, uguaglianza e,
infine, di ciò che abbiamo convenuto chiamare
abnegazione. [...] Comprendiamo così non soltanto che la natura non
ci dà lezioni di comportamento amorale, ovvero di indiffe- 124 renza
riguardo la morale, indifferenza che, essendo un principio estraneo alla
natura, dovrebbe combattere per dominarla, ma che al contrario la nozione di
bene e di male, i ragionamenti sul «bene supremo», sono improntati alla
natura stessa. Essi non sono che i riflessi, nei ragionamenti dell'uomo, di
ciò che egli ha visto presso gli animali; nel corso della vita sociale queste
impressioni vanno a comporre la nozione generale di bene e di male. E non
si tratta di punti di vista personali di qualche individuo, ma dei sentimenti
della maggioranza. Questi giudizi ci confermano gli elementi di giustizia
e di mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso cui si
riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni di meccanica che, dedotte
dalle osservazioni fatte sulla superficie terrestre, si applicano benissimo
ai problemi degli spazi celesti. Non possiamo non ammettere la stessa cosa
quando si parla dello sviluppo del carattere e delle istituzioni umane.
Anche l'evoluzione dell'uomo si effettua tramite la natura, da cui riceve un
impulso positivo. Le stesse istituzioni di assistenza e di mutuo appoggio
create all'interno della società mostrano all'uomo, con sempre maggiore
evidenza, quale potenza può generarsi attraverso il loro impiego. Con un
simile mezzo di azione sociale la fisionomia morale dell'uomo si elabora
in modo più pieno. Ricerche storiche recenti permettono di concepire la
storia dell'umanità, per ciò che concerne l'elemento etico, come
un'evoluzione del bisogno, caratteristico dell'uomo, di organizzare la sua
esistenza sulla base del mutuo appoggio. Tanto nei clan che, più
tardi, nelle comunità rurali, nelle repubbliche e nelle città libere,
queste forme sociali diventeranno, malgrado alcuni periodi di regresso, le
fondamenta del nuovo progresso. S'intende che dobbiamo rinunciare all'idea di
studiare la storia dell'umanità nel senso di una catena ininterrotta, di
un'evoluzione che va dall'età della pietra fino all'epoca attuale. Lo
sviluppo della società non è avvenuto senza interruzioni. Più volte si è
stati costret- 125 ti a ricominciare: in India, in Egitto, in
Mesopotamia, in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava,
nell'Europa occidentale; ogni volta partendo da tribù primitive e in
seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascuna di queste linee di
sviluppo, una dopo l'altra, vedremo soprattutto nell'Europa occidentale, dopo
la caduta dell'Impero romano, un graduale estendersi delle nozioni di
aiuto e di soccorso reciproco, prima dalla tribù alla città, poi alla nazione
e infine all'unione internazionale delle nazioni. D'altra parte, a dispetto
delle fasi di regresso che a diverse riprese si sono manifestate presso le
stesse nazioni più civili, si può constatare una tendenza a estendere sempre
più i benefici delle idee correnti sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra
gli uomini. Questa tendenza è portata avanti in seno ai popoli
civili dagli esponenti del pensiero più avanzato e da quei movimenti
popolari che vogliono attuare il progresso ponendo in essere alcune di quelle
concezioni che sembra desiderabile attendersi dallo sviluppo
futuro dell'evoluzione. Il fatto stesso che le fasi di regresso
verificatesi periodicamente presso i diversi popoli siano
considerate dalla parte più colta della società come dei
fenomeni passeggeri, verosimilmente evitabili in avvenire, dimostra come
il criterio etico sia collocato su un livello più elevato. Man mano che
aumentano nella società civile i mezzi per soddisfare i bisogni dell'insieme
della popolazione, aprendo in tal modo la via a una migliore
comprensione della giustizia per tutti, le esigenze etiche diventano
necessariamente sempre più elevate. Così, ponendosi dal punto di vista di
un'etica scientifica e realistica, l'uomo può non soltanto credere
nel progresso morale, ma fondare questa credenza su delle basi
scientifiche, malgrado tutte le lezioni di pessimismo che riceve. La credenza
nel progresso che all'inizio non era che una semplice ipotesi, si trova ora
pienamente confermata dalla conoscenza; e d'altro canto non bisogna
dimenticare che l'ipotesi precede sempre la
scoperta scientifica. 126 Se la filosofia dell'empirismo, che si fonda
sulle scienze naturali, non ha potuto, fino a oggi, provare l'esistenza di
un progresso continuo delle regole morali (che si può considerare come uno
degli elementi fondamentali dell'evoluzione), lo si deve, in gran parte,
ai filosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono questi che hanno
insistentemente negato l'origine naturale del senso morale, abbandonandosi a
infinite sottili dissertazioni per attribuirgli un'origine soprannaturale.
Il loro lavoro si è talmente dilatato, fino alla
«predestinazione dell'uomo», allo «scopo della nostra esistenza», ai «fini
della natura e della Creazione», che una reazione doveva necessariamente
prodursi contro tutte queste idee mitologiche e metafisiche.
Contemporaneamente, gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato
l'esistenza nel regno animale di un'aspra lotta per la vita tra le diverse
specie, si sono visti nell'impossibilità di ammettere che un fenomeno così
brutale, origine di tante sofferenze per gli esseri viventi, potesse essere
un'espressione della volontà dell'Essere Supremo. Così hanno finito per
negare l'esistenza di un qualsiasi elemento morale. Ciò non significa che
ora, quando si comincia a considerare lo sviluppo graduale delle specie,
delle razze umane, delle istituzioni umane e dei princìpi
stessi dell'etica nel senso di un'evoluzione naturale, non diventi
possibile studiare, senza cadere nella filosofia del soprannaturale, le
diverse forze che presiedono a queste evoluzioni, ivi compresa la forza
naturale della morale che è costituita dal mutuo appoggio e dalla
crescente attrazione reciproca. Perseverando in questo senso, si attua una
grande conquista per la filosofia. Siamo così in diritto di concludere che
lo studio della natura e della storia, giustamente inquadrato, denuncia
l'esistenza costante di una doppia tendenza: da un lato la tendenza alla
socialità; dall'altro, come risultato di questa, l'aspirazione a
una maggiore intensità di vita, da cui il bisogno di una maggiore felicità
per l'individuo, e l'aspirazione verso un progresso rapido dal punto di vista
fisico, intellettuale e 127 morale. Questa duplice aspirazione è
caratteristica della vita in generale, costituendo una delle proprietà
fondamentali e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspetto della
vita nel nostro pianeta o altrove. Non si tratta di un tentativo della
metafisica di inficiare la «universalità della legge morale», né di una
semplice supposizione. Senza un aumento costante della socialità,
cioè dell'intensità della vita e della varietà di sensazioni che essa
apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appunto risiede l'essenza centrale
dell'esistenza. Se questa condizione viene meno, la vita stessa ne viene
menomata avviandosi alla propria distruzione. Siamo davanti ad una vera e
propria legge di natura. Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere
i fondamenti dell'etica, dà al contrario un contenuto concreto alle
nebulose affermazioni metafisiche dell'etica trascendentale, cioè
soprannaturale. Man mano che la scienza penetra sempre più a fondo nella
natura essa dona all'etica evoluzionistica una certezza
filosofica incontestabile, là dove il pensatore trascendentale non poteva
fondarsi che su ipotesi assai vaghe. Un altro rimprovero spesso mosso al
pensiero fondato sullo studio della natura, è ancor meno
giustificato. Sarebbe un modo di pensare che non può che condurre alla
conoscenza di una fredda verità matematica. Le conoscenze di questo tipo
avrebbero poca influenza sulle nostre azioni. Lo studio della natura ci può
tutt'al più ispirare l'amore per la verità, ma solo la religione
può ispirare un'emozione superiore, come quella della
«infinita bontà». Non è difficile provare che tale affermazione è
infondata ed è per conseguenza falsa. L'amore per la verità costituisce
già in sé una buona meta, la «migliore» di tutta la dottrina morale. E i
credenti che siano anche persone intelligenti lo comprendono benissimo.
Quanto alla nozione di bene e all'aspirazione verso questo bene, la
«verità» di cui parliamo - il riconoscimento del mutuo appoggio come
carattere fondamentale dell'esi- 128 stenza di tutti gli esseri viventi -
è chiaramente una verità ispiratrice destinata un giorno a
esprimere degnamente la poesia della natura, in quanto aggiunge alla
conoscenza di questa un nuovo tratto: l'umanitarismo. Goethe, con la
perspicacia del suo genio panteista, ne comprese tutta l'importanza
filosofica quando lo zoologo Eckermann gliene fece cenno nel corso di una
conversazione. Man mano che studiamo più da vicino l'uomo
primitivo, constatiamo sempre più che dalla vita degli animali, con i
quali viveva in stretta comunanza, egli acquisì le prime lezioni sulla
coraggiosa difesa dei propri simili, sull'abnegazione a favore del
gruppo, sull'amore illimitato per la famiglia, sull'utilità generale della
vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio» non sono soltanto umane,
ma zoologiche. Non è necessario insistere sull'influenza che le idee hanno
sulle nozioni morali, come pure sull'influenza inversa che le nozioni morali
hanno sulla fisionomia intellettuale di ciascuna epoca. L'aspetto e lo
sviluppo intellettuale di un'epoca possono qualche volta prendere una
direzione completamente falsa sotto la pressione di circostanze esterne
diverse: sete di ricchezza, guerre, ecc.; esse possono, durante il corso
della storia, rimbalzare in una nuova direzione e raggiungere, in
questo modo, un livello più elevato. Ma nell'uno o nell'altro caso, la
vita intellettuale di un'epoca esercita sempre una profonda influenza
sull'insieme delle nozioni morali di una società. La stessa cosa è vera anche
quando si tratta di un individuo. È altrettanto certo che i pensieri, le
idee, sono delle forze, per usare l'espressione di Fouillée; essi
diventano forze etiche, morali, quando sono giusti e
sufficientemente diffusi per esprimere la vita della natura nel
suo insieme e non soltanto in uno dei suoi aspetti. È per questo che
quando si tratta di creare una morale suscettibile di determinare
un'influenza duratura sulla società, bisogna cominciare a stabilirne le basi
per mezzo di verità solidissime. Questo costituisce uno dei
prin- 129 cipali ostacoli all'elaborazione di un sistema etico
completo, capace di soddisfare le esigenze del nostro tempo. La causa è
data dallo stato infantile in cui si trova ancora la scienza della società.
La sociologia ha riunito da poco i suoi materiali; essa comincia soltanto ora
a studiarli allo scopo di stabilire la direzione probabile della futura
evoluzione dell'umanità. Essa urta continuamente contro una gran quantità di
pregiudizi inveterati. L'etica moderna ha per compito principale quello
di cercare, con la riflessione filosofica, ciò che vi è di comune tra le
due categorie di sentimenti contrapposti che esistono nell'uomo; essa aiuta
così a trovare non un semplice compromesso o un accordo tra i due, ma
la loro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di questi sentimenti
portano gli uomini a dominare i loro simili in vista di scopi personali;
altri, all'inverso, li portano a unirsi tra di loro per attendere con uno
sforzo comune all'attuazione di ciò che non è possibile realizzare
da soli. I primi rispondono a un bisogno fondamentale dell'uomo: il
bisogno della lotta; i secondi rispondono a un altro bisogno egualmente
fondamentale: quello dell'unione e della reciproca attrazione. Questi
due gruppi di sentimenti non possono non entrare in conflitto, ma è
assolutamente necessario trovare la loro sintesi, sotto una forma qualsiasi.
Ciò è tanto più necessario per l'uomo moderno in quanto, se non ha delle
convinzioni precise che lo mettano in grado di riconoscere il suo posto in
questo conflitto, egli rischia di perdere la sua potenza attiva. Egli non può
ammettere che la lotta per il predominio, la guerra al coltello tra gli
individui e le nazioni, sia l'ultima parola della scienza; d'altra
parte egli non crede che la questione possa essere risolta predicando la
fratellanza e l'abnegazione, come il cristianesimo ha fatto per secoli senza
mai arrivare però né alla fratellanza tra i popoli o tra gli uomini, né
alla reciproca tolleranza tra le diverse dottrine cristiane. Quanto alla
dottrina comunista, la maggioranza non vi crede per la stessa ragione su
esposta. Così lo scopo 130 principale dell'etica è attualmente quello di
aiutare l'uomo a trovare una soluzione a questa
fondamentale contraddizione. A tal proposito, rivolgeremo ora
l'attenzione ad un'analisi dettagliata dei mezzi ai quali gli uomini hanno
fatto ricorso nei secoli per arrivare al più alto grado di benessere per
tutti senza paralizzare, al contempo, l'energia personale di ciascuno. Allo
scopo di giungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare egualmente le
tendenze analoghe che si rivelano nella nostra società, i primi tentativi
ancora timidi come le possibilità latenti. Poiché nessun nuovo movimento si
produce senza risvegliare un certo entusiasmo, necessario a
vincere l'inerzia intellettuale, la nuova etica avrà per
compito fondamentale quello di suggerire all'uomo un ideale capace di
risvegliare l'entusiasmo, donando agli uomini la forza necessaria per
realizzare nella vita reale ciò che può conciliare l'energia individuale con
il lavoro per il bene di tutti. Questa necessità di un ideale legato alla
realtà ci porta a considerare la principale obiezione opposta a questi
sistemi etici non religiosi. Essi mancherebbero dell'autorità necessaria, si
dice, le loro finalità non risveglierebbero che il semplice sentimento del
dovere, dell'obbligo. È perfettamente vero che l'etica empirica non ha mai
preteso, come suo carattere vincolante, ciò che fonda, ad esempio, i dieci
comandamenti di Mosé. È altrettanto vero che quando Kant propone
l'«imperativo categorico» come fondamento della legge morale - «agisci in
modo tale che l'aspirazione della volontà possa divenire il principio di una
legge suscettibile di applicazione universale» - egli intende dimostrare che
questa regola non ha bisogno di alcuna sanzione superiore per essere
riconosciuta come universalmente vincolante. Essa è, continua Kant, una forma
necessaria del pensiero, una categoria della nostra ragione; non è
dedotta da alcuna considerazione utilitaristica. Ma la critica moderna,
dopo Schopenhauer, ha mostrato che Kant sbaglia. Egli non ha provato
per quali ragioni l'uomo si dovrebbe sottomettere a
questo 131 «imperativo», ed è curioso che il ragionamento conduca lo
stesso Kant all'idea che la sola ragione che permette al suo «imperativo» di
aspirare al generale riconoscimento è la sua utilità sociale. Eppure le
pagine in cui Kant dimostra che in nessun caso le considerazioni
di utilità devono essere date come base per la morale sono le più belle
che abbia scritto. In realtà egli ha composto uno splendido elogio del
sentimento del dovere, ma non è riuscito a trovare a questo sentimento altra
base che la conoscenza intima dell'uomo e il suo desiderio di
conservare un'armonia tra le sue idee e i suoi atti. La morale empirica
non cessa certamente di controbattere all'ingiunzione religiosa espressa
dalle parole «Io sono il signore Dio tuo»; ma la contraddizione profonda
che continua ad esistere tra le prescrizioni del cristianesimo e la vita
reale delle società che si definiscono cristiane toglie comunque all'accusa
in questione tutta la sua forza. Bisogna dire che la morale empirica non è
completamente priva di un carattere condizionante. I diversi sentimenti e
atti che, dopo August Comte, si chiamano «altruisti» possono essere
facilmente suddivisi in due categorie. I primi, assolutamente necessari se
si vuole vivere in società, non dovrebbero mai essere definiti altruisti:
essi contengono un carattere di reciprocità e sono compiuti dall'individuo
esclusivamente nel proprio interesse, come avviene per tutti gli atti
dettati dall'istinto di conservazione. Accanto a questi atti ne esistono
altri che non presuppongono alcuna reciprocità. Chi li compie dà la sua
forza, la sua energia, il suo entusiasmo, senza attendere nulla in cambio,
senza presupporre alcuna ricompensa. Sono proprio questi atti i grandi
fattori di perfezionamento morale che è possibile definire obbligatori.
Queste due categorie di atti sono costantemente confusi da tutti
gli autori che trattano di morale, ed è per questo che si rilevano così
tante contraddizioni nelle questioni relative all'etica. È facile,
tuttavia, uscire da questa confusione. È chiaro fin dall'inizio che non
bisogna confondere il 132 dominio dell'etica con quello della
legislazione. L'etica non dà risposta alcuna a questo problema: una
legislazione è, o meno, necessaria? La morale è al di sopra di questo
problema. Si conoscono numerosi studiosi di etica che negano la necessità di
una qualsiasi legislazione e si appellano direttamente alla coscienza umana;
agli inizi della Riforma, questi pensatori esercitarono una notevole
influenza. Il compito dell'etica non è quello di insistere sui difetti
dell'uomo e rimproverargli i suoi «peccati»: essa deve fare opera positiva,
indirizzandosi ai suoi migliori istinti. L'etica definisce e spiega
i princìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gli uomini
avrebbero potuto vivere in società. Successivamente, fa appello a qualcosa di
superiore: all'amore, al coraggio, alla fratellanza, al rispetto di se
stessi, a una vita conforme all'ideale. Infine, dice all'uomo che se vuole
vivere una vita nella quale tutte queste forze trovino piena espressione,
deve rinunciare una volta per tutte a credere che sia possibile vivere senza
tener conto dei bisogni e dei desideri dei suoi simili. L'etica
insegna che ci si avvicina a questa vita solo quando si stabilisce una
certa armonia tra l'individuo e coloro che lo circondano. E aggiunge:
«Guardate la natura, studiate il passato dell'uomo, vi troverete la verità».
Quando l'uomo, per una ragione qualsiasi, esita non sapendo come agire in
un caso determinato, l'etica gli viene in aiuto mostrandogli come lui stesso
vorrebbe che gli altri agissero nei suoi riguardi nelle stesse
circostanze. Anche in questo caso, l'etica non indica alcuna linea di
condotta in modo rigido, perché l'uomo deve misurare da sé il valore dei
diversi argomenti. A chi è incapace di sopportare uno scacco, è inutile
consigliare il rischio. Allo stesso modo è inutile predicare a un giovane
pieno di energia la prudenza dell'età matura. Egli ribatterà con le parole
profondamente giuste con le quali Egmont si rivolge al vecchio conte Oliver
nel dramma di Goethe, ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da
spiriti invisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano il leggero
veicolo del nostro destino; non ci resta che tene- 133 re coraggiosamente
le redini e guidare il carro, a sinistra, per evitare una pietra, a destra,
per evitare una frana. Dove siamo condotti? Non si sa. Noi
sappiamo soltanto da dove veniamo». [...] Ma lo scopo principale
dell'etica non è quello di dare consigli individuali. Essa tende piuttosto a
prospettare all'insieme degli uomini un fine supremo, un ideale che li
guidi e li inciti ad agire istintivamente nella direzione voluta, meglio di
qualsiasi consiglio. Proprio come lo scopo dell'educazione è di abituare a
effettuare quasi inconsciamente una moltitudine di ragionamenti
appropriati, così lo scopo dell'etica è di creare un'atmosfera sociale in
grado di far comprendere alla maggioranza degli uomini, in modo assolutamente
abitudinario, cioè senza esitazioni, gli atti che conducono al benessere
di tutti e al massimo di felicità per ciascuno. È questo lo scopo finale
dell'etica. Per raggiungerlo, dobbiamo sbarazzare le teorie etiche dalle
contraddizioni interne. Così, ad esempio, la morale che predica la
«benevolenza » per misericordia e per pietà, porta in sé una mortale
contraddizione. Essa comincia con il proclamare la necessità della giustizia
per tutti, cioè l'uguaglianza o una fratellanza perfetta, che poi è la stessa
cosa dell'uguaglianza, o almeno un'uguaglianza di diritto. Successivamente
si affretta ad aggiungere che è inutile perseguire questo scopo:
l'uguaglianza è irrealizzabile... Quanto alla fratellanza, che poi è la base
di tutte le religioni, non bisogna prenderla alla lettera: è solo
una parola poetica usata da predicatori entusiasti. «La disuguaglianza è
una legge di natura», affermano i predicatori religiosi che, in questo caso,
evocano la natura. Ma noi consigliamo di domandare delle lezioni alla
natura piuttosto che alla religione, la quale ha preteso di
sottomettere la natura. Ma diventando troppo evidente la disuguaglianza
tra gli uomini, continuando le ricchezze a essere accaparrate da una piccola
minoranza delimitata, la maggioranza degli uomini è ridotta a vivere
nella più grave miseria. Essere in favore del povero è allo- 134 ra un
vero e proprio dovere sacro, purché ciò non intacchi la propria situazione
privilegiata. Una morale simile può certamente mantenersi per qualche tempo,
o anche per parecchio tempo se viene sostenuta dalla religione così come
l'interpreta la Chiesa imperante. Ma dal momento in cui l'uomo applica alla
religione il suo spirito critico e cerca di stabilire dei
convincimenti concreti per mezzo della ragione, e non per mezzo della fede
e dell'obbedienza evangelica, questa contraddizione interna non può reggere a
lungo: egli cercherà di separarsene, e prima lo fa meglio è; la
contraddizione interna è la morte dell'etica, un verme che rode
e distrugge tutta l'energia di un uomo. La moderna teoria della morale è
basata su una condizione fondamentale: essa non deve intralciare
l'attività spontanea dell'individuo, neanche per uno scopo elevato quale
potrebbe essere il bene della società o della specie. Wundt, nella sua
eccellente esposizione delle dottrine etiche, fa osservare che dopo «il
secolo dei lumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti i sistemi morali
sono diventati individualistici. Ma questo punto di vista è vero solo in
parte, in quanto i diritti dell'individuo sono stati difesi con grande
energia solo in campo economico. E anche qui la libertà individuale è stata,
in pratica come in teoria, più apparente che reale. Quanto agli altri
settori - politico, intellettuale, artistico - si può dire che man mano che
l'individualismo economico si è affermato con maggiore energia,
l'assoggettamento dell'individuo all'organizzazione militare dello Stato
e al suo sistema di istruzione, per non parlare della
disciplina intellettuale necessaria a mantenere le istituzioni esistenti,
è costantemente aumentato. Anche la maggior parte dei riformatori sociali di
tendenze estremiste ammettono ora, come premessa necessaria delle
loro previsioni future, una maggiore ingerenza dello Stato nel raggio di
azione dell'individuo. Questa tendenza non ha mancato di sollevare
proteste, formulate da Godwin agli inizi del XIX secolo e da Spencer nella
seconda metà dello stesso secolo; essa ha 135 portato Nietzsche ad
affermare che è meglio rifiutare la morale, se non le si può trovare altra
base che il sacrificio dell'individuo a favore del genere umano.
Questa critica delle dottrine morali correnti costituisce una
delle caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tanto più che il
suo movente principale non è tanto un'aspirazione all'indipendenza economica
(come è avvenuto nel XVIII secolo per tutti i difensori dei diritti
dell'individuo, Godwin escluso), quanto invece il desiderio
appassionato di indipendenza individuale in vista della creazione di un
nuovo e migliore ordine sociale, dove il benessere di tutti diventerà la base
per il completo sviluppo dell'individuo. Uno sviluppo insufficiente
dell'individuo conduce invece a una mentalità gregaria, caratterizzata
da mancanza di iniziativa e di forza creatrice personale. Ciò costituisce
uno dei difetti peculiari del nostro tempo. L'individualismo economico non ha
rispettato le sue promesse: non ha condotto al rigoglioso sbocciare
della personalità... D'altro canto, nel settore sociale l'opera creatrice
si è manifestata con estrema lentezza e l'imitazione resta il grande sistema
di diffusione delle innovazioni fatte dal progresso. Le nazioni moderne
ripetono la storia delle popolazioni barbare e delle città medievali, che
copiavano le une dalle altre i loro movimenti politici, religiosi ed
economici, e le loro «carte della libertà». Nazioni intere hanno di recente
assimilato con sorprendente rapidità la civiltà industriale e
militare europea, e queste riedizioni - non ancora riordinate - di antichi
modelli mostrano in modo chiarissimo la superficialità di ciò che chiamiamo
cultura e come tutto si basi su semplici modelli imitativi. È ora naturale
porsi questa domanda: le dottrine morali attualmente diffuse non hanno
contribuito a questa subordinazione imitativa? Non si sono date troppo da
fare a costruire un uomo che sia «automa di idee», nel senso indicato da
Herbart, un essere immerso nella contemplazione e che cova dentro tutte le
tempeste delle passioni? Non è giunto il momento di difendere
i 136 diritti dell'uomo pieno di energia, capace di amare con forza ciò
che è degno di amore e di odiare ciò che merita l'odio, sempre pronto a
combattere per l'ideale che esalta il suo amore e giustifica le sue
antipatie? I filosofi del mondo antico proposero una particolare
interpretazione della «virtù», diffusa anche oggi, nel senso di una
«saggezza » che incoraggia l'uomo a «sviluppare la bellezza del suo animo»
piuttosto che a lottare contro i mali del suo tempo a fianco dei suoi
«simili». Più tardi si chiamò virtù la «non resistenza al male», e per lunghi
secoli la «salute dell'anima», unita alla rassegnazione e
all'attitudine passiva verso il male, ha costituito l'essenza dell'etica
cristiana. Ne sono scaturiti una serie di sottili argomenti in favore
dell'«individualismo virtuoso» e l'apologia di una indifferenza monastica
verso i mali della società. Fortunatamente, comincia a farsi sentire una
reazione contro questo tipo di virtù egoista. E una domanda si fa avanti:
l'attitudine passiva a contatto del male non è una vigliaccheria criminale?
Non aveva ragione lo Zend-Avesta quando affermava che la lotta attiva
contro Ahriman è la condizione prima della virtù? Il progresso morale è
necessario, ma è impossibile senza il coraggio morale. Nel groviglio dei
problemi posti dalla dottrina morale, questi sono quelli che abbiamo potuto
discernere nell'attuale conflitto di idee. Tutti portano a una
conclusione fondamentale: la richiesta di un nuovo modo di intendere la
morale, in particolare i suoi princìpi essenziali che devono essere assai
flessibili per dare nuova vita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di
liberarla dalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali, come pure
dalle ristrette idee dell'utilitarismo borghese. Gli elementi per questa
nuova visione della morale esistono già. L'importanza della socialità e del
mutuo appoggio nell'evoluzione animale e nella storia dell'umanità può, mi
sembra, essere ammessa come una verità scientifica stabilita, e non più
ipotetica. Possiamo inoltre considerare come provato il fatto che
man 137 mano che il mutuo appoggio diventa, nella società, un costume
consolidato, realizzato per così dire istintivamente, questa pratica conduce
allo sviluppo del sentimento di giustizia, con il suo senso di uguaglianza
o equità come corollario obbligato, e all'attitudine a contenere i propri
impulsi nel nome di questa uguaglianza. L'idea che i diritti individuali sono
inviolabili, allo stesso modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si
sviluppa man mano che scompaiono le distinzioni di classe. Questa idea
diventa una nozione corrente quando una corrispondente trasformazione si fa
sentire nelle istituzioni sociali. Un certo grado di identificazione degli
interessi propri dell'individuo con quelli del suo gruppo ha
dovuto necessariamente esistere agli inizi della vita sociale; esso si
manifesta anche presso gli animali inferiori. Ma con il radicarsi dei
rapporti di uguaglianza e di giustizia nelle società umane, si è preparato il
terreno per lo sviluppo e l'estensione ulteriori di questi rapporti.
Grazie a questi l'uomo si è abituato a capire e a rilevare
le ripercussioni dei suoi atti sull'intera società, incominciando a
trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nel caso di dover rinunciare a
soddisfare un proprio desiderio; egli arriva ora a identificare i suoi
sentimenti con quelli degli altri, che si dimostrano pronti a donargli
le proprie forze senza attendere nulla in cambio. Questo genere di
sentimenti e di abitudini non egoiste, che si designano ordinariamente con i
nomi assai inesatti di altruismo e abnegazione, merita a parer mio solo
il nome di morale, benché la maggior parte dei pensatori continui a
confonderlo ancor oggi con il semplice senso di giustizia. Il mutuo
appoggio, la giustizia, la morale, sono i gradi ascendenti degli stati
psichici che si sono resi evidenti grazie allo studio del mondo animale e
dell'uomo. Essi sono una necessità organica, che ha in sé una
propria giustificazione e che conferma tutta l'evoluzione del mondo
animale, dai primi scalini (sotto forma di colonie di molluschi) su per la
successiva scala evoluti- 138 va fino alle più perfezionate società umane.
Possiamo dire che in questo vi è una legge generale e
universale dell'evoluzione organica, che agisce in modo che il mutuo
appoggio, la giustizia e la morale siano profondamente radicati nell'uomo con
tutta la potenza degli istinti innati. Il primo dei tre, l'istinto del mutuo
appoggio, è evidentemente il più forte; il terzo, il più tardo
ad apparire, è un sentimento incostante e considerato quello meno
obbligante. [...] Questa è la solida base che la scienza può fornirci
per l'elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistema etico. Invece
di proclamare il «fallimento della scienza», dobbiamo quindi esaminare come
sia possibile edificare un'etica scientifica con gli elementi acquisiti a
questo scopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoria dell'evoluzione.
[.] La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lo stesso
significato di vendetta, si riallaccia direttamente all'osservazione degli
animali. È assai probabile però che la stessa idea di ricompensa e castigo
(giusto e ingiusto) nei confronti degli animali, sia nata
nell'uomo primitivo dalla considerazione che gli animali si
vendicano dell'uomo che non li tratta come occorre. Questo pensiero è così
profondamente radicato nello spirito dei selvaggi del mondo intero che lo si
deve considerare come una delle nozioni fondamentali dell'umanità. A poco
a poco questa nozione si è espansa ed è diventata l'idea del Gran Tutto, in
cui tutte le parti si riuniscono in base a princìpi di mutuo appoggio. Questo
Gran Tutto sorveglia gli atti di tutti gli esseri viventi e, in ragione di
questa reciprocità, ha il compito di punire le azioni malvagie. Da questa
nozione è nata l'idea delle Erinni e delle Moire presso i Greci, delle Parche
presso i Romani, di Karma presso gli Indù. La leggenda greca delle gru
di Ibycus, che lega il mondo degli uomini a quello degli uccelli, e le
innumerevoli leggende orientali sono l'e- 139 spressione poetica di questa
stessa idea. Più tardi esse si sono estese ai fenomeni celesti: nei libri
sacri più antichi dell'India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio, esseri
viventi analoghi agli animali. Ecco ciò che l'uomo primitivo ha visto nella
natura, ecco gli insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l'influenza del
nostro insegnamento scolastico, che ignora sistematicamente la natura ed
estrinseca gli atti più normali dell'esistenza facendo ricorso alla
superstizione o alle astrusità metafisiche, noi abbiamo cominciato
a dimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri antenati dell'età
della pietra, la socialità e il mutuo appoggio all'interno della tribù
dovevano essere fatti del tutto abituali e generali in quanto non poteva
esserci per loro altra rappresentazione della vita. L'idea dell'uomo come
essere isolato è un frutto della civiltà più avanzata, un prodotto delle
leggende create in Oriente tra uomini che rifuggivano la società.
Lunghi secoli sono stati sprecati per diffondere nell'umanità questa idea
astratta. Agli occhi degli uomini primitivi l'esistenza di un essere isolato
appariva così estranea, così rara e contraria alla natura degli esseri
viventi, che quando vedevano la tigre, il tasso o il toporagno condurre
una vita isolata, oppure un albero crescere solo fuori dalla foresta,
restavano tanto colpiti da affidare le loro impressioni alla leggenda per
spiegare un fenomeno talmente strano. Non si sono mai create leggende per
spiegare la vita in società, ma sempre per spiegare un esempio di vita
isolata. Spesso, se l'eremita non era un saggio che si ritirava
temporaneamente dal mondo, per meglio meditare sui suoi destini, e non
era neppure uno stregone, era allora un bandito cacciato dal suo gruppo
per qualche grave violazione dei costumi stabiliti dalla vita comunitaria.
Esso aveva compiuto un atto talmente in contrasto con il modo di
esistenza abituale che la società lo aveva espulso. Frequentemente si
trattava di uno stregone cui si attribuivano poteri sulle forze del male e in
rapporto con i cadaveri, fonti di infezione. Per questo si aggirava solo
nella notte perse- 140 guendo nell'oscurità i suoi disegni
malvagi. Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con
questo orientamento che lavora lo spirito dell'uomo: la vita sociale, cioè
noi e non io, ecco il modo di esistenza naturale. Si tratta della vita stessa
in azione. Per questo «noi» deve essere stata la forma di pensiero
comune dell'uomo primitivo, una «categoria» del suo spirito, come direbbe
Kant. Con questa identificazione, o meglio con questa
dissoluzione dell'«io» nella tribù e nella popolazione, vengono gettati i
rudimenti di tutto il pensiero etico, di tutte le nozioni morali.
L'affermazione dell'individualità è venuta molto più tardi. Ancora adesso, la
personalità, l'«individuo», quasi non esistono nella mentalità dei
selvaggi primitivi. Il primo posto appartiene nel loro spirito al clan,
con i suoi costumi ben definiti, i suoi pregiudizi, le sue credenze, le sue
difese, le sue abitudini, i suoi interessi. È in questa identificazione
costante dell'umanità con il tutto che si rinviene l'origine dell'etica; per
conseguenza è da essa che sono nate le idee di giustizia e le idee ancora
più elevate di morale. [...] La natura è stata quindi la prima ad
insegnare all'uomo la morale. Non quel genere di natura che descrivono i
filosofi nel chiuso dei loro studi, o i naturalisti che non la studiano se
non attraverso gli esemplari senza vita dei musei; ma la natura di cui si
sono occupati i grandi iniziatori della zoologia descrittiva
studiandola sul continente americano (con una popolazione all'epoca ancora
ridotta), in Africa e in Asia, cioè studiosi come Audubon, Asara, Wied, Brehm
e altri. Ci riferiamo, pertanto, a quella natura cui pensava Darwin quando
ha scritto, ne L'origine dell'uomo, una breve esposizione dell'origine del
senso morale nell'individuo. È fuor di dubbio che l'istinto di socialità
ereditato dall'uomo, e pertanto profondamente radicato in lui,
ha 141 dovuto via via svilupparsi e fortificarsi a seguito
anche dell'aspra lotta per l'esistenza. [.] I primi elementi di questa
morale si trovano, come si è detto, nel sentimento di socialità. L'istinto
gregario, il bisogno di aiuto reciproco, esistono presso tutti gli
animali e si sono sviluppati in seguito nelle società umane primitive.
D'allora in poi diventa naturale che l'uomo, grazie all'esistenza del
linguaggio che sviluppa la memoria e crea la tradizione, stabilisca regole di
vita molto più complesse di quelle esistenti presso gli
animali. Successivamente, con la nascita della religione, anche nelle sue
forme più grossolane, un nuovo elemento viene introdotto nell'etica umana,
elemento che contribuisce a darle una certa stabilità e, più tardi, un
certo spirito e un certo idealismo. Con l'evolversi della vita sociale, la
nozione di equità nelle relazioni reciproche viene a prendere un posto
via via più grande. I primi rudimenti della giustizia, sotto forma di
parità di trattamento, si osservano già presso gli animali, in particolare i
mammiferi. Infatti la madre allatta diversi piccoli senza discriminazioni,
mentre nei giochi si hanno delle regole stabilite e obbligatorie per tutti
indistintamente. Ma il passaggio dall'istinto di socialità, cioè dalla
semplice attrazione, dal semplice bisogno di vivere in mezzo ai propri
simili, alla concezione della necessità della giustizia nei rapporti
reciproci si effettua nell'uomo, nell'interesse stesso della vita sociale.
In ogni società infatti i desideri e le passioni di un individuo urtano
contro i desideri e le passioni degli altri individui anche loro membri della
società. Questi conflitti condurrebbero fatalmente a continue discordie e
alla disgregazione finale della società senza la nozione, elaborata al
contempo tra gli uomini (così come era già stata elaborata tra taluni
animali), di uguaglianza tra tutti i membri della società. Questa nozione
fa nascere, a poco a poco, quella di equità, che esprime, come dice la stessa
parola (aequitas), un'idea 142 di uguaglianza. È per questo che gli
antichi rappresentavano la giustizia sotto l'aspetto di una donna con
gli occhi bendati e una bilancia in mano. [...] È certo che in tutte le
società, a qualsiasi grado di evoluzione si trovino, vi sono sempre stati e
sempre vi saranno individui che vogliono approfittare della loro forza,
della loro abilità, del loro acume o del loro coraggio per sottomettere le
volontà altrui; e alcuni raggiungono lo scopo. Se ne trovano certamente anche
presso i popoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le razze, a
tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli, vediamo anche che, per
controbilanciare le loro azioni, compaiono dei costumi diretti a impedire
l'espandersi dell'individuo a spese della società. Tutte le istituzioni
che l'umanità ha elaborato nelle diverse epoche - il clan, la comunità
rurale, la città, le repubbliche con le loro assemblee popolari, l'autonomia
delle parrocchie e delle province, il governo rappresentativo ecc. - tutte
avevano lo scopo di proteggere la società contro la volontà individuale di
questi uomini e contro la nascita del loro potere. [.] Tutta la storia
dell'umanità può essere considerata, in definitiva, come la manifestazione di
due tendenze: da una parte, la tendenza degli individui o dei gruppi
a impadronirsi del potere per sottomettere le grandi masse al loro
dominio; dall'altra, la tendenza a mantenere l'uguaglianza (almeno tra le
persone di sesso maschile) e a resistere a questa conquista del potere, o
almeno a limitarla, cioè a mantenere la giustizia all'interno del clan,
della tribù o della federazione dei clan. Quest'ultima tendenza si manifesta
in maniera nettissima anche in seno alle città libere del Medio
evo, soprattutto durante i secoli successivi all'emancipazione dai signori
feudali. Le città libere erano in ultima analisi delle unioni difensive di
cittadini che si mettevano insieme per lottare contro i feudatari vicini.
Ma ben presto la popolazione di queste città si divise in 143 strati.
Inizialmente, il commercio era praticato dalla città intera, e infatti i
prodotti delle industrie urbane e le merci acquistate nelle campagne erano
esportate dalla città stessa, tramite alcuni mandatari, e il
profitto restava alla città nel suo complesso. A poco a poco, però, da
sociale il commercio divenne privato, arricchendo non solo le città ma in
particolare i liberi mercanti (mercatori libri) che, soprattutto dopo le
Crociate, intrapresero un attivo commercio con l'Oriente.
Successivamente nacque la classe dei banchieri alla quale si rivolgevano,
in caso di bisogno, non solo i nobili cavalieri decaduti ma, via via, le
stesse città. È così che all'interno delle città, un tempo libere, si era
andata costituendo una classe aristocratica di mercanti che le dominava e che
dava il suo sostegno al papa o all'imperatore, nell'intento di avere dalla
loro questa o quella città, oppure a un re o a un principe che,
interessato alla conquista di una città, si appoggiava ai ricchi mercanti
oltre che alla popolazione più povera. Gli Stati centralizzati moderni si
sono formati in questo modo. [.] L'assoggettamento delle piccole unità
alle più forti e la concentrazione del potere vennero poi completati con la
formazione dei grandi Stati politici. Naturalmente una tale
trasformazione, fondamentale per la vita pubblica come per le rivolte
religiose o le guerre, non mancò di imprimere il suo modello
all'insieme delle idee morali di ogni Paese e di ogni epoca. Un giorno
sarà fatto uno studio dell'evoluzione morale in rapporto alle modificazioni
della vita sociale. Per adesso questo campo viene lasciato dalla scienza
delle idee e delle dottrine morali (l'etica) a un'altra scienza
(la sociologia), che è la scienza della vita e dell'evoluzione delle
società. Per evitare di oscillare tra questi due campi è bene, per il nostro
lavoro, limitarci a quello di stretta competenza dell'etica. Presso tutti
gli uomini, per quanto rudimentale sia il loro grado di sviluppo, come presso
certi animali sociali, constatiamo - come abbiamo fatto personalmente -
cer- 144 ti tratti che attengono alla morale. In tutti i
gradi dell'evoluzione umana troviamo la socialità e il
sentimento comunitario. Alcuni uomini si mostrano più pronti ad aiutare
gli altri, qualche volta anche a rischio della loro stessa vita. Queste
qualità contribuiscono a mantenere e sviluppare la vita sociale che, a sua
volta, assicura a tutti la vita stessa e il benessere. Esse vengono man
mano considerate, anche nelle epoche più remote, non solo qualità
desiderabili ma necessarie. I vecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi
e, più tardi, i preti raffigurano questi tratti della natura umana come
effetti di ordini venuti dall'alto, emanati da forze misteriose, che siano
dei o un creatore unico. Ma fin dai tempi più remoti, in particolare dopo
l'epoca della fioritura delle scienze in Grecia, cioè da più di 2500
anni, alcuni pensatori si sono posti il problema dell'origine naturale di
quei sentimenti e di quelle idee morali che impediscono agli uomini di
compiere in generale atti nocivi per i loro simili o per i legami societari.
Essi hanno cercato, in altri termini, una spiegazione naturale a ciò che
si chiama morale dell'uomo e a ciò che in tutte le società è
indiscutibilmente considerato come desiderabile. Tentativi di questo genere
sembra siano stati fatti anche in epoche molto remote, e infatti se ne
trovano tracce anche in Cina e in India. Ma solo quelli della Grecia
antica sono arrivati fino a noi in forma scientifica. In Grecia, per quasi
quattro secoli, tutta una serie di pensatori - Socrate, Platone, Aristotele,
Epicuro e, più tardi, gli stoici - hanno esaminato seriamente, da un punto
di vista filosofico, le fondamentali questioni che seguono: . da dove
provengono nell'uomo le regole morali in grado di contrastare le sue passioni
e spesso di frenarle? . da dove deriva il sentimento obbligante della
morale, sentimento che si manifesta anche presso uomini che negano le
regole morali esistenziali? 145 . si tratta forse del frutto della nostra
educazione, di cui saremmo incapaci di sbarazzarci, come
affermano attualmente alcuni pensatori e come hanno già affermato in
passato alcuni negatori della morale? . oppure la coscienza dell'uomo è
frutto della natura stessa? E in questo caso, non si è radicata nel corso
della sua vita in società durante migliaia e migliaia di anni? . e se è
così, bisogna allora sviluppare questa coscienza, oppure sarebbe meglio
distruggerla e incoraggiare il sentimento opposto, l'egoismo, secondo
cui l'ideale dell'uomo di cultura è negare ogni morale? Dopo più di
duemila anni i pensatori lavorano ancora su questi problemi, inclinando
periodicamente ora verso l'una ora verso l'altra delle soluzioni prospettate.
Dai loro lavori è nata una scienza: l'etica. 146 VII In Campi,
fabbriche, officine non è delineato soltanto il concetto di piccola comunità,
ma anche quello di integrazione fra città e campagna quale risoluzione
sintetica del trinomio uomo-natura-ambiente. Per Kropotkin un piano della
libertà e dell'uguaglianza deve esplicarsi attraverso due aspetti
complementari: l'integrazione in ogni individuo del lavoro manuale con quello
intellettuale, l'integrazione geografico-sociale della città con
la campagna. I due aspetti sono complementari perché mirano al superamento
di due forme dello stesso fenomeno del dominio, così com'è concepito dal più
classico schema anarchico, vale a dire quale rapporto che va dall'alto al
basso, dal centro alla periferia, dal punto più alto della piramide alla
linea più bassa della base. In questo senso diventa logico modellare le
istituzioni umane sui ritmi naturali della crescita sociale,
immettendo nella creazione culturale delle forme continuamente adattabili
e funzionali al senso spontaneo dello sviluppo collettivo. La rete di questa
comunità si compone di un'infinita varietà di associazioni federate di
tutte le dimensioni e gradi, locali, regionali, nazionali e
internazionali - temporanee o permanenti - per tutti gli scopi possibili.
Come nella vita organica, l'armonia risulta dall'assestamento e
riassestamento, dall'equilibrio con- 147 tinuo di forze e di influenze
diverse secondo una radicale insorgenza dal basso, una irreversibile
immanenza del sociale che deve rendere impossibile ogni
costruzione politica imposta dall'alto. In altri termini, i problemi della
convivenza non vanno risolti attraverso mega-strutture, ma
riformulando completamente le domande di una socialità integrata
e controllabile, interrogando questa rispetto ai bisogni effettivi della
comunità che si trova a vivere in un determinato contesto fisico, sotto un
determinato clima e perciò carica di un determinato passato. Scrive
Lewis Mumford in La città nella storia: «Con quasi mezzo secolo di
anticipo sul pensiero tecnico ed economico contemporaneo, Kropotkin aveva
intuito che la duttilità e l'adattabilità delle comunicazioni e dell'energia
elettrica, unite alla possibilità di un'agricoltura intensiva
e biodinamica, avevano posto le basi di un'evoluzione urbana più
decentrata da svolgersi attraverso piccole comunità basate sul contatto umano
diretto e provviste dei vantaggi della città oltre che di quelli della
campagna. Kropotkin si rese conto che i nuovi mezzi di trasporto e di
comunicazione, uniti alla possibilità di trasmettere l'energia elettrica
attraverso una rete e non mediante una linea unidimensionale, mettevano le
piccole comunità sullo stesso piano della supercongestionata metropoli per
quanto concerneva la possibilità delle attrezzature tecniche essenziali.
[...] Prendendo come base la piccola comunità, egli colse l'opportunità di
una vita locale più responsabile e più sensibile, che lasciasse maggior
campo d'azione a quegli aspetti umani trascurati e frustrati
dall'organizzazione di massa». I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall'edizione italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822, nella
traduzione (rivista) di Franco Marano. 148 PICCOLO È BELLO Le due
attività sorelle dell'agricoltura e dell'industria non sono sempre state così
estranee l'una all'altra come lo sono oggi. C'è stato un tempo, e quel tempo
non è molto lontano, in cui entrambe erano intimamente legate: i villaggi
ospitavano allora una molteplicità di officine e gli artigiani delle città
non abbandonavano l'agricoltura; molte città non erano altro che
villaggi industriali. Se la città medievale ha costituito la culla di
quelle industrie che confinavano con l'arte e che avevano lo scopo di
soddisfare i bisogni delle classi più agiate, era pur sempre la produzione
rurale a soddisfare i bisogni delle masse, come avviene attualmente
in Russia e in buona parte anche in Germania e in Francia. Ma più tardi,
con l'avvento delle turbine, del vapore, con lo sviluppo della meccanica, i
legami che una 149 volta vincolavano la fattoria all'officina si sono
spezzati. Le fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abbandonati. Ci
si è andati aggregando lì dove la vendita dei prodotti risultava più facile,
o dove le materie prime e il combustibile potevano essere ottenuti a miglior
prezzo. Nuove città sono state costruite e le vecchie si sono rapidamente
estese, mentre i campi venivano progressivamente disertati. Milioni di
contadini, strappati a viva forza dai campi, si sono raccolti nelle città in
cerca di lavoro, dimenticando ben presto i vincoli che una volta li
univano alla terra. E noi, nella nostra ammirazione per i prodigi compiuti
dalla nuova organizzazione industriale abbiamo trascurato i vantaggi della
vecchia, in cui chi dissodava il suolo era al tempo stesso un
lavoratore industriale. Abbiamo così condannato alla sparizione tutti quei
settori dell'industria che un tempo solevano prosperare nei villaggi,
condannando a sua volta nell'industria tutto ciò che non somigliava alla
grande fabbrica. È vero, i risultati sono stati straordinari per
quanto riguarda l'aumento delle capacità produttive dell'uomo Ma si sono
rivelati terribili per milioni di esseri umani, precipitati nella miseria,
che nelle nostre città hanno potuto contare su mezzi di sussistenza precari.
Inoltre, nel suo complesso, la nuova organizzazione ha provocato le stesse
condizioni anomale che ho cercato di tratteggiare nei primi due capitoli.
Siamo stati cacciati, così, in un vicolo cieco, e mentre si va
delineando l'imperiosa necessità di un cambiamento totale degli attuali
rapporti tra lavoro e capitale, si è reso anche inevitabile un completo
rimodellamento di tutta la nostra organizzazione industriale: i Paesi
industriali devono tornare all'agricoltura, devono trovare i mezzi più
opportuni per combinarla con l'industria, e devono farlo senza perdere
tempo. Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una
tale combinazione è lo scopo delle pagine che seguono. È possibile da un
punto di vista tecnico? È auspicabile? Esistono, nell'attuale realtà
industriale, caratteri tali 150 da garantirci che un cambiamento nella
direzione accennata potrebbe trovare gli elementi necessari alla sua
realizzazione? Sono queste le domande che ci si pongono. E per rispondere non
c'è, ritengo, altro mezzo che studiare quell'immenso ma trascurato e
sottovalutato settore industriale che va sotto il nome di officine rurali,
lavorazioni a domicilio e artigianato, e studiarlo non nelle opere degli
economisti, troppo inclini a considerarlo come una forma superata
d'industria, ma nella loro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei loro
fallimenti e nelle loro conquiste. Chi non ne ha fatto l'oggetto di uno
studio specifico difficilmente si rende conto della molteplicità di
forme organizzative riscontrabile nelle piccole industrie.
Esistono, innanzi tutto, due grandi categorie: le industrie attive nei
villaggi in connessione con l'agricoltura e quelle attive nelle città o nei
villaggi senza alcuna connessione con la terra, nelle quali i lavoratori
traggono appunto i propri guadagni esclusivamente
dall'attività industriale. In Russia, in Francia, in Germania, in Austria,
ecc., milioni e milioni di lavoratori rientrano nella prima categoria.
Possiedono e lavorano la terra, allevano una o due vacche, molto spesso dei
cavalli, e coltivano i campi, o i frutteti, o gli orti, considerando il
lavoro industriale come un'occupazione secondaria. Soprattutto in quelle
regioni in cui l'inverno dura a lungo e non è assolutamente possibile
lavorare la terra per parecchi mesi l'anno, questa forma di piccola industria
è largamente diffusa. In Inghilterra, al contrario, ci
imbattiamo nell'estremo opposto. Sono poche infatti in questo Paese le
piccole industrie sopravvissute in connessione con l'agricoltura; e tuttavia
centinaia di botteghe e piccole officine si rintracciano nei sobborghi e nei
bassifondi delle grandi città come Sheffield e Birmingham, dove grandi
masse di popolazione si procacciano da vivere con una molteplicità di
attività artigianali. Tra questi due estremi abbiamo evidentemente una gran
varietà di forme intermedie, a seconda dei legami più o
meno 151 stretti che continuano a sussistere con la terra. Vi
sono dunque grossi paesi e persino città popolate da lavoratori occupati
in piccole industrie, anche se la maggior parte di loro coltiva un orticello,
un frutteto o un campo, oppure si avvale semplicemente di un qualche
diritto sui pascoli comuni, a differenza di quelli che
vivono esclusivamente dei propri redditi industriali. Quanto alla
commercializzazione dei prodotti, le piccole industrie offrono la stessa
varietà di organizzazione. E anche qui abbiamo due grandi settori. Nel
primo il lavoratore vende il proprio prodotto direttamente al grossista; è
il caso degli ebanisti, dei tessitori e dei fabbricanti di giocattoli.
Nell'altra grande categoria il lavoratore produce per un «padrone», e questi
vende il prodotto a un grossista o agisce semplicemente da
intermediario raccogliendo a sua volta le commissioni da qualche grossa
azienda. È questa «l'organizzazione del sudore» propriamente detta, in cui
troviamo una miriade di piccole industrie. È il caso di parte dei
fabbricanti di giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte
di confezioni, molto spesso per quelle di Stato, delle donne che cuciono e
abbelliscono i gambali per i calzaturifici, e che spesso trattano con la
fabbrica come con un intermediario del «sudore», ecc. In tale organizzazione
per la commercializzazione dei prodotti si riscontrano ovviamente tutte le
gradazioni possibili di feudalizzazione e sottofeudalizzazione del
lavoro. E ancora, quando si considerano gli aspetti industriali o,
piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si scopre ben presto la stessa
varietà di caratteri. Anche qui abbiamo due grandi settori: da una parte le
lavorazioni a domicilio - vale a dire quelle esercitate in casa
dal lavoratore, con l'aiuto della famiglia o di un paio di salariati - e
quelle esercitate in officine distaccate. In entrambi i settori, ci si
imbatte in tutte le varietà appena menzionate per quanto riguarda la
connessione con la terra e con i diversi modi di disporre del
prodotto. Tutte le attività possibili - la tessitura, la lavorazione del
legno, del metallo, dell'osso, della gomma, ecc. - 152 possiamo ritrovarle
sotto la categoria delle lavorazioni a domicilio, con tutte le possibili
gradazioni tra la forma prettamente «domestica» di produzione, l'officina e
la fabbrica. Così, accanto alle attività industriali esercitate
interamente in casa da uno o più membri della famiglia, vi sono le
attività industriali in cui il proprietario tiene una piccola officina
annessa alla casa e vi lavora con tutta la famiglia o con pochi «aiutanti», e
cioè dei salariati. In alcuni casi l'artigiano dispone invece di
un'officina a parte, dotata di energia idraulica, come nel caso dei
fabbricanti di coltelli di Sheffield. In altri, diversi lavoratori si mettono
insieme in una piccola fabbrica di loro proprietà, o affittata in
associazione, o dove possono lavorare per un certo affitto settimanale. E in
ognuno di questi casi possono lavorare direttamente per il commerciante, o
per un piccolo padrone, o per un intermediario. Uno stadio ulteriore di
questo sistema è la grande fabbrica, specialmente di abiti già confezionati,
in cui centinaia di donne pagano un tanto per la macchina da cucire, il
gas, i ferri a gas, ecc., e a loro volta ricevono un tanto per ogni capo di
abbigliamento che cuciono o per ogni parte di esso. Immense fabbriche del
genere esistono in Inghilterra, e si è appreso dalle testimonianze rese
davanti alla «Commissione del sudore», che in tali laboratori le donne
vengono terribilmente sfruttate, al punto che il prezzo completo di ogni capo
di vestiario leggermente rovinato viene dedotto dai loro bassissimi salari
a cottimo. E, infine, c'è la piccola officina (spesso con presa d'energia
motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditore impiega da 3 a 10 lavoranti
salariati, vendendo il prodotto a un commerciante o a un imprenditore più
grosso: con tutte le possibili gradazioni tra un'officina del genere e la
fabbrica di piccole dimensioni, in cui a volte alcuni salariati (tra i 5 e i
20) vengono impiegati da un produttore indipendente. Nell'industria tessile,
la tessitura viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un
pic- 153 colo imprenditore che impiega talvolta solo un
ragazzo talvolta diversi tessitori. Questi, dopo avere avuto il filato da
un grosso imprenditore, paga un operaio specializzato per metterlo sul telaio
e crea quanto occorre per tessere un determinato, e a volte molto
sofisticato, disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i nastri con il
suo telaio, o con un telaio preso a nolo, viene pagato per ogni pezzo di
stoffa secondo una scala molto complicata di compensi pattuiti tra padroni e
lavoranti. Quest'ultima forma, come vedremo tra poco, oggi è
largamente diffusa, soprattutto nelle industrie della lana e della seta, e
continua a esistere accanto alle grandi fabbriche in cui 50, 100 o 5.000
salariati, a seconda dei casi, lavorano con il macchinario dell'imprenditore
e vengono pagati a salari giornalieri o settimanali. Le piccole industrie
sono dunque un mondo che, in modo abbastanza sorprendente, continua a
esistere anche nei Paesi più industrializzati, fianco a fianco con le
grandi fabbriche. E in questo mondo dobbiamo ora penetrare per gettarvi
un'occhiata: solo un'occhiata perché occorrerebbero pagine e pagine per
descriverne l'infinita varietà non solo di attività e organizzazione ma
anche di interrelazione con l'agricoltura e con le altre industrie. La
maggior parte delle attività artigianali, fatta eccezione per alcune di
quelle connesse con l'agricoltura, si trovano, dobbiamo riconoscerlo, in
posizione decisamente precaria. I guadagni sono molto bassi e l'impiego è
spesso incerto. La giornata lavorativa è più lunga di due, tre o quattro ore
rispetto a quella delle fabbriche ben organizzate, e in certe stagioni
raggiunge una durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti e si
protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è molto più alla mercé del
commerciante o dell'imprenditore, e l'imprenditore è alla mercé del
grossista. Entrambi rischiano di divenire schiavi di quest'ultimo,
indebitandosi con lui. In alcune delle attività artigianali,
soprattutto nella fabbricazione di tessuti comuni, i
lavoratori sopravvivono in condizioni spaventosamente misere. 154 Ma
chi pretende che tale miseria costituisca la regola si sbaglia del tutto.
Chiunque abbia vissuto, ad esempio, tra gli orologiai della Svizzera e ne
conosca intimamente il modo di vivere, ammetterà che le condizioni di
questi lavoratori sono di gran lunga superiori, sotto ogni riguardo,
morale e materiale, alle condizioni di milioni di operai di fabbrica. Persino
durante la crisi dell'orologeria, che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le
loro condizioni sono rimaste di gran lunga preferibili alle
condizioni degli operai di fabbrica durante una qualsiasi
crisi dell'industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratori ne erano
ben coscienti. Ogni volta che scoppia una crisi in qualche
settore artigianale, non manca chi profetizza che quel mestiere si avvia a
scomparire. Durante la crisi di cui, vivendo tra gli orologiai svizzeri, io
stesso fui testimone nel 1877, l'impossibilità di salvaguardare questa
attività di fronte alla concorrenza degli orologi fatti a macchina era
l'argomento principe della stampa. Le stesse cose furono dette, nel 1882, a
proposito dell'industria serica di Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una
crisi dell'artigianato. E tuttavia, nonostante le tetre profezie e le
ancor più tetre prospettive per i lavoratori, quella forma d'industria non è
ancora scomparsa. E anche quando ne scompare qualche settore, qualcosa
comunque rimane: alcuni rami continuano ad esistere come piccole industrie
(orologeria di precisione, sete più raffinate, velluti di prima qualità,
ecc.), o al posto dei vecchi nascono nuovi settori a essi connessi, o ancora
la piccola industria, avvantaggiandosi di un motore meccanico, assume una
nuova forma. La scopriamo quindi dotata di straordinaria vitalità. Essa passa
attraverso varie modifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta
senza abbandonare la speranza in tempi migliori. In ogni caso, le sue non
sono le caratteristiche di un'istituzione in decadenza. In alcune attività
industriali la fabbrica ha senza dubbio la meglio, ma vi sono altri settori
in cui i laboratori artigianali mantengono le loro posizioni. E nella
stessa industria tessile che tanti vantaggi pre- 155 senta per il sistema
industriale - specialmente in conseguenza dell'ampio impiego lavorativo di
donne e bambini - il telaio a mano compete ancora con quello
meccanico. Nel complesso, la trasformazione dell'artigianato in grande
industria procede con una lentezza che non può non sorprendere anche coloro
che sono convinti della sua necessità. Oltretutto, a volte assistiamo anche
al processo inverso: di tanto in tanto, ovviamente, e solo per un certo
periodo. Non dimenticherò mai il mio stupore quando constatai a Verviers, una
trentina di anni fa, come la maggior parte delle fabbriche di stoffe
di lana - immensi edifici affacciati sulla strada con più di cento
finestre l'uno - fosse immersa nel silenzio e il loro costoso macchinario
lasciato ad arrugginire, mentre le stoffe venivano tessute a mano nelle case
dei tessitori per i proprietari di quelle stesse fabbriche.