Se partiamo dalla supposizione che un dato spazio è<BR>popolato da animali al massimo della sua capacità e<BR>che, di conseguenza, si scatena un'aspra competizione<BR>tra tutti i suoi abitanti per assicurarsi il cibo quotidiano,<BR>allora la comparsa di una nuova varietà vincente<BR>significherebbe in molti casi (benché non sempre) la<BR>90<BR>comparsa di individui capaci di appropriarsi di una<BR>quota superiore alla loro porzione di mezzi di sussistenza.<BR>Il risultato sarebbe che, affamandole, questi individui<BR>trionferebbero prima sulla varietà primitiva che<BR>non possiede le nuove modificazioni e poi sulle varietà<BR>intermedie che non le posseggono al medesimo grado. È<BR>possibile che dapprima Darwin si sia rappresentato in<BR>questo modo la comparsa di nuove varietà, o almeno<BR>l'impiego frequente della parola «sterminio» dà questa<BR>impressione. Ma Darwin e Wallace conoscevano troppo<BR>bene la natura per non accorgersi che questo processo<BR>di cose non è il solo possibile, e oltretutto non è affatto<BR>necessario.<BR>Se le condizioni fisiche e biologiche d'una data regione,<BR>l'estensione dell'area occupata da una specie e le<BR>abitudini dei membri di questa specie restassero invariate,<BR>la comparsa subitanea d'una nuova varietà in tali<BR>condizioni potrebbe significare l'annientamento per<BR>fame e lo sterminio di tutti gli individui non sufficientemente<BR>dotati delle nuove qualità proprie alla nuova<BR>varietà. Ma un tale concorso di circostanze è precisamente<BR>ciò che in natura non si vede. Ogni specie tende<BR>continuamente a estendere il proprio territorio; le<BR>migrazioni verso nuovi spazi sono la regola, tanto presso<BR>la lenta lumaca quanto presso il rapido uccello; le<BR>condizioni fisiche si trasformano incessantemente in<BR>ogni regione; e le nuove varietà animali in un gran<BR>numero di casi, se non nella maggioranza, si formano<BR>non grazie allo sviluppo di nuove armi capaci di strappare<BR>il nutrimento ai propri simili - il nutrimento non è<BR>che una delle centinaia di condizioni necessarie alla<BR>vita - ma, come lo stesso Wallace mostra in un interessante<BR>paragrafo sulla «divergenza dei caratteri», grazie<BR>all'adozione di nuove abitudini, allo spostamento verso<BR>nuovi habitat e all'assunzione di nuovi alimenti. In questi<BR>casi non ci sarà sterminio e neppure competizione,<BR>poiché il nuovo adattamento porta ad attenuare la competizione,<BR>ammesso che effettivamente ci fosse. Tuttavia<BR>ci sarà, dopo un certo periodo, assenza di forme<BR>91<BR>intermedie, semplicemente per effetto della sopravvivenza<BR>dei meglio dotati rispetto alle nuove condizioni; e<BR>ciò sempre nell'ipotesi dello sterminio delle forme primitive.<BR>È appena necessario aggiungere che se ammettiamo<BR>con Spencer, con tutti i lamarckiani e con Darwin<BR>stesso, l'influsso moderatore dell'ambiente sulle specie,<BR>diventa ancor meno necessario ammettere lo sterminio<BR>delle forme intermedie. [.]<BR>Fortunatamente la competizione non è la regola né<BR>nel mondo animale né nel genere umano. Negli animali<BR>è ristretta a periodi eccezionali, mentre la selezione<BR>naturale trova occasioni decisamente migliori per operare.<BR>Condizioni migliori sono appunto create dalla eliminazione<BR>della competizione per mezzo del reciproco<BR>aiuto e del mutuo appoggio. Nella grande lotta per la<BR>vita - per una vita di massima pienezza e intensità a<BR>fronte di un minimo dispendio di energia - la selezione<BR>naturale cerca sempre i mezzi per evitare la competizione<BR>per quanto è possibile. [...]<BR>È questa la tendenza della natura, sempre presente<BR>pur se non sempre pienamente realizzata. È questa la<BR>parola d'ordine che ci viene dal cespuglio e dalla foresta,<BR>dal fiume e dall'oceano: «Unitevi! Praticate il<BR>mutuo appoggio! Esso è il mezzo più sicuro per dare a<BR>tutti e a ciascuno il massimo di sicurezza, è la migliore<BR>garanzia di esistenza e di progresso fisico, intellettuale<BR>e morale». Ecco ciò che la natura ci insegna, e che quegli<BR>animali che hanno raggiunto la più elevata posizione<BR>nelle loro rispettive classi mettono in pratica. Ma è<BR>pure ciò che l'uomo, anche l'uomo più primitivo, ha fatto;<BR>ed è proprio per questo che l'uomo ha potuto raggiungere<BR>la posizione che occupa attualmente, come<BR>vedremo nel capitolo seguente, consacrato al mutuo<BR>appoggio nelle società umane.<BR>92<BR>V<BR>Lo stesso paradigma interpretativo che regge l'idea<BR>dell'aiuto intraspecifico costituisce anche la base teorica<BR>del concetto di solidarietà, le cui linee di fondo sono<BR>ricavate, non a caso, dal Mutuo appoggio, con la differenza<BR>però che qui l'attenzione è rivolta al mondo storico-<BR>umano. La filosofia kropotkiniana della storia è debitrice<BR>dell'evoluzionismo in quanto afferma l'esperienza<BR>comune dell'umanità, nel senso che le necessità della<BR>vita sono sostanzialmente le stesse, così che nel corso del<BR>tempo gli uomini finiscono per percorrere canali pressoché<BR>uniformi.<BR>Secondo Kropotkin la storia dell'uomo non ha fondazione<BR>autonoma, non è creatrice di proprie forme e di<BR>proprie leggi, perché è una variabile della più grande<BR>storia della natura; come questa, a sua volta, non è altro<BR>che l'espressione dinamica della vita intesa nel senso<BR>universale del termine. Le leggi di questa si impongono<BR>alle vicende degli uomini e perciò, da questo punto di<BR>vista, la lotta tra libertà e autorità, tra uguaglianza e<BR>disuguaglianza si delinea quale momento di una continua<BR>opposizione trasversale tale da determinare tutti i<BR>possibili comportamenti storici. Ne consegue che nel<BR>pensiero kropotkiniano non c'è un concetto di lotta sociale<BR>inteso quale lotta di classe, appunto perché il conflitto<BR>93<BR>non è precipuo di una specifica situazione spazio-temporale,<BR>ma scaturisce da una contrapposizione universale:<BR>il mutuo appoggio e la lotta sono momenti che attraversano<BR>tutta la storia dell'uomo essendo insiti alle leggi<BR>della vita; anzi, sono la vita stessa intesa sul piano storico-<BR>umano.<BR>Per mettere in luce la pratica della solidarietà, egli<BR>sceglie l'età medievale e moderna perché, a suo giudizio,<BR>questo periodo mostra con maggior chiarezza lo spirito<BR>comunitario. L'età comunale raffigura, in generale, un<BR>modello societario fondato sull'autonomia e sulla decentralizzazione.<BR>Testimonia un'epoca di libertà e di creatività<BR>popolare, di autonoma iniziativa individuale e di<BR>spontanea edificazione collettiva, premesse fondamentali<BR>per una democrazia dal basso e per un esercizio effettivo<BR>del potere da parte del popolo. La linfa vitale della<BR>storia, la sua ricorrente fecondità creativa, si rinviene<BR>nelle masse popolari anonime che con le loro migliaia di<BR>atti quotidiani di concreta e spontanea solidarietà collettiva<BR>hanno contribuito alla costruzione societaria, a<BR>stratificare cioè, nel corso dei secoli, quella civiltà selezionata<BR>di pratiche, di consuetudini e di saperi che globalmente<BR>costituiscono il work in progress della perfettibilità<BR>umana.<BR>La sua tesi si riallaccia comunque, senza soluzione di<BR>continuità, con l'idea proudhoniana dell'autonomia del<BR>sociale rispetto all'eteronomia del politico; vuole confermare<BR>l'esistenza di una spontanea autofondazione della<BR>società quale premessa storica decisiva per concepire la<BR>possibilità di una sua edificazione anarchica.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana del 1925 de Il mutuo appoggio, nella traduzione<BR>(rivista) di Camillo Berneri.<BR>94<BR>LA SOLIDARIETÀ UMANA<BR>Nel precedente capitolo è stata brevemente analizzata<BR>l'immensa parte avuta dal mutuo appoggio nell'evoluzione<BR>del mondo animale. Occorre ora gettare uno<BR>sguardo sulla parte avuta da questo stesso fattore<BR>nell'evoluzione del genere umano. Abbiamo visto come<BR>siano rare le specie animali che vivono isolate e come<BR>numerose siano quelle che vivono in società per la difesa<BR>reciproca, per la caccia, per immagazzinare le provviste,<BR>per allevare la prole o semplicemente per godere<BR>della vita in comune. Abbiamo anche visto che sebbene<BR>avvengano guerre tra le diverse classi di animali e le<BR>diverse specie, o anche tra i diversi gruppi della stessa<BR>specie, la concordia e il mutuo appoggio sono la regola<BR>all'interno dei gruppi e delle specie; e abbiamo anche<BR>visto che le specie che meglio sanno unirsi ed evitare la<BR>95<BR>competizione hanno le maggiori probabilità di sopravvivere<BR>e di svilupparsi ulteriormente. Queste prosperano,<BR>mentre le specie non sociali deperiscono.<BR>Sarebbe dunque del tutto contrario a quello che sappiamo<BR>della natura se gli uomini facessero eccezione a<BR>una regola così generale, e cioè che una creatura disarmata,<BR>come fu l'uomo alla sua origine, avesse trovato<BR>sicurezza e progresso non nel mutuo soccorso, come gli<BR>altri animali, ma nella sfrenata competizione per il<BR>vantaggio personale senza riguardo per gli interessi<BR>della specie. Per una mente abituata all'idea di unità in<BR>natura, una tale affermazione sembra assolutamente<BR>insostenibile. Tuttavia, per quanto improbabile e non<BR>filosofica sia, non ha mai mancato di partigiani. Vi sono<BR>sempre stati pensatori che hanno giudicato con pessimismo<BR>il genere umano. Essi lo conoscono più o meno<BR>superficialmente nei limiti della loro esperienza; sanno<BR>della storia ciò che ne dicono gli annali, sempre attenti<BR>alle guerre, alle crudeltà, all'oppressione, e a nient'altro.<BR>E ne concludono che il genere umano non è altro<BR>che una fluttuante aggregazione di individui sempre<BR>pronti a battersi l'uno contro l'altro e trattenuti dal farlo<BR>solo grazie all'intervento di una qualche autorità.<BR>È stato appunto questo l'atteggiamento assunto da<BR>Hobbes. E se alcuni dei suoi successori del XVIII secolo<BR>si sono sforzati di provare che in nessuna epoca della<BR>sua esistenza, neppure nella più primitiva, l'uomo ha<BR>vissuto in uno stato di guerra permanente, ma che è<BR>stato sociale anche allo «stato di natura», e che è stata<BR>l'ignoranza, piuttosto che le sue cattive tendenze naturali,<BR>a spingere il genere umano agli orrori delle prime<BR>epoche storiche, la scuola di Hobbes ha continuato ad<BR>affermare, al contrario, che il preteso «stato di natura»<BR>altro non era se non una guerra permanente tra individui<BR>accidentalmente riuniti dal semplice capriccio della<BR>loro bestiale esistenza.<BR>È senza dubbio vero che la scienza, dopo Hobbes, ha<BR>fatto progressi e che per ragionare su questo soggetto<BR>abbiamo ora basi più sicure di quelle a disposizione di<BR>96<BR>Hobbes e di Rousseau per le loro speculazioni. Ciononostante,<BR>la filosofia di Hobbes ha ancora numerosi ammiratori,<BR>tanto che ultimamente tutta una scuola di pensatori,<BR>applicando la terminologia di Darwin più che le<BR>sue idee fondamentali, ne ha tratto degli argomenti<BR>favorevoli alle opinioni di Hobbes sull'uomo primitivo,<BR>riuscendo persino a dar loro parvenza scientifica. Huxley,<BR>come si sa, si è messo a capo di questa scuola e, in<BR>un articolo scritto nel 1888, ha presentato gli uomini<BR>primitivi come delle tigri o dei leoni, privi di qualsiasi<BR>concezione etica, capaci di spingere la lotta per l'esistenza<BR>fino ai più crudeli eccessi, impegnati in una vita<BR>di «sfrenato combattimento continuo». Per citare le sue<BR>parole, «al di fuori dei ristretti e temporanei legami<BR>familiari, la guerra hobbesiana di tutti contro tutti era<BR>lo stato normale dell'esistenza».<BR>Si è fatto notare più d'una volta che l'errore principale<BR>di Hobbes, come dei filosofi del XVIII secolo, è stato di<BR>supporre che il genere umano sia cominciato sotto forma<BR>di piccole famiglie isolate, un po' simili alle famiglie<BR>«limitate e temporanee» dei grandi carnivori, mentre<BR>ora si sa in modo certo che non è avvenuto così. Beninteso,<BR>non abbiamo testimonianze dirette sul modo di<BR>vivere dei primi esseri umani. Non siamo nemmeno certi<BR>dell'epoca della loro prima comparsa, anche se attualmente<BR>i geologi sono inclini a individuarne le prime<BR>tracce nel pliocene o addirittura nel miocene, sedimenti<BR>dell'era terziaria. Ma abbiamo il metodo indiretto che ci<BR>permette di gettare qualche luce su questa remota antichità.<BR>Un'indagine minuziosa delle istituzioni sociali dei<BR>popoli primitivi è stata fatta durante gli ultimi quarant'anni,<BR>ed essa ha individuato nelle istituzioni attuali<BR>tracce di istituzioni molto più antiche, scomparse da<BR>lungo tempo, che tuttavia hanno lasciato indiscutibili<BR>segni della loro esistenza anteriore. Tutta una scienza<BR>consacrata alle origini delle istituzioni umane s'è così<BR>sviluppata grazie ai lavori di Bachofen, MacLennan,<BR>Morgan, Edwin Tylor, Maine, Post, Kovalevsky, Lub-<BR>97<BR>bock e parecchi altri, stabilendo con certezza che l'umanità<BR>non ha incominciato sotto forma di piccole famiglie<BR>isolate.<BR>Lungi dall'essere una forma primitiva di organizzazione,<BR>la famiglia è un prodotto molto tardivo dell'evoluzione<BR>umana. Per quanto indietro ci si possa spingere<BR>con la paleoetnologia, troviamo uomini che vivono in<BR>società, in gruppi simili a quelli dei mammiferi superiori;<BR>ed è poi stata necessaria un'evoluzione estremamente<BR>lenta e lunga per condurre questo tipo di società<BR>all'organizzazione clanica, che è passata a sua volta<BR>attraverso un'altra lunghissima evoluzione prima che i<BR>germi della famiglia, poligama o monogama, potessero<BR>apparire. Dunque, sono stati i gruppi, le bande, le tribù<BR>- e non le famiglie - le forme primitive di organizzazione<BR>umana presso gli antenati più remoti. Cosa cui è<BR>arrivata l'etnologia dopo laboriose ricerche, arrivando a<BR>dimostrare semplicemente quello che uno zoologo<BR>avrebbe potuto prevedere. Nessuno dei mammiferi superiori<BR>- eccetto qualche carnivoro e qualche primate,<BR>come gli orangutan e i gorilla, la cui decadenza è indubitabile<BR>- vive in piccole famiglie isolate erranti nella<BR>foresta. Tutti vivono in società. E lo stesso Darwin,<BR>peraltro, avendo ben capito che i primati solitari non<BR>avrebbero mai potuto trasformarsi in esseri umani, ne<BR>ha indotto che l'uomo discende da una specie relativamente<BR>debole, ma sociale, quale è quella degli scimpanzé<BR>piuttosto che da una specie più forte, ma non<BR>sociale, quale è quella dei gorilla. La zoologia e la<BR>paleoetnologia sono così d'accordo nel ritenere che il<BR>branco, e non la famiglia, è stata la prima forma di vita<BR>sociale. Le prime società umane non sono state altro<BR>che uno sviluppo ulteriore di quelle forme associative<BR>che avevano costituito l'essenza stessa della vita presso<BR>gli animali superiori. [...]<BR>Non si può studiare l'uomo primitivo senza essere<BR>profondamente colpiti dalla socialità della quale dà pro-<BR>98<BR>va fin dai primi passi della vita. Tracce di società umane<BR>sono state trovate nei reperti dell'età paleolitica e<BR>neolitica, e quando studiamo i selvaggi contemporanei,<BR>il cui genere di vita è ancora quello dell'uomo neolitico,<BR>li troviamo strettamente uniti dall'antichissima organizzazione<BR>clanica, che permette loro di mettere insieme<BR>le capacità individuali, altrimenti deboli, di godere<BR>della vita in comune e così di progredire. In natura,<BR>l'uomo non è un'eccezione, ma si conforma anche lui al<BR>grande principio del mutuo appoggio, che dà le migliori<BR>probabilità di sopravvivenza a quelli che sanno meglio<BR>aiutarsi nella lotta per l'esistenza. Tali sono le conclusioni<BR>alle quali siamo giunti nel precedente capitolo.<BR>Tuttavia, quando arriviamo a un grado più alto di<BR>civiltà e ci rivolgiamo alla storia, che ha già qualche<BR>cosa da dire su questo periodo, siamo colpiti dalle lotte<BR>e dai conflitti che rivela. Gli antichi legami sembrano<BR>essere interamente spezzati: si vedono clan combattere<BR>altri clan, tribù contro tribù, individui contro individui.<BR>Dal caos e dallo scontro di queste forze ostili, il genere<BR>umano esce diviso in caste, asservito a despoti, separato<BR>in Stati sempre pronti a farsi guerra. Basandosi su<BR>questa storia del genere umano, il filosofo pessimista<BR>conclude trionfalmente che la guerra e l'oppressione<BR>sono l'essenza stessa della natura umana, che gli istinti<BR>di guerra e di rapina dell'uomo possono esser contenuti<BR>entro certi limiti solo da una forte autorità che lo<BR>costringa alla pace, concedendo a un pugno degli uomini<BR>più nobili l'opportunità di progettare per il genere<BR>umano una vita migliore per il futuro.<BR>Tuttavia, da quando la vita quotidiana degli esseri<BR>umani in periodo storico è stata sottoposta ad una più<BR>accurata analisi, com'è avvenuto recentemente in<BR>numerosi e pazienti studi sulle istituzioni dei tempi<BR>remoti, questa vita appare sotto un aspetto del tutto<BR>differente. Se lasciamo da parte le idee preconcette della<BR>maggior parte degli storici e la loro marcata predilezione<BR>per gli aspetti drammatici della storia, ci rendiamo<BR>conto che sono propri i documenti che studiamo ad<BR>99<BR>esagerare la parte di vita umana votata alle lotte trascurandone<BR>i lati pacifici. I giorni sereni e soleggiati<BR>sono perduti di vista nelle tormente e negli uragani.<BR>Anche nella nostra epoca i voluminosi documenti che<BR>accumuliamo per i futuri storici con la nostra stampa, i<BR>nostri tribunali, i nostri uffici ministeriali, ma anche<BR>con i nostri romanzi e le nostre opere poetiche, sono<BR>gravati della stessa parzialità. Essi trasmettono alla<BR>posterità le più minuziose descrizioni di ogni guerra,<BR>battaglia o scaramuccia, di ogni contestazione, di ogni<BR>atto di violenza, di ogni sorta di sofferenza individuale,<BR>mentre riportano a malapena qualche traccia degli<BR>innumerevoli atti di solidarietà e affetto che ognuno di<BR>noi conosce per esperienza personale. Riportano a<BR>malapena ciò che forma l'essenza stessa della nostra<BR>vita quotidiana: i nostri istinti e i nostri costumi sociali.<BR>Non c'è da stupirsi se le testimonianze del passato sono<BR>state così inesatte. Coloro che hanno compilato gli<BR>annali, infatti, non hanno mai mancato di raccontare le<BR>più piccole guerre o calamità sofferte dai loro contemporanei<BR>senza prestare alcuna attenzione alla vita delle<BR>masse; che pure hanno vissuto lavorando pacificamente,<BR>mentre solo un piccolo numero di uomini guerreggiavano<BR>fra di loro. I poemi epici, le iscrizioni monumentali,<BR>i trattati di pace. quasi tutti i documenti storici<BR>hanno il medesimo carattere: trattano della violazione<BR>della pace, non della pace stessa. Cosicché lo storico,<BR>per quanto ben intenzionato, fa inconsciamente un quadro<BR>inesatto dell'epoca che si sforza di illustrare. Per<BR>trovare la proporzione reale tra i conflitti e la consociazione,<BR>occorre ricorrere all'analisi minuziosa di migliaia<BR>di piccoli fatti e di indicazioni accessorie, conservate<BR>accidentalmente tra le reliquie del passato; occorre poi<BR>interpretarle con l'aiuto dell'etnologia comparata e,<BR>dopo aver tanto udito parlare di tutto quello che ha<BR>diviso gli uomini, bisogna ricostruire pietra su pietra le<BR>istituzioni che li tenevano uniti.<BR>Ben presto occorrerà riscrivere la storia con una<BR>nuova prospettiva, al fine di tener conto di questi due<BR>100<BR>aspetti della vita umana e di apprezzare la parte rappresentata<BR>da ciascuno dei due nell'evoluzione. Nell'attesa,<BR>possiamo trarre profitto dall'immenso lavoro preparatorio<BR>fatto recentemente con l'intento di ritrovare<BR>le linee principali di quel secondo aspetto fino ad ora<BR>così trascurato. Dai tempi storici meglio conosciuti possiamo<BR>già trarre qualche esempio della vita delle masse,<BR>con l'intento di rilevarvi la parte rappresentata dal<BR>mutuo appoggio; e per non estendere troppo il lavoro,<BR>possiamo dispensarci dal risalire fino agli Egizi o anche<BR>fino all'antichità greca e romana. L'evoluzione del genere<BR>umano non ha infatti avuto il carattere di una successione<BR>ininterrotta: parecchie volte si è esaurita in<BR>una data regione, presso un certo popolo, ed è rinata<BR>altrove, tra altri popoli. Però, ad ogni nuovo inizio ricomincia<BR>con le stesse istituzioni claniche che abbiamo<BR>già rilevato presso i selvaggi. Se dunque consideriamo<BR>l'ultima rinascita, quella degli inizi della nostra attuale<BR>civiltà, tra quelli che i Romani chiamavano i «Barbari»,<BR>avremo tutta la scala dell'evoluzione, cominciando dalle<BR>gentes e terminando con le istituzioni dei nostri tempi.<BR>Cosa alla quale sono appunto dedicate le pagine che<BR>seguono. [.]<BR>Nessun periodo della storia può meglio mostrare il<BR>potere creatore delle masse popolari quanto il X e l'XI<BR>secolo, allorché i villaggi fortificati e le loro piazze del<BR>mercato, «oasi nella foresta feudale», hanno cominciato<BR>a liberarsi dal giogo dei signorotti, preparando lentamente<BR>la futura organizzazione delle città. Sfortunatamente,<BR>è un periodo sul quale le informazioni storiche<BR>sono particolarmente rare: conosciamo i risultati, ma<BR>sappiamo poco circa i mezzi con i quali sono stati ottenuti.<BR>Al riparo delle loro mura, le assemblee popolari delle<BR>città - sia completamente indipendenti, sia rette dalle<BR>principali famiglie nobiliari o mercantili - conquistavano<BR>e conservavano il diritto di eleggere il defensor, il<BR>101<BR>difensore militare della città, e il supremo magistrato, o<BR>quantomeno di scegliere tra quelli che aspiravano a<BR>tale carica. In Italia i giovani Comuni licenziavano continuamente<BR>i loro defensores o domini, combattendo<BR>quelli che rifiutavano di andarsene. La stessa cosa<BR>accadeva a Est: in Boemia, i ricchi e i poveri insieme<BR>(Bohemicae gentis magni et parvi, nobiles et ignobiles)<BR>prendevano parte all'elezione; nelle citta russe le<BR>assemblee popolari, le vyeches, eleggevano regolarmente<BR>i loro duchi - tutti regolarmente della famiglia Rurik<BR>- e stipulavano insieme le loro convenzioni, esautorandoli<BR>però se ne erano scontenti. Alla stessa epoca, nella<BR>maggior parte delle città dell'Europa occidentale e<BR>meridionale la tendenza era di prendere per defensor<BR>un vescovo eletto dalla città stessa; e molti vescovi si<BR>sono messi alla testa della resistenza per proteggere le<BR>«immunità» cittadine e difendere le loro libertà, tanto<BR>che, dopo la morte, molti sono stati santificati divenendo<BR>i patroni delle loro città, come san Uthelred di Winchester,<BR>san Ulrik di Asburgo, san Wolfgang di Ratisbona,<BR>san Heribert di Colonia, san Adalbert di Praga e<BR>così via. Anche molti abati e monaci sono diventati santi<BR>patroni delle città per aver sostenuto i diritti del<BR>popolo. Con questi nuovi defensores - laici o ecclesiastici<BR>- i cittadini hanno conquistato la piena autorità giuridica<BR>e amministrativa per le loro assemblee popolari.<BR>[...]<BR>Tuttavia, oltre all'idea di comunità rurale, occorreva<BR>un altro elemento capace di dare a questi centri in cerca<BR>di libertà l'unità di pensiero, azione e iniziativa che<BR>ha fatto la loro forza nel XII e XIII secolo. La diversità<BR>crescente di arti e mestieri, nonché l'estensione del<BR>commercio a Paesi lontani, hanno fatto desiderare una<BR>nuova forma di aggregazione, il cui elemento necessario<BR>sono state le corporazioni. Si sono scritte molte opere su<BR>queste associazioni che sotto il nome di corporazioni,<BR>gilde, fratellanze - o druzhestya, minne, artels in Rus-<BR>102<BR>sia, esnaifs in Serbia e in Turchia, amkari in Georgia,<BR>ecc. - si sono sviluppate in modo considerevole nel<BR>Medio evo tanto da rappresentare una parte sostanziale<BR>nell'emancipazione delle città. Ma ci sono voluti più<BR>di sessant'anni perché gli storici riconoscessero l'universalità<BR>di questa istituzione e il suo vero carattere.<BR>Solo oggi, dopo che centinaia di statuti corporativi sono<BR>stati pubblicati e studiati e dopo che i loro rapporti originari<BR>con i collegiae romani e le antiche unioni della<BR>Grecia e dell'India sono stati riconosciuti, possiamo<BR>parlarne con piena cognizione di causa e possiamo<BR>affermare con certezza che queste fratellanze rappresentano<BR>uno sviluppo degli stessi princìpi che abbiamo<BR>visto in azione tra le gentes e nelle comunità rurali. [...]<BR>Così, quando un certo numero di artigiani - muratori,<BR>carpentieri, tagliatori di pietre, ecc. - si riunivano<BR>per costruire ad esempio una cattedrale, essi appartenevano<BR>tutti a una città con il suo ordinamento politico,<BR>e inoltre ciascuno apparteneva alla propria arte, ma<BR>tutti si consociavano altresì per l'impresa comune, che<BR>conoscevano meglio di chiunque, e s'organizzavano in<BR>un corpo, stringendo forti legami, quantunque temporanei,<BR>e fondando una gilda per l'erezione della cattedrale.<BR>Anche oggi possiamo riscontrare questi stessi fatti<BR>nel çof dei Cabili: essi hanno la loro comunità rurale,<BR>ma questa associazione non basta per tutti i bisogni<BR>politici, commerciali e personali dell'unione ed essi<BR>costituiscono quindi una fratellanza più stretta nel çof.<BR>Quanto ai caratteri sociali delle gilde medievali,<BR>qualsiasi statuto può darne un'idea. Prendiamo ad<BR>esempio lo skraa di qualche primitiva gilda danese: vi<BR>leggiamo dapprima un'esposizione dei sentimenti di<BR>fraternità generale che devono regnare nella gilda, poi<BR>vengono le regole relative all'auto-giurisdizione in caso<BR>di litigio tra due fratelli, o tra un fratello e un esterno;<BR>infine vengono enumerati i doveri sociali dei fratelli. Se<BR>la casa di un fratello è distrutta dal fuoco, o se egli ha<BR>perduto il suo bastimento, o ancora se ha sofferto<BR>durante un pellegrinaggio, tutti i fratelli devono venire<BR>103<BR>in suo aiuto. Se un fratello cade gravemente ammalato,<BR>altri due fratelli devono vegliare presso il suo letto fino<BR>a che non sia fuori pericolo; se muore, devono sotterrarlo<BR>- faccenda non da poco in tempi di pestilenze -<BR>accompagnandolo in chiesa e alla tomba. Dopo la sua<BR>morte devono soccorrere i suoi figli se sono nel bisogno,<BR>mentre molto spesso la vedova diventa una «sorella»<BR>della gilda.<BR>Questi due caratteri fondamentali s'incontrano in<BR>tutte le fratellanze formate non importa a quale scopo.<BR>Sempre i membri devono trattarsi in modo fraterno,<BR>tanto da chiamarsi appunto fratelli e sorelle, e sono tutti<BR>uguali di fronte alla gilda. Essi possiedono in comune<BR>il cheptel (bestiame, terre, bastimenti, fondi agricoli).<BR>Tutti i fratelli sono tenuti a giurare di dimenticare gli<BR>antichi dissensi e, senza imporsi reciprocamente di non<BR>litigare nuovamente, devono convenire che nessuna lite<BR>deve degenerare in vendetta o condurre a un processo<BR>davanti ad altra corte che non sia il tribunale della fratellanza.<BR>Se uno è implicato in una contesa con qualcuno<BR>estraneo alla gilda, questa lo deve sostenere, sia che<BR>abbia torto sia che abbia ragione; ovvero, tanto nel caso<BR>che venga ingiustamente accusato di aggressione quanto<BR>nel caso che sia realmente l'aggressore, i fratelli lo<BR>devono sostenere e condurre le cose a una conclusione<BR>pacifica. A meno che non si tratti di un'aggressione<BR>occulta - nel qual caso verrebbe proscritto - la fratellanza<BR>lo difende. Se i parenti dell'uomo leso vogliono<BR>vendicarsi prontamente dell'offesa con una nuova<BR>aggressione, la fratellanza gli procura un cavallo per<BR>fuggire, o una barca e un paio di remi, un coltello e un<BR>acciarino; se rimane in città, dodici fratelli lo accompagnano<BR>per proteggerlo, e nello stesso tempo si occupano<BR>di comporre il conflitto. Inoltre, i fratelli si presentano<BR>davanti alla corte di giustizia per sostenere sotto giuramento<BR>la veridicità delle dichiarazioni del loro fratello,<BR>e se viene riconosciuto colpevole, non lo abbandonano a<BR>completa rovina, né lo fanno diventare schiavo: se egli<BR>non può pagare il compenso dovuto, lo pagano loro,<BR>104<BR>come facevano le gentes nelle epoche precedenti. Ma se<BR>qualcuno viene meno alla sua lealtà verso i fratelli della<BR>gilda, o verso altri, viene escluso dalla fratellanza<BR>«con la fama di uomo da nulla» (tha scal han maeles af<BR>brödrescap met nidings nafn).<BR>Tali sono le idee dominanti in queste fratellanze, e a<BR>poco a poco si estenderanno a tutti gli aspetti della vita<BR>medievale. Infatti, si conoscono gilde in tutte le professioni<BR>immaginabili: gilde di servi, gilde di uomini liberi<BR>e gilde miste di servi e uomini liberi; gilde formate per<BR>uno scopo specifico, quale la caccia, la pesca o un'impresa<BR>commerciale, e disciolte quando questo scopo specifico<BR>viene raggiunto; gilde che invece per certe professioni<BR>o certi mestieri durano secoli. Via via che le attività<BR>si diversificano, il numero delle gilde cresce. Così, non<BR>ci sono soltanto mercanti, artigiani, cacciatori o contadini<BR>uniti da questi legami, ma ci sono pure gilde di<BR>preti, di pittori, di maestri di scuola primaria e di<BR>docenti universitari, gilde per rappresentare la «passione<BR>», per costruire una chiesa, per occuparsi dei «misteri<BR>» di una data scuola o di particolari arti e mestieri, e<BR>persino gilde di mendicanti, di boia e di «donne perdute<BR>», tutte organizzate sotto il doppio principio dell'autogiurisdizione<BR>e del mutuo appoggio. Per la Russia<BR>abbiamo la prova manifesta che il suo consolidamento è<BR>stato tanto opera dei suoi artels, o associazioni di cacciatori,<BR>di pescatori e di mercanti, quanto del germogliare<BR>delle comunità rurali; e ancor oggi il Paese è pieno<BR>di artels. [...]<BR>Un'istituzione così adatta a soddisfare i bisogni consociativi,<BR>senza privare l'individuo della sua iniziativa,<BR>non poteva che estendersi e rafforzarsi. Una difficoltà si<BR>era presentata quando si era cercata una forma che<BR>permettesse di federare le unioni delle gilde senza invadere<BR>il campo di quelle delle comunità rurali e di federare<BR>le une e le altre in un tutto armonico. Quando questa<BR>combinazione venne trovata, e un insieme di circo-<BR>105<BR>stanze favorevoli permise alle città di affermare la propria<BR>indipendenza, esse lo fecero con un'unità di pensiero<BR>che non può che suscitare la nostra ammirazione,<BR>persino nel secolo delle strade ferrate, dei telegrafi e<BR>della stampa. Ci sono pervenute centinaia di «carte»<BR>con le quali le città proclamavano la loro indipendenza<BR>e in tutte - nonostante l'infinita varietà di particolari<BR>correlati ad un'emancipazione più o meno completa - si<BR>ritrova la stessa idea dominante: un'organizzazione cittadina<BR>basata sulla federazione di piccole comunità<BR>rurali e di gilde. [...]<BR>Questa ondata emancipativa si diffuse nel XII secolo<BR>per tutto il continente, toccando sia le città più ricche<BR>sia i villaggi più poveri. E se possiamo dire che, in generale,<BR>le città italiane furono le prime a liberarsi, non<BR>possiamo identificare alcun centro dal quale il movimento<BR>si sarebbe propagato. Molto spesso un piccolo<BR>borgo dell'Europa centrale prendeva l'iniziativa per la<BR>sua regione e i grandi agglomerati accettavano la carta<BR>della piccola città come modello per la loro. [.]<BR>L'auto-giurisdizione era il punto essenziale, e autogiurisdizione<BR>significava auto-amministrazione. Ma il<BR>Comune non era semplicemente una parte «autonoma»<BR>dello Stato (queste parole ambigue non erano ancora<BR>state inventate): era esso stesso uno Stato. Aveva diritti<BR>di guerra e di pace, di federazione e di alleanza con i<BR>vicini; era sovrano nei propri affari e non interferiva<BR>con quelli degli altri. Il potere politico supremo poteva<BR>essere rimesso interamente a un foro democratico,<BR>come era il caso a Pskov, la cui assemblea popolare<BR>(vyeche) inviava e riceveva ambasciatori, stipulava trattati,<BR>accettava e rifiutava principi, o ne faceva a meno<BR>per decenni. Oppure il potere veniva esercitato, o usurpato,<BR>da un'aristocrazia a volte nobiliare a volte mercantile,<BR>come avveniva in centinaia di città dell'Italia e<BR>del centro Europa. Il principio, tuttavia, rimaneva<BR>immutato: la città era uno Stato e, cosa ancor più notevole,<BR>quando il potere della città veniva usurpato da<BR>un'aristocrazia nobiliare o mercantile, la vita interna<BR>106<BR>della città ne risentiva marginalmente e il carattere<BR>democratico della vita quotidiana non scompariva: perché<BR>l'uno e l'altro dipendevano molto poco da ciò che si<BR>potrebbe chiamare la forma politica dello Stato.<BR>Il segreto di questa apparente anomalia è che una<BR>città medievale non era uno Stato accentrato. Durante i<BR>primi secoli della sua esistenza, la città poteva a malapena<BR>essere chiamata uno Stato per quanto riguardava<BR>la sua organizzazione interna, perché il Medio evo non<BR>conosceva l'attuale accentramento delle funzioni né<BR>tanto meno l'accentramento territoriale del nostro tempo.<BR>Ogni gruppo aveva la sua parte di sovranità. [...]<BR>La città medievale ci appare così come una doppia<BR>federazione: innanzi tutto quella di tutte le unità domestiche<BR>all'interno di territori delimitati - la strada, la<BR>parrocchia, il quartiere - e poi quella degli individui<BR>uniti da giuramento in gilde secondo le loro professioni.<BR>Mentre la prima era un prodotto della comunità rurale,<BR>origine della città, la seconda era una creazione posteriore<BR>la cui esistenza derivava dalle mutate condizioni.<BR>Garantire la libertà, l'auto-amministrazione e la pace<BR>era lo scopo principale della città medievale, e il lavoro,<BR>come vedremo tra poco parlando delle gilde di mestiere,<BR>ne era la base. Ma la «produzione» non assorbiva tutta<BR>l'attenzione degli economisti del Medio evo. Con il loro<BR>spirito pratico, essi compresero che il «consumo» doveva<BR>essere garantito al fine di ottenere la produzione; di<BR>conseguenza, il principio fondamentale di ogni città era<BR>di provvedere alla sussistenza comune e all'alloggio<BR>tanto dei poveri quanto dei ricchi (gemeine notdurft und<BR>gemach armer und richer). L'acquisto di viveri e di altri<BR>beni di prima necessità (carbone, legna, ecc.) prima che<BR>fossero passati per il mercato o in condizioni particolarmente<BR>favorevoli dalle quali altri fossero esclusi - in<BR>una parola la preemptio - era assolutamente vietata.<BR>Tutto doveva passare dal mercato ed essere offerto in<BR>acquisto a tutti fino a quando la campana non avesse<BR>chiuso il mercato. Solo a quel punto il venditore al<BR>minuto poteva comprare ciò che restava, e anche allora<BR>107<BR>il suo profitto doveva rimanere nei limiti di un «onesto<BR>guadagno». Di più, quando il frumento veniva comprato<BR>all'ingrosso da un fornaio dopo la chiusura del mercato,<BR>ogni cittadino aveva comunque il diritto di reclamare,<BR>al prezzo all'ingrosso, una parte di tale frumento (circa<BR>due kg.) per proprio uso, a condizione che lo reclamasse<BR>prima della chiusura delle contrattazioni; a sua volta,<BR>ogni panettiere poteva reclamare lo stesso diritto nel<BR>caso fosse un cittadino a comprare il frumento per<BR>rivenderlo. Nel primo caso il frumento non aveva che<BR>da essere portato al mulino della città per essere macinato<BR>a un prezzo convenuto, e il pane poteva poi essere<BR>cotto nel forno comunale. Insomma, se una carestia colpiva<BR>la città tutti, più o meno, ne soffrivano, ma a parte<BR>queste calamità, finché sono esistite le città libere, nessuno<BR>vi è morto di fame, come disgraziatamente oggi<BR>avviene anche troppo spesso. [...]<BR>Insomma, più conosciamo la città del Medio evo, più<BR>vediamo che non era una semplice organizzazione politica<BR>per la difesa di determinate libertà. Era un tentativo,<BR>su ben più vasta scala rispetto alla comunità rurale,<BR>di organizzare una stretta unione di assistenza e<BR>appoggio mutuo per il consumo, per la produzione e per<BR>la vita sociale nel suo insieme, senza frapporre gli<BR>impedimenti dello Stato, ma lasciando piena libertà di<BR>espressione al genio creatore di ciascun gruppo nelle<BR>arti, nei mestieri, nelle scienze, in commercio e in politica.<BR>Vedremo meglio fino a che punto questo tentativo<BR>ha avuto successo quando analizzeremo, nel capitolo<BR>seguente, l'organizzazione del lavoro nella città medievale<BR>e le relazioni delle città con la popolazione delle<BR>campagna circostanti. [.]<BR>I risultati di questo nuovo progresso dell'umanità<BR>nella città medievale furono immensi. All'inizio del<BR>secolo XI le città europee erano piccoli raggruppamenti<BR>di capanne miserabili, ornati solamente di chiese basse<BR>e tozze delle quali il costruttore sapeva appena fare la<BR>108<BR>volta. Le arti - vi erano solo tessitori e fabbriferrai -<BR>erano ad uno stadio primitivo; il sapere non si trovava<BR>che in qualche raro monastero. Trecentocinquant'anni<BR>più tardi il panorama europeo era mutato. Il territorio<BR>era disseminato di città benestanti circondate da spesse<BR>mura, munite di torri e porte, ciascuna delle quali era<BR>un'opera d'arte. Le cattedrali, d'uno stile grandioso e<BR>riccamente decorate, innalzavano verso il cielo i loro<BR>campanili di una purezza di forme e di un ardire di<BR>immaginazione che oggi ci sforzeremmo inutilmente di<BR>raggiungere. Le arti e i mestieri avevano raggiunto in<BR>molte attività un grado di perfezione che oggi non possiamo<BR>vantarci di aver superato se diamo maggior valore<BR>all'abilità inventiva dell'operaio e alla perfezione del<BR>suo lavoro che non alla rapidità di esecuzione. Le navi<BR>delle città libere solcavano i mari europei in tutte le<BR>direzioni, e sarebbe bastato solo uno sforzo ulteriore per<BR>varcare gli oceani. Su vasti spazi di territorio il benessere<BR>aveva sostituito la miseria, e il sapere si era sviluppato<BR>e diffuso. Si andavano elaborando i metodi<BR>scientifici e ponendo le basi della fisica, si stava preparando<BR>il cammino per tutte le invenzioni meccaniche<BR>delle quali il nostro secolo è così orgoglioso. Tali furono<BR>i magici cambiamenti compiuti in Europa in meno di<BR>quattrocento anni. E se ci si vuol rendere conto delle<BR>perdite subite dall'Europa dopo la distruzione delle<BR>città libere, occorre raffrontare il secolo XVII con il XIV o<BR>il XIII: la prosperità che caratterizzava in altri tempi la<BR>Scozia, la Germania, le pianure d'Italia, è scomparsa, le<BR>strade sono cadute nell'abbandono, le città sono spopolate,<BR>il lavoro è asservito, l'arte è in decadenza, e lo<BR>stesso commercio è in declino.<BR>Se anche le città medievali non ci avessero lasciato<BR>alcun documento scritto a testimonianza del loro splendore,<BR>ma solo i monumenti architettonici che vediamo<BR>ancor oggi in tutta Europa, dalla Scozia all'Italia e da<BR>Girona in Spagna a Breslavia in territorio slavo, potremmo<BR>comunque affermare che il periodo in cui le<BR>città ebbero una vita indipendente fu quello del più alto<BR>109<BR>sviluppo dello spirito umano dall'era cristiana fino al<BR>XVIII secolo. Se guardiamo, ad esempio, un quadro del<BR>Medio evo raffigurante Norimberga con le sue torri e i<BR>suoi campanili slanciati, ciascuno dei quali porta<BR>l'impronta di un'arte liberamente creatrice, abbiamo<BR>qualche difficoltà a pensare che trecento anni prima la<BR>città non era che un ammasso di misere capanne. E la<BR>nostra ammirazione non fa che crescere quando entriamo<BR>nei particolari dell'architettura e dei fregi di ciascuna<BR>delle innumerevoli chiese, dei campanili, dei palazzi<BR>municipali, delle porte di città ecc., presenti in Europa<BR>e che arrivano ad est fino alla Boemia e alle città, oggi<BR>morte, della Galizia polacca. Non è unicamente l'Italia,<BR>questa patria delle arti, ma tutta l'Europa ad essere<BR>ricoperta da tali monumenti. Il fatto stesso che tra tutte<BR>le arti sia proprio l'architettura - arte sociale per<BR>eccellenza - a toccare il suo più alto sviluppo è significativo.<BR>Per arrivare al grado di perfezione che ha raggiunto,<BR>quest'arte non poteva che essere il prodotto<BR>d'una vita eminentemente sociale.<BR>L'architettura medievale ha raggiunto la sua grandezza<BR>non soltanto perché fu il fiorire spontaneo di un<BR>mestiere, come è stato detto recentemente; non soltanto<BR>perché ogni costruzione, ogni decorazione architettonica<BR>era l'opera di uomini che conoscevano con l'esperienza<BR>delle proprie mani gli effetti artistici che si possono<BR>ottenere dalla pietra, dal ferro, dal bronzo, o anche<BR>semplicemente da travi e calcina; non soltanto perché<BR>ogni monumento era il risultato dell'esperienza collettiva<BR>accumulata in ciascun «mistero» o mestiere: l'architettura<BR>medievale fu grande perché derivò da una grande<BR>idea. Come l'arte greca, essa scaturì da una concezione<BR>di fratellanza e di unità generata dalla città. Aveva<BR>un'audacia che non si può acquistare se non con lotte<BR>audaci e con vittorie; esprimeva vigore perché il vigore<BR>impregnava tutta la vita della città. Una cattedrale, un<BR>palazzo comunale, simboleggiavano la grandezza di un<BR>insieme del quale ciascun muratore e ciascun tagliatore<BR>di pietra era un costruttore. Un monumento del Medio<BR>110<BR>evo non era uno sforzo temporaneo, dove migliaia di<BR>schiavi eseguivano la parte loro assegnata dall'immaginazione<BR>di un solo uomo: tutta la città vi contribuiva.<BR>L'alto campanile svettava su una costruzione che aveva<BR>in sé della grandezza, in cui si sentiva palpitare la vita<BR>della città; non era una costruzione assurda come la<BR>torre in ferro alta 300 metri di Parigi o come quella fabbrica<BR>in pietra fatta per nascondere la bruttezza d'una<BR>armatura di ferro, come la Tower Bridge a Londra.<BR>Come l'Acropoli di Atene, la cattedrale di una città del<BR>Medio evo era innalzata con l'intenzione di glorificare<BR>la grandezza della città vittoriosa, di simboleggiare<BR>l'unione delle sue arti e dei suoi mestieri, di esprimere<BR>la fierezza di ogni cittadino per una città che era la sua<BR>propria creazione. Spesso, compiuta la seconda rivoluzione<BR>dei nuovi mestieri, si videro le città innalzare<BR>nuove cattedrali proprio per esprimere la nuova unità,<BR>più profonda ed estesa, che veniva allora alla luce. [...]<BR>Tutte le arti erano progredite in modo analogo nelle<BR>città medievali. Le arti del nostro tempo non sono, per<BR>la maggior parte, che una continuazione di quelle sviluppatesi<BR>in quest'epoca. La prosperità delle città fiamminghe<BR>era basata sulla fabbricazione di bei tessuti di<BR>lana. Firenze all'inizio del XIV secolo, prima della peste<BR>nera, fabbricava dai 70.000 ai 100.000 panni di stoffa di<BR>lana, valutati intorno a 1.200.000 fiorini d'oro. La cesellatura<BR>dei metalli preziosi, l'arte del fondere, i bei ferri<BR>lavorati furono creazioni dei «misteri» medievali, che<BR>riuscirono a eseguire, ciascuno nel proprio campo, tutto<BR>ciò che era possibile fare a mano, senza l'aiuto di un<BR>potente motore. [...]<BR>È vero, come dice Whewell, che nessuna di queste<BR>scoperte era stata il risultato di qualche nuovo principio.<BR>E tuttavia la scienza del Medio evo aveva fatto<BR>qualcosa di più che la scoperta propriamente detta di<BR>nuovi princìpi: aveva preparato la scoperta di tutti i<BR>nuovi princìpi che conosciamo attualmente nelle scienze<BR>meccaniche. Aveva cioè abituato il ricercatore ad<BR>osservare i fatti e a ragionarci sopra. Era la scienza<BR>111<BR>induttiva, quantunque non avesse ancora pienamente<BR>capito l'importanza e il potere del metodo induttivo;<BR>comunque sia, essa poneva già le basi della meccanica e<BR>della fisica. Francesco Bacone, Galileo e Copernico sono<BR>stati i discendenti diretti di un Ruggero Bacone e di un<BR>Michele Scoto, proprio come la macchina a vapore è stato<BR>un prodotto diretto delle continue ricerche nelle università<BR>italiane dell'epoca sul peso dell'atmosfera e<BR>degli studi tecnici e matematici fatti a Norimberga.<BR>Ma è necessario insistere sui progressi delle scienze e<BR>delle arti nella città medievale? Non basta citare le cattedrali<BR>nel campo dell'abilità tecnica o la lingua italiana<BR>e i poemi danteschi nel campo del pensiero per dare<BR>immediatamente la misura di ciò che la città medievale<BR>ha creato durante i suoi quattro secoli di vita?<BR>Le città del Medio evo hanno reso un immenso servizio<BR>alla civiltà europea: le hanno impedito di avviarsi<BR>verso le teocrazie e gli Stati dispotici dell'antichità; le<BR>hanno dato la diversità, la fiducia in se stessa, lo spirito<BR>d'iniziativa e le immense energie intellettuali e materiali<BR>che possiede ancor oggi e che sono la miglior<BR>garanzia della sua capacità di resistere ad una nuova<BR>invasione che venga da Oriente. Ma perché dunque<BR>questi centri di civiltà, che avevano tentato di rispondere<BR>a bisogni così profondi della natura umana e che erano<BR>così pieni di vita, non sopravvissero più a lungo?<BR>Forse perché furono colpiti da debolezza senile nel XVI<BR>secolo e, dopo aver respinto tanti assalti esterni e aver<BR>reagito inizialmente con vigore alle lotte interne, alla<BR>fine soccombettero sotto questo duplice attacco?<BR>Varie cause hanno contribuito a questo risultato;<BR>alcune avevano le loro radici in un lontano passato,<BR>altre rimandavano a colpe commesse dalle città stesse.<BR>Verso la fine del XV secolo, vennero costituiti alcuni<BR>potenti Stati che si rifacevano al vecchio modello romano.<BR>In ogni regione, qualche signore feudale, più abile,<BR>più avido di ricchezze e spesso meno scrupoloso dei suoi<BR>vicini, era riuscito ad assicurarsi più ricchi possedimenti<BR>personali, un più alto numero di contadini per le sue<BR>112<BR>terre e di cavalieri per il suo seguito, un più consistente<BR>tesoro nei suoi scrigni. Aveva scelto come sua residenza<BR>un gruppo di villaggi ben situati, dove non si era ancora<BR>sviluppata la libera vita municipale - Parigi, Madrid o<BR>Mosca - e con il lavoro dei suoi servi ne aveva fatto delle<BR>città regie fortificate. Là attirava compagni d'arme,<BR>cui concedeva villaggi con liberalità, e mercanti, cui<BR>offriva la sua protezione per il commercio. Si andava<BR>così formando il germe d'un futuro Stato, che gradatamente<BR>avrebbe cominciato ad assorbire altri centri<BR>simili. In questi centri vi era inoltre una abbondanza di<BR>giureconsulti, razza di uomini tenaci e ambiziosi usciti<BR>dalla borghesia e versati nello studio del diritto romano,<BR>che detestavano in pari grado l'alterigia dei signori<BR>e ciò che chiamavano lo «spirito ribelle» dei contadini.<BR>Trovavano ripugnante la forma stessa della comunità<BR>rurale, che i loro codici ignoravano, e i princìpi federativi,<BR>che consideravano un'eredità dei «barbari»; viceversa,<BR>appoggiavano un cesarismo, sostenuto dalla menzogna<BR>del consenso popolare e dalla forza delle armi, e<BR>lavoravano alacremente per quelli che promettevano di<BR>attuarlo.<BR>La Chiesa cristiana, una volta avversaria della legge<BR>romana e ora sua alleata, lavorò nello stesso senso.<BR>Essendo fallito il tentativo di costituire in Europa<BR>l'Impero teocratico, i vescovi più intelligenti e più ambiziosi<BR>diedero il loro appoggio a quelli sui quali contavano<BR>per ricostruire il potere dei re d'Israele o degli imperatori<BR>di Costantinopoli. La Chiesa consacrò questi primi<BR>dominatori, li incoronò come rappresentanti di Dio<BR>sulla Terra, e mise al loro servizio la scienza e lo spirito<BR>politico dei suoi ministri, le sue benedizioni e le sue<BR>maledizioni, le sue ricchezze e l'influenza che aveva<BR>conservato tra i poveri. I contadini che le città non avevano<BR>potuto o voluto liberare, vedendo come queste non<BR>riuscissero a metter fine alle interminabili guerre tra<BR>nobili, guerre per le quali pagavano un alto prezzo, volgevano<BR>allora le loro speranze verso re, imperatori e<BR>principi; così, mentre li aiutavano a schiacciare i poten-<BR>113<BR>ti signori feudali, li aiutavano anche a costruire lo Stato<BR>centralizzato. Infine, le invasioni dei Mongoli e dei Turchi,<BR>le guerre sante contro i Mori di Spagna, le terribili<BR>guerre che ben presto scoppiarono tra i centri della<BR>nascente sovranità - tra Ile de France e Borgogna,<BR>Scozia e Inghilterra, Inghilterra e Francia, Lituania e<BR>Polonia, Mosca e Tver, ecc. - contribuirono tutte allo<BR>stesso risultato: vennero costituiti potenti Stati e alle<BR>città toccò ora resistere non solamente a vaghe alleanze<BR>di signori, ma anche a centri di potere saldamente organizzati<BR>che avevano armate di servi a loro disposizione.<BR>Il peggio fu che queste autocrazie in ascesa trovarono<BR>appoggi grazie anche alle divisioni che si erano formate<BR>in seno alle città stesse. L'idea fondamentale della città<BR>medievale era grande, e tuttavia non era abbastanza<BR>vasta. L'aiuto e il sostegno reciproco non potevano essere<BR>limitati ad una piccola associazione, ma dovevano<BR>estendersi al territorio circostante, senza tuttavia che<BR>questo assorbisse l'associazione. Ma sotto questo aspetto<BR>il cittadino del Medio evo aveva commesso fin da<BR>principio un grave errore. Invece di vedere nei contadini<BR>e negli operai che si riunivano sotto la protezione<BR>delle sue mura altrettanti ausiliari che avrebbero contribuito<BR>alla prosperità della città - come fu effettivamente<BR>il caso - tracciarono una profonda divisione tra<BR>le famiglie della vecchia borghesia e i nuovi venuti. Ai<BR>primi furono riservati tutti i benefici derivanti dal commercio<BR>e dalle terre comunali; niente fu invece lasciato<BR>agli ultimi, eccetto il diritto di servirsi liberamente<BR>dell'abilità delle loro mani. La città fu così divisa: da<BR>una parte i «borghesi» o «il Comune», e dall'altra «gli<BR>abitanti». Il commercio, che era dapprima comunale,<BR>diventò il privilegio di alcune famiglie di mercanti e di<BR>artigiani; non vi era ormai che un passo da fare perché<BR>divenisse un privilegio individuale o di un gruppo di<BR>oppressori, e questo inevitabile passo fu fatto.<BR>Tale divisione si andò consolidando tanto nella città<BR>propriamente detta che nei villaggi circostanti. Il Comune<BR>aveva ben tentato, inizialmente, di emancipare i<BR>114<BR>contadini, ma le sue guerre contro i signori divennero,<BR>come abbiamo già detto, guerre per liberare la città dai<BR>signori anziché per liberare i contadini. La città lasciò<BR>al signore i suoi diritti sui contadini, a condizione che<BR>non la molestasse più e divenisse un concittadino. Ma i<BR>nobili «adottati» dalla città, e ora residenti nelle sue<BR>mura, non fecero che portare la loro tradizionale bellicosità<BR>nella cinta stessa della città. Benché non tollerassero<BR>di sottomettersi a un tribunale di semplici artigiani<BR>e di mercanti, continuarono nelle loro antiche<BR>ostilità tra famiglie, nelle loro guerre private portate<BR>nelle vie cittadine. Ogni città aveva ora i suoi Colonna e<BR>i suoi Orsini, i suoi Overstolze e i suoi Wise. Grazie alle<BR>cospicue rendite delle terre che avevano conservate, si<BR>circondarono di numerosi clienti, feudalizzando i costumi<BR>e le abitudini della città stessa. E quando i dissensi<BR>cominciarono a farsi sentire tra gli artigiani, offrirono<BR>le loro spade e le loro compagnie d'armi per risolvere le<BR>liti invece di lasciare che i dissensi trovassero soluzioni<BR>più pacifiche, come tradizionalmente accadeva nei tempi<BR>passati. [.]<BR>Il più grave e funesto errore fatto dalla maggior parte<BR>delle città fu di prendere per base della loro ricchezza<BR>il commercio e l'industria a detrimento dell'agricoltura.<BR>Ripeterono in tal modo l'errore già commesso dalle città<BR>della Grecia antica, e proprio per questo caddero negli<BR>stessi delitti. Estraniatesi dal mondo agricolo, un gran<BR>numero di città si trovarono necessariamente trascinate<BR>in una politica avversa ai contadini. Questo divenne<BR>sempre più evidente al tempo di Eduardo III e delle jacqueries<BR>in Francia, delle guerre ussite e delle guerre<BR>contadine in Germania. D'altra parte, la politica commerciale<BR>le impegnava in imprese lontane, tanto che<BR>colonie furono fondate dalle città italiane nel sud-est,<BR>dalle città tedesche nell'est, dalle città slave nell'estremo<BR>nord-est.<BR>Si cominciarono a mantenere milizie mercenarie per<BR>le guerre coloniali e ben presto anche per la difesa della<BR>città stessa. Fu necessario sottoscrivere prestiti in pro-<BR>115<BR>porzioni talmente smisurate da demoralizzare completamente<BR>i cittadini; e la conflittualità interna imperò a<BR>ogni elezione nella quale la politica coloniale, di cui<BR>beneficiavano solo alcune famiglie, era in gioco. La divisione<BR>tra ricchi e poveri diventò più profonda e, nel<BR>secolo XVI, in ogni città l'autorità regia trovò alleati solleciti<BR>e l'appoggio dei poveri.<BR>Ci fu ancora un'altra causa nella rovina delle istituzioni<BR>comunali, più profonda e insieme di ordine più<BR>elevato delle precedenti. La storia delle città medievali<BR>rappresenta uno dei più grandiosi esempi del potere<BR>delle idee e dei princìpi sui destini del genere umano, e<BR>dell'estrema diversità nei possibili esiti che accompagnano<BR>ogni profonda trasformazione delle idee prevalenti.<BR>La fiducia in se stessi e il federalismo, la sovranità<BR>di ogni gruppo e la costituzione del corpo politico<BR>dal semplice al complesso, erano le idee prevalenti nel<BR>secolo XI. Ma nelle epoche successive le opinioni si<BR>modificarono profondamente. Gli studiosi di diritto<BR>romano e i prelati della Chiesa, strettamente alleati<BR>dall'epoca di Innocenzo III, riuscirono a neutralizzare<BR>l'idea - l'antica idea greca - che aveva presieduto alla<BR>fondazione delle città. Durante due-trecento anni predicarono<BR>dall'alto del pulpito, insegnarono nelle università,<BR>pronunciarono dal banco del tribunale, che occorreva<BR>cercare la salvezza in uno Stato fortemente centralizzato,<BR>posto sotto un'autorità semi-divina. Questa si<BR>sarebbe incarnata in un uomo dotato di pieni poteri, un<BR>dittatore che, solo, avrebbe potuto salvare la società; in<BR>nome della salute pubblica, questi avrebbe potuto commettere<BR>qualunque specie di violenza: bruciare uomini<BR>e donne sul rogo, farli perire a seguito di indescrivibili<BR>torture, sprofondare intere province nella più abbietta<BR>miseria. E non esitarono a mettere in pratica queste<BR>teorie con inaudita crudeltà, ovunque potesse arrivare<BR>la spada del re, o il fuoco della Chiesa, o tutti e due<BR>insieme. Con questi insegnamenti e questi esempi,<BR>costantemente ripetuti fino a condizionare l'opinione<BR>pubblica, lo spirito stesso dei cittadini fu modellato in<BR>116<BR>modo nuovo. Ben presto nessuna autorità fu trovata<BR>eccessiva, nessuna esecuzione a fuoco lento parve troppo<BR>crudele se compiuta «per la sicurezza pubblica». E<BR>con questa nuova attitudine di spirito, e questa nuova<BR>fede nella potenza di un uomo, il vecchio principio federalista<BR>svanì e il genio creatore delle masse si estinse.<BR>L'idea romana trionfava e, in queste circostanze, lo Stato<BR>accentrato trovò nelle città una facile preda.<BR>Nel XV secolo Firenze offre il miglior esempio di questo<BR>mutamento. Nelle epoche precedenti, una rivoluzione<BR>popolare era il segnale d'un nuovo slancio. Ora,<BR>quando spinto dalla disperazione il popolo insorge, non<BR>ha più idee costruttive, nessuna nuova idea lo illumina.<BR>Un migliaio di rappresentanti entrano nel consiglio<BR>comunale invece di quattrocento; cento uomini entrano<BR>nella signoria invece di ottanta. Ma una rivoluzione di<BR>cifre non vuol dir niente. Lo scontento del popolo cresce<BR>e nuove rivolte scoppiano. Allora si fa appello a un salvatore,<BR>al «tiranno». Questi massacra i ribelli, e tuttavia<BR>il disgregamento del corpo comunale continua, peggio<BR>che mai. Quando, dopo una nuova rivolta, il popolo<BR>di Firenze si rivolge all'uomo più popolare della città,<BR>Gerolamo Savonarola, il monaco risponde: «Popolo mio,<BR>sai bene che non posso occuparmi degli affari di Stato...<BR>purifica la tua anima, e se in questa disposizione di spirito<BR>riformerai la tua città, allora, popolo di Firenze,<BR>avrai inaugurato la riforma di tutta l'Italia!». Vengono<BR>bruciate le maschere di carnevale e i cattivi libri, si fa<BR>decretare una legge di carità, un'altra contro l'usura.<BR>ma la democrazia di Firenze resta tal quale. Lo spirito<BR>del tempo antico è ormai morto. Per aver avuto troppa<BR>fiducia nel governo, i cittadini hanno cessato d'aver<BR>fiducia in se stessi, sono incapaci di trovare nuove vie.<BR>Allo Stato non resta che farsi avanti e schiacciare le<BR>ultime libertà.<BR>E tuttavia la corrente del mutuo appoggio non si è<BR>del tutto inaridita nelle moltitudini, ma ha continuato a<BR>scorrere anche dopo questa disfatta. Si è ingrossata di<BR>nuovo con una forza formidabile agli appelli comunisti<BR>117<BR>dei primi propagatori della Riforma, e ha continuato a<BR>scorrere anche dopo che le masse, non essendo riuscite<BR>a realizzare quell'esistenza che speravano di inaugurare<BR>sotto l'ispirazione della religione riformata, sono<BR>nuovamente cadute sotto la dominazione di un potere<BR>autocratico. Il flusso scorre ancora oggi alla ricerca di<BR>una nuova manifestazione, che non sarà più lo Stato,<BR>né la città del Medio evo, né la comunità rurale dei barbari,<BR>né il clan dei selvaggi, ma che parteciperà di tutte<BR>queste forme, pur superandole grazie a una concezione<BR>più ampia e profondamente umana.<BR>118<BR>VI<BR>Per Kropotkin l'idea del bene e del male esiste<BR>nell'umanità, nel senso che il sentimento morale non si<BR>configura come una semplice irruzione soggettiva<BR>dell'anima, ma come la verità della sua datità biologiconaturale<BR>giunta al punto del suo auto-riconoscimento<BR>razionale. Perciò diventa legittima la fondazione di<BR>un'etica basata sulle scienze naturali, o meglio sulla<BR>ricerca «etologica» delle leggi del comportamento umano<BR>derivato dallo studio naturalistico dei costumi; ciò che,<BR>in termini attuali, può essere definita la «scuola adattiva<BR>» della cultura. La dimensione positivistica ed evoluzionistica<BR>di tale concezione si rende evidente quando si<BR>afferma che è possibile colmare la profonda sfasatura<BR>esistente tra lo sviluppo delle scienze naturali e quello<BR>delle scienze morali, tra le prime che hanno fatto immensi<BR>progressi e le seconde che sono rimaste arretrate<BR>ad uno stadio di elaborazione metafisica, compenetrando<BR>queste due dimensioni in un'unica Weltanschauung.<BR>A questo proposito ecco che cosa ha recentemente<BR>scritto uno scienziato notissimo a livello mondiale (e che<BR>non ha nulla a che vedere con la scuola socio-biologica),<BR>Luca Cavalli Sforza: «Oggi la moralità non è più considerata<BR>una prerogativa della nostra specie. Gli studi<BR>effettuati da trent'anni a questa parte sulla vita sociale<BR>119<BR>di numerose specie di animali - in particolare mammiferi<BR>- e soprattutto su scimmie e primati indicano che il<BR>senso della giustizia [il tondo è mio], di simpatia e di<BR>empatia sono diffusi anche fra parecchi animali. Non<BR>solo: se vogliamo comprendere l'origine di questi fenomeni<BR>nella nostra stessa specie ci conviene guardare al<BR>lontano passato, alla lunghissima evoluzione che i<BR>nostri antenati hanno diviso con gli antenati delle scimmie<BR>attuali».<BR>In conclusione viene confermato quanto sostenuto da<BR>Kropotkin: la socialità non è una scelta dei protagonisti,<BR>ma una necessità della specie, non discende dalla<BR>volontà dei singoli, ma dalla loro appartenenza alla collettività.<BR>E la società, a sua volta, è il risultato dell'evoluzione<BR>spontanea della natura, perché deriva da un<BR>lento ma irreversibile sviluppo delle potenzialità libertarie<BR>ed egualitarie latenti negli esseri viventi, per cui soltanto<BR>la piena coscienza scientifica di questa tendenza<BR>naturale trasforma la sua datità deterministica in una<BR>possibilità progettuale di liberazione: gli individui si<BR>liberano solo attraverso il pieno riconoscimento della<BR>loro inscindibile appartenenza alla specie e dunque della<BR>loro ineliminabile dimensione collettiva.<BR>Per Kropotkin il punto centrale è rappresentato dall'idea<BR>di giustizia quale pratica immanente alle relazioni<BR>sociali. Con il progredire della società, infatti, si fa<BR>largo anche il concetto di uguaglianza. Così equità e<BR>uguaglianza tendono a coincidere con il sentimento<BR>innato di socialità, e in questo senso la giustizia non è<BR>un valore soggettivo, o una mera formulazione ideale,<BR>ma un fatto intrinseco alle leggi della vita sociale, la<BR>quale non può svolgersi se non viene esplicata la reciprocità<BR>fra i suoi membri.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana de L'etica del 1972, nella traduzione (rivista)<BR>di Alfredo M. Bonanno e Vincenzo Di Maria.<BR>120<BR>L'ETICA<BR>Lo scopo principale dell'etica realistica moderna è<BR>[...] di dare una definizione del fine morale cui tendiamo.<BR>Ma questo fine, o questi fini, quale che sia il carattere<BR>ideale che essi comportano e quale che sia la lontananza<BR>della loro realizzazione, devono nonostante tutto<BR>appartenere al mondo reale.<BR>La morale non può avere per scopo qualche cosa di<BR>«trascendente», cioè di superiore a ciò che in realtà esiste,<BR>come vogliono certi idealisti; il suo scopo deve essere<BR>reale. È nella vita, e non in uno stato successivo al<BR>decorso naturale della vita, che dobbiamo trovare la<BR>nostra soddisfazione morale.<BR>Quando Darwin ha formulato la sua teoria della «lotta<BR>per l'esistenza» e ha presentato questa lotta come il<BR>fattore principale dell'evoluzione, egli ha sollevato anco-<BR>121<BR>ra una volta il vecchio problema della moralità o della<BR>possibile immoralità della natura. L'origine delle nozioni<BR>di bene e male, che ha occupato il pensiero filosofico<BR>dopo lo Zend-Avesta, è stata nuovamente posta sul tappeto<BR>con maggiore energia e profondità. I darwinisti<BR>hanno considerato la natura come un vasto campo di<BR>battaglia dove i più deboli vengono sterminati dai più<BR>forti, dai più abili, dai più astuti. In queste condizioni la<BR>natura non può insegnare all'uomo che la lotta, il corpo<BR>a corpo.<BR>Queste idee, come sappiamo, si sono diffuse largamente.<BR>Partendo da esse il filosofo evoluzionista ha<BR>dovuto però risolvere una grave contraddizione da lui<BR>stesso introdotta nella sua filosofia. In base a questa<BR>filosofia, infatti, non ci si può dichiarare assolutamente<BR>certi che l'uomo sia in possesso di un'idea superiore del<BR>«bene» e che la credenza nel trionfo graduale del bene<BR>sul male sia profondamente radicata nella natura umana.<BR>Pertanto, questa dottrina è tenuta a spiegare da<BR>dove proviene la nozione di bene, la credenza nel progresso.<BR>Essa non può adagiarsi sul comodo guanciale<BR>epicureo che il poeta Tennyson descrive con le seguenti<BR>parole: «In un modo qualsiasi il bene si troverà come<BR>risultato definitivo del male». La dottrina evoluzionistica<BR>non può concepire la natura «tinta di sangue» - red<BR>in tooth and clow (con gli artigli e i denti rossi di sangue),<BR>come la descrivono Tennyson e il darwinista Huxley<BR>- sempre in lotta contro il bene, negazione vivente<BR>del bene, e affermare nello stesso tempo che «in ultima<BR>analisi» il principio del bene trionferà. Deve, quantomeno,<BR>spiegare questa contraddizione.<BR>Se uno studioso riconosce che la sola lezione che<BR>l'uomo da se stesso può ricavare dalla natura è la lezione<BR>della violenza, egli dovrà nello stesso tempo riconoscere<BR>l'esistenza di qualche altra influenza, esterna alla<BR>natura, soprannaturale, che ispira all'uomo l'idea di<BR>«bene supremo» e conduce verso un fine superiore lo<BR>sviluppo dell'umanità. E così facendo, annullerà il suo<BR>stesso tentativo di spiegare l'evoluzione dell'umanità<BR>122<BR>con il solo gioco delle forze naturali.<BR>In realtà, le posizioni della teoria evoluzionistica<BR>sono lontane dall'essere così poco solide; esse non conducono<BR>affatto alle contraddizioni in cui è caduto Huxley.<BR>Lo studio della natura, come ha dimostrato Darwin<BR>stesso nella sua seconda opera, L'origine dell'uomo, è<BR>lontano dal confermare la prospettiva pessimista di cui<BR>abbiamo appena parlato. La concezione di Tennyson e<BR>di Huxley è incompleta, unilaterale e, conseguentemente,<BR>falsa; la anti-scientificità diventa chiara se si pensa<BR>al fatto che Darwin parla, in un capitolo del suo libro,<BR>di un aspetto assai differente della vita e della natura.<BR>La natura stessa, egli dice, ci mostra, accanto alla<BR>lotta, un'altra categoria di fatti con un significato assolutamente<BR>diverso: il mutuo appoggio all'interno della<BR>stessa specie; questi fatti hanno una importanza superiore<BR>a quelli precedenti perché sono necessari a mantenere<BR>la prosperità della specie.<BR>Questa tesi estremamente importante, che la maggior<BR>parte dei darwinisti si rifiuta di tenere in conto e<BR>che Alfred Russel Wallace è arrivato persino a negare,<BR>io ho cercato invece di svilupparla, citando a tal proposito<BR>una gran quantità di fatti in una serie di articoli in<BR>cui ho dimostrato l'enorme importanza del mutuo<BR>appoggio per la sopravvivenza delle specie animali e<BR>dell'umanità, e soprattutto per il loro sviluppo progressivo,<BR>per la loro evoluzione.<BR>Senza cercare di attenuare il fatto che numerosi animali<BR>si nutrono di specie appartenenti ad altre classi<BR>del mondo animale o di specie più piccole della stessa<BR>famiglia zoologica, ho dimostrato che in natura la lotta<BR>è spesso circoscritta a una lotta fra specie differenti, ma<BR>che all'interno di ciascuna specie, e spesso all'interno di<BR>un raggruppamento formato da specie diverse ma<BR>viventi in comune, il mutuo appoggio è la regola generale.<BR>È per questo che il lato sociale della vita animale<BR>svolge in natura un ruolo molto più importante che il<BR>mutuo sterminio, avendo oltretutto un'estensione più<BR>vasta. Il numero delle specie sociali tra i ruminanti,<BR>123<BR>nella maggior parte dei roditori, presso numerosi uccelli,<BR>nelle api, nelle formiche ecc., cioè le specie che non<BR>vivono cacciandosi a vicenda, è in effetti considerevolissimo,<BR>e il numero di individui che comprende ciascuna<BR>di queste specie è estremamente alto. Inoltre, presso<BR>tutte le fiere e tutti i rapaci, soprattutto quelli che non<BR>sono in via di estinzione a seguito dello sterminio condotto<BR>dall'uomo o per altre ragioni, viene praticato in<BR>certa misura il mutuo appoggio. Il mutuo appoggio è di<BR>fatto dominante in natura. [...]<BR>Essendo necessario alla conservazione, alla prosperità<BR>e allo sviluppo di ciascuna specie, il mutuo appoggio<BR>è diventato ciò che Darwin ebbe a definire un istinto<BR>permanente costantemente in azione presso tutti gli<BR>animali sociali, ivi compreso, naturalmente, l'uomo.<BR>Questo istinto, che si manifesta fin dai primordi<BR>dell'evoluzione del regno animale, è, senza dubbio,<BR>profondamente radicato presso tutti gli animali, inferiori<BR>e superiori, come l'istinto materno; anzi si traduce in<BR>un vantaggio nei casi in cui è dubbia l'esistenza di un<BR>istinto materno, come nei molluschi, in certi insetti e<BR>nella maggior parte dei pesci.<BR>Così Darwin aveva pienamente ragione quando affermava<BR>che l'istinto della mutua attrazione si manifesta<BR>presso gli animali sociali in modo più costante<BR>dell'istinto egoista alla conservazione personale. Egli vi<BR>vedeva, come sappiamo, il rudimento di una coscienza<BR>morale: fatto che, malauguratamente, i darwinisti hanno<BR>troppo spesso dimenticato.<BR>Ma non è tutto: questo istinto, una volta apparso,<BR>sarà l'origine dei sentimenti di benevolenza e di accettazione<BR>parziale del singolo nel suo gruppo, diventando<BR>il punto di partenza di tutti i sentimenti superiori. È<BR>infatti su questa base che si svilupperanno i sentimenti<BR>più elaborati di giustizia, equità, uguaglianza e, infine,<BR>di ciò che abbiamo convenuto chiamare abnegazione.<BR>[...]<BR>Comprendiamo così non soltanto che la natura non ci<BR>dà lezioni di comportamento amorale, ovvero di indiffe-<BR>124<BR>renza riguardo la morale, indifferenza che, essendo un<BR>principio estraneo alla natura, dovrebbe combattere per<BR>dominarla, ma che al contrario la nozione di bene e di<BR>male, i ragionamenti sul «bene supremo», sono improntati<BR>alla natura stessa. Essi non sono che i riflessi, nei<BR>ragionamenti dell'uomo, di ciò che egli ha visto presso<BR>gli animali; nel corso della vita sociale queste impressioni<BR>vanno a comporre la nozione generale di bene e di<BR>male. E non si tratta di punti di vista personali di qualche<BR>individuo, ma dei sentimenti della maggioranza.<BR>Questi giudizi ci confermano gli elementi di giustizia e<BR>di mutua attrazione, quale che sia il soggetto presso cui<BR>si riscontrano; è qualcosa di analogo alle nozioni di<BR>meccanica che, dedotte dalle osservazioni fatte sulla<BR>superficie terrestre, si applicano benissimo ai problemi<BR>degli spazi celesti.<BR>Non possiamo non ammettere la stessa cosa quando<BR>si parla dello sviluppo del carattere e delle istituzioni<BR>umane. Anche l'evoluzione dell'uomo si effettua tramite<BR>la natura, da cui riceve un impulso positivo. Le stesse<BR>istituzioni di assistenza e di mutuo appoggio create<BR>all'interno della società mostrano all'uomo, con sempre<BR>maggiore evidenza, quale potenza può generarsi attraverso<BR>il loro impiego. Con un simile mezzo di azione<BR>sociale la fisionomia morale dell'uomo si elabora in<BR>modo più pieno. Ricerche storiche recenti permettono di<BR>concepire la storia dell'umanità, per ciò che concerne<BR>l'elemento etico, come un'evoluzione del bisogno, caratteristico<BR>dell'uomo, di organizzare la sua esistenza sulla<BR>base del mutuo appoggio. Tanto nei clan che, più tardi,<BR>nelle comunità rurali, nelle repubbliche e nelle città<BR>libere, queste forme sociali diventeranno, malgrado<BR>alcuni periodi di regresso, le fondamenta del nuovo progresso.<BR>S'intende che dobbiamo rinunciare all'idea di studiare<BR>la storia dell'umanità nel senso di una catena ininterrotta,<BR>di un'evoluzione che va dall'età della pietra<BR>fino all'epoca attuale. Lo sviluppo della società non è<BR>avvenuto senza interruzioni. Più volte si è stati costret-<BR>125<BR>ti a ricominciare: in India, in Egitto, in Mesopotamia,<BR>in Grecia, a Roma, nella penisola scandinava, nell'Europa<BR>occidentale; ogni volta partendo da tribù primitive<BR>e in seguito da comunità rurali. Se consideriamo ciascuna<BR>di queste linee di sviluppo, una dopo l'altra, vedremo<BR>soprattutto nell'Europa occidentale, dopo la caduta<BR>dell'Impero romano, un graduale estendersi delle nozioni<BR>di aiuto e di soccorso reciproco, prima dalla tribù alla<BR>città, poi alla nazione e infine all'unione internazionale<BR>delle nazioni. D'altra parte, a dispetto delle fasi di<BR>regresso che a diverse riprese si sono manifestate presso<BR>le stesse nazioni più civili, si può constatare una tendenza<BR>a estendere sempre più i benefici delle idee correnti<BR>sulla giustizia e sul reciproco aiuto tra gli uomini.<BR>Questa tendenza è portata avanti in seno ai popoli civili<BR>dagli esponenti del pensiero più avanzato e da quei<BR>movimenti popolari che vogliono attuare il progresso<BR>ponendo in essere alcune di quelle concezioni che sembra<BR>desiderabile attendersi dallo sviluppo futuro<BR>dell'evoluzione.<BR>Il fatto stesso che le fasi di regresso verificatesi<BR>periodicamente presso i diversi popoli siano considerate<BR>dalla parte più colta della società come dei fenomeni<BR>passeggeri, verosimilmente evitabili in avvenire, dimostra<BR>come il criterio etico sia collocato su un livello più<BR>elevato. Man mano che aumentano nella società civile i<BR>mezzi per soddisfare i bisogni dell'insieme della popolazione,<BR>aprendo in tal modo la via a una migliore comprensione<BR>della giustizia per tutti, le esigenze etiche<BR>diventano necessariamente sempre più elevate.<BR>Così, ponendosi dal punto di vista di un'etica scientifica<BR>e realistica, l'uomo può non soltanto credere nel<BR>progresso morale, ma fondare questa credenza su delle<BR>basi scientifiche, malgrado tutte le lezioni di pessimismo<BR>che riceve. La credenza nel progresso che all'inizio<BR>non era che una semplice ipotesi, si trova ora pienamente<BR>confermata dalla conoscenza; e d'altro canto non<BR>bisogna dimenticare che l'ipotesi precede sempre la scoperta<BR>scientifica.<BR>126<BR>Se la filosofia dell'empirismo, che si fonda sulle<BR>scienze naturali, non ha potuto, fino a oggi, provare<BR>l'esistenza di un progresso continuo delle regole morali<BR>(che si può considerare come uno degli elementi fondamentali<BR>dell'evoluzione), lo si deve, in gran parte, ai<BR>filosofi speculativi, cioè non scientifici. Sono questi che<BR>hanno insistentemente negato l'origine naturale del<BR>senso morale, abbandonandosi a infinite sottili dissertazioni<BR>per attribuirgli un'origine soprannaturale. Il<BR>loro lavoro si è talmente dilatato, fino alla «predestinazione<BR>dell'uomo», allo «scopo della nostra esistenza», ai<BR>«fini della natura e della Creazione», che una reazione<BR>doveva necessariamente prodursi contro tutte queste<BR>idee mitologiche e metafisiche. Contemporaneamente,<BR>gli evoluzionisti moderni, dopo aver mostrato l'esistenza<BR>nel regno animale di un'aspra lotta per la vita tra le<BR>diverse specie, si sono visti nell'impossibilità di ammettere<BR>che un fenomeno così brutale, origine di tante sofferenze<BR>per gli esseri viventi, potesse essere un'espressione<BR>della volontà dell'Essere Supremo. Così hanno<BR>finito per negare l'esistenza di un qualsiasi elemento<BR>morale. Ciò non significa che ora, quando si comincia a<BR>considerare lo sviluppo graduale delle specie, delle razze<BR>umane, delle istituzioni umane e dei princìpi stessi<BR>dell'etica nel senso di un'evoluzione naturale, non<BR>diventi possibile studiare, senza cadere nella filosofia<BR>del soprannaturale, le diverse forze che presiedono a<BR>queste evoluzioni, ivi compresa la forza naturale della<BR>morale che è costituita dal mutuo appoggio e dalla crescente<BR>attrazione reciproca.<BR>Perseverando in questo senso, si attua una grande<BR>conquista per la filosofia. Siamo così in diritto di concludere<BR>che lo studio della natura e della storia, giustamente<BR>inquadrato, denuncia l'esistenza costante di una<BR>doppia tendenza: da un lato la tendenza alla socialità;<BR>dall'altro, come risultato di questa, l'aspirazione a una<BR>maggiore intensità di vita, da cui il bisogno di una maggiore<BR>felicità per l'individuo, e l'aspirazione verso un<BR>progresso rapido dal punto di vista fisico, intellettuale e<BR>127<BR>morale.<BR>Questa duplice aspirazione è caratteristica della vita<BR>in generale, costituendo una delle proprietà fondamentali<BR>e uno degli attributi necessari a qualsiasi aspetto<BR>della vita nel nostro pianeta o altrove. Non si tratta di<BR>un tentativo della metafisica di inficiare la «universalità<BR>della legge morale», né di una semplice supposizione.<BR>Senza un aumento costante della socialità, cioè<BR>dell'intensità della vita e della varietà di sensazioni che<BR>essa apporta, la vita stessa è impossibile. Qui appunto<BR>risiede l'essenza centrale dell'esistenza. Se questa condizione<BR>viene meno, la vita stessa ne viene menomata<BR>avviandosi alla propria distruzione. Siamo davanti ad<BR>una vera e propria legge di natura.<BR>Ne risulta che la scienza, lungi dal misconoscere i<BR>fondamenti dell'etica, dà al contrario un contenuto concreto<BR>alle nebulose affermazioni metafisiche dell'etica<BR>trascendentale, cioè soprannaturale. Man mano che la<BR>scienza penetra sempre più a fondo nella natura essa<BR>dona all'etica evoluzionistica una certezza filosofica<BR>incontestabile, là dove il pensatore trascendentale non<BR>poteva fondarsi che su ipotesi assai vaghe.<BR>Un altro rimprovero spesso mosso al pensiero fondato<BR>sullo studio della natura, è ancor meno giustificato.<BR>Sarebbe un modo di pensare che non può che condurre<BR>alla conoscenza di una fredda verità matematica. Le<BR>conoscenze di questo tipo avrebbero poca influenza sulle<BR>nostre azioni. Lo studio della natura ci può tutt'al più<BR>ispirare l'amore per la verità, ma solo la religione può<BR>ispirare un'emozione superiore, come quella della «infinita<BR>bontà».<BR>Non è difficile provare che tale affermazione è infondata<BR>ed è per conseguenza falsa. L'amore per la verità<BR>costituisce già in sé una buona meta, la «migliore» di<BR>tutta la dottrina morale. E i credenti che siano anche<BR>persone intelligenti lo comprendono benissimo. Quanto<BR>alla nozione di bene e all'aspirazione verso questo bene,<BR>la «verità» di cui parliamo - il riconoscimento del<BR>mutuo appoggio come carattere fondamentale dell'esi-<BR>128<BR>stenza di tutti gli esseri viventi - è chiaramente una<BR>verità ispiratrice destinata un giorno a esprimere<BR>degnamente la poesia della natura, in quanto aggiunge<BR>alla conoscenza di questa un nuovo tratto: l'umanitarismo.<BR>Goethe, con la perspicacia del suo genio panteista,<BR>ne comprese tutta l'importanza filosofica quando lo zoologo<BR>Eckermann gliene fece cenno nel corso di una conversazione.<BR>Man mano che studiamo più da vicino l'uomo primitivo,<BR>constatiamo sempre più che dalla vita degli animali,<BR>con i quali viveva in stretta comunanza, egli<BR>acquisì le prime lezioni sulla coraggiosa difesa dei propri<BR>simili, sull'abnegazione a favore del gruppo,<BR>sull'amore illimitato per la famiglia, sull'utilità generale<BR>della vita in società. Le nozioni di «virtù» e di «vizio»<BR>non sono soltanto umane, ma zoologiche.<BR>Non è necessario insistere sull'influenza che le idee<BR>hanno sulle nozioni morali, come pure sull'influenza<BR>inversa che le nozioni morali hanno sulla fisionomia<BR>intellettuale di ciascuna epoca. L'aspetto e lo sviluppo<BR>intellettuale di un'epoca possono qualche volta prendere<BR>una direzione completamente falsa sotto la pressione<BR>di circostanze esterne diverse: sete di ricchezza, guerre,<BR>ecc.; esse possono, durante il corso della storia, rimbalzare<BR>in una nuova direzione e raggiungere, in questo<BR>modo, un livello più elevato. Ma nell'uno o nell'altro<BR>caso, la vita intellettuale di un'epoca esercita sempre<BR>una profonda influenza sull'insieme delle nozioni morali<BR>di una società. La stessa cosa è vera anche quando si<BR>tratta di un individuo.<BR>È altrettanto certo che i pensieri, le idee, sono delle<BR>forze, per usare l'espressione di Fouillée; essi diventano<BR>forze etiche, morali, quando sono giusti e sufficientemente<BR>diffusi per esprimere la vita della natura nel suo<BR>insieme e non soltanto in uno dei suoi aspetti. È per<BR>questo che quando si tratta di creare una morale<BR>suscettibile di determinare un'influenza duratura sulla<BR>società, bisogna cominciare a stabilirne le basi per mezzo<BR>di verità solidissime. Questo costituisce uno dei prin-<BR>129<BR>cipali ostacoli all'elaborazione di un sistema etico completo,<BR>capace di soddisfare le esigenze del nostro tempo.<BR>La causa è data dallo stato infantile in cui si trova<BR>ancora la scienza della società. La sociologia ha riunito<BR>da poco i suoi materiali; essa comincia soltanto ora a<BR>studiarli allo scopo di stabilire la direzione probabile<BR>della futura evoluzione dell'umanità. Essa urta continuamente<BR>contro una gran quantità di pregiudizi inveterati.<BR>L'etica moderna ha per compito principale quello di<BR>cercare, con la riflessione filosofica, ciò che vi è di comune<BR>tra le due categorie di sentimenti contrapposti che<BR>esistono nell'uomo; essa aiuta così a trovare non un<BR>semplice compromesso o un accordo tra i due, ma la<BR>loro sintesi, la loro generalizzazione. Alcuni di questi<BR>sentimenti portano gli uomini a dominare i loro simili<BR>in vista di scopi personali; altri, all'inverso, li portano a<BR>unirsi tra di loro per attendere con uno sforzo comune<BR>all'attuazione di ciò che non è possibile realizzare da<BR>soli. I primi rispondono a un bisogno fondamentale<BR>dell'uomo: il bisogno della lotta; i secondi rispondono a<BR>un altro bisogno egualmente fondamentale: quello<BR>dell'unione e della reciproca attrazione. Questi due<BR>gruppi di sentimenti non possono non entrare in conflitto,<BR>ma è assolutamente necessario trovare la loro sintesi,<BR>sotto una forma qualsiasi. Ciò è tanto più necessario<BR>per l'uomo moderno in quanto, se non ha delle convinzioni<BR>precise che lo mettano in grado di riconoscere il<BR>suo posto in questo conflitto, egli rischia di perdere la<BR>sua potenza attiva. Egli non può ammettere che la lotta<BR>per il predominio, la guerra al coltello tra gli individui e<BR>le nazioni, sia l'ultima parola della scienza; d'altra parte<BR>egli non crede che la questione possa essere risolta<BR>predicando la fratellanza e l'abnegazione, come il cristianesimo<BR>ha fatto per secoli senza mai arrivare però<BR>né alla fratellanza tra i popoli o tra gli uomini, né alla<BR>reciproca tolleranza tra le diverse dottrine cristiane.<BR>Quanto alla dottrina comunista, la maggioranza non vi<BR>crede per la stessa ragione su esposta. Così lo scopo<BR>130<BR>principale dell'etica è attualmente quello di aiutare<BR>l'uomo a trovare una soluzione a questa fondamentale<BR>contraddizione. A tal proposito, rivolgeremo ora l'attenzione<BR>ad un'analisi dettagliata dei mezzi ai quali gli<BR>uomini hanno fatto ricorso nei secoli per arrivare al più<BR>alto grado di benessere per tutti senza paralizzare, al<BR>contempo, l'energia personale di ciascuno. Allo scopo di<BR>giungere alla sintesi voluta, dobbiamo studiare egualmente<BR>le tendenze analoghe che si rivelano nella nostra<BR>società, i primi tentativi ancora timidi come le possibilità<BR>latenti. Poiché nessun nuovo movimento si produce<BR>senza risvegliare un certo entusiasmo, necessario a vincere<BR>l'inerzia intellettuale, la nuova etica avrà per compito<BR>fondamentale quello di suggerire all'uomo un ideale<BR>capace di risvegliare l'entusiasmo, donando agli<BR>uomini la forza necessaria per realizzare nella vita reale<BR>ciò che può conciliare l'energia individuale con il<BR>lavoro per il bene di tutti.<BR>Questa necessità di un ideale legato alla realtà ci<BR>porta a considerare la principale obiezione opposta a<BR>questi sistemi etici non religiosi. Essi mancherebbero<BR>dell'autorità necessaria, si dice, le loro finalità non risveglierebbero<BR>che il semplice sentimento del dovere,<BR>dell'obbligo. È perfettamente vero che l'etica empirica<BR>non ha mai preteso, come suo carattere vincolante, ciò<BR>che fonda, ad esempio, i dieci comandamenti di Mosé. È<BR>altrettanto vero che quando Kant propone l'«imperativo<BR>categorico» come fondamento della legge morale - «agisci<BR>in modo tale che l'aspirazione della volontà possa<BR>divenire il principio di una legge suscettibile di applicazione<BR>universale» - egli intende dimostrare che questa<BR>regola non ha bisogno di alcuna sanzione superiore per<BR>essere riconosciuta come universalmente vincolante.<BR>Essa è, continua Kant, una forma necessaria del pensiero,<BR>una categoria della nostra ragione; non è dedotta<BR>da alcuna considerazione utilitaristica.<BR>Ma la critica moderna, dopo Schopenhauer, ha<BR>mostrato che Kant sbaglia. Egli non ha provato per<BR>quali ragioni l'uomo si dovrebbe sottomettere a questo<BR>131<BR>«imperativo», ed è curioso che il ragionamento conduca<BR>lo stesso Kant all'idea che la sola ragione che permette<BR>al suo «imperativo» di aspirare al generale riconoscimento<BR>è la sua utilità sociale. Eppure le pagine in cui<BR>Kant dimostra che in nessun caso le considerazioni di<BR>utilità devono essere date come base per la morale sono<BR>le più belle che abbia scritto. In realtà egli ha composto<BR>uno splendido elogio del sentimento del dovere, ma non<BR>è riuscito a trovare a questo sentimento altra base che<BR>la conoscenza intima dell'uomo e il suo desiderio di conservare<BR>un'armonia tra le sue idee e i suoi atti.<BR>La morale empirica non cessa certamente di controbattere<BR>all'ingiunzione religiosa espressa dalle parole<BR>«Io sono il signore Dio tuo»; ma la contraddizione<BR>profonda che continua ad esistere tra le prescrizioni del<BR>cristianesimo e la vita reale delle società che si definiscono<BR>cristiane toglie comunque all'accusa in questione<BR>tutta la sua forza. Bisogna dire che la morale empirica<BR>non è completamente priva di un carattere condizionante.<BR>I diversi sentimenti e atti che, dopo August<BR>Comte, si chiamano «altruisti» possono essere facilmente<BR>suddivisi in due categorie. I primi, assolutamente<BR>necessari se si vuole vivere in società, non dovrebbero<BR>mai essere definiti altruisti: essi contengono un carattere<BR>di reciprocità e sono compiuti dall'individuo esclusivamente<BR>nel proprio interesse, come avviene per tutti<BR>gli atti dettati dall'istinto di conservazione. Accanto a<BR>questi atti ne esistono altri che non presuppongono<BR>alcuna reciprocità. Chi li compie dà la sua forza, la sua<BR>energia, il suo entusiasmo, senza attendere nulla in<BR>cambio, senza presupporre alcuna ricompensa. Sono<BR>proprio questi atti i grandi fattori di perfezionamento<BR>morale che è possibile definire obbligatori. Queste due<BR>categorie di atti sono costantemente confusi da tutti gli<BR>autori che trattano di morale, ed è per questo che si<BR>rilevano così tante contraddizioni nelle questioni relative<BR>all'etica.<BR>È facile, tuttavia, uscire da questa confusione. È<BR>chiaro fin dall'inizio che non bisogna confondere il<BR>132<BR>dominio dell'etica con quello della legislazione. L'etica<BR>non dà risposta alcuna a questo problema: una legislazione<BR>è, o meno, necessaria? La morale è al di sopra di<BR>questo problema. Si conoscono numerosi studiosi di etica<BR>che negano la necessità di una qualsiasi legislazione<BR>e si appellano direttamente alla coscienza umana; agli<BR>inizi della Riforma, questi pensatori esercitarono una<BR>notevole influenza. Il compito dell'etica non è quello di<BR>insistere sui difetti dell'uomo e rimproverargli i suoi<BR>«peccati»: essa deve fare opera positiva, indirizzandosi<BR>ai suoi migliori istinti. L'etica definisce e spiega i<BR>princìpi fondamentali senza i quali né gli animali né gli<BR>uomini avrebbero potuto vivere in società. Successivamente,<BR>fa appello a qualcosa di superiore: all'amore, al<BR>coraggio, alla fratellanza, al rispetto di se stessi, a una<BR>vita conforme all'ideale. Infine, dice all'uomo che se<BR>vuole vivere una vita nella quale tutte queste forze trovino<BR>piena espressione, deve rinunciare una volta per<BR>tutte a credere che sia possibile vivere senza tener conto<BR>dei bisogni e dei desideri dei suoi simili. L'etica insegna<BR>che ci si avvicina a questa vita solo quando si stabilisce<BR>una certa armonia tra l'individuo e coloro che lo<BR>circondano. E aggiunge: «Guardate la natura, studiate<BR>il passato dell'uomo, vi troverete la verità». Quando<BR>l'uomo, per una ragione qualsiasi, esita non sapendo<BR>come agire in un caso determinato, l'etica gli viene in<BR>aiuto mostrandogli come lui stesso vorrebbe che gli altri<BR>agissero nei suoi riguardi nelle stesse circostanze.<BR>Anche in questo caso, l'etica non indica alcuna linea<BR>di condotta in modo rigido, perché l'uomo deve misurare<BR>da sé il valore dei diversi argomenti. A chi è incapace<BR>di sopportare uno scacco, è inutile consigliare il rischio.<BR>Allo stesso modo è inutile predicare a un giovane pieno<BR>di energia la prudenza dell'età matura. Egli ribatterà<BR>con le parole profondamente giuste con le quali Egmont<BR>si rivolge al vecchio conte Oliver nel dramma di Goethe,<BR>ed avrà ragione: «Come se fossero posseduti da spiriti<BR>invisibili, i corsieri luminosi del tempo trasportano il<BR>leggero veicolo del nostro destino; non ci resta che tene-<BR>133<BR>re coraggiosamente le redini e guidare il carro, a sinistra,<BR>per evitare una pietra, a destra, per evitare una<BR>frana. Dove siamo condotti? Non si sa. Noi sappiamo<BR>soltanto da dove veniamo». [...]<BR>Ma lo scopo principale dell'etica non è quello di dare<BR>consigli individuali. Essa tende piuttosto a prospettare<BR>all'insieme degli uomini un fine supremo, un ideale che<BR>li guidi e li inciti ad agire istintivamente nella direzione<BR>voluta, meglio di qualsiasi consiglio. Proprio come lo<BR>scopo dell'educazione è di abituare a effettuare quasi<BR>inconsciamente una moltitudine di ragionamenti appropriati,<BR>così lo scopo dell'etica è di creare un'atmosfera<BR>sociale in grado di far comprendere alla maggioranza<BR>degli uomini, in modo assolutamente abitudinario, cioè<BR>senza esitazioni, gli atti che conducono al benessere di<BR>tutti e al massimo di felicità per ciascuno.<BR>È questo lo scopo finale dell'etica. Per raggiungerlo,<BR>dobbiamo sbarazzare le teorie etiche dalle contraddizioni<BR>interne.<BR>Così, ad esempio, la morale che predica la «benevolenza<BR>» per misericordia e per pietà, porta in sé una<BR>mortale contraddizione. Essa comincia con il proclamare<BR>la necessità della giustizia per tutti, cioè l'uguaglianza<BR>o una fratellanza perfetta, che poi è la stessa cosa<BR>dell'uguaglianza, o almeno un'uguaglianza di diritto.<BR>Successivamente si affretta ad aggiungere che è inutile<BR>perseguire questo scopo: l'uguaglianza è irrealizzabile...<BR>Quanto alla fratellanza, che poi è la base di tutte le<BR>religioni, non bisogna prenderla alla lettera: è solo una<BR>parola poetica usata da predicatori entusiasti. «La disuguaglianza<BR>è una legge di natura», affermano i predicatori<BR>religiosi che, in questo caso, evocano la natura. Ma<BR>noi consigliamo di domandare delle lezioni alla natura<BR>piuttosto che alla religione, la quale ha preteso di sottomettere<BR>la natura. Ma diventando troppo evidente la<BR>disuguaglianza tra gli uomini, continuando le ricchezze<BR>a essere accaparrate da una piccola minoranza delimitata,<BR>la maggioranza degli uomini è ridotta a vivere nella<BR>più grave miseria. Essere in favore del povero è allo-<BR>134<BR>ra un vero e proprio dovere sacro, purché ciò non intacchi<BR>la propria situazione privilegiata. Una morale simile<BR>può certamente mantenersi per qualche tempo, o<BR>anche per parecchio tempo se viene sostenuta dalla<BR>religione così come l'interpreta la Chiesa imperante.<BR>Ma dal momento in cui l'uomo applica alla religione il<BR>suo spirito critico e cerca di stabilire dei convincimenti<BR>concreti per mezzo della ragione, e non per mezzo della<BR>fede e dell'obbedienza evangelica, questa contraddizione<BR>interna non può reggere a lungo: egli cercherà di<BR>separarsene, e prima lo fa meglio è; la contraddizione<BR>interna è la morte dell'etica, un verme che rode e<BR>distrugge tutta l'energia di un uomo.<BR>La moderna teoria della morale è basata su una condizione<BR>fondamentale: essa non deve intralciare l'attività<BR>spontanea dell'individuo, neanche per uno scopo<BR>elevato quale potrebbe essere il bene della società o della<BR>specie. Wundt, nella sua eccellente esposizione delle<BR>dottrine etiche, fa osservare che dopo «il secolo dei<BR>lumi», alla metà del XVIII secolo, quasi tutti i sistemi<BR>morali sono diventati individualistici. Ma questo punto<BR>di vista è vero solo in parte, in quanto i diritti dell'individuo<BR>sono stati difesi con grande energia solo in campo<BR>economico. E anche qui la libertà individuale è stata, in<BR>pratica come in teoria, più apparente che reale. Quanto<BR>agli altri settori - politico, intellettuale, artistico - si<BR>può dire che man mano che l'individualismo economico<BR>si è affermato con maggiore energia, l'assoggettamento<BR>dell'individuo all'organizzazione militare dello Stato e<BR>al suo sistema di istruzione, per non parlare della disciplina<BR>intellettuale necessaria a mantenere le istituzioni<BR>esistenti, è costantemente aumentato. Anche la maggior<BR>parte dei riformatori sociali di tendenze estremiste<BR>ammettono ora, come premessa necessaria delle loro<BR>previsioni future, una maggiore ingerenza dello Stato<BR>nel raggio di azione dell'individuo.<BR>Questa tendenza non ha mancato di sollevare proteste,<BR>formulate da Godwin agli inizi del XIX secolo e da<BR>Spencer nella seconda metà dello stesso secolo; essa ha<BR>135<BR>portato Nietzsche ad affermare che è meglio rifiutare la<BR>morale, se non le si può trovare altra base che il sacrificio<BR>dell'individuo a favore del genere umano. Questa<BR>critica delle dottrine morali correnti costituisce una delle<BR>caratteristiche intellettuali della nostra epoca, tanto<BR>più che il suo movente principale non è tanto un'aspirazione<BR>all'indipendenza economica (come è avvenuto nel<BR>XVIII secolo per tutti i difensori dei diritti dell'individuo,<BR>Godwin escluso), quanto invece il desiderio appassionato<BR>di indipendenza individuale in vista della creazione<BR>di un nuovo e migliore ordine sociale, dove il benessere<BR>di tutti diventerà la base per il completo sviluppo<BR>dell'individuo.<BR>Uno sviluppo insufficiente dell'individuo conduce<BR>invece a una mentalità gregaria, caratterizzata da<BR>mancanza di iniziativa e di forza creatrice personale.<BR>Ciò costituisce uno dei difetti peculiari del nostro tempo.<BR>L'individualismo economico non ha rispettato le sue<BR>promesse: non ha condotto al rigoglioso sbocciare della<BR>personalità... D'altro canto, nel settore sociale l'opera<BR>creatrice si è manifestata con estrema lentezza e l'imitazione<BR>resta il grande sistema di diffusione delle innovazioni<BR>fatte dal progresso. Le nazioni moderne ripetono<BR>la storia delle popolazioni barbare e delle città<BR>medievali, che copiavano le une dalle altre i loro movimenti<BR>politici, religiosi ed economici, e le loro «carte della<BR>libertà». Nazioni intere hanno di recente assimilato<BR>con sorprendente rapidità la civiltà industriale e militare<BR>europea, e queste riedizioni - non ancora riordinate<BR>- di antichi modelli mostrano in modo chiarissimo la<BR>superficialità di ciò che chiamiamo cultura e come tutto<BR>si basi su semplici modelli imitativi.<BR>È ora naturale porsi questa domanda: le dottrine<BR>morali attualmente diffuse non hanno contribuito a<BR>questa subordinazione imitativa? Non si sono date troppo<BR>da fare a costruire un uomo che sia «automa di idee»,<BR>nel senso indicato da Herbart, un essere immerso nella<BR>contemplazione e che cova dentro tutte le tempeste delle<BR>passioni? Non è giunto il momento di difendere i<BR>136<BR>diritti dell'uomo pieno di energia, capace di amare con<BR>forza ciò che è degno di amore e di odiare ciò che merita<BR>l'odio, sempre pronto a combattere per l'ideale che esalta<BR>il suo amore e giustifica le sue antipatie? I filosofi del<BR>mondo antico proposero una particolare interpretazione<BR>della «virtù», diffusa anche oggi, nel senso di una «saggezza<BR>» che incoraggia l'uomo a «sviluppare la bellezza<BR>del suo animo» piuttosto che a lottare contro i mali del<BR>suo tempo a fianco dei suoi «simili». Più tardi si chiamò<BR>virtù la «non resistenza al male», e per lunghi secoli la<BR>«salute dell'anima», unita alla rassegnazione e all'attitudine<BR>passiva verso il male, ha costituito l'essenza<BR>dell'etica cristiana. Ne sono scaturiti una serie di sottili<BR>argomenti in favore dell'«individualismo virtuoso» e<BR>l'apologia di una indifferenza monastica verso i mali<BR>della società. Fortunatamente, comincia a farsi sentire<BR>una reazione contro questo tipo di virtù egoista. E una<BR>domanda si fa avanti: l'attitudine passiva a contatto del<BR>male non è una vigliaccheria criminale? Non aveva<BR>ragione lo Zend-Avesta quando affermava che la lotta<BR>attiva contro Ahriman è la condizione prima della<BR>virtù? Il progresso morale è necessario, ma è impossibile<BR>senza il coraggio morale.<BR>Nel groviglio dei problemi posti dalla dottrina morale,<BR>questi sono quelli che abbiamo potuto discernere<BR>nell'attuale conflitto di idee. Tutti portano a una conclusione<BR>fondamentale: la richiesta di un nuovo modo di<BR>intendere la morale, in particolare i suoi princìpi essenziali<BR>che devono essere assai flessibili per dare nuova<BR>vita alla nostra civiltà; e ancora, la richiesta di liberarla<BR>dalle sopravvivenze extranaturali e trascendentali,<BR>come pure dalle ristrette idee dell'utilitarismo borghese.<BR>Gli elementi per questa nuova visione della morale<BR>esistono già. L'importanza della socialità e del mutuo<BR>appoggio nell'evoluzione animale e nella storia<BR>dell'umanità può, mi sembra, essere ammessa come<BR>una verità scientifica stabilita, e non più ipotetica. Possiamo<BR>inoltre considerare come provato il fatto che man<BR>137<BR>mano che il mutuo appoggio diventa, nella società, un<BR>costume consolidato, realizzato per così dire istintivamente,<BR>questa pratica conduce allo sviluppo del sentimento<BR>di giustizia, con il suo senso di uguaglianza o<BR>equità come corollario obbligato, e all'attitudine a contenere<BR>i propri impulsi nel nome di questa uguaglianza.<BR>L'idea che i diritti individuali sono inviolabili, allo stesso<BR>modo dei diritti naturali di tutti gli altri, si sviluppa<BR>man mano che scompaiono le distinzioni di classe. Questa<BR>idea diventa una nozione corrente quando una corrispondente<BR>trasformazione si fa sentire nelle istituzioni<BR>sociali.<BR>Un certo grado di identificazione degli interessi propri<BR>dell'individuo con quelli del suo gruppo ha dovuto<BR>necessariamente esistere agli inizi della vita sociale;<BR>esso si manifesta anche presso gli animali inferiori. Ma<BR>con il radicarsi dei rapporti di uguaglianza e di giustizia<BR>nelle società umane, si è preparato il terreno per lo<BR>sviluppo e l'estensione ulteriori di questi rapporti. Grazie<BR>a questi l'uomo si è abituato a capire e a rilevare le<BR>ripercussioni dei suoi atti sull'intera società, incominciando<BR>a trattenersi dal danneggiare gli altri, anche nel<BR>caso di dover rinunciare a soddisfare un proprio desiderio;<BR>egli arriva ora a identificare i suoi sentimenti con<BR>quelli degli altri, che si dimostrano pronti a donargli le<BR>proprie forze senza attendere nulla in cambio. Questo<BR>genere di sentimenti e di abitudini non egoiste, che si<BR>designano ordinariamente con i nomi assai inesatti di<BR>altruismo e abnegazione, merita a parer mio solo il<BR>nome di morale, benché la maggior parte dei pensatori<BR>continui a confonderlo ancor oggi con il semplice senso<BR>di giustizia.<BR>Il mutuo appoggio, la giustizia, la morale, sono i gradi<BR>ascendenti degli stati psichici che si sono resi evidenti<BR>grazie allo studio del mondo animale e dell'uomo.<BR>Essi sono una necessità organica, che ha in sé una propria<BR>giustificazione e che conferma tutta l'evoluzione<BR>del mondo animale, dai primi scalini (sotto forma di<BR>colonie di molluschi) su per la successiva scala evoluti-<BR>138<BR>va fino alle più perfezionate società umane. Possiamo<BR>dire che in questo vi è una legge generale e universale<BR>dell'evoluzione organica, che agisce in modo che il<BR>mutuo appoggio, la giustizia e la morale siano profondamente<BR>radicati nell'uomo con tutta la potenza degli<BR>istinti innati. Il primo dei tre, l'istinto del mutuo appoggio,<BR>è evidentemente il più forte; il terzo, il più tardo ad<BR>apparire, è un sentimento incostante e considerato<BR>quello meno obbligante. [...]<BR>Questa è la solida base che la scienza può fornirci per<BR>l'elaborazione e la giustificazione di un nuovo sistema<BR>etico. Invece di proclamare il «fallimento della scienza»,<BR>dobbiamo quindi esaminare come sia possibile edificare<BR>un'etica scientifica con gli elementi acquisiti a questo<BR>scopo dalle ricerche moderne fondate sulla teoria<BR>dell'evoluzione. [.]<BR>La nozione di «giustizia», che ha avuto agli inizi lo<BR>stesso significato di vendetta, si riallaccia direttamente<BR>all'osservazione degli animali. È assai probabile però<BR>che la stessa idea di ricompensa e castigo (giusto e<BR>ingiusto) nei confronti degli animali, sia nata nell'uomo<BR>primitivo dalla considerazione che gli animali si vendicano<BR>dell'uomo che non li tratta come occorre. Questo<BR>pensiero è così profondamente radicato nello spirito dei<BR>selvaggi del mondo intero che lo si deve considerare<BR>come una delle nozioni fondamentali dell'umanità. A<BR>poco a poco questa nozione si è espansa ed è diventata<BR>l'idea del Gran Tutto, in cui tutte le parti si riuniscono<BR>in base a princìpi di mutuo appoggio. Questo Gran Tutto<BR>sorveglia gli atti di tutti gli esseri viventi e, in ragione<BR>di questa reciprocità, ha il compito di punire le azioni<BR>malvagie.<BR>Da questa nozione è nata l'idea delle Erinni e delle<BR>Moire presso i Greci, delle Parche presso i Romani, di<BR>Karma presso gli Indù. La leggenda greca delle gru di<BR>Ibycus, che lega il mondo degli uomini a quello degli<BR>uccelli, e le innumerevoli leggende orientali sono l'e-<BR>139<BR>spressione poetica di questa stessa idea. Più tardi esse<BR>si sono estese ai fenomeni celesti: nei libri sacri più<BR>antichi dell'India, i «Veda», le nuvole sono, ad esempio,<BR>esseri viventi analoghi agli animali.<BR>Ecco ciò che l'uomo primitivo ha visto nella natura,<BR>ecco gli insegnamenti che ne ha ricevuto. Sotto l'influenza<BR>del nostro insegnamento scolastico, che ignora<BR>sistematicamente la natura ed estrinseca gli atti più<BR>normali dell'esistenza facendo ricorso alla superstizione<BR>o alle astrusità metafisiche, noi abbiamo cominciato a<BR>dimenticare queste grandi lezioni. Ma per i nostri antenati<BR>dell'età della pietra, la socialità e il mutuo appoggio<BR>all'interno della tribù dovevano essere fatti del tutto<BR>abituali e generali in quanto non poteva esserci per loro<BR>altra rappresentazione della vita.<BR>L'idea dell'uomo come essere isolato è un frutto della<BR>civiltà più avanzata, un prodotto delle leggende create<BR>in Oriente tra uomini che rifuggivano la società. Lunghi<BR>secoli sono stati sprecati per diffondere nell'umanità<BR>questa idea astratta. Agli occhi degli uomini primitivi<BR>l'esistenza di un essere isolato appariva così estranea,<BR>così rara e contraria alla natura degli esseri viventi,<BR>che quando vedevano la tigre, il tasso o il toporagno<BR>condurre una vita isolata, oppure un albero crescere<BR>solo fuori dalla foresta, restavano tanto colpiti da affidare<BR>le loro impressioni alla leggenda per spiegare un<BR>fenomeno talmente strano. Non si sono mai create leggende<BR>per spiegare la vita in società, ma sempre per<BR>spiegare un esempio di vita isolata. Spesso, se l'eremita<BR>non era un saggio che si ritirava temporaneamente dal<BR>mondo, per meglio meditare sui suoi destini, e non era<BR>neppure uno stregone, era allora un bandito cacciato<BR>dal suo gruppo per qualche grave violazione dei costumi<BR>stabiliti dalla vita comunitaria. Esso aveva compiuto<BR>un atto talmente in contrasto con il modo di esistenza<BR>abituale che la società lo aveva espulso. Frequentemente<BR>si trattava di uno stregone cui si attribuivano poteri<BR>sulle forze del male e in rapporto con i cadaveri, fonti di<BR>infezione. Per questo si aggirava solo nella notte perse-<BR>140<BR>guendo nell'oscurità i suoi disegni malvagi.<BR>Tutti gli altri esseri vivono in società ed è con questo<BR>orientamento che lavora lo spirito dell'uomo: la vita<BR>sociale, cioè noi e non io, ecco il modo di esistenza naturale.<BR>Si tratta della vita stessa in azione. Per questo<BR>«noi» deve essere stata la forma di pensiero comune<BR>dell'uomo primitivo, una «categoria» del suo spirito,<BR>come direbbe Kant.<BR>Con questa identificazione, o meglio con questa dissoluzione<BR>dell'«io» nella tribù e nella popolazione, vengono<BR>gettati i rudimenti di tutto il pensiero etico, di tutte<BR>le nozioni morali. L'affermazione dell'individualità è<BR>venuta molto più tardi. Ancora adesso, la personalità,<BR>l'«individuo», quasi non esistono nella mentalità dei selvaggi<BR>primitivi. Il primo posto appartiene nel loro spirito<BR>al clan, con i suoi costumi ben definiti, i suoi pregiudizi,<BR>le sue credenze, le sue difese, le sue abitudini, i<BR>suoi interessi.<BR>È in questa identificazione costante dell'umanità con<BR>il tutto che si rinviene l'origine dell'etica; per conseguenza<BR>è da essa che sono nate le idee di giustizia e le<BR>idee ancora più elevate di morale. [...]<BR>La natura è stata quindi la prima ad insegnare<BR>all'uomo la morale. Non quel genere di natura che<BR>descrivono i filosofi nel chiuso dei loro studi, o i naturalisti<BR>che non la studiano se non attraverso gli esemplari<BR>senza vita dei musei; ma la natura di cui si sono occupati<BR>i grandi iniziatori della zoologia descrittiva studiandola<BR>sul continente americano (con una popolazione<BR>all'epoca ancora ridotta), in Africa e in Asia, cioè studiosi<BR>come Audubon, Asara, Wied, Brehm e altri. Ci<BR>riferiamo, pertanto, a quella natura cui pensava<BR>Darwin quando ha scritto, ne L'origine dell'uomo, una<BR>breve esposizione dell'origine del senso morale nell'individuo.<BR>È fuor di dubbio che l'istinto di socialità ereditato<BR>dall'uomo, e pertanto profondamente radicato in lui, ha<BR>141<BR>dovuto via via svilupparsi e fortificarsi a seguito anche<BR>dell'aspra lotta per l'esistenza. [.]<BR>I primi elementi di questa morale si trovano, come si<BR>è detto, nel sentimento di socialità. L'istinto gregario, il<BR>bisogno di aiuto reciproco, esistono presso tutti gli animali<BR>e si sono sviluppati in seguito nelle società umane<BR>primitive. D'allora in poi diventa naturale che l'uomo,<BR>grazie all'esistenza del linguaggio che sviluppa la<BR>memoria e crea la tradizione, stabilisca regole di vita<BR>molto più complesse di quelle esistenti presso gli animali.<BR>Successivamente, con la nascita della religione,<BR>anche nelle sue forme più grossolane, un nuovo elemento<BR>viene introdotto nell'etica umana, elemento che contribuisce<BR>a darle una certa stabilità e, più tardi, un certo<BR>spirito e un certo idealismo.<BR>Con l'evolversi della vita sociale, la nozione di equità<BR>nelle relazioni reciproche viene a prendere un posto via<BR>via più grande. I primi rudimenti della giustizia, sotto<BR>forma di parità di trattamento, si osservano già presso<BR>gli animali, in particolare i mammiferi. Infatti la madre<BR>allatta diversi piccoli senza discriminazioni, mentre nei<BR>giochi si hanno delle regole stabilite e obbligatorie per<BR>tutti indistintamente. Ma il passaggio dall'istinto di<BR>socialità, cioè dalla semplice attrazione, dal semplice<BR>bisogno di vivere in mezzo ai propri simili, alla concezione<BR>della necessità della giustizia nei rapporti reciproci<BR>si effettua nell'uomo, nell'interesse stesso della<BR>vita sociale. In ogni società infatti i desideri e le passioni<BR>di un individuo urtano contro i desideri e le passioni<BR>degli altri individui anche loro membri della società.<BR>Questi conflitti condurrebbero fatalmente a continue<BR>discordie e alla disgregazione finale della società senza<BR>la nozione, elaborata al contempo tra gli uomini (così<BR>come era già stata elaborata tra taluni animali), di<BR>uguaglianza tra tutti i membri della società. Questa<BR>nozione fa nascere, a poco a poco, quella di equità, che<BR>esprime, come dice la stessa parola (aequitas), un'idea<BR>142<BR>di uguaglianza. È per questo che gli antichi rappresentavano<BR>la giustizia sotto l'aspetto di una donna con gli<BR>occhi bendati e una bilancia in mano. [...]<BR>È certo che in tutte le società, a qualsiasi grado di<BR>evoluzione si trovino, vi sono sempre stati e sempre vi<BR>saranno individui che vogliono approfittare della loro<BR>forza, della loro abilità, del loro acume o del loro coraggio<BR>per sottomettere le volontà altrui; e alcuni raggiungono<BR>lo scopo. Se ne trovano certamente anche presso i<BR>popoli primitivi, come presso tutti i popoli e tutte le razze,<BR>a tutti i livelli di civiltà. Ma, a tutti i livelli, vediamo<BR>anche che, per controbilanciare le loro azioni, compaiono<BR>dei costumi diretti a impedire l'espandersi dell'individuo<BR>a spese della società. Tutte le istituzioni che<BR>l'umanità ha elaborato nelle diverse epoche - il clan, la<BR>comunità rurale, la città, le repubbliche con le loro<BR>assemblee popolari, l'autonomia delle parrocchie e delle<BR>province, il governo rappresentativo ecc. - tutte avevano<BR>lo scopo di proteggere la società contro la volontà<BR>individuale di questi uomini e contro la nascita del loro<BR>potere. [.]<BR>Tutta la storia dell'umanità può essere considerata,<BR>in definitiva, come la manifestazione di due tendenze:<BR>da una parte, la tendenza degli individui o dei gruppi a<BR>impadronirsi del potere per sottomettere le grandi masse<BR>al loro dominio; dall'altra, la tendenza a mantenere<BR>l'uguaglianza (almeno tra le persone di sesso maschile)<BR>e a resistere a questa conquista del potere, o almeno a<BR>limitarla, cioè a mantenere la giustizia all'interno del<BR>clan, della tribù o della federazione dei clan.<BR>Quest'ultima tendenza si manifesta in maniera nettissima<BR>anche in seno alle città libere del Medio evo,<BR>soprattutto durante i secoli successivi all'emancipazione<BR>dai signori feudali. Le città libere erano in ultima<BR>analisi delle unioni difensive di cittadini che si mettevano<BR>insieme per lottare contro i feudatari vicini. Ma<BR>ben presto la popolazione di queste città si divise in<BR>143<BR>strati. Inizialmente, il commercio era praticato dalla<BR>città intera, e infatti i prodotti delle industrie urbane e<BR>le merci acquistate nelle campagne erano esportate dalla<BR>città stessa, tramite alcuni mandatari, e il profitto<BR>restava alla città nel suo complesso. A poco a poco,<BR>però, da sociale il commercio divenne privato, arricchendo<BR>non solo le città ma in particolare i liberi mercanti<BR>(mercatori libri) che, soprattutto dopo le Crociate,<BR>intrapresero un attivo commercio con l'Oriente. Successivamente<BR>nacque la classe dei banchieri alla quale si<BR>rivolgevano, in caso di bisogno, non solo i nobili cavalieri<BR>decaduti ma, via via, le stesse città.<BR>È così che all'interno delle città, un tempo libere, si<BR>era andata costituendo una classe aristocratica di mercanti<BR>che le dominava e che dava il suo sostegno al<BR>papa o all'imperatore, nell'intento di avere dalla loro<BR>questa o quella città, oppure a un re o a un principe<BR>che, interessato alla conquista di una città, si appoggiava<BR>ai ricchi mercanti oltre che alla popolazione più<BR>povera. Gli Stati centralizzati moderni si sono formati<BR>in questo modo. [.] L'assoggettamento delle piccole<BR>unità alle più forti e la concentrazione del potere vennero<BR>poi completati con la formazione dei grandi Stati<BR>politici.<BR>Naturalmente una tale trasformazione, fondamentale<BR>per la vita pubblica come per le rivolte religiose o le<BR>guerre, non mancò di imprimere il suo modello all'insieme<BR>delle idee morali di ogni Paese e di ogni epoca. Un<BR>giorno sarà fatto uno studio dell'evoluzione morale in<BR>rapporto alle modificazioni della vita sociale. Per adesso<BR>questo campo viene lasciato dalla scienza delle idee e<BR>delle dottrine morali (l'etica) a un'altra scienza (la<BR>sociologia), che è la scienza della vita e dell'evoluzione<BR>delle società. Per evitare di oscillare tra questi due<BR>campi è bene, per il nostro lavoro, limitarci a quello di<BR>stretta competenza dell'etica.<BR>Presso tutti gli uomini, per quanto rudimentale sia il<BR>loro grado di sviluppo, come presso certi animali sociali,<BR>constatiamo - come abbiamo fatto personalmente - cer-<BR>144<BR>ti tratti che attengono alla morale. In tutti i gradi<BR>dell'evoluzione umana troviamo la socialità e il sentimento<BR>comunitario. Alcuni uomini si mostrano più<BR>pronti ad aiutare gli altri, qualche volta anche a rischio<BR>della loro stessa vita. Queste qualità contribuiscono a<BR>mantenere e sviluppare la vita sociale che, a sua volta,<BR>assicura a tutti la vita stessa e il benessere. Esse vengono<BR>man mano considerate, anche nelle epoche più<BR>remote, non solo qualità desiderabili ma necessarie. I<BR>vecchi saggi, gli stregoni dei popoli primitivi e, più tardi,<BR>i preti raffigurano questi tratti della natura umana<BR>come effetti di ordini venuti dall'alto, emanati da forze<BR>misteriose, che siano dei o un creatore unico. Ma fin dai<BR>tempi più remoti, in particolare dopo l'epoca della fioritura<BR>delle scienze in Grecia, cioè da più di 2500 anni,<BR>alcuni pensatori si sono posti il problema dell'origine<BR>naturale di quei sentimenti e di quelle idee morali che<BR>impediscono agli uomini di compiere in generale atti<BR>nocivi per i loro simili o per i legami societari. Essi hanno<BR>cercato, in altri termini, una spiegazione naturale a<BR>ciò che si chiama morale dell'uomo e a ciò che in tutte le<BR>società è indiscutibilmente considerato come desiderabile.<BR>Tentativi di questo genere sembra siano stati fatti<BR>anche in epoche molto remote, e infatti se ne trovano<BR>tracce anche in Cina e in India. Ma solo quelli della<BR>Grecia antica sono arrivati fino a noi in forma scientifica.<BR>In Grecia, per quasi quattro secoli, tutta una serie<BR>di pensatori - Socrate, Platone, Aristotele, Epicuro e,<BR>più tardi, gli stoici - hanno esaminato seriamente, da<BR>un punto di vista filosofico, le fondamentali questioni<BR>che seguono:<BR>. da dove provengono nell'uomo le regole morali in<BR>grado di contrastare le sue passioni e spesso di frenarle?<BR>. da dove deriva il sentimento obbligante della morale,<BR>sentimento che si manifesta anche presso uomini<BR>che negano le regole morali esistenziali?<BR>145<BR>. si tratta forse del frutto della nostra educazione, di<BR>cui saremmo incapaci di sbarazzarci, come affermano<BR>attualmente alcuni pensatori e come hanno già affermato<BR>in passato alcuni negatori della morale?<BR>. oppure la coscienza dell'uomo è frutto della natura<BR>stessa? E in questo caso, non si è radicata nel corso della<BR>sua vita in società durante migliaia e migliaia di<BR>anni?<BR>. e se è così, bisogna allora sviluppare questa<BR>coscienza, oppure sarebbe meglio distruggerla e incoraggiare<BR>il sentimento opposto, l'egoismo, secondo cui<BR>l'ideale dell'uomo di cultura è negare ogni morale?<BR>Dopo più di duemila anni i pensatori lavorano ancora<BR>su questi problemi, inclinando periodicamente ora verso<BR>l'una ora verso l'altra delle soluzioni prospettate. Dai<BR>loro lavori è nata una scienza: l'etica.<BR>146<BR>VII<BR>In Campi, fabbriche, officine non è delineato soltanto<BR>il concetto di piccola comunità, ma anche quello di integrazione<BR>fra città e campagna quale risoluzione sintetica<BR>del trinomio uomo-natura-ambiente. Per Kropotkin<BR>un piano della libertà e dell'uguaglianza deve esplicarsi<BR>attraverso due aspetti complementari: l'integrazione in<BR>ogni individuo del lavoro manuale con quello intellettuale,<BR>l'integrazione geografico-sociale della città con la<BR>campagna. I due aspetti sono complementari perché<BR>mirano al superamento di due forme dello stesso fenomeno<BR>del dominio, così com'è concepito dal più classico<BR>schema anarchico, vale a dire quale rapporto che va<BR>dall'alto al basso, dal centro alla periferia, dal punto<BR>più alto della piramide alla linea più bassa della base.<BR>In questo senso diventa logico modellare le istituzioni<BR>umane sui ritmi naturali della crescita sociale, immettendo<BR>nella creazione culturale delle forme continuamente<BR>adattabili e funzionali al senso spontaneo dello<BR>sviluppo collettivo. La rete di questa comunità si compone<BR>di un'infinita varietà di associazioni federate di tutte<BR>le dimensioni e gradi, locali, regionali, nazionali e internazionali<BR>- temporanee o permanenti - per tutti gli scopi<BR>possibili. Come nella vita organica, l'armonia risulta<BR>dall'assestamento e riassestamento, dall'equilibrio con-<BR>147<BR>tinuo di forze e di influenze diverse secondo una radicale<BR>insorgenza dal basso, una irreversibile immanenza<BR>del sociale che deve rendere impossibile ogni costruzione<BR>politica imposta dall'alto.<BR>In altri termini, i problemi della convivenza non vanno<BR>risolti attraverso mega-strutture, ma riformulando<BR>completamente le domande di una socialità integrata e<BR>controllabile, interrogando questa rispetto ai bisogni<BR>effettivi della comunità che si trova a vivere in un determinato<BR>contesto fisico, sotto un determinato clima e perciò<BR>carica di un determinato passato. Scrive Lewis<BR>Mumford in La città nella storia: «Con quasi mezzo<BR>secolo di anticipo sul pensiero tecnico ed economico contemporaneo,<BR>Kropotkin aveva intuito che la duttilità e<BR>l'adattabilità delle comunicazioni e dell'energia elettrica,<BR>unite alla possibilità di un'agricoltura intensiva e<BR>biodinamica, avevano posto le basi di un'evoluzione<BR>urbana più decentrata da svolgersi attraverso piccole<BR>comunità basate sul contatto umano diretto e provviste<BR>dei vantaggi della città oltre che di quelli della campagna.<BR>Kropotkin si rese conto che i nuovi mezzi di trasporto<BR>e di comunicazione, uniti alla possibilità di trasmettere<BR>l'energia elettrica attraverso una rete e non<BR>mediante una linea unidimensionale, mettevano le piccole<BR>comunità sullo stesso piano della supercongestionata<BR>metropoli per quanto concerneva la possibilità delle<BR>attrezzature tecniche essenziali. [...] Prendendo come<BR>base la piccola comunità, egli colse l'opportunità di una<BR>vita locale più responsabile e più sensibile, che lasciasse<BR>maggior campo d'azione a quegli aspetti umani trascurati<BR>e frustrati dall'organizzazione di massa».<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana di Campi, fabbriche, officine del 19822,<BR>nella traduzione (rivista) di Franco Marano.<BR>148<BR>PICCOLO È BELLO<BR>Le due attività sorelle dell'agricoltura e dell'industria<BR>non sono sempre state così estranee l'una all'altra<BR>come lo sono oggi. C'è stato un tempo, e quel tempo non<BR>è molto lontano, in cui entrambe erano intimamente<BR>legate: i villaggi ospitavano allora una molteplicità di<BR>officine e gli artigiani delle città non abbandonavano<BR>l'agricoltura; molte città non erano altro che villaggi<BR>industriali. Se la città medievale ha costituito la culla<BR>di quelle industrie che confinavano con l'arte e che avevano<BR>lo scopo di soddisfare i bisogni delle classi più<BR>agiate, era pur sempre la produzione rurale a soddisfare<BR>i bisogni delle masse, come avviene attualmente in<BR>Russia e in buona parte anche in Germania e in Francia.<BR>Ma più tardi, con l'avvento delle turbine, del vapore,<BR>con lo sviluppo della meccanica, i legami che una<BR>149<BR>volta vincolavano la fattoria all'officina si sono spezzati.<BR>Le fabbriche sono cresciute e i campi sono stati abbandonati.<BR>Ci si è andati aggregando lì dove la vendita dei<BR>prodotti risultava più facile, o dove le materie prime e il<BR>combustibile potevano essere ottenuti a miglior prezzo.<BR>Nuove città sono state costruite e le vecchie si sono<BR>rapidamente estese, mentre i campi venivano progressivamente<BR>disertati. Milioni di contadini, strappati a<BR>viva forza dai campi, si sono raccolti nelle città in cerca<BR>di lavoro, dimenticando ben presto i vincoli che una volta<BR>li univano alla terra. E noi, nella nostra ammirazione<BR>per i prodigi compiuti dalla nuova organizzazione<BR>industriale abbiamo trascurato i vantaggi della vecchia,<BR>in cui chi dissodava il suolo era al tempo stesso un lavoratore<BR>industriale. Abbiamo così condannato alla sparizione<BR>tutti quei settori dell'industria che un tempo solevano<BR>prosperare nei villaggi, condannando a sua volta<BR>nell'industria tutto ciò che non somigliava alla grande<BR>fabbrica.<BR>È vero, i risultati sono stati straordinari per quanto<BR>riguarda l'aumento delle capacità produttive dell'uomo<BR>Ma si sono rivelati terribili per milioni di esseri umani,<BR>precipitati nella miseria, che nelle nostre città hanno<BR>potuto contare su mezzi di sussistenza precari. Inoltre,<BR>nel suo complesso, la nuova organizzazione ha provocato<BR>le stesse condizioni anomale che ho cercato di tratteggiare<BR>nei primi due capitoli. Siamo stati cacciati,<BR>così, in un vicolo cieco, e mentre si va delineando<BR>l'imperiosa necessità di un cambiamento totale degli<BR>attuali rapporti tra lavoro e capitale, si è reso anche<BR>inevitabile un completo rimodellamento di tutta la<BR>nostra organizzazione industriale: i Paesi industriali<BR>devono tornare all'agricoltura, devono trovare i mezzi<BR>più opportuni per combinarla con l'industria, e devono<BR>farlo senza perdere tempo.<BR>Interrogarci, in specifico, sulla possibilità di una tale<BR>combinazione è lo scopo delle pagine che seguono. È<BR>possibile da un punto di vista tecnico? È auspicabile?<BR>Esistono, nell'attuale realtà industriale, caratteri tali<BR>150<BR>da garantirci che un cambiamento nella direzione<BR>accennata potrebbe trovare gli elementi necessari alla<BR>sua realizzazione? Sono queste le domande che ci si<BR>pongono. E per rispondere non c'è, ritengo, altro mezzo<BR>che studiare quell'immenso ma trascurato e sottovalutato<BR>settore industriale che va sotto il nome di officine<BR>rurali, lavorazioni a domicilio e artigianato, e studiarlo<BR>non nelle opere degli economisti, troppo inclini a considerarlo<BR>come una forma superata d'industria, ma nella<BR>loro stessa esistenza, nelle loro lotte, nei loro fallimenti<BR>e nelle loro conquiste.<BR>Chi non ne ha fatto l'oggetto di uno studio specifico<BR>difficilmente si rende conto della molteplicità di forme<BR>organizzative riscontrabile nelle piccole industrie. Esistono,<BR>innanzi tutto, due grandi categorie: le industrie<BR>attive nei villaggi in connessione con l'agricoltura e<BR>quelle attive nelle città o nei villaggi senza alcuna connessione<BR>con la terra, nelle quali i lavoratori traggono<BR>appunto i propri guadagni esclusivamente dall'attività<BR>industriale.<BR>In Russia, in Francia, in Germania, in Austria, ecc.,<BR>milioni e milioni di lavoratori rientrano nella prima<BR>categoria. Possiedono e lavorano la terra, allevano una<BR>o due vacche, molto spesso dei cavalli, e coltivano i campi,<BR>o i frutteti, o gli orti, considerando il lavoro industriale<BR>come un'occupazione secondaria. Soprattutto in<BR>quelle regioni in cui l'inverno dura a lungo e non è assolutamente<BR>possibile lavorare la terra per parecchi mesi<BR>l'anno, questa forma di piccola industria è largamente<BR>diffusa. In Inghilterra, al contrario, ci imbattiamo<BR>nell'estremo opposto. Sono poche infatti in questo Paese<BR>le piccole industrie sopravvissute in connessione con<BR>l'agricoltura; e tuttavia centinaia di botteghe e piccole<BR>officine si rintracciano nei sobborghi e nei bassifondi<BR>delle grandi città come Sheffield e Birmingham, dove<BR>grandi masse di popolazione si procacciano da vivere<BR>con una molteplicità di attività artigianali. Tra questi<BR>due estremi abbiamo evidentemente una gran varietà<BR>di forme intermedie, a seconda dei legami più o meno<BR>151<BR>stretti che continuano a sussistere con la terra. Vi sono<BR>dunque grossi paesi e persino città popolate da lavoratori<BR>occupati in piccole industrie, anche se la maggior<BR>parte di loro coltiva un orticello, un frutteto o un campo,<BR>oppure si avvale semplicemente di un qualche diritto<BR>sui pascoli comuni, a differenza di quelli che vivono<BR>esclusivamente dei propri redditi industriali.<BR>Quanto alla commercializzazione dei prodotti, le piccole<BR>industrie offrono la stessa varietà di organizzazione.<BR>E anche qui abbiamo due grandi settori. Nel primo<BR>il lavoratore vende il proprio prodotto direttamente al<BR>grossista; è il caso degli ebanisti, dei tessitori e dei fabbricanti<BR>di giocattoli. Nell'altra grande categoria il lavoratore<BR>produce per un «padrone», e questi vende il prodotto<BR>a un grossista o agisce semplicemente da intermediario<BR>raccogliendo a sua volta le commissioni da qualche<BR>grossa azienda. È questa «l'organizzazione del<BR>sudore» propriamente detta, in cui troviamo una miriade<BR>di piccole industrie. È il caso di parte dei fabbricanti<BR>di giocattoli, dei sarti che lavorano per grandi ditte di<BR>confezioni, molto spesso per quelle di Stato, delle donne<BR>che cuciono e abbelliscono i gambali per i calzaturifici, e<BR>che spesso trattano con la fabbrica come con un intermediario<BR>del «sudore», ecc. In tale organizzazione per la<BR>commercializzazione dei prodotti si riscontrano ovviamente<BR>tutte le gradazioni possibili di feudalizzazione e<BR>sottofeudalizzazione del lavoro.<BR>E ancora, quando si considerano gli aspetti industriali<BR>o, piuttosto, tecnici delle piccole industrie, si scopre<BR>ben presto la stessa varietà di caratteri. Anche qui<BR>abbiamo due grandi settori: da una parte le lavorazioni<BR>a domicilio - vale a dire quelle esercitate in casa dal<BR>lavoratore, con l'aiuto della famiglia o di un paio di<BR>salariati - e quelle esercitate in officine distaccate. In<BR>entrambi i settori, ci si imbatte in tutte le varietà appena<BR>menzionate per quanto riguarda la connessione con<BR>la terra e con i diversi modi di disporre del prodotto.<BR>Tutte le attività possibili - la tessitura, la lavorazione<BR>del legno, del metallo, dell'osso, della gomma, ecc. -<BR>152<BR>possiamo ritrovarle sotto la categoria delle lavorazioni<BR>a domicilio, con tutte le possibili gradazioni tra la forma<BR>prettamente «domestica» di produzione, l'officina e la<BR>fabbrica.<BR>Così, accanto alle attività industriali esercitate interamente<BR>in casa da uno o più membri della famiglia, vi<BR>sono le attività industriali in cui il proprietario tiene<BR>una piccola officina annessa alla casa e vi lavora con<BR>tutta la famiglia o con pochi «aiutanti», e cioè dei salariati.<BR>In alcuni casi l'artigiano dispone invece di un'officina<BR>a parte, dotata di energia idraulica, come nel caso<BR>dei fabbricanti di coltelli di Sheffield. In altri, diversi<BR>lavoratori si mettono insieme in una piccola fabbrica di<BR>loro proprietà, o affittata in associazione, o dove possono<BR>lavorare per un certo affitto settimanale. E in ognuno<BR>di questi casi possono lavorare direttamente per il<BR>commerciante, o per un piccolo padrone, o per un intermediario.<BR>Uno stadio ulteriore di questo sistema è la grande<BR>fabbrica, specialmente di abiti già confezionati, in cui<BR>centinaia di donne pagano un tanto per la macchina da<BR>cucire, il gas, i ferri a gas, ecc., e a loro volta ricevono<BR>un tanto per ogni capo di abbigliamento che cuciono o<BR>per ogni parte di esso. Immense fabbriche del genere<BR>esistono in Inghilterra, e si è appreso dalle testimonianze<BR>rese davanti alla «Commissione del sudore», che in<BR>tali laboratori le donne vengono terribilmente sfruttate,<BR>al punto che il prezzo completo di ogni capo di vestiario<BR>leggermente rovinato viene dedotto dai loro bassissimi<BR>salari a cottimo.<BR>E, infine, c'è la piccola officina (spesso con presa<BR>d'energia motrice a nolo) in cui il piccolo imprenditore<BR>impiega da 3 a 10 lavoranti salariati, vendendo il prodotto<BR>a un commerciante o a un imprenditore più grosso:<BR>con tutte le possibili gradazioni tra un'officina del<BR>genere e la fabbrica di piccole dimensioni, in cui a volte<BR>alcuni salariati (tra i 5 e i 20) vengono impiegati da un<BR>produttore indipendente. Nell'industria tessile, la tessitura<BR>viene spesso fatta dal nucleo familiare o da un pic-<BR>153<BR>colo imprenditore che impiega talvolta solo un ragazzo<BR>talvolta diversi tessitori. Questi, dopo avere avuto il<BR>filato da un grosso imprenditore, paga un operaio specializzato<BR>per metterlo sul telaio e crea quanto occorre<BR>per tessere un determinato, e a volte molto sofisticato,<BR>disegno; dopo avere tessuto la stoffa o i nastri con il suo<BR>telaio, o con un telaio preso a nolo, viene pagato per<BR>ogni pezzo di stoffa secondo una scala molto complicata<BR>di compensi pattuiti tra padroni e lavoranti. Quest'ultima<BR>forma, come vedremo tra poco, oggi è largamente<BR>diffusa, soprattutto nelle industrie della lana e della<BR>seta, e continua a esistere accanto alle grandi fabbriche<BR>in cui 50, 100 o 5.000 salariati, a seconda dei casi, lavorano<BR>con il macchinario dell'imprenditore e vengono<BR>pagati a salari giornalieri o settimanali.<BR>Le piccole industrie sono dunque un mondo che, in<BR>modo abbastanza sorprendente, continua a esistere<BR>anche nei Paesi più industrializzati, fianco a fianco con<BR>le grandi fabbriche. E in questo mondo dobbiamo ora<BR>penetrare per gettarvi un'occhiata: solo un'occhiata perché<BR>occorrerebbero pagine e pagine per descriverne<BR>l'infinita varietà non solo di attività e organizzazione<BR>ma anche di interrelazione con l'agricoltura e con le<BR>altre industrie.<BR>La maggior parte delle attività artigianali, fatta<BR>eccezione per alcune di quelle connesse con l'agricoltura,<BR>si trovano, dobbiamo riconoscerlo, in posizione decisamente<BR>precaria. I guadagni sono molto bassi e l'impiego<BR>è spesso incerto. La giornata lavorativa è più lunga<BR>di due, tre o quattro ore rispetto a quella delle fabbriche<BR>ben organizzate, e in certe stagioni raggiunge<BR>una durata quasi inverosimile. Le crisi sono frequenti e<BR>si protraggono per anni. Inoltre, il lavoratore è molto<BR>più alla mercé del commerciante o dell'imprenditore, e<BR>l'imprenditore è alla mercé del grossista. Entrambi<BR>rischiano di divenire schiavi di quest'ultimo, indebitandosi<BR>con lui. In alcune delle attività artigianali, soprattutto<BR>nella fabbricazione di tessuti comuni, i lavoratori<BR>sopravvivono in condizioni spaventosamente misere.<BR>154<BR>Ma chi pretende che tale miseria costituisca la regola si<BR>sbaglia del tutto. Chiunque abbia vissuto, ad esempio,<BR>tra gli orologiai della Svizzera e ne conosca intimamente<BR>il modo di vivere, ammetterà che le condizioni di questi<BR>lavoratori sono di gran lunga superiori, sotto ogni<BR>riguardo, morale e materiale, alle condizioni di milioni<BR>di operai di fabbrica. Persino durante la crisi dell'orologeria,<BR>che ebbe luogo tra il 1876 e il 1880, le loro condizioni<BR>sono rimaste di gran lunga preferibili alle condizioni<BR>degli operai di fabbrica durante una qualsiasi crisi<BR>dell'industria laniera o cotoniera; e gli stessi lavoratori<BR>ne erano ben coscienti.<BR>Ogni volta che scoppia una crisi in qualche settore<BR>artigianale, non manca chi profetizza che quel mestiere<BR>si avvia a scomparire. Durante la crisi di cui, vivendo<BR>tra gli orologiai svizzeri, io stesso fui testimone nel<BR>1877, l'impossibilità di salvaguardare questa attività di<BR>fronte alla concorrenza degli orologi fatti a macchina<BR>era l'argomento principe della stampa. Le stesse cose<BR>furono dette, nel 1882, a proposito dell'industria serica<BR>di Lione, e di fatto ovunque si sia avuta una crisi<BR>dell'artigianato. E tuttavia, nonostante le tetre profezie<BR>e le ancor più tetre prospettive per i lavoratori, quella<BR>forma d'industria non è ancora scomparsa. E anche<BR>quando ne scompare qualche settore, qualcosa comunque<BR>rimane: alcuni rami continuano ad esistere come<BR>piccole industrie (orologeria di precisione, sete più raffinate,<BR>velluti di prima qualità, ecc.), o al posto dei vecchi<BR>nascono nuovi settori a essi connessi, o ancora la piccola<BR>industria, avvantaggiandosi di un motore meccanico,<BR>assume una nuova forma. La scopriamo quindi dotata<BR>di straordinaria vitalità. Essa passa attraverso varie<BR>modifiche, si adatta a nuove condizioni, lotta senza<BR>abbandonare la speranza in tempi migliori. In ogni<BR>caso, le sue non sono le caratteristiche di un'istituzione<BR>in decadenza. In alcune attività industriali la fabbrica<BR>ha senza dubbio la meglio, ma vi sono altri settori in<BR>cui i laboratori artigianali mantengono le loro posizioni.<BR>E nella stessa industria tessile che tanti vantaggi pre-<BR>155<BR>senta per il sistema industriale - specialmente in conseguenza<BR>dell'ampio impiego lavorativo di donne e bambini<BR>- il telaio a mano compete ancora con quello meccanico.<BR>Nel complesso, la trasformazione dell'artigianato in<BR>grande industria procede con una lentezza che non può<BR>non sorprendere anche coloro che sono convinti della<BR>sua necessità. Oltretutto, a volte assistiamo anche al<BR>processo inverso: di tanto in tanto, ovviamente, e solo<BR>per un certo periodo. Non dimenticherò mai il mio stupore<BR>quando constatai a Verviers, una trentina di anni<BR>fa, come la maggior parte delle fabbriche di stoffe di<BR>lana - immensi edifici affacciati sulla strada con più di<BR>cento finestre l'uno - fosse immersa nel silenzio e il loro<BR>costoso macchinario lasciato ad arrugginire, mentre le<BR>stoffe venivano tessute a mano nelle case dei tessitori<BR>per i proprietari di quelle stesse fabbriche.
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