». Abbiamo qui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si
spiega interamente col carattere spasmodico dell'industria e con le gravi
perdite sostenute dai proprietari delle fabbriche allorché non sono in grado
di farle funzionare tutto l'anno. E tuttavia questo dimostra gli ostacoli
con cui la trasformazione deve fare i conti. Quanto all'industria serica,
essa continua a diffondersi per l'Europa nella sua forma d'industria rurale,
mentre centinaia di nuove attività artigianali compaiono ogni anno, e
non trovando nessuno che le eserciti nei villaggi - come avviene in questo
Paese - trovano rifugio nei sobborghi delle grandi città, come abbiamo appena
appreso dall'inchiesta sull' «organizzazione del sudore». Oggi, i vantaggi
offerti dalla grande fabbrica in confronto all'artigianato si presentano da
sé per quanto riguarda l'economia di lavoro e soprattutto - ed è questo il
punto principale - le possibilità sia di vendita sia di rifornimento delle
materie prime a prezzo inferiore. Come possiamo allora spiegarci la
persistenza dell'artigianato? Molte cause, la maggior parte delle quali non
è possibile valutare in scellini, giocano a favore dell'artigianato, e
queste cause le coglieremo meglio dalle dimo- 156 strazioni che seguono.
Devo dire, però, che una panoramica anche breve delle innumerevoli attività
industriali esercitate su piccola scala in questo Paese e sul
continente, sconfinerebbe alquanto dallo scopo di questo capitolo. Quando
ho cominciato a studiare l'argomento, una trentina di anni fa, non immaginavo
neppure, dalla scarsa attenzione prestatagli dagli economisti
ortodossi, quale vasta, complessa, importante e
interessante organizzazione sarebbe apparsa alla fine di un'indagine più
accurata. [...] Gli artigiani rappresentano, dunque, un importante fattore
della vita industriale nella stessa Gran Bretagna, anche se molti di loro si
sono insediati in città. Ma se troviamo in questo Paese così poche industrie
rurali rispetto al continente, non dobbiamo immaginare che la loro
scomparsa sia dovuta a una più intensa concorrenza delle fabbriche: la causa
principale è stata l'esodo forzato dai villaggi. Come tutti sanno
dall'opera di Thorold Rogers, la crescita della struttura industriale in
Inghilterra è intimamente connessa con quell'esodo forzato. Interi
settori industriali, che fino ad allora avevano prosperato, sono stati
stroncati dallo spopolamento forzato delle campagne. Le officine, ancor più
delle fabbriche, si moltiplicano dovunque si trovi manodopera a basso costo,
e l'aspetto specifico di questo Paese è che la manodopera più a buon
mercato - vale a dire la gran massa dei poveri - si trova nelle grandi città.
[...] In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fianco delle
grandi fabbriche non ci deve affatto stupire: essa rappresenta una necessità
economica. L'assorbimento delle piccole officine da parte delle aziende
più grandi è un fatto che aveva già colpito gli economisti negli anni
Quaranta dello scorso secolo, soprattutto nelle industrie tessili. Questo
processo va tuttora avanti in molti altri settori e interessa soprattutto un
certo numero di aziende molto grandi impegnate nella metal- 157 lurgia
e nelle forniture militari ai vari Stati. Ma c'è un altro processo che va
avanti parallelamente a questo e che consiste nella creazione continua di
nuove industrie, di solito avviate su piccola scala. Ogni nuova
fabbrica chiama in vita una quantità di nuove piccole officine, in parte
per sopperire al proprio fabbisogno e in parte per sottomettere il suo
prodotto a una trasformazione ulteriore. Così, per citare un solo esempio, i
cotonifici hanno creato un'enorme domanda di rocchetti di legno e di
bobine, e migliaia di uomini del Lake District si sono messi a fabbricarli,
prima a mano e più tardi con l'aiuto di qualche semplice macchinario. Solo
di recente, dopo che sono stati spesi anni a inventare e perfezionare i
macchinari, si è cominciato a produrre i rocchetti su scala industriale. E
ancora oggi, essendo le macchine molto costose, una gran quantità di
rocchetti viene comunque fabbricata in piccole officine, con un modesto
aiuto delle macchine, mentre le fabbriche stesse sono relativamente piccole e
raramente occupano più di 50 operai, in maggioranza bambini. Quanto alle
bobine di forma irregolare, vengono ancora fatte a mano o, in parte, con
l'aiuto di piccole macchine continuamente inventate dagli operai stessi.
Perciò nuove industrie sorgono a soppiantare le vecchie e ognuna passa per
lo stadio preliminare della piccola scala prima di raggiungere quello
della grande fabbrica; e tanto più è attivo lo spirito creativo di una
nazione, tanto più arriviamo a questa fioritura di industrie. In proposito,
abbiamo l'esempio delle innumerevoli piccole fabbriche di biciclette sorte
recentemente in questo Paese e rifornite di pezzi già pronti dalle fabbriche
più grandi. Un altro esempio comune è la produzione domestica o in
piccole officine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli,
dolciumi, generi di drogheria, ecc. Inoltre, la grande fabbrica, generando
nuovi bisogni, stimola la nascita di nuove attività artigianali. Il
basso prezzo dei cotoni e delle lane, della carta e dell'ottone, ha creato
centinaia di nuove piccole industrie. Le nostre case sono piene dei loro
prodotti, per la maggior 158 parte oggetti di creazione abbastanza
moderna. E mentre alcuni di questi sono ora prodotti in serie nelle
grandi fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della piccola officina
prima che la domanda fosse abbastanza alta da richiedere l'organizzazione
della grande fabbrica. Quante più nuove invenzioni ci saranno, tante più
piccole industrie del genere si creeranno; e ancora, quanto più se ne
creeranno, tanto più si diffonderà lo spirito creativo, la cui mancanza è
così giustamente avvertita in questo Paese (da W. Armstrong tra i tanti). Non
dobbiamo stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese così tante piccole
industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangere che tanta gente abbia abbandonato i
villaggi a causa delle cattive condizioni della terra e che sia migrata
in massa nelle città, a scapito dell'agricoltura. In Inghilterra, come
dappertutto, le piccole industrie rappresentano un fattore importante della
vita industriale; ed è soprattutto nell'infinita varietà delle
piccole industrie, dove si utilizzano i prodotti semilavorati delle grandi
industrie, che si sviluppa lo spirito creativo e si elaborano i rudimenti
delle future grandi industrie. Le piccole officine di biciclette, con le
centinaia di piccoli perfezionamenti che hanno introdotto, hanno
svolto, sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule originarie per
la grande industria automobilistica, e più tardi per quella aeronautica. I
piccoli produttori di marmellate dei villaggi sono stati i precursori e i
padri delle grandi fabbriche di conserve che oggi impiegano centinaia di
lavoratori, e così via. Di conseguenza, affermare che le piccole
industrie sono destinate a scomparire, mentre ne vediamo apparire di nuove
ogni giorno, significa semplicemente ripetere l'affrettata generalizzazione
di chi, all'inizio del XIX secolo, stava assistendo alla sostituzione del
lavoro manuale con il lavoro meccanizzato nell'industria cotoniera: una
generalizzazione che, come abbiamo visto e come vedremo ancora meglio nelle
pagine che seguono, non trova alcuna conferma nell'analisi delle
industrie, grandi e piccole, e che viene rovesciata dai
censimenti 159 delle fabbriche e delle officine. Lungi dal
manifestare una tendenza a scomparire, le piccole industrie mostrano al
contrario la tendenza verso un ulteriore sviluppo, dato che la fornitura
municipale di energia elettrica - come quella che c'è, ad esempio, a
Manchester - permette al proprietario di una piccola fabbrica di fruire
di energia motrice a basso costo, esattamente nella quantità richiesta in
ogni dato momento, e di pagare solo quanto è stato effettivamente
consumato. La varietà di piccole industrie che s'incontra in Francia è
infinita e rappresenta un aspetto quanto mai importante dell'economia
nazionale. Si calcola, in effetti, che metà della popolazione francese viva
di agricoltura e un terzo di industria, e che questo terzo si
trovi equamente distribuito tra grande e piccola industria. A questo
andrebbe aggiunto un numero considerevole di contadini che si dedicano alla
piccola industria senza abbandonare l'agricoltura; e i guadagni
supplementari che questi contadini ne ricavano sono così importanti che in
diverse parti della Francia la proprietà contadina non potrebbe essere
mantenuta senza l'aiuto delle industrie rurali. I piccoli proprietari
rurali sanno che cosa li aspetterebbe il giorno in cui diventassero
manodopera di fabbrica in città, e finché gli usurai non riusciranno a
spodestarli delle loro terre e case, e il villaggio non perderà i diritti
sui pascoli o sui boschi comunali, si tengono ben stretti a questa
combinazione di industria e agricoltura. Non possedendo, nella maggior parte
dei casi, animali per arare la terra, fanno ricorso a un espediente
largamente diffuso, se non universale, tra i piccoli proprietari terrieri
francesi, anche nei distretti puramente rurali. Chi dei contadini possiede un
aratro e un tiro di cavalli, dissoda a turno tutti i campi. Nello stesso
tempo, grazie al perpetuarsi di uno spirito comunitario, del quale ho
parlato altrove, un ulteriore sostegno viene trovato nel pascolare e nel
torchiare il vino in comune o in altri svariati modi di mutuo appoggio
esistenti tra i contadini. E dovunque si mantenga lo spirito
comunita- 160 rio di villaggio, le piccole industrie persistono,
mentre non si risparmiano sforzi per coltivare intensamente i piccoli
poderi. Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vanno di pari passo
con le piccole industrie. E dovunque si ricavi un po' di benessere da un
suolo relativamente improduttivo, lo si deve quasi sempre a una
combinazione delle due attività sorelle. Nello stesso tempo, è possibile
notare come le piccole industrie si adattino straordinariamente ai nuovi
bisogni e a un sostanziale progresso tecnico dei metodi di produzione.
Nelle regioni boschive del Perche e del Maine troviamo ogni genere di
industrie del legno, le quali, evidentemente, possono essere mantenute solo
grazie alla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi della foresta di
Perseigne c'è un piccolo borgo, Fresnaye, interamente popolato da lavoratori
del legno. A Thiers, dove si producono le posaterie più a buon mercato, la
divisione del lavoro, il basso affitto delle piccole officine rifornite di
forza motrice dal fiume Durolle o da piccoli motori a gas, l'apporto di
un'infinità di attrezzi meccanici inventati all'occorrenza, e la
combinazione esistente tra lavoro meccanico e lavoro manuale hanno
condotto a una tale perfezione l'apparato tecnico di questa attività
industriale che ci si chiede se l'organizzazione di fabbrica possa
economizzare ulteriormente il lavoro. Per dodici miglia attorno a
Thiers, in ogni direzione, tutti i ruscelli sono punteggiati di
piccole officine che danno lavoro ai contadini senza che questi smettano
di coltivare i campi. La canestreria è anch'essa un'importante
attività artigianale in diverse parti della Francia, e
precisamente nell'Aisne e nell'Alta Marna. In quest'ultimo dipartimento, a
Villaines, sono tutti canestrai, «e ogni canestraio fa parte di una società
cooperativa», come osserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono
imprenditori; tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni
ai magazzini della cooperativa e lì venduto per conto dell'associazione. A
questa appartengono circa 150 161 famiglie, e ciascuna possiede una casa e
dei vigneti». A Fays-Billot, sempre nell'Alta Marna, 1.500 canestrai fanno
parte di un'altra associazione, mentre a Thiérache, dove parecchie migliaia
di uomini esercitano la stessa attività, non è stata formata alcuna
associazione e di conseguenza i guadagni sono nettamente più bassi. A
Héricourt, un'infinità di piccole industrie è sorta accanto alle grandi
fabbriche di ferramenta. La città si riversa nei villaggi, dove la
popolazione fabbrica macinacaffè, macinapepe, macchine per tritare il
mangime per il bestiame, così come selle, piccoli articoli di
ferramenta, o persino orologi. Altrove, dove la fabbricazione dei vari
pezzi dell'orologio è stata monopolizzata dalle fabbriche, le officine hanno
cominciato a fabbricare pezzi di bicicletta, e più tardi di automobile. In
breve, troviamo qui tutto un mondo di industrie di tipo moderno e, con
esse, di invenzioni realizzate per semplificare il lavoro manuale. Ogni
casa contadina, ogni fattoria e ogni métayerie delle zone collinose del
Beaujolais e del Forez era un tempo una piccola officina, e si potevano
vedere, come ha scritto Reybaud nel 1863, ragazzi di vent'anni intenti a
ricamare delicate mussoline dopo aver finito di pulire le stalle delle
fattorie, senza che quel delicato lavoro risentisse della combinazione di due
occupazioni così disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro
e l'estrema varietà dei disegni erano le caratteristiche tipiche delle
mussoline di Tarare e la ragione del loro successo. Tutte le testimonianze
concordavano nel riconoscere che, quando l'agricoltura trovava
sostegno nell'industria, la popolazione agricola godeva di un
certo benessere. Ciò che più merita la nostra ammirazione non è
tanto lo sviluppo delle grandi industrie - le quali, dopotutto, qui come
altrove, sono in gran parte di origine internazionale - quanto le doti
creative e inventive e le capacità di adattamento della gran massa di
queste industriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negli orti, nei
frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle 162 centinaia di
piccole invenzioni fatte per queste attività, è possibile notare lo spirito
creativo del popolo. In queste regioni si capisce meglio perché la Francia,
prendendo la popolazione nel suo complesso, venga considerata la più ricca
nazione d'Europa. Il centro principale dell'artigianato in Francia è
tuttavia Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi
fabbriche, un'impressionante varietà di officine per la fabbricazione di
merci di ogni genere, destinate sia al mercato interno sia all'esportazione.
Le officine artigianali di Parigi prevalgono a tal punto sulle fabbriche che
la media degli operai occupati nelle 98.000 fabbriche e officine parigine
è inferiore alle sei unità, mentre il numero di persone impiegate nelle
officine con meno di cinque operai è quasi il doppio del numero di
persone impiegate negli stabilimenti più grandi. In effetti, Parigi è un
grande alveare dove centinaia di migliaia di uomini e donne fabbricano in
piccole officine ogni possibile genere di merci che richiedono abilità, gusto
e creatività. Queste piccole officine, di cui tanto si loda il gusto
artistico e la rapidità di lavorazione, stimolano necessariamente la capacità
mentale dei produttori; e possiamo tranquillamente affermare che se gli
operai di Parigi sono generalmente considerati, e a
ragione, intellettualmente più sviluppati degli operai di qualsiasi altra
capitale europea, ciò lo si deve in gran parte al tipo di lavoro che fanno:
un lavoro che implica gusto artistico, abilità e soprattutto un'inventiva
sempre pronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere di continuo e
perfezionare le tecniche di produzione. Ed è assai probabile che se
incontriamo una popolazione lavorativa molto evoluta anche a Vienna o
Varsavia, di nuovo ciò dipende in gran parte dal notevole sviluppo delle
piccole industrie dello stesso genere, le quali stimolano l'inventiva
contribuendo grandemente a sviluppare l'intelligenza del lavoratore. Le
conclusioni da trarne sono state così formulate da Lucien March: «In
definitiva, durante gli ultimi cinquant'anni si è avuta una notevole
concentrazione di 163 fabbriche nei grandi agglomerati», ma «questa
concentrazione non impedisce la persistenza di una certa quantità di
piccole imprese, le cui dimensioni medie non crescono che molto lentamente».
Quest'ultimo fatto, in realtà, lo abbiamo già rilevato dal nostro breve
schizzo sulla Gran Bretagna, e possiamo soltanto chiederci se - così
stando le cose - la parola «concentrazione» sia indovinata. Ciò che vediamo
in realtà è la comparsa, in alcuni settori dell'industria, di un certo numero
di grandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di media grandezza. Ma
questo non impedisce minimamente che continui a esistere un gran numero di
piccole fabbriche, in settori diversi, o negli stessi settori dove sono
comparse le grandi fabbriche (tessili, metalmeccaniche), o nei settori
connessi e derivati da quelli principali, come l'industria dell'abbigliamento
che trae origine da quella tessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla
«concentrazione » effettuate da certi economisti, si tratta di
semplici ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, ma destinate
a rivelarsi alquanto nocive quando vengono presentate come leggi economiche,
mentre in realtà non sono affatto confermate da un'accurata osservazione
dei fatti. Sfortunatamente, la discussione su questo
importante argomento ha spesso assunto in Germania un
carattere appassionato e persino di polemica personale. Da un lato, gli
elementi ultraconservatori della politica tedesca hanno cercato, riuscendovi
in certa misura, di fare dell'artigianato e delle lavorazioni a
domicilio un'arma per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati». Hanno
persino approvato una legge intesa a reintrodurre le superate, chiuse e
patriarcali corporazioni - da assoggettare alla stretta supervisione e tutela
dello Stato - guardando a questa legge come a un'arma contro la
socialdemocrazia. Dall'altro lato, i socialdemocratici, giustamente contrari
a queste misure ma a loro volta propensi a considerare astrattamente le
questioni economiche, attaccano ferocemente tutti coloro che non si
piegano a ripetere le stereotipate frasi a effetto come 164 «l'artigianato
è in declino» e «prima scompare meglio è» perché così darà spazio alla
concentrazione capitalistica, la quale, secondo il credo socialdemocratico,
«farà ben presto la sua stessa rovina». E in questa avversione per le
piccole industrie naturalmente concordano con gli economisti della scuola
ortodossa, contro i quali si scagliano su quasi tutti gli altri punti. Il
fondamento di questo credo si trova in uno dei capitoli conclusivi del
Capitale di Marx (il penultimo), in cui l'autore parlava della concentrazione
del capitale scorgendovi la «fatalità di una legge naturale». In
quegli anni Quaranta questa idea della «concentrazione del capitale»,
originata da quanto avveniva nelle industrie tessili, ricorreva di continuo
negli scritti di tutti i socialisti francesi, specialmente in Considérant, e
nei loro seguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argomento a
favore della necessità di una rivoluzione sociale. Ma Marx era un pensatore
troppo grande per non accorgersi dei susseguenti sviluppi della vita
industriale, imprevedibili nel 1848; e se fosse vissuto oggi,
sicuramente non avrebbe chiuso gli occhi davanti alla
formidabile fioritura di tanti piccoli imprenditori e ai patrimoni della
classe media realizzati in mille modi all'ombra dei moderni «milionari».
Molto probabilmente avrebbe anche notato l'estrema lentezza con cui
procede la rovina delle piccole industrie: lentezza non
prevedibile cinquanta o quarant'anni fa, dal momento che nessuno era in
grado di immaginare allora le possibilità future dei trasporti o la crescente
varietà della domanda, né l'attuale economicità della fornitura di piccole
quantità di energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe studiato questi
fatti, e molto probabilmente avrebbe mitigato l'assolutezza delle sue
formulazioni originarie, come in realtà fece una volta a proposito delle
comunità di villaggio in Russia. Sarebbe quanto mai auspicabile che i suoi
seguaci facessero minore affidamento su formule astratte - buone solo come
parole d'ordine nelle lotte politiche - e cercassero di imitare il loro
maestro nelle analisi dei fenomeni economici concreti. 165 È evidente
che in Germania un certo numero di attività artigianali sono oggi destinate a
scomparire, ma ce ne sono altre, al contrario, dotate di grande vitalità,
e tutte le probabilità depongono a favore della loro persistenza e del
loro ulteriore sviluppo per molti anni a venire. Nella fabbricazione di certe
stoffe tessute a milioni di metri, e meglio producibili con l'aiuto di
un macchinario complicato, la concorrenza del telaio a mano contro il
telaio meccanico non rappresenta che una semplice sopravvivenza, mantenibile
per qualche tempo in determinate condizioni locali, ma destinata
a scomparire. Lo stesso si può dire di molti settori delle
industrie siderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terraglie, ecc.
Ma dovunque siano necessari l'intervento diretto del gusto e dell'inventiva,
dovunque debbano essere di continuo introdotti nuovi generi di merci
che richiedono un rinnovamento continuo di macchine e attrezzi allo scopo
di soddisfare la domanda (come nel caso di tutti i tessuti alla moda, anche
se fabbricati per rifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà
di merci e un'ininterrotta invenzione di nuovi prodotti (come nel caso dei
giocattoli, della fabbricazione di strumenti, orologi, biciclette e così
via), e infine dovunque sia il senso artistico del singolo lavoratore a
realizzare i prodotti migliori (come è il caso in centinaia di settori di
piccoli articoli di lusso), là c'è ampio spazio per le attività artigianali,
le officine rurali, le lavorazioni a domicilio, e simili. In queste industrie
occorrono evidentemente più aria fresca, più idee, più visioni generali
e più cooperazione. E dove lo spirito d'iniziativa è stato destato in un
modo o nell'altro, vediamo le industrie marginali assumere nuovo sviluppo,
proprio come avviene in Germania o, l'abbiamo appena visto,
in Francia. In Germania, in quasi tutte le attività marginali
la condizione dei lavoratori è unanimemente descritta come la più
miserabile, e i tanti ammiratori della centralizzazione che troviamo in
Germania insistono sem- 166 pre su tale miseria per predicare e auspicare
la scomparsa di «queste sopravvivenze medievali» che la
«concentrazione capitalistica» deve soppiantare per il bene del
lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando confrontiamo le miserabili
condizioni dei lavoratori delle industrie marginali con le condizioni dei
salariati delle fabbriche, nelle stesse regioni e nelle stesse
attività, notiamo come la stessa identica miseria domini tra i lavoratori
di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi delle città invece che in campagna,
di salari che vanno dai 9 agli 11 scellini la settimana, lavorano undici ore
al giorno, e sono oltretutto soggetti alla miseria straordinaria in cui li
precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo essere passati attraverso
sofferenze di ogni genere nelle lotte contro i proprietari delle fabbriche
che alcuni lavoratori sono riusciti, più o meno, qua e là, a strappare
ai propri datori di lavoro un «salario che consenta di vivere », e questo
solo in certe attività. Accogliere positivamente tutte queste
sofferenze, vedendo in esse l'azione di una «legge naturale» e il cammino
necessario verso la necessaria concentrazione delle industrie, sarebbe
semplicemente assurdo. Ma sostenere che la pauperizzazione di tutti i
lavoratori e la rovina di tutte le industrie artigianali rappresentino il
cammino necessario verso una più elevata forma di organizzazione industriale,
significa non solo affermare più di quanto si sia autorizzati ad affermare in
base all'imperfetto stato attuale della conoscenza economica, ma anche
dimostrare un'assoluta mancanza di comprensione del senso delle leggi sia
economiche sia naturali. Al contrario, chiunque abbia studiato la
questione della crescita delle grandi industrie non può non concordare con
Thorold Rogers, che considerava le sofferenze inflitte alle classi
lavoratrici a quello scopo come assolutamente non necessarie, anzi inflitte
per favorire gli interessi temporanei di pochi ma non certo quelli della
nazione. Un fatto domina in tutte le indagini condotte sulla condizione
delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan- 167 to in Germania quanto
in Francia o in Russia. In un enorme numero di attività a pesare contro la
piccola industria e a favore della grande fabbrica non sono la superiorità
dell'organizzazione tecnica o le economie realizzate sul prezzo dell'energia,
ma sono le più vantaggiose condizioni di vendita del prodotto e di
acquisto delle materie prime di cui le grandi aziende dispongono. Dovunque
questa difficoltà sia stata superata - per mezzo dell'associazione, o grazie
ad un mercato certo per la vendita dei prodotti - si è sempre scoperto,
primo, che le condizioni dei lavoratori o degli artigiani migliorano
immediatamente e, secondo, che si realizza un rapido progresso nelle
caratteristiche tecniche delle rispettive industrie. Nuovi procedimenti sono
stati introdotti per migliorare il prodotto oppure per accelerarne la
fabbricazione; nuovi strumenti meccanici sono stati inventati; si è fatto
ricorso a nuove energie motrici; l'attività è stata riorganizzata in modo da
diminuire i costi di produzione. Al contrario, dovunque gli indifesi,
isolati operai o artigiani continuano a rimanere alla mercé dei
grossisti - che sempre, sin dai tempi di Adam Smith, «apertamente o
tacitamente» operano di concerto per abbassare i prezzi a un livello quasi da
fame, e tale è il caso per la stragrande maggioranza delle piccole industrie
e delle attività artigiane - la loro condizione è così penosa che solo
l'aspirazione dei lavoratori a una relativa indipendenza, e il fatto di
sapere che cosa li aspetti in fabbrica, impedisce loro di unirsi alle file
degli operai di fabbrica. Sapendo che nella maggioranza dei casi l'avvento
della fabbrica significherebbe la perdita completa del lavoro per la maggior
parte degli uomini e l'assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi
fanno l'impossibile per impedire che facciano la loro comparsa nel
villaggio. Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazione, e
simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelosamente i governi tedesco,
francese, russo e austriaco abbiano fino a oggi impedito ai lavoratori, e
soprattutto 168 ai lavoratori rurali, di partecipare a qualsiasi
associazione con finalità economiche. In Francia i sindacati contadini
sono stati ammessi solo con la legge del 1884. Tenere il contadino al livello
più basso possibile, per mezzo di tasse, servitù della gleba e simili, è
stata ed è ancora la politica della maggior parte degli Stati
continentali. È stato solo nel 1876 che la Germania ha permesso una certa
estensione dei diritti di associazione; e ancor oggi, una semplice
associazione cooperativa per la vendita di prodotti artigianali viene subito
considerata una «associazione politica» e assoggettata di conseguenza alle
usuali limitazioni, come l'esclusione delle donne e così via. Un
impressionante resoconto della politica relativa alle associazioni di
villaggio è stato fatto dal professor Issaieff, il quale ha pure parlato
delle severe misure prese dai grossisti del settore giocattoli per
impedire ai lavoratori di entrare in rapporto diretto con i compratori
stranieri. Quando si prende in attenta considerazione la vita delle
piccole industrie e la loro lotta per la sopravvivenza, ci si accorge che non
è vero che esse periscano perché «si può economizzare ricorrendo a un
centinaio di cavalli-vapore invece che a un centinaio di piccoli motori ».
Questo inconveniente non si manca mai di citarlo, benché sia stato facilmente
eliminato a Sheffield, a Parigi e in molti altri luoghi dove si affittano
officine dotate di volano, alimentato da una macchina centrale o più
spesso, come opportunamente osservato dal professor W. Unwin, dalla
trasmissione elettrica dell'energia. Esse periscono non perché nella
produzione di fabbrica si può realizzare una notevole economia - in
casi molto più frequenti di quanto di solito si supponga avviene persino
il contrario - ma perché il capitalista che impianta una fabbrica si emancipa
dai grossisti e dai dettaglianti di materie prime; e soprattutto
si emancipa dai compratori del suo prodotto trattando direttamente con chi
compra all'ingrosso e con l'esportatore; o ancora, perché concentra in una
sola azienda le differenti fasi della fabbricazione di un dato
prodotto. 169 A questo proposito sono quanto mai istruttive le
pagine che Schulze-Gäwernitz ha dedicato all'organizzazione dell'industria
cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltà con cui si sono dovuti
confrontare i proprietari di cotonifici tedeschi dal momento che dipendevano
da Liverpool per il cotone greggio. E ciò che caratterizza l'industria del
cotone, domina anche in tutti gli altri settori. Se i posatieri di Sheffield
che oggi lavorano nelle loro minuscole officine, dotate del volano di cui si
è detto, fossero incorporati in una sola grande fabbrica, il
principale vantaggio che si realizzerebbe nella fabbrica non sarebbe
un'economia nei costi di produzione a pari qualità di prodotto; anzi, in una
società per azioni i costi potrebbero persino aumentare. E tuttavia il
prodotto netto aziendale (salari inclusi) probabilmente sarebbe superiore
alla somma degli attuali redditi dei singoli lavoratori grazie ad un minor
costo nell'acquisto del ferro e del carbone, e alle facilitazioni relative
alla vendita del prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i
suoi vantaggi non in quei fattori imposti attualmente dalle necessità
tecniche dell'industria, ma negli stessi fattori eliminabili da
un'organizzazione cooperativa. Tutte queste sono nozioni elementari per gli
esperti del settore. È quasi inutile aggiungere che un vantaggio
ulteriore per il grande imprenditore è che può trovare il modo di vendere
anche un prodotto di qualità assai inferiore, purché ce ne sia da vendere una
quantità considerevole. Tutti quelli che hanno familiarità con il
commercio sanno, in verità, come un'enorme massa degli scambi mondiali
consista di scarti, di robaccia inviata in Paesi lontani. Intere città, come
abbiamo appena visto, non producono altro che merce scadente. Al contempo,
va considerato come un fatto fondamentale della vita economica europea che il
fallimento di un certo numero di piccole industrie, di attività
artigianali e di lavorazioni a domicilio, sia stato provocato dalla loro
incapacità di organizzare la vendita dei prodotti e non la loro produzione.
Lo stesso fenomeno ricorre in ogni fase della storia economica. L'incapacità
di orga- 170 nizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fu un
fenomeno determinante nelle città medievali, che a poco a poco finirono sotto
il giogo economico e politico delle corporazioni commerciali semplicemente
perché non furono in grado di mantenere la vendita dei loro prodotti nelle
mani della comunità nel suo complesso, o di organizzare la vendita di un
nuovo prodotto nell'interesse della comunità. Quando il mercato di tali
prodotti divenne da una parte l'Asia e dall'altra il Nuovo Mondo, il
destino non poteva che essere questo, e dal momento che il commercio aveva
cessato di essere comunale ed era diventato individuale, le città divennero
preda delle rivalità tra le principali famiglie mercantili. E ancor oggi,
quando vediamo le società cooperative avviate con successo sulla strada della
produzione, mentre cinquant'anni fa mostravano invariabilmente scarse
capacità produttive, possiamo concludere che la causa dei passati fallimenti
risiedeva non nella loro incapacità di organizzare adeguatamente la
produzione, ma nella loro incapacità di operare come venditori ed
esportatori del prodotto fabbricato. I loro successi attuali, al contrario,
sono pienamente garantiti dalla disponibilità di una rete di distribuzione.
La vendita è stata semplificata e la produzione resa possibile
organizzando prima di tutto il mercato. Queste sono alcune delle
conclusioni ricavabili da uno studio delle piccole industrie in Germania e
altrove. E si può tranquillamente dire, riguardo alla Germania, che se non
verranno prese misure per sottrarre i contadini alla terra, come purtroppo è
avvenuto in questo Paese, se al contrario il numero dei piccoli
proprietari terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi
si rivolgeranno alle più svariate piccole industrie in aggiunta
all'agricoltura, come hanno fatto e ancora fanno in Francia. Qualunque passo
si faccia per risvegliare la vita intellettuale nei villaggi, o per garantire
i diritti dei contadini e del contado sulla terra, porterà
necessariamente avanti la crescita industriale nei villaggi. Se si vuol
estendere questa ricerca ad altri Paesi, la 171 Svizzera offre un vasto
campo per osservazioni quanto mai interessanti. Vi si nota la stessa vitalità
in una molteplicità di piccole industrie; e va citato quanto è stato fatto
nei diversi cantoni per sostenere le piccole industrie con tre diversi tipi
di provvedimenti: la promozione della cooperazione; un'ampia
diffusione dell'istruzione tecnica nelle scuole; l'introduzione di nuovi
settori di produzione artigianale in diverse parti del Paese; e la fornitura
di forza motrice a buon mercato nelle case per mezzo di trasmissione
idraulica o elettrica dell'energia ricavata dalle cascate. Un altro
libro di grandissimo interesse e valore si potrebbe scrivere su questo
argomento, soprattutto sull'impulso dato a una quantità di piccole industrie,
vecchie e nuove, per mezzo della fornitura a buon mercato di energia
motrice. Un tale libro sarebbe anche di grande interesse in quanto
mostrerebbe in quale misura la combinazione di agricoltura e industria, da me
descritta nella prima edizione di questo libro come «la fabbrica tra i
campi», sia progredita ultimamente in Svizzera, cosa che non può mancare
di colpire anche il viaggiatore occasionale. I fatti che abbiamo brevemente
passato in rassegna mostrano, in certo modo, i benefici che si
potrebbero trarre da una combinazione tra agricoltura e industria se
quest'ultima arrivasse al villaggio non nel suo aspetto attuale di fabbrica
capitalistica, ma in quello di produzione industriale socialmente
organizzata, con il pieno supporto del macchinario e della preparazione
tecnica. In effetti, l'aspetto più evidente delle piccole industrie è che
un relativo benessere si riscontra solo dove sono combinate con
l'agricoltura, dove i lavoratori sono rimasti proprietari del suolo e
continuano a coltivarlo. Anche tra i tessitori francesi o moscoviti, che pure
devono fare i conti con la concorrenza della fabbrica, domina un relativo
benessere grazie al fatto che non sono stati costretti a separarsi dalla
terra. Al contrario, non appena le forti tasse o l'impoverimento dovuto a una
crisi hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare il suo ultimo
pezzo di terra all'usuraio, la miseria ha 172 fatto il suo ingresso nella
casa. Lo sfruttatore diviene onnipotente, si fa ricorso a uno sfibrante
superlavoro e l'intera industria cade spesso in rovina. Fatti del genere,
come anche la pronunciata tendenza di alcune fabbriche a spostarsi nelle aree
rurali, che si fa sempre più palese e che ha trovato
ultimamente espressione nel movimento delle «Città-giardino», sono molto
indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso errore immaginare il ritorno
dell'industria al suo stadio manuale allo scopo di combinarsi con
l'agricoltura. Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umano per
mezzo di una macchina, la macchina è benvenuta e va impiegata; e non c'è
quasi settore dell'industria in cui il lavoro meccanico non possa essere
introdotto con grande vantaggio, almeno in alcune fasi della
produzione. Nell'attuale stato caotico dell'industria, chiodi e temperini
a basso prezzo si possono ancora fare a mano, e i cotoni comuni si possono
ancora tessere col telaio a mano. Ma una anomalia del genere non durerà:
la macchina prenderà il posto del lavoro manuale nella fabbricazione delle
merci comuni. Nello stesso tempo, però, il lavoro manuale estenderà il
proprio dominio sulla rifinitura artigianale di molte merci che
vengono oggi interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sempre un fattore
importante per la nascita di migliaia di nuove produzioni industriali. Ma
ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, le stoffe di lana e le sete,
oggi tessuti a mano nei villaggi, non dovrebbero essere tessuti a macchina
negli stessi villaggi senza che per questo si tralasci il lavoro
nei campi? Perché centinaia di industrie a domicilio, oggi esercitate
interamente a mano, non dovrebbero far ricorso a macchine che risparmino il
lavoro, come già avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti
altri campi? Non c'è ragione perché i piccoli motori non debbano avere un
uso molto più generalizzato di oggi, dovunque non ci sia bisogno di una
fabbrica; e non c'è ragione perché il villaggio non debba avere la sua
piccola fabbrica, dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibi- 173 le,
come già si vede di tanto in tanto in certi villaggi della Francia. Ma c'è
di più. Non c'è ragione per cui la fabbrica, con la sua energia motrice e il
suo macchinario, non debba appartenere alla comunità, come già avviene per la
forza motrice nelle già menzionate officine e piccole fabbriche della zona
collinare francese del Giura. È evidente che oggi, sotto il sistema
capitalistico, la fabbrica è la maledizione del villaggio dato che giunge a
sottoporre i bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire i suoi
abitanti maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri l'ostilità
assoluta dei lavoratori quando questi riescono a mantenere l'organizzazione
delle loro antiche attività (come a Sheffield o a Solingen), o quando non
sono stati ridotti in completa miseria (come nel Giura). Ma
con un'organizzazione sociale più razionale, la fabbrica non troverebbe
ostacoli come questi: sarebbe un bene per il villaggio. E abbiamo già
un'inequivocabile prova che dimostra come passi in questa direzione siano già
stati fatti in alcune comunità rurali. I vantaggi fisici e morali che
l'uomo trarrebbe dividendo il suo lavoro tra il campo e l'officina si
presentano da sé. La difficoltà starebbe, ci dicono, nella
necessaria centralizzazione delle industrie moderne. Nell'industria, come
anche in politica, la centralizzazione vanta molti ammiratori! Ma in entrambi
i campi l'ideale dei centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di
essere riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie
moderne, scopriamo ben presto che per alcune di esse la collaborazione di
centinaia, o persino di migliaia, di lavoratori raggruppati nello stesso
posto è realmente necessaria. Le grandi fonderie e le imprese minerarie
appartengono decisamente a questa categoria: i transatlantici non si
possono costruire nelle officine di villaggio. Ma moltissime grosse fabbriche
non sono altro che agglomerati, sotto un'amministrazione comune, di
parecchie industrie distinte, mentre altre sono semplici agglomerati di
centinaia di esemplari di un'identica macchina; e tali appunto sono la
maggior parte delle nostre gigante- 174 sche filande e
tessiture. Essendo la fabbrica un'impresa strettamente privata, i suoi
proprietari trovano vantaggioso tenere tutti i settori di una determinata
industria sotto la propria amministrazione; in questo modo cumulano i
profitti delle successive trasformazioni della materia prima. E quando
diverse migliaia di telai meccanici si trovano riuniti in una sola fabbrica,
il proprietario realizza un ulteriore vantaggio nella possibilità di
controllare il mercato. Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di
una simile accumulazione sono insignificanti e spesso incerti. Anche
un'industria così centralizzata come quella cotoniera non ha risentito
affatto dall'aver suddiviso le varie fasi di lavorazione di una data
produzione in fabbriche distinte: lo si è visto a Manchester e nelle
città vicine. Quanto alle piccole industrie, non si è riscontrato alcun
inconveniente nella ulteriore suddivisione tra le officine della
fabbricazione di orologi e di moltissimi altri prodotti. Spesso sentiamo
dire che un cavallo-vapore costa tanto in un piccolo motore e nettamente meno
in un motore dieci volte più potente, o che una libbra di filato di cotone
costa molto meno quando la fabbrica raddoppia il numero dei suoi fusi. Ma
nell'opinione dei migliori ingegneri meccanici, come il professor W. Unwin,
la distribuzione idraulica e soprattutto quella elettrica di energia da
parte di una stazione centrale elimina il primo punto della questione. Quanto
al secondo, calcoli del genere valgono solo per quelle industrie che
preparano prodotti semilavorati per ulteriori trasformazioni. E quanto
alle innumerevoli specie di merci che si avvalgono del lavoro specializzato,
le si può meglio produrre in piccole fabbriche che impiegano poche centinaia
o persino poche decine di operai. Ecco perché la «concentrazione » di cui
tanto si parla spesso non è altro che un'unione di capitalisti allo scopo di
controllare il mercato, non a quello di ridurre il costo dei processi
tecnici. Anche nelle condizioni attuali le fabbriche
gigantesche presentano grandi inconvenienti dato che non sono 175 in
grado di modificare rapidamente il proprio macchinario in sintonia con le
domande continuamente varianti del consumatore. Quanti fallimenti di
grandi aziende, troppo note in questo Paese perché se ne faccia il nome,
si devono a questo motivo durante la crisi degli anni tra il 1886 e il 1890!
Quanto ai nuovi settori dell'industria che ho menzionato prima, essi
devono sempre avviarsi su piccola scala, e possono prosperare tanto nelle
piccole città come nelle grandi se gli agglomerati più piccoli dispongono di
istituzioni che stimolino il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I
progressi raggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli, come
anche l'elevato grado di perfezione raggiunto nella fabbricazione di
strumenti scientifici e ottici, di mobili, di piccoli articoli di lusso, di
terraglie, costituiscono esempi significativi. L'arte e la scienza non sono
più il monopolio delle grandi città, e ulteriori progressi si
raggiungeranno diffondendole ovunque. In buona parte, la distribuzione
geografica delle industrie in un dato Paese dipende, ovviamente, da
un complesso di condizioni naturali: è ovvio che certe località sono
meglio indicate per lo sviluppo di determinate industrie. Le sponde del Clyde
e del Tyne sono certamente quanto mai indicate come cantieri navali, e
i cantieri navali devono essere circondati da una molteplicità di officine
e di fabbriche. Le industrie trarranno sempre vantaggio dall'essere
raggruppate, e raggruppate in armonia con gli aspetti naturali delle
singole regioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi esse non si trovano
affatto raggruppate in base a questi criteri. Cause storiche - principalmente
guerre di religione e rivalità nazionali - hanno avuto molto peso nella
loro crescita e nella loro distribuzione attuale. Inoltre, i datori di
lavoro sono stati guidati dalla valutazione delle possibilità di vendita e di
esportazione: vale a dire, da considerazioni che vanno perdendo importanza
via via che aumentano le possibilità di trasporto, e che sempre più ne
perderanno quando i produttori produrranno per se stessi e non per clienti
lontani. 176 Perché, in una società organizzata razionalmente, Londra
dovrebbe rimanere il grande centro dell'industria conserviera e fabbricare
ombrelli per quasi tutta la Gran Bretagna? Perché le innumerevoli piccole
industrie di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sono invece di
diffondersi per tutto il Paese? Non c'è ragione alcuna per cui i mantelli
indossati dalle signore inglesi debbano essere cuciti a Berlino e a
Whitechapel invece che nel Devonshire o nel Derbyshire. Perché
Parigi dovrebbe raffinare lo zucchero per quasi l'intera Francia? Perché
metà degli stivali e delle scarpe che si usano negli Stati Uniti dovrebbe
essere fabbricata nei 1.500 laboratori del Massachusetts? Non c'è
assolutamente ragione per cui queste e altre anomalie del
genere continuino ad esistere. Le industrie devono disseminarsi in tutto
il mondo; e la disseminazione delle industrie in tutte le nazioni civili sarà
necessariamente seguita da un'ulteriore disseminazione delle fabbriche nei
territori di ciascuna nazione. Nel corso di questa evoluzione, i prodotti
naturali di ciascuna regione e le sue condizioni geografiche
saranno certamente uno dei fattori che determineranno il tipo di industria
destinata a svilupparsi in quell'area. Ma quando vediamo che la Svizzera è
divenuta una grande esportatrice di locomotive e di navi a vapore, benché
non abbia miniere di ferro né carbone per ottenere l'acciaio, e non abbia
neppure porti per importarli; quando vediamo che il Belgio è riuscito a
diventare un grande esportatore di uve, e che Manchester si è data da fare
per diventare un porto, comprendiamo che nella distribuzione geografica delle
industrie i due fattori del prodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza
col mare non costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo a capire che,
tutto considerato, il fattore intellettuale - lo spirito creativo, la
capacità di adattamento, la libertà politica, ecc. - è quello che conta più
di tutti gli altri. Che ciascuna attività industriale tragga
vantaggio dall'essere esercitata in stretto contatto con una gran varietà
di altre attività industriali, il lettore lo ha già 177 rilevato da
numerosi esempi. Ogni industria richiede un ambiente tecnologizzato. Ma la
stessa cosa si può dire anche dell'agricoltura. L'agricoltura non si può
sviluppare senza l'aiuto della meccanica, e l'uso di macchinari avanzati non
può divenire generale senza un'industrializzazione diffusa: senza officine
meccaniche facilmente accessibili al coltivatore del suolo, l'uso del
macchinario agricolo non è possibile. Il fabbro del villaggio non basterebbe.
Se il lavoro di una trebbiatrice dev'essere sospeso per una settimana o
più perché uno dei denti della ruota si è rotto, e se per avere una nuova
ruota bisogna mandare un corriere particolare nella provincia vicina,
allora l'uso di una trebbiatrice diventa impossibile. Ma questo è proprio
quanto vidi durante la mia infanzia nella Russia centrale; e abbastanza di
recente ho trovato l'identico fatto menzionato in un'autobiografia
inglese della prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la
parte settentrionale della zona temperata, chi coltiva il suolo deve
trovare una sorta di impiego industriale durante i lunghi mesi invernali.
Cosa che è stata appunto realizzata con il grande sviluppo delle
industrie rurali, delle quali abbiamo appena visto esempi così
interessanti. Ma questo bisogno viene avvertito anche nel clima più mite
delle isole della Manica, nonostante l'estensione raggiunta dall'orticoltura
in serra. «Abbiamo bisogno di tali industrie. Potreste
suggerircene qualcuna?», mi ha domandato uno dei miei corrispondenti di
Guernsey. Ma non è tutto. L'agricoltura ha così bisogno dell'aiuto di
coloro che abitano nelle città che ogni estate migliaia di uomini lasciano i
loro bassifondi urbani e vanno in campagna per la stagione dei raccolti. I
poveri di Londra si recano a migliaia nel Kent e nel Sussex per la
raccolta del fieno e del luppolo, giacché si valuta che il solo Kent abbia
bisogno di 80.000 uomini e donne in più per raccogliere il solo luppolo; in
Francia interi villaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati
in estate perché i contadini si trasferiscono nelle parti
più 178 fertili del Paese; centinaia di migliaia di esseri
umani vengono trasportati ogni estate nelle praterie del Manitoba e del
Dakota. E ogni estate, molte migliaia di polacchi si riversano al tempo del
raccolto nelle pianure del Mecklenburg, della Westfalia e persino della
Francia; in Russia si verifica ogni anno un esodo di parecchie migliaia di
uomini che da nord si spostano verso le praterie del sud per raccogliere le
messi, tanto che molti industriali di San Pietroburgo riducono in questa
stagione la produzione proprio perché gli operai ritornano ai villaggi
natali per coltivare i loro appezzamenti. L'agricoltura non può andare avanti
in estate senza manodopera addizionale, ma essa necessita ancor di più di
aiuti temporanei per migliorare il terreno e per decuplicarne la
produttività. La dissodazione meccanica del suolo, il prosciugamento e la
concimazione farebbero delle pesanti argille a nordovest di Londra un
terreno molto più ricco di quello delle praterie americane. Per divenire
fertili, quelle argille hanno bisogno solo del semplice, comune, lavoro
umano, quello necessario per dissodare il suolo, collocare i tubi di
drenaggio, polverizzare le fosforiti, e così via; e quel lavoro sarebbe
di buon grado adempiuto dai lavoratori di fabbrica, a beneficio
dell'intera società, se fossero adeguatamente organizzati in una libera
comunità. Il suolo reclama un aiuto del genere e lo avrebbe con
un'organizzazione adeguata, anche se per questo fosse necessario
fermare in estate molte fabbriche. Non c'è dubbio che gli
attuali proprietari di fabbrica considererebbero come una rovina dover
fermare le fabbriche parecchi mesi l'anno, poiché il capitale investito in
una fabbrica è destinato a pompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se
possibile. Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non
della comunità. Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero
essere coloro che gestiscono le industrie, sarà per loro salutare non fare
lo stesso monotono lavoro per tutto l'anno, e abbandonarlo in estate, se
davvero non si trovasse il modo di tenere in funzione la fabbrica
organizzando dei turni. 179 La disseminazione delle industrie per tutto il
Paese - in modo da portare la fabbrica tra i campi e da
apportare all'agricoltura tutti quei benefici che essa trae sempre dalla
combinazione con l'industria (come avviene sulla costa orientale degli Stati
Uniti) - è certamente il primo passo da compiere, non appena si sia resa
possibile una riorganizzazione delle nostre condizioni attuali. E questo
passo - che viene già fatto qua e là, come abbiamo visto nelle pagine
precedenti - lo impone una necessità che è tale per gli stessi produttori: lo
impone la necessità, per ogni uomo e donna sana, di passare parte della
vita nel lavoro manuale all'aria aperta; e diventerà ancora più necessario
quando i grandi sommovimenti sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno
a perturbare l'attuale scambio internazionale spingendo ogni nazione a
fare ricorso alle proprie risorse per mantenersi. L'umanità intera, come ogni
singolo individuo, guadagneranno nel cambio, e il cambio sarà
inevitabile. Per noi, però, esso implica anche una completa
modifica dell'attuale sistema educativo. Implica una società composta da
uomini e donne capaci di lavorare con le proprie mani ma anche con il proprio
cervello, e di farlo in più attività. È questa «integrazione di capacità»,
è questa «istruzione integrale», che intendo ora
analizzare. 180 VIII Kropotkin svolge una critica radicale al
collettivismo, cioè a quel sistema che intende mantenere la
remunerazione individuale a fianco di una socializzazione dei mezzi di
produzione. Il collettivismo sia esso libertario o autoritario, non attuando
una trasformazione vera dell'esistente, implica una conseguenza
contraddittoria, perché gli esiti della rivoluzione sociale risultano
limitati da forme più arretrate dell'opera demolitrice della rivoluzione
medesima; esso, in altri termini, dimostra i suoi limiti rispetto al compito
immane dell'emancipazione integrale. Si pensi, ad esempio, al superamento
della divisione gerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale
della disuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da un lato
intende socializzare i mezzi di produzione, dall'altro lascia intatta la
diversa remunerazione individuale scaturita dalla differente qualità di
lavoro erogata da ciascun membro della società. In tal modo, secondo
Kropotkin, si costituisce la sanzione «socialista» della
gerarchia sociale, la santificazione del principale
ostacolo dell'obiettivo egualitario. Come Bakunin, Kropotkin ritiene che
il superamento della divisione gerarchica del lavoro sia la via
maestra per l'abolizione delle classi. Ancora una volta, la
norma 181 del dover essere si coniuga con la constatazione
dell'oggettività necessitante della sua utilità pratica. Ne deriva, in
questo caso, l'idea del perseguimento dell'«uomo completo». L'integrazione
del lavoro, infatti, mira a sviluppare un essere sociale «completo», mentre
nello stesso tempo abolisce la gerarchia sociale che sta alla base di ogni
disuguaglianza. Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto
cittàcampagna. Infatti, come il lavoro intellettuale è dominante rispetto
a quello manuale, così la posizione della città è dominante rispetto a quella
della campagna: non si può, insomma, integrare l'uno senza integrare
l'altro. Perciò l'integrazione fra lavoro manuale e intellettuale
è perfettamente complementare, in senso anarchico, a quella fra centro e
periferia. I brani riprodotti qui di seguito sono tratti
dall'edizione italiana di Campi, fabbriche officine del 19822, nella
traduzione (rivista) di Franco Marano. 182 L'INTEGRAZIONE DEL LAVORO In
passato gli scienziati, soprattutto quelli che maggiormente hanno contribuito
allo sviluppo delle scienze naturali, non disdegnavano il lavoro e le
attività manuali. Galileo si costruiva i telescopi da sé. Newton apprese
da ragazzo l'arte di maneggiare gli utensili ed esercitava la sua giovane
mente ideando le macchine più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche
ottiche, fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoi strumenti
e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio, che rappresentò, per
quei tempi, un ottimo esempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con
passione all'invenzione di macchine: mulini a vento e carri senza cavalli
ne impegnavano la mente tanto quanto le speculazioni matematiche e
filosofiche. Linneo divenne botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere,
nei 183 lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni
l'abilità manuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teoriche: al
contrario, le favoriva. D'altra parte, se in passato gli operai avevano ben
poche occasioni di esercitare la scienza, molti di loro trovavano però uno
stimolo intellettuale nelle svariate occupazioni delle officine non
specializzate di allora; e alcuni ebbero la fortuna di intrattenere rapporti
amichevoli con uomini di scienza. Watt e Rennie furono amici del professor
Robinson; lo stradino Brindley, malgrado il suo salario di 14
scellini giornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe così modo di
sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristiche; il rampollo di una
famiglia benestante poteva «perder tempo» nella bottega di un carradore,
preparandosi a divenire, più tardi, uno Smeaton o uno Stephenson. Tutto
questo è cambiato. Col pretesto della divisione del lavoro, abbiamo
nettamente separato il lavoratore intellettuale dal lavoratore manuale. La
massa degli operai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica
di quanta ne ricevessero le generazioni passate; anzi, è stata privata
persino dell'istruzione che può dare la piccola officina, mentre i suoi figli
e figlie, dai tredici anni in poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica,
e lì dimenticano ben presto quel poco che hanno potuto imparare a scuola.
Quanto agli uomini di scienza, essi disprezzano il lavoro manuale. Pochi
sarebbero in grado di costruire un telescopio, o anche uno strumento meno
complesso! La maggior parte non sarebbe neppure capace di disegnare uno
strumento scientifico, e una volta dato allo strumentista un vago
suggerimento, lascia a lui il compito di creare l'apparecchio di cui
ha bisogno. Per di più, hanno elevato il disprezzo per il lavoro manuale a
livello di teoria. «All'uomo di scienza», affermano, «scoprire le leggi della
natura, all'ingegnere applicarle, e all'operaio eseguire in acciaio o in
legno, in ferro o in pietra, i progetti ideati dall'ingegnere. Egli deve
lavorare con le macchine ideate per lui, ma non da lui. Non importa che non
le capisca e non sia in grado di perfezionarle: lo scienziato e l'ingegnere
penseranno 184 al progresso della scienza e dell'industria». Si
potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una classe di uomini che non
rientra in nessuna delle tre categorie appena delineate. Da giovani sono
stati lavoratori manuali, e alcuni lo rimangono, ma grazie a
fortunate circostanze sono riusciti ad acquisire una certa preparazione
scientifica e hanno perciò combinato la scienza con il mestiere. Uomini del
genere esistono, e siamo fortunati che sia rimasto un certo numero di
individui sfuggiti alla tanto decantata specializzazione del lavoro perché
è proprio a loro che l'industria deve le sue principali e più recenti
invenzioni. Ma nella vecchia Europa rappresentano un'eccezione: sono gli
irregolari, i «cosacchi» che hanno rotto le righe e sfondato le
barriere tanto laboriosamente erette tra le classi. E sono così poco
numerosi, in confronto alle sempre crescenti esigenze dell'industria - e
della scienza - che tutto il mondo lamenta proprio la scarsità di uomini del
genere. Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta di insegnamento
professionale sorta simultaneamente in Inghilterra, Francia, Germania, Stati
Uniti e Russia, se non come la conseguenza di un generale
malcontento verso l'attuale divisione tra scienziati, ingegneri e
operai? Prestate orecchio a coloro che conoscono l'industria e sentirete
che proprio questo è l'oggetto delle loro lamentele: «L'operaio, le cui
mansioni sono diventate così specialistiche a causa della divisione
permanente del lavoro, ha perduto ogni interesse intellettuale nel proprio
lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandi industrie: egli ha perso le
sue capacità creative. Una volta creava in continuazione. È ai lavoratori
manuali - e non agli uomini di scienza o agli esperti di ingegneria - che
si deve l'invenzione o il perfezionamento dei motori e di tutta quella massa
di macchinari che hanno rivoluzionato l'industria negli ultimi cento anni. Ma
da quando è sorta la grande fabbrica, l'operaio, depresso dalla monotonia
del proprio lavoro, non crea più nulla. Che cosa potrebbe inventare, infatti,
un tessitore impegnato soltanto a sorvegliare quattro telai, senza
sapere 185 nulla dei loro complicati movimenti o del modo in cui queste
macchine sono state concepite? Che cosa potrebbe creare un uomo condannato
per tutta la vita ad annodare alla massima velocità i capi di due fili e
capace soltanto di fare un nodo? «All'inizio dell'industria moderna, tre
generazioni di operai sono stati capaci di inventare: oggi non lo
fanno più. Quanto alle invenzioni degli ingegneri particolarmente esperti
nella progettazione di macchine, o non sono affatto geniali, o non sono
abbastanza pratiche. Mancano in tali invenzioni quei 'nonnulla' di cui
parlava una volta a Bath sir Frederick Bramwell - quei nonnulla che si
possono apprendere solo in officina e che permisero a Murdoch e agli operai
di Soho di ricavare una macchina vera dai disegni di Watt. Solo chi
conosce la macchina, non soltanto nei progetti e nei modelli ma nel
respiro e nelle pulsazioni, solo chi inconsciamente la pensa mentre le sta
vicino, può veramente perfezionarla. Smeaton e Newcomen erano certamente
eccellenti ingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprire la
valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu proprio uno di questi
ragazzi a scoprire un giorno il modo di collegare la valvola al resto della
macchina perché si aprisse automaticamente, mentre egli si allontanava per
giocare con i compagni. Tuttavia, nei macchinari moderni i perfezionamenti
improvvisati come questi non sono più possibili. E se per ulteriori
invenzioni è diventata necessaria l'istruzione scientifica su larga scala,
questa istruzione viene negata agli operai. E non c'è verso di superare tale
difficoltà, a meno che istruzione scientifica e mestiere non vengano
combinati; a meno che l'integrazione delle conoscenze non sostituisca le
attuali specializzazioni». Ecco la vera sostanza dell'attuale movimento a
favore dell'insegnamento professionale. Ma invece di chiarire al pubblico
le ragioni, forse incomprese, dell'attuale malcontento, invece di allargare
l'orizzonte degli scontenti e discutere il problema in tutta la sua
estensione, i promotori del movimento non oltrepassano, in
genere, 186 il punto di vista di un bottegaio. Alcuni si perdono
in chiacchiere sulla necessità di annientare la concorrenza di tutte le
industrie straniere; altri vedono nell'insegnamento professionale solo uno
strumento per perfezionare leggermente la macchina di carne della fabbrica
e promuovere alcuni operai alla classe superiore degli ingegneri. Un
simile ideale può bastare a loro, ma non certo a quanti, tenendo ben presenti
gli interessi comuni della scienza e dell'industria, considerano entrambe
come il mezzo per elevare il livello dell'umanità. Noi sosteniamo che,
nell'interesse della scienza e dell'industria, come anche della società nel
suo complesso, ogni essere umano, senza distinzione di nascita, dovrebbe
ricevere un'istruzione tale da permettergli di unire una
solida preparazione scientifica a una solida preparazione
professionale. Riconosciamo, certo, la necessità di una
preparazione specialistica, ma sosteniamo anche che la specializzazione
viene dopo l'istruzione generale e che l'istruzione generale deve comprendere
tanto la scienza quanto il mestiere. Alla divisione della società tra
lavoratori intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo l'unione di
entrambi i tipi di attività; e invece che per l'«insegnamento professionale»,
che sottintende il mantenimento dell'attuale divisione tra lavoro
intellettuale e lavoro manuale, siamo per l'éducation
intégrale, l'istruzione integrale, che comporta la scomparsa di
tale nociva distinzione. In parole povere, lo scopo della scuola in un
simile sistema dovrebbe essere il seguente: impartire un'istruzione tale
che, nel lasciare la scuola all'età di diciottovent'anni, ragazzi e ragazze
fossero provvisti di una solida preparazione scientifica - una preparazione
che ne facesse dei validi lavoratori scientifici - e nello stesso tempo
avessero in pugno le basi della preparazione professionale; inoltre,
dovrebbero disporre di una particolare specializzazione in grado di
assicurare loro un posto nel grande mondo della produzione manuale
di ricchezza. So che molti troveranno questo scopo
troppo 187 ambizioso, o addirittura impossibile da raggiungere, ma
spero che, se avranno la pazienza di leggere le pagine che seguono, si
accorgano che non chiediamo nulla di irrealizzabile. In effetti, tale scopo è
già stato raggiunto, e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più
in grande se cause economiche e sociali non impedissero l'attuazione di
ogni seria riforma nella nostra società così infelicemente organizzata. Lo
spreco di tempo è l'aspetto dominante della nostra attuale istruzione. Non
solo si insegnano un mucchio di cose inutili, ma ciò che inutile non è ci
viene comunque insegnato in modo da farci sprecare su di esso quanto più
tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegnamento risalgono a un tempo
in cui le doti richieste a una persona istruita erano estremamente limitate,
e sono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni da indirizzare alla
mente dello scolaro, dopo che la scienza ha tanto esteso i suoi antichi
confini, sia immensamente cresciuta. Di qui l'oppressività delle scuole, e
sempre di qui l'urgenza di rivedere interamente sia gli argomenti sia i
metodi di insegnamento in base alle nuove esigenze e agli esempi già forniti,
qui e là, da singole scuole e da singoli educatori. È evidente che gli
anni dell'infanzia non andrebbero sprecati come oggi. I pedagoghi tedeschi
hanno dimostrato come gli stessi giochi infantili possano servire
a indirizzare alla mente dei bambini qualche nozione concreta di geometria
e di matematica. I bambini che hanno realizzato i quadrati del teorema di
Pitagora con dei pezzi di cartone colorato non considereranno il
teorema, quando lo ritroveranno in geometria, come un semplice strumento
di tortura inventato dagli insegnanti; e ciò sarà più vero se lo
applicheranno come lo applicano i carpentieri. I complicati problemi di
aritmetica, che hanno tanto tormentato la nostra infanzia,
vengono facilmente risolti da bambini di sette-otto anni se posti sotto
forma di interessanti giochi di pazienza. E se il Kindergarten - che i
pedagoghi tedeschi spesso trasformano in una specie di caserma, dove ogni
movimento 188 del bambino è regolato in anticipo - è spesso
divenuto una prigione per i piccoli, l'idea dalla quale è nato è
ciononostante valida. In effetti, è quasi impossibile immaginare, senza
averlo verificato, quante solide nozioni naturali, quante abitudini alla
classificazione e quanto gusto per le scienze naturali possano essere
indirizzati alle menti dei bambini. E se l'idea di una serie di
corsi concentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppo dell'essere
umano, venisse generalmente accolta nell'istruzione, il primo corso di ogni
scienza, eccettuata la sociologia, potrebbe essere insegnato prima dei
diecidodici anni, dando così una visione generale dell'universo, della
Terra e dei suoi abitanti, e dei principali fenomeni fisici, chimici,
zoologici e botanici, e lasciando la scoperta delle leggi di tali fenomeni a
corsi successivi più approfonditi e specializzati. D'altra parte, sappiamo
tutti come i bambini amino costruirsi da soli i giocattoli e come imitino
spontaneamente le occupazioni degli adulti quando li vedono al lavoro in
officina o nel cantiere. Ma i genitori talvolta bloccano stupidamente questa
passione, talvolta non sanno come utilizzarla. La maggior parte disprezza
il lavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini la storia romana, o
i precetti di Franklin sul risparmio, anziché vederli al lavoro, buono «solo
per le classi inferiori ». E in questo modo fanno del loro meglio per
rendere più difficile l'apprendimento successivo. Poi arrivano gli anni
della scuola, e il tempo viene di nuovo incredibilmente sprecato. Prendiamo,
ad esempio, la matematica, che tutti dovrebbero conoscere in quanto
costituisce la base di ogni successiva istruzione, e che pochi imparano
veramente nelle nostre scuole. In geometria il tempo viene scioccamente
sprecato con l'uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza dei casi, il
ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazione di un teorema, fino a
quando non ha imparato a memoria la successione dei ragionamenti. È per
questo che nove ragazzi su dieci, alla richiesta di dimostrare un semplice
teorema due anni dopo aver lasciato la 189 scuola, saranno incapaci di
farlo, a meno che la matematica non sia la loro specializzazione. Essi
avranno dimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendo mai
imparato a scoprire le prove da soli. Nessuna meraviglia se più tardi,
nell'applicare la geometria alla fisica, incontreranno tante difficoltà, se
il loro progresso sarà disperatamente lento, e se pochi saranno in
grado di padroneggiare la matematica più complessa. Esiste, tuttavia, un
altro metodo, che consente all'allievo di progredire, nel complesso, molto
più velocemente e con il quale chi ha imparato la geometria non la
dimenticherà più. Con questo sistema, ogni teorema viene posto come un
problema; la soluzione non viene mai data in anticipo, ma l'allievo è
costretto a trovarla da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi
preliminari con il regolo e il compasso, non c'è ragazzo o ragazza che non
riesca a tracciare un angolo uguale a un altro dato angolo e a dimostrarne
l'uguaglianza dietro pochi suggerimenti dell'insegnante; e se i
problemi seguenti vengono dati in successione sistematica (esistono testi
eccellenti in materia) e l'insegnante non costringe gli allievi ad andare più
in fretta di quanto all'inizio siano in grado, questi passeranno da un
problema all'altro con facilità sorprendente, una volta superata la
difficoltà iniziale di indurre l'allievo a risolvere il primo e perciò ad
acquistare fiducia nel suo stesso ragionamento. Inoltre, ogni verità
geometrica astratta va impressa nella mente anche nella sua forma concreta.
Non appena gli allievi avranno risolto dei problemi sulla carta, li si
spinga a risolverli anche sul campo da gioco con dei bastoncini e uno spago,
e ad applicare la propria conoscenza in officina. Solo allora le linee
geometriche assumeranno un significato concreto nella mente dei
bambini; solo allora questi si accorgeranno che l'insegnante non li prende
in giro quando chiede loro di risolvere i problemi con il regolo e il
compasso senza ricorrere al goniometro; solo allora conosceranno la
geometria. «Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il
vero 190 modo per risparmiare tempo nell'insegnamento. Ricordo, come
fosse ieri, in che modo la geometria acquistasse per me, improvvisamente, un
nuovo significato, e come questo nuovo significato mi facilitasse ogni
studio successivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno a una
mongolfiera, e io osservai come l'angolo in cima a ognuna delle venti strisce
di carta che costituivano il pallone dovesse coprire meno d'un quinto di
angolo retto. Ricordo poi come seni e tangenti cessassero di
essere semplici segni cabalistici quando ci permisero di calcolare la
lunghezza di un bastoncino nell'eseguire la sezione di un fortino, e come la
geometria dello spazio si facesse semplice quando cominciammo a costruire
un piccolo bastione con feritoie e barbette: occupazione che naturalmente
ci fu subito proibita per lo stato in cui riducemmo i nostri vestiti.
«Sembrate degli sterratori», ci rimproverarono i nostri sapienti insegnanti,
mentre noi eravamo orgogliosi proprio di questo e di avere scoperto l'uso
della geometria. Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su
semplici rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare direttamente,
li costringiamo a sprecare un tempo prezioso; ne impegniamo inutilmente le
menti; li abituiamo ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo
sul nascere l'indipendenza del pensiero; e molto raramente riusciamo a dar
loro un'idea concreta di quanto insegniamo. Superficialità, ripetizioni a
pappagallo, schiavitù e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro
metodo di insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo
ad apprendere. Anche l'insegnamento dei princìpi scientifici segue
il medesimo deleterio sistema. Nella maggior parte delle scuole
l'aritmetica viene insegnata in modo astratto, imbottendo le povere testoline
di semplici regole. In questo Paese, negli Stati Uniti e in Russia, invece
di accettare il sistema metrico decimale, si torturano ancora i bambini
insegnando loro un sistema di pesi e misure superato già da un pezzo. Il
tempo che si spreca per la fisica è semplicemente 191 indecente. Mentre i
giovani comprendono molto facilmente i princìpi della chimica e le sue
formule non appena passano a fare direttamente i primi esperimenti con
ampolle e provette, trovano infinitamente difficile impadronirsi
dell'introduzione meccanica alla fisica, in parte perché non conoscono la
geometria, ma soprattutto perché vengono loro mostrate solo macchine
costose invece di essere indotti a costruire direttamente i
semplici apparecchi che illustrano i fenomeni studiati. Invece di
apprendere le leggi dell'energia per mezzo di semplici strumenti che anche un
ragazzo di quindici anni sarebbe in grado di costruire, le imparano
dai disegni, in modo completamente astratto. Invece di costruire
direttamente una macchina di Atwood con un manico di scopa e il bilanciere di
un vecchio orologio, o di verificare le leggi della caduta dei corpi facendo
scivolare una chiave su una cordicella inclinata, si mostra loro un
complicato apparecchio, e nella maggior parte dei casi lo stesso insegnante
non riesce a spiegare il principio perdendosi in dettagli irrilevanti. In
realtà, ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi
fondamentali della fisica andrebbe costruito dagli stessi ragazzi. Lo
spreco di tempo è la caratteristica non solo dei nostri metodi di
insegnamento scientifico, ma anche dei metodi usati nell'insegnamento
professionale. Sappiamo bene quanti anni sprechi un ragazzo che fa
tirocinio in officina. Ma lo stesso rimprovero lo si può rivolgere
a maggior ragione a quelle scuole professionali che cercano di insegnare,
tutto in una volta, un qualche mestiere particolare, invece di ricorrere ai
metodi più completi e sicuri dell'insegnamento sistematico. Ogni macchina,
per quanto complicata, la si può ridurre a pochi elementi (piastre, cilindri,
dischi, coni, ecc.) e a pochi attrezzi (scalpelli, seghe, rulli,
martelli ecc.), e per quanto complicati siano i suoi movimenti, li si può
ricondurre a poche variazioni del moto, come la trasformazione del moto
circolare in rettilineo e simili, con una quantità di fasi intermedie. Allo
stesso modo, 192 ogni mestiere può essere scomposto in un certo
numero di elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una piastra a
facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato e uno rotondo; si
deve saper maneggiare un numero limitato di attrezzi, dato che tutti gli
attrezzi sono semplici modifiche di una decina di tipi; e si deve saper
trasformare un tipo di moto in un altro. È questa la base di tutti i mestieri
meccanici, sicché la capacità di eseguire in legno quegli elementi primari e
di trasformare i vari tipi di moto andrebbe considerata la vera base
dell'ulteriore insegnamento di ogni mestiere meccanico. L'allievo fornito di
tali capacità conosce già una buona metà di tutti i mestieri possibili. Si
tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopo principale della scuola
non è di trasformare il principiante in uno specialista, ma di dargli una
preparazione e buoni metodi di lavoro, e soprattutto di infondergli quella
generale ispirazione che lo spingerà più tardi, in qualsiasi cosa faccia, a
una sincera ricerca della verità, ad amare tutto ciò che è bello, sia nella
forma sia nel contenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile insieme a
tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore all'unisono con il resto
dell'umanità. Quanto ad evitare all'allievo la monotonia di un
lavoro durante il quale non farebbe che cilindri e dischi, e mai macchine
complete o altri oggetti utili, vi sono migliaia di mezzi per ovviare alla
mancanza di interesse e uno di essi, utilizzato a Mosca, è degno di
menzione. Si tratta di non attribuire un lavoro come semplice esercizio,
ma di utilizzare qualsiasi cosa l'allievo faccia sin dalle prime lezioni.
Ricordate con quale compiacimento, da bambini, vedevate il vostro lavoro
utilizzato, anche solo come accessorio di qualcosa di utile? E così
si faceva alla Scuola Professionale di Mosca. Ogni asse piallata dagli
allievi veniva adoperata come accessorio di una macchina in una qualche
officina. Quando un allievo, una volta ammesso al laboratorio di
ingegneria, veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di ferro a
lati paralleli e perpendicolari, quel blocco assume- 193 va ai suoi occhi
un certo interesse visto che una volta terminato, dopo aver verificato angoli
e lati e corretto i difetti, non finiva sotto il banco, ma veniva passato
a un altro allievo più esperto che vi aggiungeva una maniglia, lo
verniciava e lo mandava al negozio della scuola come fermacarte.
L'insegnamento sistematico acquistava così le dovute attrattive. (La vendita
dei lavori eseguiti dagli allievi non era affatto
trascurabile, soprattutto per i corsi avanzati dove si
costruivano macchine a vapore. Proprio per questo la Scuola
Professionale di Mosca, al tempo in cui la conobbi, era una delle più
economiche del mondo. Pensione e insegnamento costavano molto poco. Ma
provate a immaginare una scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero
e scambiassero derrate a prezzo di costo: quanto costerebbe in tal caso
l'insegnamento?). È evidente che la rapidità del lavoro è un
fattore importantissimo per la produzione. E dunque non possiamo non
chiederci se, con il sistema sopra accennato, si raggiunga la necessaria
rapidità. Ma vi sono due generi di rapidità. C'è la rapidità che ebbi modo
di osservare in una fabbrica di merletti di Nottingham: uomini maturi,
mani e teste percorse da un tremito, annodavano febbrilmente i capi di due
fili di cotone rimasti nelle bobine; a stento si riusciva a seguirne
i movimenti. Ma il fatto stesso che una fabbrica richieda una rapidità di
esecuzione come questa basta da solo a condannarla. Che cosa è rimasto
dell'essere umano in quei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro?
Perché questo spreco di energie umane quando le stesse potrebbero produrre
dieci volte il valore di quegli scarti? Questo genere di rapidità dipende
esclusivamente dal basso costo degli schiavi di fabbrica; ci
auguriamo dunque che nessuna scuola tenti mai di esigerla. Ma c'è anche la
rapidità dell'operaio preparato che permette di risparmiare tempo, e ad essa
si può arrivare facilmente con il tipo di istruzione da noi proposta. Per
quanto semplice sia il suo lavoro, l'operaio istruito lo svolge meglio e
più in fretta di quello non istruito. Osservia- 194 mo, ad esempio, i
gesti di un bravo operaio quando taglia qualcosa - diciamo un pezzo di
cartone - e confrontiamoli con quelli di un operaio poco esperto.
Quest'ultimo afferra il cartone, prende l'attrezzo così com'è, traccia una
linea a casaccio e comincia a tagliare; a metà strada è già stanco e, quando
ha finito, il suo lavoro non serve a nulla; il primo, invece, esaminerà il
suo attrezzo e lo perfezionerà se necessario, traccerà la linea con
esattezza, fisserà regolo e cartone, terrà l'attrezzo nel modo giusto,
taglierà molto facilmente e consegnerà un lavoro ben fatto. Ecco la vera
rapidità, quella che consente di risparmiare tempo e lavoro; e il miglior
modo d'arrivarci è un'istruzione di tipo veramente superiore. I
grandi maestri dipingevano con rapidità prodigiosa, ma la loro rapidità
derivava da un grande sviluppo dell'intelligenza e dell'immaginazione, da un
profondo senso della bellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed
è proprio questo il genere di rapidità di lavoro di cui l'umanità ha
bisogno. Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compiti della scuola,
ma mi limito ad aggiungere qualcosa sull'auspicabilità del tipo di istruzione
brevemente tratteggiato nelle pagine precedenti. Certamente non mi illudo
sulla realizzazione di una riforma radicale, o anche soltanto parziale,
dell'istruzione finché le nazioni civili rimarranno legate all'attuale
sistema, meschino ed egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò
che possiamo aspettarci, fino a quando dureranno le condizioni attuali,
sono dei microscopici tentativi di riforma, fatti qua e là e marginali;
tentativi che si fermeranno, ovviamente, molto lontano dai risultati
auspicati, data l'impossibilità di riforme anche marginali quando
sussiste un legame così stretto fra le molteplici funzioni di una nazione
civile. Ma la potenza del genio costruttore della società dipende
principalmente da quanto profonda è la sua opinione riguardo a ciò che
andrebbe fatto e sul come realizzarlo. La necessità di rimodellare
l'istruzione è una di quelle universalmente riconosciute, la 195 più
adatta a ispirare nella società quegli ideali senza i quali il ristagno, o
addirittura la decadenza, si presentano inevitabili. Supponiamo perciò che
una comunità - una città, o un territorio di almeno qualche milione di
abitanti - fornisca a tutti i suoi bambini, senza distinzione di nascita
(e siamo abbastanza ricchi da concedercene il lusso), l'istruzione che
abbiamo tratteggiato, senza chiedere loro in cambio null'altro all'infuori di
quello che essi daranno una volta divenuti produttori di
ricchezza. Supponiamo che questa istruzione venga introdotta e
analizziamone le probabili conseguenze. Non insisterò sull'aumento della
ricchezza che risulterebbe dalla disponibilità di un giovane esercito
di istruiti ed esperti produttori; e neppure mi dilungherò sui benefici
sociali che deriverebbero sia dall'annullamento della distinzione attuale tra
lavoratori intellettuali e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta
comunanza di interessi e dall'armonia tanto necessaria in questi tempi di
lotte sociali. Non mi dilungherò neanche sull'esistenza più completa di cui
ogni singolo individuo godrebbe se gli si consentisse di servirsi
appieno delle proprie capacità intellettuali e fisiche, né sui
vantaggi che si ricaverebbero collocando il lavoro manuale al posto di
onore che gli spetta nella società (mentre oggi rappresenta un marchio di
inferiorità). E non insisterò neppure sulla scomparsa dell'attuale miseria
e degradazione e delle loro conseguenze - immoralità, crimine, carceri,
delazione e simili - che necessariamente seguirebbe. In breve, non entrerò
adesso nella grande questione sociale, sulla quale tanto è stato scritto e
tanto rimane ancora da scrivere. Voglio soltanto mettere in rilievo, in
queste pagine, i benefici che la scienza stessa trarrebbe dal
mutamento. Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uomini di scienza
al ruolo di lavoratori manuali provocherebbe il decadimento della scienza e
del genio. Ma chi terrà conto delle considerazioni che seguono si renderà
conto che è vero l'opposto, cioè che provocherebbe un
tale 196 risveglio della scienza e dell'arte, e un tale
progresso dell'industria, che possiamo farcene solo una pallidissima idea
grazie anche a ciò che sappiamo dell'epoca rinascimentale. È diventato un
luogo comune magnificare i progressi della società durante il XIX secolo, ed
è evidente che questo secolo, se confrontato ai precedenti, ha molte
ragioni di vanto. Ma se teniamo presente che la maggior parte dei problemi
che ha risolto erano già stati evidenziati, e le loro soluzioni previste, un
centinaio di anni prima, dobbiamo riconoscere che il progresso non è stato
così rapido come si sarebbe voluto e che qualcosa lo ha ostacolato. La
teoria meccanica del calore era stata perfettamente prospettata nel secolo
precedente da Rumford e da Humphry Davy, e sostenuta anche in Russia da
Lomonosoff. Eppure, ben più di mezzo secolo è passato prima che la teoria
riapparisse nella scienza. Lamarck, ma anche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire,
Erasmo, Darwin e parecchi altri si rendevano perfettamente conto
della mutabilità della specie e si avviavano ad aprire la strada alla
costruzione della biologia sui princìpi della mutazione; ma anche qui si
dovettero perdere altri cinquant'anni prima che la mutazione tornasse alla
ribalta. Va anche ricordato come le idee di Darwin fossero soprattutto
portate avanti, e imposte all'attenzione del mondo accademico, da persone che
non erano scienziati professionisti; e presso lo stesso Darwin la
teoria dell'evoluzione ha avuto limiti ristretti per
l'importanza preponderante attribuita a uno solo dei fattori
dell'evoluzione. In breve, non c'è una sola scienza che non risenta, nel
suo sviluppo, della mancanza di uomini e donne dotati di una concezione
filosofica dell'universo, pronti ad applicare il proprio spirito di ricerca
in un dato campo, per quanto limitato, e sufficientemente provvisti
di tempo per votarsi al lavoro scientifico. In una comunità come quella
che noi immaginiamo, migliaia di lavoratori sarebbero pronti a rispondere a
qualsiasi appello in nome della ricerca. Darwin spese quasi trent'anni
della 197 sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni
necessari all'elaborazione della teoria sull'origine della specie.
Se fosse vissuto in una società come quella da noi ipotizzata, gli sarebbe
bastato fare appello a dei volontari che si dedicassero alla ricerca dei
fenomeni e alla sperimentazione particolare, e migliaia di esploratori
avrebbero risposto al suo appello. Decine di associazioni sarebbero sorte
per dibattere e risolvere ciascuno dei problemi particolari implicati dalla
teoria, così che in dieci anni se ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i
fattori dell'evoluzione, ai quali soltanto oggi si comincia ad
accordare la necessaria attenzione, sarebbero apparsi in piena luce. Il
progresso scientifico sarebbe stato dieci volte più rapido, e se pure il
singolo non avrebbe gli stessi diritti alla gratitudine dei posteri che ha
oggi, la massa sconosciuta avrebbe eseguito il lavoro più velocemente e
dischiuso al progresso futuro prospettive maggiori di quante può aprirne il
singolo in una vita intera. Ma c'è un altro aspetto della scienza moderna
che depone ancora più imperiosamente a favore del cambiamento che
sosteniamo. Mentre l'industria, soprattutto dalla fine del secolo scorso e
durante la prima parte dell'attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni
in misura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Terra, la scienza è
andata perdendo le sue capacità creative. Gli uomini di scienza non creano
più nulla, o creano pochissimo. Non è sorprendente, in effetti, che la
macchina a vapore, anche nei suoi princìpi fondamentali, la locomotiva, il
battello a vapore, il telefono, il fonografo, il telaio meccanico, la
macchina per merletti, il faro, la strada in macadam, la fotografia in bianco
e nero e a colori, e migliaia di altre cose meno importanti, non
siano state inventate da scienziati di professione? Eppure, nessuno di
loro avrebbe rifiutato di associare il proprio nome a una qualsiasi di dette
invenzioni. Uomini che avevano ricevuto, a scuola un'istruzione
rudimentale, che avevano a malapena raccolto le briciole del sapere dalla
tavola dei ricchi, e che effettuavano i propri esperimenti con i mezzi più
primitivi - il commesso d'avvo- 198 cato Smeaton, l'attrezzista Watt, il
frenatore Stephenson, l'apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore
di mulini Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altri di cui persino
il nome rimane sconosciuto - sono stati, come dice giustamente Smiles, «i
veri creatori della civiltà moderna». Al contrario, gli scienziati di
professione, provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire conoscenze e
a sperimentare, hanno avuto ben poca parte nell'invenzione di quel
formidabile complesso di apparecchi, macchine e motori che ha
permesso all'umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze
della natura. (La chimica rappresenta, in genere, un'eccezione alla
regola. Non sarà perché il chimico è in gran parte un lavoratore manuale?
Inoltre, negli ultimi dieci anni si è notato un deciso risveglio della
creatività scientifica, soprattutto in fisica: vale a dire, in un
campo dove l'ingegnere e l'uomo di scienza hanno modo d'incontrarsi
spesso). Il fatto è sorprendente, ma la sua ragione è molto semplice: quegli
uomini - i Watt e gli Stephenson - sapevano qualcosa che i savants non
sanno: sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne stimolava le
capacità creative; conoscevano le macchine nei loro princìpi fondamentali e
nel loro funzionamento; avevano respirato l'atmosfera dell'officina e del
cantiere. Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno il
rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi della natura, lasciate che siano
gli altri ad applicarle; si tratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma
una tale risposta è assolutamente falsa. La marcia del progresso segue la
direzione opposta, poiché in novantanove casi su cento l'invenzione meccanica
precede la scoperta della legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica
del calore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa. Quando già
migliaia di macchine, da più di mezzo secolo, trasformavano il calore in moto
sotto gli occhi di centinaia di professori; quando già migliaia di
treni, bloccati da freni potenti, approssimandosi alle
stazioni sprigionavano calore e spandevano sui binari fasci
di 199 scintille; quando già in tutto il mondo civile magli
e perforatrici andavano rendendo incandescenti le masse di ferro loro
sottoposte, allora e soltanto allora, Séguin in Francia e Mayer in Germania
si arrischiarono a formulare la teoria meccanica del calore con tutte le
sue conseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienza ignorarono il
lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayer alla pazzia aggrappandosi
ostinatamente al loro misterioso fluido calorico. Peggio ancora, definirono
«non scientifica» la prima enunciazione di Joule
sull'equivalente meccanico del calore. Non fu la teoria dell'elettricità a
darci il telegrafo. Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che
sapevamo sull'elettricità si riduceva a pochi fatti raccolti alla meno
peggio nei nostri libri; ancora oggi la teoria dell'elettricità non è pronta
ma aspetta sempre il suo Newton, nonostante i brillanti tentativi degli
ultimi anni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi della corrente
elettrica si trovava al suo stadio primitivo quando pochi audaci stesero un
cavo in fondo all'Atlantico, malgrado lo scetticismo degli uomini di
scienza ufficiali. Il termine «scienza applicata» è assolutamente
scorretto, poiché nella gran maggioranza dei casi le invenzioni, lungi
dall'essere un'applicazione della scienza, creano al contrario un nuovo ramo
di scienza. I ponti americani non sono affatto stati un'applicazione
della teoria dell'elasticità: l'hanno preceduta, e tutto ciò che possiamo
dire a favore della scienza è che, in questo particolare settore, teoria e
pratica si sono sviluppate in modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E
ancora, non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla
scoperta della polvere da sparo: la polvere da sparo la si è usata per
secoli prima che l'azione dei gas in un fucile fosse sottoposta ad analisi
scientifica. E così via. Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui
la scoperta o l'invenzione ha coinciso con la semplice applicazione di una
legge scientifica (ad esempio con la scoperta del pianeta Nettuno); ma
nell'immensa mag- 200 gioranza dei casi la scoperta o l'invenzione hanno
degli inizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto più nel
dominio delle arti - in quanto le arti prevalgono sulla scienza, come
Helmholtz ha così bene dimostrato in una delle sue famose conferenze - e solo
dopo che l'invenzione è stata fatta la scienza interviene a
interpretarla. È ovvio che ogni invenzione si avvale delle cognizioni e
delle idee accumulate in precedenza, ma nella maggioranza dei casi è in
anticipo sulla conoscenza e balza nell'ignoto, aprendo così alla ricerca un
insieme del tutto nuovo di fenomeni. Questo carattere dell'invenzione, che
consiste nell'essere in anticipo sulle cognizioni del proprio tempo e non
nell'applicare semplicemente una legge, la rende identica, nei
processi intellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lento nelle
invenzioni lo è anche nelle scoperte. Nella maggior parte dei casi
l'inventore, per quanto ispirato dallo stato generale della scienza in un
dato momento, parte con pochissimi punti fermi a disposizione. I fenomeni
scientifici che sono stati alla base dell'invenzione della macchina a vapore,
o del telegrafo, o del fonografo, erano estremamente elementari.
Sicché possiamo affermare che quanto conosciamo attualmente è già
sufficiente per risolvere tutti i grandi problemi all'ordine del giorno:
motori non a vapore, immagazzinaggio di energia, trasmissione di potenza, o
macchine volanti. Se questi problemi non sono stati ancora risolti, lo si
deve soltanto alla mancanza di spirito creativo, alla scarsità di uomini
istruiti che ne siano dotati, e all'attuale separazione tra scienza e
industria. [Lascio di proposito queste righe come nella prima
edizione: tutte le invenzioni nominate sono già state realizzate]. Da un
lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative, ma privi sia della
necessaria preparazione scientifica sia dei mezzi atti a una sperimentazione
che duri lunghi anni; dall'altro, abbiamo uomini preparati e in grado di
sperimentare, ma privi di spirito creativo a causa della loro istruzione
troppo astratta, troppo scolastica, troppo libresca, e dell'ambiente in cui
vivono (per non 201 parlare del sistema dei brevetti, che divide e
disperde gli sforzi degli inventori, anziché combinarli). Lo slancio
dell'ingegno, che ha caratterizzato gli operai all'inizio della moderna era
industriale, è mancato ai nostri scienziati di professione. E continuerà a
mancare finché essi rimarranno estranei al mondo, perduti tra le loro
polverose librerie; finché non si trasformeranno anch'essi in operai tra gli
operai, alla vampa del forno in fonderia, alla macchina in fabbrica, al
tornio nell'officina meccanica, marinai tra i marinai sul mare e pescatori
sui pescherecci, boscaioli nella foresta, zappatori nei campi. I nostri
critici d'arte - Ruskin e la sua scuola - ci hanno ripetuto di recente che è
inutile aspettarci un risveglio dell'arte finché il lavoro manuale
rimarrà quello che è; e ci hanno dimostrato come l'arte greca e l'arte
medievale fossero figlie del lavoro manuale, come l'uno alimentasse l'altra.
Altrettanto si può dire dei rapporti tra il lavoro manuale e la scienza:
separarli significa farli decadere entrambi. Quanto alle
grandi ispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggioranza delle
recenti discussioni sull'arte (e assenti anche nella scienza), possiamo
aspettarcele soltanto da un'umanità che, spezzate le sue attuali catene, si
avvii verso gli alti princìpi della solidarietà, liberandosi dell'attuale
dualismo tra senso morale e filosofia. È evidente, comunque, che non tutti
gli uomini e le donne potranno trarre uguale piacere
dall'impegno scientifico. La varietà delle inclinazioni è tale che
alcuni troveranno maggiore soddisfazione nella scienza, altri nell'arte, e
altri ancora in qualcuno degli innumerevoli rami di produzione della
ricchezza. Ma quali che siano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà
tanto più utile nel proprio settore quanto più disporrà di una seria
preparazione scientifica. E di chiunque si tratti - scienziato o artista,
fisico o chirurgo, chimico o sociologo, storico o poeta - molti benefici
trarrebbe dal passare parte della sua vita in officina o in fattoria (anzi,
in officina e in fattoria) a contatto con la quotidianità
del 202 lavoro umano, soddisfatto e consapevole di adempiere ai propri
doveri di produttore non privilegiato di ricchezza. Come comprenderebbero
meglio l'umanità, lo storico e il sociologo, se la conoscessero non soltanto
dai libri, non soltanto da un esiguo numero di suoi rappresentanti, ma nel
suo complesso, nella sua vita, nel suo lavoro e nelle sue attività
quotidiane! Come sarebbe più efficace la medicina se, confidando più
sull'igiene che sulle ricette, i giovani dottori fossero gli infermieri
dei malati e gli infermieri ricevessero l'istruzione dei nostri attuali
dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta, le bellezze della natura, come
conoscerebbe meglio il cuore umano, se avesse modo di osservare la levata
del sole, contadino tra i contadini, o di lottare contro la tempesta,
marinaio tra i marinai, a bordo di una nave, se conoscesse la poesia del
lavoro e del riposo, del dolore e della gioia, della lotta e della
conquista! La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in un sistema che
ha condannato le masse, tutto il giorno e tutta la vita, alla dura fatica
dello stesso gravoso genere di lavoro. Ma se consideriamo l'esiguità dei veri
produttori di ricchezza della nostra attuale società, e come il loro
lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione a Franklin allorché diceva che in
genere basterebbe lavorare ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti
i membri di una nazione civile quegli agi oggi accessibili soltanto ai
pochi. Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi di Franklin, e
alcuni di tali progressi, realizzati nel settore finora più arretrato della
produzione - quello agricolo - li abbiamo segnalati nelle pagine che
precedono. Anche in questo settore si può accrescere immensamente la
produttività del lavoro e rendere facile e piacevole il lavoro stesso. Se
ciascuno si accollasse la sua parte di produzione e la produzione venisse
socializzata (come l'economia politica, se indirizzata al
soddisfacimento dei bisogni sempre crescenti di tutti, ci
consiglierebbe di fare), allora avremmo più di metà della
giornata 203 lavorativa da dedicare all'arte, alla scienza o a
qualsiasi altra occupazione preferita; e il nostro lavoro in quegli stessi
settori sarebbe più proficuo se impiegassimo l'altra metà della giornata in
un lavoro produttivo; questo se l'arte e la scienza fossero coltivate più per
pura inclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, una società
organizzata sul principio che tutti lavorano sarebbe abbastanza ricca per
sollevare uomini e donne - una volta raggiunta una certa età, diciamo i
quarant'anni o poco più - dall'obbligo morale di partecipare direttamente
all'esecuzione del necessario lavoro manuale, e per consentir loro di votarsi
interamente all'arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione.
In questo modo sarebbero pienamente garantiti la libera ricerca in nuovi
rami dell'arte e del sapere, la libera creazione e il libero sviluppo
individuale. E una società come questa non conoscerebbe miseria in seno
all'abbondanza, ignorerebbe la dualità di coscienza che permea la nostra
vita e paralizza ogni nobile sforzo, e volerebbe libera verso le più alte
regioni del progresso compatibile con la natura umana. 204 IX Il
testo dove Kropotkin espone la sua concezione del comunismo anarchico è La
conquista del pane, opera che vede la luce nel 1892. Kropotkin afferma che
l'unico regime privo di contraddizioni sociali è il
comunismo. Diversamente dal collettivismo e dal mutualismo, esso supera
tutte le disuguaglianze e le sperequazioni e rende giustizia a tutti perché,
esplicandosi integralmente attraverso la semplice norma «da ognuno secondo le
sue forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni», abolisce radicalmente la
schiavitù del salario e, con essa, la dipendenza dal bisogno. Per la stretta
e necessaria correlazione posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze
produttive e l'abolizione della proprietà privata, la ricchezza sociale
sfuggirebbe alle leggi dell'economia politica per risultare una creazione
collettiva rispondente alle necessità funzionali della società, intesa,
questa, nella sua originaria esistenza spontanea di solidarismo
naturalistico. Questo comunismo è anarchico, nel senso che
l'abolizione del salariato è contemporanea all'abolizione dello Stato. Il
presupposto scientifico del comunismo non è dato da una verità economica, sia
essa di carattere razionale, storico o culturale, ma dalla
constatazione della sua perfetta rispondenza alle leggi
dell'evoluzione 205 naturale. Il comunismo è l'opposto
dell'individualismo, esattamente come il mutuo appoggio è il contrario
della lotta per l'esistenza. È attraverso il comunismo che la natura ha la
sua logica continuità nella storia, per cui si deve dire che comunismo e
mutuo appoggio sono due definizioni di una stessa realtà: la logica
intrinseca della vita che preserva se stessa. Il presupposto
solidaristico costituisce dunque la vera premessa del
comunismo kropotkiniano, che pone la priorità etica rispetto a
quella economica. In questo senso sarebbe forse più opportuno
parlare di comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkin è
particolarmente interessato alla logica profonda della vita comunitaria. Essa
non si regge certo sul rapporto dello scambio economico, misurabile
quantitativamente e razionalmente, ma sugli impulsi esistenziali che
animano gli individui; impulsi che per la loro natura vanno al di là della
prassi mercantile, che risulta sempre riduttiva rispetto all'insieme dei
valori, delle speranze, delle fedi individuali e sociali. In conclusione,
il comunismo-comunitarismo non è soltanto desiderabile, ma è pure lo sbocco
inevitabile della tendenza moderna dovuta all'incessante
integrazione dell'economia e della società in un tutto organico
e necessitante. Il comunismo quindi non è «il diritto al lavoro», e
nemmeno il diritto della ripartizione «secondo le opere». È invece il
superamento di ogni diritto, per la diretta soddisfazione dei bisogni. Questo
grande rivolgimento sociale non può quindi essere l'esito di
un'opera legislativa, bensì il frutto dell'azione spontanea delle grandi
masse popolari. Kropotkin è convinto che sia possibile arrivare all'agiatezza
generale perché esiste una ricchezza potenziale enorme, malamente
utilizzata a causa della proprietà privata e della
irrazionalità dell'assetto capitalistico. I brani riprodotti qui di
seguito sono tratti dall'edizione italiana di La conquista del pane del 1975,
nella traduzione (rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio
Neri. 206 IL COMUNISMO ANARCHICO Va riconosciuto e proclamato con forza
che ognuno, qualunque sia stata nel passato la sua funzione,
qualunque siano state la sua forza e la sua debolezza, le sue attitudini o
le sue incapacità, possiede innanzi tutto il diritto alla vita; e la società
deve spartire tra tutti, senza eccezioni, i mezzi di sussistenza di cui
dispone. Si deve riconoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza! [.] I
servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbriche o nei campi quanto
le attività intellettuali, non possono essere valutati in termini monetari.
Non si può determinare in riferimento alla produzione l'esatta misura di
ciò che è stato impropriamente chiamato valore di scambio, né del valore
d'uso. Se si prendono 207 due individui che, anno dopo anno, lavorano
entrambi cinque ore al giorno per la comunità in differenti lavori di cui
sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nel complesso, il loro lavoro è
più o meno equivalente. Ma non si può frazionare il loro lavoro e dire che il
prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del primo vale il
prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del secondo. Si può
dire, in termini generali, che l'uomo che durante la sua vita si è privato
della libertà per dieci ore al giorno ha dato alla società molto più di
quello che se ne è privato per cinque ore al giorno o che non se ne è
privato affatto. Ma non si può prendere ciò che ha fatto durante due ore e
dire che quel prodotto vale due volte più del prodotto di un'ora di un altro
individuo, e remunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe dire misconoscere
tutta la complessità dell'industria, dell'agricoltura, dell'intera esistenza
della società attuale; vorrebbe dire ignorare fino a che punto il
lavoro del singolo è il risultato dei lavori precedenti e attuali della
società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersi nell'età della pietra quando
invece viviamo nell'età dell'acciaio. Se si entra in una miniera di
carbone, si vede un uomo addetto a una grande macchina che
sovrintende alla salita e alla discesa della gabbia. Questi tiene in mano
la leva che aziona nei due sensi la macchina; quando l'abbassa, la gabbia
torna indietro in un batter d'occhio, ed egli la manda su e giù ad una
velocità vertiginosa. Con la massima attenzione segue sul muro
un indicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza del pozzo si trova
la gabbia in ogni istante del suo percorso; e quando l'indicatore ha
raggiunto il livello voluto, ferma la corsa della gabbia né un metro più in
alto né uno più in basso del punto desiderato. Non appena i
vagoncini pieni di carbone sono stati scaricati e quelli vuoti agganciati,
inverte la leva e rimanda la gabbia di nuovo nel pozzo. Per otto o dieci
ore consecutive l'addetto deve mante- 208 nere gli stessi alti livelli di
attenzione. Se la sua mente dovesse distrarsi anche per un solo momento, la
gabbia andrebbe ad urtare contro l'argano fracassando le ruote, strappando
la corda, schiacciando gli uomini e bloccando tutto il lavoro della miniera.
Se perdesse tre secondi ad ogni colpo di leva, l'estrazione nelle
nostre moderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra le venti e le
cinquanta tonnellate al giorno. È dunque lui quello che fornisce il servizio
più importante della miniera? O è il ragazzo che aziona dal basso il
segnale per far risalire la gabbia? O il minatore, che ad ogni istante
rischia la sua vita in fondo al pozzo e che forse un giorno sarà ucciso dal
grisou? O l'ingegnere, che se non individua la vena di carbone fa
scavare nella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancora il
proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonio nella miniera e che
magari, contrariamente a tutte le prospezioni, ha deciso di scavare proprio
in quel luogo per trovare il carbone migliore? Tutti coloro che sono
impegnati nella miniera contribuiscono, secondo le loro forze, energie,
conoscenze, capacità e abilità, ad estrarre il carbone. E
possiamo affermare che tutti hanno il diritto alla vita, a soddisfare i
loro bisogni e anche le loro fantasie una volta che il necessario sia
assicurato per tutti. Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi,
il carbone che avranno estratto è interamente opera loro? Non è anche
opera di quegli uomini che hanno costruito la ferrovia che conduce alla
miniera e le strade che si dipartono da tutte le stazioni? Non è anche opera
di coloro che hanno arato e seminato i campi, estratto il ferro, abbattuto
gli alberi della foresta, costruito le macchine che bruciano il carbone, e
così via? Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questi uomini.
Misurarli in base ai risultati porta all'assurdo. Frazionarli e misurarli in
base alle ore impiegate porta all'assurdo. Non resta che una cosa: mettere i
bisogni al di sopra del lavoro e riconoscere prima di ogni altra cosa il
diritto alla vita e poi il diritto al benessere per 209 tutti coloro che
prendono parte alla produzione. [.] Ogni società che intende abolire la
proprietà privata sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in
modo comunista anarchico. L'anarchia conduce al comunismo e il comunismo
all'anarchia essendo entrambi espressione della tendenza predominante delle
società moderne: la ricerca dell'uguaglianza. C'è stato un tempo in cui
una famiglia di contadini poteva considerare il grano che faceva crescere e
gli abiti di lana che tesseva nella capanna come prodotti del proprio
lavoro. Ma anche allora questo modo di vedere non era affatto corretto.
C'erano strade e ponti fatti in comune, paludi prosciugate con il lavoro
collettivo e pascoli comuni recintati da siepi che tutti mantenevano. Un
miglioramento nei telai o nei tipi di tintura dei tessuti giovava a tutti; in
quell'epoca una famiglia di contadini non poteva vivere da sola ma dipendeva
in mille modi dal villaggio o dalla comunità rurale. Oggi, poi,
nell'attuale sistema industriale dove tutto è interdipendente, dove ogni ramo
della produzione si interseca con tutti gli altri, la pretesa di
attribuire un'origine individuale ai prodotti è assolutamente
insostenibile. Se le industrie tessili o metallurgiche hanno raggiunto una
sorprendente perfezione nei Paesi avanzati, lo devono allo sviluppo
simultaneo di mille altre industrie, grandi e piccole; lo devono
all'estensione della rete ferroviaria, alla navigazione
transoceanica, all'abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado
di cultura generale di tutta la classe operaia; lo devono, in definitiva,
al lavoro umano eseguito da uno capo all'altro del mondo. Gli italiani
colpiti da colera durante gli scavi del canale di Suez o dall'anchilosi nelle
gallerie del Gottardo, gli americani falciati dalle granate nella guerra
per l'abolizione della schiavitù, hanno tutti contribuito allo sviluppo
dell'industria cotoniera in Francia e in Inghilterra, non meno delle giovani
ragazze che si sono con- 210 sumate nelle manifatture di Manchester e
Rouen, o dell'inventore che, ascoltando i suggerimenti di
qualche lavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio. Come stimare,
allora, la quota di ognuno alla produzione di quelle ricchezze che tutti
contribuiamo ad accumulare? Considerando la produzione da questo punto di
vista generale e sintetico, a differenza dei collettivisti non riteniamo
che una rimunerazione proporzionata alle ore di lavoro da ciascuno effettuate
per la produzione delle ricchezze possa costituire l'obiettivo ideale o
anche solo un passo avanti nella direzione giusta. Senza qui entrare nel
merito se il valore di scambio delle merci nella società attuale è
effettivamente commisurato con la quantità di lavoro necessario per
produrle (così come hanno affermato Smith e Ricardo, sulle cui tracce si è
mosso Marx), ci basti dire al momento, riservandoci di tornarvi più tardi,
che l'ideale collettivista ci sembra irrealizzabile in una società che
considera gli strumenti di produzione come un patrimonio comune. Se è
basata su questo principio, una tale società si vedrebbe costretta ad abolire
subito tutte le forme di salariato. L'individualismo moderato del sistema
collettivista non potrebbe coesistere con un comunismo parziale, cioè con
la socializzazione del suolo e degli strumenti di produzione. Una nuova forma
di proprietà necessita di una nuova forma di rimunerazione. Una nuova
forma di produzione non può convivere con le vecchie forme di consumo, non
più di quanto possa adattarsi alle vecchie forme di organizzazione
politica. Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo e degli
strumenti di produzione, che è stata la condizione necessaria per lo sviluppo
del modo di produzione capitalista, e che morirà con essa nonostante i
tentativi di travestirlo sotto forma di «buoni di lavoro». Il
possesso comune degli strumenti di produzione condurrà necessariamente al
godimento comune dei frutti di questo lavoro comune. 211 Sosteniamo
inoltre che il comunismo non solo è desiderabile ma che le società attuali,
fondate sull'individualismo, sono comunque costrette a procedere verso
il comunismo. [.] È questa, in breve, l'organizzazione che i
collettivisti vorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Come si
vede, i loro princìpi sono: proprietà collettiva degli strumenti di lavoro e
rimunerazione di ognuno secondo il tempo impiegato a produrre, tenendo conto
della produttività del suo lavoro. Quanto al regime politico,
si tratterebbe di un sistema parlamentare modificato dal mandato
imperativo per i rappresentanti eletti e dall'istituto del referendum, cioè
da una votazione basata sull'opzione sì/no. Diciamo subito che questo
sistema ci sembra assolutamente irrealizzabile. I collettivisti cominciano
con il proclamare un principio rivoluzionario - l'abolizione della proprietà
privata - ma lo negano contestualmente in quanto si
ripropongono un'organizzazione della produzione e del consumo che ha le
sue origini nella proprietà privata. Proclamano un principio rivoluzionario
ma ignorano le conseguenze che questo principio comporta. Dimenticano che
il fatto stesso di abolire la proprietà privata degli strumenti di produzione
- terra, fabbriche, vie di comunicazione, capitali - deve lanciare la società
verso percorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere completamente il
sistema di produzione, tanto nei mezzi che nei fini; deve modificare tutte le
relazioni quotidiane tra gli individui nel momento stesso in cui la
terra, le macchine e tutto il resto vengono assunti come
possesso comune. «Niente proprietà privata» proclamano, e subito
si affrettano a mantenerla nelle sue manifestazioni quotidiane. «Sarete
una Comune per quanto riguarda la produzione: i campi, gli utensili, i
macchinari, tutto ciò che è stato creato fino ad oggi - manifatture,
ferrovie, porti, 212 miniere ecc. - sarà vostro. E non si farà la
minima distinzione sulla partecipazione di ognuno a questa
proprietà collettiva. Ma già da domani comincerete a discutere
puntigliosamente sulla parte che vi spetta nella creazione dei nuovi
macchinari, nell'apertura delle nuove miniere. Comincerete a soppesare al
grammo la quota di vostra spettanza in ogni nuova produzione. Conterete i
vostri minuti di lavoro controllando attentamente che un minuto del vicino
non abbia maggior potere d'acquisto del vostro. E poiché l'ora non dà
la misura di niente, poiché in quella fabbrica un lavoratore può
sorvegliare sei telai alla volta, mentre nell'altra non ne sorveglia che due,
comincerete a misurare la forza muscolare, l'energia cerebrale e l'energia
nervosa che avete speso. Calcolerete rigorosamente gli anni
di apprendistato per valutare la parte di ognuno nella futura produzione.
E tutto questo dopo aver dichiarato che non va tenuta in alcun conto la parte
avuta nella produzione passata». Ebbene, per noi è evidente che una
società non può organizzarsi su due princìpi assolutamente opposti,
due princìpi che si contraddicono continuamente. E la nazione, o la
Comune, che si desse una tale organizzazione sarebbe costretta o a ritornare
alla proprietà privata, o a trasformarsi immediatamente in
società comunista. Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori
collettivisti auspichino che venga stabilita una distinzione tra lavoro
qualificato o professionale e lavoro semplice. Essi pretendono che l'ora di
lavoro dell'ingegnere, dell'architetto o del medico venga contabilizzata
come due o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell'infermiere. E
la stessa distinzione, affermano, deve essere fatta tra tutti i tipi di
lavoro che esigono un apprendistato più o meno lungo e il lavoro dei semplici
braccianti. Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a
man- 213 tenere tutte le disuguaglianze della società attuale. Vuol
dire tracciare sin dall'inizio una demarcazione tra i lavoratori e coloro che
pretendono di governarli. Significa dividere la società in due classi ben
distinte: l'aristocrazia del sapere al di sopra della plebe dalle
mani callose, dove quest'ultima sarà costretta a servire la prima e a
lavorare con le proprie mani per nutrirla e vestirla, mentre questa,
approfittando della sua libertà, imparerà a dominare chi la mantiene. Non
solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distintivo della società attuale e
rilegittimarlo in nome della rivoluzione sociale, erigendo così a principio
un abuso che oggi si condanna nella vecchia traballante
società. Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parleranno di
«socialismo scientifico»; citeranno gli economisti borghesi - e anche Marx -
per dimostrare che la scala salariale ha la sua ragion d'essere, poiché la
«forza lavoro» dell'ingegnere è costata alla società più della «forza
lavoro» dello sterratore. E infatti, gli economisti non hanno forse cercato
di convincerci che se l'ingegnere viene pagato venti volte più dello
sterratore è perché le spese «necessarie» per preparare un ingegnere
sono più consistenti di quelle necessarie per preparare uno sterratore? E
Marx non ha forse asserito che la stessa distinzione è altrettanto logica tra
i diversi tipi di lavoro manuale? Né poteva arrivare ad altra
conclusione avendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e
avendo sostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzione alla
quantità di lavoro socialmente necessario a produrli. Ma noi abbiamo idee
chiare a tal proposito. Sappiamo che se l'ingegnere, lo scienziato e il
dottore oggi sono pagati dieci o cento volte più del lavoratore, e se il
tessitore guadagna tre volte più di un contadino e dieci volte più di una
operaia di una fabbrica di fiammiferi, questo non avviene in ragione del loro
«costo di produzione», ma in ragione di un monopolio dell'educazione, o di
un ruolo produttivo. L'ingegnere, lo scienziato e il dottore sfruttano
semplicemente un capitale - il loro diploma - 214 come l'imprenditore
borghese sfrutta la fabbrica o come il nobile sfruttava i titoli di
nascita. Quanto all'imprenditore che paga l'ingegnere venti volte più del
lavoratore, lo fa in ragione di un calcolo molto semplice: se l'ingegnere può
fargli risparmiare 4.000 sterline all'anno sui costi di produzione, questi
in cambio lo paga 800 sterline. E se l'imprenditore ha un caporeparto che
gli fa risparmiare 400 sterline sul lavoro di un'abile e tartassata
manodopera, è ben contento di dargli tra le 80 e le 120 sterline l'anno. Ed è
sempre disposto a spartire un 40 sterline in più quando si aspetta di
guadagnarne 400 così facendo. È questa l'essenza del sistema capitalista. E
lo stesso accade per le differenze tra i diversi mestieri manuali. Che non
ci si venga dunque a parlare di un «costo di produzione» che farebbe
aumentare il costo del lavoro specializzato, e a sostenere di conseguenza che
uno studente - il quale ha allegramente trascorso la sua
gioventù all'università - ha diritto ad un salario dieci volte più elevato
dello smunto figlio del minatore che si consuma in miniera fin dall'età di
undici anni; o che un tessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte
più elevato di quello di un bracciante agricolo. Le spese necessarie per
preparare un tessitore non sono quattro volte più alte di quelle necessarie
per preparare un contadino: semplicemente, il tessitore beneficia dei
vantaggi che il suo ruolo produttivo matura nel commercio internazionale
rispetto ai Paesi non ancora industrializzati, e come risultato dei privilegi
accordati dallo Stato all'industria a scapito della coltivazione della
terra. Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzione di un
produttore. E se un aristocratico nullafacente costa alla società ben più di
un lavoratore, rimane ancora da sapere se - tutto compreso: mortalità
infantile, anemia dilagante e morti premature - un robusto bracciante non
costi alla società più di un esperto artigiano. Ci si vorrebbe far credere,
ad esempio, che il salario di una sterlina e 3 scellini pagato all'operaia
parigina, o i tre scellini pagati alla ragazza alvergnate che si
acceca 215 sui merletti, o il compenso di una sterlina e 8
scellini dato al contadino rappresentano i loro «costi di produzione ».
Sappiamo perfettamente bene che spesso si lavora per meno di questo, ma
sappiamo anche che lo si fa esclusivamente perché, grazie alla nostra
superba organizzazione, si rischia di morire di fame senza questi salari
irrisori. A nostro avviso la scala salariale è il complesso
risultato delle imposte, dei sistemi di sovvenzione, del monopolio
capitalista: in breve, dello Stato e del Capitale. È per questo che
sosteniamo che tutte le teorie sulla scala salariale sono state inventate a
posteriori per giustificare le ingiustizie già esistenti, ragion per cui
non bisogna dar loro troppa importanza. Non si asterranno nemmeno dal
dirci che la scala salariale collettivista sarebbe nondimeno un
progresso: «Vedere alcuni artigiani prendere una somma due o tre volte
superiore a quella percepita dai lavoratori non specializzati», ci diranno,
«è comunque meglio che vedere dei ministri intascare in un sol giorno quello
che il lavoratore non riesce a guadagnare in un anno. Sarebbe pur sempre
un grosso passo verso l'equità». Viceversa, per noi questo sarebbe un
regresso. Reintrodurre in una nuova società la distinzione tra
lavoro semplice e lavoro specializzato altro non sarebbe che erigere a
principio un fatto brutale, legittimato dalla rivoluzione, che oggi già
subiamo e che troviamo ingiusto. Sarebbe come imitare quei signori
dell'Assemblea costituente francese che il 4 agosto 1789
proclamavano l'abolizione dei diritti feudali, ma che l'8 agosto li
reinstauravano imponendo imposte ai contadini per risarcire gli
aristocratici, mettendo oltretutto queste imposte sotto la salvaguardia della
rivoluzione. Sarebbe come imitare il governo russo che, al tempo della
emancipazione dei servi della gleba, proclamava che certe terre sarebbero
state d'ora in avanti appannaggio dell'aristocrazia, mentre prima queste
stesse terre venivano considerate appannaggio dei servi della gleba. O
ancora, per citare un esempio più conosciuto, 216 sarebbe come imitare la
Comune del 1871 quando decideva di pagare i membri del Consiglio
l'equivalente di 12 sterline e 6 scellini al giorno, mentre i Federati
che si battevano in prima linea percepivano solo una sterlina e 3 scellini
al giorno: una decisione peraltro acclamata come un atto di avanzata
democrazia egualitaria. In realtà, la Comune non faceva che ratificare la
vecchia disuguaglianza tra funzionario e soldato, governante e governato.
Se si fosse trattato di una Camera dei deputati opportunista, tale decisione
avrebbe anche potuto sembrare degna di ammirazione, ma trattandosi della
Comune, non mettendoli in pratica essa veniva meno ai suoi princìpi
rivoluzionari. Nell'attuale sistema sociale, in cui un ministro
percepisce 4.000 sterline all'anno, mentre il lavoratore
deve accontentarsi di 40 sterline, o meno ancora, in cui il caporeparto è
pagato due o tre volte più dell'operaio e in cui tra gli operai stessi ci
sono tutti i gradi, dalle 8 sterline al giorno giù fino ai 3 scellini della
ragazza di campagna, noi siamo contrari tanto all'elevato stipendio del
ministro quanto alla differenza tra le 8 sterline dell'operaio e i 3 scellini
della povera donna. E affermiamo: «Abbasso i privilegi dell'educazione, così
come quelli della nascita». Siamo anarchici proprio perché questi
privilegi ci ripugnano. E se già ci ripugnano in questa società autoritaria,
come potremmo sopportarli in una società che nasce proclamando
l'uguaglianza? Proprio per questo certi collettivisti,
comprendendo l'impossibilità di mantenere la scala salariale in
una società ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettano a
proclamare che i salari saranno uguali. Ma si scontrano con nuove difficoltà
e la loro uguaglianza salariale diventa un'utopia irrealizzabile quanto le
scale salariali degli altri collettivisti. Una società che avrà preso
possesso di tutta la ricchezza sociale e che avrà proclamato con forza il
diritto di tutti a questa ricchezza - qualunque sia stato il
loro contributo - sarà costretta ad abbandonare ogni sistema salariale,
tanto in moneta che in buoni. [.] 217 Proprio come guardiamo alla società
e alla sua organizzazione politica da una prospettiva diversa da quella di
tutte le scuole autoritarie - in quanto partiamo dal libero individuo per
arrivare ad una libera società invece di partire dallo Stato per arrivare
all'individuo - così ricorriamo allo stesso metodo per i problemi
economici. Ovvero, affrontiamo i bisogni dell'individuo ed i mezzi ai
quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere di produzione, tasso di
scambio, imposte, governo, ecc. A prima vista la differenza può sembrare
minima, ma di fatto sconvolge tutti i canoni dell'economia politica
ufficiale. Se si consulta l'opera di qualunque economista, si può
facilmente verificare come questa inizi con la PRODUZIONE, cioè l'analisi dei
mezzi attualmente impiegati per creare la ricchezza: la divisione del lavoro,
la struttura industriale, i suoi macchinari, l'accumulazione del capitale.
Da Adam Smith a Karl Marx si sono tutti attenuti a questo percorso. Solo
nelle parti successive del lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi
utilizzati nell'attuale sistema per soddisfare i bisogni dell'individuo; e
anche così, ci si limita a spiegare come le ricchezze vengano ripartite tra
coloro che se ne disputano il possesso. Si dirà forse che tutto questo è
logico, che prima di soddisfare i bisogni occorre cercare ciò che può
soddisfarli. Ma prima di produrre alcunché, non bisogna sentirne il
bisogno? Non è stata la necessità che all'inizio ha spinto l'uomo a cacciare,
ad allevare il bestiame, a coltivare la terra, a fare utensili e, più tardi,
a inventare le macchine? Non è l'analisi dei bisogni che
dovrebbe indirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logico cominciare
proprio dai bisogni e vedere poi come organizzare la produzione in modo da
sopperire a tali bisogni. Ed è appunto quello che intendiamo fare. Ma dal
momento in cui la si guarda da questa prospettiva, l'economia politica cambia
totalmente. Cessa di essere una semplice descrizione dei fatti e
diventa 218 una scienza, che potremmo definire come lo studio
dei bisogni dell'umanità e dei mezzi per soddisfarli con il minimo spreco
possibile di forze umane. Ma la sua esatta denominazione sarebbe fisiologia
della società e dovrebbe costituire una scienza parallela alla
fisiologia delle piante o degli animali, che è anch'essa lo studio dei
bisogni del mondo vegetale e animale e dei mezzi più vantaggiosi per
soddisfarli. Nell'ambito delle scienze sociologiche, l'economia delle società
umane deve occupare il posto che nelle scienze biologiche è occupato dalla
fisiologia degli esseri organici. Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti
in società. Tutti sentono il bisogno di abitare in case salubri.
La capanna del selvaggio non li soddisfa più, chiedono un riparo solido e
più o meno confortevole. Si tratta dunque di chiedersi se, tenuto conto della
produttività del lavoro umano, ognuno potrà effettivamente avere la sua
casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Non appena fatta questa domanda,
ci rendiamo subito conto che ogni famiglia in Europa potrebbe
perfettamente avere una casa confortevole, come se ne costruiscono
in Inghilterra e in Belgio o negli insediamenti Pullman, oppure un
appartamento equivalente. Un certo numero di giornate lavorative sarebbe
sufficiente per ottenere una casetta ben arieggiata, ben disposta e con
l'illuminazione a gas. Invece, i nove decimi degli europei non hanno
mai posseduto una casa confortevole perché in quasi tutte le epoche la
gente comune ha dovuto lavorare giorno dopo giorno per soddisfare i bisogni
dei suoi governanti, senza mai riuscire ad avere quel tanto in più, in tempo
e in denaro, necessario per costruire o far costruire la casa sognata. E
così non ha casa, e abiterà in catapecchie fino a che le attuali condizioni
non verranno modificate. Come appare evidente, noi procediamo in senso
inverso rispetto agli economisti, i quali tendono a perpetuare le pretese
leggi della produzione e a dimostrare, statistiche alla mano, che essendo il
numero di abitazioni effettivamente costruite ogni anno insufficiente
a 219 soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli europei devono
abitare in catapecchie. Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver
enumerato i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, gli economisti
ci spiegano come questa divisione esiga che gli uni si applichino
all'agricoltura e gli altri all'industria, che l'agricoltura produca tanto e
tanto l'industria, che lo scambio avvenga secondo queste modalità.
e continuano analizzando la vendita, i profitti, il prodotto netto o
plusvalore, i salari, le tasse, il sistema bancario e così via. Ma, dopo
averli seguiti sin qui, non siamo per questo diventati più saggi; e se
domandiamo loro: «Com'è possibile che così tanti milioni di esseri umani non
hanno abbastanza pane quando ogni famiglia potrebbe produrre grano a
sufficienza per nutrire dieci, venti e persino cento persone all'anno?», ci
rispondono sempre con la stessa solfa - divisione del lavoro, salario,
plusvalore, capitale, ecc. - e arrivano alla stessa conclusione: che
la produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni. Una
conclusione che, anche se fosse vera, non risponde alle domande se l'uomo che
lavora può o no produrre il pane che gli necessita e, se non può, cos'è che
glielo impedisce. Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno
hanno bisogno di quel tanto di pane, carne, vino, latte, uova e burro, di
quel tanto di abitazioni e indumenti: di quel minimo di loro bisogni. Sono in
grado di produrlo? E se lo sono, resterà loro abbastanza tempo libero per
l'arte, la scienza e il divertimento, in una parola per tutto ciò che non
rientra nella categoria dello stretto necessario? Se la risposta è
affermativa, cos'è che impedisce loro di realizzarlo? Cosa devono fare per
eliminare gli ostacoli? È forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano!
Ma non perdiamo di vista l'obiettivo della produzione: soddisfare tutti i
bisogni. Se i bisogni più impellenti dell'uomo restano insoddisfatti, che
bisogna fare per aumentare la produttività del lavoro? O non sarà
che magari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la
pro- 220 duzione, avendo perso di vista i bisogni dell'uomo, ha preso
una direzione assolutamente sbagliata e la sua intera struttura ne è stata
viziata? Poiché siamo in grado di dimostrare che le cose stanno esattamente
così, vediamo allora come riorganizzare la produzione in modo da
soddisfare realmente tutti i bisogni. Questo ci sembra il solo modo per
affrontare correttamente la questione, il solo modo che consenta
all'economia politica di diventare una scienza: la scienza
della fisiologia sociale. È evidente che finché questa scienza si occuperà
di produzione così com'è espletata attualmente tanto nei Paesi avanzati
che nelle comunità indù o tra le tribù primitive, difficilmente potrà esporre
i fatti in modo molto diverso da come lo fanno gli odierni
economisti, cioè come un trattato semplicemente descrittivo, analogo a
quelli della zoologia e della botanica. Ma se questo trattato fosse scritto
in modo da gettare luce sull'economia delle energie necessarie a soddisfare i
bisogni umani, esso guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisione. E
proverebbe in modo indiscutibile lo spreco spaventoso di energie umane
proprio al sistema attuale, dimostrando altresì che finché esisterà questo
sistema i bisogni dell'umanità non saranno mai soddisfatti. La
prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto. Dietro il telaio che tesse
tanti metri di tela, dietro la macchina che fora tante lastre d'acciaio e
dietro la cassaforte che ingurgita i dividendi, dobbiamo vedere l'uomo,
l'artigiano cui si deve la produzione, il più delle volte escluso dal
banchetto che ha preparato per altri. Dobbiamo inoltre aver chiaro che le
pretese «leggi» del valore e dello scambio non sono altro che una falsa
spiegazione degli eventi così come si producono al giorno d'oggi, ma che
le cose avverranno in modo del tutto differente quando la produzione verrà
organizzata in modo tale da provvedere a tutti i bisogni della
società. Non c'è un solo principio di economia politica che non si
modifichi totalmente se ci si pone nella nostra
prospettiva. 221 Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, una parola
che risuona ogni giorno nelle nostre orecchie. Non c'è infatti un solo
economista, accademico o aspirante tale, che non abbia portato argomenti a
favore della tesi che le crisi economiche sono dovute
alla sovrapproduzione, ovvero che in un dato momento si arriva a produrre
più cotone, stoffe e orologi di quanti ne servano. E non abbiamo forse
tuonato tutti contro la rapacità dei capitalisti che si intestardiscono a
produrre più di quello che si può consumare? Ebbene, non appena si
approfondisce il problema tutti questi ragionamenti appaiono errati. Infatti,
è possibile individuare anche una sola merce tra quelle di uso universale
di cui si produca più di quanto ne serva? Prendete in esame una per una tutte
le merci spedite dai grandi Paesi esportatori e ben presto vi
accorgerete che quasi tutte sono prodotte in quantità insufficiente per
gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non è un'eccedenza di cereali
quella che il contadino russo invia in Europa: anche i migliori raccolti di
grano e segala della Russia europea danno appena ciò che serve per la
popolazione. E di norma, il contadino si priva del necessario quando vende il
suo grano o la sua segala per poter pagare le tasse e l'affitto Non è
un'eccedenza di carbone quella che l'Inghilterra invia ai quattro angoli del
mondo, dato che non le restano per il consumo domestico interno che 750
kg. all'anno per abitante, tant'è che milioni di inglesi si privano del
fuoco in inverno o lo mantengono quel tanto necessario a far bollire qualche
verdura. In realtà, tralasciando gli inutili oggetti di lusso, in
Inghilterra, ovvero nel maggior Paese esportatore, c'è solo una merce di
uso universale - il cotone - che ha una produzione abbastanza alta tanto da
eccedere, forse, i bisogni. Ma quando si guardano gli stracci che
costituiscono gli indumenti di un buon terzo degli abitanti della
Gran Bretagna, non si può fare a meno di chiedersi se il cotone esportato
non sarebbe piuttosto utile per coprire i bisogni reali della
popolazione. 222 Generalmente non è un surplus quello che si
esporta, anche se in origine è verosimilmente stato così. La storia del
calzolaio scalzo è vera per le nazioni come lo era un tempo per il singolo
artigiano. Ciò che si esporta sono i beni necessari, e questo avviene perché
i lavoratori, una volta pagato l'affitto e l'interesse del capitalista e
del banchiere, con il solo salario non possono comprare quello che hanno
prodotto. Non solo dunque il bisogno sempre crescente di benessere resta
insoddisfatto, ma spesso manca anche lo stretto necessario. Ragion per cui la
sovrapproduzione non esiste, almeno non nel senso che le viene
attribuito dai teorici dell'economia politica. E passiamo ad un altra
questione. Tutti gli economisti ci dicono che c'è una legge assolutamente
assodata: «L'uomo produce più di quanto consumi». Dopo aver ricavato di
che vivere dal prodotto del suo lavoro, gli resta sempre un'eccedenza, tanto
che una famiglia di coltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e
così via. Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta è priva di
senso. Se intendesse dire che ogni generazione lascia qualche cosa alle
generazioni future, la cosa sarebbe vera. Un agricoltore, ad esempio, pianta
un albero che vivrà per trenta-quarant'anni, o forse un secolo, e i cui
frutti verranno ancora raccolti dai nipoti di questo agricoltore. O magari
dissoda qualche acro di terreno vergine, incrementando così in
proporzione l'eredità delle generazioni a venire. Le strade, i ponti,
i canali, le case e il mobilio sono altrettante ricchezze lasciate alle
generazioni successive. Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice
è che il coltivatore produce più grano di quanto non gli serva per il
consumo. Mentre bisognerebbe piuttosto dire che essendogli stata sottratta
una buona parte dei suoi prodotti - dallo Stato sotto forma di tasse, dal
prete sotto forma di decime e dal proprietario terriero sotto forma di
affitto - si è andata creando una classe d'individui che, se un tempo
consumava quello che produceva 223 - ad eccezione della parte lasciata per
gli imprevisti o le spese per rimboschire o costruire strade - oggi
è costretta a vivere miseramente perché tutto il resto le è stato preso
dallo Stato, dal prete, dal proprietario terriero e dall'usuraio. Ci
sembra quindi più corretto dire che il coltivatore consuma meno di quanto
produce, perché è costretto a vendere la maggior parte del suo lavoro e a
soddisfare i suoi bisogni con la scarsa parte restante. Ci sia inoltre
consentito osservare che se si prendono come punto di partenza per la nostra
economia politica i bisogni dell'individuo, si arriva necessariamente
al comunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permette di soddisfare
tutti i bisogni nel modo più completo ed economico. Mentre se partiamo dal
modo attuale di produzione e miriamo solo al guadagno e al
plusvalore, senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfare i
bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt'al più al collettivismo, ovvero a
due forme diverse di salariato. Finito di stampare nel mese di gennaio
1998 presso l'Officina Grafica Sabaini, Milano per conto dell'Editrice A
coop. sezione Elèuthera via Rovetta 27, Milano