».<BR>Abbiamo<BR>qui, naturalmente, solo un fatto occasionale, che si spiega<BR>interamente col carattere spasmodico dell'industria<BR>e con le gravi perdite sostenute dai proprietari delle<BR>fabbriche allorché non sono in grado di farle funzionare<BR>tutto l'anno. E tuttavia questo dimostra gli ostacoli con<BR>cui la trasformazione deve fare i conti. Quanto all'industria<BR>serica, essa continua a diffondersi per l'Europa<BR>nella sua forma d'industria rurale, mentre centinaia di<BR>nuove attività artigianali compaiono ogni anno, e non<BR>trovando nessuno che le eserciti nei villaggi - come<BR>avviene in questo Paese - trovano rifugio nei sobborghi<BR>delle grandi città, come abbiamo appena appreso<BR>dall'inchiesta sull' «organizzazione del sudore».<BR>Oggi, i vantaggi offerti dalla grande fabbrica in confronto<BR>all'artigianato si presentano da sé per quanto<BR>riguarda l'economia di lavoro e soprattutto - ed è questo<BR>il punto principale - le possibilità sia di vendita sia di<BR>rifornimento delle materie prime a prezzo inferiore.<BR>Come possiamo allora spiegarci la persistenza dell'artigianato?<BR>Molte cause, la maggior parte delle quali non è<BR>possibile valutare in scellini, giocano a favore dell'artigianato,<BR>e queste cause le coglieremo meglio dalle dimo-<BR>156<BR>strazioni che seguono. Devo dire, però, che una panoramica<BR>anche breve delle innumerevoli attività industriali<BR>esercitate su piccola scala in questo Paese e sul continente,<BR>sconfinerebbe alquanto dallo scopo di questo<BR>capitolo. Quando ho cominciato a studiare l'argomento,<BR>una trentina di anni fa, non immaginavo neppure, dalla<BR>scarsa attenzione prestatagli dagli economisti ortodossi,<BR>quale vasta, complessa, importante e interessante<BR>organizzazione sarebbe apparsa alla fine di un'indagine<BR>più accurata. [...]<BR>Gli artigiani rappresentano, dunque, un importante<BR>fattore della vita industriale nella stessa Gran Bretagna,<BR>anche se molti di loro si sono insediati in città. Ma<BR>se troviamo in questo Paese così poche industrie rurali<BR>rispetto al continente, non dobbiamo immaginare che la<BR>loro scomparsa sia dovuta a una più intensa concorrenza<BR>delle fabbriche: la causa principale è stata l'esodo<BR>forzato dai villaggi.<BR>Come tutti sanno dall'opera di Thorold Rogers, la<BR>crescita della struttura industriale in Inghilterra è intimamente<BR>connessa con quell'esodo forzato. Interi settori<BR>industriali, che fino ad allora avevano prosperato,<BR>sono stati stroncati dallo spopolamento forzato delle<BR>campagne. Le officine, ancor più delle fabbriche, si moltiplicano<BR>dovunque si trovi manodopera a basso costo, e<BR>l'aspetto specifico di questo Paese è che la manodopera<BR>più a buon mercato - vale a dire la gran massa dei<BR>poveri - si trova nelle grandi città. [...]<BR>In realtà, la diffusione delle officine artigiane a fianco<BR>delle grandi fabbriche non ci deve affatto stupire:<BR>essa rappresenta una necessità economica. L'assorbimento<BR>delle piccole officine da parte delle aziende più<BR>grandi è un fatto che aveva già colpito gli economisti<BR>negli anni Quaranta dello scorso secolo, soprattutto nelle<BR>industrie tessili. Questo processo va tuttora avanti in<BR>molti altri settori e interessa soprattutto un certo<BR>numero di aziende molto grandi impegnate nella metal-<BR>157<BR>lurgia e nelle forniture militari ai vari Stati. Ma c'è un<BR>altro processo che va avanti parallelamente a questo e<BR>che consiste nella creazione continua di nuove industrie,<BR>di solito avviate su piccola scala. Ogni nuova fabbrica<BR>chiama in vita una quantità di nuove piccole officine,<BR>in parte per sopperire al proprio fabbisogno e in<BR>parte per sottomettere il suo prodotto a una trasformazione<BR>ulteriore. Così, per citare un solo esempio, i cotonifici<BR>hanno creato un'enorme domanda di rocchetti di<BR>legno e di bobine, e migliaia di uomini del Lake District<BR>si sono messi a fabbricarli, prima a mano e più tardi<BR>con l'aiuto di qualche semplice macchinario. Solo di<BR>recente, dopo che sono stati spesi anni a inventare e<BR>perfezionare i macchinari, si è cominciato a produrre i<BR>rocchetti su scala industriale. E ancora oggi, essendo le<BR>macchine molto costose, una gran quantità di rocchetti<BR>viene comunque fabbricata in piccole officine, con un<BR>modesto aiuto delle macchine, mentre le fabbriche stesse<BR>sono relativamente piccole e raramente occupano più<BR>di 50 operai, in maggioranza bambini. Quanto alle bobine<BR>di forma irregolare, vengono ancora fatte a mano o,<BR>in parte, con l'aiuto di piccole macchine continuamente<BR>inventate dagli operai stessi. Perciò nuove industrie<BR>sorgono a soppiantare le vecchie e ognuna passa per lo<BR>stadio preliminare della piccola scala prima di raggiungere<BR>quello della grande fabbrica; e tanto più è attivo lo<BR>spirito creativo di una nazione, tanto più arriviamo a<BR>questa fioritura di industrie. In proposito, abbiamo<BR>l'esempio delle innumerevoli piccole fabbriche di biciclette<BR>sorte recentemente in questo Paese e rifornite di<BR>pezzi già pronti dalle fabbriche più grandi. Un altro<BR>esempio comune è la produzione domestica o in piccole<BR>officine di scatole per fiammiferi, stivali, cappelli, dolciumi,<BR>generi di drogheria, ecc.<BR>Inoltre, la grande fabbrica, generando nuovi bisogni,<BR>stimola la nascita di nuove attività artigianali. Il basso<BR>prezzo dei cotoni e delle lane, della carta e dell'ottone,<BR>ha creato centinaia di nuove piccole industrie. Le nostre<BR>case sono piene dei loro prodotti, per la maggior<BR>158<BR>parte oggetti di creazione abbastanza moderna. E mentre<BR>alcuni di questi sono ora prodotti in serie nelle grandi<BR>fabbriche, tutti sono passati per lo stadio della piccola<BR>officina prima che la domanda fosse abbastanza alta<BR>da richiedere l'organizzazione della grande fabbrica.<BR>Quante più nuove invenzioni ci saranno, tante più piccole<BR>industrie del genere si creeranno; e ancora, quanto<BR>più se ne creeranno, tanto più si diffonderà lo spirito<BR>creativo, la cui mancanza è così giustamente avvertita<BR>in questo Paese (da W. Armstrong tra i tanti). Non dobbiamo<BR>stupirci, perciò, se vediamo in questo Paese così<BR>tante piccole industrie, dobbiamo piuttosto rimpiangere<BR>che tanta gente abbia abbandonato i villaggi a causa<BR>delle cattive condizioni della terra e che sia migrata in<BR>massa nelle città, a scapito dell'agricoltura.<BR>In Inghilterra, come dappertutto, le piccole industrie<BR>rappresentano un fattore importante della vita industriale;<BR>ed è soprattutto nell'infinita varietà delle piccole<BR>industrie, dove si utilizzano i prodotti semilavorati<BR>delle grandi industrie, che si sviluppa lo spirito creativo<BR>e si elaborano i rudimenti delle future grandi industrie.<BR>Le piccole officine di biciclette, con le centinaia di piccoli<BR>perfezionamenti che hanno introdotto, hanno svolto,<BR>sotto i nostri stessi occhi, la funzione di cellule originarie<BR>per la grande industria automobilistica, e più tardi<BR>per quella aeronautica. I piccoli produttori di marmellate<BR>dei villaggi sono stati i precursori e i padri delle<BR>grandi fabbriche di conserve che oggi impiegano centinaia<BR>di lavoratori, e così via.<BR>Di conseguenza, affermare che le piccole industrie<BR>sono destinate a scomparire, mentre ne vediamo apparire<BR>di nuove ogni giorno, significa semplicemente ripetere<BR>l'affrettata generalizzazione di chi, all'inizio del XIX<BR>secolo, stava assistendo alla sostituzione del lavoro<BR>manuale con il lavoro meccanizzato nell'industria cotoniera:<BR>una generalizzazione che, come abbiamo visto e<BR>come vedremo ancora meglio nelle pagine che seguono,<BR>non trova alcuna conferma nell'analisi delle industrie,<BR>grandi e piccole, e che viene rovesciata dai censimenti<BR>159<BR>delle fabbriche e delle officine. Lungi dal manifestare<BR>una tendenza a scomparire, le piccole industrie mostrano<BR>al contrario la tendenza verso un ulteriore sviluppo,<BR>dato che la fornitura municipale di energia elettrica -<BR>come quella che c'è, ad esempio, a Manchester - permette<BR>al proprietario di una piccola fabbrica di fruire di<BR>energia motrice a basso costo, esattamente nella quantità<BR>richiesta in ogni dato momento, e di pagare solo<BR>quanto è stato effettivamente consumato.<BR>La varietà di piccole industrie che s'incontra in Francia<BR>è infinita e rappresenta un aspetto quanto mai<BR>importante dell'economia nazionale. Si calcola, in effetti,<BR>che metà della popolazione francese viva di agricoltura<BR>e un terzo di industria, e che questo terzo si trovi<BR>equamente distribuito tra grande e piccola industria. A<BR>questo andrebbe aggiunto un numero considerevole di<BR>contadini che si dedicano alla piccola industria senza<BR>abbandonare l'agricoltura; e i guadagni supplementari<BR>che questi contadini ne ricavano sono così importanti<BR>che in diverse parti della Francia la proprietà contadina<BR>non potrebbe essere mantenuta senza l'aiuto delle<BR>industrie rurali.<BR>I piccoli proprietari rurali sanno che cosa li aspetterebbe<BR>il giorno in cui diventassero manodopera di fabbrica<BR>in città, e finché gli usurai non riusciranno a spodestarli<BR>delle loro terre e case, e il villaggio non perderà<BR>i diritti sui pascoli o sui boschi comunali, si tengono ben<BR>stretti a questa combinazione di industria e agricoltura.<BR>Non possedendo, nella maggior parte dei casi, animali<BR>per arare la terra, fanno ricorso a un espediente largamente<BR>diffuso, se non universale, tra i piccoli proprietari<BR>terrieri francesi, anche nei distretti puramente rurali.<BR>Chi dei contadini possiede un aratro e un tiro di<BR>cavalli, dissoda a turno tutti i campi. Nello stesso tempo,<BR>grazie al perpetuarsi di uno spirito comunitario, del<BR>quale ho parlato altrove, un ulteriore sostegno viene<BR>trovato nel pascolare e nel torchiare il vino in comune o<BR>in altri svariati modi di mutuo appoggio esistenti tra i<BR>contadini. E dovunque si mantenga lo spirito comunita-<BR>160<BR>rio di villaggio, le piccole industrie persistono, mentre<BR>non si risparmiano sforzi per coltivare intensamente i<BR>piccoli poderi.<BR>Orticoltura da mercato e frutticoltura spesso vanno<BR>di pari passo con le piccole industrie. E dovunque si<BR>ricavi un po' di benessere da un suolo relativamente<BR>improduttivo, lo si deve quasi sempre a una combinazione<BR>delle due attività sorelle.<BR>Nello stesso tempo, è possibile notare come le piccole<BR>industrie si adattino straordinariamente ai nuovi bisogni<BR>e a un sostanziale progresso tecnico dei metodi di<BR>produzione. Nelle regioni boschive del Perche e del Maine<BR>troviamo ogni genere di industrie del legno, le quali,<BR>evidentemente, possono essere mantenute solo grazie<BR>alla proprietà comunale dei boschi. Nei pressi della<BR>foresta di Perseigne c'è un piccolo borgo, Fresnaye, interamente<BR>popolato da lavoratori del legno.<BR>A Thiers, dove si producono le posaterie più a buon<BR>mercato, la divisione del lavoro, il basso affitto delle<BR>piccole officine rifornite di forza motrice dal fiume<BR>Durolle o da piccoli motori a gas, l'apporto di un'infinità<BR>di attrezzi meccanici inventati all'occorrenza, e la combinazione<BR>esistente tra lavoro meccanico e lavoro<BR>manuale hanno condotto a una tale perfezione l'apparato<BR>tecnico di questa attività industriale che ci si chiede<BR>se l'organizzazione di fabbrica possa economizzare ulteriormente<BR>il lavoro. Per dodici miglia attorno a Thiers,<BR>in ogni direzione, tutti i ruscelli sono punteggiati di piccole<BR>officine che danno lavoro ai contadini senza che<BR>questi smettano di coltivare i campi.<BR>La canestreria è anch'essa un'importante attività<BR>artigianale in diverse parti della Francia, e precisamente<BR>nell'Aisne e nell'Alta Marna. In quest'ultimo<BR>dipartimento, a Villaines, sono tutti canestrai, «e ogni<BR>canestraio fa parte di una società cooperativa», come<BR>osserva Ardouin Dumazet. «Non ci sono imprenditori;<BR>tutto il prodotto viene portato ogni quindici giorni ai<BR>magazzini della cooperativa e lì venduto per conto<BR>dell'associazione. A questa appartengono circa 150<BR>161<BR>famiglie, e ciascuna possiede una casa e dei vigneti». A<BR>Fays-Billot, sempre nell'Alta Marna, 1.500 canestrai<BR>fanno parte di un'altra associazione, mentre a Thiérache,<BR>dove parecchie migliaia di uomini esercitano la<BR>stessa attività, non è stata formata alcuna associazione<BR>e di conseguenza i guadagni sono nettamente più bassi.<BR>A Héricourt, un'infinità di piccole industrie è sorta<BR>accanto alle grandi fabbriche di ferramenta. La città si<BR>riversa nei villaggi, dove la popolazione fabbrica macinacaffè,<BR>macinapepe, macchine per tritare il mangime<BR>per il bestiame, così come selle, piccoli articoli di ferramenta,<BR>o persino orologi. Altrove, dove la fabbricazione<BR>dei vari pezzi dell'orologio è stata monopolizzata dalle<BR>fabbriche, le officine hanno cominciato a fabbricare pezzi<BR>di bicicletta, e più tardi di automobile. In breve, troviamo<BR>qui tutto un mondo di industrie di tipo moderno<BR>e, con esse, di invenzioni realizzate per semplificare il<BR>lavoro manuale.<BR>Ogni casa contadina, ogni fattoria e ogni métayerie<BR>delle zone collinose del Beaujolais e del Forez era un<BR>tempo una piccola officina, e si potevano vedere, come<BR>ha scritto Reybaud nel 1863, ragazzi di vent'anni intenti<BR>a ricamare delicate mussoline dopo aver finito di<BR>pulire le stalle delle fattorie, senza che quel delicato<BR>lavoro risentisse della combinazione di due occupazioni<BR>così disparate. Al contrario, la delicatezza del lavoro e<BR>l'estrema varietà dei disegni erano le caratteristiche<BR>tipiche delle mussoline di Tarare e la ragione del loro<BR>successo. Tutte le testimonianze concordavano nel riconoscere<BR>che, quando l'agricoltura trovava sostegno<BR>nell'industria, la popolazione agricola godeva di un certo<BR>benessere.<BR>Ciò che più merita la nostra ammirazione non è tanto<BR>lo sviluppo delle grandi industrie - le quali, dopotutto,<BR>qui come altrove, sono in gran parte di origine internazionale<BR>- quanto le doti creative e inventive e le<BR>capacità di adattamento della gran massa di queste<BR>industriose popolazioni. A ogni passo, nei campi, negli<BR>orti, nei frutteti, nei piccoli caseifici, nelle officine, nelle<BR>162<BR>centinaia di piccole invenzioni fatte per queste attività,<BR>è possibile notare lo spirito creativo del popolo. In queste<BR>regioni si capisce meglio perché la Francia, prendendo<BR>la popolazione nel suo complesso, venga considerata<BR>la più ricca nazione d'Europa.<BR>Il centro principale dell'artigianato in Francia è tuttavia<BR>Parigi. Lì troviamo, accanto alle grandi fabbriche,<BR>un'impressionante varietà di officine per la fabbricazione<BR>di merci di ogni genere, destinate sia al mercato<BR>interno sia all'esportazione. Le officine artigianali di<BR>Parigi prevalgono a tal punto sulle fabbriche che la<BR>media degli operai occupati nelle 98.000 fabbriche e<BR>officine parigine è inferiore alle sei unità, mentre il<BR>numero di persone impiegate nelle officine con meno di<BR>cinque operai è quasi il doppio del numero di persone<BR>impiegate negli stabilimenti più grandi. In effetti, Parigi<BR>è un grande alveare dove centinaia di migliaia di<BR>uomini e donne fabbricano in piccole officine ogni possibile<BR>genere di merci che richiedono abilità, gusto e creatività.<BR>Queste piccole officine, di cui tanto si loda il<BR>gusto artistico e la rapidità di lavorazione, stimolano<BR>necessariamente la capacità mentale dei produttori; e<BR>possiamo tranquillamente affermare che se gli operai di<BR>Parigi sono generalmente considerati, e a ragione,<BR>intellettualmente più sviluppati degli operai di qualsiasi<BR>altra capitale europea, ciò lo si deve in gran parte al<BR>tipo di lavoro che fanno: un lavoro che implica gusto<BR>artistico, abilità e soprattutto un'inventiva sempre<BR>pronta a creare nuovi tipi di merci e ad accrescere di<BR>continuo e perfezionare le tecniche di produzione. Ed è<BR>assai probabile che se incontriamo una popolazione<BR>lavorativa molto evoluta anche a Vienna o Varsavia, di<BR>nuovo ciò dipende in gran parte dal notevole sviluppo<BR>delle piccole industrie dello stesso genere, le quali stimolano<BR>l'inventiva contribuendo grandemente a sviluppare<BR>l'intelligenza del lavoratore.<BR>Le conclusioni da trarne sono state così formulate da<BR>Lucien March: «In definitiva, durante gli ultimi cinquant'anni<BR>si è avuta una notevole concentrazione di<BR>163<BR>fabbriche nei grandi agglomerati», ma «questa concentrazione<BR>non impedisce la persistenza di una certa<BR>quantità di piccole imprese, le cui dimensioni medie non<BR>crescono che molto lentamente». Quest'ultimo fatto, in<BR>realtà, lo abbiamo già rilevato dal nostro breve schizzo<BR>sulla Gran Bretagna, e possiamo soltanto chiederci se -<BR>così stando le cose - la parola «concentrazione» sia<BR>indovinata. Ciò che vediamo in realtà è la comparsa, in<BR>alcuni settori dell'industria, di un certo numero di<BR>grandi stabilimenti, e soprattutto di fabbriche di media<BR>grandezza. Ma questo non impedisce minimamente che<BR>continui a esistere un gran numero di piccole fabbriche,<BR>in settori diversi, o negli stessi settori dove sono comparse<BR>le grandi fabbriche (tessili, metalmeccaniche), o<BR>nei settori connessi e derivati da quelli principali, come<BR>l'industria dell'abbigliamento che trae origine da quella<BR>tessile. Quanto alle grandi deduzioni sulla «concentrazione<BR>» effettuate da certi economisti, si tratta di semplici<BR>ipotesi, utili naturalmente a stimolare la ricerca, ma<BR>destinate a rivelarsi alquanto nocive quando vengono<BR>presentate come leggi economiche, mentre in realtà non<BR>sono affatto confermate da un'accurata osservazione dei<BR>fatti.<BR>Sfortunatamente, la discussione su questo importante<BR>argomento ha spesso assunto in Germania un carattere<BR>appassionato e persino di polemica personale. Da<BR>un lato, gli elementi ultraconservatori della politica<BR>tedesca hanno cercato, riuscendovi in certa misura, di<BR>fare dell'artigianato e delle lavorazioni a domicilio<BR>un'arma per assicurare il ritorno ai «bei tempi andati».<BR>Hanno persino approvato una legge intesa a reintrodurre<BR>le superate, chiuse e patriarcali corporazioni - da<BR>assoggettare alla stretta supervisione e tutela dello<BR>Stato - guardando a questa legge come a un'arma contro<BR>la socialdemocrazia. Dall'altro lato, i socialdemocratici,<BR>giustamente contrari a queste misure ma a loro<BR>volta propensi a considerare astrattamente le questioni<BR>economiche, attaccano ferocemente tutti coloro che non<BR>si piegano a ripetere le stereotipate frasi a effetto come<BR>164<BR>«l'artigianato è in declino» e «prima scompare meglio è»<BR>perché così darà spazio alla concentrazione capitalistica,<BR>la quale, secondo il credo socialdemocratico, «farà<BR>ben presto la sua stessa rovina». E in questa avversione<BR>per le piccole industrie naturalmente concordano con<BR>gli economisti della scuola ortodossa, contro i quali si<BR>scagliano su quasi tutti gli altri punti.<BR>Il fondamento di questo credo si trova in uno dei<BR>capitoli conclusivi del Capitale di Marx (il penultimo),<BR>in cui l'autore parlava della concentrazione del capitale<BR>scorgendovi la «fatalità di una legge naturale». In quegli<BR>anni Quaranta questa idea della «concentrazione del<BR>capitale», originata da quanto avveniva nelle industrie<BR>tessili, ricorreva di continuo negli scritti di tutti i socialisti<BR>francesi, specialmente in Considérant, e nei loro<BR>seguaci tedeschi, che se ne servivano come di un argomento<BR>a favore della necessità di una rivoluzione sociale.<BR>Ma Marx era un pensatore troppo grande per non<BR>accorgersi dei susseguenti sviluppi della vita industriale,<BR>imprevedibili nel 1848; e se fosse vissuto oggi, sicuramente<BR>non avrebbe chiuso gli occhi davanti alla formidabile<BR>fioritura di tanti piccoli imprenditori e ai<BR>patrimoni della classe media realizzati in mille modi<BR>all'ombra dei moderni «milionari». Molto probabilmente<BR>avrebbe anche notato l'estrema lentezza con cui procede<BR>la rovina delle piccole industrie: lentezza non prevedibile<BR>cinquanta o quarant'anni fa, dal momento che nessuno<BR>era in grado di immaginare allora le possibilità future<BR>dei trasporti o la crescente varietà della domanda, né<BR>l'attuale economicità della fornitura di piccole quantità<BR>di energia motrice. Essendo un pensatore, avrebbe studiato<BR>questi fatti, e molto probabilmente avrebbe mitigato<BR>l'assolutezza delle sue formulazioni originarie,<BR>come in realtà fece una volta a proposito delle comunità<BR>di villaggio in Russia. Sarebbe quanto mai auspicabile<BR>che i suoi seguaci facessero minore affidamento su formule<BR>astratte - buone solo come parole d'ordine nelle<BR>lotte politiche - e cercassero di imitare il loro maestro<BR>nelle analisi dei fenomeni economici concreti.<BR>165<BR>È evidente che in Germania un certo numero di attività<BR>artigianali sono oggi destinate a scomparire, ma ce<BR>ne sono altre, al contrario, dotate di grande vitalità, e<BR>tutte le probabilità depongono a favore della loro persistenza<BR>e del loro ulteriore sviluppo per molti anni a<BR>venire. Nella fabbricazione di certe stoffe tessute a<BR>milioni di metri, e meglio producibili con l'aiuto di un<BR>macchinario complicato, la concorrenza del telaio a<BR>mano contro il telaio meccanico non rappresenta che<BR>una semplice sopravvivenza, mantenibile per qualche<BR>tempo in determinate condizioni locali, ma destinata a<BR>scomparire.<BR>Lo stesso si può dire di molti settori delle industrie<BR>siderurgiche, della fabbricazione di ferramenta, terraglie,<BR>ecc. Ma dovunque siano necessari l'intervento<BR>diretto del gusto e dell'inventiva, dovunque debbano<BR>essere di continuo introdotti nuovi generi di merci che<BR>richiedono un rinnovamento continuo di macchine e<BR>attrezzi allo scopo di soddisfare la domanda (come nel<BR>caso di tutti i tessuti alla moda, anche se fabbricati per<BR>rifornire le masse), dovunque vi sia una gran varietà di<BR>merci e un'ininterrotta invenzione di nuovi prodotti<BR>(come nel caso dei giocattoli, della fabbricazione di strumenti,<BR>orologi, biciclette e così via), e infine dovunque<BR>sia il senso artistico del singolo lavoratore a realizzare i<BR>prodotti migliori (come è il caso in centinaia di settori<BR>di piccoli articoli di lusso), là c'è ampio spazio per le<BR>attività artigianali, le officine rurali, le lavorazioni a<BR>domicilio, e simili. In queste industrie occorrono evidentemente<BR>più aria fresca, più idee, più visioni generali e<BR>più cooperazione. E dove lo spirito d'iniziativa è stato<BR>destato in un modo o nell'altro, vediamo le industrie<BR>marginali assumere nuovo sviluppo, proprio come<BR>avviene in Germania o, l'abbiamo appena visto, in<BR>Francia.<BR>In Germania, in quasi tutte le attività marginali la<BR>condizione dei lavoratori è unanimemente descritta<BR>come la più miserabile, e i tanti ammiratori della centralizzazione<BR>che troviamo in Germania insistono sem-<BR>166<BR>pre su tale miseria per predicare e auspicare la scomparsa<BR>di «queste sopravvivenze medievali» che la «concentrazione<BR>capitalistica» deve soppiantare per il bene<BR>del lavoratore. La verità, tuttavia, è che quando confrontiamo<BR>le miserabili condizioni dei lavoratori delle<BR>industrie marginali con le condizioni dei salariati delle<BR>fabbriche, nelle stesse regioni e nelle stesse attività,<BR>notiamo come la stessa identica miseria domini tra i<BR>lavoratori di fabbrica. Essi vivono, nei bassifondi delle<BR>città invece che in campagna, di salari che vanno dai 9<BR>agli 11 scellini la settimana, lavorano undici ore al giorno,<BR>e sono oltretutto soggetti alla miseria straordinaria<BR>in cui li precipitano le crisi ricorrenti. È solo dopo essere<BR>passati attraverso sofferenze di ogni genere nelle lotte<BR>contro i proprietari delle fabbriche che alcuni lavoratori<BR>sono riusciti, più o meno, qua e là, a strappare ai<BR>propri datori di lavoro un «salario che consenta di vivere<BR>», e questo solo in certe attività.<BR>Accogliere positivamente tutte queste sofferenze,<BR>vedendo in esse l'azione di una «legge naturale» e il<BR>cammino necessario verso la necessaria concentrazione<BR>delle industrie, sarebbe semplicemente assurdo. Ma<BR>sostenere che la pauperizzazione di tutti i lavoratori e<BR>la rovina di tutte le industrie artigianali rappresentino<BR>il cammino necessario verso una più elevata forma di<BR>organizzazione industriale, significa non solo affermare<BR>più di quanto si sia autorizzati ad affermare in base<BR>all'imperfetto stato attuale della conoscenza economica,<BR>ma anche dimostrare un'assoluta mancanza di comprensione<BR>del senso delle leggi sia economiche sia naturali.<BR>Al contrario, chiunque abbia studiato la questione<BR>della crescita delle grandi industrie non può non concordare<BR>con Thorold Rogers, che considerava le sofferenze<BR>inflitte alle classi lavoratrici a quello scopo come<BR>assolutamente non necessarie, anzi inflitte per favorire<BR>gli interessi temporanei di pochi ma non certo quelli<BR>della nazione.<BR>Un fatto domina in tutte le indagini condotte sulla<BR>condizione delle piccole industrie, e lo riscontriamo tan-<BR>167<BR>to in Germania quanto in Francia o in Russia. In un<BR>enorme numero di attività a pesare contro la piccola<BR>industria e a favore della grande fabbrica non sono la<BR>superiorità dell'organizzazione tecnica o le economie<BR>realizzate sul prezzo dell'energia, ma sono le più vantaggiose<BR>condizioni di vendita del prodotto e di acquisto<BR>delle materie prime di cui le grandi aziende dispongono.<BR>Dovunque questa difficoltà sia stata superata - per<BR>mezzo dell'associazione, o grazie ad un mercato certo<BR>per la vendita dei prodotti - si è sempre scoperto, primo,<BR>che le condizioni dei lavoratori o degli artigiani<BR>migliorano immediatamente e, secondo, che si realizza<BR>un rapido progresso nelle caratteristiche tecniche delle<BR>rispettive industrie. Nuovi procedimenti sono stati<BR>introdotti per migliorare il prodotto oppure per accelerarne<BR>la fabbricazione; nuovi strumenti meccanici sono<BR>stati inventati; si è fatto ricorso a nuove energie motrici;<BR>l'attività è stata riorganizzata in modo da diminuire<BR>i costi di produzione.<BR>Al contrario, dovunque gli indifesi, isolati operai o<BR>artigiani continuano a rimanere alla mercé dei grossisti<BR>- che sempre, sin dai tempi di Adam Smith, «apertamente<BR>o tacitamente» operano di concerto per abbassare<BR>i prezzi a un livello quasi da fame, e tale è il caso per<BR>la stragrande maggioranza delle piccole industrie e delle<BR>attività artigiane - la loro condizione è così penosa<BR>che solo l'aspirazione dei lavoratori a una relativa indipendenza,<BR>e il fatto di sapere che cosa li aspetti in fabbrica,<BR>impedisce loro di unirsi alle file degli operai di<BR>fabbrica. Sapendo che nella maggioranza dei casi<BR>l'avvento della fabbrica significherebbe la perdita completa<BR>del lavoro per la maggior parte degli uomini e<BR>l'assunzione in fabbrica di bambini e ragazze, essi fanno<BR>l'impossibile per impedire che facciano la loro comparsa<BR>nel villaggio.<BR>Quanto alle associazioni di villaggio, alla cooperazione,<BR>e simili, non bisogna mai dimenticare quanto gelosamente<BR>i governi tedesco, francese, russo e austriaco<BR>abbiano fino a oggi impedito ai lavoratori, e soprattutto<BR>168<BR>ai lavoratori rurali, di partecipare a qualsiasi associazione<BR>con finalità economiche. In Francia i sindacati<BR>contadini sono stati ammessi solo con la legge del 1884.<BR>Tenere il contadino al livello più basso possibile, per<BR>mezzo di tasse, servitù della gleba e simili, è stata ed è<BR>ancora la politica della maggior parte degli Stati continentali.<BR>È stato solo nel 1876 che la Germania ha permesso<BR>una certa estensione dei diritti di associazione; e<BR>ancor oggi, una semplice associazione cooperativa per<BR>la vendita di prodotti artigianali viene subito considerata<BR>una «associazione politica» e assoggettata di conseguenza<BR>alle usuali limitazioni, come l'esclusione delle<BR>donne e così via. Un impressionante resoconto della<BR>politica relativa alle associazioni di villaggio è stato fatto<BR>dal professor Issaieff, il quale ha pure parlato delle<BR>severe misure prese dai grossisti del settore giocattoli<BR>per impedire ai lavoratori di entrare in rapporto diretto<BR>con i compratori stranieri.<BR>Quando si prende in attenta considerazione la vita<BR>delle piccole industrie e la loro lotta per la sopravvivenza,<BR>ci si accorge che non è vero che esse periscano perché<BR>«si può economizzare ricorrendo a un centinaio di<BR>cavalli-vapore invece che a un centinaio di piccoli motori<BR>». Questo inconveniente non si manca mai di citarlo,<BR>benché sia stato facilmente eliminato a Sheffield, a<BR>Parigi e in molti altri luoghi dove si affittano officine<BR>dotate di volano, alimentato da una macchina centrale<BR>o più spesso, come opportunamente osservato dal professor<BR>W. Unwin, dalla trasmissione elettrica dell'energia.<BR>Esse periscono non perché nella produzione di fabbrica<BR>si può realizzare una notevole economia - in casi<BR>molto più frequenti di quanto di solito si supponga<BR>avviene persino il contrario - ma perché il capitalista<BR>che impianta una fabbrica si emancipa dai grossisti e<BR>dai dettaglianti di materie prime; e soprattutto si<BR>emancipa dai compratori del suo prodotto trattando<BR>direttamente con chi compra all'ingrosso e con l'esportatore;<BR>o ancora, perché concentra in una sola azienda<BR>le differenti fasi della fabbricazione di un dato prodotto.<BR>169<BR>A questo proposito sono quanto mai istruttive le pagine<BR>che Schulze-Gäwernitz ha dedicato all'organizzazione<BR>dell'industria cotoniera in Inghilterra, e alle difficoltà<BR>con cui si sono dovuti confrontare i proprietari di cotonifici<BR>tedeschi dal momento che dipendevano da Liverpool<BR>per il cotone greggio. E ciò che caratterizza l'industria<BR>del cotone, domina anche in tutti gli altri settori.<BR>Se i posatieri di Sheffield che oggi lavorano nelle loro<BR>minuscole officine, dotate del volano di cui si è detto,<BR>fossero incorporati in una sola grande fabbrica, il principale<BR>vantaggio che si realizzerebbe nella fabbrica non<BR>sarebbe un'economia nei costi di produzione a pari qualità<BR>di prodotto; anzi, in una società per azioni i costi<BR>potrebbero persino aumentare. E tuttavia il prodotto<BR>netto aziendale (salari inclusi) probabilmente sarebbe<BR>superiore alla somma degli attuali redditi dei singoli<BR>lavoratori grazie ad un minor costo nell'acquisto del ferro<BR>e del carbone, e alle facilitazioni relative alla vendita<BR>del prodotto. La grande azienda troverebbe perciò i suoi<BR>vantaggi non in quei fattori imposti attualmente dalle<BR>necessità tecniche dell'industria, ma negli stessi fattori<BR>eliminabili da un'organizzazione cooperativa. Tutte queste<BR>sono nozioni elementari per gli esperti del settore.<BR>È quasi inutile aggiungere che un vantaggio ulteriore<BR>per il grande imprenditore è che può trovare il modo<BR>di vendere anche un prodotto di qualità assai inferiore,<BR>purché ce ne sia da vendere una quantità considerevole.<BR>Tutti quelli che hanno familiarità con il commercio<BR>sanno, in verità, come un'enorme massa degli scambi<BR>mondiali consista di scarti, di robaccia inviata in Paesi<BR>lontani. Intere città, come abbiamo appena visto, non<BR>producono altro che merce scadente.<BR>Al contempo, va considerato come un fatto fondamentale<BR>della vita economica europea che il fallimento di un<BR>certo numero di piccole industrie, di attività artigianali<BR>e di lavorazioni a domicilio, sia stato provocato dalla<BR>loro incapacità di organizzare la vendita dei prodotti e<BR>non la loro produzione. Lo stesso fenomeno ricorre in<BR>ogni fase della storia economica. L'incapacità di orga-<BR>170<BR>nizzare la vendita senza cadere schiavi del mercante fu<BR>un fenomeno determinante nelle città medievali, che a<BR>poco a poco finirono sotto il giogo economico e politico<BR>delle corporazioni commerciali semplicemente perché<BR>non furono in grado di mantenere la vendita dei loro<BR>prodotti nelle mani della comunità nel suo complesso, o<BR>di organizzare la vendita di un nuovo prodotto nell'interesse<BR>della comunità. Quando il mercato di tali prodotti<BR>divenne da una parte l'Asia e dall'altra il Nuovo Mondo,<BR>il destino non poteva che essere questo, e dal momento<BR>che il commercio aveva cessato di essere comunale ed<BR>era diventato individuale, le città divennero preda delle<BR>rivalità tra le principali famiglie mercantili.<BR>E ancor oggi, quando vediamo le società cooperative<BR>avviate con successo sulla strada della produzione,<BR>mentre cinquant'anni fa mostravano invariabilmente<BR>scarse capacità produttive, possiamo concludere che la<BR>causa dei passati fallimenti risiedeva non nella loro<BR>incapacità di organizzare adeguatamente la produzione,<BR>ma nella loro incapacità di operare come venditori<BR>ed esportatori del prodotto fabbricato. I loro successi<BR>attuali, al contrario, sono pienamente garantiti dalla<BR>disponibilità di una rete di distribuzione. La vendita è<BR>stata semplificata e la produzione resa possibile organizzando<BR>prima di tutto il mercato.<BR>Queste sono alcune delle conclusioni ricavabili da<BR>uno studio delle piccole industrie in Germania e altrove.<BR>E si può tranquillamente dire, riguardo alla Germania,<BR>che se non verranno prese misure per sottrarre i<BR>contadini alla terra, come purtroppo è avvenuto in questo<BR>Paese, se al contrario il numero dei piccoli proprietari<BR>terrieri si moltiplicherà, inevitabilmente questi si<BR>rivolgeranno alle più svariate piccole industrie in<BR>aggiunta all'agricoltura, come hanno fatto e ancora fanno<BR>in Francia. Qualunque passo si faccia per risvegliare<BR>la vita intellettuale nei villaggi, o per garantire i diritti<BR>dei contadini e del contado sulla terra, porterà necessariamente<BR>avanti la crescita industriale nei villaggi.<BR>Se si vuol estendere questa ricerca ad altri Paesi, la<BR>171<BR>Svizzera offre un vasto campo per osservazioni quanto<BR>mai interessanti. Vi si nota la stessa vitalità in una<BR>molteplicità di piccole industrie; e va citato quanto è<BR>stato fatto nei diversi cantoni per sostenere le piccole<BR>industrie con tre diversi tipi di provvedimenti: la promozione<BR>della cooperazione; un'ampia diffusione<BR>dell'istruzione tecnica nelle scuole; l'introduzione di<BR>nuovi settori di produzione artigianale in diverse parti<BR>del Paese; e la fornitura di forza motrice a buon mercato<BR>nelle case per mezzo di trasmissione idraulica o elettrica<BR>dell'energia ricavata dalle cascate. Un altro libro<BR>di grandissimo interesse e valore si potrebbe scrivere<BR>su questo argomento, soprattutto sull'impulso dato a<BR>una quantità di piccole industrie, vecchie e nuove, per<BR>mezzo della fornitura a buon mercato di energia motrice.<BR>Un tale libro sarebbe anche di grande interesse in<BR>quanto mostrerebbe in quale misura la combinazione di<BR>agricoltura e industria, da me descritta nella prima edizione<BR>di questo libro come «la fabbrica tra i campi», sia<BR>progredita ultimamente in Svizzera, cosa che non può<BR>mancare di colpire anche il viaggiatore occasionale.<BR>I fatti che abbiamo brevemente passato in rassegna<BR>mostrano, in certo modo, i benefici che si potrebbero<BR>trarre da una combinazione tra agricoltura e industria<BR>se quest'ultima arrivasse al villaggio non nel suo aspetto<BR>attuale di fabbrica capitalistica, ma in quello di produzione<BR>industriale socialmente organizzata, con il pieno<BR>supporto del macchinario e della preparazione tecnica.<BR>In effetti, l'aspetto più evidente delle piccole industrie<BR>è che un relativo benessere si riscontra solo dove<BR>sono combinate con l'agricoltura, dove i lavoratori sono<BR>rimasti proprietari del suolo e continuano a coltivarlo.<BR>Anche tra i tessitori francesi o moscoviti, che pure devono<BR>fare i conti con la concorrenza della fabbrica, domina<BR>un relativo benessere grazie al fatto che non sono stati<BR>costretti a separarsi dalla terra. Al contrario, non appena<BR>le forti tasse o l'impoverimento dovuto a una crisi<BR>hanno spinto il lavoratore a domicilio ad abbandonare<BR>il suo ultimo pezzo di terra all'usuraio, la miseria ha<BR>172<BR>fatto il suo ingresso nella casa. Lo sfruttatore diviene<BR>onnipotente, si fa ricorso a uno sfibrante superlavoro e<BR>l'intera industria cade spesso in rovina.<BR>Fatti del genere, come anche la pronunciata tendenza<BR>di alcune fabbriche a spostarsi nelle aree rurali, che<BR>si fa sempre più palese e che ha trovato ultimamente<BR>espressione nel movimento delle «Città-giardino», sono<BR>molto indicativi. Naturalmente, sarebbe un grosso errore<BR>immaginare il ritorno dell'industria al suo stadio<BR>manuale allo scopo di combinarsi con l'agricoltura.<BR>Ogni volta che è possibile risparmiare lavoro umano<BR>per mezzo di una macchina, la macchina è benvenuta e<BR>va impiegata; e non c'è quasi settore dell'industria in<BR>cui il lavoro meccanico non possa essere introdotto con<BR>grande vantaggio, almeno in alcune fasi della produzione.<BR>Nell'attuale stato caotico dell'industria, chiodi e<BR>temperini a basso prezzo si possono ancora fare a mano,<BR>e i cotoni comuni si possono ancora tessere col telaio<BR>a mano. Ma una anomalia del genere non durerà: la<BR>macchina prenderà il posto del lavoro manuale nella<BR>fabbricazione delle merci comuni. Nello stesso tempo,<BR>però, il lavoro manuale estenderà il proprio dominio<BR>sulla rifinitura artigianale di molte merci che vengono<BR>oggi interamente prodotte in fabbrica, e rimarrà sempre<BR>un fattore importante per la nascita di migliaia di<BR>nuove produzioni industriali.<BR>Ma ecco sorgere alcuni quesiti: perché i cotoni, le<BR>stoffe di lana e le sete, oggi tessuti a mano nei villaggi,<BR>non dovrebbero essere tessuti a macchina negli stessi<BR>villaggi senza che per questo si tralasci il lavoro nei<BR>campi? Perché centinaia di industrie a domicilio, oggi<BR>esercitate interamente a mano, non dovrebbero far<BR>ricorso a macchine che risparmino il lavoro, come già<BR>avviene nella fabbricazione delle maglie e in molti altri<BR>campi? Non c'è ragione perché i piccoli motori non debbano<BR>avere un uso molto più generalizzato di oggi,<BR>dovunque non ci sia bisogno di una fabbrica; e non c'è<BR>ragione perché il villaggio non debba avere la sua piccola<BR>fabbrica, dovunque il lavoro di fabbrica sia preferibi-<BR>173<BR>le, come già si vede di tanto in tanto in certi villaggi<BR>della Francia.<BR>Ma c'è di più. Non c'è ragione per cui la fabbrica, con<BR>la sua energia motrice e il suo macchinario, non debba<BR>appartenere alla comunità, come già avviene per la forza<BR>motrice nelle già menzionate officine e piccole fabbriche<BR>della zona collinare francese del Giura. È evidente<BR>che oggi, sotto il sistema capitalistico, la fabbrica è la<BR>maledizione del villaggio dato che giunge a sottoporre i<BR>bambini a un lavoro eccessivo e a impoverire i suoi abitanti<BR>maschi; ed è del tutto naturale che essa incontri<BR>l'ostilità assoluta dei lavoratori quando questi riescono<BR>a mantenere l'organizzazione delle loro antiche attività<BR>(come a Sheffield o a Solingen), o quando non sono stati<BR>ridotti in completa miseria (come nel Giura). Ma con<BR>un'organizzazione sociale più razionale, la fabbrica non<BR>troverebbe ostacoli come questi: sarebbe un bene per il<BR>villaggio. E abbiamo già un'inequivocabile prova che<BR>dimostra come passi in questa direzione siano già stati<BR>fatti in alcune comunità rurali.<BR>I vantaggi fisici e morali che l'uomo trarrebbe dividendo<BR>il suo lavoro tra il campo e l'officina si presentano<BR>da sé. La difficoltà starebbe, ci dicono, nella necessaria<BR>centralizzazione delle industrie moderne. Nell'industria,<BR>come anche in politica, la centralizzazione vanta<BR>molti ammiratori! Ma in entrambi i campi l'ideale dei<BR>centralizzatori sfortunatamente ha bisogno di essere<BR>riveduto. In effetti, se analizziamo le industrie moderne,<BR>scopriamo ben presto che per alcune di esse la collaborazione<BR>di centinaia, o persino di migliaia, di lavoratori<BR>raggruppati nello stesso posto è realmente necessaria.<BR>Le grandi fonderie e le imprese minerarie appartengono<BR>decisamente a questa categoria: i transatlantici<BR>non si possono costruire nelle officine di villaggio. Ma<BR>moltissime grosse fabbriche non sono altro che agglomerati,<BR>sotto un'amministrazione comune, di parecchie<BR>industrie distinte, mentre altre sono semplici agglomerati<BR>di centinaia di esemplari di un'identica macchina; e<BR>tali appunto sono la maggior parte delle nostre gigante-<BR>174<BR>sche filande e tessiture.<BR>Essendo la fabbrica un'impresa strettamente privata,<BR>i suoi proprietari trovano vantaggioso tenere tutti i<BR>settori di una determinata industria sotto la propria<BR>amministrazione; in questo modo cumulano i profitti<BR>delle successive trasformazioni della materia prima. E<BR>quando diverse migliaia di telai meccanici si trovano<BR>riuniti in una sola fabbrica, il proprietario realizza un<BR>ulteriore vantaggio nella possibilità di controllare il<BR>mercato. Ma dal punto di vista tecnico i vantaggi di una<BR>simile accumulazione sono insignificanti e spesso incerti.<BR>Anche un'industria così centralizzata come quella<BR>cotoniera non ha risentito affatto dall'aver suddiviso le<BR>varie fasi di lavorazione di una data produzione in fabbriche<BR>distinte: lo si è visto a Manchester e nelle città<BR>vicine. Quanto alle piccole industrie, non si è riscontrato<BR>alcun inconveniente nella ulteriore suddivisione tra<BR>le officine della fabbricazione di orologi e di moltissimi<BR>altri prodotti.<BR>Spesso sentiamo dire che un cavallo-vapore costa<BR>tanto in un piccolo motore e nettamente meno in un<BR>motore dieci volte più potente, o che una libbra di filato<BR>di cotone costa molto meno quando la fabbrica raddoppia<BR>il numero dei suoi fusi. Ma nell'opinione dei migliori<BR>ingegneri meccanici, come il professor W. Unwin, la<BR>distribuzione idraulica e soprattutto quella elettrica di<BR>energia da parte di una stazione centrale elimina il primo<BR>punto della questione. Quanto al secondo, calcoli del<BR>genere valgono solo per quelle industrie che preparano<BR>prodotti semilavorati per ulteriori trasformazioni. E<BR>quanto alle innumerevoli specie di merci che si avvalgono<BR>del lavoro specializzato, le si può meglio produrre in<BR>piccole fabbriche che impiegano poche centinaia o persino<BR>poche decine di operai. Ecco perché la «concentrazione<BR>» di cui tanto si parla spesso non è altro che un'unione<BR>di capitalisti allo scopo di controllare il mercato, non<BR>a quello di ridurre il costo dei processi tecnici.<BR>Anche nelle condizioni attuali le fabbriche gigantesche<BR>presentano grandi inconvenienti dato che non sono<BR>175<BR>in grado di modificare rapidamente il proprio macchinario<BR>in sintonia con le domande continuamente varianti<BR>del consumatore. Quanti fallimenti di grandi<BR>aziende, troppo note in questo Paese perché se ne faccia<BR>il nome, si devono a questo motivo durante la crisi degli<BR>anni tra il 1886 e il 1890! Quanto ai nuovi settori<BR>dell'industria che ho menzionato prima, essi devono<BR>sempre avviarsi su piccola scala, e possono prosperare<BR>tanto nelle piccole città come nelle grandi se gli agglomerati<BR>più piccoli dispongono di istituzioni che stimolino<BR>il gusto artistico e lo spirito di inventiva. I progressi<BR>raggiunti di recente nella fabbricazione dei giocattoli,<BR>come anche l'elevato grado di perfezione raggiunto nella<BR>fabbricazione di strumenti scientifici e ottici, di mobili,<BR>di piccoli articoli di lusso, di terraglie, costituiscono<BR>esempi significativi. L'arte e la scienza non sono più il<BR>monopolio delle grandi città, e ulteriori progressi si raggiungeranno<BR>diffondendole ovunque.<BR>In buona parte, la distribuzione geografica delle<BR>industrie in un dato Paese dipende, ovviamente, da un<BR>complesso di condizioni naturali: è ovvio che certe località<BR>sono meglio indicate per lo sviluppo di determinate<BR>industrie. Le sponde del Clyde e del Tyne sono certamente<BR>quanto mai indicate come cantieri navali, e i<BR>cantieri navali devono essere circondati da una molteplicità<BR>di officine e di fabbriche. Le industrie trarranno<BR>sempre vantaggio dall'essere raggruppate, e raggruppate<BR>in armonia con gli aspetti naturali delle singole<BR>regioni. Ma dobbiamo ammettere che oggi esse non si<BR>trovano affatto raggruppate in base a questi criteri.<BR>Cause storiche - principalmente guerre di religione e<BR>rivalità nazionali - hanno avuto molto peso nella loro<BR>crescita e nella loro distribuzione attuale. Inoltre, i<BR>datori di lavoro sono stati guidati dalla valutazione delle<BR>possibilità di vendita e di esportazione: vale a dire,<BR>da considerazioni che vanno perdendo importanza via<BR>via che aumentano le possibilità di trasporto, e che<BR>sempre più ne perderanno quando i produttori produrranno<BR>per se stessi e non per clienti lontani.<BR>176<BR>Perché, in una società organizzata razionalmente,<BR>Londra dovrebbe rimanere il grande centro dell'industria<BR>conserviera e fabbricare ombrelli per quasi tutta<BR>la Gran Bretagna? Perché le innumerevoli piccole industrie<BR>di Whitechapel dovrebbero rimanere dove sono<BR>invece di diffondersi per tutto il Paese? Non c'è ragione<BR>alcuna per cui i mantelli indossati dalle signore inglesi<BR>debbano essere cuciti a Berlino e a Whitechapel invece<BR>che nel Devonshire o nel Derbyshire. Perché Parigi<BR>dovrebbe raffinare lo zucchero per quasi l'intera Francia?<BR>Perché metà degli stivali e delle scarpe che si usano<BR>negli Stati Uniti dovrebbe essere fabbricata nei<BR>1.500 laboratori del Massachusetts? Non c'è assolutamente<BR>ragione per cui queste e altre anomalie del genere<BR>continuino ad esistere. Le industrie devono disseminarsi<BR>in tutto il mondo; e la disseminazione delle industrie<BR>in tutte le nazioni civili sarà necessariamente<BR>seguita da un'ulteriore disseminazione delle fabbriche<BR>nei territori di ciascuna nazione.<BR>Nel corso di questa evoluzione, i prodotti naturali di<BR>ciascuna regione e le sue condizioni geografiche saranno<BR>certamente uno dei fattori che determineranno il<BR>tipo di industria destinata a svilupparsi in quell'area.<BR>Ma quando vediamo che la Svizzera è divenuta una<BR>grande esportatrice di locomotive e di navi a vapore,<BR>benché non abbia miniere di ferro né carbone per ottenere<BR>l'acciaio, e non abbia neppure porti per importarli;<BR>quando vediamo che il Belgio è riuscito a diventare un<BR>grande esportatore di uve, e che Manchester si è data<BR>da fare per diventare un porto, comprendiamo che nella<BR>distribuzione geografica delle industrie i due fattori del<BR>prodotto locale e di una vantaggiosa vicinanza col mare<BR>non costituiscono i fattori dominanti. Cominciamo a<BR>capire che, tutto considerato, il fattore intellettuale - lo<BR>spirito creativo, la capacità di adattamento, la libertà<BR>politica, ecc. - è quello che conta più di tutti gli altri.<BR>Che ciascuna attività industriale tragga vantaggio<BR>dall'essere esercitata in stretto contatto con una gran<BR>varietà di altre attività industriali, il lettore lo ha già<BR>177<BR>rilevato da numerosi esempi. Ogni industria richiede<BR>un ambiente tecnologizzato. Ma la stessa cosa si può<BR>dire anche dell'agricoltura.<BR>L'agricoltura non si può sviluppare senza l'aiuto della<BR>meccanica, e l'uso di macchinari avanzati non può<BR>divenire generale senza un'industrializzazione diffusa:<BR>senza officine meccaniche facilmente accessibili al coltivatore<BR>del suolo, l'uso del macchinario agricolo non è<BR>possibile. Il fabbro del villaggio non basterebbe. Se il<BR>lavoro di una trebbiatrice dev'essere sospeso per una<BR>settimana o più perché uno dei denti della ruota si è<BR>rotto, e se per avere una nuova ruota bisogna mandare<BR>un corriere particolare nella provincia vicina, allora<BR>l'uso di una trebbiatrice diventa impossibile. Ma questo<BR>è proprio quanto vidi durante la mia infanzia nella<BR>Russia centrale; e abbastanza di recente ho trovato<BR>l'identico fatto menzionato in un'autobiografia inglese<BR>della prima metà del XIX secolo. Inoltre, in tutta la parte<BR>settentrionale della zona temperata, chi coltiva il<BR>suolo deve trovare una sorta di impiego industriale<BR>durante i lunghi mesi invernali. Cosa che è stata<BR>appunto realizzata con il grande sviluppo delle industrie<BR>rurali, delle quali abbiamo appena visto esempi<BR>così interessanti. Ma questo bisogno viene avvertito<BR>anche nel clima più mite delle isole della Manica, nonostante<BR>l'estensione raggiunta dall'orticoltura in serra.<BR>«Abbiamo bisogno di tali industrie. Potreste suggerircene<BR>qualcuna?», mi ha domandato uno dei miei corrispondenti<BR>di Guernsey.<BR>Ma non è tutto. L'agricoltura ha così bisogno dell'aiuto<BR>di coloro che abitano nelle città che ogni estate<BR>migliaia di uomini lasciano i loro bassifondi urbani e<BR>vanno in campagna per la stagione dei raccolti. I poveri<BR>di Londra si recano a migliaia nel Kent e nel Sussex<BR>per la raccolta del fieno e del luppolo, giacché si valuta<BR>che il solo Kent abbia bisogno di 80.000 uomini e donne<BR>in più per raccogliere il solo luppolo; in Francia interi<BR>villaggi, e il loro artigianato, vengono abbandonati in<BR>estate perché i contadini si trasferiscono nelle parti più<BR>178<BR>fertili del Paese; centinaia di migliaia di esseri umani<BR>vengono trasportati ogni estate nelle praterie del Manitoba<BR>e del Dakota. E ogni estate, molte migliaia di<BR>polacchi si riversano al tempo del raccolto nelle pianure<BR>del Mecklenburg, della Westfalia e persino della Francia;<BR>in Russia si verifica ogni anno un esodo di parecchie<BR>migliaia di uomini che da nord si spostano verso le<BR>praterie del sud per raccogliere le messi, tanto che molti<BR>industriali di San Pietroburgo riducono in questa stagione<BR>la produzione proprio perché gli operai ritornano<BR>ai villaggi natali per coltivare i loro appezzamenti.<BR>L'agricoltura non può andare avanti in estate senza<BR>manodopera addizionale, ma essa necessita ancor di<BR>più di aiuti temporanei per migliorare il terreno e per<BR>decuplicarne la produttività. La dissodazione meccanica<BR>del suolo, il prosciugamento e la concimazione farebbero<BR>delle pesanti argille a nordovest di Londra un terreno<BR>molto più ricco di quello delle praterie americane.<BR>Per divenire fertili, quelle argille hanno bisogno solo del<BR>semplice, comune, lavoro umano, quello necessario per<BR>dissodare il suolo, collocare i tubi di drenaggio, polverizzare<BR>le fosforiti, e così via; e quel lavoro sarebbe di<BR>buon grado adempiuto dai lavoratori di fabbrica, a<BR>beneficio dell'intera società, se fossero adeguatamente<BR>organizzati in una libera comunità. Il suolo reclama un<BR>aiuto del genere e lo avrebbe con un'organizzazione<BR>adeguata, anche se per questo fosse necessario fermare<BR>in estate molte fabbriche. Non c'è dubbio che gli attuali<BR>proprietari di fabbrica considererebbero come una rovina<BR>dover fermare le fabbriche parecchi mesi l'anno, poiché<BR>il capitale investito in una fabbrica è destinato a<BR>pompare denaro tutti i giorni e tutte le ore, se possibile.<BR>Ma questo è il punto di vista dei capitalisti, non della<BR>comunità.<BR>Quanto ai lavoratori, che in realtà dovrebbero essere<BR>coloro che gestiscono le industrie, sarà per loro salutare<BR>non fare lo stesso monotono lavoro per tutto l'anno, e<BR>abbandonarlo in estate, se davvero non si trovasse il modo<BR>di tenere in funzione la fabbrica organizzando dei turni.<BR>179<BR>La disseminazione delle industrie per tutto il Paese -<BR>in modo da portare la fabbrica tra i campi e da apportare<BR>all'agricoltura tutti quei benefici che essa trae sempre<BR>dalla combinazione con l'industria (come avviene<BR>sulla costa orientale degli Stati Uniti) - è certamente il<BR>primo passo da compiere, non appena si sia resa possibile<BR>una riorganizzazione delle nostre condizioni attuali.<BR>E questo passo - che viene già fatto qua e là, come<BR>abbiamo visto nelle pagine precedenti - lo impone una<BR>necessità che è tale per gli stessi produttori: lo impone<BR>la necessità, per ogni uomo e donna sana, di passare<BR>parte della vita nel lavoro manuale all'aria aperta; e<BR>diventerà ancora più necessario quando i grandi sommovimenti<BR>sociali, oggi divenuti inevitabili, verranno a<BR>perturbare l'attuale scambio internazionale spingendo<BR>ogni nazione a fare ricorso alle proprie risorse per mantenersi.<BR>L'umanità intera, come ogni singolo individuo,<BR>guadagneranno nel cambio, e il cambio sarà inevitabile.<BR>Per noi, però, esso implica anche una completa modifica<BR>dell'attuale sistema educativo. Implica una società<BR>composta da uomini e donne capaci di lavorare con le<BR>proprie mani ma anche con il proprio cervello, e di farlo<BR>in più attività. È questa «integrazione di capacità», è<BR>questa «istruzione integrale», che intendo ora analizzare.<BR>180<BR>VIII<BR>Kropotkin svolge una critica radicale al collettivismo,<BR>cioè a quel sistema che intende mantenere la remunerazione<BR>individuale a fianco di una socializzazione dei<BR>mezzi di produzione. Il collettivismo sia esso libertario o<BR>autoritario, non attuando una trasformazione vera<BR>dell'esistente, implica una conseguenza contraddittoria,<BR>perché gli esiti della rivoluzione sociale risultano limitati<BR>da forme più arretrate dell'opera demolitrice della<BR>rivoluzione medesima; esso, in altri termini, dimostra i<BR>suoi limiti rispetto al compito immane dell'emancipazione<BR>integrale.<BR>Si pensi, ad esempio, al superamento della divisione<BR>gerarchica del lavoro sociale, vera base strutturale della<BR>disuguaglianza. Il regime collettivista, infatti, se da un<BR>lato intende socializzare i mezzi di produzione, dall'altro<BR>lascia intatta la diversa remunerazione individuale<BR>scaturita dalla differente qualità di lavoro erogata da<BR>ciascun membro della società. In tal modo, secondo Kropotkin,<BR>si costituisce la sanzione «socialista» della gerarchia<BR>sociale, la santificazione del principale ostacolo<BR>dell'obiettivo egualitario.<BR>Come Bakunin, Kropotkin ritiene che il superamento<BR>della divisione gerarchica del lavoro sia la via maestra<BR>per l'abolizione delle classi. Ancora una volta, la norma<BR>181<BR>del dover essere si coniuga con la constatazione dell'oggettività<BR>necessitante della sua utilità pratica. Ne deriva,<BR>in questo caso, l'idea del perseguimento dell'«uomo<BR>completo». L'integrazione del lavoro, infatti, mira a sviluppare<BR>un essere sociale «completo», mentre nello stesso<BR>tempo abolisce la gerarchia sociale che sta alla base di<BR>ogni disuguaglianza.<BR>Vi è qui una perfetta analogia con il rapporto cittàcampagna.<BR>Infatti, come il lavoro intellettuale è dominante<BR>rispetto a quello manuale, così la posizione della<BR>città è dominante rispetto a quella della campagna: non<BR>si può, insomma, integrare l'uno senza integrare l'altro.<BR>Perciò l'integrazione fra lavoro manuale e intellettuale è<BR>perfettamente complementare, in senso anarchico, a<BR>quella fra centro e periferia.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana di Campi, fabbriche officine del 19822,<BR>nella traduzione (rivista) di Franco Marano.<BR>182<BR>L'INTEGRAZIONE DEL LAVORO<BR>In passato gli scienziati, soprattutto quelli che maggiormente<BR>hanno contribuito allo sviluppo delle scienze<BR>naturali, non disdegnavano il lavoro e le attività<BR>manuali. Galileo si costruiva i telescopi da sé. Newton<BR>apprese da ragazzo l'arte di maneggiare gli utensili ed<BR>esercitava la sua giovane mente ideando le macchine<BR>più ingegnose; e quando intraprese le sue ricerche ottiche,<BR>fu in grado di fabbricarsi da solo le lenti per i suoi<BR>strumenti e di costruire, sempre da solo, il famoso telescopio,<BR>che rappresentò, per quei tempi, un ottimo<BR>esempio di abilità tecnica. Leibniz si dedicava con passione<BR>all'invenzione di macchine: mulini a vento e carri<BR>senza cavalli ne impegnavano la mente tanto quanto le<BR>speculazioni matematiche e filosofiche. Linneo divenne<BR>botanico aiutando suo padre, esperto giardiniere, nei<BR>183<BR>lavori di ogni giorno. In breve, per i grandi geni l'abilità<BR>manuale non costituiva un ostacolo alle ricerche teoriche:<BR>al contrario, le favoriva. D'altra parte, se in passato<BR>gli operai avevano ben poche occasioni di esercitare<BR>la scienza, molti di loro trovavano però uno stimolo<BR>intellettuale nelle svariate occupazioni delle officine<BR>non specializzate di allora; e alcuni ebbero la fortuna di<BR>intrattenere rapporti amichevoli con uomini di scienza.<BR>Watt e Rennie furono amici del professor Robinson; lo<BR>stradino Brindley, malgrado il suo salario di 14 scellini<BR>giornalieri, frequentava uomini istruiti ed ebbe così<BR>modo di sviluppare le proprie notevoli doti ingegneristiche;<BR>il rampollo di una famiglia benestante poteva «perder<BR>tempo» nella bottega di un carradore, preparandosi<BR>a divenire, più tardi, uno Smeaton o uno Stephenson.<BR>Tutto questo è cambiato. Col pretesto della divisione<BR>del lavoro, abbiamo nettamente separato il lavoratore<BR>intellettuale dal lavoratore manuale. La massa degli<BR>operai non riceve oggi maggiore istruzione scientifica di<BR>quanta ne ricevessero le generazioni passate; anzi, è<BR>stata privata persino dell'istruzione che può dare la piccola<BR>officina, mentre i suoi figli e figlie, dai tredici anni<BR>in poi, vengono avviati in miniera o in fabbrica, e lì<BR>dimenticano ben presto quel poco che hanno potuto<BR>imparare a scuola. Quanto agli uomini di scienza, essi<BR>disprezzano il lavoro manuale. Pochi sarebbero in grado<BR>di costruire un telescopio, o anche uno strumento<BR>meno complesso! La maggior parte non sarebbe neppure<BR>capace di disegnare uno strumento scientifico, e una<BR>volta dato allo strumentista un vago suggerimento,<BR>lascia a lui il compito di creare l'apparecchio di cui ha<BR>bisogno. Per di più, hanno elevato il disprezzo per il<BR>lavoro manuale a livello di teoria. «All'uomo di scienza»,<BR>affermano, «scoprire le leggi della natura, all'ingegnere<BR>applicarle, e all'operaio eseguire in acciaio o in legno, in<BR>ferro o in pietra, i progetti ideati dall'ingegnere. Egli<BR>deve lavorare con le macchine ideate per lui, ma non da<BR>lui. Non importa che non le capisca e non sia in grado<BR>di perfezionarle: lo scienziato e l'ingegnere penseranno<BR>184<BR>al progresso della scienza e dell'industria».<BR>Si potrebbe obiettare che, ciononostante, esiste una<BR>classe di uomini che non rientra in nessuna delle tre<BR>categorie appena delineate. Da giovani sono stati lavoratori<BR>manuali, e alcuni lo rimangono, ma grazie a fortunate<BR>circostanze sono riusciti ad acquisire una certa<BR>preparazione scientifica e hanno perciò combinato la<BR>scienza con il mestiere. Uomini del genere esistono, e<BR>siamo fortunati che sia rimasto un certo numero di individui<BR>sfuggiti alla tanto decantata specializzazione del<BR>lavoro perché è proprio a loro che l'industria deve le sue<BR>principali e più recenti invenzioni. Ma nella vecchia<BR>Europa rappresentano un'eccezione: sono gli irregolari,<BR>i «cosacchi» che hanno rotto le righe e sfondato le barriere<BR>tanto laboriosamente erette tra le classi. E sono così<BR>poco numerosi, in confronto alle sempre crescenti esigenze<BR>dell'industria - e della scienza - che tutto il mondo<BR>lamenta proprio la scarsità di uomini del genere.<BR>Come si spiega, in effetti, la pressante richiesta di<BR>insegnamento professionale sorta simultaneamente in<BR>Inghilterra, Francia, Germania, Stati Uniti e Russia, se<BR>non come la conseguenza di un generale malcontento<BR>verso l'attuale divisione tra scienziati, ingegneri e operai?<BR>Prestate orecchio a coloro che conoscono l'industria<BR>e sentirete che proprio questo è l'oggetto delle loro<BR>lamentele: «L'operaio, le cui mansioni sono diventate<BR>così specialistiche a causa della divisione permanente<BR>del lavoro, ha perduto ogni interesse intellettuale nel<BR>proprio lavoro, e ciò è avvenuto soprattutto nelle grandi<BR>industrie: egli ha perso le sue capacità creative. Una<BR>volta creava in continuazione. È ai lavoratori manuali -<BR>e non agli uomini di scienza o agli esperti di ingegneria<BR>- che si deve l'invenzione o il perfezionamento dei<BR>motori e di tutta quella massa di macchinari che hanno<BR>rivoluzionato l'industria negli ultimi cento anni. Ma da<BR>quando è sorta la grande fabbrica, l'operaio, depresso<BR>dalla monotonia del proprio lavoro, non crea più nulla.<BR>Che cosa potrebbe inventare, infatti, un tessitore impegnato<BR>soltanto a sorvegliare quattro telai, senza sapere<BR>185<BR>nulla dei loro complicati movimenti o del modo in cui<BR>queste macchine sono state concepite? Che cosa potrebbe<BR>creare un uomo condannato per tutta la vita ad<BR>annodare alla massima velocità i capi di due fili e capace<BR>soltanto di fare un nodo?<BR>«All'inizio dell'industria moderna, tre generazioni di<BR>operai sono stati capaci di inventare: oggi non lo fanno<BR>più. Quanto alle invenzioni degli ingegneri particolarmente<BR>esperti nella progettazione di macchine, o non<BR>sono affatto geniali, o non sono abbastanza pratiche.<BR>Mancano in tali invenzioni quei 'nonnulla' di cui parlava<BR>una volta a Bath sir Frederick Bramwell - quei nonnulla<BR>che si possono apprendere solo in officina e che<BR>permisero a Murdoch e agli operai di Soho di ricavare<BR>una macchina vera dai disegni di Watt. Solo chi conosce<BR>la macchina, non soltanto nei progetti e nei modelli ma<BR>nel respiro e nelle pulsazioni, solo chi inconsciamente la<BR>pensa mentre le sta vicino, può veramente perfezionarla.<BR>Smeaton e Newcomen erano certamente eccellenti<BR>ingegneri, ma nei loro motori un ragazzo doveva aprire<BR>la valvola del vapore a ogni colpo di pistone, e fu proprio<BR>uno di questi ragazzi a scoprire un giorno il modo<BR>di collegare la valvola al resto della macchina perché si<BR>aprisse automaticamente, mentre egli si allontanava<BR>per giocare con i compagni. Tuttavia, nei macchinari<BR>moderni i perfezionamenti improvvisati come questi<BR>non sono più possibili. E se per ulteriori invenzioni è<BR>diventata necessaria l'istruzione scientifica su larga<BR>scala, questa istruzione viene negata agli operai. E non<BR>c'è verso di superare tale difficoltà, a meno che istruzione<BR>scientifica e mestiere non vengano combinati; a<BR>meno che l'integrazione delle conoscenze non sostituisca<BR>le attuali specializzazioni».<BR>Ecco la vera sostanza dell'attuale movimento a favore<BR>dell'insegnamento professionale. Ma invece di chiarire<BR>al pubblico le ragioni, forse incomprese, dell'attuale<BR>malcontento, invece di allargare l'orizzonte degli scontenti<BR>e discutere il problema in tutta la sua estensione,<BR>i promotori del movimento non oltrepassano, in genere,<BR>186<BR>il punto di vista di un bottegaio. Alcuni si perdono in<BR>chiacchiere sulla necessità di annientare la concorrenza<BR>di tutte le industrie straniere; altri vedono nell'insegnamento<BR>professionale solo uno strumento per perfezionare<BR>leggermente la macchina di carne della fabbrica e<BR>promuovere alcuni operai alla classe superiore degli<BR>ingegneri.<BR>Un simile ideale può bastare a loro, ma non certo a<BR>quanti, tenendo ben presenti gli interessi comuni della<BR>scienza e dell'industria, considerano entrambe come il<BR>mezzo per elevare il livello dell'umanità. Noi sosteniamo<BR>che, nell'interesse della scienza e dell'industria,<BR>come anche della società nel suo complesso, ogni essere<BR>umano, senza distinzione di nascita, dovrebbe ricevere<BR>un'istruzione tale da permettergli di unire una solida<BR>preparazione scientifica a una solida preparazione professionale.<BR>Riconosciamo, certo, la necessità di una preparazione<BR>specialistica, ma sosteniamo anche che la<BR>specializzazione viene dopo l'istruzione generale e che<BR>l'istruzione generale deve comprendere tanto la scienza<BR>quanto il mestiere. Alla divisione della società tra lavoratori<BR>intellettuali e lavoratori manuali contrapponiamo<BR>l'unione di entrambi i tipi di attività; e invece che<BR>per l'«insegnamento professionale», che sottintende il<BR>mantenimento dell'attuale divisione tra lavoro intellettuale<BR>e lavoro manuale, siamo per l'éducation intégrale,<BR>l'istruzione integrale, che comporta la scomparsa di tale<BR>nociva distinzione.<BR>In parole povere, lo scopo della scuola in un simile<BR>sistema dovrebbe essere il seguente: impartire un'istruzione<BR>tale che, nel lasciare la scuola all'età di diciottovent'anni,<BR>ragazzi e ragazze fossero provvisti di una<BR>solida preparazione scientifica - una preparazione che<BR>ne facesse dei validi lavoratori scientifici - e nello stesso<BR>tempo avessero in pugno le basi della preparazione<BR>professionale; inoltre, dovrebbero disporre di una particolare<BR>specializzazione in grado di assicurare loro un<BR>posto nel grande mondo della produzione manuale di<BR>ricchezza. So che molti troveranno questo scopo troppo<BR>187<BR>ambizioso, o addirittura impossibile da raggiungere,<BR>ma spero che, se avranno la pazienza di leggere le pagine<BR>che seguono, si accorgano che non chiediamo nulla di<BR>irrealizzabile. In effetti, tale scopo è già stato raggiunto,<BR>e ciò che si è fatto in piccolo lo si potrebbe fare più in<BR>grande se cause economiche e sociali non impedissero<BR>l'attuazione di ogni seria riforma nella nostra società<BR>così infelicemente organizzata.<BR>Lo spreco di tempo è l'aspetto dominante della nostra<BR>attuale istruzione. Non solo si insegnano un mucchio di<BR>cose inutili, ma ciò che inutile non è ci viene comunque<BR>insegnato in modo da farci sprecare su di esso quanto<BR>più tempo possibile. I nostri attuali metodi di insegnamento<BR>risalgono a un tempo in cui le doti richieste a<BR>una persona istruita erano estremamente limitate, e<BR>sono rimasti inalterati anche se la mole di nozioni da<BR>indirizzare alla mente dello scolaro, dopo che la scienza<BR>ha tanto esteso i suoi antichi confini, sia immensamente<BR>cresciuta. Di qui l'oppressività delle scuole, e sempre<BR>di qui l'urgenza di rivedere interamente sia gli argomenti<BR>sia i metodi di insegnamento in base alle nuove<BR>esigenze e agli esempi già forniti, qui e là, da singole<BR>scuole e da singoli educatori.<BR>È evidente che gli anni dell'infanzia non andrebbero<BR>sprecati come oggi. I pedagoghi tedeschi hanno dimostrato<BR>come gli stessi giochi infantili possano servire a<BR>indirizzare alla mente dei bambini qualche nozione concreta<BR>di geometria e di matematica. I bambini che hanno<BR>realizzato i quadrati del teorema di Pitagora con dei<BR>pezzi di cartone colorato non considereranno il teorema,<BR>quando lo ritroveranno in geometria, come un semplice<BR>strumento di tortura inventato dagli insegnanti; e ciò<BR>sarà più vero se lo applicheranno come lo applicano i<BR>carpentieri. I complicati problemi di aritmetica, che<BR>hanno tanto tormentato la nostra infanzia, vengono<BR>facilmente risolti da bambini di sette-otto anni se posti<BR>sotto forma di interessanti giochi di pazienza. E se il<BR>Kindergarten - che i pedagoghi tedeschi spesso trasformano<BR>in una specie di caserma, dove ogni movimento<BR>188<BR>del bambino è regolato in anticipo - è spesso divenuto<BR>una prigione per i piccoli, l'idea dalla quale è nato è ciononostante<BR>valida. In effetti, è quasi impossibile immaginare,<BR>senza averlo verificato, quante solide nozioni<BR>naturali, quante abitudini alla classificazione e quanto<BR>gusto per le scienze naturali possano essere indirizzati<BR>alle menti dei bambini. E se l'idea di una serie di corsi<BR>concentrici, adeguati alle diverse fasi di sviluppo<BR>dell'essere umano, venisse generalmente accolta nell'istruzione,<BR>il primo corso di ogni scienza, eccettuata la<BR>sociologia, potrebbe essere insegnato prima dei diecidodici<BR>anni, dando così una visione generale dell'universo,<BR>della Terra e dei suoi abitanti, e dei principali fenomeni<BR>fisici, chimici, zoologici e botanici, e lasciando la<BR>scoperta delle leggi di tali fenomeni a corsi successivi<BR>più approfonditi e specializzati.<BR>D'altra parte, sappiamo tutti come i bambini amino<BR>costruirsi da soli i giocattoli e come imitino spontaneamente<BR>le occupazioni degli adulti quando li vedono al<BR>lavoro in officina o nel cantiere. Ma i genitori talvolta<BR>bloccano stupidamente questa passione, talvolta non<BR>sanno come utilizzarla. La maggior parte disprezza il<BR>lavoro manuale e preferisce far studiare ai bambini la<BR>storia romana, o i precetti di Franklin sul risparmio,<BR>anziché vederli al lavoro, buono «solo per le classi inferiori<BR>». E in questo modo fanno del loro meglio per rendere<BR>più difficile l'apprendimento successivo.<BR>Poi arrivano gli anni della scuola, e il tempo viene di<BR>nuovo incredibilmente sprecato. Prendiamo, ad esempio,<BR>la matematica, che tutti dovrebbero conoscere in<BR>quanto costituisce la base di ogni successiva istruzione,<BR>e che pochi imparano veramente nelle nostre scuole. In<BR>geometria il tempo viene scioccamente sprecato con<BR>l'uso del metodo mnemonico. Nella maggioranza dei<BR>casi, il ragazzo legge e rilegge più volte la dimostrazione<BR>di un teorema, fino a quando non ha imparato a<BR>memoria la successione dei ragionamenti. È per questo<BR>che nove ragazzi su dieci, alla richiesta di dimostrare<BR>un semplice teorema due anni dopo aver lasciato la<BR>189<BR>scuola, saranno incapaci di farlo, a meno che la matematica<BR>non sia la loro specializzazione. Essi avranno<BR>dimenticato le linee ausiliarie da tracciare non avendo<BR>mai imparato a scoprire le prove da soli. Nessuna<BR>meraviglia se più tardi, nell'applicare la geometria alla<BR>fisica, incontreranno tante difficoltà, se il loro progresso<BR>sarà disperatamente lento, e se pochi saranno in grado<BR>di padroneggiare la matematica più complessa.<BR>Esiste, tuttavia, un altro metodo, che consente<BR>all'allievo di progredire, nel complesso, molto più velocemente<BR>e con il quale chi ha imparato la geometria<BR>non la dimenticherà più. Con questo sistema, ogni teorema<BR>viene posto come un problema; la soluzione non<BR>viene mai data in anticipo, ma l'allievo è costretto a trovarla<BR>da solo. Così, se si sono fatti degli esercizi preliminari<BR>con il regolo e il compasso, non c'è ragazzo o ragazza<BR>che non riesca a tracciare un angolo uguale a un<BR>altro dato angolo e a dimostrarne l'uguaglianza dietro<BR>pochi suggerimenti dell'insegnante; e se i problemi<BR>seguenti vengono dati in successione sistematica (esistono<BR>testi eccellenti in materia) e l'insegnante non<BR>costringe gli allievi ad andare più in fretta di quanto<BR>all'inizio siano in grado, questi passeranno da un problema<BR>all'altro con facilità sorprendente, una volta<BR>superata la difficoltà iniziale di indurre l'allievo a risolvere<BR>il primo e perciò ad acquistare fiducia nel suo stesso<BR>ragionamento.<BR>Inoltre, ogni verità geometrica astratta va impressa<BR>nella mente anche nella sua forma concreta. Non appena<BR>gli allievi avranno risolto dei problemi sulla carta, li<BR>si spinga a risolverli anche sul campo da gioco con dei<BR>bastoncini e uno spago, e ad applicare la propria conoscenza<BR>in officina. Solo allora le linee geometriche assumeranno<BR>un significato concreto nella mente dei bambini;<BR>solo allora questi si accorgeranno che l'insegnante<BR>non li prende in giro quando chiede loro di risolvere i<BR>problemi con il regolo e il compasso senza ricorrere al<BR>goniometro; solo allora conosceranno la geometria.<BR>«Dagli occhi e dalla mano al cervello»: è questo il vero<BR>190<BR>modo per risparmiare tempo nell'insegnamento. Ricordo,<BR>come fosse ieri, in che modo la geometria acquistasse<BR>per me, improvvisamente, un nuovo significato, e<BR>come questo nuovo significato mi facilitasse ogni studio<BR>successivo. Fu mentre a scuola lavoravamo attorno a<BR>una mongolfiera, e io osservai come l'angolo in cima a<BR>ognuna delle venti strisce di carta che costituivano il<BR>pallone dovesse coprire meno d'un quinto di angolo retto.<BR>Ricordo poi come seni e tangenti cessassero di essere<BR>semplici segni cabalistici quando ci permisero di calcolare<BR>la lunghezza di un bastoncino nell'eseguire la sezione<BR>di un fortino, e come la geometria dello spazio si<BR>facesse semplice quando cominciammo a costruire un<BR>piccolo bastione con feritoie e barbette: occupazione che<BR>naturalmente ci fu subito proibita per lo stato in cui<BR>riducemmo i nostri vestiti. «Sembrate degli sterratori»,<BR>ci rimproverarono i nostri sapienti insegnanti, mentre<BR>noi eravamo orgogliosi proprio di questo e di avere scoperto<BR>l'uso della geometria.<BR>Obbligando i nostri figli a studiare cose reali su semplici<BR>rappresentazioni grafiche, invece di fargliele fare<BR>direttamente, li costringiamo a sprecare un tempo prezioso;<BR>ne impegniamo inutilmente le menti; li abituiamo<BR>ai peggiori metodi di apprendimento; uccidiamo sul<BR>nascere l'indipendenza del pensiero; e molto raramente<BR>riusciamo a dar loro un'idea concreta di quanto insegniamo.<BR>Superficialità, ripetizioni a pappagallo, schiavitù<BR>e inerzia mentale: ecco i risultati del nostro metodo<BR>di insegnamento. Ai nostri bambini non insegniamo ad<BR>apprendere.<BR>Anche l'insegnamento dei princìpi scientifici segue il<BR>medesimo deleterio sistema. Nella maggior parte delle<BR>scuole l'aritmetica viene insegnata in modo astratto,<BR>imbottendo le povere testoline di semplici regole. In<BR>questo Paese, negli Stati Uniti e in Russia, invece di<BR>accettare il sistema metrico decimale, si torturano<BR>ancora i bambini insegnando loro un sistema di pesi e<BR>misure superato già da un pezzo.<BR>Il tempo che si spreca per la fisica è semplicemente<BR>191<BR>indecente. Mentre i giovani comprendono molto facilmente<BR>i princìpi della chimica e le sue formule non<BR>appena passano a fare direttamente i primi esperimenti<BR>con ampolle e provette, trovano infinitamente difficile<BR>impadronirsi dell'introduzione meccanica alla fisica, in<BR>parte perché non conoscono la geometria, ma soprattutto<BR>perché vengono loro mostrate solo macchine costose<BR>invece di essere indotti a costruire direttamente i semplici<BR>apparecchi che illustrano i fenomeni studiati.<BR>Invece di apprendere le leggi dell'energia per mezzo<BR>di semplici strumenti che anche un ragazzo di quindici<BR>anni sarebbe in grado di costruire, le imparano dai<BR>disegni, in modo completamente astratto. Invece di<BR>costruire direttamente una macchina di Atwood con un<BR>manico di scopa e il bilanciere di un vecchio orologio, o<BR>di verificare le leggi della caduta dei corpi facendo scivolare<BR>una chiave su una cordicella inclinata, si mostra<BR>loro un complicato apparecchio, e nella maggior parte<BR>dei casi lo stesso insegnante non riesce a spiegare il<BR>principio perdendosi in dettagli irrilevanti. In realtà,<BR>ogni apparecchio che serva ad illustrare le leggi fondamentali<BR>della fisica andrebbe costruito dagli stessi<BR>ragazzi.<BR>Lo spreco di tempo è la caratteristica non solo dei<BR>nostri metodi di insegnamento scientifico, ma anche dei<BR>metodi usati nell'insegnamento professionale. Sappiamo<BR>bene quanti anni sprechi un ragazzo che fa tirocinio<BR>in officina. Ma lo stesso rimprovero lo si può rivolgere a<BR>maggior ragione a quelle scuole professionali che cercano<BR>di insegnare, tutto in una volta, un qualche mestiere<BR>particolare, invece di ricorrere ai metodi più completi e<BR>sicuri dell'insegnamento sistematico.<BR>Ogni macchina, per quanto complicata, la si può<BR>ridurre a pochi elementi (piastre, cilindri, dischi, coni,<BR>ecc.) e a pochi attrezzi (scalpelli, seghe, rulli, martelli<BR>ecc.), e per quanto complicati siano i suoi movimenti, li<BR>si può ricondurre a poche variazioni del moto, come la<BR>trasformazione del moto circolare in rettilineo e simili,<BR>con una quantità di fasi intermedie. Allo stesso modo,<BR>192<BR>ogni mestiere può essere scomposto in un certo numero<BR>di elementi. In ogni mestiere si deve saper fare una piastra<BR>a facce parallele, un cilindro, un disco, un foro quadrato<BR>e uno rotondo; si deve saper maneggiare un<BR>numero limitato di attrezzi, dato che tutti gli attrezzi<BR>sono semplici modifiche di una decina di tipi; e si deve<BR>saper trasformare un tipo di moto in un altro. È questa<BR>la base di tutti i mestieri meccanici, sicché la capacità<BR>di eseguire in legno quegli elementi primari e di trasformare<BR>i vari tipi di moto andrebbe considerata la<BR>vera base dell'ulteriore insegnamento di ogni mestiere<BR>meccanico. L'allievo fornito di tali capacità conosce già<BR>una buona metà di tutti i mestieri possibili.<BR>Si tratti di un mestiere, di scienza o di arte, lo scopo<BR>principale della scuola non è di trasformare il principiante<BR>in uno specialista, ma di dargli una preparazione<BR>e buoni metodi di lavoro, e soprattutto di infondergli<BR>quella generale ispirazione che lo spingerà più tardi, in<BR>qualsiasi cosa faccia, a una sincera ricerca della verità,<BR>ad amare tutto ciò che è bello, sia nella forma sia nel<BR>contenuto, a sentire il bisogno di rendersi utile insieme<BR>a tutti gli altri uomini e portare così il suo cuore all'unisono<BR>con il resto dell'umanità.<BR>Quanto ad evitare all'allievo la monotonia di un lavoro<BR>durante il quale non farebbe che cilindri e dischi, e<BR>mai macchine complete o altri oggetti utili, vi sono<BR>migliaia di mezzi per ovviare alla mancanza di interesse<BR>e uno di essi, utilizzato a Mosca, è degno di menzione.<BR>Si tratta di non attribuire un lavoro come semplice<BR>esercizio, ma di utilizzare qualsiasi cosa l'allievo faccia<BR>sin dalle prime lezioni. Ricordate con quale compiacimento,<BR>da bambini, vedevate il vostro lavoro utilizzato,<BR>anche solo come accessorio di qualcosa di utile? E così si<BR>faceva alla Scuola Professionale di Mosca. Ogni asse<BR>piallata dagli allievi veniva adoperata come accessorio<BR>di una macchina in una qualche officina. Quando un<BR>allievo, una volta ammesso al laboratorio di ingegneria,<BR>veniva messo a eseguire un blocco quadrangolare di ferro<BR>a lati paralleli e perpendicolari, quel blocco assume-<BR>193<BR>va ai suoi occhi un certo interesse visto che una volta<BR>terminato, dopo aver verificato angoli e lati e corretto i<BR>difetti, non finiva sotto il banco, ma veniva passato a<BR>un altro allievo più esperto che vi aggiungeva una<BR>maniglia, lo verniciava e lo mandava al negozio della<BR>scuola come fermacarte. L'insegnamento sistematico<BR>acquistava così le dovute attrattive. (La vendita dei<BR>lavori eseguiti dagli allievi non era affatto trascurabile,<BR>soprattutto per i corsi avanzati dove si costruivano<BR>macchine a vapore. Proprio per questo la Scuola Professionale<BR>di Mosca, al tempo in cui la conobbi, era una<BR>delle più economiche del mondo. Pensione e insegnamento<BR>costavano molto poco. Ma provate a immaginare<BR>una scuola annessa a una fattoria dove si coltivassero e<BR>scambiassero derrate a prezzo di costo: quanto costerebbe<BR>in tal caso l'insegnamento?).<BR>È evidente che la rapidità del lavoro è un fattore<BR>importantissimo per la produzione. E dunque non possiamo<BR>non chiederci se, con il sistema sopra accennato,<BR>si raggiunga la necessaria rapidità. Ma vi sono due<BR>generi di rapidità. C'è la rapidità che ebbi modo di<BR>osservare in una fabbrica di merletti di Nottingham:<BR>uomini maturi, mani e teste percorse da un tremito,<BR>annodavano febbrilmente i capi di due fili di cotone<BR>rimasti nelle bobine; a stento si riusciva a seguirne i<BR>movimenti. Ma il fatto stesso che una fabbrica richieda<BR>una rapidità di esecuzione come questa basta da solo a<BR>condannarla. Che cosa è rimasto dell'essere umano in<BR>quei corpi tremolanti? Quale sarà il loro futuro? Perché<BR>questo spreco di energie umane quando le stesse<BR>potrebbero produrre dieci volte il valore di quegli scarti?<BR>Questo genere di rapidità dipende esclusivamente<BR>dal basso costo degli schiavi di fabbrica; ci auguriamo<BR>dunque che nessuna scuola tenti mai di esigerla. Ma c'è<BR>anche la rapidità dell'operaio preparato che permette di<BR>risparmiare tempo, e ad essa si può arrivare facilmente<BR>con il tipo di istruzione da noi proposta. Per quanto<BR>semplice sia il suo lavoro, l'operaio istruito lo svolge<BR>meglio e più in fretta di quello non istruito. Osservia-<BR>194<BR>mo, ad esempio, i gesti di un bravo operaio quando<BR>taglia qualcosa - diciamo un pezzo di cartone - e confrontiamoli<BR>con quelli di un operaio poco esperto. Quest'ultimo<BR>afferra il cartone, prende l'attrezzo così com'è,<BR>traccia una linea a casaccio e comincia a tagliare; a<BR>metà strada è già stanco e, quando ha finito, il suo lavoro<BR>non serve a nulla; il primo, invece, esaminerà il suo<BR>attrezzo e lo perfezionerà se necessario, traccerà la<BR>linea con esattezza, fisserà regolo e cartone, terrà<BR>l'attrezzo nel modo giusto, taglierà molto facilmente e<BR>consegnerà un lavoro ben fatto.<BR>Ecco la vera rapidità, quella che consente di risparmiare<BR>tempo e lavoro; e il miglior modo d'arrivarci è<BR>un'istruzione di tipo veramente superiore. I grandi<BR>maestri dipingevano con rapidità prodigiosa, ma la loro<BR>rapidità derivava da un grande sviluppo dell'intelligenza<BR>e dell'immaginazione, da un profondo senso della<BR>bellezza, da una sofisticata percezione dei colori. Ed è<BR>proprio questo il genere di rapidità di lavoro di cui<BR>l'umanità ha bisogno.<BR>Vi sarebbero ancora molte cose da dire sui compiti<BR>della scuola, ma mi limito ad aggiungere qualcosa<BR>sull'auspicabilità del tipo di istruzione brevemente tratteggiato<BR>nelle pagine precedenti. Certamente non mi<BR>illudo sulla realizzazione di una riforma radicale, o<BR>anche soltanto parziale, dell'istruzione finché le nazioni<BR>civili rimarranno legate all'attuale sistema, meschino<BR>ed egoistico, di produzione e di consumo. Tutto ciò che<BR>possiamo aspettarci, fino a quando dureranno le condizioni<BR>attuali, sono dei microscopici tentativi di riforma,<BR>fatti qua e là e marginali; tentativi che si fermeranno,<BR>ovviamente, molto lontano dai risultati auspicati, data<BR>l'impossibilità di riforme anche marginali quando sussiste<BR>un legame così stretto fra le molteplici funzioni di<BR>una nazione civile. Ma la potenza del genio costruttore<BR>della società dipende principalmente da quanto profonda<BR>è la sua opinione riguardo a ciò che andrebbe fatto e<BR>sul come realizzarlo. La necessità di rimodellare l'istruzione<BR>è una di quelle universalmente riconosciute, la<BR>195<BR>più adatta a ispirare nella società quegli ideali senza i<BR>quali il ristagno, o addirittura la decadenza, si presentano<BR>inevitabili.<BR>Supponiamo perciò che una comunità - una città, o<BR>un territorio di almeno qualche milione di abitanti -<BR>fornisca a tutti i suoi bambini, senza distinzione di<BR>nascita (e siamo abbastanza ricchi da concedercene il<BR>lusso), l'istruzione che abbiamo tratteggiato, senza<BR>chiedere loro in cambio null'altro all'infuori di quello<BR>che essi daranno una volta divenuti produttori di ricchezza.<BR>Supponiamo che questa istruzione venga introdotta<BR>e analizziamone le probabili conseguenze.<BR>Non insisterò sull'aumento della ricchezza che risulterebbe<BR>dalla disponibilità di un giovane esercito di<BR>istruiti ed esperti produttori; e neppure mi dilungherò<BR>sui benefici sociali che deriverebbero sia dall'annullamento<BR>della distinzione attuale tra lavoratori intellettuali<BR>e lavoratori manuali, sia dalla raggiunta comunanza<BR>di interessi e dall'armonia tanto necessaria in<BR>questi tempi di lotte sociali. Non mi dilungherò neanche<BR>sull'esistenza più completa di cui ogni singolo individuo<BR>godrebbe se gli si consentisse di servirsi appieno<BR>delle proprie capacità intellettuali e fisiche, né sui vantaggi<BR>che si ricaverebbero collocando il lavoro manuale<BR>al posto di onore che gli spetta nella società (mentre<BR>oggi rappresenta un marchio di inferiorità). E non insisterò<BR>neppure sulla scomparsa dell'attuale miseria e<BR>degradazione e delle loro conseguenze - immoralità,<BR>crimine, carceri, delazione e simili - che necessariamente<BR>seguirebbe. In breve, non entrerò adesso nella<BR>grande questione sociale, sulla quale tanto è stato scritto<BR>e tanto rimane ancora da scrivere. Voglio soltanto<BR>mettere in rilievo, in queste pagine, i benefici che la<BR>scienza stessa trarrebbe dal mutamento.<BR>Alcuni diranno, naturalmente, che ridurre gli uomini<BR>di scienza al ruolo di lavoratori manuali provocherebbe<BR>il decadimento della scienza e del genio. Ma chi terrà<BR>conto delle considerazioni che seguono si renderà conto<BR>che è vero l'opposto, cioè che provocherebbe un tale<BR>196<BR>risveglio della scienza e dell'arte, e un tale progresso<BR>dell'industria, che possiamo farcene solo una pallidissima<BR>idea grazie anche a ciò che sappiamo dell'epoca<BR>rinascimentale. È diventato un luogo comune magnificare<BR>i progressi della società durante il XIX secolo, ed è<BR>evidente che questo secolo, se confrontato ai precedenti,<BR>ha molte ragioni di vanto. Ma se teniamo presente che<BR>la maggior parte dei problemi che ha risolto erano già<BR>stati evidenziati, e le loro soluzioni previste, un centinaio<BR>di anni prima, dobbiamo riconoscere che il progresso<BR>non è stato così rapido come si sarebbe voluto e<BR>che qualcosa lo ha ostacolato.<BR>La teoria meccanica del calore era stata perfettamente<BR>prospettata nel secolo precedente da Rumford e da<BR>Humphry Davy, e sostenuta anche in Russia da Lomonosoff.<BR>Eppure, ben più di mezzo secolo è passato prima<BR>che la teoria riapparisse nella scienza. Lamarck, ma<BR>anche Linneo, Geoffroy Saint-Hilaire, Erasmo, Darwin<BR>e parecchi altri si rendevano perfettamente conto della<BR>mutabilità della specie e si avviavano ad aprire la strada<BR>alla costruzione della biologia sui princìpi della<BR>mutazione; ma anche qui si dovettero perdere altri cinquant'anni<BR>prima che la mutazione tornasse alla ribalta.<BR>Va anche ricordato come le idee di Darwin fossero<BR>soprattutto portate avanti, e imposte all'attenzione del<BR>mondo accademico, da persone che non erano scienziati<BR>professionisti; e presso lo stesso Darwin la teoria<BR>dell'evoluzione ha avuto limiti ristretti per l'importanza<BR>preponderante attribuita a uno solo dei fattori dell'evoluzione.<BR>In breve, non c'è una sola scienza che non risenta,<BR>nel suo sviluppo, della mancanza di uomini e donne<BR>dotati di una concezione filosofica dell'universo, pronti<BR>ad applicare il proprio spirito di ricerca in un dato campo,<BR>per quanto limitato, e sufficientemente provvisti di<BR>tempo per votarsi al lavoro scientifico. In una comunità<BR>come quella che noi immaginiamo, migliaia di lavoratori<BR>sarebbero pronti a rispondere a qualsiasi appello in<BR>nome della ricerca. Darwin spese quasi trent'anni della<BR>197<BR>sua vita a raccogliere e analizzare i fenomeni necessari<BR>all'elaborazione della teoria sull'origine della specie. Se<BR>fosse vissuto in una società come quella da noi ipotizzata,<BR>gli sarebbe bastato fare appello a dei volontari che si<BR>dedicassero alla ricerca dei fenomeni e alla sperimentazione<BR>particolare, e migliaia di esploratori avrebbero<BR>risposto al suo appello. Decine di associazioni sarebbero<BR>sorte per dibattere e risolvere ciascuno dei problemi<BR>particolari implicati dalla teoria, così che in dieci anni<BR>se ne sarebbe avuta la verifica; e tutti i fattori dell'evoluzione,<BR>ai quali soltanto oggi si comincia ad accordare<BR>la necessaria attenzione, sarebbero apparsi in piena<BR>luce. Il progresso scientifico sarebbe stato dieci volte<BR>più rapido, e se pure il singolo non avrebbe gli stessi<BR>diritti alla gratitudine dei posteri che ha oggi, la massa<BR>sconosciuta avrebbe eseguito il lavoro più velocemente<BR>e dischiuso al progresso futuro prospettive maggiori di<BR>quante può aprirne il singolo in una vita intera.<BR>Ma c'è un altro aspetto della scienza moderna che<BR>depone ancora più imperiosamente a favore del cambiamento<BR>che sosteniamo. Mentre l'industria, soprattutto<BR>dalla fine del secolo scorso e durante la prima parte<BR>dell'attuale, è andata moltiplicando le sue creazioni in<BR>misura tale da rivoluzionare la faccia stessa della Terra,<BR>la scienza è andata perdendo le sue capacità creative.<BR>Gli uomini di scienza non creano più nulla, o creano<BR>pochissimo. Non è sorprendente, in effetti, che la macchina<BR>a vapore, anche nei suoi princìpi fondamentali, la<BR>locomotiva, il battello a vapore, il telefono, il fonografo,<BR>il telaio meccanico, la macchina per merletti, il faro, la<BR>strada in macadam, la fotografia in bianco e nero e a<BR>colori, e migliaia di altre cose meno importanti, non siano<BR>state inventate da scienziati di professione? Eppure,<BR>nessuno di loro avrebbe rifiutato di associare il proprio<BR>nome a una qualsiasi di dette invenzioni. Uomini che<BR>avevano ricevuto, a scuola un'istruzione rudimentale,<BR>che avevano a malapena raccolto le briciole del sapere<BR>dalla tavola dei ricchi, e che effettuavano i propri esperimenti<BR>con i mezzi più primitivi - il commesso d'avvo-<BR>198<BR>cato Smeaton, l'attrezzista Watt, il frenatore Stephenson,<BR>l'apprendista-gioielliere Fulton, il costruttore di<BR>mulini Rennie, il muratore Telford, e centinaia di altri<BR>di cui persino il nome rimane sconosciuto - sono stati,<BR>come dice giustamente Smiles, «i veri creatori della<BR>civiltà moderna». Al contrario, gli scienziati di professione,<BR>provvisti di ogni mezzo necessario ad acquisire<BR>conoscenze e a sperimentare, hanno avuto ben poca<BR>parte nell'invenzione di quel formidabile complesso di<BR>apparecchi, macchine e motori che ha permesso<BR>all'umanità di utilizzare e di padroneggiare le forze della<BR>natura. (La chimica rappresenta, in genere, un'eccezione<BR>alla regola. Non sarà perché il chimico è in gran<BR>parte un lavoratore manuale? Inoltre, negli ultimi dieci<BR>anni si è notato un deciso risveglio della creatività<BR>scientifica, soprattutto in fisica: vale a dire, in un campo<BR>dove l'ingegnere e l'uomo di scienza hanno modo<BR>d'incontrarsi spesso). Il fatto è sorprendente, ma la sua<BR>ragione è molto semplice: quegli uomini - i Watt e gli<BR>Stephenson - sapevano qualcosa che i savants non sanno:<BR>sapevano servirsi delle mani; il loro ambiente ne<BR>stimolava le capacità creative; conoscevano le macchine<BR>nei loro princìpi fondamentali e nel loro funzionamento;<BR>avevano respirato l'atmosfera dell'officina e del cantiere.<BR>Ben sappiamo come gli uomini di scienza accoglieranno<BR>il rimprovero. Diranno: «Noi scopriamo le leggi<BR>della natura, lasciate che siano gli altri ad applicarle; si<BR>tratta semplicemente di dividere il lavoro». Ma una tale<BR>risposta è assolutamente falsa. La marcia del progresso<BR>segue la direzione opposta, poiché in novantanove casi<BR>su cento l'invenzione meccanica precede la scoperta della<BR>legge scientifica. Non è stata la teoria dinamica del<BR>calore a precedere la macchina a vapore, ma viceversa.<BR>Quando già migliaia di macchine, da più di mezzo<BR>secolo, trasformavano il calore in moto sotto gli occhi di<BR>centinaia di professori; quando già migliaia di treni,<BR>bloccati da freni potenti, approssimandosi alle stazioni<BR>sprigionavano calore e spandevano sui binari fasci di<BR>199<BR>scintille; quando già in tutto il mondo civile magli e<BR>perforatrici andavano rendendo incandescenti le masse<BR>di ferro loro sottoposte, allora e soltanto allora, Séguin<BR>in Francia e Mayer in Germania si arrischiarono a formulare<BR>la teoria meccanica del calore con tutte le sue<BR>conseguenze. Ma in aggiunta, gli uomini di scienza<BR>ignorarono il lavoro di Séguin e quasi spinsero Mayer<BR>alla pazzia aggrappandosi ostinatamente al loro misterioso<BR>fluido calorico. Peggio ancora, definirono «non<BR>scientifica» la prima enunciazione di Joule sull'equivalente<BR>meccanico del calore.<BR>Non fu la teoria dell'elettricità a darci il telegrafo.<BR>Quando il telegrafo venne inventato, tutto ciò che sapevamo<BR>sull'elettricità si riduceva a pochi fatti raccolti<BR>alla meno peggio nei nostri libri; ancora oggi la teoria<BR>dell'elettricità non è pronta ma aspetta sempre il suo<BR>Newton, nonostante i brillanti tentativi degli ultimi<BR>anni. Anche la conoscenza empirica sulle leggi della<BR>corrente elettrica si trovava al suo stadio primitivo<BR>quando pochi audaci stesero un cavo in fondo all'Atlantico,<BR>malgrado lo scetticismo degli uomini di scienza<BR>ufficiali.<BR>Il termine «scienza applicata» è assolutamente scorretto,<BR>poiché nella gran maggioranza dei casi le invenzioni,<BR>lungi dall'essere un'applicazione della scienza,<BR>creano al contrario un nuovo ramo di scienza. I ponti<BR>americani non sono affatto stati un'applicazione della<BR>teoria dell'elasticità: l'hanno preceduta, e tutto ciò che<BR>possiamo dire a favore della scienza è che, in questo<BR>particolare settore, teoria e pratica si sono sviluppate in<BR>modo parallelo, aiutandosi reciprocamente. E ancora,<BR>non è stata la teoria degli esplosivi a portare alla scoperta<BR>della polvere da sparo: la polvere da sparo la si è<BR>usata per secoli prima che l'azione dei gas in un fucile<BR>fosse sottoposta ad analisi scientifica. E così via.<BR>Naturalmente esiste un certo numero di casi in cui la<BR>scoperta o l'invenzione ha coinciso con la semplice<BR>applicazione di una legge scientifica (ad esempio con la<BR>scoperta del pianeta Nettuno); ma nell'immensa mag-<BR>200<BR>gioranza dei casi la scoperta o l'invenzione hanno degli<BR>inizi niente affatto scientifici. Esse rientrano molto più<BR>nel dominio delle arti - in quanto le arti prevalgono<BR>sulla scienza, come Helmholtz ha così bene dimostrato<BR>in una delle sue famose conferenze - e solo dopo che<BR>l'invenzione è stata fatta la scienza interviene a interpretarla.<BR>È ovvio che ogni invenzione si avvale delle<BR>cognizioni e delle idee accumulate in precedenza, ma<BR>nella maggioranza dei casi è in anticipo sulla conoscenza<BR>e balza nell'ignoto, aprendo così alla ricerca un insieme<BR>del tutto nuovo di fenomeni. Questo carattere dell'invenzione,<BR>che consiste nell'essere in anticipo sulle<BR>cognizioni del proprio tempo e non nell'applicare semplicemente<BR>una legge, la rende identica, nei processi<BR>intellettuali, alla scoperta; ne consegue che chi è lento<BR>nelle invenzioni lo è anche nelle scoperte.<BR>Nella maggior parte dei casi l'inventore, per quanto<BR>ispirato dallo stato generale della scienza in un dato<BR>momento, parte con pochissimi punti fermi a disposizione.<BR>I fenomeni scientifici che sono stati alla base<BR>dell'invenzione della macchina a vapore, o del telegrafo,<BR>o del fonografo, erano estremamente elementari. Sicché<BR>possiamo affermare che quanto conosciamo attualmente<BR>è già sufficiente per risolvere tutti i grandi problemi<BR>all'ordine del giorno: motori non a vapore, immagazzinaggio<BR>di energia, trasmissione di potenza, o macchine<BR>volanti. Se questi problemi non sono stati ancora risolti,<BR>lo si deve soltanto alla mancanza di spirito creativo,<BR>alla scarsità di uomini istruiti che ne siano dotati, e<BR>all'attuale separazione tra scienza e industria. [Lascio<BR>di proposito queste righe come nella prima edizione:<BR>tutte le invenzioni nominate sono già state realizzate].<BR>Da un lato, abbiamo uomini dotati di capacità creative,<BR>ma privi sia della necessaria preparazione scientifica<BR>sia dei mezzi atti a una sperimentazione che duri lunghi<BR>anni; dall'altro, abbiamo uomini preparati e in grado<BR>di sperimentare, ma privi di spirito creativo a causa<BR>della loro istruzione troppo astratta, troppo scolastica,<BR>troppo libresca, e dell'ambiente in cui vivono (per non<BR>201<BR>parlare del sistema dei brevetti, che divide e disperde<BR>gli sforzi degli inventori, anziché combinarli).<BR>Lo slancio dell'ingegno, che ha caratterizzato gli operai<BR>all'inizio della moderna era industriale, è mancato<BR>ai nostri scienziati di professione. E continuerà a mancare<BR>finché essi rimarranno estranei al mondo, perduti<BR>tra le loro polverose librerie; finché non si trasformeranno<BR>anch'essi in operai tra gli operai, alla vampa del<BR>forno in fonderia, alla macchina in fabbrica, al tornio<BR>nell'officina meccanica, marinai tra i marinai sul mare<BR>e pescatori sui pescherecci, boscaioli nella foresta, zappatori<BR>nei campi.<BR>I nostri critici d'arte - Ruskin e la sua scuola - ci<BR>hanno ripetuto di recente che è inutile aspettarci un<BR>risveglio dell'arte finché il lavoro manuale rimarrà<BR>quello che è; e ci hanno dimostrato come l'arte greca e<BR>l'arte medievale fossero figlie del lavoro manuale, come<BR>l'uno alimentasse l'altra. Altrettanto si può dire dei<BR>rapporti tra il lavoro manuale e la scienza: separarli<BR>significa farli decadere entrambi. Quanto alle grandi<BR>ispirazioni, purtroppo tanto trascurate nella maggioranza<BR>delle recenti discussioni sull'arte (e assenti anche<BR>nella scienza), possiamo aspettarcele soltanto da<BR>un'umanità che, spezzate le sue attuali catene, si avvii<BR>verso gli alti princìpi della solidarietà, liberandosi<BR>dell'attuale dualismo tra senso morale e filosofia.<BR>È evidente, comunque, che non tutti gli uomini e le<BR>donne potranno trarre uguale piacere dall'impegno<BR>scientifico. La varietà delle inclinazioni è tale che alcuni<BR>troveranno maggiore soddisfazione nella scienza,<BR>altri nell'arte, e altri ancora in qualcuno degli innumerevoli<BR>rami di produzione della ricchezza. Ma quali che<BR>siano le sue occupazioni preferite, ciascuno sarà tanto<BR>più utile nel proprio settore quanto più disporrà di una<BR>seria preparazione scientifica. E di chiunque si tratti -<BR>scienziato o artista, fisico o chirurgo, chimico o sociologo,<BR>storico o poeta - molti benefici trarrebbe dal passare<BR>parte della sua vita in officina o in fattoria (anzi, in officina<BR>e in fattoria) a contatto con la quotidianità del<BR>202<BR>lavoro umano, soddisfatto e consapevole di adempiere<BR>ai propri doveri di produttore non privilegiato di ricchezza.<BR>Come comprenderebbero meglio l'umanità, lo storico<BR>e il sociologo, se la conoscessero non soltanto dai libri,<BR>non soltanto da un esiguo numero di suoi rappresentanti,<BR>ma nel suo complesso, nella sua vita, nel suo<BR>lavoro e nelle sue attività quotidiane! Come sarebbe più<BR>efficace la medicina se, confidando più sull'igiene che<BR>sulle ricette, i giovani dottori fossero gli infermieri dei<BR>malati e gli infermieri ricevessero l'istruzione dei nostri<BR>attuali dottori! E come percepirebbe meglio, il poeta, le<BR>bellezze della natura, come conoscerebbe meglio il cuore<BR>umano, se avesse modo di osservare la levata del<BR>sole, contadino tra i contadini, o di lottare contro la<BR>tempesta, marinaio tra i marinai, a bordo di una nave,<BR>se conoscesse la poesia del lavoro e del riposo, del dolore<BR>e della gioia, della lotta e della conquista!<BR>La cosiddetta «divisione del lavoro» è nata in un<BR>sistema che ha condannato le masse, tutto il giorno e<BR>tutta la vita, alla dura fatica dello stesso gravoso genere<BR>di lavoro. Ma se consideriamo l'esiguità dei veri produttori<BR>di ricchezza della nostra attuale società, e come<BR>il loro lavoro vada sprecato, dobbiamo dar ragione a<BR>Franklin allorché diceva che in genere basterebbe lavorare<BR>ognuno cinque ore al giorno per assicurare a tutti i<BR>membri di una nazione civile quegli agi oggi accessibili<BR>soltanto ai pochi.<BR>Abbiamo fatto, però, qualche progresso dai tempi di<BR>Franklin, e alcuni di tali progressi, realizzati nel settore<BR>finora più arretrato della produzione - quello agricolo<BR>- li abbiamo segnalati nelle pagine che precedono.<BR>Anche in questo settore si può accrescere immensamente<BR>la produttività del lavoro e rendere facile e piacevole<BR>il lavoro stesso. Se ciascuno si accollasse la sua parte di<BR>produzione e la produzione venisse socializzata (come<BR>l'economia politica, se indirizzata al soddisfacimento<BR>dei bisogni sempre crescenti di tutti, ci consiglierebbe<BR>di fare), allora avremmo più di metà della giornata<BR>203<BR>lavorativa da dedicare all'arte, alla scienza o a qualsiasi<BR>altra occupazione preferita; e il nostro lavoro in quegli<BR>stessi settori sarebbe più proficuo se impiegassimo<BR>l'altra metà della giornata in un lavoro produttivo; questo<BR>se l'arte e la scienza fossero coltivate più per pura<BR>inclinazione che non per scopi commerciali. Inoltre, una<BR>società organizzata sul principio che tutti lavorano<BR>sarebbe abbastanza ricca per sollevare uomini e donne<BR>- una volta raggiunta una certa età, diciamo i quarant'anni<BR>o poco più - dall'obbligo morale di partecipare<BR>direttamente all'esecuzione del necessario lavoro<BR>manuale, e per consentir loro di votarsi interamente<BR>all'arte, alla scienza o a qualsiasi altra occupazione. In<BR>questo modo sarebbero pienamente garantiti la libera<BR>ricerca in nuovi rami dell'arte e del sapere, la libera<BR>creazione e il libero sviluppo individuale. E una società<BR>come questa non conoscerebbe miseria in seno all'abbondanza,<BR>ignorerebbe la dualità di coscienza che permea<BR>la nostra vita e paralizza ogni nobile sforzo, e volerebbe<BR>libera verso le più alte regioni del progresso compatibile<BR>con la natura umana.<BR>204<BR>IX<BR>Il testo dove Kropotkin espone la sua concezione del<BR>comunismo anarchico è La conquista del pane, opera<BR>che vede la luce nel 1892. Kropotkin afferma che l'unico<BR>regime privo di contraddizioni sociali è il comunismo.<BR>Diversamente dal collettivismo e dal mutualismo, esso<BR>supera tutte le disuguaglianze e le sperequazioni e rende<BR>giustizia a tutti perché, esplicandosi integralmente<BR>attraverso la semplice norma «da ognuno secondo le sue<BR>forze, ad ognuno secondo i suoi bisogni», abolisce radicalmente<BR>la schiavitù del salario e, con essa, la dipendenza<BR>dal bisogno. Per la stretta e necessaria correlazione<BR>posta da Kropotkin tra lo sviluppo delle forze produttive<BR>e l'abolizione della proprietà privata, la ricchezza<BR>sociale sfuggirebbe alle leggi dell'economia politica per<BR>risultare una creazione collettiva rispondente alle necessità<BR>funzionali della società, intesa, questa, nella sua<BR>originaria esistenza spontanea di solidarismo naturalistico.<BR>Questo comunismo è anarchico, nel senso che l'abolizione<BR>del salariato è contemporanea all'abolizione dello<BR>Stato. Il presupposto scientifico del comunismo non è<BR>dato da una verità economica, sia essa di carattere<BR>razionale, storico o culturale, ma dalla constatazione<BR>della sua perfetta rispondenza alle leggi dell'evoluzione<BR>205<BR>naturale. Il comunismo è l'opposto dell'individualismo,<BR>esattamente come il mutuo appoggio è il contrario della<BR>lotta per l'esistenza. È attraverso il comunismo che la<BR>natura ha la sua logica continuità nella storia, per cui<BR>si deve dire che comunismo e mutuo appoggio sono due<BR>definizioni di una stessa realtà: la logica intrinseca della<BR>vita che preserva se stessa. Il presupposto solidaristico<BR>costituisce dunque la vera premessa del comunismo<BR>kropotkiniano, che pone la priorità etica rispetto a quella<BR>economica.<BR>In questo senso sarebbe forse più opportuno parlare<BR>di comunalismo o comunitarismo, in quanto Kropotkin<BR>è particolarmente interessato alla logica profonda della<BR>vita comunitaria. Essa non si regge certo sul rapporto<BR>dello scambio economico, misurabile quantitativamente<BR>e razionalmente, ma sugli impulsi esistenziali che animano<BR>gli individui; impulsi che per la loro natura vanno<BR>al di là della prassi mercantile, che risulta sempre<BR>riduttiva rispetto all'insieme dei valori, delle speranze,<BR>delle fedi individuali e sociali.<BR>In conclusione, il comunismo-comunitarismo non è<BR>soltanto desiderabile, ma è pure lo sbocco inevitabile<BR>della tendenza moderna dovuta all'incessante integrazione<BR>dell'economia e della società in un tutto organico e<BR>necessitante. Il comunismo quindi non è «il diritto al<BR>lavoro», e nemmeno il diritto della ripartizione «secondo<BR>le opere». È invece il superamento di ogni diritto, per la<BR>diretta soddisfazione dei bisogni. Questo grande rivolgimento<BR>sociale non può quindi essere l'esito di un'opera<BR>legislativa, bensì il frutto dell'azione spontanea delle<BR>grandi masse popolari. Kropotkin è convinto che sia<BR>possibile arrivare all'agiatezza generale perché esiste<BR>una ricchezza potenziale enorme, malamente utilizzata<BR>a causa della proprietà privata e della irrazionalità<BR>dell'assetto capitalistico.<BR>I brani riprodotti qui di seguito sono tratti dall'edizione<BR>italiana di La conquista del pane del 1975, nella traduzione<BR>(rivista) di Gabriella Gianfelici e Claudio Neri.<BR>206<BR>IL COMUNISMO ANARCHICO<BR>Va riconosciuto e proclamato con forza che ognuno,<BR>qualunque sia stata nel passato la sua funzione, qualunque<BR>siano state la sua forza e la sua debolezza, le sue<BR>attitudini o le sue incapacità, possiede innanzi tutto il<BR>diritto alla vita; e la società deve spartire tra tutti, senza<BR>eccezioni, i mezzi di sussistenza di cui dispone. Si deve<BR>riconoscerlo, proclamarlo e agire di conseguenza! [.]<BR>I servizi resi alla società, tanto il lavoro nelle fabbriche<BR>o nei campi quanto le attività intellettuali, non possono<BR>essere valutati in termini monetari. Non si può<BR>determinare in riferimento alla produzione l'esatta<BR>misura di ciò che è stato impropriamente chiamato<BR>valore di scambio, né del valore d'uso. Se si prendono<BR>207<BR>due individui che, anno dopo anno, lavorano entrambi<BR>cinque ore al giorno per la comunità in differenti lavori<BR>di cui sono entrambi soddisfatti, si può dire che, nel<BR>complesso, il loro lavoro è più o meno equivalente. Ma<BR>non si può frazionare il loro lavoro e dire che il prodotto<BR>di ogni giornata, di ogni ora, di ogni minuto del primo<BR>vale il prodotto di ogni giornata, di ogni ora, di ogni<BR>minuto del secondo.<BR>Si può dire, in termini generali, che l'uomo che<BR>durante la sua vita si è privato della libertà per dieci<BR>ore al giorno ha dato alla società molto più di quello che<BR>se ne è privato per cinque ore al giorno o che non se ne<BR>è privato affatto. Ma non si può prendere ciò che ha fatto<BR>durante due ore e dire che quel prodotto vale due volte<BR>più del prodotto di un'ora di un altro individuo, e<BR>remunerarlo in proporzione. Questo vorrebbe dire<BR>misconoscere tutta la complessità dell'industria,<BR>dell'agricoltura, dell'intera esistenza della società<BR>attuale; vorrebbe dire ignorare fino a che punto il lavoro<BR>del singolo è il risultato dei lavori precedenti e attuali<BR>della società nel suo insieme. Vorrebbe dire credersi<BR>nell'età della pietra quando invece viviamo nell'età<BR>dell'acciaio.<BR>Se si entra in una miniera di carbone, si vede un<BR>uomo addetto a una grande macchina che sovrintende<BR>alla salita e alla discesa della gabbia. Questi tiene in<BR>mano la leva che aziona nei due sensi la macchina;<BR>quando l'abbassa, la gabbia torna indietro in un batter<BR>d'occhio, ed egli la manda su e giù ad una velocità vertiginosa.<BR>Con la massima attenzione segue sul muro un<BR>indicatore che gli mostra, in scala, a quale altezza del<BR>pozzo si trova la gabbia in ogni istante del suo percorso;<BR>e quando l'indicatore ha raggiunto il livello voluto, ferma<BR>la corsa della gabbia né un metro più in alto né uno<BR>più in basso del punto desiderato. Non appena i vagoncini<BR>pieni di carbone sono stati scaricati e quelli vuoti<BR>agganciati, inverte la leva e rimanda la gabbia di nuovo<BR>nel pozzo.<BR>Per otto o dieci ore consecutive l'addetto deve mante-<BR>208<BR>nere gli stessi alti livelli di attenzione. Se la sua mente<BR>dovesse distrarsi anche per un solo momento, la gabbia<BR>andrebbe ad urtare contro l'argano fracassando le ruote,<BR>strappando la corda, schiacciando gli uomini e bloccando<BR>tutto il lavoro della miniera. Se perdesse tre<BR>secondi ad ogni colpo di leva, l'estrazione nelle nostre<BR>moderne e avanzate miniere verrebbe ridotta tra le<BR>venti e le cinquanta tonnellate al giorno.<BR>È dunque lui quello che fornisce il servizio più importante<BR>della miniera? O è il ragazzo che aziona dal basso<BR>il segnale per far risalire la gabbia? O il minatore, che<BR>ad ogni istante rischia la sua vita in fondo al pozzo e<BR>che forse un giorno sarà ucciso dal grisou? O l'ingegnere,<BR>che se non individua la vena di carbone fa scavare<BR>nella roccia per un semplice errore nei calcoli? O ancora<BR>il proprietario, che ha messo tutto il suo patrimonio<BR>nella miniera e che magari, contrariamente a tutte le<BR>prospezioni, ha deciso di scavare proprio in quel luogo<BR>per trovare il carbone migliore?<BR>Tutti coloro che sono impegnati nella miniera contribuiscono,<BR>secondo le loro forze, energie, conoscenze,<BR>capacità e abilità, ad estrarre il carbone. E possiamo<BR>affermare che tutti hanno il diritto alla vita, a soddisfare<BR>i loro bisogni e anche le loro fantasie una volta che il<BR>necessario sia assicurato per tutti.<BR>Ma come possiamo valutare la loro opera? E poi, il<BR>carbone che avranno estratto è interamente opera loro?<BR>Non è anche opera di quegli uomini che hanno costruito<BR>la ferrovia che conduce alla miniera e le strade che si<BR>dipartono da tutte le stazioni? Non è anche opera di<BR>coloro che hanno arato e seminato i campi, estratto il<BR>ferro, abbattuto gli alberi della foresta, costruito le<BR>macchine che bruciano il carbone, e così via?<BR>Non è possibile distinguere tra i lavori di tutti questi<BR>uomini. Misurarli in base ai risultati porta all'assurdo.<BR>Frazionarli e misurarli in base alle ore impiegate porta<BR>all'assurdo. Non resta che una cosa: mettere i bisogni al<BR>di sopra del lavoro e riconoscere prima di ogni altra<BR>cosa il diritto alla vita e poi il diritto al benessere per<BR>209<BR>tutti coloro che prendono parte alla produzione. [.]<BR>Ogni società che intende abolire la proprietà privata<BR>sarà costretta, secondo noi, ad organizzarsi in modo<BR>comunista anarchico. L'anarchia conduce al comunismo<BR>e il comunismo all'anarchia essendo entrambi espressione<BR>della tendenza predominante delle società moderne:<BR>la ricerca dell'uguaglianza.<BR>C'è stato un tempo in cui una famiglia di contadini<BR>poteva considerare il grano che faceva crescere e gli abiti<BR>di lana che tesseva nella capanna come prodotti del<BR>proprio lavoro. Ma anche allora questo modo di vedere<BR>non era affatto corretto. C'erano strade e ponti fatti in<BR>comune, paludi prosciugate con il lavoro collettivo e<BR>pascoli comuni recintati da siepi che tutti mantenevano.<BR>Un miglioramento nei telai o nei tipi di tintura dei<BR>tessuti giovava a tutti; in quell'epoca una famiglia di<BR>contadini non poteva vivere da sola ma dipendeva in<BR>mille modi dal villaggio o dalla comunità rurale.<BR>Oggi, poi, nell'attuale sistema industriale dove tutto<BR>è interdipendente, dove ogni ramo della produzione si<BR>interseca con tutti gli altri, la pretesa di attribuire<BR>un'origine individuale ai prodotti è assolutamente insostenibile.<BR>Se le industrie tessili o metallurgiche hanno<BR>raggiunto una sorprendente perfezione nei Paesi avanzati,<BR>lo devono allo sviluppo simultaneo di mille altre<BR>industrie, grandi e piccole; lo devono all'estensione della<BR>rete ferroviaria, alla navigazione transoceanica,<BR>all'abilità di milioni di lavoratori, ad un certo grado di<BR>cultura generale di tutta la classe operaia; lo devono, in<BR>definitiva, al lavoro umano eseguito da uno capo all'altro<BR>del mondo.<BR>Gli italiani colpiti da colera durante gli scavi del<BR>canale di Suez o dall'anchilosi nelle gallerie del Gottardo,<BR>gli americani falciati dalle granate nella guerra per<BR>l'abolizione della schiavitù, hanno tutti contribuito allo<BR>sviluppo dell'industria cotoniera in Francia e in Inghilterra,<BR>non meno delle giovani ragazze che si sono con-<BR>210<BR>sumate nelle manifatture di Manchester e Rouen, o<BR>dell'inventore che, ascoltando i suggerimenti di qualche<BR>lavoratore, ha apportato miglioramenti al telaio.<BR>Come stimare, allora, la quota di ognuno alla produzione<BR>di quelle ricchezze che tutti contribuiamo ad<BR>accumulare?<BR>Considerando la produzione da questo punto di vista<BR>generale e sintetico, a differenza dei collettivisti non<BR>riteniamo che una rimunerazione proporzionata alle<BR>ore di lavoro da ciascuno effettuate per la produzione<BR>delle ricchezze possa costituire l'obiettivo ideale o anche<BR>solo un passo avanti nella direzione giusta.<BR>Senza qui entrare nel merito se il valore di scambio<BR>delle merci nella società attuale è effettivamente commisurato<BR>con la quantità di lavoro necessario per produrle<BR>(così come hanno affermato Smith e Ricardo, sulle<BR>cui tracce si è mosso Marx), ci basti dire al momento,<BR>riservandoci di tornarvi più tardi, che l'ideale collettivista<BR>ci sembra irrealizzabile in una società che considera<BR>gli strumenti di produzione come un patrimonio comune.<BR>Se è basata su questo principio, una tale società si<BR>vedrebbe costretta ad abolire subito tutte le forme di<BR>salariato.<BR>L'individualismo moderato del sistema collettivista<BR>non potrebbe coesistere con un comunismo parziale,<BR>cioè con la socializzazione del suolo e degli strumenti di<BR>produzione. Una nuova forma di proprietà necessita di<BR>una nuova forma di rimunerazione. Una nuova forma<BR>di produzione non può convivere con le vecchie forme di<BR>consumo, non più di quanto possa adattarsi alle vecchie<BR>forme di organizzazione politica.<BR>Il salariato è figlio della proprietà privata del suolo e<BR>degli strumenti di produzione, che è stata la condizione<BR>necessaria per lo sviluppo del modo di produzione capitalista,<BR>e che morirà con essa nonostante i tentativi di<BR>travestirlo sotto forma di «buoni di lavoro». Il possesso<BR>comune degli strumenti di produzione condurrà necessariamente<BR>al godimento comune dei frutti di questo<BR>lavoro comune.<BR>211<BR>Sosteniamo inoltre che il comunismo non solo è desiderabile<BR>ma che le società attuali, fondate sull'individualismo,<BR>sono comunque costrette a procedere verso il<BR>comunismo. [.]<BR>È questa, in breve, l'organizzazione che i collettivisti<BR>vorrebbero far nascere dalla rivoluzione sociale. Come<BR>si vede, i loro princìpi sono: proprietà collettiva degli<BR>strumenti di lavoro e rimunerazione di ognuno secondo<BR>il tempo impiegato a produrre, tenendo conto della produttività<BR>del suo lavoro. Quanto al regime politico, si<BR>tratterebbe di un sistema parlamentare modificato dal<BR>mandato imperativo per i rappresentanti eletti e dall'istituto<BR>del referendum, cioè da una votazione basata<BR>sull'opzione sì/no.<BR>Diciamo subito che questo sistema ci sembra assolutamente<BR>irrealizzabile.<BR>I collettivisti cominciano con il proclamare un principio<BR>rivoluzionario - l'abolizione della proprietà privata<BR>- ma lo negano contestualmente in quanto si ripropongono<BR>un'organizzazione della produzione e del consumo<BR>che ha le sue origini nella proprietà privata.<BR>Proclamano un principio rivoluzionario ma ignorano<BR>le conseguenze che questo principio comporta. Dimenticano<BR>che il fatto stesso di abolire la proprietà privata<BR>degli strumenti di produzione - terra, fabbriche, vie di<BR>comunicazione, capitali - deve lanciare la società verso<BR>percorsi assolutamente inediti; deve sconvolgere completamente<BR>il sistema di produzione, tanto nei mezzi<BR>che nei fini; deve modificare tutte le relazioni quotidiane<BR>tra gli individui nel momento stesso in cui la terra,<BR>le macchine e tutto il resto vengono assunti come possesso<BR>comune.<BR>«Niente proprietà privata» proclamano, e subito si<BR>affrettano a mantenerla nelle sue manifestazioni quotidiane.<BR>«Sarete una Comune per quanto riguarda la produzione:<BR>i campi, gli utensili, i macchinari, tutto ciò che<BR>è stato creato fino ad oggi - manifatture, ferrovie, porti,<BR>212<BR>miniere ecc. - sarà vostro. E non si farà la minima<BR>distinzione sulla partecipazione di ognuno a questa proprietà<BR>collettiva. Ma già da domani comincerete a<BR>discutere puntigliosamente sulla parte che vi spetta<BR>nella creazione dei nuovi macchinari, nell'apertura delle<BR>nuove miniere. Comincerete a soppesare al grammo<BR>la quota di vostra spettanza in ogni nuova produzione.<BR>Conterete i vostri minuti di lavoro controllando attentamente<BR>che un minuto del vicino non abbia maggior<BR>potere d'acquisto del vostro. E poiché l'ora non dà la<BR>misura di niente, poiché in quella fabbrica un lavoratore<BR>può sorvegliare sei telai alla volta, mentre nell'altra<BR>non ne sorveglia che due, comincerete a misurare la forza<BR>muscolare, l'energia cerebrale e l'energia nervosa<BR>che avete speso. Calcolerete rigorosamente gli anni di<BR>apprendistato per valutare la parte di ognuno nella<BR>futura produzione. E tutto questo dopo aver dichiarato<BR>che non va tenuta in alcun conto la parte avuta nella<BR>produzione passata».<BR>Ebbene, per noi è evidente che una società non può<BR>organizzarsi su due princìpi assolutamente opposti, due<BR>princìpi che si contraddicono continuamente. E la<BR>nazione, o la Comune, che si desse una tale organizzazione<BR>sarebbe costretta o a ritornare alla proprietà privata,<BR>o a trasformarsi immediatamente in società<BR>comunista.<BR>Abbiamo già rilevato come alcuni pensatori collettivisti<BR>auspichino che venga stabilita una distinzione tra<BR>lavoro qualificato o professionale e lavoro semplice.<BR>Essi pretendono che l'ora di lavoro dell'ingegnere,<BR>dell'architetto o del medico venga contabilizzata come<BR>due o tre ore di lavoro del fabbro, del muratore o dell'infermiere.<BR>E la stessa distinzione, affermano, deve essere<BR>fatta tra tutti i tipi di lavoro che esigono un apprendistato<BR>più o meno lungo e il lavoro dei semplici braccianti.<BR>Ebbene, stabilire questa distinzione equivale a man-<BR>213<BR>tenere tutte le disuguaglianze della società attuale.<BR>Vuol dire tracciare sin dall'inizio una demarcazione tra<BR>i lavoratori e coloro che pretendono di governarli. Significa<BR>dividere la società in due classi ben distinte: l'aristocrazia<BR>del sapere al di sopra della plebe dalle mani<BR>callose, dove quest'ultima sarà costretta a servire la<BR>prima e a lavorare con le proprie mani per nutrirla e<BR>vestirla, mentre questa, approfittando della sua libertà,<BR>imparerà a dominare chi la mantiene.<BR>Non solo, vorrebbe dire riprendere un tratto distintivo<BR>della società attuale e rilegittimarlo in nome della<BR>rivoluzione sociale, erigendo così a principio un abuso<BR>che oggi si condanna nella vecchia traballante società.<BR>Conosciamo bene le risposte che ci daranno: ci parleranno<BR>di «socialismo scientifico»; citeranno gli economisti<BR>borghesi - e anche Marx - per dimostrare che la scala<BR>salariale ha la sua ragion d'essere, poiché la «forza<BR>lavoro» dell'ingegnere è costata alla società più della<BR>«forza lavoro» dello sterratore. E infatti, gli economisti<BR>non hanno forse cercato di convincerci che se l'ingegnere<BR>viene pagato venti volte più dello sterratore è perché<BR>le spese «necessarie» per preparare un ingegnere sono<BR>più consistenti di quelle necessarie per preparare uno<BR>sterratore? E Marx non ha forse asserito che la stessa<BR>distinzione è altrettanto logica tra i diversi tipi di lavoro<BR>manuale? Né poteva arrivare ad altra conclusione<BR>avendo ripreso le teorie di Ricardo sul valore e avendo<BR>sostenuto che i prodotti vengono scambiati in proporzione<BR>alla quantità di lavoro socialmente necessario a produrli.<BR>Ma noi abbiamo idee chiare a tal proposito. Sappiamo<BR>che se l'ingegnere, lo scienziato e il dottore oggi sono<BR>pagati dieci o cento volte più del lavoratore, e se il tessitore<BR>guadagna tre volte più di un contadino e dieci volte<BR>più di una operaia di una fabbrica di fiammiferi, questo<BR>non avviene in ragione del loro «costo di produzione»,<BR>ma in ragione di un monopolio dell'educazione, o di un<BR>ruolo produttivo. L'ingegnere, lo scienziato e il dottore<BR>sfruttano semplicemente un capitale - il loro diploma -<BR>214<BR>come l'imprenditore borghese sfrutta la fabbrica o come<BR>il nobile sfruttava i titoli di nascita.<BR>Quanto all'imprenditore che paga l'ingegnere venti<BR>volte più del lavoratore, lo fa in ragione di un calcolo<BR>molto semplice: se l'ingegnere può fargli risparmiare<BR>4.000 sterline all'anno sui costi di produzione, questi in<BR>cambio lo paga 800 sterline. E se l'imprenditore ha un<BR>caporeparto che gli fa risparmiare 400 sterline sul lavoro<BR>di un'abile e tartassata manodopera, è ben contento<BR>di dargli tra le 80 e le 120 sterline l'anno. Ed è sempre<BR>disposto a spartire un 40 sterline in più quando si<BR>aspetta di guadagnarne 400 così facendo. È questa<BR>l'essenza del sistema capitalista. E lo stesso accade per<BR>le differenze tra i diversi mestieri manuali.<BR>Che non ci si venga dunque a parlare di un «costo di<BR>produzione» che farebbe aumentare il costo del lavoro<BR>specializzato, e a sostenere di conseguenza che uno studente<BR>- il quale ha allegramente trascorso la sua gioventù<BR>all'università - ha diritto ad un salario dieci volte<BR>più elevato dello smunto figlio del minatore che si consuma<BR>in miniera fin dall'età di undici anni; o che un<BR>tessitore ha diritto ad un salario tre o quattro volte più<BR>elevato di quello di un bracciante agricolo. Le spese<BR>necessarie per preparare un tessitore non sono quattro<BR>volte più alte di quelle necessarie per preparare un contadino:<BR>semplicemente, il tessitore beneficia dei vantaggi<BR>che il suo ruolo produttivo matura nel commercio<BR>internazionale rispetto ai Paesi non ancora industrializzati,<BR>e come risultato dei privilegi accordati dallo Stato<BR>all'industria a scapito della coltivazione della terra.<BR>Nessuno, poi, ha mai calcolato il costo di produzione<BR>di un produttore. E se un aristocratico nullafacente<BR>costa alla società ben più di un lavoratore, rimane ancora<BR>da sapere se - tutto compreso: mortalità infantile,<BR>anemia dilagante e morti premature - un robusto bracciante<BR>non costi alla società più di un esperto artigiano.<BR>Ci si vorrebbe far credere, ad esempio, che il salario di<BR>una sterlina e 3 scellini pagato all'operaia parigina, o i<BR>tre scellini pagati alla ragazza alvergnate che si acceca<BR>215<BR>sui merletti, o il compenso di una sterlina e 8 scellini<BR>dato al contadino rappresentano i loro «costi di produzione<BR>». Sappiamo perfettamente bene che spesso si<BR>lavora per meno di questo, ma sappiamo anche che lo si<BR>fa esclusivamente perché, grazie alla nostra superba<BR>organizzazione, si rischia di morire di fame senza questi<BR>salari irrisori.<BR>A nostro avviso la scala salariale è il complesso risultato<BR>delle imposte, dei sistemi di sovvenzione, del<BR>monopolio capitalista: in breve, dello Stato e del Capitale.<BR>È per questo che sosteniamo che tutte le teorie sulla<BR>scala salariale sono state inventate a posteriori per giustificare<BR>le ingiustizie già esistenti, ragion per cui non<BR>bisogna dar loro troppa importanza.<BR>Non si asterranno nemmeno dal dirci che la scala<BR>salariale collettivista sarebbe nondimeno un progresso:<BR>«Vedere alcuni artigiani prendere una somma due o tre<BR>volte superiore a quella percepita dai lavoratori non<BR>specializzati», ci diranno, «è comunque meglio che vedere<BR>dei ministri intascare in un sol giorno quello che il<BR>lavoratore non riesce a guadagnare in un anno. Sarebbe<BR>pur sempre un grosso passo verso l'equità».<BR>Viceversa, per noi questo sarebbe un regresso. Reintrodurre<BR>in una nuova società la distinzione tra lavoro<BR>semplice e lavoro specializzato altro non sarebbe che<BR>erigere a principio un fatto brutale, legittimato dalla<BR>rivoluzione, che oggi già subiamo e che troviamo ingiusto.<BR>Sarebbe come imitare quei signori dell'Assemblea<BR>costituente francese che il 4 agosto 1789 proclamavano<BR>l'abolizione dei diritti feudali, ma che l'8 agosto li reinstauravano<BR>imponendo imposte ai contadini per risarcire<BR>gli aristocratici, mettendo oltretutto queste imposte<BR>sotto la salvaguardia della rivoluzione. Sarebbe come<BR>imitare il governo russo che, al tempo della emancipazione<BR>dei servi della gleba, proclamava che certe terre<BR>sarebbero state d'ora in avanti appannaggio dell'aristocrazia,<BR>mentre prima queste stesse terre venivano considerate<BR>appannaggio dei servi della gleba.<BR>O ancora, per citare un esempio più conosciuto,<BR>216<BR>sarebbe come imitare la Comune del 1871 quando decideva<BR>di pagare i membri del Consiglio l'equivalente di<BR>12 sterline e 6 scellini al giorno, mentre i Federati che<BR>si battevano in prima linea percepivano solo una sterlina<BR>e 3 scellini al giorno: una decisione peraltro acclamata<BR>come un atto di avanzata democrazia egualitaria.<BR>In realtà, la Comune non faceva che ratificare la vecchia<BR>disuguaglianza tra funzionario e soldato, governante<BR>e governato. Se si fosse trattato di una Camera<BR>dei deputati opportunista, tale decisione avrebbe anche<BR>potuto sembrare degna di ammirazione, ma trattandosi<BR>della Comune, non mettendoli in pratica essa veniva<BR>meno ai suoi princìpi rivoluzionari.<BR>Nell'attuale sistema sociale, in cui un ministro percepisce<BR>4.000 sterline all'anno, mentre il lavoratore deve<BR>accontentarsi di 40 sterline, o meno ancora, in cui il<BR>caporeparto è pagato due o tre volte più dell'operaio e<BR>in cui tra gli operai stessi ci sono tutti i gradi, dalle 8<BR>sterline al giorno giù fino ai 3 scellini della ragazza di<BR>campagna, noi siamo contrari tanto all'elevato stipendio<BR>del ministro quanto alla differenza tra le 8 sterline<BR>dell'operaio e i 3 scellini della povera donna. E affermiamo:<BR>«Abbasso i privilegi dell'educazione, così come<BR>quelli della nascita». Siamo anarchici proprio perché<BR>questi privilegi ci ripugnano. E se già ci ripugnano in<BR>questa società autoritaria, come potremmo sopportarli<BR>in una società che nasce proclamando l'uguaglianza?<BR>Proprio per questo certi collettivisti, comprendendo<BR>l'impossibilità di mantenere la scala salariale in una<BR>società ispirata dal soffio della rivoluzione, si affrettano<BR>a proclamare che i salari saranno uguali. Ma si scontrano<BR>con nuove difficoltà e la loro uguaglianza salariale<BR>diventa un'utopia irrealizzabile quanto le scale salariali<BR>degli altri collettivisti.<BR>Una società che avrà preso possesso di tutta la ricchezza<BR>sociale e che avrà proclamato con forza il diritto<BR>di tutti a questa ricchezza - qualunque sia stato il loro<BR>contributo - sarà costretta ad abbandonare ogni sistema<BR>salariale, tanto in moneta che in buoni. [.]<BR>217<BR>Proprio come guardiamo alla società e alla sua organizzazione<BR>politica da una prospettiva diversa da quella<BR>di tutte le scuole autoritarie - in quanto partiamo dal<BR>libero individuo per arrivare ad una libera società invece<BR>di partire dallo Stato per arrivare all'individuo - così<BR>ricorriamo allo stesso metodo per i problemi economici.<BR>Ovvero, affrontiamo i bisogni dell'individuo ed i mezzi<BR>ai quali ricorrere per soddisfarli prima di discutere di<BR>produzione, tasso di scambio, imposte, governo, ecc. A<BR>prima vista la differenza può sembrare minima, ma di<BR>fatto sconvolge tutti i canoni dell'economia politica ufficiale.<BR>Se si consulta l'opera di qualunque economista, si<BR>può facilmente verificare come questa inizi con la PRODUZIONE,<BR>cioè l'analisi dei mezzi attualmente impiegati<BR>per creare la ricchezza: la divisione del lavoro, la struttura<BR>industriale, i suoi macchinari, l'accumulazione del<BR>capitale. Da Adam Smith a Karl Marx si sono tutti<BR>attenuti a questo percorso. Solo nelle parti successive<BR>del lavoro si affronta il CONSUMO, cioè i mezzi utilizzati<BR>nell'attuale sistema per soddisfare i bisogni dell'individuo;<BR>e anche così, ci si limita a spiegare come le ricchezze<BR>vengano ripartite tra coloro che se ne disputano il<BR>possesso.<BR>Si dirà forse che tutto questo è logico, che prima di<BR>soddisfare i bisogni occorre cercare ciò che può soddisfarli.<BR>Ma prima di produrre alcunché, non bisogna sentirne<BR>il bisogno? Non è stata la necessità che all'inizio<BR>ha spinto l'uomo a cacciare, ad allevare il bestiame, a<BR>coltivare la terra, a fare utensili e, più tardi, a inventare<BR>le macchine? Non è l'analisi dei bisogni che dovrebbe<BR>indirizzare la produzione? Sarebbe quantomeno logico<BR>cominciare proprio dai bisogni e vedere poi come organizzare<BR>la produzione in modo da sopperire a tali bisogni.<BR>Ed è appunto quello che intendiamo fare.<BR>Ma dal momento in cui la si guarda da questa prospettiva,<BR>l'economia politica cambia totalmente. Cessa<BR>di essere una semplice descrizione dei fatti e diventa<BR>218<BR>una scienza, che potremmo definire come lo studio dei<BR>bisogni dell'umanità e dei mezzi per soddisfarli con il<BR>minimo spreco possibile di forze umane. Ma la sua esatta<BR>denominazione sarebbe fisiologia della società e<BR>dovrebbe costituire una scienza parallela alla fisiologia<BR>delle piante o degli animali, che è anch'essa lo studio<BR>dei bisogni del mondo vegetale e animale e dei mezzi<BR>più vantaggiosi per soddisfarli. Nell'ambito delle scienze<BR>sociologiche, l'economia delle società umane deve<BR>occupare il posto che nelle scienze biologiche è occupato<BR>dalla fisiologia degli esseri organici.<BR>Noi diciamo: ecco gli esseri umani riuniti in società.<BR>Tutti sentono il bisogno di abitare in case salubri. La<BR>capanna del selvaggio non li soddisfa più, chiedono un<BR>riparo solido e più o meno confortevole. Si tratta dunque<BR>di chiedersi se, tenuto conto della produttività del<BR>lavoro umano, ognuno potrà effettivamente avere la<BR>sua casa o se esiste qualcosa che può impedirlo. Non<BR>appena fatta questa domanda, ci rendiamo subito conto<BR>che ogni famiglia in Europa potrebbe perfettamente<BR>avere una casa confortevole, come se ne costruiscono in<BR>Inghilterra e in Belgio o negli insediamenti Pullman,<BR>oppure un appartamento equivalente. Un certo numero<BR>di giornate lavorative sarebbe sufficiente per ottenere<BR>una casetta ben arieggiata, ben disposta e con l'illuminazione<BR>a gas.<BR>Invece, i nove decimi degli europei non hanno mai<BR>posseduto una casa confortevole perché in quasi tutte le<BR>epoche la gente comune ha dovuto lavorare giorno dopo<BR>giorno per soddisfare i bisogni dei suoi governanti, senza<BR>mai riuscire ad avere quel tanto in più, in tempo e in<BR>denaro, necessario per costruire o far costruire la casa<BR>sognata. E così non ha casa, e abiterà in catapecchie<BR>fino a che le attuali condizioni non verranno modificate.<BR>Come appare evidente, noi procediamo in senso inverso<BR>rispetto agli economisti, i quali tendono a perpetuare<BR>le pretese leggi della produzione e a dimostrare,<BR>statistiche alla mano, che essendo il numero di abitazioni<BR>effettivamente costruite ogni anno insufficiente a<BR>219<BR>soddisfare tutte le richieste i nove decimi degli europei<BR>devono abitare in catapecchie.<BR>Occupiamoci ora del nutrimento. Dopo aver enumerato<BR>i vantaggi derivanti dalla divisione del lavoro, gli<BR>economisti ci spiegano come questa divisione esiga che<BR>gli uni si applichino all'agricoltura e gli altri all'industria,<BR>che l'agricoltura produca tanto e tanto l'industria,<BR>che lo scambio avvenga secondo queste modalità. e<BR>continuano analizzando la vendita, i profitti, il prodotto<BR>netto o plusvalore, i salari, le tasse, il sistema bancario<BR>e così via.<BR>Ma, dopo averli seguiti sin qui, non siamo per questo<BR>diventati più saggi; e se domandiamo loro: «Com'è possibile<BR>che così tanti milioni di esseri umani non hanno<BR>abbastanza pane quando ogni famiglia potrebbe produrre<BR>grano a sufficienza per nutrire dieci, venti e persino<BR>cento persone all'anno?», ci rispondono sempre con<BR>la stessa solfa - divisione del lavoro, salario, plusvalore,<BR>capitale, ecc. - e arrivano alla stessa conclusione: che la<BR>produzione è insufficiente per soddisfare tutti i bisogni.<BR>Una conclusione che, anche se fosse vera, non risponde<BR>alle domande se l'uomo che lavora può o no produrre il<BR>pane che gli necessita e, se non può, cos'è che glielo<BR>impedisce.<BR>Ci sono 350 milioni di europei, e ogni anno hanno<BR>bisogno di quel tanto di pane, carne, vino, latte, uova e<BR>burro, di quel tanto di abitazioni e indumenti: di quel<BR>minimo di loro bisogni. Sono in grado di produrlo? E se<BR>lo sono, resterà loro abbastanza tempo libero per l'arte,<BR>la scienza e il divertimento, in una parola per tutto ciò<BR>che non rientra nella categoria dello stretto necessario?<BR>Se la risposta è affermativa, cos'è che impedisce loro di<BR>realizzarlo? Cosa devono fare per eliminare gli ostacoli?<BR>È forse il tempo che gli manca? Che se lo prendano! Ma<BR>non perdiamo di vista l'obiettivo della produzione: soddisfare<BR>tutti i bisogni. Se i bisogni più impellenti<BR>dell'uomo restano insoddisfatti, che bisogna fare per<BR>aumentare la produttività del lavoro? O non sarà che<BR>magari ci sono altre cause? Non sarà, forse, che la pro-<BR>220<BR>duzione, avendo perso di vista i bisogni dell'uomo, ha<BR>preso una direzione assolutamente sbagliata e la sua<BR>intera struttura ne è stata viziata? Poiché siamo in grado<BR>di dimostrare che le cose stanno esattamente così,<BR>vediamo allora come riorganizzare la produzione in<BR>modo da soddisfare realmente tutti i bisogni.<BR>Questo ci sembra il solo modo per affrontare correttamente<BR>la questione, il solo modo che consenta all'economia<BR>politica di diventare una scienza: la scienza della<BR>fisiologia sociale.<BR>È evidente che finché questa scienza si occuperà di<BR>produzione così com'è espletata attualmente tanto nei<BR>Paesi avanzati che nelle comunità indù o tra le tribù<BR>primitive, difficilmente potrà esporre i fatti in modo<BR>molto diverso da come lo fanno gli odierni economisti,<BR>cioè come un trattato semplicemente descrittivo, analogo<BR>a quelli della zoologia e della botanica. Ma se questo<BR>trattato fosse scritto in modo da gettare luce sull'economia<BR>delle energie necessarie a soddisfare i bisogni umani,<BR>esso guadagnerebbe tanto in lucidità che in precisione.<BR>E proverebbe in modo indiscutibile lo spreco spaventoso<BR>di energie umane proprio al sistema attuale,<BR>dimostrando altresì che finché esisterà questo sistema i<BR>bisogni dell'umanità non saranno mai soddisfatti.<BR>La prospettiva, come appare chiaro, cambia del tutto.<BR>Dietro il telaio che tesse tanti metri di tela, dietro la<BR>macchina che fora tante lastre d'acciaio e dietro la cassaforte<BR>che ingurgita i dividendi, dobbiamo vedere<BR>l'uomo, l'artigiano cui si deve la produzione, il più delle<BR>volte escluso dal banchetto che ha preparato per altri.<BR>Dobbiamo inoltre aver chiaro che le pretese «leggi» del<BR>valore e dello scambio non sono altro che una falsa spiegazione<BR>degli eventi così come si producono al giorno<BR>d'oggi, ma che le cose avverranno in modo del tutto differente<BR>quando la produzione verrà organizzata in<BR>modo tale da provvedere a tutti i bisogni della società.<BR>Non c'è un solo principio di economia politica che non<BR>si modifichi totalmente se ci si pone nella nostra prospettiva.<BR>221<BR>Prendiamo, ad esempio, la sovrapproduzione, una<BR>parola che risuona ogni giorno nelle nostre orecchie.<BR>Non c'è infatti un solo economista, accademico o aspirante<BR>tale, che non abbia portato argomenti a favore<BR>della tesi che le crisi economiche sono dovute alla<BR>sovrapproduzione, ovvero che in un dato momento si<BR>arriva a produrre più cotone, stoffe e orologi di quanti<BR>ne servano. E non abbiamo forse tuonato tutti contro la<BR>rapacità dei capitalisti che si intestardiscono a produrre<BR>più di quello che si può consumare?<BR>Ebbene, non appena si approfondisce il problema tutti<BR>questi ragionamenti appaiono errati. Infatti, è possibile<BR>individuare anche una sola merce tra quelle di uso<BR>universale di cui si produca più di quanto ne serva?<BR>Prendete in esame una per una tutte le merci spedite<BR>dai grandi Paesi esportatori e ben presto vi accorgerete<BR>che quasi tutte sono prodotte in quantità insufficiente<BR>per gli abitanti degli stessi Paesi esportatori. Non è<BR>un'eccedenza di cereali quella che il contadino russo<BR>invia in Europa: anche i migliori raccolti di grano e<BR>segala della Russia europea danno appena ciò che serve<BR>per la popolazione. E di norma, il contadino si priva del<BR>necessario quando vende il suo grano o la sua segala<BR>per poter pagare le tasse e l'affitto<BR>Non è un'eccedenza di carbone quella che l'Inghilterra<BR>invia ai quattro angoli del mondo, dato che non le<BR>restano per il consumo domestico interno che 750 kg.<BR>all'anno per abitante, tant'è che milioni di inglesi si privano<BR>del fuoco in inverno o lo mantengono quel tanto<BR>necessario a far bollire qualche verdura. In realtà, tralasciando<BR>gli inutili oggetti di lusso, in Inghilterra,<BR>ovvero nel maggior Paese esportatore, c'è solo una merce<BR>di uso universale - il cotone - che ha una produzione<BR>abbastanza alta tanto da eccedere, forse, i bisogni. Ma<BR>quando si guardano gli stracci che costituiscono gli<BR>indumenti di un buon terzo degli abitanti della Gran<BR>Bretagna, non si può fare a meno di chiedersi se il cotone<BR>esportato non sarebbe piuttosto utile per coprire i<BR>bisogni reali della popolazione.<BR>222<BR>Generalmente non è un surplus quello che si esporta,<BR>anche se in origine è verosimilmente stato così. La storia<BR>del calzolaio scalzo è vera per le nazioni come lo era<BR>un tempo per il singolo artigiano. Ciò che si esporta<BR>sono i beni necessari, e questo avviene perché i lavoratori,<BR>una volta pagato l'affitto e l'interesse del capitalista<BR>e del banchiere, con il solo salario non possono comprare<BR>quello che hanno prodotto.<BR>Non solo dunque il bisogno sempre crescente di<BR>benessere resta insoddisfatto, ma spesso manca anche<BR>lo stretto necessario. Ragion per cui la sovrapproduzione<BR>non esiste, almeno non nel senso che le viene attribuito<BR>dai teorici dell'economia politica.<BR>E passiamo ad un altra questione. Tutti gli economisti<BR>ci dicono che c'è una legge assolutamente assodata:<BR>«L'uomo produce più di quanto consumi». Dopo aver<BR>ricavato di che vivere dal prodotto del suo lavoro, gli<BR>resta sempre un'eccedenza, tanto che una famiglia di<BR>coltivatori produce ciò di cui nutrire più famiglie, e così<BR>via.<BR>Per noi, questa frase così frequentemente ripetuta è<BR>priva di senso. Se intendesse dire che ogni generazione<BR>lascia qualche cosa alle generazioni future, la cosa<BR>sarebbe vera. Un agricoltore, ad esempio, pianta un<BR>albero che vivrà per trenta-quarant'anni, o forse un<BR>secolo, e i cui frutti verranno ancora raccolti dai nipoti<BR>di questo agricoltore. O magari dissoda qualche acro di<BR>terreno vergine, incrementando così in proporzione<BR>l'eredità delle generazioni a venire. Le strade, i ponti, i<BR>canali, le case e il mobilio sono altrettante ricchezze<BR>lasciate alle generazioni successive.<BR>Ma non è questo che si intende. Quello che ci si dice è<BR>che il coltivatore produce più grano di quanto non gli<BR>serva per il consumo. Mentre bisognerebbe piuttosto<BR>dire che essendogli stata sottratta una buona parte dei<BR>suoi prodotti - dallo Stato sotto forma di tasse, dal prete<BR>sotto forma di decime e dal proprietario terriero sotto<BR>forma di affitto - si è andata creando una classe d'individui<BR>che, se un tempo consumava quello che produceva<BR>223<BR>- ad eccezione della parte lasciata per gli imprevisti o le<BR>spese per rimboschire o costruire strade - oggi è<BR>costretta a vivere miseramente perché tutto il resto le è<BR>stato preso dallo Stato, dal prete, dal proprietario terriero<BR>e dall'usuraio.<BR>Ci sembra quindi più corretto dire che il coltivatore<BR>consuma meno di quanto produce, perché è costretto a<BR>vendere la maggior parte del suo lavoro e a soddisfare i<BR>suoi bisogni con la scarsa parte restante.<BR>Ci sia inoltre consentito osservare che se si prendono<BR>come punto di partenza per la nostra economia politica<BR>i bisogni dell'individuo, si arriva necessariamente al<BR>comunismo, cioè a un modo di organizzarsi che permette<BR>di soddisfare tutti i bisogni nel modo più completo ed<BR>economico. Mentre se partiamo dal modo attuale di produzione<BR>e miriamo solo al guadagno e al plusvalore,<BR>senza chiedersi se la produzione è in grado di soddisfare<BR>i bisogni, si arriva al capitalismo, o tutt'al più al collettivismo,<BR>ovvero a due forme diverse di salariato.<BR>Finito di stampare<BR>nel mese di gennaio 1998<BR>presso l'Officina Grafica Sabaini, Milano<BR>per conto dell'Editrice A coop. sezione Elèuthera<BR>via Rovetta 27, Milano<BR>
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