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CALENDARIO E NUMERAZIONE DELL'ANTICA ROMA

CALENDARIO ROMANO - NUMERAZIONE, NUMERI ROMANI
 
 

I romani cominciarono a costruire orologi solari, le meridiane, e ad acqua, le clessidre, soltanto a partire dal II sec. a.C., ad imitazione dei greci. In precedenza, per misurare lo scorrere del tempo, si basavano sulla posizione del sole: quando si trovava nel suo punto più alto, a mezzogiorno, un suono di tromba lo annunciava alla città. I romani dividevano le ore del giorno in due parti: 12 diurne (dalle 6 alle 18 o dall'alba al tramonto) e 12 notturne (dalle 18 di sera alle 6 di mattina). Le ore erano però più lunghe d'estate, perché il giorno dura più della notte, e più corte d'inverno. Le 12 ore del giorno calcolate dalle 6 alle 18 erano chiamate hora prima, hora secunda, hora tertia ecc. Perciò data una qualsiasi ora, dalle 6 alle 18, per esprimere la corrispondente ora latina alla nostra si deve togliere 6, e ricordarsi di rendere il numero che resta con l'ordinale, non col cardinale: p.es. prendiamo le nostre ore 13, togliamo 6 e avremo 7, cioè l'ora settima dei romani. Viceversa, l'hora septima, con l'aggiunta di 6, diventa le 13. Il mezzogiorno era l'hora sexta, donde la parola "siesta". La notte era divisa in 4 periodi detti "vigilie" di 3 ore ciascuna e corrispondevano a 4 turni di guardia (infatti vigil vuol dire sentinella). La prima vigilia andava dalle 18 alle 21, la seconda dalle 21 alle 24, la terza dalle 24 alle 3, la quarta delle 3 alle 6. Sembra che le vigilie fossero fissate lasciando bruciare candele di una lunghezza precisa. Durante il regno di Romolo i 10 mesi dell'anno erano computati in modo irrazionale: alcuni risultavano di 20 giorni, altri di 35, altri di più ancora. Non si aveva cognizione della differenza tra anno solare e anno lunare. Ogni anno praticamente aveva 360 giorni, per cui era più vicino al ciclo lunare. Il primo mese era marzo, consacrato a Marte, dio della guerra, perché con l'arrivo della buona stagione si dava inizio alle campagne militari. Il secondo mese, aprile, era dedicato ad Afrodite o ai germogli delle piante, che spuntano appunto in questo mese, come vuole la parola latina "aperio". Maggio invece era dedicato a Maia, madre di Ermes o Mercurio, mentre Giugno era dedicato a Giunone o Era. Un'altra versione sostiene però che maggio provenga da "maiores" e giugno da "iuniores", anziani e giovani. Il quinto mese dopo marzo si chiamava "quintile", il sesto "sestile" ecc. Settembre, ottobre, novembre e dicembre erano il settimo, l'ottavo, il nono e il decimo mese, che era l'ultimo. Il re Numa Pompilio calcolò invece la differenza tra anno solare e anno lunare in 11 giorni (che è la differenza tra 365 e 354) e raddoppiò gli 11 giorni e li aggiunse ogni due anni al mese di febbraio sotto forma di mese intercalare con 22 giorni. Ma questa correzione ne richiederà altre ancora maggiori. Poi nel suo calendario, che voleva avere un significato più civile che militare, mise gennaio ("januarius" da "janua", che vuol dire porta, che apre e chiude, simbolo del dio Giano) al primo posto, febbraio (che significa qualcosa come "purificazione", perché in questo mese i romani portavano le offerte ai morti e celebravano la festa dei Lupercali) al secondo e marzo al terzo. In pratica aggiunse due mesi al calendario di Romolo. Il calendario era affisso sui muri dei templi e i giorni erano segnati da una lettera: F (fasto), N (non fasto), C (comiziale, giorno in cui si potevano tenere assemblee). Nei giorni fasti si pensava che gli uomini godessero dell'appoggio degli dèi, perciò i tribunali erano aperti ed era possibile intraprendere nuove attività. Nei giorni nefasti era invece meglio non cominciare lavori nuovi. I mesi seguivano il ciclo della luna. Il primo giorno di ogni mese corrispondeva al novilunio (luna nuova) ed era chiamato "calende", donde il nome "calendario". Il plenilunio (luna piena), verso la metà del mese, era il giorno delle "idi", consacrato a Giove. Fra le calende e le idi cadevano le "none", nel giorno in cui appariva il primo quarto. Per indicare un giorno del mese i romani contavano indietro a partire dalle calende, none, idi del mese successivo: p.es., il 24 febbraio (mese di 28 giorni) era il sesto giorno prima delle calende di marzo. Si contava praticamente così: 1 marzo (calende di marzo), 28 febbraio, 27 febbraio, 26 febbraio, 25 febbraio, 24 febbraio = sei giorni. Soltanto nel VI sec. d.C. questo metodo fu sostituito dalla numerazione in avanti. L'anno basato sui cicli della luna è più corto di 11 giorni e un quarto rispetto all'anno solare, perciò il calendario romano restava indietro rispetto al sole e la differenza aumentava di anno in anno, nonostante i tentativi fatti per correggerla. Al tempo di Giulio Cesare i mesi non corrispondevano più alle stagioni effettive: p.es. quando il calendario segnava marzo, il grano era già maturo ed era ora di mietere. Solo i sacerdoti conoscevano la durata esatta dell'anno e usavano aggiungere all'improvviso il cosiddetto mese intercalare, chiamato "mercedonio", sulla base della riforma di Numa. Per rimediare ai molti inconvenienti, nel 46 a.C. Cesare affidò a Sosigene, astronomo di Alessandria d'Egitto, l'incarico di modificare il calendario. Quest'ultimo fissò la durata di 30 giorni per i mesi di aprile, giugno, settembre e novembre, di 28 per febbraio e di 31 per tutti gli altri. Inoltre, calcolando la durata dell'anno solare in 365 giorni e 6 ore, venne introdotto l'anno bisestile, stabilendo che ogni quattro anni, il mese di febbraio avesse 29 giorni al posto di 28. "Bisestili" perché il 24 di febbraio (cioè il sesto giorno prima delle calende di marzo) veniva contato due volte (bis=due volte, sextus=sesto giorno). Fu necessario aggiungere all'anno 46 ben tre mesi supplementari. Dopo la morte di Cesare inoltre il mese "quintile" prese il nome di luglio, a ricordo della gens Iulia. Invece dopo la morte di Augusto il sestile fu chiamato agosto. I romani avevano inoltre una settimana di otto giorni: dopo sette giorni di lavoro i contadini avevano un giorno di riposo per recarsi al mercato, sbrigare i propri affari ecc. Solo nel III sec. d.C. decisero di adottare la settimana di sette giorni. Il nome dei giorni della settimana ha origine dai pianeti, secondo le credenze romane: lunedì era dedicato alla luna (lunae dies = giorno della luna), martedì a Marte, mercoledì a Mercurio, giovedì a Giove, venerdì a Venere. La parola "sabato" invece proviene dall'ebraico e significa "riposo", mentre la parola "domenica" ha origine cristiana e significa "giorno del signore", a ricordo della resurrezione di cui si parla nei vangeli. Molte civiltà al posto di "giorno del signore" usano "giorno del sole" (p.es. sunday o sonntag). Per indicare gli anni i romani citavano i nomi dei due consoli in carica per quell'anno ("sotto il consolato di... e di..."). Verso la fine della repubblica fissarono un punto di partenza per il conto degli anni, scegliendo il 21 aprile 753 a.C., data della fondazione di Roma. Nel VI sec. adottarono l'anno di nascita di Cristo.

"Calendario" viene da "calende", cioè dal nome che i Romani davano al 1° giorno di ogni mese. Ai tempi di Romolo l'anno cominciava a marzo e comprendeva 304 giorni distribuiti in dieci mesi. Numa Pompilio aggiunse due mesi (gennaio e febbraio) e portò i giorni a 355. Con la riforma attuata da C.Giulio Cesare nel 46 a.C. fu abolita la suddivisione dell'anno basato sui cicli lunari e si adottò il computo dei mesi fondato sul ciclo solare: l'anno, ancora diviso in dodici mesi, risultò lungo 365 giorni e sei ore. Le sei ore venivano accantonate per quattro anni consecutivi finché formavano un intero giorno, da aggiungere al mese di febbraio; questo anno di 366 giorni fu chiamato bisestile. Cesare stabilì che il giorno "ripetuto" fosse quello tra il 23 e il 24 febbraio; volle inoltre dare il suo nome ad uno dei mesi (Julius, per noi luglio) e più tardi Ottaviano Augusto seguì il suo esempio (agosto). Gli altri mesi presero il nome (che ancora conservano) per lo più da quello di divinità (ad esempio marzo dal dio Marte) o dall'ordine in cui si succedevano nell'anno (settembre=settimo mese, dicembre= decimo etc.) L'uso di dividere il tempo in periodi di sette giorni risale all'epoca dell'impero romano; ad ogni giorno fu dato il nome di uno dei sette pianeti conosciuti (si consideravano tali anche il sole e la luna) e ancora oggi noi chiamiamo i primi cinque giorni della settimana con gli stessi nomi usati nel II sec. d.C. In età più antica il modo con cui i Romani indicavano le date era invece molto diverso dal nostro ed aveva come punti di riferimento tre date fisse: le "calendae" (primo giorno del mese), le "nonae" (quinto giorno), le "idus" (tredicesimo giorno); nei mesi di marzo, maggio, luglio e ottobre le none cadevano il 7 e le idi il 15.. I giorni intermedi venivano indicati calcolando quelli che mancavano per arrivare alla data fissa successiva: per esempio, per indicare il 27 aprile si ricorreva alla formula "cinque giorni prima delle calende di maggio"I giorni erano indicati anche con una F quando erano considerati fasti, cioè favorevoli, e con una N quando erano considerati nefasti, cioè non adatti a svolgere attività pubbliche .I Romani dividevano il giorno in due parti: le ore diurne (dette prima, seconda, terza ecc.) erano dodici e andavano dall'alba al tramonto; le ore della notte, anch'esse dodici, andavano dal tramonto all'alba ed erano divise in quattro periodi di tre ore ciascuno detti "vigiliae", con riferimento ai turni di guardia delle sentinelle al campo. Per noi le ore sono sempre di sessanta minuti, per i Romani invece non erano di uguale durata durante l'anno, bensì variavano di stagione in stagione. Infatti l'ora era considerata la dodicesima parte del dì (periodo di luce nell'arco di una giornata), di conseguenza quelle del giorno erano più lunghe d'estate e più corte d'inverno, viceversa accadeva per quelle della notte. Per calcolare la durata e ala divisione del tempo , i romani si servivano di orologia a sole ( solarium ) oppure di orologia d acqua ( cleiydrae) ; successivamente ebbero anche clessidre a sabbia.

 
Molto probabilmente avete già visto dei numeri romani. Potete averli visti nella nota di copyright di vecchi film e spettacoli televisivi ("Copyright MCMXLVIII" invece di "Copyright 1948"), oppure nelle incisioni sui monumenti ("MDCCCLXXXVIII" invece di "1888"). Potete averli visti in sommari, usati come punti elenco, e riferimenti bibliografici.
È un sistema di rappresentare numeri che effettivamente risale all'antico Impero Romano.

Per "far di conto" gli antichi romani non usavano la numerazione scritta, ma utilizzavano piccoli sassi che in latino si chiamavano per l'appunto "calcoli".

Nei numeri romani, ci sono sette caratteri che sono ripetuti e combinati in vari modi per rappresentare i numeri:

I = 1
V = 5
X = 10
L = 50
C = 100
D = 500
M = 1000

La notazione romana è un esempio di sistema a legge additiva. Di regola si usa il numero più grande possibile, così 15 si scrive XV e non VVV o XIIIII.
Da ciò segue che i numeri sono sempre posti da sinistra a destra in ordine decrescente. Questo potrebbe portare alla scrittura di una lunga successione di simboli: per esempio, per indicare 99, si dovrebbe scrivere LXXXXVIIII.
In certi casi, quindi, la notazione romana usa anche la notazione sottrattiva, quando, per esempio, denota il 4 con IV cioè con 5-1.
In generale, si può dire che nella notazione romana una cifra che stia immediatamente a sinistra di un'altra che indica un numero maggiore va intesa in senso sottrattivo.

Ecco alcune regole generali per costruire numeri romani:

  • Il valore del numero è la somma dei valori dei caratteri.
    I è 1, II è 2, e III è 3. VI è 6 ("5 e 1"), VII è 7 e VIII è 8.
  • I "caratteri di decina" (I, X, C, e M) possono esere ripetuti fino a tre volte. Alla quarta, si deve sottrarre uno dal più vicino "carattere di quintina" (V, L, D).
    Non si può rappresentare 4 come IIII, lo si deve rappresentare con IV ("1 in meno di 5"). 40 è scritto come XL, 41 come XLI, 42 come XLII, 43 come XLIII ed infine 44 come XLIV ("10 in meno di 50, più uno in meno di 5").
  • Similmente, arrivati al 9, si deve sottrarre dal "carattere di decina" immediatamente superiore.
    Ovvero una cifra inferiore scritta a sinistra di una cifra con il valore immediatamente maggiore si sottrae.
    8 è VIII, ma 9 è IX ("uno in meno di dieci"), non VIIII (in quanto il carattere I non può essere ripetuto quattro volte). 90 è XC, 900 è CM.
  • I "caratteri di quintina" non possono essere ripetuti.
    10 è sempre rappresentato come X, mai come VV. 100 è sempre C, mai LL.
  • Le cifre dei numeri romani sono sempre scritte dal più grande al più piccolo (ordine decrescente) e letti da sinistra a destra, per cui l'ordine dei caratteri è molto importante.
    DC è 600; CD è un numero completamente diverso (400, "100 meno di 500"). CI è 101; IC non è un numero romano valido (perché non si può sottrarre 1 direttamente da 100; 99 si deve scrivere XCIX, "10 in meno di 100 e poi 1 in meno di 10").
  • Per indicare la moltiplicazione per 1.000 si ricorre alla sovrapposizione di un trattino "_" sul valore da moltiplicare.
    5.000 = 5.000, 10.000 = 10.000, 100.000 = 100.000, 1.000.000 = 1.000.000
  • Per indicare la moltiplicazione per 1.000.000 si sovrappone un doppio trattino "=" al valore da moltiplicare.
    1.000.000.000 = 1.000.000.000

Per calcoli o verifiche puoi usare un
convertitore tra numeri arabi-romani.

Queste regole conducono ad alcune osservazioni:

  1. C'è solo un modo corretto di rappresentare una quantità come numero romani.
  2. Il viceversa è anche vero: se una sequenza di caratteri è un valido numero romano, essa rappresenta una quantità univoca (cioè può essere letto in una sola maniera)
  3. C'è un numero finito di numeri arabi che possono essere espressi come numeri romani.
    I romani avevano diversi modi di esprimere quantità più grandi, per esempio mettendo una barra su un numero per indicare che la sua quantità doveva essere moltiplicata per 1000.
  4. Non c'è modo di rappresentare lo 0 in numeri romani. (Gli antichi romani non avevano il concetto di 0 come numero. I numeri servivano a contare quello che si aveva; come si fa a contare quello che non si ha?).
  5. Non c'è modo di rappresentare quantità negative in numeri romani.
  6. Non c'è modo di rappresentare decimali o frazioni con i numeri romani.

Contrariamente ai numeri arabi, che si utilizzano preferibilmente per la numerazione cardinale (uno, due, tre, etc.), i numeri romani sono largamente impiegati per gestire la numerazione ordinale (primo, secondo, terzo etc.).
In particolare sono utilizzati per i seguenti scopi:

  • numerazione ordinale dei capitoli di libri;
  • numerazione ordinale dei comma o dei paragrafi di una Legge;
  • classi scolastiche;
  • anno di edizione o pubblicazione di un film (nei titoli di coda).

Attenzione: per gli antichi romani non esisteva differenza tra i numeri ordinali e quelli cardinali poiché il simbolo "I" significava "numero 1" e anche "il primo".

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