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MEDIOEVO, SANTA
INQUISIZIONE E MISTERI
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IL MEDIOEVO E LA SANTA
INQUISIZIONE CON I SUOI MISTERI |
XXXIX. Un complotto.
Non rimaneva più nel palazzo della Garduna che il maestro, Gioachino,
Manofina, la sua compagna e i tre signori.
Alcune torcie si estinguevano lentamente, la sala immensa diveniva più
oscura, e la notte avanzata dava maggior solennità a quella riunione
misteriosa.
Erano due ore dopo mezzanotte.
Il maestro aprì allora un gran baule di querce posto in un angolo della
sala, ne tolse un registro di cartapecora giallo ed unto, un vasetto di
piombo pieno d'inchiostro, ed una forte penna d'oca malamente temperata;
quindi chiuse il baule che gli serviva ad un tempo da armadio e da tavolo, e
dopo aver disposto sul suo coperchio diversi oggetti che ne aveva cavati,
andò verso la porta per assicurarsi s'era ben chiusa.
La stanghetta della serratura non era, per certo, entrata bene nella sua
bocchetta, perché nell'istante in cui Mandamiento stava per spingere colla
sua mano vigorosa quella enorme massa di querce, per chiuderla intieramente,
questa si aprì quasi da sé medesima, ed un nuovo personaggio entrò nel
palazzo della Garduna. Era Josè.
Avvertito da Gioachino, ei s'era recato in quella riunione. Alla vista del
fraticello, Estevan mandò un grido di rabbia: e volgendosi verso Gioachino,
gli disse con voce cupa:
"Tu m'hai tradito, miserabile!" Il taverniere non si turbò menomamente, e
rispose con tono più tranquillo:
"No, signore, non v'ho tradito." Era un tal espressione di verità nella
fisionomia di Gioachino, che Estevan ne fu colpito. Nello stesso tempo
Mandamiento ignorando il motivo di quella visita notturna, riceveva il
Domenicano con tutto il rispetto dovuto al favorito del grand'inquisitore.
"Che brama Sua Reverenza?" domandò finalmente il maestro alquanto allarmato.
"Parlare a questi tre signori," rispose Josè.
Mandamiento inarcò il sopracciglio.
"Che vuole questo fraticello?" domandò piano Valero ad Estevan. "Ora lo
sapremo," rispose il giovane conte. Così dicendo si avanzò verso il monaco.
Josè gli porse amichevolmente la mano.
Estevan non la prese; ma guardando il fraticello in volto gli disse:
"Non bastava l'avermi tradito; volete anco perdermi, non è vero?"
"Io non vi ho tradito," rispose Josè, con accento soave e mesto; "vengo a
consolarvi ed a porgervi aiuto."
"Ma Dolores?" proseguì Estevan, la cui gelosia si risvegliava intensa e
crudele in presenza di colui del quale sospettava; "Dolores! Che ne avete
fatto?"
"Dolores vi sarà resa sana e salva," continuò il Domenicano.
"Sì, perché io la libererò," esclamò impetuosamente Estevan "le vostre
perfidie non m'illudono più, don Josè; e se volessi in questo momento,"
proseguì con amarezza, "se volessi!.vedete, don Josè? voi siete stato
imprudente.qui siamo cinque contro di voi, e questi uomini mi sono
affezionati."
"La prova che non vi temo," rispose Josè, "è che io sono venuto, e son
venuto solo. Se io avessi tradito, a che dovrei cercarvi? Qual bisogno ho io
di voi? Credetemi, Estevan, non siate sconoscente verso i vostri veri amici;
il loro soccorso vi è necessario, ed essi ve l'offrono con tutta la
sincerità della loro anima."
"Per bacco!" esclamò ad un tratto don Rodrigo; "è il fraticello che m'ha
salvato l'altro dì dal furore dei suoi confratelli. - Reverenza!" continuò
avvicinandosi a Josè, "permettetemi di ringraziarvi del soccorso che m'avete
prestato, or sono due giorni, alla taverna della Buona Ventura. Io ho
ricuperato intiera la mia ragione, e voglio provarvelo.padre mio."
"La ragione non consiste nel dire delle cose sensate," rispose freddamente
Josè, "ma nel dirle a tempo ed a proposito; quando si semina sulla pietra,
gli augelli mangiano il seme, e non produce nulla a quegli che ha seminato.
Le vostre declamazioni vi faranno bruciar vivo, credetemi."
"Ciò non seguirà," replicò Valero; "l'Inquisizione mi crede pazzo."
"L'Inquisizione potrebbe alfine avvedersi che voi siete un pazzo pericoloso,
e trattarvi come tratta i savii."
"Ebbene!" esclamò Valero, " che m'importa? Il martirio è una bella gloria."
Per la seconda volta dacché conosceva Josè, Estevan era vinto da quella
semplicità sì vera, da quell'incanto d'attrazione che scorgevasi in tutti i
tratti del monaco: gli porse la mano a sua volta in atto franco ed
amichevole; Josè la prese e la strinse con affezione, dicendogli colla sua
voce dolce ed incantevole:
"Siamo amici.amici fino alla morte.io lo merito.Un giorno forse Josè vi sarà
carissimo."
Estevan esitava ancora; un dubbio crudele l'angustiava.
"Don Josè," disse finalmente, "ancora una cosa: se volete convincermi,
rendetemi Dolores e suo padre , ed io vi crederò."
"Pensate a voi," disse Josè, "che il Sant'Uffizio renda così facilmente le
sue vittime?"
"No, ma Josè il favorito dell'inquisitore, fa quel che vuole nel
Sant'Uffizio."
"Josè può molto," rispose il favorito, "ma non può rendervi un uomo a cui
son state rotte e bruciate le membra."
"Che dite?" domandò vivamente Estevan.
"Dico che Manuel Argoso ha subito ieri la tortura del fuoco e quella
dell'acqua;
dico essere impossibile ch'io lo salvi, poiché non può camminare."
"Ma Dolores! Dolores!" gridò il misero giovane in una inesprimibile
angoscia.
"State tranquillo sul suo conto; Dolores non ha subito alcuna tortura, ed io
la libererò. Se dopo l'atto-di-fede non la trovate a casa di Giovanna, fate
di me quello che volete, don Estevan. Io non sono poi un avversario da
temersi," aggiunse con quell'accento profondo di tristezza che sembrava
essere caratteristica della sua indole.
"Giurate di rendermi Dolores?" domandò Estevan. "Il giuramento è stato
inventato dai bricconi," rispose Josè; "io non giuro, ve lo prometto."
"Signori!" esclamò il giovane Vargas, "all'opera e conveniamo dei nostri
mezzi. Trattasi di liberare don Manuel Argoso o di morire. Ecco un aiuto che
il cielo ne manda," aggiunse accennando Josè.
"Un fraticello!" disse l'acre Valero; " a che può egli servire in una
congiura?"
"Io confesso tutti i giorni," rispose Josè.
"Bene! Bene!" disse Valero, "dimenticava che voi combattete nelle
tenebre[1].
"Iddio cangia il male in bene," rispose Josè.
"Siete pazzo?" disse piano don Ximenes ad Estevan, "volete consegnarci a
questo inquisitore?"
"Iddio cangia il male in bene," ripeté Estevan.
"Ebbene è piaciuto a Dio di cambiare questo inquisitore in una buona e
generosa creatura che ci servirà con tutto il suo potere. State dunque
tranquillo, don Ximenes, e non temete nulla. Orsù, maestro," proseguì
volgendosi verso Mandamiento, che attendeva in un canto il risultato di quel
conciliabolo, "siete pronto a mettere a mia disposizione tutte le vostre
forze?"
"Le nostre forze," rispose il maestro, "possono essere più o meno
considerevoli, secondo le esigenze dei mandatari ed il salario offerto alla
confraternita."
"Non è questione di salario, io pagherò generosamente."
"Il nostro fratello Gioachino ha parlato, mi pare, di dugentomila reali,"
aggiunse Mandamiento.
"Non è abbastanza, maestro? Non potete, per questa somma, mettere in
campagna tre o quattrocento persone?"
"Dove volte che le trovi?" osservò piano don Ximenes.
"Ne troverà ventimila al bisogno," disse Josè.
"Ebbene, maestro, lo potete?" riprese Estevan.
Il maestro rifletté alcuni istanti, poi rispose:
"Lo posso, signor cavaliere; ma bisogna aggiungere ventimila reali per le
spese de' viaggi, poiché sarò obbligato di far venire dei fratelli dalle
città circonvicine[2]."
"I ventimila reali li darò io!" esclamò don Ximenes de Herrera.
"In questo caso," disse Mandamiento, "le vostre signorie vorrebbero farmi
questa promessa in iscritto? Allora scrivo l'ordinazione sul registro della
confraternita."
"Facciamolo pure," disse Estevan.
Il maestro prese allora nel suo registro un foglio di carta, e, presentando
la penna s don Estevan:
"Scrivete signor cavaliere," gli disse.
Estevan scrisse:
"Io, Estevan, conte de Vargas, m'obbligo e prometto di pagare a Mandamiento,
maestro della confraternita della Garduna, la somma di dugento ventimila
reali, il giorno successivo all'atto-di-fede che avrà luogo il 4 di giugno
dell'anno corrente.
Siviglia, il 27 maggio dell'anno 1534.
Estevan conte de Vargas.
E più in basso don Ximenes scrisse :
Io pure mi obbligo e prometto di pagare la detta somma al signor
Mandamiento, in mancanza di don Estevan de Vargas, il giorno dopo a quello
sopra indicato.
Ximenes de Herrera.
"Basta, signori. ora tocca a me prendere nota della vostra ordinazione,"
continuò il maestro
e scrisse sul suo registro:
"Ordinazione fatta alla confraternita della Garduna dal signor Estevan de
Vargas, il 27 maggio 1534.
1° Disporre a favore di detto signore di quattrocento membri della Garduna,
tanto postulanti e novizi quanto bravi, coperte e sirene che nel loro genere
sono ugualmente utili alla confraternita e concorrono alla prosperità.
2° Disporli il giorno del prossimo atto-di-fede in maniera da oscurare il
grande inquisitore.
"Cancellate; io non ho detto questo," interruppe Estevan; "lo porterete via
solamente; non omicidii, signor Mandamiento."
"No, certo," disse anco Josè, "tu lo porterai via, e lo condurrai nei
sotterranei scavati sotto il tuo ricovero. Guardati dall'ucciderlo."
"Cancellate, cancellate la parola oscurare," aggiunse Estevan.
Il maestro finse di cancellare con la sua penna priva d'inchiostro, poiché
aveva avuto cura di nettarle sulla sua veste senza che nessuno se ne
accorgesse.
Quindi riprese:
".Disporli in maniera da portar via il grande inquisitore, e liberare
l'antico
governatore di Siviglia, ingiustamente condannato dall'Inquisizione. E dopo
averlo liberato, condurre il governatore alla Garduna per consegnarlo nelle
mani di don Estevan de Vargas."
"O nelle mie," interruppe Josè.
"E' sua signoria che comanda," disse il maestro. "S^,S^," disse Estevan,
"scrivete: o fra le mani di sua signoria don Josè, elemosiniere di Sua
Eminenza il grande inquisitore."
"Questo è tutto?" continuò Mandamiento.
"Mi pare che basti," disse don Rodrigo; "ben inteso, signor Mandamiento, che
nulla sarà da voi trascurato per il buon successo di questa intrapresa."
"Signor cavaliere," rispose il capo, "non contate nulla il nostro onore e la
nostra reputazione, che sarebbero compromessi da una sconfitta di questa
natura?"
"Aggiungete," disse don Josè: "Ritenere il grande inquisitore nei
sotterranei della Garduna, fintanto che don Josè permetta a Mandamiento di
porlo in libertà."
"E' inutile," rispose il maestro; "quando avrò fatto dell'inquisiore quello
che debbo farne, vostra signoria ne disporrà a suo talento.
"Io m'incarico di lui," disse Manofina, che per rispetto alla nobile
assemblea, era rimasto taciturno fino a quel momento.
"Io ti darò le istruzioni a questo riguardo," disse Mandamiento, volgendogli
uno sguardo significativo.
"Bene! Bene! Maestro, le vostre istruzioni saranno eseguite."
"Ora, signori," disse Valero, "a voi il rimanente."
"Fino al momento," disse a sua volta Josè, "silenzio assoluto."
"Il giorno dell'atto-di-fede," aggiunse don Ximenes, "troviamoci coi nostri
amici agli sbocchi della piazza."
"I miei garduni non hanno che far nulla con voi,"
disse Mandamiento; "credetemi, signori, non vi ci mischiate. Trattasi di
liberare il governatore, non è vero? Io me ne incarico, i miei bravi ed io
faremo tutto."
"Però," disse Estevan, "se una mischia venisse a impegnarsi, bisogna che noi
possiamo aiutarvi all'uopo."
"E' inutile, signori; preparate il popolo soltanto; non perché ci aiuti, ma
perché ci lasci fare; questo basterà."
"Una rivoluzione generale avrebbe salvato tutte le vittime," osservò Valero.
"Oimè, questo garduno ha forse ragione," disse il giovane Vargas,
sospirando; "forse dovremo lasciarlo fare.
"Sì, egli ha ragione," disse Josè, "un'aperta rivoluzione non servirebbe, in
questo momento, che a raddoppiare le crudeltà dell'Inquisizione e ad
aumentare il numero delle vittime. Credetemi, le precauzioni sono prese per
difendersi all'uopo; truppe numerose sono pronte e non è giunto ancora il
giorno di poter lanciare questo povero popolo in una insurrezione. Trattasi
di saperlo governare; usiamo astuzia, non audacia. Dimenticate che
l'imperatore
Carlo V deve assistere all'atto-di-fede, e che numerosa milizia
l'accompagna?"
"Don Josè ha ragione," aggiunse don Ximenes de Herrera: "una rivoluzione in
quel giorno somiglierebbe ad una cospirazione contro il re, e noi vogliamo
attaccare soltanto l'Inquisizione."
"Ebbene! signori, che decidiamo?" domandò Valero.
In quel momento fu battuto un gran colpo alla porta della sala. Tutti
trasalirono.
Mandamiento, senza sconcertarsi, spinse una colonna mobile, la quale,
girando su se medesima, scoperse un'apertura che metteva in un'altra sala
debolmente illuminata: era il gabinetto del maestro.
"Entrate tutti là," disse.
Ubbidirono. Mandamiento rimise al suo posto la colonna, e corse verso la
porta.
Aprì, ed era la Graziosa. Essa si precipita tutta il lacrime nella sala.
"Che cos'è stato, Graziosa?" disse il maestro, "è bruciata forse la tua
casa?"
"Dov'è mio fratello?" domandò essa tremando.
Mandamiento riaprì il nascondiglio.
"Non temete nulla, signori," disse, "non v'è nessun pericolo, potete
uscire."
Rientrarono tutti nella sala.
"Oh! Signori," gridò la Graziosa," se sapeste qual disgrazia è accaduta!" E
la gitana, soffocata dalle lacrime non poteva parlare.
"Che c'è dunque?" dissero tutti ad una voce.
"L'Apostolo, signori, il padre di Siviglia."
"Ebbene, finisci."
"Arrestato! Arrestato dall'Inquisizione!" proseguì con voce interrotta dai
singulti.
"O Dio vendicatore!" esclamò Estevan.
"L'hanno arrestato all'uscir della predica," continuò la sorella di
Gioachino, " sotto pretesto che aveva predicato delle eresie."
"Ebbene, don Estevan," disse Valero, "risparmiate il buon Pietro Arbues!
Risparmiate il re che permette tali iniquità1"
"Don Rodrigo, verrà la nostra volta," rispose Estevan; "la forza dell'uomo
consiste nel saper attendere."
"Maestro," egli disse a Mandamiento, "voi agirete solo coi vostri garduni,
v'impadronirete
dell'inquisitore e di Manuel Argoso.Noi, signori, pensiamo a preparare il
popolo; sarà facile prepararlo per questa causa, che è sua.
"Non scordate di assicurarvi della persona di Pietro Arbues," soggiunse
Josè.
"Vostra Reverenza stia tranquilla," rispose Mandamiento, "Sua Eminenza non
si salverà."
Stabilite le cose in tal guisa, i tre signori e Josè uscirono insieme dal
palazzo della Garduna.
XL. Il sermone all'angolo delle strade.
Era il quattro di giugno dell'anno 1534. Erano suonate cinque ore del
mattino.
La popolazione di Siviglia erasi desta più di buona ora del consueto. Un
grande avvenimento teneva tutti gli animi sospesi. Era il giorno
dell'atto-di-fede.
Giorno di festa solenne e sacro, nel quale nessuno doveva lavorare, ma
pregare.
A quell'ora un compagnia di giovani nobili, aventi alla lor testa don
Rodrigo de Valero percorrevano le vie di Siviglia, ragionando fra loro con
aria di mistero e fermando talvolta le persone del popolo che incontravano.
Parlavano loro per alcuni minuti; quindi i popolani si allontanavano con
aria pensierosa e preoccupata, come se avessero ricevuta un importantissima
confidenza.
La fisionomia dei cavalieri era cupa e meditabonda: camminavano a due a due,
fermandosi talora in circolo per comunicarsi un'idea; quindi riprendendo il
corso della loro passeggiata, continuavano la loro propaganda popolare,
scopo unico di quella escursione sul mattino.
Qualche cosa di misteriosamente terribile, come quelle sorde convulsioni
della natura che precedono l'uragano, agitava il popolo di Siviglia.
Profondamente esacerbato dalle insinuazioni di Valero, di Estevan e dei loro
amici; sedotto fino nel santo tribunale dell'eloquenza insidiosa di Josè,
che dal suo lato aveva operato nelle tenebre, il popolo di Siviglia, quasi
tutto composto di marrani, di moreschi o d'ebrei apparentemente convertiti,
il popolo aspettava con una collera concentrata il giorno dell'atto-di-fede
reale. Stanco delle odiose persecuzioni che pesavano su di lui, stanco della
sua longanimità, la quale non aveva servito che ad aumentare l'audacia e la
crudeltà dei suoi oppressori, era in quello stato d'esacerbazione in cui la
più lieve scintilla serve a destare un grandissimo incendio.
Tale era stato il risultato ottenuto dall'accorto Valero. In quel momento
poteva realizzarsi per lui la predizione che aveva fatta alcuni giorni
innanzi uscendo dalla taverna.
-Questo popolo farà quello ch'io vorrò. -
Valero era stato aiutato nei suoi maneggi dai giovani signori che
l'accompagnavano
in quel momento, anime ardenti, riscaldate dal grande e sublime amore della
libertà. Figlia del cielo sì di sovente incompresa, l'uomo non adora il più
spesso in sua vece che un idolo vano e adornato, opera imperfetta delle sue
proprie mani.
Ma quelle grandi anime spagnole non adoravano una vana parola, un'immagine
ingannevole; la vera libertà figlia del cielo, era l'oggetto dei loro voti e
delle loro speranze, la libertà protettrice e tollerante, quella vergine
sublime, sorella della carità cristiana, la quale cuopre com'essa i poveri
ed i fanciulli coi lembi della sua candida veste, li nutrisce, li consola, e
manda il suo soffio divino sulle ali del genio abbattuto e scoraggiato
dicendogli: -Avanti! Avanti! Io sono pronta ad aprirti la strada e a
sostenerti.-
Vergine celeste, amante dei grandi cuori di tutte le età, era dessa che
animava quei baldanzosi cavalieri spagnuoli, i quali per tanto tempo
lottarono contro la tigre inquisitoriale.
"Coraggio, coraggio, amici miei," diceva Valero, "noi otterremo l'intento:
questa giornata checché ne dica don Estevan, non sarà infeconda per la
felicità della Spagna."
"Ah!" rispose Estevan, " perché non posso versare nel cuore del popolo la
convinzione che mi anima, e renderlo in un giorno quello ch'io spero che sia
fra qualche secolo, libero, cioè felice! Una sola cosa mi affligge. Questo
popolo buono, semplice e credulo, a cui è stato detto, tu proteggerai oggi
coloro che salveranno il tuo antico governatore, questo popolo crede per ciò
solo di fare un gran passo verso la libertà. e non fa che servire un
interesse personale."
"Raddoppiare l'odio del popolo verso i suoi oppressori," disse don Ximenes,
"è già servirlo, è prepararlo a quella grande e generale rivoluzione che
tosto o tardi avrà luogo contro un potere iniquo e spietato. Nel gran
processo d'un popolo contro i suaoi oppressori, ogni causa particolare si
lega alla causa comune."
Mentre parlavano così, trovaronsi nella via fermati da un gruppo
di monaci mendicanti mezzi ebbri. Questi monaci uscivano da una taverna in
cui avevano passata la notte.
Molti fra loro erano giovani, ed i loro volti foschi e lucenti, portavano
l'impronta
della golosità oziosa, e dell'abuso dei beni terrestri.
Che bisogno avevano di mettersi in pena? Tutto il mondo lavorava per essi.
Questi monaci erano bruni in viso, il loro collo nervoso e la loro andatura,
alquanto superba, accusavano il vigore e la libertà delle razze del deserto,
dalle quali sono scesi gli abitanti dell'Andalusia e di Valenza. Questo tipo
s'è conservato fino ai giorni nostri; mettete un burnus ad un monaco
spagnuolo, e ne avrete un beduino.
Essi avevano abiti sordidi, mani luride, e tutto quello che si vedeva della
loro persona manifestava l'assenza completa di ogni cura esteriore.
L'espressione
dei loro occhi, audace ed ambigua ad un tempo, disgustava il pudore ed
inspirava lo spavento.
La loro barba nera o grigia somigliava ad un prunaio, era inoltre tutta
cosparsa di grani dell'elleboro, polvere fina e rossastra di cui si faceva
uso allora alla maniera del tabacco, che fu conosciuto più tardi sotto
Caterina de' Medici. Questa polvere d'elleboro è chiamata oggi tabacco di
Spagna. I monaci di Spagna ne facevano un enorme consumo. Tuttavia sapevano,
al bisogno, gettare un denso e vasto manto d'ipocrisia sulla turpitudine
della loro anima.
Quantunque un po' ebbri, a misura che l'aria fresca arrivava al loro viso,
riprendevano tutta la loro ragione, e potevano nascondere il loro stato.
Eravi molta gente nella strada.
"Fratelli," disse il più attempato dei monaci, "oggi è giorno dell'atto-di
fede, noi non possiamo scegliere un miglior circostanza per propagare la
santa fede cattolica. Fermiamoci qui: io esorterò il popolo."
Così parlando, il monaco accennava una larga pietra piana, addossata ad una
casa e sormontata da una nicchia in cui la pietà degli abitanti della casa
aveva posta un'immagine della Vergine, davanti alla quale manteneva
costantemente un lume.
Il monaco montò sulla pietra, fece un gran segno di croce, pregò alcuni
istanti davanti all'immagine, poscia volgendosi verso il popolo ch'erasi
affollato intorno a lui, lo benedisse, e si preparò a cominciare il suo
sermone.
In quel momento Valero l'interruppe.
"Monaco!" gli disse, "tu dovresti aspettare di aver dormito per predicare,
invece di venir qui, dopo una notte di crapula, a profanare la parola di
Dio. Non sai che tutto ciò che passa per labbra impure diviene impuro?"
il monaco guarò con una collera indicibile colui che ardiva apostrofarlo
così.
"Non ci badate, reverendo," disse uno degli altri monaci; "è Valero il
pazzo; egli ha il diritto d'insultare tutto il mondo."
"Che fai tu qui a quest'ora?" proseguì indirizzandosi al vecchio signore.
"Vengo a vedere come gli scribi ed i farisei sono seduti sulla cattedra di
Mosè," replicò severamente don Valero.
"Miserabile pazzo! Voui tacere?" gridarono i monaci.
Valero continuò con enfasi profetica, guardando il popolo meravigliato di
tanto ardire.
"Tutte le cose che vi dicono d'osservare, osservatele e fatele; ma non le
loro opere, perché essi dicono e non fanno."
"Vuoi tacere?" ripeté il predicatore.
"Lasciatelo," disse il popolo, "lasciatelo parlare."
Valero proseguì senza sconcertarsi:
"Essi legano insieme fardelli insopportabili, e li pongono sulle spalle
degli uomini, ma non vogliono muoverli col loro dito."
"Fratelli," continuò il predicatore, "in questo giorno di glorificazione per
il Nostro Signore, in cui la chiesa trionfante riporta vittoria sulle eresie
ce desolano la terra."
"Serpenti! Razza di vipere!" interruppe Valero, "voi fate morire i giusti ed
i profeti; ed il sangue dei giusti e dei profeti ricadrà su di voi!"
Queste energiche parole, tolte dal Vangelo,, ebbero un'eco immenso nel
popolo. Pochi erano quelli della folla che non avessero in cuore una viva
piaga che quelle parole toccavano dolorosamente. Un sordo mormorio girò
attorno ai monaci, e se non si diede loro la baia, fu perché in quel momento
un'interna tristezza si mescolava allo sdegno ed alla collera del popolo; ei
sentiva il bisogno di vendicarsi grandemente, come fa talvolta quando è
stanco di soffrire.
"Rodrigo de Valero dimentica le frescherie della sua vita passata," disse il
predicatore con sarcasmo.
"Rodrigo si è pentito, e Iddio gli ha perdonato," replicò il vecchio
signore; "ma voi avete la coscienza del male, e tuttavia perseverate nel
male. Guardatevi! La collera di Dio si fa qualche volta aspettare, ma è
certa, perciò andrete tutti là dove sono pianti e stridori di denti[3].
"Il vino e le donne non fanno mai degli eretici[4]," dissero i monaci in
cattivo latino; "l'inferno è per gli eretici."
"Andate!" gridò loro Valero, "depositari infedeli della legge di Cristo,
voi, il cui cuore è pieno di rapina e d'intemperanza, andate a tosare le
pecore che il buon pastore portava sulle spalle, per arricchirvi delle loro
spoglie. Andate, vampiri, a suggere il sangue di coloro che sono immersi nel
sonno."
"Il pazzo è più ragionevole di noi tutti," disse alcuni popolani.
"Questi monaci sono ubriachi," aggiunsero altri, "andiamo via di qua."
Il gruppo di popolani e popolane che s'era formato intorno al predicatore si
dileguò subito, e si disperse nelle strade.
I monaci, vedendosi privi d'uditori, si allontanarono mormorando tra' denti,
e gettando sguardi d'odio a quello che chiamavano il pazzo. L'orologio della
cattedrale suonò otto ore.
Seguì un gran tumulto nella folla che ingombrava le vie, il popolo si portò
verso il palazzo dell'Inquisizione.
Si vedeva un gran numero di persone, le quali non si perdevano di vista,
poiché si cangiavano fra loro sguardi d'intelligenza.
Alcuni si accostavano pronunziando a voce bassa queste due parole.
"Dio e libertà." Tutte queste persone erano del complotto.
Scorrevano tra la folla, aiutandosi coi gomiti per aprirsi un passaggio; e
quando il popolo era arrivato davanti al palazzo dell'Inquisizione, erano
giunti a trovarsi alla testa della folla avida e curiosa di quelle lugubri
tragedie sì di sovente rinnovate, delle quali si pasceva come d'uno
spettacolo.
La processione usciva in quel momento dal palazzo dell'Inquisizione.
I carbonai aprivano la marcia; erano in numero di cento, e ognuno di essi
era armato d'una picca e di un moschetto[5].
Veniva quindi una gran croce bianca, vessillo dei figli di San Domenico de
Guzman, portata da un monaco dell'Ordine; poi gli stessi Domenicani vestiti
delle loro lunghe tonache e del manto pio. Sul loro petto, nel mezzo dello
scapolare nero che cadeva fino ai loro piedi, spiccava un gran croce
bianca[6]; un lungo rosario pendeva dalla loro cintura. Questa sacra milizia
era innumerevole, i Domenicani pullulavano in Ispagna.
Dopo di essi veniva il duca di Medina-Coli, il quale portava, secondo il
privilegio accordato alla sua famiglia, il grande stendardo della fede[7].
Era una bandiera di damasco purpureo, sulla quale erano state ricamate da un
lato le armi di Spagna, dall'altro una spada nuda circondata da una corona
di lauro, con questa iscrizione: Justitia et misericordia.
Appresso al nobile duca venivano i grandi di Spagna ed i famigliari
affezionati[8] dell'Inquisizione.
Questi ultimi erano in gran numero. Il potere più iniquo ha sempre numerose
creature: il terrore e l'interesse personale sono grandi veicoli, e
l'egoismo
è la lebbra dell'umanità.
La folla guardava silenziosa sfilare il corteo. I monaci ed i famigliari
camminavano umilmente a testa bassa borbottando a fior di labbra le sublimi
preghiere della Chiesa cristiana, divenute insipide e non espressive
passando per la bocca impura di quegli uomini dal cuore di ghiaccio. Essi
conoscevano a fondo il formulario dei devoti, ma nulla delle pratiche della
vera pietà.
Il popolo riamanea, suo malgrado, muto ed esterrefatto in presenza di quelle
pompe della morte.
Bentosto comparvero i condannati, che erano in numero di cinquanta.
Procedevano confusi uomini con donne, vecchi con fanciulli, senza
distinzione di rango né di sesso.
Prima venivan le vittime condannate a leggiere penitenze; esse erano vestite
d'un sanbenito di tela con una gran croce di sant'Andrea sul petto. La loro
testa era scoperta, ed i loro piedi nudi si ammaccavano nelle asprezze della
strada. L'attitudine di quei poveri infelici era triste ed umiliata;
sentivano che, quantunque scappati alla morte, l'Inquisizione li condannava
ad una infamia eterna. Non osando distruggere la loro vita materiale, essa
annientava la loro vita morale; e queste si chiamavano leggiere
penitenze[9].
Dietro le prime vittime venivano i condannati alle galere, alle fruste ed
alla prigionia[10].
Dopo queste procedevano i condannati al fuoco, i quali mercè una tardiva
confessione, avevano ottenuto il favore dello strangolamento. Portavano un
sanbenito il quale era dipinto di diavoli e di fiamme rovesciate. La loro
testa era coperta da una coroza alta tre piedi.
Coloro che dovevano essere bruciati vivi venivano gli ultimi. Il loro
sanbenito, era pure coperto di figure diaboliche, ma le fiamme erano
ascendenti. Portavano essi pure la coroza. Ogni condannato portava in mano
un torcetto di cera gialla.
Coloro che erano dannati a morte, venivano scortati da due famigliari e da
due frati. Erano generalmente magri, pallidi, lividi; molti non potevano
camminare che con l'aiuto dei monaci e dei famigliari, i quali piuttosto che
sorreggerli, li portavano.
Era una processione di agonizzanti che andava incontro alla morte.
Fra costoro lo sventurato Manuel Argoso veniva ultimo.
Colpito in tutte le sue membra, indebolito dai suoi dolori morali, dal
regime del carcere, dalla tortura dall'acqua, in conseguenza della quale
molti vasi eransi rotti nel suo petto, ed avevano provocato delle emottisi,
Manuel Argoso non camminava; i suoi piedi, arsi fino ai nervi, non potevano
sostenerlo. Era portato da due famigliari. Due monaci domenicani, che
l'aiutavano
pure a camminare, l'esortavano con voce melata a convertirsi, ma l'infelice
conte di Cevallos sembrava aver perduto perfino il sentimento
dell'esistenza.
Il suo viso ferreo e livido aveva già il colore della tomba, ed i suoi occhi
vitrei, fissi senza espressione, avevano quella direzione obliqua che
prendono gli occhi dei moribondi, nel momento in cui, pronti a lasciare la
terra, volgono forse lo sguardo verso un'altra parte.
Chi può penetrare i misteri dell'agonia e della morte, di quell'ultima lotta
fra la forma terrestre e l'uomo immateriale?
Alla vista del loro antico governatore, di quell'uomo giusto, dolce e
caritatevole che avevano amato come un padre, le persone del popolo si
sentirono commosse e intenerite fino alle lacrime, ma non ardivano
manifestare a viso scoperto la loro compassione. Molti abbassavano la testa
sulle loro mani congiunte, per nasconder così le lacrime che
involontariamente sfuggivano loro dagli occhi.
Nel momento in cui i condannati al fuoco uscirono dalle prigioni, i garduni,
confusi nella folla, armati d'un rosario d'una lunghezza molto edificante,
ed avendo alla loro testa Mandamiento, sfilarono in processione ai due lati
delle vittime, e seguirono devotamente il corteo pregando con fervore. Due
bravi, forti e robusti, si tennero vicini al governatore, molti novizi
camminavano davanti e dietro di essi, pregando e dando tutti i segni
esteriori della più profonda pietà.
Un gran numero di garduni eransi mischiati fra i popolani; costoro,
preparati da Estevan e dai suoi amici, si prestavano, senza saperlo a questo
complotto misterioso; si separavano da sé stessi senza dir nulla ogni volta
che un garduno aveva bisogno di andare o di venire liberamente secondo il
posto che voleva occupare. A misura che la processione sfilava, nuovi
garduni si ponevano devotamente a i due lati.
Comparvero finalmente le ultime vittime, quelle che sfidavano la tortura e
le fiamme, cioè i morti.[11]. Neppure a questi erasi voluto lasciar la pace
della tomba. Non potendo ardere la loro carne, ardevano le loro ossa e la
loro effigie. Erano chise in alcune casse; e statue di cartone, immagini di
coloro che non erano più, venivano portate nel luogo del supplizio per
essere poste sul rogo.
L'Inquisizione sarebbe andata a cercare le sue vittime nel paradiso o
nell'inferno
per soddisfare la sua santa vendetta!
Tutto il tempo che aveva durato il passaggio dei martiri, un profondo e
religioso silenzio aveva regnato nella folla; essa seguiva con occhio avido
ed intenerito il loro cammino lento e penoso. Era cosa triste ed orribile ad
un tempo il vedere quei monaci empi e fanatici, con un crocifisso nelle mani
e parole di pace sulle labbra, esortare le vittime della loro barbarie in
nome di Colui che sulla croce perdonò ai suoi carnefici.
Oh1 come in quei tempi odiosi di fanatismo e d'oppressione religiosa
compievansi queste profetiche parole dell'Uomo-Dio:
-Io non sono venuto a portar la pace sulla terra, ma la spada[12]-.
Il divino riformatore prevedeva tutto quello che i suoi discepoli di tutte
le età avrebbero dovuto soffrire dagli scribi e dai farisei, schiatta impura
che si perpetua per l'affigliazione, e non per la creazione, e si pasce di
cadaveri come i vermi del sepolcro.
Bentosto un grande scalpitio di cavalli annunziò la presenza
degl'inquisitori.
I Consiglieri della Suprema, gl'inquisitori ordinari, ed i membri del clero,
formanti un'immensa cavalcata, venivano dopo i martiri. Il grande
inquisitore chiudeva la marcia, scortato dalle sue guardie del corpo.
Josè era alcuni passi avanti a lui.
A misura che la cavalcata sfilava, alcuni garduni si posero ai due lati
sempre borbottando e pregando. Nel momento in cui passò il grande
inquisitore, Manofina, seguito dalla sua fedel Colubrina, si mise umilmente
a camminare al suo fianco, pregando con maggior fervore degli altri.
Alcuni momenti dopo si udì un prolungato abbaiamento; era il segnale che
avvertir doveva Mandamiento che la processione era uscita per intiero.
Allora il maestro, che era il punto di mira dei garduni, fece un gran segno
di croce, e baciò la medaglia del suo rosario.
Aveva appena fatto questo segno convenuto, che i due bravi, i quali erano
vicini al governatore, allontanarono con violenza i famigliari che lo
sostenevano, portarono via Manuel Argoso nelle loro braccia di ferro, mentre
i novizi tenevano i famigliari, ed evasero colla rapidità della folgore.
La folla si divise da sé stessa per favorire la loro fuga; ed i garduni
disparvero come per incanto nelle tortuose vie di Siviglia.
I monaci che scortavano il governatore, non che coloro che avevano veduto il
colpo, spaventati e timorosi d'una rivoluzione, gettarono lungi il
crocifisso, e vollero fuggire; ma la folla eransi chiusa attorno ad essi,
sicché fu loro impossibile l'uscire.
I garduni erano prudentemente evasi l'uno dopo l'altro, il resto della
compagnia aveva continuato a pregare seguendo la processione. Il grande
inquisitore, troppo lontano, non si era accorto di nulla. Un nuovo
abbaiamento si udì alcuni passi distante da Manofina.
Bentosto il bravo, colla rapidità d'un daino, saltò sulla groppa del cavallo
che portava il grande inquisitore, colpì Pietro Arbues col suo pugnale nel
mezzo del dorso, discese poi sì prestamente, e si allontanò con tanta
rapidità, che rimase impossibile vedere chi aveva fatto il colpo[13]. La
folla si era divisa là pure per favorire la figa del bravo; ma nel momento
in cui Manofina scendeva da cavallo, la sirena, prendendo vivamente pel
braccio uno sgherro del Sant'Uffizio, si pose a gridare. "E' lui, è
l'assassino!
Egli voleva uccidere il grande inquisitore!" ed essa lo riteneva con tutte
le forze delle sue piccole mani nervose per dare il tempo a Manofina
d'allontanarsi.
Questo avvenimento era stato sì rapido, che appena coloro i quali
camminavano immediatamente davanti all'inquisitore avevano potuto
avvedersene. Josè solo, attento a tutto quello che accadeva, aggrottò il
sopracciglio in aria di scontento nell'istante in cui Manofina colpì
l'inquisitore.
Pietro Arbues ricevendo un colpo che doveva necessariamente esser mortale,
non erasi neppure scosso. Gl'inquisitori ed il clero non si erano rivolti
che alle grida della sirena; allora si affollarono intorno a Pietro Arbues.
Ma egli fiero e tranquillo guardandoli con un sorriso di trionfo:
"Non è nulla," disse a coloro che l'interrogavano, "un empio ha voluto
uccidermi, ma Iddio mi protegge," soggiunse con aria ipocrita; "il pugnale
non ha forato che la mia tonaca."
Ed in fatti mostrò una leggiera lacerazione nella sua veste violetta che
solamente manifestava l'attentato di Manofina. A quella vista un lampo di
rapida gioia brillò nello sguardo di Josè.
"Dio ha fatto un miracolo in favore di Sua Eminenza!" esclamarono alcuni
monaci.
Ed il popolo, quel povero popolo semplice e credulo, tornò a venerare colui
che testè malediva, poiché credette ad un intervento divino a favore del suo
carnefice.
Il popolo ignorava che Pietro Arbues portava una corazza sotto i suoi
abiti[14]. Tuttavia gli sgherri avevano arrestato colui che Colubrina aveva
indicato come l'assassino, e l'amante di Manofina si mischiò allora alla
folla delle altre donne che pregavano seguendo la cavalcata. Niuno pensò a
denunziarla, benché non si credesse estranea a questo tentativo d'assassinio
sulla sacra persona del grande inquisitore di Siviglia; oltre a ciò l'azione
di Manofina era stata sì rapida, che nessuno avrebbe voluto credere al
testimonio dei suoi propri occhi, e molti dicevano in sé medesimi: "Quegli
che ha accusato questa donna è forse il colpevole."
Tutto ciò fu molto rapido, l'ordine della processione non ne fu turbato.
Soltanto fu inviato un famigliare a Sua Eminenza il grande inquisitore, onde
notificargli il rapimento di Manuel Argoso.
A tal nuova Pietro Arbues inarcò il sopracciglio, e disse freddamente.
"Bene, nulla deve arrestare o turbare questa augusta cerimonia. Orsù, non
bisogna far aspettare Sua Maestà. Dopo l'atto-di-fede faremo ricercare e
perseguitare i colpevoli."
La processione riprese il suo cammino interrotto per un istante.
In questo tempo un monaco Domenicano era uscito con gli altri dal palazzo
dell'Inquisizione; quindi, invece di seguire la processione, s'introdusse
fra la folla e arrivò nella via in cui abitava Giovanna. Giunto davanti alla
porta della casa moresca, l'aprì con una chiave che teneva in mano, entrò e
chiuse la porta dietro di sé.
Quel monaco era Dolores.
Josè aveva mantenuto la sua promessa.
XLI. L'atto-di-fede.
Mentre la processione usciva dal palazzo del Santo Uffizio, la piazza
maggiore in cui l'atto-di-fede doveva aver luogo si empiva a poco a poco di
persone.
Sul lato più largo della piazza, davanti al palazzo, o piuttosto alla casa
occupata dal re e dal suo seguito, la quale apparteneva al duca di
Medina-Coli, eransi eretto un palco lungo cinquanta piedi ed elevato fino
all'altezza della loggia reale.
A destra del palco e su tutta la sua larghezza elevavansi un anfiteatro
destinato ai consiglieri della Suprema e agli altri Consiglieri di Spagna.
Al di sopra di quegli scalini vedevansi il seggiolone destinato al grande
inquisitore.
Questo seggio era molto più alto della loggia del re. L'inquisitore
rappresentava il potere papale, che è al di sopra di tutte le potenze
terrestri.
Un secondo anfiteatro, destinato ai condannati, elevavansi a sinistra in
faccia al primo.
Nel mezzo, dicontro alla loggia del re, ve n'era un terzo piccolissimo, sul
quale eransi poste due gabbie, in cui ciascun condannato era rinchiuso
mentre gli si leggeva la sentenza.
Dicontro a queste gabbie vedevansi due seggiole.
A pié del primo anfiteatro si ergeva un altare. Vicino all'altare era
piantata una croce verde coperta di velluto nero[15]. Numerosi Domenicani,
inginocchiati, pregavano con umile fervore; altri dicevano messe
continuamente, in maniera che il Santo Sacrificio fosse celebrato senza
interruzione. Quei monaci erano là fino dal giorno innanzi digiunando e
pregando per la redenzione delle vittime[16].
Nel mezzo della piazza, sopra un largo e permanente palcodi pietra, potevasi
contare quindici roghi formati di legno resinosi, di materie oleose e di
paglia, perché la combustione fosse più rapida. Ogni condannato aveva il
suo: era il letto ardente su cui doveva terminare la sua terribile agonia.
Ai quattro angoli di quel palco, quattro grandi statue di terra cotta erano
ivi situate come immobili sentinelle. Intorno a ciascuna di queste statue
eransi elevati quattro mucchi di legno infiammabilissimo. Tali preparativi
di distruzione erano terribili a vedersi. Il luogo in cui si elevavano i
roghi chiamatasi il Quemadero.
L'imperatore Carlo V occupava già la loggia reale. L'abito del re era
semplice e severo, ma elegante, non differiva in nulla da quello dei signori
della sua corte. Frattanto riconoscevasi di leggieri al colore rosso della
sua barba, particolarità considerevole che distingueva il re cattolico di
Spagna, il figlio della casa d'Austria, e che gli era comune con l'ultimo
sovrano di Granata, Boabdil, il re dell'Alhambra, il quale versò amare
lacrime quando, spogliato del suo regno ed esiliato da Granata, si fermò per
gettare un ultimo sguardo sulla diletta città[17]. Carlo V eziandio amò
Granata, vedesi ancora presso l'Alhambra il magnifico palazzo incominciato
dal vincitore di Fez.
Un gran numero di dame, riccamente abbigliate, occupava le real loggia.
I palchi destinati al popolo si empivano rapidamente. Dopo il ratto del
governatore, la folla che non aveva più interesse di curiosità a rimaner
vicina alla processione, erasi tosto portata verso il luogo da cui poteva
sperare di soddisfare il suo gusto naturale per gli spettacoli e per le
esecuzioni: gusto depravato, comune in tutti i popoli, e che l'incivilimento
soltanto, un incivilimento bene inteso, avrebbe il potere di fare
scomparire, sviluppando presso quelle nature alquanto selavaggie i
sentimenti morali a scapito degli istinti fisici.
Nel momento in cui la processione arrivò sulla piazza maggiore, Carlo V,
malgrado la sua deferenza per il Sant'Uffizio, aggrottò subito il
sopracciglio con aria di malcontento. L'incredibile attività di spirito
dell'imperatore
non si acconciava con un ritardo.
Finalmente ei respirò, vedendo che la cerimonia era per cominciare.
I carbonai si schierarono sul teatro alla sinistra della loggia reale. I
Consiglieri dello Stato occuparono, secondo l'ordine di gerarchia, i gradini
che loro erano destinati.
In questo tempo i condannati fecero il giro del palco, e passando sotto la
loggia del re, andarono ad assidersi sull'anfiteatro della sinistra. I frati
ed i famigliari che li accompagnavano, rimasero al loro fianco continuando a
sostenerli e ad esortarli.
Il duca di Medina-Coli si pose, secondo il suo diritto, nella loggia reale.
Il suo genero, il duca di Mondejar, membro del Consiglio di Castiglia, prese
posto fra i consiglieri.
La figlia del conte, Isabella, sedeva fra le dame poste presso Sua Maestà;
l'attitudine
di questa giovane era mesta ed abbattuta: un profondo dolore la divorava.
Finalmente il grande inquisitore salì a sua volta gli scalini che
conducevano al suo trono, al di sopra del Consiglio della suprema, e si
assise con una trionfante umiltà sul largo seggiolone che gli era stato
preparato, dominando così i più grandi dignitari del regno ed il re
medesimo, che aveva la bontà di soffrirlo.
Bentosto un profondo e cupo silenzio regnò in quella folla immensa.
Un prete domenicano, vestito dei suoi ornamenti sacerdotali incominciò il
sacrifizio della messa.
Era uno strano spettacolo
Monaci di tutti gli Ordini, milizia innumerevole, che per poco formava il
quarto della popolazione, pregavano umilmente inginocchiati; la folla in
quel momento, sotto l'influenza di un sentimento indefinibile, misto di
terrore superstizioso e di devozione fanatica, curvava la testa battendosi
il petto. Ciascuno poneva cura innanzi tutto, a mostrarsi zelante e devoto,
che a non comparirlo v'era molto pericolo. La messa continuò così fino al
Vangelo. In quel momento tutti si alzarono.
Un monaco Domenicano montò in una delle seggiole poste ai due lati delle
gabbie di legno elevate nel mezzo del teatro. Nella seconda si pose il
relatore del Santo Uffizio, o lettore dei giudizi.
Allora il grande inquisitore discese dal suo seggiolo; arrivato a pié
dell'anfiteatro,
Josè, suo elemosiniere, pose una mitra d'oro sul capo di Pietro Arbues, e
lo vestì d'una cappa; poscia l'inquisitore si avanzò fino alla loggia del
re. Alcuni ufficiali lo seguivano, portando la croce, un libro dei vangeli
ed un altro libro che conteneva la formola del giuramento che doveva
prestare il sovrano.
Pietro Arbues passò i primi gradini dell'anfiteatro fino al quarto in modo
da essere sempre posto più in alto del monarca. Là si fermò, e con voce
potente e sonora, volgendosi all'imperatore cattolico:
"Sire," gridò egli, "Vostra Maestà giura di proteggere la fede cattolica
romana, di estirpare le eresie e di sostenere con tutto il suo potere reale
le procedure dell'Inquisizione?"
Il fiero imperatore si alzò in piedi, scoprì la sua fronte reale, davanti
alla quale si scoprivano tutte le altre fronti, e rispose con voce ferma:
"Lo giuro!."
Allora il grande inquisitore, volgendosi verso l'assemblea, ed
interpellandola collettivamente, gridò in modo da essere inteso a tutte le
estremità della piazza:
"Voi tutti, figli della Chiesa di Roma, che siete qui presenti, giurate
ciascuno secondo la vostra capacità ed il vostro potere di difendere, di
proteggere la fede cattolica apostolica e romana? .di perseguitare e di
denunziare gli eretici e di prestare il vostro soccorso a tutti gli atti
dell'Inquisizione?"
"Lo giuriamo!, lo giuriamo!" risposero in coro migliaia di voci. Questa
volta la popolazione di Siviglia era riunita sulla piazza e nei dintorni.
"Bene, bene!" disse l'inquisitore, facendo un gesto colla mano, "ora
silenzio, ed ascoltate."
Pietro Arbues risalì lentamente i gradini dell'anfiteatro e riprese posto
nel suo seggiolone.
Il Domenicano che doveva predicare fece un gran segno di croce, e cominciò
così il suo sermone:
"Fratelli,-Inquisitio superior regibus, l'inquisizione è superiore ai re,
perocché il potere del cielo è al di sopra dei poteri della terra,
l'Inquisizione
è la porta del paradiso. L'acqua viva ne sgorga, e noi dobbiamo tutti
bagnarne i nostri cuori come terre aride, senza di che lo Spirito santo ci
aprirà la bocca come a Balaamo ed a Caifas. Infatti, fratelli,
l'Inquisizione
è santa e al di sopra dei re, superior regibus, perocché risale alla
creazione del mondo ed all'origine della torre di Babele[18]. A queste
parole l'imperatore fece il viso arcigno, ed ebbe gran pena a contenere lo
sdegno che gli cagionava quel ridicolo sermone. tuttavia non disse nulla,
non volendo alienarsi il Sant'Uffizio. Egli aveva in quel momento molti
nemici fra i riformati e non voleva crearsene di nuovi fra i cattolici. Non
era più il tempo in cui rispondeva alle violenze del papa con violenze
maggiori.
Lasciò dunque il predicatore continuare a suo talento quella singolare
apologia dell'Inquisizione, che durò quasi venti minuti; dopo di che,
terminata la messa, fu cominciata la lettura delle sentenze.
I primi due condannati, che furono rinchiusi nelle gabbie di legno, furono
Francesca di Lerma e l'infelice Herrezuelo, che abbiamo già veduto figurare
nella seduta inquisitoriale in cui figurò Francesca.
Herrezuelo, forte e coraggioso fino alla morte, rifiutò costantemente le
esortazioni del confessore che gli era stato assegnato, e quando, giunto nel
mezzo della gabbia in cui doveva udire la sua sentenza, il prete
gl'indirizzò
nuove esortazioni, ei lo respinse dolcemente, dicendogli:
"Io vi abbandono il corpo, lasciate almeno l'anima tranquilla." Poscia udì
la sua condanna senza impallidire, e tornò al suo posto.
Non fu così di Francesca; questa povera giovane sentì venir meno il suo
coraggio in faccia al supplizio: e siccome era ignorantissima ed incapace di
discernere il falso dal vero in una religione, le prime impressioni della
sua giovinezza tornarono a dominare nella sua mente, e forse quella fisica
costituzione, molle e sensuale, provò uno spavento troppo grande dell'atroce
supplizio che le era destinato. Giunta nella gabbia di legno, e nell'istante
in cui il relatore pronunciava quelle parole bruciata viva: "No! Viva no,"
esclamò l'infelice badessa; "mi pento, voglio morire da buona cristiana."
"Sia lodato Iddio!" disse l'inquisitore, "ecco un'anima salvata."
Le sue viscere non furono commosse dall'agonia di quella donna sventurata,
ch'egli aveva perduta.
Due nuovi condannati succedettero ai primi.
Uno di essi era un vago e nobil giovane di Verona. Disceso da una delle
prime famiglie d'Italia aveva reso eminenti servigi all'imperatore Carlo V;
dotto e ricchissimo, era nemico dell'Inquisizione. Si chiamava don Carlos de
Seso. Passando davanti alla loggia reale, don Carlos gettò all'imperatore
uno sguardo il cui rimprovero si mischiava ad una profonda pietà. Quello
sguardo pareva dire:
"Ecco quegli che è chiamato il grande!."
Quando fu inginocchiato nella gabbia, domandò inchiostro e carta per
scrivere la sua confessione. Un sergente dell'Inquisizione[19] gli portò
subito quello che desiderava. Dopo aver scritto, don Carlos lesse ad alta
voce, ma con gran dispiacere dell'inquisitore, quella confessione era fatta
ad imitazione della celebre confessione d'Ausburg[20].
"Basta! Basta!" gridò l'inquisitore per obbligare la silenzio il celebre
riformista; ma don Carlos proseguì con voce sonora:
"Dichiaro che voglio morire nella religione di Lutero, che è la vera fede
del Vangelo, e non già nella religione romana, dottrina corrotta, che il
clero cattolico ha acconciato ai suoi vizi!"
"Si ponga lo sbavaglio a quest'uomo," disse Pietro Arbues, "egli scandalizza
la Chiesa di Cristo."
Si eseguirono gli ordini dell'inquisitore, e don Carlos de Seso, obbligato a
tacere, ascolta leggere la sua sentenza senza impallidire.
Intanto nella gabbia accanto, Domenico de Boxas, quel vecchi prete
Domenicano che mostrò tanto animo nella udienza già descritta, serbava un
ostinato silenzio,m e ricusava di rispondere al monaco che lo esortava.
Quando fu giunto il momento di leggere la sua sentenza, ascoltò fino
all'ultimo
senza pronunziar parole, senza manifestare alcun timore della morte, ma
scendendo dal palco, si volse verso il re gridandogli:
"io muoio per la difesa della vera fede del Vangelo, che è quello di
Lutero."
Mentre don Carlos de Seso e Domenico de Boxas scendevano il palco per andare
al Quemadero, i tormentatori, armati di grandi chiodi e d'un martello, si
accostarono ad una gran croce di legno che era sul palco, appoggiata su due
grandi panche.
Allora furono condotti dinanzi a questa croce dieci eretici giudaizzanti,
condannati alle fiamme. Questi infelici posero ciascuno un mano sulla croce.
E questa mano vi fu spietatamente inchiodata, in espiazione, dicevano
gl'inquisitori,
della crocifissione di Gesù[21].
Quando il chiodo penetrò nelle loro carni, gli sventurati mandarono un grido
terribile, ma i tormentatori non ne furono commossi, essi continuarono ad
inchiodare colla maggiore calma del mondo. In questo stato le povere vittime
udirono le loro sentenze. Non furono schiodati che per condurli alla morte.
Vennero quindi un prete ed il suo domestico, poi due frati[22] condannati
alle fiamme ed allo strangolamento; poi, finalmente, venne la volta di
coloro che rano condannati alle galere, alla prigione perpetua, o solamente
alla frusta.
Fra costoro vedevasi Guglielmo Franco, quel disgraziato marito, condannato
ad una prigionia perpetua per non aver voluto soffrire in sua casa un prete
che gli aveva sedotta la moglie.
Mentre leggevasi la sentenza di questi ultimi i condannati al fuoco erano
tornati al loro posto.
Il popolo raddoppiò l'attenzione ed il raccoglimento. Il re Carlo V era cupo
e pensieroso, un gran pensiero sembrava occupare in quel omento quello
spirito profondo, quel genio ardito che non avrebbe forse che un torto,
quello cioè, di sottomettere troppo gli uomini e le cose al suo particolare
interesse: l'eccesso del suo dispotismo e della sua ambizione lo rese sempre
schiavo. Nato con uno spirito retto, vasto e giusto, Carlo V si sottopose
quasi costantemente alle esigenze di Roma, perciocché credette necessario il
concorso di Roma al mantenimento della sua possanza. Errore gravissimo dei
re, che in ogni tempo gli ha perduti.
Lo spettacolo terribile d'un grande atto-di-fede, al quale Carlo V assisteva
per la prima volta, gli faceva in quel momento indovinare una gran parte
degli abominevoli abusi della Inquisizione, sui quali era stato dì di
sovente ingannato[23]. Forse in quel momento covava già nel suo animo quel
progetto che eseguì un anno più tardi, di togliere al Sant'Uffizio la reale
giurisdizione, e di esiliare l'inquisitore generale di Castiglia, Alfonso
Manriquez.
Alcuni pretendono che quel gran re inclinasse negli ultimi anni della sua
vita verso le dottine riformate, che aveva combattute sì vivamente, e che
dopo la sua morte si trovasse nella cella del frate di S.Giusto una quantità
d'iscrizioni che tutte manifestavano una tendenza molto pronunziata verso la
religione luterana.
Finalmente il relatore aveva terminato la lettura delle sentenze. Il prete
continuò la messa.
Terminata, Pietro Arbues si alzò dal suo seggio, e pronunziò ad alta voce
l'assoluzione
di coloro che si erano pentiti[24].
Frattanto tutti quelli che erano stati condannati a leggiere penitenze
tornavano alla prigione del Santo uffizio, scortati dagli arcieri della
Santa-Hermandad.
Intanto le infelici vittime condannate alle fiamme erano arrivate al luogo
del supplizio. Pietro Arbues, sempre fiero e superbo sotto l'umile aspetto
di prete pareva più del re medesimo. Ei godeva in quell'istante d'un doppio
trionfo di crudeltà e di vanità. Tuttavia il rapimento del governatore di
Siviglia lo preoccupava spiacevolmente. La vendetta gli fuggiva quando
appunto stava per essere soddisfatta. Il feroce Domenicano sognava già nuovi
supplizii per la coraggiosa fanciulla che gli aveva resistito. Tutta la sua
collera si portava su Dolores. L'insensato ignorava che in quel momento
stesso la sua preda gli sfuggiva.
Josè scrutava collo sguardo quella fisionomia sulla quale era avvezzo a
leggere da molto tempo. Josè, cupo e sdegnoso, nascondeva sotto una completa
impassibilità i battiti violenti del suo cuore; ma chi avesse considerato
attentamente la sua fisionomia avrebbe di leggieri veduto brillare nei suoi
grandi occhi la febbre interna che lo divorava.
Attore in lungo e terribile dramma, ei camminava a gran passi verso lo
scioglimento,m e all'avvicinarsi di quell'istante supremo, il suo volto, per
lo innanzi sì bello, assumeva qualche cosa di tragico, di fatale,
d'inspirato.
Gli occhi del fraticello seguivano con una incredibile attenzione tutti gli
incidenti dell'atto-di-fede.
Nel momento in cui le vittime salivano insieme al Quemadero, una specie di
singhiozzo convulso uscì dal petto del favorito, i suoi occhi si velavano di
una nube, e Josè s'inginocchiò, coprendosi il volto collemani per nascondere
una lacrima involontaria sotto l'apparenza di un atto religioso.
Il re abbandonò allora la loggia reale.
Quando rientrava nei suoi appartamenti, la figlia del duca di Mondejar si
gettò alle ginocchia di Carlo v, e, tutta in lacrime, alzò verso di lui le
sue mani supplichevoli.
"Che vuoi da me, figliuola mia?" domandò il re sorpreso.
"Grazia! Sire, grazia per il mio fidanzato, che è nelle prigioni del
Sant'Uffizio!"
"Figlia mia," disse il re intenerito da quel dolore così vivo, "ben piccolo
è il mio potere presso la Santissima Inquisizione, io credo che il migliore
intercessore che tu possa avere in quest'affare si è il tuo avo, il duca di
Medina-Coli, che è qui presente."
"Sire," rispose il vecchio signore, "quegli che esser doveva mio genero ha
disonorato il suo titolo di cavaliere, di gentiluomo e di cristiano, il
Sant'Uffizio
ha incrudelito contro di lui, e don Carlos si è fatta giustizia da sé
medesimo, schivando con la morte l'infamia del supplizio: ei si è spezzata
la testa conto le mura del suo carcere[25]."
A questa crudel risposta del gran porta-stendardo, Carlo v non poté
reprimere una esclamazione di orrore e di pietà: l'infelice donzella era
caduta colla faccia contro terra, e priva di sentimento.
Medina-Coli fece un cenno, e due donne trasportarono la sventurata Isabella.
Il re si allontanò in silenzio con sembiante di profonda mestizia. Le
esecuzioni stavano per incominciare.
Era uno spettacolo terribile e pieno di laceranti emozioni.
Ciascuno dei condannati era inginocchiato a pié del rogo che doveva
divorarlo.
I frati col crocifisso nelle mani pregavano, ed esortavano le vittime con un
persistenza inaudita. Nessuno erasi ancora confessato.
I dieci eretici giudaizzanti salirono i primi sul rogo. Quattro di essi
furono rinchiusi nelle statue[26], gli altri sei si lasciarono legare con un
gran coraggio; la tenacità naturale alla nazione israelitica, congiunta al
loro inalterabile attaccamento alla fede dei loro padri, inspirava loro in
quell'istante supremo l'eroismo dei martiri. Bentosto un fumo denso e
nerastro si alzò attorno a quelle dieci vittime, i carnefici armati di una
torcia avevano posto fuoco ai roghi.
Alla vista delle fiamme che cominciavano ad elevarsi, le due giovani monache
condannate morire come luterane si volsero angosciose verso il loro
confessore:
"Padre mio! Padre mio!" gridarono esse, "confessateci, noi vogliamo
convertirci."
Il frate s'inginocchiò verso di esse, udì quella confessione strappata dalla
paura e dalla violenza, quindi pronunziò le parole di pace sul capo di
quelle due vittime, la meno giovane delle quali aveva venti anni. I
tormentatori le condussero allora presso Francesca di Lerma, la quale pure
doveva essere strangolata. La badessa delle Carmelitane era di un estremo
pallore, la sua carnagione, una volta sì bianca e sì pura, era chiazzata di
macchie turchiniccie, e i suoi grandi occhi, sì vaghi e sì altieri, avevano
perduto quello splendore che li faceva somigliare a due magnifici zaffiri.
Le due altre giovani vittime che dovevano morire dopo di lei erano già
pallide e ghiacciate, ed un tremito convulsivo agitava le loro membra;
l'agonia
era incominciata, il carnefice aveva poco da fare.
Due tormentatori si avvicinarono ad esse, le acconciarono sul cavalletto, ve
le legarono, applicarono il cerchio di ferro attorno al loro collo bianco e
delicato.. poscia il carnefice girò violentemente la vite.
I condannati chinarono la testa in avanti con una convulsione generale: i
loro occhi si fecero fissi, il loro viso divenne rosso, violetto, quindi
livido. si udì un lieve rantolo. e tutto fu finito; esse aveano cessato di
soffrire.
L'agonia di Francesca [non] fu più lunga. Nel momento che il carnefice le
poneva il cerchio di ferro intorno al collo, la badessa, ricuperando una
subitanea energia, stese le braccia verso l'anfiteatro; il suo occhio,
rianimato un istante, scintillò di una selvaggia energia; e gridò, guardando
l'inquisitore:
"Prete indegno! Sii malede." L'ultima sillaba di questa parola si perdé
nell'ultimo
respiro di Francesca. Il carnefice aveva sì fortemente girata la vite, che
la vittima spirò sull'istante.
Non lungi dal rogo che consumava i residui delle tre monache, don Carlos de
Seso ed il coraggioso Herrezuelo respingevano con una invincibile
risoluzione le istanze dei confessori.
Don Carlos, già legato al palo, era stato liberato dallo sbavaglio. Il
prete, inginocchiatosi allora innanzi a lui sul rogo medesimo,
presentandogli il crocifisso, gli disse varie volte:
"Figlio mio, confessatevi per essere assoluto."
"Lasciatemi in pace," rispose don Carlos. Poscia, volgendosi verso i
tormentatori, gridò loro con voce sonora:
"Ponete il fuoco."
I carnefici obbedirono, e don Carlos disparve fra torrenti di fumo.
A pochi passi di distanza si strangolava Domenico di Boxas e due altri
preti, ai quali al momento di essere bruciati era venuto meno il coraggio e
si confessarono. Vedendo la viltà di Domenico, che aveva come lui
abbracciato la dottrina di Lutero, don Carlos, già attaccato dalle fiamme,
fece un gesto di disprezzo come per dirgli:
-Tu sei un vile, bisogna avere il coraggio della propria convinzione.-
In quell'istante il domestico d'uno di quei preti, legato al palo ed
attaccato alle fiamme che avevano già arso le corde da cui era legato, si
lanciò fuori del rogo; ma vedendo sul palco il padrone, che era stato
strangolato, e don Carlos che si lasciava bruciare tranquillamente, risalì
coraggioso sul rogo gridando ai carnefici con tutta la sua forza:
"Della legna! Della legna! Mettete della legna, io voglio morire come don
Carlos de Seso."
Herrezuelo salì allora sul rogo.
Indarno il frate l'esortava a convertirsi. Herrezuelo non rispondeva che con
amaro sarcasmo; già le fiamme cominciavano ad attaccarlo; ma egli pareva
essere insensibile, ed il suo volto non manifestava nulla delle sue atroci
sofferenze. Uno degli arcieri che circondava il rogo, irritato da tanto
coraggio, immerse la sua lancia nel corpo del licenziato. Il sangue scorse a
torrenti da questa larga ferita, ed il nobile Herrezuelo spirò con una calma
eroica[27].
Alcuni riconciliati, e condannati a portare perpetuamente il sanbenito di
tela colla croce di Sant'Andrea, riprendevano tristi il cammino della loro
abitazione: morti ormai civilmente, cadaveri viventi, destinati ad
alimentare il terrore che inspirava il Sant'Uffizio, muti testimoni del suo
abbominevole dispotismo!
Lunghi getti di fiamme si elevarono allora verso il cielo in strisce
rossastre, inviluppati da torrenti di fumo denso e nauseabondo. L'odore
fetido dei cadaveri bruciati si mescolava all'odore resinoso del legno di
pino e di larice che serviva ad alimentare i roghi.
I preti ed i monaci inginocchiati, pregavano sommessi battendosi il petto;
ed il popolo, pure inginocchiato, restava abbattuto da una impressione di
terrore e di pietà.
Di quando in quando grida orribili e prolungate, rantoli, pianti, sospiri
uscivano dal mezzo di quelle sinistre ecatombe, dall'interno delle statue
ardenti ove erano rinchiusi gli infelici ebrei, uscivano di tanto in tanto
urli sordi e laceranti.qualche cosa di simile alle grida d'angoscia che si
eleveranno dalle viscere dell'inferno.quale ripetizione di quell'immenso
concerto d'agonia.
Un silenzio di morte ragnava fra il popolo!.
Ad intervalli la voce sonora dei preti, dominando quei diversi rumori,
faceva udire un versetto del De profundis o del Miserere: lugubre salmodia
che si mischia alle umane lamentazioni, ai rantoli degli agonizzanti, ed al
sordo rumore delle fiamme.
Poi, adagio adagio le fiamme si abbassarono, i sospiri, i lamenti, le grida
divennero più deboli e più rare; il popolo lasciò lentamente la piazza!. i
grandi corpi dello stato si allontanarono. Tutto era finito.
Era surta la notte.
Il clero ed i monaci erano rimasti gli ultimi.
Allora dall'alto del suo trono più che reale, Pietro Arbues poté contemplare
il Quemadero, che in quell'istante somigliava ad un immenso braciere
seminato qua e là di macchie nerastre.
Grandi getti di fumo s'incrociavano nell'aere, simili a grandi nubi oscure.
Nel mezzo dei roghi, alcuni rami di larice che terminavano di consumarsi,
gettavano ancora pallidi lampi su quella profonda oscurità. Pietro Arbues
contemplò con infernale delizia quella vasta arena di distruzione. Re della
morte, ei signoreggiava sul niente.
Poi mormorò, alzando gli occhi al cielo, quelle terribili parole del
Salmista:
"Levisi Iddio, ed i suoi nemici saranno dispersi: e quelli che l'odiano,
fuggiranno innanzi al suo cospetto. -Tu li dissiperai come si dissipa il
fumo; gli empi periranno per la presenza di Dio, come la cera è strutta per
lo fuoco."
L'inquisitore ed il clero lasciarono il teatro delle loro nequizie. Così
terminò quella memorabile giornata.
XLII. Un martire.
Quando i due bravi ebbero portato via il governatore, s'internarono
rapidamente negl'inestricabili giri delle vie di Siviglia, le più anguste e
le più tortuose del mondo.
Il popolo s'era sì ben prestato alla loro fuga, che innanzi che avesser
potuto raggiungerli gli sgherri della Santa-Hermandad, essi erano giunti
davanti alla porta di Giovanna. La quale porta erasi aperta davanti a loro
come da sé medesima, e dei bravi e del governatore non si ebbe più traccia:
nessuno aveva potuto seguirli, né vedere in qual luogo si rifuggissero.
Estevan, Dolores e Giovanna attendevano insieme l'esito di questo
avvenimento; era Giovanna che, avendo veduto arrivare i bravi carichi del
loro prezioso fardello, aveva loro aperto la porta.
I bravi deposero con inaudite precauzioni il padre di Dolores sopra un largo
divano che trovavansi nella sala: Manuel Argoso non dava più alcun segno di
vita. Le sue braccia e le sue mani pendevano inerti lungo il suo corpo,
quasi ghiacciato; i suoi occhi erano intieramente chiusi, il suo volto
scolorito, e le sue membra, rotte in molti punti, erano coperte di piaghe
sanguinose e di cicatrici chiuse per metà. La sua fronte, per lo innanzi
coperta ancora d'una foresta di capelli neri, era divenuta quasi calva per
lo intiero, e ciò che rimaneva attorno alla tempia, aveva preso quel color
grigio che non è il candore della vecchiezza, e quella pieghevolezza molle
ed inerte, testimone sicuro d'una completa atonia e di una prossima
disorganizzazione.
Le sue unghie erano cresciute smisuratamente, ma erano divenute giallastre e
molli come quelle d'un fanciullo o d'uomo che esce dal bagno.
Vedendo suo padre in quello stato, Dolores non poté reprimere un grido
doloroso. Era essa medesima così pallida ed indebolita dalle sofferenze
della prigione, che non poté resistere a quest'ultimo colpo; essa cadde
sulle sue ginocchia dinanzi al divano sul quale Argoso era disteso, e colle
labbra aride e scolorate, baciò la livida mano del genitore, quella mano
diletta e rispettata che l'aveva tante volte benedetta.
Ma l'infelice governatore non rispose a quella figliale espansione: la mano
che Dolores premeva rimase muta e ghiacciata in quelle della fanciulla.
"Oh Estevan! Estevan!" gridò essa con crescente terrore, "vedete, ei non
risponde neppure alle mie carezze!.La sua mano è fredda. il suo cuore non
batte più. Estevan! Ma ditemi dunque che mio padre vive ancora!."
Estevan colpito da quel dolore nuovo ed imprevisto, dalle disperazione di
colei che amava, Estevan che era rimasto preso da stupore vedendo il viso
livido e ferale del governatore, si avvicinò timidamente, e pose la mano sul
cuore di Manuel Argoso. Batteva ancora, ma così debolmente e a si lungi
intervalli, che vedevasi bene essere quelle le sue ultime pulsazioni.
Dolores seguiva tutti i moti d'Estevan con occhi pieni d'angoscia e velati
di lacrime.
Ma ei non ardiva parlare, rimaneva timido e dubbioso; aveva paura di
quell'immensa
disperazione, di quel santo dolore d'una figlia che, dopo tanti sforzi e
rassegnazione, non ritrovava suo padre che per stringere fra le braccia un
cadavere.
"Ebbene?" domandò essa finalmente, tremando, "ebbene
Rispondetemi dunque, Estevan. parlate, che debbo sperare?
"Il suo cuore batte ancora," disse il giovane: "bisognerebbe fagli respirare
dei profumi."
"Tenete, tenete," disse Giovanna, tirando fuori dalla sua tasca una boccia
di cristallo di ròcca, guarnita d'una borchia d'oro cesellato, piena di
arabi profumi, vivificanti e salubri; prodotti preziosi dell'alchimia di
quei tempi, assai più avanzata, specialmente presso gli Orientali, di quello
che si crede generalmente oggigiorno.
Dolores prese vivamente la boccia, e ne fece respirare l'odore a suo padre.
Manuel Argoso fece un leggiero movimento di testa: i suoi occhi, fino allora
chiusi, si riaprirono a metà.
Dolores mandò un'esclamazione di gioia, e sollevando fra le sue braccia la
testa adorata del suo genitore, la adagiò più comodamente sui cuscini di
velluto.
"O Estevan! Egli vive," disse la giovane, animata dalla speranza.
Manuel Argoso aveva in fatti aperti gli occhi, ma, come quelli dei
ciechi-nati, guardavano e non vedevano; un'ombra li cuopriva. Tuttavia
quella nube sembrò dileguarsi a poco a poco. Manuel Argoso parve avere un
lieve percezione di ciò che accadeva attorno a lui, l'udito era il solo
organo che presso di lui fosse rimasto inalterato. Fu pure il primo che si
ridestò in quella organizzazione vicina a disfarsi. Ei volse la testa dal
lato in cui si parlava, cercando senza dubbio di raccogliere le sue idee
fuggitive, e di rendersi ragione del luogo in cui si trovava.
Bentosto le sue labbra si aprirono..ei mormorò debolmente. "Il fuoco."
Credeva di essere all'atto-di-fede.
Tutti tacquero ed ascoltarono nel più profondo silenzio.
"Figlia mia.. Estevan.." disse il governatore molto piano, mentre i sguardi
fissi ai suoi figli inginocchiati a lui innanzi, erravano dall'uno all'altro
senza riconoscerli.
"Padre mio!" esclamò Dolores.
"Silenzio!" disse Estevan, "ecco la vita che ritorna."
"Tenete," disse Giovanna, "fategli prendere questo cordiale."
Ed essa presentò a Dolores, in una coppa d'argento, del vino d'Alicante,
vecchio di dieci anni, mescolato ad una leggiera tintura d'aloe.
Dolores bagnò le labbra di suo padre: poscia introdusse a gran fatica nella
sua bocca alcune goccie del cordiale .
Questo benefico liquore parve rendere un po' di vita a quel corpo quasi
immobile e freddo. Il viso del governatore ch'era sì pallido si colorò in un
subito di un rossore fuggitivo, i suoi occhi incerti si fermarono sul volto
di Dolores con una ineffabile espressione d'amore e di rammarico. Aveva
riconosciuto sua figlia.
Sorrise debolmente con indicibile tenerezza; poscia il suo sguardo si
rivolse lentamente da Dolores a Estevan e Giovanna.
"Dove sono?" mormorò finalmente.
"In casa d'amici, di veri amici," rispose Dolores, "voi siete salvo, padre
mio, e bentosto lasceremo la Sapgna."
"Sì, sì.lasciatela al più presto," disse Manuel, con voce che andava sempre
più ad indebolirsi.
"Con voi, padre mio," disse Estevan, inginocchiandosi davanti al
governatore, al lato della sua diletta Dolores.
Vedendoli così, Manuel Argoso parve provare una gioia suprema. Malgrado la
debolezza estrema delle sue membra, rotte dalla tortura e già irrigidite
dalla morte, alzò le sue braccia, prese la mano di sua figlia, la pose in
quella di Estevan, e mormorò con una espressione di gioia celeste:
"Io vi benedico, non vi separate mai, e fuggite.fuggite."
"Con voi? Con voi?" riprese Dolores piangente.
"Sì. trasportate le mie ceneri.eglino le getterebbero la vento.addio.amatevi
sempre."
Quelle parole interrotte dagli ultimi sospiri dell'agonia, avevano esaurito
ciò che rimaneva di vita a quel corpo spossato.
Manuel Argoso richiuse gli occhi, la sua testa s'inchinò, il suo corpo si
contrasse per una leggiera convulsione, e la gelida mano della morte troncò
sulle sue labbra un nome incominciato. Era quello di sua figlia.
Dolores non gettò un grido, non versò una lacrima; si rivolse ad Estevan
cogli occhi asciutti, colle labbra pallide e tremanti, e unendo le mani con
aria supplichevole, gli disse guardando il padre ch'era spirato:
"Ei ci seguirà, non è vero?"
"Dappertutto," rispose Estevan.
Dolores baciò devotamente la pallida fronte del suo genitore, quindi gettò
sul volto un gran velo di tela batista che le fu presentato da Giovanna.
Josè giunse in quel momento.
All'attitudine delle persone che occupavano la camera, comprese subito
quello che era accaduto, e le sue mani si contrassero con un movimento
energico di turbamento e di collera.
La sua vista cagionò una profonda tenerezza a Dolores, i suoi occhi fino
allora rimasti asciutti ed ardenti si bagnarono di meste lacrime; si gettò,
piangendo, sul seno di quell'amico fedele che l'aveva salvata; poscia, con
un gesto di muto ed eloquente dolore, gli mostrò il defunto che sembrava
dormire in un'attitudine calma e tranquilla.
"Io ho fatto tutto quello che ho potuto, mio Dio!" disse Josè intenerito.
"Lo so," ella rispose; "avete esposto la vostra vita per salvarci, perocché
se l'Inquisizione avesse scoperto."
"La mia vita!" interruppe il fraticello, con aria di sdegno e di
scoraggiamento, "che cos'è la mia vita, ed a che può servire?"
Estevan condusse il monaco in un'altra camera per non turbare il religioso
silenzio della morte. Dolores rimase inginocchiata davanti al cadavere di
suo padre.
"Don Josè," disse Estevan quando furono soli, "quegli che or non è più ci ha
ordinato di lasciare la Spagna; perseguitati come siamo, questo è forse
difficile tuttavia."
"Ci provvederò," disse Josè.
"Egli ci ha ordinato di portare con noi la sua salma."
"Questa cura eziandio mi riguarda," rispose il fraticello; "voi partirete
fra tre giorni, questo tempo mi è necessario per preparare tutto. Fino a
quel momento tenetevi nascosti; non vi mostrate in Siviglia, la vostra vita
ne sarebbe compromessa. La tigre che l'ha risparmiata per un capriccio
potrebbe, per un capriccio contrario, privarvi della libertà."
"Sì" disse Estevan, "come ha fatto verso."
Josè guardò Estevan con aria significante: ei non voleva far conoscere a
Dolores l'arresto di Giovanni d'Avila.
"Ma," disse Estevan, "voi parlate di un capriccio di Pietro Arbues,
l'inquisitore
spero che sia nelle mani di Mandamiento. La Garduna manca raramente di
eseguire le commissioni affidatele."
"La Garduna ha male eseguiti i vostri ordini," disse Josè, "essa non ha
portato via l'inquisitore, ha voluto ucciderlo; e siccome egli porta una
corazza, Manofina ha fallito il suo colpo. Pietro Arbues è libero, Pietro
Arbues è furioso, e la sua collera si estende a tutto quello che l'avvicina.
Che sarà poi quando conoscerà la fuga di Dolores? Perciò siate prudenti, e
soprattutto siate pazienti, tre giorni passano presto."
"Talvolta sono molto lunghi," disse Dolores avvicinandosi ad essi per sapere
qual partito avevano preso.
Le crude esigenze della loro posizione vietavano loro di dare un libero
corso al loro santo dolore. Questo è ciò che i grandi infortunii hanno di
più amaro; essi non lasciano neppure il diritto di affliggersi in libertà.
"E' vero," disse Josè, ripetendo la frase della fanciulla, "tre giorni sono
talvolta molto lunghi! e pertanto bisogna saper aspettare. -Oh! Dolores, nel
mezzo dei mali che vi colpiscono, una consolazione vi rimane, un amico di
tutta la vita, scelto e benedetto dal vostro genitore. Credetemi, l'avvenire
può ancora sorridervi, e fra le vostre gioie non mancherà neppure la
vendetta, questa serva di Dio, che assume di sovente forma umana per
compiere i voleri del suo divino padrone, ed allora si chiama giustizia!.
Iddio, eterno distributore di Giustizia, non ha obliate le iniquità di
Pietro Arbues. Egli lo colpirà sul suo trono d'oro, nel mezzo alle pompe
della sua lussuria e della sua sfrenata vanità."
"Don Josè, voi mi fate paura," disse la tremante Dolores; "voi siete cupo e
terribile come la fatalità."
"Io sono forte come la giustizia," rispose Josè; "ma," soggiunse con amaro
sorriso, "la mia anima è triste e desolata come il deserto. Io non godrò che
nel giorno della punizione, allorquando Dio alzerà la sua gran voce per
gridare: - Basta! Basta! Dileguati dal teatro de' tuoi delitti; io sono
stanco di omicidi e persecuzioni."
Così parlando Josè era bello e terribile come l'angelo dell'Apocalisse,
Estevan e Dolores si sarebbero quasi prosternati davanti a lui. Ma per una
di quelle subitanee transazioni che gli erano naturali, Josè, richiamando ad
un tratto Giovanna, che era nell'altra stanza, le disse:
"Tienti pronta a seguirci fra qualche ora."
Poi si allontanò, promettendo di tornare a prenderli quando fosse tempo.
La sera stessa, fra undici ore e mezzanotte, Estevan, Dolores e Giovanna
arrivarono alla porta di Mandamiento.
Due bravi andavano avanti per servir loro di scorta. Due altri venivano
dietro ad essi a qualche distanza; questi ultimi portavano sulle loro spalle
un grande baule di legno legato con corde. Portavano quel baule con
precauzioni inaudite e con una specie di rispetto.
Due novizi li scortavano per dare l'allarme in caso di bisogno.
Di quando in quando Dolores si voltava per assicurarsi che il prezioso baule
li seguiva, e che nulla fermava il cammino dei garduni.
Giunti alla porta di Mandamiento, i due primi bravi batterono nel modo
convenuto, il maestro aprì, e le sette persone ed il baule furono
misteriosamente introdotti nel palazzo della Garduna.
XLIII. Un ultimo giorno di dissimulazione.
La stessa sera Josè era solo in casa sua.
Assiso davanti ad una tavola, coperta di libri ascetici, ei contava l'uno
dopo l'altra e sommava di mano in mano, dopo aver inscritto il totale di
ciascun valore sopra un pezzettino di carta bianca, un enorme quantità di
lettere di cambio che aveva prese presso un banchiere ebreo[28].
Era il patrimonio del fraticello.
"Bene!" disse con allegrezza, dopo aver terminato le sue operazioni di
calcolo: "questo può essere ora trasportato dove si vorrà, e quei poveri
giovani avranno di che vivere."
Poscia ripose accuratamente quei fogli in un piccolo portafogli di stoffa
rossa, vi aggiunse una lettera che aveva scritta, un anello d'oro che tolse
dal suo dito, e dei capelli in un medaglioncino.
Ei legò quindi il tutto con seta verde, che sigillò con cera dello stesso
colore.
Ciò fatto depose il portafogli in una tasca posta sotto la fodera della sua
tonaca.
Prese pure un pezzo di carta sul quale scrisse il latino:
"Voi sarete giudicato domani, ma il vostro arresto non è stato comunicato al
Consiglio della Suprema. Far valere questa mancanza di forma; il
Sant'Uffizio
sarà obbligato a porvi in libertà."
"Questo," disse parlando fra sé medesimo, "bisogna farlo giungere a Giovanni
d'Avila domani avanti l'udienza."
Ed introdusse la carta nella manica della sua tonaca.
"Andiamo!" proseguì, "ancor poche ore da portare questa pesante catena di
dissimulazione e di menzogna! Ancora alcune ore di fatica, e la mia vendetta
sarà compiuta! Non ho io finora adempito al mio divisamento con coraggio?
Non ho servito, compiacente e docile, le passioni ed i vizi di questo mostro
che decima l'Andalusia? Non ho fatto al suo nome una sanguinosa aureola,
insegna sinistra che chiama l'odio e la rivolta? Non ho lentamente scavato
colle mie deboli mani l'abisso che deve inghiottirlo? O Inquisizione! Non
sono riuscito a renderti abbastanza infame ed esosa nella persona del più
scellerato de' tuoi membri, perché la Spagna, sollevandosi tutta come un sol
uomo al segnale ch'io le darò, rovesci per sempre questo colosso
insaziabile?.non importa! Io farò cadere la prima pietra di questo edifizio
di morte, mi segua la Spagna se non le manca il coraggio!"
"oh! Mio Dio!" disse quindi, chinando la sua testa fra le mani con sembiante
d'ineffabile abbattimento, "mio Dio! Quale fatica!.quando verrà dunque il
riposo?.quanto è orribile questa giornata!.Oh! tutte quelle fiamme, quelle
grida d'agonia! Mi seguono dappertutto.dappertutto rivedo lividi volti,
spettri ghiacciati.per tutto vedo lui.che io amava.lui che da tanti anni mi
grida senza posa. -vieni! Vieni!.- Oh! I morti partecipano forse all'eterna
clemenza di Dio, e non conoscono che il perdono.Son dunque scellerato io che
mi vendico?."
"No, no," proseguì alzandosi con una esaltazione febbrile, "io ubbidisco
alla voce di Dio. Io non sono che lo strumento della giustizia
divina!.Attendi, attendi, o tu che mi chiami; il giorno è vicino, tu mi
aspetterai lungamente."
Ma quel volto severo, che in ogni muscolo aveva le tracce di una sofferenza
o di un pensiero, s'illuminò ad un tratto; quall'altiera fisionomia, che
sembrava essere la personificazione vivente della collera eterna verso i
malvagi, ritornò come per incanto, dolce e sorridente, quella larga fronte
dai sopraccigli poco innanzi contratti, si spiegò come candida tela sotto il
vento, e la bocca del monaco si atteggiò ad un sorriso.
Fu battuto alla sua porta. Egli aprì.
Era Pietro Arbues che veniva a cercarlo fino nella sua camera.
Tornando dall'atto-di-fede, l'inquisitore aveva conosciuta la fuga di
Dolores; e quell'anima spietata, non ancor sazia di supplizii e di torture,
sognava già nuove vittime.
Pietro Arbues era pallido ed affaticato, ma l'insaziabilità dei suoi istinti
distruttori sosteneva ancora la sua inestinguibile energia.
Ei si assise.
E guardando il suo favorito che rimaneva in piedi dinanzi a lui:
"Josè," disse "tutti mi tradiscono oggi."
"Eccetto me, monsignore," rispose il fraticello.
"Tu.sì, lo so, tu sei il solo fedele, il solo che sappia comprendere i
bisogni di questo cuore che batte con violenza nel mio petto; il solo che
non abbia mai contrariate le mie tendenze. Il solo, almeno, che mi abbia
servito senza interesse. Quanto agli altri, credi che io non comprenda il
loro affetto egoistico? La protezione che loro concedo, l'oro che prodigo
loro, i piaceri di cui gl'inebrio, non mi sono garanzie sicure della loro
devozione e della loro fedeltà? Enrico che ho fatto governatore di Siviglia,
gli altri che ho fatto consiglieri, priori o vescovi!.In verità tutte queste
persone non hanno un gran merito ad essermi fedeli. E pertanto.pertanto."
soggiunse con rabbia, "Manuel Argoso è stato portato via oggi, e Dolores è
scomparsa dalle prigioni del Sant'uffizio."
"Che importa a Vostra Eminenza?" domandò Josè.
"Che m'importa, tu dici? Per Satana! Io manderò alle galere tutti i
carcerieri del palazzo dell'Inquisizione, farò bruciare questi monaci
imbecilli, questi vescovi insensati.e questo villano rivestito della livrea
d'un gentiluomo, che io ho fatto governatore di Siviglia!"
"Farete bene," disse Josè.
"Non son io dappertutto circondato da traditori?" riprese Pietro Arbues,
animandosi nel ricordarsi l'attentato commesso contro la sua persona; "un
uomo si è incontrato oggi nella folla, il quale ha osato colpire il grande
inquisitore di Siviglia, e questo uomo.quest'uomo era un famigliare
dell'Inquisizione."
"Lo so," disse freddamente il favorito.
"Senza di te, mio buon Josè, senza la tua santa e salutar prudenza, oggi era
finita per me; perciocché debbo la vita a questa corazza ch'io porto sotto
la mia tonaca, dalla sera in cui mi seguisti nella prigione, temendo qualche
pericolo per me."
"Avevo torto, monsignore?"
"No per Cristo! Ed io, ingiusto, mi sono irritato contro di te! Contro di
te, angelo custode della mia vita!"
"La vita di Vostra Eminenza mi è più preziosa della mia, monsignore - Oh"
sì, essa mi è molto preziosa," proseguì con uno strano sorriso, "ma perché
Vostra Eminenza si degna inquietarsi per la scomparsa della figlia del
governatore? Che importa a Pietro Arbues una donna di più o dimeno? Che
importa ad un milionario che manchi un doblone al suo scrigno? Credetemi,
monsignore, non è questa la vostra gloria. Queste preoccupazioni dei sensi
non servono che ad ammollir l'animo, a dissipare i forti pensieri, ad
estinguere l'energia della volontà. Voi regnate per la paura. Ebbene!
Aumentate la vostra possanza non vi sono teste da colpire in Siviglia?
Questo monaco arrestato or sono otto giorni."
"Giovanni d'Avila!" esclamò Pietro Arbues, "oh! Lo voglio far marcire nelle
carceri dell'Inquisizione[29]."
"Ciò sarebbe mal fatto, monsignore.- Questo monaco," riprese Josè, "ha
predicate dottrine contrarie alla fede cattolica, bisogna dare un esempio,
ed assicurare il trionfo della religione, che forma la vostra gloria e la
vostra potenza, il papa ed il re ve ne saprai buon grado, tutti e due
aborriscono l'eresia di Lutero. Fate comparire Giovanni d'Avila, ma in una
maniera solenne, questa seduta sia pubblica; lasciate libero ingresso a
tutti, ed al cospetto di Siviglia provate col condannarlo che colui che
l'Andalusia
chiama l'Apostolo, non è che un miserabile apostata, un eretico pericoloso."
A misura che Josè parlava, il viso dell'inquisitore esprimeva in un modo
energico i diversi pensieri che l'agitavano. Tornato alla grande passione
della sua vita, il dominatore, Pietro Arbues, ascoltava con indicibile
compiacenza quel demone tentatore sotto le forme d'arcangelo, divenuto a
forza d'adulazione e di accortezza, l'anima di tutte le sue volontà.
"Oh! Tu hai ragione," disse Pietro Arbues, "tu hai ragione, Josè, io oblio
troppo spesso lo scopo della mia missione quaggiù, io mi lascio troppo
facilmente trasportare dell'impeto irresistibile dei sensi, dal torrente
delle mie divoratrici passioni. L'uomo domina troppo di frequente
l'inquisitore,
e già venti volte le imprudenze a cui mi trascina questo temperamento di
fuoco mi anno per poco perduto. Tu sei felice, Josè: i tuoi sensi sono
tranquilli come quelli d'una vergine, o veramente tu li domini colla forza
della tua volontà. Tu sei il solo fra noi a cui non siasi mai potuto
rimproverare la minima debolezza."
"Monsignore, per regnare sugli altri, bisogna incominciare a regnare sopra
sé stesso. Voi non sarete realmente potente che quando, sapendo reprimere a
tempo una passione od un capriccio, la sottoporrete senza misericordia alle
esigenze della vostra posizione e non vi lascerete dominare da essa."
"Sei tu che parli, Josè? tu, che tante volte hai secondato le mie
inclinazioni coi miei capricci, come li chiami?"
"Tutte le volte che ciò non ha potuto nuocere a Vostra Eminenza, ma solo in
questi casi; oggi, incoraggiare il vostro pazzo amore per questa fanciulla;
che finalmente non è più bella di un'altra, sarebbe un gran tradimento verso
di voi. - Il popolo è malcontento; l'azione d'oggi lo prova abbastanza. Non
lo irritate maggiormente, monsignore, dandovi a perseguitare due fuggitivi,
essi han partigiani fra 'l popolo. Per il momento lasciateli in pace, se vi
sta a cuore il ritrovarli, vi verrà fatto più tardi; mancan forse
crociati[30] in Spagna onde perseguitarli e ritrovarli? Credetemi,
monsignore, cercate piuttosto d'attirare verso un altro punto l'attenzione
di queste masse turbolenti, lusingate il papa ed il re, mostrando il più
rigoroso zelo contro i riformati. Finalmente, monsignore,siate un sovrano
spirituale onnipotente, e non il miserevole schiavo di una donna."
"Josè," disse Pietro Arbues, "s'io fossi re, ti farei mio primo ministro."
"Il ministro sarebbe il primo servo di Vostra Maestà," rispose il favorito.
"Ebbene," proseguì l'inquisitore con entusiasmo, "reprimiamo le rivolte di
questa carne indomabile, che a momenti mi rende debole ed indeciso come
fanciullo. Siamo fatti per regnare, e per regnar veramente sappiamo
sottomettere le nostre proprie inclinazioni. Una donna! Che cos'è una donna?
Che importa che si chiami Dolores o Paola, che sia la figlia d'un grande di
Spagna o quella dell'ultimo gitano dell'Andalusia? Essa non è, solamente,
che un miserabile trastullo, indegno di occupare un gran posto nella
esistenza d'un uomo."
"sena dubbio," rispose Josè, che al nome di Paola aveva sentito correre un
fremito nelle sue vene, "senza dubbio, una donna non è degna che Vostra
Eminenza si occupi di lei più di alcuni momenti: considerarla altrimenti che
qual trastullo o schiava, sarebbe gran follia. Così dunque domani,
monsignore non più tardi di domani, Vostra Eminenza farà comparire al
tribunale questo monaco pericoloso?"
"Sì, domani," ripeté vivamente l'inquisitore; "non deggio difendere
gl'interessi
di Roma? E qual maggior nemico di Roma di questi preti insensati che
riducono l'apostolato alla semplice osservanza del Vangelo, come se questo
codice del cattolicesimo non fosse una serie di finzioni e d'allegorie che
ogni papa, ogni concilio, ogni dignitario della Chiesa in particolare ha il
diritto d'interpretare a suo talento secondo i bisogni temporali e
spirituali del paese in cui vive, del popolo che governa, secondo anco i
propri bisogni. - Morte a questi innovatori imbecilli, che predicano la
libertà al popolo! La è per esso un alimento malsano, che lo consuma invece
di divenirgli salutare. Gesù Cristo stesso non ha detto: Rendete a Cesare
ciò che è di Cesare? - Le riforme dicono al contrario: -Togliete al papa il
potere che il papa tiene da Dio. - No, no, essi non riusciranno ad abbattere
la cattedra di San Pietro. La Chiesa incrudelirà contro di essi con una
severità ognor crescente, poiché non bisogna che la mal'erba spenga il buon
grano; dieci monaci come Giovanni d'Avila avrebbero ben presto sollevata la
Spagna e scacciata l'Inquisizione."
"E tru pure, mio povero Josè," disse Pietro Arbues, passando la mano sulla
fronte ardente del suo favorito, "ma tu il vedi, io mi lascio sempre
trasportare dal torrente delle mie focose passioni.orsù addio: a domani;
vado a pregare un'ora perché lo Spirito santo si degni di illuminarmi in
questa difficile circostanza."
L'inquisitore si alzò.
Il favorito l'accompagnò fino alla porta inferiore della sua camera.
"Monsignore," gli disse nel lasciarlo, "domando a Vostra Eminenza il
permesso di ritirarmi nel convento per tre giorni."
"Sì, mio buon Josè, comprendo.hai bisogno di raccoglierti.ma tre giorni
solamente, intendi bene; tu sai ch'io non posso far senza di te. Debbo dire
la messa, e predicare la domenica alla cattedrale; sii di ritorno all'ora
del sermone."
"Ve lo prometto," disse Josè.
"A domenica dunque," ripeté l'inquisitore.
"A domenica, monsignore."
"Sii esatto almeno a questo appuntamento."
"Siate tranquillo, monsignore; mi darò premura di non mancare."
Josè rientrò, lasciò cadere dietro di sé una grossa portiera di velluto
rosso; poi si gettò in un gran seggiolone, appié del suo letto, dicendo con
aria d'indicibile contento:
"E' finita adunque! Ecco il mio ultimo giorno di dissimulazione."
XLIV. Un prete secondo il Vangelo.
Torniamo per la terza volta davanti a quel terribile tribunale in cui
abbiamo già veduto comparire tante nobili vittime, in cui abbiamo assistito,
non ha guari, ad una seduta molto interessante e solenne. Grandi nomi vi
sono stati gettati a pascolo dell'ira di Roma, ed il loro scudo si è rotto
contro la semplice parola "eretico": questa parola pronunziata da un
tribunale senza appello, è stata sufficiente per annullare e per cancellare
dalla lista sociale intiere famiglie, la cui origine si perdeva nella notte
dei tempi.
Ebbene! Oggi non è una famiglia, non è un gran signore spagnuolo che va ad
assidersi sulla panca dei rei per udirvi dalla bocca dell'inquisitore la
sentenza che lo condanna a morte o all'infamia eterna.
Non è il potere, non è la ricchezza e la beltà che l'Inquisizione incrimina
oggi, è la carità stessa; la carità umanata e vestita di una semplice tonaca
di Carmelitano scalzo, per consolare la Spagna perseguitata; lo spirito
cristiano, incarnato, perché sotto questa forma, il popolo non possa
misconoscerlo e negarne la esistenza. Un povero monaco insomma, che ha
passata la vita a pregare e benedire. Questo monaco era Giovanni d'Avila.
L'inquisitore ha avuto più paura delle sue virtù, che dei vizi degli altri;
esso ha detto:
"Distruggiamo costui, che è la condanna vivente dei nostri delitti."
Ma retrocediamo di alcune ore.
Si rammenta il lettore che la notte precedente, Josè aveva preso congedo da
Pietro Arbues, sotto pretesto di riposo.
In vece di recarsi al suo convento come aveva detto all'inquisitore, Josè
era uscito di buon mattino, ed erasi portato alla taverna della Buona
Ventura.
Là si rinchiuse con Gioachino nel tristo bugigattolo dove dormiva la
guardia, ed il monaco e l'uomo del popolo parlavano lungamente a voce bassa,
Josè confidando a Gioachino importanti secreti colla più completa fiducia,
come uno che è sicuro di quegli a cui s'indirizza, e Gioachino ricevendoli
con quella gioia orgogliosa d'un subordinato pieno d'affezione, felice di
ricevere la confidenza del suo superiore. Quel colloquio durò circa un'ora
Dopo di che il taverniere andò direttamente verso l'Inquisizione, mostrò al
carceriere un ordine di Josè avente il sigillo inquisitoriale, onde lo
lasciasse penetrare nel carcere di Giovanni d'Avila a fine di provarlo[31],
cosa che si praticava presso i prigionieri del Sant'Uffizio.
Fu lasciato entrare, ei rimise al monaco il biglietto di Josè, e dopo aver
passata una mezz'ora nel carcere, si recò presso il presidente del Consiglio
della Suprema. Giovanni d'Avila aveva nel suo carcere scritto con un lapis
fornitogli da Gioachino un biglietto destinato al presidente. Gioachino lo
rimise in proprie mani, quindi tornò alle sue faccende.
Josè erasi diretto verso la Garduna.
Riprendiamo ora il nostro racconto dove l'abbiamo lasciato.
Siamo nella sala dell'udienza nel palazzo dell'Inquisizione. Attorno vedesi
lo stesso lugubre apparato che spiegasi sempre in simili circostanze.
Solamente fino dalla mattina è circolata voce nella città che la seduta
sarebbe pubblica, a che tutti avrebbero potuto assistervi.
Grande era il rumore fra 'l popolo, e più d'uno lasciava le proprie faccende
per recarsi molto prima dell'ora la palazzo dell'Inquisizione. Era sì raro
ottenere un simile favore.
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