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MEDIOEVO, SANTA INQUISIZIONE E MISTERI

IL MEDIOEVO E LA SANTA INQUISIZIONE CON I SUOI MISTERI

XXXIX. Un complotto. Non rimaneva più nel palazzo della Garduna che il maestro, Gioachino, Manofina, la sua compagna e i tre signori. Alcune torcie si estinguevano lentamente, la sala immensa diveniva più oscura, e la notte avanzata dava maggior solennità a quella riunione misteriosa. Erano due ore dopo mezzanotte. Il maestro aprì allora un gran baule di querce posto in un angolo della sala, ne tolse un registro di cartapecora giallo ed unto, un vasetto di piombo pieno d'inchiostro, ed una forte penna d'oca malamente temperata; quindi chiuse il baule che gli serviva ad un tempo da armadio e da tavolo, e dopo aver disposto sul suo coperchio diversi oggetti che ne aveva cavati, andò verso la porta per assicurarsi s'era ben chiusa. La stanghetta della serratura non era, per certo, entrata bene nella sua bocchetta, perché nell'istante in cui Mandamiento stava per spingere colla sua mano vigorosa quella enorme massa di querce, per chiuderla intieramente, questa si aprì quasi da sé medesima, ed un nuovo personaggio entrò nel palazzo della Garduna. Era Josè. Avvertito da Gioachino, ei s'era recato in quella riunione. Alla vista del fraticello, Estevan mandò un grido di rabbia: e volgendosi verso Gioachino, gli disse con voce cupa: "Tu m'hai tradito, miserabile!" Il taverniere non si turbò menomamente, e rispose con tono più tranquillo: "No, signore, non v'ho tradito." Era un tal espressione di verità nella fisionomia di Gioachino, che Estevan ne fu colpito. Nello stesso tempo Mandamiento ignorando il motivo di quella visita notturna, riceveva il Domenicano con tutto il rispetto dovuto al favorito del grand'inquisitore. "Che brama Sua Reverenza?" domandò finalmente il maestro alquanto allarmato. "Parlare a questi tre signori," rispose Josè. Mandamiento inarcò il sopracciglio. "Che vuole questo fraticello?" domandò piano Valero ad Estevan. "Ora lo sapremo," rispose il giovane conte. Così dicendo si avanzò verso il monaco. Josè gli porse amichevolmente la mano. Estevan non la prese; ma guardando il fraticello in volto gli disse: "Non bastava l'avermi tradito; volete anco perdermi, non è vero?" "Io non vi ho tradito," rispose Josè, con accento soave e mesto; "vengo a consolarvi ed a porgervi aiuto." "Ma Dolores?" proseguì Estevan, la cui gelosia si risvegliava intensa e crudele in presenza di colui del quale sospettava; "Dolores! Che ne avete fatto?" "Dolores vi sarà resa sana e salva," continuò il Domenicano. "Sì, perché io la libererò," esclamò impetuosamente Estevan "le vostre perfidie non m'illudono più, don Josè; e se volessi in questo momento," proseguì con amarezza, "se volessi!.vedete, don Josè? voi siete stato imprudente.qui siamo cinque contro di voi, e questi uomini mi sono affezionati." "La prova che non vi temo," rispose Josè, "è che io sono venuto, e son venuto solo. Se io avessi tradito, a che dovrei cercarvi? Qual bisogno ho io di voi? Credetemi, Estevan, non siate sconoscente verso i vostri veri amici; il loro soccorso vi è necessario, ed essi ve l'offrono con tutta la sincerità della loro anima." "Per bacco!" esclamò ad un tratto don Rodrigo; "è il fraticello che m'ha salvato l'altro dì dal furore dei suoi confratelli. - Reverenza!" continuò avvicinandosi a Josè, "permettetemi di ringraziarvi del soccorso che m'avete prestato, or sono due giorni, alla taverna della Buona Ventura. Io ho ricuperato intiera la mia ragione, e voglio provarvelo.padre mio." "La ragione non consiste nel dire delle cose sensate," rispose freddamente Josè, "ma nel dirle a tempo ed a proposito; quando si semina sulla pietra, gli augelli mangiano il seme, e non produce nulla a quegli che ha seminato. Le vostre declamazioni vi faranno bruciar vivo, credetemi." "Ciò non seguirà," replicò Valero; "l'Inquisizione mi crede pazzo." "L'Inquisizione potrebbe alfine avvedersi che voi siete un pazzo pericoloso, e trattarvi come tratta i savii." "Ebbene!" esclamò Valero, " che m'importa? Il martirio è una bella gloria." Per la seconda volta dacché conosceva Josè, Estevan era vinto da quella semplicità sì vera, da quell'incanto d'attrazione che scorgevasi in tutti i tratti del monaco: gli porse la mano a sua volta in atto franco ed amichevole; Josè la prese e la strinse con affezione, dicendogli colla sua voce dolce ed incantevole: "Siamo amici.amici fino alla morte.io lo merito.Un giorno forse Josè vi sarà carissimo." Estevan esitava ancora; un dubbio crudele l'angustiava. "Don Josè," disse finalmente, "ancora una cosa: se volete convincermi, rendetemi Dolores e suo padre , ed io vi crederò." "Pensate a voi," disse Josè, "che il Sant'Uffizio renda così facilmente le sue vittime?" "No, ma Josè il favorito dell'inquisitore, fa quel che vuole nel Sant'Uffizio." "Josè può molto," rispose il favorito, "ma non può rendervi un uomo a cui son state rotte e bruciate le membra." "Che dite?" domandò vivamente Estevan. "Dico che Manuel Argoso ha subito ieri la tortura del fuoco e quella dell'acqua; dico essere impossibile ch'io lo salvi, poiché non può camminare." "Ma Dolores! Dolores!" gridò il misero giovane in una inesprimibile angoscia. "State tranquillo sul suo conto; Dolores non ha subito alcuna tortura, ed io la libererò. Se dopo l'atto-di-fede non la trovate a casa di Giovanna, fate di me quello che volete, don Estevan. Io non sono poi un avversario da temersi," aggiunse con quell'accento profondo di tristezza che sembrava essere caratteristica della sua indole. "Giurate di rendermi Dolores?" domandò Estevan. "Il giuramento è stato inventato dai bricconi," rispose Josè; "io non giuro, ve lo prometto." "Signori!" esclamò il giovane Vargas, "all'opera e conveniamo dei nostri mezzi. Trattasi di liberare don Manuel Argoso o di morire. Ecco un aiuto che il cielo ne manda," aggiunse accennando Josè. "Un fraticello!" disse l'acre Valero; " a che può egli servire in una congiura?" "Io confesso tutti i giorni," rispose Josè. "Bene! Bene!" disse Valero, "dimenticava che voi combattete nelle tenebre[1]. "Iddio cangia il male in bene," rispose Josè. "Siete pazzo?" disse piano don Ximenes ad Estevan, "volete consegnarci a questo inquisitore?" "Iddio cangia il male in bene," ripeté Estevan. "Ebbene è piaciuto a Dio di cambiare questo inquisitore in una buona e generosa creatura che ci servirà con tutto il suo potere. State dunque tranquillo, don Ximenes, e non temete nulla. Orsù, maestro," proseguì volgendosi verso Mandamiento, che attendeva in un canto il risultato di quel conciliabolo, "siete pronto a mettere a mia disposizione tutte le vostre forze?" "Le nostre forze," rispose il maestro, "possono essere più o meno considerevoli, secondo le esigenze dei mandatari ed il salario offerto alla confraternita." "Non è questione di salario, io pagherò generosamente." "Il nostro fratello Gioachino ha parlato, mi pare, di dugentomila reali," aggiunse Mandamiento. "Non è abbastanza, maestro? Non potete, per questa somma, mettere in campagna tre o quattrocento persone?" "Dove volte che le trovi?" osservò piano don Ximenes. "Ne troverà ventimila al bisogno," disse Josè. "Ebbene, maestro, lo potete?" riprese Estevan. Il maestro rifletté alcuni istanti, poi rispose: "Lo posso, signor cavaliere; ma bisogna aggiungere ventimila reali per le spese de' viaggi, poiché sarò obbligato di far venire dei fratelli dalle città circonvicine[2]." "I ventimila reali li darò io!" esclamò don Ximenes de Herrera. "In questo caso," disse Mandamiento, "le vostre signorie vorrebbero farmi questa promessa in iscritto? Allora scrivo l'ordinazione sul registro della confraternita." "Facciamolo pure," disse Estevan. Il maestro prese allora nel suo registro un foglio di carta, e, presentando la penna s don Estevan: "Scrivete signor cavaliere," gli disse. Estevan scrisse: "Io, Estevan, conte de Vargas, m'obbligo e prometto di pagare a Mandamiento, maestro della confraternita della Garduna, la somma di dugento ventimila reali, il giorno successivo all'atto-di-fede che avrà luogo il 4 di giugno dell'anno corrente. Siviglia, il 27 maggio dell'anno 1534. Estevan conte de Vargas. E più in basso don Ximenes scrisse : Io pure mi obbligo e prometto di pagare la detta somma al signor Mandamiento, in mancanza di don Estevan de Vargas, il giorno dopo a quello sopra indicato. Ximenes de Herrera. "Basta, signori. ora tocca a me prendere nota della vostra ordinazione," continuò il maestro e scrisse sul suo registro: "Ordinazione fatta alla confraternita della Garduna dal signor Estevan de Vargas, il 27 maggio 1534. 1° Disporre a favore di detto signore di quattrocento membri della Garduna, tanto postulanti e novizi quanto bravi, coperte e sirene che nel loro genere sono ugualmente utili alla confraternita e concorrono alla prosperità. 2° Disporli il giorno del prossimo atto-di-fede in maniera da oscurare il grande inquisitore. "Cancellate; io non ho detto questo," interruppe Estevan; "lo porterete via solamente; non omicidii, signor Mandamiento." "No, certo," disse anco Josè, "tu lo porterai via, e lo condurrai nei sotterranei scavati sotto il tuo ricovero. Guardati dall'ucciderlo." "Cancellate, cancellate la parola oscurare," aggiunse Estevan. Il maestro finse di cancellare con la sua penna priva d'inchiostro, poiché aveva avuto cura di nettarle sulla sua veste senza che nessuno se ne accorgesse. Quindi riprese: ".Disporli in maniera da portar via il grande inquisitore, e liberare l'antico governatore di Siviglia, ingiustamente condannato dall'Inquisizione. E dopo averlo liberato, condurre il governatore alla Garduna per consegnarlo nelle mani di don Estevan de Vargas." "O nelle mie," interruppe Josè. "E' sua signoria che comanda," disse il maestro. "S^,S^," disse Estevan, "scrivete: o fra le mani di sua signoria don Josè, elemosiniere di Sua Eminenza il grande inquisitore." "Questo è tutto?" continuò Mandamiento. "Mi pare che basti," disse don Rodrigo; "ben inteso, signor Mandamiento, che nulla sarà da voi trascurato per il buon successo di questa intrapresa." "Signor cavaliere," rispose il capo, "non contate nulla il nostro onore e la nostra reputazione, che sarebbero compromessi da una sconfitta di questa natura?" "Aggiungete," disse don Josè: "Ritenere il grande inquisitore nei sotterranei della Garduna, fintanto che don Josè permetta a Mandamiento di porlo in libertà." "E' inutile," rispose il maestro; "quando avrò fatto dell'inquisiore quello che debbo farne, vostra signoria ne disporrà a suo talento. "Io m'incarico di lui," disse Manofina, che per rispetto alla nobile assemblea, era rimasto taciturno fino a quel momento. "Io ti darò le istruzioni a questo riguardo," disse Mandamiento, volgendogli uno sguardo significativo. "Bene! Bene! Maestro, le vostre istruzioni saranno eseguite." "Ora, signori," disse Valero, "a voi il rimanente." "Fino al momento," disse a sua volta Josè, "silenzio assoluto." "Il giorno dell'atto-di-fede," aggiunse don Ximenes, "troviamoci coi nostri amici agli sbocchi della piazza." "I miei garduni non hanno che far nulla con voi," disse Mandamiento; "credetemi, signori, non vi ci mischiate. Trattasi di liberare il governatore, non è vero? Io me ne incarico, i miei bravi ed io faremo tutto." "Però," disse Estevan, "se una mischia venisse a impegnarsi, bisogna che noi possiamo aiutarvi all'uopo." "E' inutile, signori; preparate il popolo soltanto; non perché ci aiuti, ma perché ci lasci fare; questo basterà." "Una rivoluzione generale avrebbe salvato tutte le vittime," osservò Valero. "Oimè, questo garduno ha forse ragione," disse il giovane Vargas, sospirando; "forse dovremo lasciarlo fare. "Sì, egli ha ragione," disse Josè, "un'aperta rivoluzione non servirebbe, in questo momento, che a raddoppiare le crudeltà dell'Inquisizione e ad aumentare il numero delle vittime. Credetemi, le precauzioni sono prese per difendersi all'uopo; truppe numerose sono pronte e non è giunto ancora il giorno di poter lanciare questo povero popolo in una insurrezione. Trattasi di saperlo governare; usiamo astuzia, non audacia. Dimenticate che l'imperatore Carlo V deve assistere all'atto-di-fede, e che numerosa milizia l'accompagna?" "Don Josè ha ragione," aggiunse don Ximenes de Herrera: "una rivoluzione in quel giorno somiglierebbe ad una cospirazione contro il re, e noi vogliamo attaccare soltanto l'Inquisizione." "Ebbene! signori, che decidiamo?" domandò Valero. In quel momento fu battuto un gran colpo alla porta della sala. Tutti trasalirono. Mandamiento, senza sconcertarsi, spinse una colonna mobile, la quale, girando su se medesima, scoperse un'apertura che metteva in un'altra sala debolmente illuminata: era il gabinetto del maestro. "Entrate tutti là," disse. Ubbidirono. Mandamiento rimise al suo posto la colonna, e corse verso la porta. Aprì, ed era la Graziosa. Essa si precipita tutta il lacrime nella sala. "Che cos'è stato, Graziosa?" disse il maestro, "è bruciata forse la tua casa?" "Dov'è mio fratello?" domandò essa tremando. Mandamiento riaprì il nascondiglio. "Non temete nulla, signori," disse, "non v'è nessun pericolo, potete uscire." Rientrarono tutti nella sala. "Oh! Signori," gridò la Graziosa," se sapeste qual disgrazia è accaduta!" E la gitana, soffocata dalle lacrime non poteva parlare. "Che c'è dunque?" dissero tutti ad una voce. "L'Apostolo, signori, il padre di Siviglia." "Ebbene, finisci." "Arrestato! Arrestato dall'Inquisizione!" proseguì con voce interrotta dai singulti. "O Dio vendicatore!" esclamò Estevan. "L'hanno arrestato all'uscir della predica," continuò la sorella di Gioachino, " sotto pretesto che aveva predicato delle eresie." "Ebbene, don Estevan," disse Valero, "risparmiate il buon Pietro Arbues! Risparmiate il re che permette tali iniquità1" "Don Rodrigo, verrà la nostra volta," rispose Estevan; "la forza dell'uomo consiste nel saper attendere." "Maestro," egli disse a Mandamiento, "voi agirete solo coi vostri garduni, v'impadronirete dell'inquisitore e di Manuel Argoso.Noi, signori, pensiamo a preparare il popolo; sarà facile prepararlo per questa causa, che è sua. "Non scordate di assicurarvi della persona di Pietro Arbues," soggiunse Josè. "Vostra Reverenza stia tranquilla," rispose Mandamiento, "Sua Eminenza non si salverà." Stabilite le cose in tal guisa, i tre signori e Josè uscirono insieme dal palazzo della Garduna. XL. Il sermone all'angolo delle strade. Era il quattro di giugno dell'anno 1534. Erano suonate cinque ore del mattino. La popolazione di Siviglia erasi desta più di buona ora del consueto. Un grande avvenimento teneva tutti gli animi sospesi. Era il giorno dell'atto-di-fede. Giorno di festa solenne e sacro, nel quale nessuno doveva lavorare, ma pregare. A quell'ora un compagnia di giovani nobili, aventi alla lor testa don Rodrigo de Valero percorrevano le vie di Siviglia, ragionando fra loro con aria di mistero e fermando talvolta le persone del popolo che incontravano. Parlavano loro per alcuni minuti; quindi i popolani si allontanavano con aria pensierosa e preoccupata, come se avessero ricevuta un importantissima confidenza. La fisionomia dei cavalieri era cupa e meditabonda: camminavano a due a due, fermandosi talora in circolo per comunicarsi un'idea; quindi riprendendo il corso della loro passeggiata, continuavano la loro propaganda popolare, scopo unico di quella escursione sul mattino. Qualche cosa di misteriosamente terribile, come quelle sorde convulsioni della natura che precedono l'uragano, agitava il popolo di Siviglia. Profondamente esacerbato dalle insinuazioni di Valero, di Estevan e dei loro amici; sedotto fino nel santo tribunale dell'eloquenza insidiosa di Josè, che dal suo lato aveva operato nelle tenebre, il popolo di Siviglia, quasi tutto composto di marrani, di moreschi o d'ebrei apparentemente convertiti, il popolo aspettava con una collera concentrata il giorno dell'atto-di-fede reale. Stanco delle odiose persecuzioni che pesavano su di lui, stanco della sua longanimità, la quale non aveva servito che ad aumentare l'audacia e la crudeltà dei suoi oppressori, era in quello stato d'esacerbazione in cui la più lieve scintilla serve a destare un grandissimo incendio. Tale era stato il risultato ottenuto dall'accorto Valero. In quel momento poteva realizzarsi per lui la predizione che aveva fatta alcuni giorni innanzi uscendo dalla taverna. -Questo popolo farà quello ch'io vorrò. - Valero era stato aiutato nei suoi maneggi dai giovani signori che l'accompagnavano in quel momento, anime ardenti, riscaldate dal grande e sublime amore della libertà. Figlia del cielo sì di sovente incompresa, l'uomo non adora il più spesso in sua vece che un idolo vano e adornato, opera imperfetta delle sue proprie mani. Ma quelle grandi anime spagnole non adoravano una vana parola, un'immagine ingannevole; la vera libertà figlia del cielo, era l'oggetto dei loro voti e delle loro speranze, la libertà protettrice e tollerante, quella vergine sublime, sorella della carità cristiana, la quale cuopre com'essa i poveri ed i fanciulli coi lembi della sua candida veste, li nutrisce, li consola, e manda il suo soffio divino sulle ali del genio abbattuto e scoraggiato dicendogli: -Avanti! Avanti! Io sono pronta ad aprirti la strada e a sostenerti.- Vergine celeste, amante dei grandi cuori di tutte le età, era dessa che animava quei baldanzosi cavalieri spagnuoli, i quali per tanto tempo lottarono contro la tigre inquisitoriale. "Coraggio, coraggio, amici miei," diceva Valero, "noi otterremo l'intento: questa giornata checché ne dica don Estevan, non sarà infeconda per la felicità della Spagna." "Ah!" rispose Estevan, " perché non posso versare nel cuore del popolo la convinzione che mi anima, e renderlo in un giorno quello ch'io spero che sia fra qualche secolo, libero, cioè felice! Una sola cosa mi affligge. Questo popolo buono, semplice e credulo, a cui è stato detto, tu proteggerai oggi coloro che salveranno il tuo antico governatore, questo popolo crede per ciò solo di fare un gran passo verso la libertà. e non fa che servire un interesse personale." "Raddoppiare l'odio del popolo verso i suoi oppressori," disse don Ximenes, "è già servirlo, è prepararlo a quella grande e generale rivoluzione che tosto o tardi avrà luogo contro un potere iniquo e spietato. Nel gran processo d'un popolo contro i suaoi oppressori, ogni causa particolare si lega alla causa comune." Mentre parlavano così, trovaronsi nella via fermati da un gruppo di monaci mendicanti mezzi ebbri. Questi monaci uscivano da una taverna in cui avevano passata la notte. Molti fra loro erano giovani, ed i loro volti foschi e lucenti, portavano l'impronta della golosità oziosa, e dell'abuso dei beni terrestri. Che bisogno avevano di mettersi in pena? Tutto il mondo lavorava per essi. Questi monaci erano bruni in viso, il loro collo nervoso e la loro andatura, alquanto superba, accusavano il vigore e la libertà delle razze del deserto, dalle quali sono scesi gli abitanti dell'Andalusia e di Valenza. Questo tipo s'è conservato fino ai giorni nostri; mettete un burnus ad un monaco spagnuolo, e ne avrete un beduino. Essi avevano abiti sordidi, mani luride, e tutto quello che si vedeva della loro persona manifestava l'assenza completa di ogni cura esteriore. L'espressione dei loro occhi, audace ed ambigua ad un tempo, disgustava il pudore ed inspirava lo spavento. La loro barba nera o grigia somigliava ad un prunaio, era inoltre tutta cosparsa di grani dell'elleboro, polvere fina e rossastra di cui si faceva uso allora alla maniera del tabacco, che fu conosciuto più tardi sotto Caterina de' Medici. Questa polvere d'elleboro è chiamata oggi tabacco di Spagna. I monaci di Spagna ne facevano un enorme consumo. Tuttavia sapevano, al bisogno, gettare un denso e vasto manto d'ipocrisia sulla turpitudine della loro anima. Quantunque un po' ebbri, a misura che l'aria fresca arrivava al loro viso, riprendevano tutta la loro ragione, e potevano nascondere il loro stato. Eravi molta gente nella strada. "Fratelli," disse il più attempato dei monaci, "oggi è giorno dell'atto-di fede, noi non possiamo scegliere un miglior circostanza per propagare la santa fede cattolica. Fermiamoci qui: io esorterò il popolo." Così parlando, il monaco accennava una larga pietra piana, addossata ad una casa e sormontata da una nicchia in cui la pietà degli abitanti della casa aveva posta un'immagine della Vergine, davanti alla quale manteneva costantemente un lume. Il monaco montò sulla pietra, fece un gran segno di croce, pregò alcuni istanti davanti all'immagine, poscia volgendosi verso il popolo ch'erasi affollato intorno a lui, lo benedisse, e si preparò a cominciare il suo sermone. In quel momento Valero l'interruppe. "Monaco!" gli disse, "tu dovresti aspettare di aver dormito per predicare, invece di venir qui, dopo una notte di crapula, a profanare la parola di Dio. Non sai che tutto ciò che passa per labbra impure diviene impuro?" il monaco guarò con una collera indicibile colui che ardiva apostrofarlo così. "Non ci badate, reverendo," disse uno degli altri monaci; "è Valero il pazzo; egli ha il diritto d'insultare tutto il mondo." "Che fai tu qui a quest'ora?" proseguì indirizzandosi al vecchio signore. "Vengo a vedere come gli scribi ed i farisei sono seduti sulla cattedra di Mosè," replicò severamente don Valero. "Miserabile pazzo! Voui tacere?" gridarono i monaci. Valero continuò con enfasi profetica, guardando il popolo meravigliato di tanto ardire. "Tutte le cose che vi dicono d'osservare, osservatele e fatele; ma non le loro opere, perché essi dicono e non fanno." "Vuoi tacere?" ripeté il predicatore. "Lasciatelo," disse il popolo, "lasciatelo parlare." Valero proseguì senza sconcertarsi: "Essi legano insieme fardelli insopportabili, e li pongono sulle spalle degli uomini, ma non vogliono muoverli col loro dito." "Fratelli," continuò il predicatore, "in questo giorno di glorificazione per il Nostro Signore, in cui la chiesa trionfante riporta vittoria sulle eresie ce desolano la terra." "Serpenti! Razza di vipere!" interruppe Valero, "voi fate morire i giusti ed i profeti; ed il sangue dei giusti e dei profeti ricadrà su di voi!" Queste energiche parole, tolte dal Vangelo,, ebbero un'eco immenso nel popolo. Pochi erano quelli della folla che non avessero in cuore una viva piaga che quelle parole toccavano dolorosamente. Un sordo mormorio girò attorno ai monaci, e se non si diede loro la baia, fu perché in quel momento un'interna tristezza si mescolava allo sdegno ed alla collera del popolo; ei sentiva il bisogno di vendicarsi grandemente, come fa talvolta quando è stanco di soffrire. "Rodrigo de Valero dimentica le frescherie della sua vita passata," disse il predicatore con sarcasmo. "Rodrigo si è pentito, e Iddio gli ha perdonato," replicò il vecchio signore; "ma voi avete la coscienza del male, e tuttavia perseverate nel male. Guardatevi! La collera di Dio si fa qualche volta aspettare, ma è certa, perciò andrete tutti là dove sono pianti e stridori di denti[3]. "Il vino e le donne non fanno mai degli eretici[4]," dissero i monaci in cattivo latino; "l'inferno è per gli eretici." "Andate!" gridò loro Valero, "depositari infedeli della legge di Cristo, voi, il cui cuore è pieno di rapina e d'intemperanza, andate a tosare le pecore che il buon pastore portava sulle spalle, per arricchirvi delle loro spoglie. Andate, vampiri, a suggere il sangue di coloro che sono immersi nel sonno." "Il pazzo è più ragionevole di noi tutti," disse alcuni popolani. "Questi monaci sono ubriachi," aggiunsero altri, "andiamo via di qua." Il gruppo di popolani e popolane che s'era formato intorno al predicatore si dileguò subito, e si disperse nelle strade. I monaci, vedendosi privi d'uditori, si allontanarono mormorando tra' denti, e gettando sguardi d'odio a quello che chiamavano il pazzo. L'orologio della cattedrale suonò otto ore. Seguì un gran tumulto nella folla che ingombrava le vie, il popolo si portò verso il palazzo dell'Inquisizione. Si vedeva un gran numero di persone, le quali non si perdevano di vista, poiché si cangiavano fra loro sguardi d'intelligenza. Alcuni si accostavano pronunziando a voce bassa queste due parole. "Dio e libertà." Tutte queste persone erano del complotto. Scorrevano tra la folla, aiutandosi coi gomiti per aprirsi un passaggio; e quando il popolo era arrivato davanti al palazzo dell'Inquisizione, erano giunti a trovarsi alla testa della folla avida e curiosa di quelle lugubri tragedie sì di sovente rinnovate, delle quali si pasceva come d'uno spettacolo. La processione usciva in quel momento dal palazzo dell'Inquisizione. I carbonai aprivano la marcia; erano in numero di cento, e ognuno di essi era armato d'una picca e di un moschetto[5]. Veniva quindi una gran croce bianca, vessillo dei figli di San Domenico de Guzman, portata da un monaco dell'Ordine; poi gli stessi Domenicani vestiti delle loro lunghe tonache e del manto pio. Sul loro petto, nel mezzo dello scapolare nero che cadeva fino ai loro piedi, spiccava un gran croce bianca[6]; un lungo rosario pendeva dalla loro cintura. Questa sacra milizia era innumerevole, i Domenicani pullulavano in Ispagna. Dopo di essi veniva il duca di Medina-Coli, il quale portava, secondo il privilegio accordato alla sua famiglia, il grande stendardo della fede[7]. Era una bandiera di damasco purpureo, sulla quale erano state ricamate da un lato le armi di Spagna, dall'altro una spada nuda circondata da una corona di lauro, con questa iscrizione: Justitia et misericordia. Appresso al nobile duca venivano i grandi di Spagna ed i famigliari affezionati[8] dell'Inquisizione. Questi ultimi erano in gran numero. Il potere più iniquo ha sempre numerose creature: il terrore e l'interesse personale sono grandi veicoli, e l'egoismo è la lebbra dell'umanità. La folla guardava silenziosa sfilare il corteo. I monaci ed i famigliari camminavano umilmente a testa bassa borbottando a fior di labbra le sublimi preghiere della Chiesa cristiana, divenute insipide e non espressive passando per la bocca impura di quegli uomini dal cuore di ghiaccio. Essi conoscevano a fondo il formulario dei devoti, ma nulla delle pratiche della vera pietà. Il popolo riamanea, suo malgrado, muto ed esterrefatto in presenza di quelle pompe della morte. Bentosto comparvero i condannati, che erano in numero di cinquanta. Procedevano confusi uomini con donne, vecchi con fanciulli, senza distinzione di rango né di sesso. Prima venivan le vittime condannate a leggiere penitenze; esse erano vestite d'un sanbenito di tela con una gran croce di sant'Andrea sul petto. La loro testa era scoperta, ed i loro piedi nudi si ammaccavano nelle asprezze della strada. L'attitudine di quei poveri infelici era triste ed umiliata; sentivano che, quantunque scappati alla morte, l'Inquisizione li condannava ad una infamia eterna. Non osando distruggere la loro vita materiale, essa annientava la loro vita morale; e queste si chiamavano leggiere penitenze[9]. Dietro le prime vittime venivano i condannati alle galere, alle fruste ed alla prigionia[10]. Dopo queste procedevano i condannati al fuoco, i quali mercè una tardiva confessione, avevano ottenuto il favore dello strangolamento. Portavano un sanbenito il quale era dipinto di diavoli e di fiamme rovesciate. La loro testa era coperta da una coroza alta tre piedi. Coloro che dovevano essere bruciati vivi venivano gli ultimi. Il loro sanbenito, era pure coperto di figure diaboliche, ma le fiamme erano ascendenti. Portavano essi pure la coroza. Ogni condannato portava in mano un torcetto di cera gialla. Coloro che erano dannati a morte, venivano scortati da due famigliari e da due frati. Erano generalmente magri, pallidi, lividi; molti non potevano camminare che con l'aiuto dei monaci e dei famigliari, i quali piuttosto che sorreggerli, li portavano. Era una processione di agonizzanti che andava incontro alla morte. Fra costoro lo sventurato Manuel Argoso veniva ultimo. Colpito in tutte le sue membra, indebolito dai suoi dolori morali, dal regime del carcere, dalla tortura dall'acqua, in conseguenza della quale molti vasi eransi rotti nel suo petto, ed avevano provocato delle emottisi, Manuel Argoso non camminava; i suoi piedi, arsi fino ai nervi, non potevano sostenerlo. Era portato da due famigliari. Due monaci domenicani, che l'aiutavano pure a camminare, l'esortavano con voce melata a convertirsi, ma l'infelice conte di Cevallos sembrava aver perduto perfino il sentimento dell'esistenza. Il suo viso ferreo e livido aveva già il colore della tomba, ed i suoi occhi vitrei, fissi senza espressione, avevano quella direzione obliqua che prendono gli occhi dei moribondi, nel momento in cui, pronti a lasciare la terra, volgono forse lo sguardo verso un'altra parte. Chi può penetrare i misteri dell'agonia e della morte, di quell'ultima lotta fra la forma terrestre e l'uomo immateriale? Alla vista del loro antico governatore, di quell'uomo giusto, dolce e caritatevole che avevano amato come un padre, le persone del popolo si sentirono commosse e intenerite fino alle lacrime, ma non ardivano manifestare a viso scoperto la loro compassione. Molti abbassavano la testa sulle loro mani congiunte, per nasconder così le lacrime che involontariamente sfuggivano loro dagli occhi. Nel momento in cui i condannati al fuoco uscirono dalle prigioni, i garduni, confusi nella folla, armati d'un rosario d'una lunghezza molto edificante, ed avendo alla loro testa Mandamiento, sfilarono in processione ai due lati delle vittime, e seguirono devotamente il corteo pregando con fervore. Due bravi, forti e robusti, si tennero vicini al governatore, molti novizi camminavano davanti e dietro di essi, pregando e dando tutti i segni esteriori della più profonda pietà. Un gran numero di garduni eransi mischiati fra i popolani; costoro, preparati da Estevan e dai suoi amici, si prestavano, senza saperlo a questo complotto misterioso; si separavano da sé stessi senza dir nulla ogni volta che un garduno aveva bisogno di andare o di venire liberamente secondo il posto che voleva occupare. A misura che la processione sfilava, nuovi garduni si ponevano devotamente a i due lati. Comparvero finalmente le ultime vittime, quelle che sfidavano la tortura e le fiamme, cioè i morti.[11]. Neppure a questi erasi voluto lasciar la pace della tomba. Non potendo ardere la loro carne, ardevano le loro ossa e la loro effigie. Erano chise in alcune casse; e statue di cartone, immagini di coloro che non erano più, venivano portate nel luogo del supplizio per essere poste sul rogo. L'Inquisizione sarebbe andata a cercare le sue vittime nel paradiso o nell'inferno per soddisfare la sua santa vendetta! Tutto il tempo che aveva durato il passaggio dei martiri, un profondo e religioso silenzio aveva regnato nella folla; essa seguiva con occhio avido ed intenerito il loro cammino lento e penoso. Era cosa triste ed orribile ad un tempo il vedere quei monaci empi e fanatici, con un crocifisso nelle mani e parole di pace sulle labbra, esortare le vittime della loro barbarie in nome di Colui che sulla croce perdonò ai suoi carnefici. Oh1 come in quei tempi odiosi di fanatismo e d'oppressione religiosa compievansi queste profetiche parole dell'Uomo-Dio: -Io non sono venuto a portar la pace sulla terra, ma la spada[12]-. Il divino riformatore prevedeva tutto quello che i suoi discepoli di tutte le età avrebbero dovuto soffrire dagli scribi e dai farisei, schiatta impura che si perpetua per l'affigliazione, e non per la creazione, e si pasce di cadaveri come i vermi del sepolcro. Bentosto un grande scalpitio di cavalli annunziò la presenza degl'inquisitori. I Consiglieri della Suprema, gl'inquisitori ordinari, ed i membri del clero, formanti un'immensa cavalcata, venivano dopo i martiri. Il grande inquisitore chiudeva la marcia, scortato dalle sue guardie del corpo. Josè era alcuni passi avanti a lui. A misura che la cavalcata sfilava, alcuni garduni si posero ai due lati sempre borbottando e pregando. Nel momento in cui passò il grande inquisitore, Manofina, seguito dalla sua fedel Colubrina, si mise umilmente a camminare al suo fianco, pregando con maggior fervore degli altri. Alcuni momenti dopo si udì un prolungato abbaiamento; era il segnale che avvertir doveva Mandamiento che la processione era uscita per intiero. Allora il maestro, che era il punto di mira dei garduni, fece un gran segno di croce, e baciò la medaglia del suo rosario. Aveva appena fatto questo segno convenuto, che i due bravi, i quali erano vicini al governatore, allontanarono con violenza i famigliari che lo sostenevano, portarono via Manuel Argoso nelle loro braccia di ferro, mentre i novizi tenevano i famigliari, ed evasero colla rapidità della folgore. La folla si divise da sé stessa per favorire la loro fuga; ed i garduni disparvero come per incanto nelle tortuose vie di Siviglia. I monaci che scortavano il governatore, non che coloro che avevano veduto il colpo, spaventati e timorosi d'una rivoluzione, gettarono lungi il crocifisso, e vollero fuggire; ma la folla eransi chiusa attorno ad essi, sicché fu loro impossibile l'uscire. I garduni erano prudentemente evasi l'uno dopo l'altro, il resto della compagnia aveva continuato a pregare seguendo la processione. Il grande inquisitore, troppo lontano, non si era accorto di nulla. Un nuovo abbaiamento si udì alcuni passi distante da Manofina. Bentosto il bravo, colla rapidità d'un daino, saltò sulla groppa del cavallo che portava il grande inquisitore, colpì Pietro Arbues col suo pugnale nel mezzo del dorso, discese poi sì prestamente, e si allontanò con tanta rapidità, che rimase impossibile vedere chi aveva fatto il colpo[13]. La folla si era divisa là pure per favorire la figa del bravo; ma nel momento in cui Manofina scendeva da cavallo, la sirena, prendendo vivamente pel braccio uno sgherro del Sant'Uffizio, si pose a gridare. "E' lui, è l'assassino! Egli voleva uccidere il grande inquisitore!" ed essa lo riteneva con tutte le forze delle sue piccole mani nervose per dare il tempo a Manofina d'allontanarsi. Questo avvenimento era stato sì rapido, che appena coloro i quali camminavano immediatamente davanti all'inquisitore avevano potuto avvedersene. Josè solo, attento a tutto quello che accadeva, aggrottò il sopracciglio in aria di scontento nell'istante in cui Manofina colpì l'inquisitore. Pietro Arbues ricevendo un colpo che doveva necessariamente esser mortale, non erasi neppure scosso. Gl'inquisitori ed il clero non si erano rivolti che alle grida della sirena; allora si affollarono intorno a Pietro Arbues. Ma egli fiero e tranquillo guardandoli con un sorriso di trionfo: "Non è nulla," disse a coloro che l'interrogavano, "un empio ha voluto uccidermi, ma Iddio mi protegge," soggiunse con aria ipocrita; "il pugnale non ha forato che la mia tonaca." Ed in fatti mostrò una leggiera lacerazione nella sua veste violetta che solamente manifestava l'attentato di Manofina. A quella vista un lampo di rapida gioia brillò nello sguardo di Josè. "Dio ha fatto un miracolo in favore di Sua Eminenza!" esclamarono alcuni monaci. Ed il popolo, quel povero popolo semplice e credulo, tornò a venerare colui che testè malediva, poiché credette ad un intervento divino a favore del suo carnefice. Il popolo ignorava che Pietro Arbues portava una corazza sotto i suoi abiti[14]. Tuttavia gli sgherri avevano arrestato colui che Colubrina aveva indicato come l'assassino, e l'amante di Manofina si mischiò allora alla folla delle altre donne che pregavano seguendo la cavalcata. Niuno pensò a denunziarla, benché non si credesse estranea a questo tentativo d'assassinio sulla sacra persona del grande inquisitore di Siviglia; oltre a ciò l'azione di Manofina era stata sì rapida, che nessuno avrebbe voluto credere al testimonio dei suoi propri occhi, e molti dicevano in sé medesimi: "Quegli che ha accusato questa donna è forse il colpevole." Tutto ciò fu molto rapido, l'ordine della processione non ne fu turbato. Soltanto fu inviato un famigliare a Sua Eminenza il grande inquisitore, onde notificargli il rapimento di Manuel Argoso. A tal nuova Pietro Arbues inarcò il sopracciglio, e disse freddamente. "Bene, nulla deve arrestare o turbare questa augusta cerimonia. Orsù, non bisogna far aspettare Sua Maestà. Dopo l'atto-di-fede faremo ricercare e perseguitare i colpevoli." La processione riprese il suo cammino interrotto per un istante. In questo tempo un monaco Domenicano era uscito con gli altri dal palazzo dell'Inquisizione; quindi, invece di seguire la processione, s'introdusse fra la folla e arrivò nella via in cui abitava Giovanna. Giunto davanti alla porta della casa moresca, l'aprì con una chiave che teneva in mano, entrò e chiuse la porta dietro di sé. Quel monaco era Dolores. Josè aveva mantenuto la sua promessa. XLI. L'atto-di-fede. Mentre la processione usciva dal palazzo del Santo Uffizio, la piazza maggiore in cui l'atto-di-fede doveva aver luogo si empiva a poco a poco di persone. Sul lato più largo della piazza, davanti al palazzo, o piuttosto alla casa occupata dal re e dal suo seguito, la quale apparteneva al duca di Medina-Coli, eransi eretto un palco lungo cinquanta piedi ed elevato fino all'altezza della loggia reale. A destra del palco e su tutta la sua larghezza elevavansi un anfiteatro destinato ai consiglieri della Suprema e agli altri Consiglieri di Spagna. Al di sopra di quegli scalini vedevansi il seggiolone destinato al grande inquisitore. Questo seggio era molto più alto della loggia del re. L'inquisitore rappresentava il potere papale, che è al di sopra di tutte le potenze terrestri. Un secondo anfiteatro, destinato ai condannati, elevavansi a sinistra in faccia al primo. Nel mezzo, dicontro alla loggia del re, ve n'era un terzo piccolissimo, sul quale eransi poste due gabbie, in cui ciascun condannato era rinchiuso mentre gli si leggeva la sentenza. Dicontro a queste gabbie vedevansi due seggiole. A pié del primo anfiteatro si ergeva un altare. Vicino all'altare era piantata una croce verde coperta di velluto nero[15]. Numerosi Domenicani, inginocchiati, pregavano con umile fervore; altri dicevano messe continuamente, in maniera che il Santo Sacrificio fosse celebrato senza interruzione. Quei monaci erano là fino dal giorno innanzi digiunando e pregando per la redenzione delle vittime[16]. Nel mezzo della piazza, sopra un largo e permanente palcodi pietra, potevasi contare quindici roghi formati di legno resinosi, di materie oleose e di paglia, perché la combustione fosse più rapida. Ogni condannato aveva il suo: era il letto ardente su cui doveva terminare la sua terribile agonia. Ai quattro angoli di quel palco, quattro grandi statue di terra cotta erano ivi situate come immobili sentinelle. Intorno a ciascuna di queste statue eransi elevati quattro mucchi di legno infiammabilissimo. Tali preparativi di distruzione erano terribili a vedersi. Il luogo in cui si elevavano i roghi chiamatasi il Quemadero. L'imperatore Carlo V occupava già la loggia reale. L'abito del re era semplice e severo, ma elegante, non differiva in nulla da quello dei signori della sua corte. Frattanto riconoscevasi di leggieri al colore rosso della sua barba, particolarità considerevole che distingueva il re cattolico di Spagna, il figlio della casa d'Austria, e che gli era comune con l'ultimo sovrano di Granata, Boabdil, il re dell'Alhambra, il quale versò amare lacrime quando, spogliato del suo regno ed esiliato da Granata, si fermò per gettare un ultimo sguardo sulla diletta città[17]. Carlo V eziandio amò Granata, vedesi ancora presso l'Alhambra il magnifico palazzo incominciato dal vincitore di Fez. Un gran numero di dame, riccamente abbigliate, occupava le real loggia. I palchi destinati al popolo si empivano rapidamente. Dopo il ratto del governatore, la folla che non aveva più interesse di curiosità a rimaner vicina alla processione, erasi tosto portata verso il luogo da cui poteva sperare di soddisfare il suo gusto naturale per gli spettacoli e per le esecuzioni: gusto depravato, comune in tutti i popoli, e che l'incivilimento soltanto, un incivilimento bene inteso, avrebbe il potere di fare scomparire, sviluppando presso quelle nature alquanto selavaggie i sentimenti morali a scapito degli istinti fisici. Nel momento in cui la processione arrivò sulla piazza maggiore, Carlo V, malgrado la sua deferenza per il Sant'Uffizio, aggrottò subito il sopracciglio con aria di malcontento. L'incredibile attività di spirito dell'imperatore non si acconciava con un ritardo. Finalmente ei respirò, vedendo che la cerimonia era per cominciare. I carbonai si schierarono sul teatro alla sinistra della loggia reale. I Consiglieri dello Stato occuparono, secondo l'ordine di gerarchia, i gradini che loro erano destinati. In questo tempo i condannati fecero il giro del palco, e passando sotto la loggia del re, andarono ad assidersi sull'anfiteatro della sinistra. I frati ed i famigliari che li accompagnavano, rimasero al loro fianco continuando a sostenerli e ad esortarli. Il duca di Medina-Coli si pose, secondo il suo diritto, nella loggia reale. Il suo genero, il duca di Mondejar, membro del Consiglio di Castiglia, prese posto fra i consiglieri. La figlia del conte, Isabella, sedeva fra le dame poste presso Sua Maestà; l'attitudine di questa giovane era mesta ed abbattuta: un profondo dolore la divorava. Finalmente il grande inquisitore salì a sua volta gli scalini che conducevano al suo trono, al di sopra del Consiglio della suprema, e si assise con una trionfante umiltà sul largo seggiolone che gli era stato preparato, dominando così i più grandi dignitari del regno ed il re medesimo, che aveva la bontà di soffrirlo. Bentosto un profondo e cupo silenzio regnò in quella folla immensa. Un prete domenicano, vestito dei suoi ornamenti sacerdotali incominciò il sacrifizio della messa. Era uno strano spettacolo Monaci di tutti gli Ordini, milizia innumerevole, che per poco formava il quarto della popolazione, pregavano umilmente inginocchiati; la folla in quel momento, sotto l'influenza di un sentimento indefinibile, misto di terrore superstizioso e di devozione fanatica, curvava la testa battendosi il petto. Ciascuno poneva cura innanzi tutto, a mostrarsi zelante e devoto, che a non comparirlo v'era molto pericolo. La messa continuò così fino al Vangelo. In quel momento tutti si alzarono. Un monaco Domenicano montò in una delle seggiole poste ai due lati delle gabbie di legno elevate nel mezzo del teatro. Nella seconda si pose il relatore del Santo Uffizio, o lettore dei giudizi. Allora il grande inquisitore discese dal suo seggiolo; arrivato a pié dell'anfiteatro, Josè, suo elemosiniere, pose una mitra d'oro sul capo di Pietro Arbues, e lo vestì d'una cappa; poscia l'inquisitore si avanzò fino alla loggia del re. Alcuni ufficiali lo seguivano, portando la croce, un libro dei vangeli ed un altro libro che conteneva la formola del giuramento che doveva prestare il sovrano. Pietro Arbues passò i primi gradini dell'anfiteatro fino al quarto in modo da essere sempre posto più in alto del monarca. Là si fermò, e con voce potente e sonora, volgendosi all'imperatore cattolico: "Sire," gridò egli, "Vostra Maestà giura di proteggere la fede cattolica romana, di estirpare le eresie e di sostenere con tutto il suo potere reale le procedure dell'Inquisizione?" Il fiero imperatore si alzò in piedi, scoprì la sua fronte reale, davanti alla quale si scoprivano tutte le altre fronti, e rispose con voce ferma: "Lo giuro!." Allora il grande inquisitore, volgendosi verso l'assemblea, ed interpellandola collettivamente, gridò in modo da essere inteso a tutte le estremità della piazza: "Voi tutti, figli della Chiesa di Roma, che siete qui presenti, giurate ciascuno secondo la vostra capacità ed il vostro potere di difendere, di proteggere la fede cattolica apostolica e romana? .di perseguitare e di denunziare gli eretici e di prestare il vostro soccorso a tutti gli atti dell'Inquisizione?" "Lo giuriamo!, lo giuriamo!" risposero in coro migliaia di voci. Questa volta la popolazione di Siviglia era riunita sulla piazza e nei dintorni. "Bene, bene!" disse l'inquisitore, facendo un gesto colla mano, "ora silenzio, ed ascoltate." Pietro Arbues risalì lentamente i gradini dell'anfiteatro e riprese posto nel suo seggiolone. Il Domenicano che doveva predicare fece un gran segno di croce, e cominciò così il suo sermone: "Fratelli,-Inquisitio superior regibus, l'inquisizione è superiore ai re, perocché il potere del cielo è al di sopra dei poteri della terra, l'Inquisizione è la porta del paradiso. L'acqua viva ne sgorga, e noi dobbiamo tutti bagnarne i nostri cuori come terre aride, senza di che lo Spirito santo ci aprirà la bocca come a Balaamo ed a Caifas. Infatti, fratelli, l'Inquisizione è santa e al di sopra dei re, superior regibus, perocché risale alla creazione del mondo ed all'origine della torre di Babele[18]. A queste parole l'imperatore fece il viso arcigno, ed ebbe gran pena a contenere lo sdegno che gli cagionava quel ridicolo sermone. tuttavia non disse nulla, non volendo alienarsi il Sant'Uffizio. Egli aveva in quel momento molti nemici fra i riformati e non voleva crearsene di nuovi fra i cattolici. Non era più il tempo in cui rispondeva alle violenze del papa con violenze maggiori. Lasciò dunque il predicatore continuare a suo talento quella singolare apologia dell'Inquisizione, che durò quasi venti minuti; dopo di che, terminata la messa, fu cominciata la lettura delle sentenze. I primi due condannati, che furono rinchiusi nelle gabbie di legno, furono Francesca di Lerma e l'infelice Herrezuelo, che abbiamo già veduto figurare nella seduta inquisitoriale in cui figurò Francesca. Herrezuelo, forte e coraggioso fino alla morte, rifiutò costantemente le esortazioni del confessore che gli era stato assegnato, e quando, giunto nel mezzo della gabbia in cui doveva udire la sua sentenza, il prete gl'indirizzò nuove esortazioni, ei lo respinse dolcemente, dicendogli: "Io vi abbandono il corpo, lasciate almeno l'anima tranquilla." Poscia udì la sua condanna senza impallidire, e tornò al suo posto. Non fu così di Francesca; questa povera giovane sentì venir meno il suo coraggio in faccia al supplizio: e siccome era ignorantissima ed incapace di discernere il falso dal vero in una religione, le prime impressioni della sua giovinezza tornarono a dominare nella sua mente, e forse quella fisica costituzione, molle e sensuale, provò uno spavento troppo grande dell'atroce supplizio che le era destinato. Giunta nella gabbia di legno, e nell'istante in cui il relatore pronunciava quelle parole bruciata viva: "No! Viva no," esclamò l'infelice badessa; "mi pento, voglio morire da buona cristiana." "Sia lodato Iddio!" disse l'inquisitore, "ecco un'anima salvata." Le sue viscere non furono commosse dall'agonia di quella donna sventurata, ch'egli aveva perduta. Due nuovi condannati succedettero ai primi. Uno di essi era un vago e nobil giovane di Verona. Disceso da una delle prime famiglie d'Italia aveva reso eminenti servigi all'imperatore Carlo V; dotto e ricchissimo, era nemico dell'Inquisizione. Si chiamava don Carlos de Seso. Passando davanti alla loggia reale, don Carlos gettò all'imperatore uno sguardo il cui rimprovero si mischiava ad una profonda pietà. Quello sguardo pareva dire: "Ecco quegli che è chiamato il grande!." Quando fu inginocchiato nella gabbia, domandò inchiostro e carta per scrivere la sua confessione. Un sergente dell'Inquisizione[19] gli portò subito quello che desiderava. Dopo aver scritto, don Carlos lesse ad alta voce, ma con gran dispiacere dell'inquisitore, quella confessione era fatta ad imitazione della celebre confessione d'Ausburg[20]. "Basta! Basta!" gridò l'inquisitore per obbligare la silenzio il celebre riformista; ma don Carlos proseguì con voce sonora: "Dichiaro che voglio morire nella religione di Lutero, che è la vera fede del Vangelo, e non già nella religione romana, dottrina corrotta, che il clero cattolico ha acconciato ai suoi vizi!" "Si ponga lo sbavaglio a quest'uomo," disse Pietro Arbues, "egli scandalizza la Chiesa di Cristo." Si eseguirono gli ordini dell'inquisitore, e don Carlos de Seso, obbligato a tacere, ascolta leggere la sua sentenza senza impallidire. Intanto nella gabbia accanto, Domenico de Boxas, quel vecchi prete Domenicano che mostrò tanto animo nella udienza già descritta, serbava un ostinato silenzio,m e ricusava di rispondere al monaco che lo esortava. Quando fu giunto il momento di leggere la sua sentenza, ascoltò fino all'ultimo senza pronunziar parole, senza manifestare alcun timore della morte, ma scendendo dal palco, si volse verso il re gridandogli: "io muoio per la difesa della vera fede del Vangelo, che è quello di Lutero." Mentre don Carlos de Seso e Domenico de Boxas scendevano il palco per andare al Quemadero, i tormentatori, armati di grandi chiodi e d'un martello, si accostarono ad una gran croce di legno che era sul palco, appoggiata su due grandi panche. Allora furono condotti dinanzi a questa croce dieci eretici giudaizzanti, condannati alle fiamme. Questi infelici posero ciascuno un mano sulla croce. E questa mano vi fu spietatamente inchiodata, in espiazione, dicevano gl'inquisitori, della crocifissione di Gesù[21]. Quando il chiodo penetrò nelle loro carni, gli sventurati mandarono un grido terribile, ma i tormentatori non ne furono commossi, essi continuarono ad inchiodare colla maggiore calma del mondo. In questo stato le povere vittime udirono le loro sentenze. Non furono schiodati che per condurli alla morte. Vennero quindi un prete ed il suo domestico, poi due frati[22] condannati alle fiamme ed allo strangolamento; poi, finalmente, venne la volta di coloro che rano condannati alle galere, alla prigione perpetua, o solamente alla frusta. Fra costoro vedevasi Guglielmo Franco, quel disgraziato marito, condannato ad una prigionia perpetua per non aver voluto soffrire in sua casa un prete che gli aveva sedotta la moglie. Mentre leggevasi la sentenza di questi ultimi i condannati al fuoco erano tornati al loro posto. Il popolo raddoppiò l'attenzione ed il raccoglimento. Il re Carlo V era cupo e pensieroso, un gran pensiero sembrava occupare in quel omento quello spirito profondo, quel genio ardito che non avrebbe forse che un torto, quello cioè, di sottomettere troppo gli uomini e le cose al suo particolare interesse: l'eccesso del suo dispotismo e della sua ambizione lo rese sempre schiavo. Nato con uno spirito retto, vasto e giusto, Carlo V si sottopose quasi costantemente alle esigenze di Roma, perciocché credette necessario il concorso di Roma al mantenimento della sua possanza. Errore gravissimo dei re, che in ogni tempo gli ha perduti. Lo spettacolo terribile d'un grande atto-di-fede, al quale Carlo V assisteva per la prima volta, gli faceva in quel momento indovinare una gran parte degli abominevoli abusi della Inquisizione, sui quali era stato dì di sovente ingannato[23]. Forse in quel momento covava già nel suo animo quel progetto che eseguì un anno più tardi, di togliere al Sant'Uffizio la reale giurisdizione, e di esiliare l'inquisitore generale di Castiglia, Alfonso Manriquez. Alcuni pretendono che quel gran re inclinasse negli ultimi anni della sua vita verso le dottine riformate, che aveva combattute sì vivamente, e che dopo la sua morte si trovasse nella cella del frate di S.Giusto una quantità d'iscrizioni che tutte manifestavano una tendenza molto pronunziata verso la religione luterana. Finalmente il relatore aveva terminato la lettura delle sentenze. Il prete continuò la messa. Terminata, Pietro Arbues si alzò dal suo seggio, e pronunziò ad alta voce l'assoluzione di coloro che si erano pentiti[24]. Frattanto tutti quelli che erano stati condannati a leggiere penitenze tornavano alla prigione del Santo uffizio, scortati dagli arcieri della Santa-Hermandad. Intanto le infelici vittime condannate alle fiamme erano arrivate al luogo del supplizio. Pietro Arbues, sempre fiero e superbo sotto l'umile aspetto di prete pareva più del re medesimo. Ei godeva in quell'istante d'un doppio trionfo di crudeltà e di vanità. Tuttavia il rapimento del governatore di Siviglia lo preoccupava spiacevolmente. La vendetta gli fuggiva quando appunto stava per essere soddisfatta. Il feroce Domenicano sognava già nuovi supplizii per la coraggiosa fanciulla che gli aveva resistito. Tutta la sua collera si portava su Dolores. L'insensato ignorava che in quel momento stesso la sua preda gli sfuggiva. Josè scrutava collo sguardo quella fisionomia sulla quale era avvezzo a leggere da molto tempo. Josè, cupo e sdegnoso, nascondeva sotto una completa impassibilità i battiti violenti del suo cuore; ma chi avesse considerato attentamente la sua fisionomia avrebbe di leggieri veduto brillare nei suoi grandi occhi la febbre interna che lo divorava. Attore in lungo e terribile dramma, ei camminava a gran passi verso lo scioglimento,m e all'avvicinarsi di quell'istante supremo, il suo volto, per lo innanzi sì bello, assumeva qualche cosa di tragico, di fatale, d'inspirato. Gli occhi del fraticello seguivano con una incredibile attenzione tutti gli incidenti dell'atto-di-fede. Nel momento in cui le vittime salivano insieme al Quemadero, una specie di singhiozzo convulso uscì dal petto del favorito, i suoi occhi si velavano di una nube, e Josè s'inginocchiò, coprendosi il volto collemani per nascondere una lacrima involontaria sotto l'apparenza di un atto religioso. Il re abbandonò allora la loggia reale. Quando rientrava nei suoi appartamenti, la figlia del duca di Mondejar si gettò alle ginocchia di Carlo v, e, tutta in lacrime, alzò verso di lui le sue mani supplichevoli. "Che vuoi da me, figliuola mia?" domandò il re sorpreso. "Grazia! Sire, grazia per il mio fidanzato, che è nelle prigioni del Sant'Uffizio!" "Figlia mia," disse il re intenerito da quel dolore così vivo, "ben piccolo è il mio potere presso la Santissima Inquisizione, io credo che il migliore intercessore che tu possa avere in quest'affare si è il tuo avo, il duca di Medina-Coli, che è qui presente." "Sire," rispose il vecchio signore, "quegli che esser doveva mio genero ha disonorato il suo titolo di cavaliere, di gentiluomo e di cristiano, il Sant'Uffizio ha incrudelito contro di lui, e don Carlos si è fatta giustizia da sé medesimo, schivando con la morte l'infamia del supplizio: ei si è spezzata la testa conto le mura del suo carcere[25]." A questa crudel risposta del gran porta-stendardo, Carlo v non poté reprimere una esclamazione di orrore e di pietà: l'infelice donzella era caduta colla faccia contro terra, e priva di sentimento. Medina-Coli fece un cenno, e due donne trasportarono la sventurata Isabella. Il re si allontanò in silenzio con sembiante di profonda mestizia. Le esecuzioni stavano per incominciare. Era uno spettacolo terribile e pieno di laceranti emozioni. Ciascuno dei condannati era inginocchiato a pié del rogo che doveva divorarlo. I frati col crocifisso nelle mani pregavano, ed esortavano le vittime con un persistenza inaudita. Nessuno erasi ancora confessato. I dieci eretici giudaizzanti salirono i primi sul rogo. Quattro di essi furono rinchiusi nelle statue[26], gli altri sei si lasciarono legare con un gran coraggio; la tenacità naturale alla nazione israelitica, congiunta al loro inalterabile attaccamento alla fede dei loro padri, inspirava loro in quell'istante supremo l'eroismo dei martiri. Bentosto un fumo denso e nerastro si alzò attorno a quelle dieci vittime, i carnefici armati di una torcia avevano posto fuoco ai roghi. Alla vista delle fiamme che cominciavano ad elevarsi, le due giovani monache condannate morire come luterane si volsero angosciose verso il loro confessore: "Padre mio! Padre mio!" gridarono esse, "confessateci, noi vogliamo convertirci." Il frate s'inginocchiò verso di esse, udì quella confessione strappata dalla paura e dalla violenza, quindi pronunziò le parole di pace sul capo di quelle due vittime, la meno giovane delle quali aveva venti anni. I tormentatori le condussero allora presso Francesca di Lerma, la quale pure doveva essere strangolata. La badessa delle Carmelitane era di un estremo pallore, la sua carnagione, una volta sì bianca e sì pura, era chiazzata di macchie turchiniccie, e i suoi grandi occhi, sì vaghi e sì altieri, avevano perduto quello splendore che li faceva somigliare a due magnifici zaffiri. Le due altre giovani vittime che dovevano morire dopo di lei erano già pallide e ghiacciate, ed un tremito convulsivo agitava le loro membra; l'agonia era incominciata, il carnefice aveva poco da fare. Due tormentatori si avvicinarono ad esse, le acconciarono sul cavalletto, ve le legarono, applicarono il cerchio di ferro attorno al loro collo bianco e delicato.. poscia il carnefice girò violentemente la vite. I condannati chinarono la testa in avanti con una convulsione generale: i loro occhi si fecero fissi, il loro viso divenne rosso, violetto, quindi livido. si udì un lieve rantolo. e tutto fu finito; esse aveano cessato di soffrire. L'agonia di Francesca [non] fu più lunga. Nel momento che il carnefice le poneva il cerchio di ferro intorno al collo, la badessa, ricuperando una subitanea energia, stese le braccia verso l'anfiteatro; il suo occhio, rianimato un istante, scintillò di una selvaggia energia; e gridò, guardando l'inquisitore: "Prete indegno! Sii malede." L'ultima sillaba di questa parola si perdé nell'ultimo respiro di Francesca. Il carnefice aveva sì fortemente girata la vite, che la vittima spirò sull'istante. Non lungi dal rogo che consumava i residui delle tre monache, don Carlos de Seso ed il coraggioso Herrezuelo respingevano con una invincibile risoluzione le istanze dei confessori. Don Carlos, già legato al palo, era stato liberato dallo sbavaglio. Il prete, inginocchiatosi allora innanzi a lui sul rogo medesimo, presentandogli il crocifisso, gli disse varie volte: "Figlio mio, confessatevi per essere assoluto." "Lasciatemi in pace," rispose don Carlos. Poscia, volgendosi verso i tormentatori, gridò loro con voce sonora: "Ponete il fuoco." I carnefici obbedirono, e don Carlos disparve fra torrenti di fumo. A pochi passi di distanza si strangolava Domenico di Boxas e due altri preti, ai quali al momento di essere bruciati era venuto meno il coraggio e si confessarono. Vedendo la viltà di Domenico, che aveva come lui abbracciato la dottrina di Lutero, don Carlos, già attaccato dalle fiamme, fece un gesto di disprezzo come per dirgli: -Tu sei un vile, bisogna avere il coraggio della propria convinzione.- In quell'istante il domestico d'uno di quei preti, legato al palo ed attaccato alle fiamme che avevano già arso le corde da cui era legato, si lanciò fuori del rogo; ma vedendo sul palco il padrone, che era stato strangolato, e don Carlos che si lasciava bruciare tranquillamente, risalì coraggioso sul rogo gridando ai carnefici con tutta la sua forza: "Della legna! Della legna! Mettete della legna, io voglio morire come don Carlos de Seso." Herrezuelo salì allora sul rogo. Indarno il frate l'esortava a convertirsi. Herrezuelo non rispondeva che con amaro sarcasmo; già le fiamme cominciavano ad attaccarlo; ma egli pareva essere insensibile, ed il suo volto non manifestava nulla delle sue atroci sofferenze. Uno degli arcieri che circondava il rogo, irritato da tanto coraggio, immerse la sua lancia nel corpo del licenziato. Il sangue scorse a torrenti da questa larga ferita, ed il nobile Herrezuelo spirò con una calma eroica[27]. Alcuni riconciliati, e condannati a portare perpetuamente il sanbenito di tela colla croce di Sant'Andrea, riprendevano tristi il cammino della loro abitazione: morti ormai civilmente, cadaveri viventi, destinati ad alimentare il terrore che inspirava il Sant'Uffizio, muti testimoni del suo abbominevole dispotismo! Lunghi getti di fiamme si elevarono allora verso il cielo in strisce rossastre, inviluppati da torrenti di fumo denso e nauseabondo. L'odore fetido dei cadaveri bruciati si mescolava all'odore resinoso del legno di pino e di larice che serviva ad alimentare i roghi. I preti ed i monaci inginocchiati, pregavano sommessi battendosi il petto; ed il popolo, pure inginocchiato, restava abbattuto da una impressione di terrore e di pietà. Di quando in quando grida orribili e prolungate, rantoli, pianti, sospiri uscivano dal mezzo di quelle sinistre ecatombe, dall'interno delle statue ardenti ove erano rinchiusi gli infelici ebrei, uscivano di tanto in tanto urli sordi e laceranti.qualche cosa di simile alle grida d'angoscia che si eleveranno dalle viscere dell'inferno.quale ripetizione di quell'immenso concerto d'agonia. Un silenzio di morte ragnava fra il popolo!. Ad intervalli la voce sonora dei preti, dominando quei diversi rumori, faceva udire un versetto del De profundis o del Miserere: lugubre salmodia che si mischia alle umane lamentazioni, ai rantoli degli agonizzanti, ed al sordo rumore delle fiamme. Poi, adagio adagio le fiamme si abbassarono, i sospiri, i lamenti, le grida divennero più deboli e più rare; il popolo lasciò lentamente la piazza!. i grandi corpi dello stato si allontanarono. Tutto era finito. Era surta la notte. Il clero ed i monaci erano rimasti gli ultimi. Allora dall'alto del suo trono più che reale, Pietro Arbues poté contemplare il Quemadero, che in quell'istante somigliava ad un immenso braciere seminato qua e là di macchie nerastre. Grandi getti di fumo s'incrociavano nell'aere, simili a grandi nubi oscure. Nel mezzo dei roghi, alcuni rami di larice che terminavano di consumarsi, gettavano ancora pallidi lampi su quella profonda oscurità. Pietro Arbues contemplò con infernale delizia quella vasta arena di distruzione. Re della morte, ei signoreggiava sul niente. Poi mormorò, alzando gli occhi al cielo, quelle terribili parole del Salmista: "Levisi Iddio, ed i suoi nemici saranno dispersi: e quelli che l'odiano, fuggiranno innanzi al suo cospetto. -Tu li dissiperai come si dissipa il fumo; gli empi periranno per la presenza di Dio, come la cera è strutta per lo fuoco." L'inquisitore ed il clero lasciarono il teatro delle loro nequizie. Così terminò quella memorabile giornata. XLII. Un martire. Quando i due bravi ebbero portato via il governatore, s'internarono rapidamente negl'inestricabili giri delle vie di Siviglia, le più anguste e le più tortuose del mondo. Il popolo s'era sì ben prestato alla loro fuga, che innanzi che avesser potuto raggiungerli gli sgherri della Santa-Hermandad, essi erano giunti davanti alla porta di Giovanna. La quale porta erasi aperta davanti a loro come da sé medesima, e dei bravi e del governatore non si ebbe più traccia: nessuno aveva potuto seguirli, né vedere in qual luogo si rifuggissero. Estevan, Dolores e Giovanna attendevano insieme l'esito di questo avvenimento; era Giovanna che, avendo veduto arrivare i bravi carichi del loro prezioso fardello, aveva loro aperto la porta. I bravi deposero con inaudite precauzioni il padre di Dolores sopra un largo divano che trovavansi nella sala: Manuel Argoso non dava più alcun segno di vita. Le sue braccia e le sue mani pendevano inerti lungo il suo corpo, quasi ghiacciato; i suoi occhi erano intieramente chiusi, il suo volto scolorito, e le sue membra, rotte in molti punti, erano coperte di piaghe sanguinose e di cicatrici chiuse per metà. La sua fronte, per lo innanzi coperta ancora d'una foresta di capelli neri, era divenuta quasi calva per lo intiero, e ciò che rimaneva attorno alla tempia, aveva preso quel color grigio che non è il candore della vecchiezza, e quella pieghevolezza molle ed inerte, testimone sicuro d'una completa atonia e di una prossima disorganizzazione. Le sue unghie erano cresciute smisuratamente, ma erano divenute giallastre e molli come quelle d'un fanciullo o d'uomo che esce dal bagno. Vedendo suo padre in quello stato, Dolores non poté reprimere un grido doloroso. Era essa medesima così pallida ed indebolita dalle sofferenze della prigione, che non poté resistere a quest'ultimo colpo; essa cadde sulle sue ginocchia dinanzi al divano sul quale Argoso era disteso, e colle labbra aride e scolorate, baciò la livida mano del genitore, quella mano diletta e rispettata che l'aveva tante volte benedetta. Ma l'infelice governatore non rispose a quella figliale espansione: la mano che Dolores premeva rimase muta e ghiacciata in quelle della fanciulla. "Oh Estevan! Estevan!" gridò essa con crescente terrore, "vedete, ei non risponde neppure alle mie carezze!.La sua mano è fredda. il suo cuore non batte più. Estevan! Ma ditemi dunque che mio padre vive ancora!." Estevan colpito da quel dolore nuovo ed imprevisto, dalle disperazione di colei che amava, Estevan che era rimasto preso da stupore vedendo il viso livido e ferale del governatore, si avvicinò timidamente, e pose la mano sul cuore di Manuel Argoso. Batteva ancora, ma così debolmente e a si lungi intervalli, che vedevasi bene essere quelle le sue ultime pulsazioni. Dolores seguiva tutti i moti d'Estevan con occhi pieni d'angoscia e velati di lacrime. Ma ei non ardiva parlare, rimaneva timido e dubbioso; aveva paura di quell'immensa disperazione, di quel santo dolore d'una figlia che, dopo tanti sforzi e rassegnazione, non ritrovava suo padre che per stringere fra le braccia un cadavere. "Ebbene?" domandò essa finalmente, tremando, "ebbene Rispondetemi dunque, Estevan. parlate, che debbo sperare? "Il suo cuore batte ancora," disse il giovane: "bisognerebbe fagli respirare dei profumi." "Tenete, tenete," disse Giovanna, tirando fuori dalla sua tasca una boccia di cristallo di ròcca, guarnita d'una borchia d'oro cesellato, piena di arabi profumi, vivificanti e salubri; prodotti preziosi dell'alchimia di quei tempi, assai più avanzata, specialmente presso gli Orientali, di quello che si crede generalmente oggigiorno. Dolores prese vivamente la boccia, e ne fece respirare l'odore a suo padre. Manuel Argoso fece un leggiero movimento di testa: i suoi occhi, fino allora chiusi, si riaprirono a metà. Dolores mandò un'esclamazione di gioia, e sollevando fra le sue braccia la testa adorata del suo genitore, la adagiò più comodamente sui cuscini di velluto. "O Estevan! Egli vive," disse la giovane, animata dalla speranza. Manuel Argoso aveva in fatti aperti gli occhi, ma, come quelli dei ciechi-nati, guardavano e non vedevano; un'ombra li cuopriva. Tuttavia quella nube sembrò dileguarsi a poco a poco. Manuel Argoso parve avere un lieve percezione di ciò che accadeva attorno a lui, l'udito era il solo organo che presso di lui fosse rimasto inalterato. Fu pure il primo che si ridestò in quella organizzazione vicina a disfarsi. Ei volse la testa dal lato in cui si parlava, cercando senza dubbio di raccogliere le sue idee fuggitive, e di rendersi ragione del luogo in cui si trovava. Bentosto le sue labbra si aprirono..ei mormorò debolmente. "Il fuoco." Credeva di essere all'atto-di-fede. Tutti tacquero ed ascoltarono nel più profondo silenzio. "Figlia mia.. Estevan.." disse il governatore molto piano, mentre i sguardi fissi ai suoi figli inginocchiati a lui innanzi, erravano dall'uno all'altro senza riconoscerli. "Padre mio!" esclamò Dolores. "Silenzio!" disse Estevan, "ecco la vita che ritorna." "Tenete," disse Giovanna, "fategli prendere questo cordiale." Ed essa presentò a Dolores, in una coppa d'argento, del vino d'Alicante, vecchio di dieci anni, mescolato ad una leggiera tintura d'aloe. Dolores bagnò le labbra di suo padre: poscia introdusse a gran fatica nella sua bocca alcune goccie del cordiale . Questo benefico liquore parve rendere un po' di vita a quel corpo quasi immobile e freddo. Il viso del governatore ch'era sì pallido si colorò in un subito di un rossore fuggitivo, i suoi occhi incerti si fermarono sul volto di Dolores con una ineffabile espressione d'amore e di rammarico. Aveva riconosciuto sua figlia. Sorrise debolmente con indicibile tenerezza; poscia il suo sguardo si rivolse lentamente da Dolores a Estevan e Giovanna. "Dove sono?" mormorò finalmente. "In casa d'amici, di veri amici," rispose Dolores, "voi siete salvo, padre mio, e bentosto lasceremo la Sapgna." "Sì, sì.lasciatela al più presto," disse Manuel, con voce che andava sempre più ad indebolirsi. "Con voi, padre mio," disse Estevan, inginocchiandosi davanti al governatore, al lato della sua diletta Dolores. Vedendoli così, Manuel Argoso parve provare una gioia suprema. Malgrado la debolezza estrema delle sue membra, rotte dalla tortura e già irrigidite dalla morte, alzò le sue braccia, prese la mano di sua figlia, la pose in quella di Estevan, e mormorò con una espressione di gioia celeste: "Io vi benedico, non vi separate mai, e fuggite.fuggite." "Con voi? Con voi?" riprese Dolores piangente. "Sì. trasportate le mie ceneri.eglino le getterebbero la vento.addio.amatevi sempre." Quelle parole interrotte dagli ultimi sospiri dell'agonia, avevano esaurito ciò che rimaneva di vita a quel corpo spossato. Manuel Argoso richiuse gli occhi, la sua testa s'inchinò, il suo corpo si contrasse per una leggiera convulsione, e la gelida mano della morte troncò sulle sue labbra un nome incominciato. Era quello di sua figlia. Dolores non gettò un grido, non versò una lacrima; si rivolse ad Estevan cogli occhi asciutti, colle labbra pallide e tremanti, e unendo le mani con aria supplichevole, gli disse guardando il padre ch'era spirato: "Ei ci seguirà, non è vero?" "Dappertutto," rispose Estevan. Dolores baciò devotamente la pallida fronte del suo genitore, quindi gettò sul volto un gran velo di tela batista che le fu presentato da Giovanna. Josè giunse in quel momento. All'attitudine delle persone che occupavano la camera, comprese subito quello che era accaduto, e le sue mani si contrassero con un movimento energico di turbamento e di collera. La sua vista cagionò una profonda tenerezza a Dolores, i suoi occhi fino allora rimasti asciutti ed ardenti si bagnarono di meste lacrime; si gettò, piangendo, sul seno di quell'amico fedele che l'aveva salvata; poscia, con un gesto di muto ed eloquente dolore, gli mostrò il defunto che sembrava dormire in un'attitudine calma e tranquilla. "Io ho fatto tutto quello che ho potuto, mio Dio!" disse Josè intenerito. "Lo so," ella rispose; "avete esposto la vostra vita per salvarci, perocché se l'Inquisizione avesse scoperto." "La mia vita!" interruppe il fraticello, con aria di sdegno e di scoraggiamento, "che cos'è la mia vita, ed a che può servire?" Estevan condusse il monaco in un'altra camera per non turbare il religioso silenzio della morte. Dolores rimase inginocchiata davanti al cadavere di suo padre. "Don Josè," disse Estevan quando furono soli, "quegli che or non è più ci ha ordinato di lasciare la Spagna; perseguitati come siamo, questo è forse difficile tuttavia." "Ci provvederò," disse Josè. "Egli ci ha ordinato di portare con noi la sua salma." "Questa cura eziandio mi riguarda," rispose il fraticello; "voi partirete fra tre giorni, questo tempo mi è necessario per preparare tutto. Fino a quel momento tenetevi nascosti; non vi mostrate in Siviglia, la vostra vita ne sarebbe compromessa. La tigre che l'ha risparmiata per un capriccio potrebbe, per un capriccio contrario, privarvi della libertà." "Sì" disse Estevan, "come ha fatto verso." Josè guardò Estevan con aria significante: ei non voleva far conoscere a Dolores l'arresto di Giovanni d'Avila. "Ma," disse Estevan, "voi parlate di un capriccio di Pietro Arbues, l'inquisitore spero che sia nelle mani di Mandamiento. La Garduna manca raramente di eseguire le commissioni affidatele." "La Garduna ha male eseguiti i vostri ordini," disse Josè, "essa non ha portato via l'inquisitore, ha voluto ucciderlo; e siccome egli porta una corazza, Manofina ha fallito il suo colpo. Pietro Arbues è libero, Pietro Arbues è furioso, e la sua collera si estende a tutto quello che l'avvicina. Che sarà poi quando conoscerà la fuga di Dolores? Perciò siate prudenti, e soprattutto siate pazienti, tre giorni passano presto." "Talvolta sono molto lunghi," disse Dolores avvicinandosi ad essi per sapere qual partito avevano preso. Le crude esigenze della loro posizione vietavano loro di dare un libero corso al loro santo dolore. Questo è ciò che i grandi infortunii hanno di più amaro; essi non lasciano neppure il diritto di affliggersi in libertà. "E' vero," disse Josè, ripetendo la frase della fanciulla, "tre giorni sono talvolta molto lunghi! e pertanto bisogna saper aspettare. -Oh! Dolores, nel mezzo dei mali che vi colpiscono, una consolazione vi rimane, un amico di tutta la vita, scelto e benedetto dal vostro genitore. Credetemi, l'avvenire può ancora sorridervi, e fra le vostre gioie non mancherà neppure la vendetta, questa serva di Dio, che assume di sovente forma umana per compiere i voleri del suo divino padrone, ed allora si chiama giustizia!. Iddio, eterno distributore di Giustizia, non ha obliate le iniquità di Pietro Arbues. Egli lo colpirà sul suo trono d'oro, nel mezzo alle pompe della sua lussuria e della sua sfrenata vanità." "Don Josè, voi mi fate paura," disse la tremante Dolores; "voi siete cupo e terribile come la fatalità." "Io sono forte come la giustizia," rispose Josè; "ma," soggiunse con amaro sorriso, "la mia anima è triste e desolata come il deserto. Io non godrò che nel giorno della punizione, allorquando Dio alzerà la sua gran voce per gridare: - Basta! Basta! Dileguati dal teatro de' tuoi delitti; io sono stanco di omicidi e persecuzioni." Così parlando Josè era bello e terribile come l'angelo dell'Apocalisse, Estevan e Dolores si sarebbero quasi prosternati davanti a lui. Ma per una di quelle subitanee transazioni che gli erano naturali, Josè, richiamando ad un tratto Giovanna, che era nell'altra stanza, le disse: "Tienti pronta a seguirci fra qualche ora." Poi si allontanò, promettendo di tornare a prenderli quando fosse tempo. La sera stessa, fra undici ore e mezzanotte, Estevan, Dolores e Giovanna arrivarono alla porta di Mandamiento. Due bravi andavano avanti per servir loro di scorta. Due altri venivano dietro ad essi a qualche distanza; questi ultimi portavano sulle loro spalle un grande baule di legno legato con corde. Portavano quel baule con precauzioni inaudite e con una specie di rispetto. Due novizi li scortavano per dare l'allarme in caso di bisogno. Di quando in quando Dolores si voltava per assicurarsi che il prezioso baule li seguiva, e che nulla fermava il cammino dei garduni. Giunti alla porta di Mandamiento, i due primi bravi batterono nel modo convenuto, il maestro aprì, e le sette persone ed il baule furono misteriosamente introdotti nel palazzo della Garduna. XLIII. Un ultimo giorno di dissimulazione. La stessa sera Josè era solo in casa sua. Assiso davanti ad una tavola, coperta di libri ascetici, ei contava l'uno dopo l'altra e sommava di mano in mano, dopo aver inscritto il totale di ciascun valore sopra un pezzettino di carta bianca, un enorme quantità di lettere di cambio che aveva prese presso un banchiere ebreo[28]. Era il patrimonio del fraticello. "Bene!" disse con allegrezza, dopo aver terminato le sue operazioni di calcolo: "questo può essere ora trasportato dove si vorrà, e quei poveri giovani avranno di che vivere." Poscia ripose accuratamente quei fogli in un piccolo portafogli di stoffa rossa, vi aggiunse una lettera che aveva scritta, un anello d'oro che tolse dal suo dito, e dei capelli in un medaglioncino. Ei legò quindi il tutto con seta verde, che sigillò con cera dello stesso colore. Ciò fatto depose il portafogli in una tasca posta sotto la fodera della sua tonaca. Prese pure un pezzo di carta sul quale scrisse il latino: "Voi sarete giudicato domani, ma il vostro arresto non è stato comunicato al Consiglio della Suprema. Far valere questa mancanza di forma; il Sant'Uffizio sarà obbligato a porvi in libertà." "Questo," disse parlando fra sé medesimo, "bisogna farlo giungere a Giovanni d'Avila domani avanti l'udienza." Ed introdusse la carta nella manica della sua tonaca. "Andiamo!" proseguì, "ancor poche ore da portare questa pesante catena di dissimulazione e di menzogna! Ancora alcune ore di fatica, e la mia vendetta sarà compiuta! Non ho io finora adempito al mio divisamento con coraggio? Non ho servito, compiacente e docile, le passioni ed i vizi di questo mostro che decima l'Andalusia? Non ho fatto al suo nome una sanguinosa aureola, insegna sinistra che chiama l'odio e la rivolta? Non ho lentamente scavato colle mie deboli mani l'abisso che deve inghiottirlo? O Inquisizione! Non sono riuscito a renderti abbastanza infame ed esosa nella persona del più scellerato de' tuoi membri, perché la Spagna, sollevandosi tutta come un sol uomo al segnale ch'io le darò, rovesci per sempre questo colosso insaziabile?.non importa! Io farò cadere la prima pietra di questo edifizio di morte, mi segua la Spagna se non le manca il coraggio!" "oh! Mio Dio!" disse quindi, chinando la sua testa fra le mani con sembiante d'ineffabile abbattimento, "mio Dio! Quale fatica!.quando verrà dunque il riposo?.quanto è orribile questa giornata!.Oh! tutte quelle fiamme, quelle grida d'agonia! Mi seguono dappertutto.dappertutto rivedo lividi volti, spettri ghiacciati.per tutto vedo lui.che io amava.lui che da tanti anni mi grida senza posa. -vieni! Vieni!.- Oh! I morti partecipano forse all'eterna clemenza di Dio, e non conoscono che il perdono.Son dunque scellerato io che mi vendico?." "No, no," proseguì alzandosi con una esaltazione febbrile, "io ubbidisco alla voce di Dio. Io non sono che lo strumento della giustizia divina!.Attendi, attendi, o tu che mi chiami; il giorno è vicino, tu mi aspetterai lungamente." Ma quel volto severo, che in ogni muscolo aveva le tracce di una sofferenza o di un pensiero, s'illuminò ad un tratto; quall'altiera fisionomia, che sembrava essere la personificazione vivente della collera eterna verso i malvagi, ritornò come per incanto, dolce e sorridente, quella larga fronte dai sopraccigli poco innanzi contratti, si spiegò come candida tela sotto il vento, e la bocca del monaco si atteggiò ad un sorriso. Fu battuto alla sua porta. Egli aprì. Era Pietro Arbues che veniva a cercarlo fino nella sua camera. Tornando dall'atto-di-fede, l'inquisitore aveva conosciuta la fuga di Dolores; e quell'anima spietata, non ancor sazia di supplizii e di torture, sognava già nuove vittime. Pietro Arbues era pallido ed affaticato, ma l'insaziabilità dei suoi istinti distruttori sosteneva ancora la sua inestinguibile energia. Ei si assise. E guardando il suo favorito che rimaneva in piedi dinanzi a lui: "Josè," disse "tutti mi tradiscono oggi." "Eccetto me, monsignore," rispose il fraticello. "Tu.sì, lo so, tu sei il solo fedele, il solo che sappia comprendere i bisogni di questo cuore che batte con violenza nel mio petto; il solo che non abbia mai contrariate le mie tendenze. Il solo, almeno, che mi abbia servito senza interesse. Quanto agli altri, credi che io non comprenda il loro affetto egoistico? La protezione che loro concedo, l'oro che prodigo loro, i piaceri di cui gl'inebrio, non mi sono garanzie sicure della loro devozione e della loro fedeltà? Enrico che ho fatto governatore di Siviglia, gli altri che ho fatto consiglieri, priori o vescovi!.In verità tutte queste persone non hanno un gran merito ad essermi fedeli. E pertanto.pertanto." soggiunse con rabbia, "Manuel Argoso è stato portato via oggi, e Dolores è scomparsa dalle prigioni del Sant'uffizio." "Che importa a Vostra Eminenza?" domandò Josè. "Che m'importa, tu dici? Per Satana! Io manderò alle galere tutti i carcerieri del palazzo dell'Inquisizione, farò bruciare questi monaci imbecilli, questi vescovi insensati.e questo villano rivestito della livrea d'un gentiluomo, che io ho fatto governatore di Siviglia!" "Farete bene," disse Josè. "Non son io dappertutto circondato da traditori?" riprese Pietro Arbues, animandosi nel ricordarsi l'attentato commesso contro la sua persona; "un uomo si è incontrato oggi nella folla, il quale ha osato colpire il grande inquisitore di Siviglia, e questo uomo.quest'uomo era un famigliare dell'Inquisizione." "Lo so," disse freddamente il favorito. "Senza di te, mio buon Josè, senza la tua santa e salutar prudenza, oggi era finita per me; perciocché debbo la vita a questa corazza ch'io porto sotto la mia tonaca, dalla sera in cui mi seguisti nella prigione, temendo qualche pericolo per me." "Avevo torto, monsignore?" "No per Cristo! Ed io, ingiusto, mi sono irritato contro di te! Contro di te, angelo custode della mia vita!" "La vita di Vostra Eminenza mi è più preziosa della mia, monsignore - Oh" sì, essa mi è molto preziosa," proseguì con uno strano sorriso, "ma perché Vostra Eminenza si degna inquietarsi per la scomparsa della figlia del governatore? Che importa a Pietro Arbues una donna di più o dimeno? Che importa ad un milionario che manchi un doblone al suo scrigno? Credetemi, monsignore, non è questa la vostra gloria. Queste preoccupazioni dei sensi non servono che ad ammollir l'animo, a dissipare i forti pensieri, ad estinguere l'energia della volontà. Voi regnate per la paura. Ebbene! Aumentate la vostra possanza non vi sono teste da colpire in Siviglia? Questo monaco arrestato or sono otto giorni." "Giovanni d'Avila!" esclamò Pietro Arbues, "oh! Lo voglio far marcire nelle carceri dell'Inquisizione[29]." "Ciò sarebbe mal fatto, monsignore.- Questo monaco," riprese Josè, "ha predicate dottrine contrarie alla fede cattolica, bisogna dare un esempio, ed assicurare il trionfo della religione, che forma la vostra gloria e la vostra potenza, il papa ed il re ve ne saprai buon grado, tutti e due aborriscono l'eresia di Lutero. Fate comparire Giovanni d'Avila, ma in una maniera solenne, questa seduta sia pubblica; lasciate libero ingresso a tutti, ed al cospetto di Siviglia provate col condannarlo che colui che l'Andalusia chiama l'Apostolo, non è che un miserabile apostata, un eretico pericoloso." A misura che Josè parlava, il viso dell'inquisitore esprimeva in un modo energico i diversi pensieri che l'agitavano. Tornato alla grande passione della sua vita, il dominatore, Pietro Arbues, ascoltava con indicibile compiacenza quel demone tentatore sotto le forme d'arcangelo, divenuto a forza d'adulazione e di accortezza, l'anima di tutte le sue volontà. "Oh! Tu hai ragione," disse Pietro Arbues, "tu hai ragione, Josè, io oblio troppo spesso lo scopo della mia missione quaggiù, io mi lascio troppo facilmente trasportare dell'impeto irresistibile dei sensi, dal torrente delle mie divoratrici passioni. L'uomo domina troppo di frequente l'inquisitore, e già venti volte le imprudenze a cui mi trascina questo temperamento di fuoco mi anno per poco perduto. Tu sei felice, Josè: i tuoi sensi sono tranquilli come quelli d'una vergine, o veramente tu li domini colla forza della tua volontà. Tu sei il solo fra noi a cui non siasi mai potuto rimproverare la minima debolezza." "Monsignore, per regnare sugli altri, bisogna incominciare a regnare sopra sé stesso. Voi non sarete realmente potente che quando, sapendo reprimere a tempo una passione od un capriccio, la sottoporrete senza misericordia alle esigenze della vostra posizione e non vi lascerete dominare da essa." "Sei tu che parli, Josè? tu, che tante volte hai secondato le mie inclinazioni coi miei capricci, come li chiami?" "Tutte le volte che ciò non ha potuto nuocere a Vostra Eminenza, ma solo in questi casi; oggi, incoraggiare il vostro pazzo amore per questa fanciulla; che finalmente non è più bella di un'altra, sarebbe un gran tradimento verso di voi. - Il popolo è malcontento; l'azione d'oggi lo prova abbastanza. Non lo irritate maggiormente, monsignore, dandovi a perseguitare due fuggitivi, essi han partigiani fra 'l popolo. Per il momento lasciateli in pace, se vi sta a cuore il ritrovarli, vi verrà fatto più tardi; mancan forse crociati[30] in Spagna onde perseguitarli e ritrovarli? Credetemi, monsignore, cercate piuttosto d'attirare verso un altro punto l'attenzione di queste masse turbolenti, lusingate il papa ed il re, mostrando il più rigoroso zelo contro i riformati. Finalmente, monsignore,siate un sovrano spirituale onnipotente, e non il miserevole schiavo di una donna." "Josè," disse Pietro Arbues, "s'io fossi re, ti farei mio primo ministro." "Il ministro sarebbe il primo servo di Vostra Maestà," rispose il favorito. "Ebbene," proseguì l'inquisitore con entusiasmo, "reprimiamo le rivolte di questa carne indomabile, che a momenti mi rende debole ed indeciso come fanciullo. Siamo fatti per regnare, e per regnar veramente sappiamo sottomettere le nostre proprie inclinazioni. Una donna! Che cos'è una donna? Che importa che si chiami Dolores o Paola, che sia la figlia d'un grande di Spagna o quella dell'ultimo gitano dell'Andalusia? Essa non è, solamente, che un miserabile trastullo, indegno di occupare un gran posto nella esistenza d'un uomo." "sena dubbio," rispose Josè, che al nome di Paola aveva sentito correre un fremito nelle sue vene, "senza dubbio, una donna non è degna che Vostra Eminenza si occupi di lei più di alcuni momenti: considerarla altrimenti che qual trastullo o schiava, sarebbe gran follia. Così dunque domani, monsignore non più tardi di domani, Vostra Eminenza farà comparire al tribunale questo monaco pericoloso?" "Sì, domani," ripeté vivamente l'inquisitore; "non deggio difendere gl'interessi di Roma? E qual maggior nemico di Roma di questi preti insensati che riducono l'apostolato alla semplice osservanza del Vangelo, come se questo codice del cattolicesimo non fosse una serie di finzioni e d'allegorie che ogni papa, ogni concilio, ogni dignitario della Chiesa in particolare ha il diritto d'interpretare a suo talento secondo i bisogni temporali e spirituali del paese in cui vive, del popolo che governa, secondo anco i propri bisogni. - Morte a questi innovatori imbecilli, che predicano la libertà al popolo! La è per esso un alimento malsano, che lo consuma invece di divenirgli salutare. Gesù Cristo stesso non ha detto: Rendete a Cesare ciò che è di Cesare? - Le riforme dicono al contrario: -Togliete al papa il potere che il papa tiene da Dio. - No, no, essi non riusciranno ad abbattere la cattedra di San Pietro. La Chiesa incrudelirà contro di essi con una severità ognor crescente, poiché non bisogna che la mal'erba spenga il buon grano; dieci monaci come Giovanni d'Avila avrebbero ben presto sollevata la Spagna e scacciata l'Inquisizione." "E tru pure, mio povero Josè," disse Pietro Arbues, passando la mano sulla fronte ardente del suo favorito, "ma tu il vedi, io mi lascio sempre trasportare dal torrente delle mie focose passioni.orsù addio: a domani; vado a pregare un'ora perché lo Spirito santo si degni di illuminarmi in questa difficile circostanza." L'inquisitore si alzò. Il favorito l'accompagnò fino alla porta inferiore della sua camera. "Monsignore," gli disse nel lasciarlo, "domando a Vostra Eminenza il permesso di ritirarmi nel convento per tre giorni." "Sì, mio buon Josè, comprendo.hai bisogno di raccoglierti.ma tre giorni solamente, intendi bene; tu sai ch'io non posso far senza di te. Debbo dire la messa, e predicare la domenica alla cattedrale; sii di ritorno all'ora del sermone." "Ve lo prometto," disse Josè. "A domenica dunque," ripeté l'inquisitore. "A domenica, monsignore." "Sii esatto almeno a questo appuntamento." "Siate tranquillo, monsignore; mi darò premura di non mancare." Josè rientrò, lasciò cadere dietro di sé una grossa portiera di velluto rosso; poi si gettò in un gran seggiolone, appié del suo letto, dicendo con aria d'indicibile contento: "E' finita adunque! Ecco il mio ultimo giorno di dissimulazione." XLIV. Un prete secondo il Vangelo. Torniamo per la terza volta davanti a quel terribile tribunale in cui abbiamo già veduto comparire tante nobili vittime, in cui abbiamo assistito, non ha guari, ad una seduta molto interessante e solenne. Grandi nomi vi sono stati gettati a pascolo dell'ira di Roma, ed il loro scudo si è rotto contro la semplice parola "eretico": questa parola pronunziata da un tribunale senza appello, è stata sufficiente per annullare e per cancellare dalla lista sociale intiere famiglie, la cui origine si perdeva nella notte dei tempi. Ebbene! Oggi non è una famiglia, non è un gran signore spagnuolo che va ad assidersi sulla panca dei rei per udirvi dalla bocca dell'inquisitore la sentenza che lo condanna a morte o all'infamia eterna. Non è il potere, non è la ricchezza e la beltà che l'Inquisizione incrimina oggi, è la carità stessa; la carità umanata e vestita di una semplice tonaca di Carmelitano scalzo, per consolare la Spagna perseguitata; lo spirito cristiano, incarnato, perché sotto questa forma, il popolo non possa misconoscerlo e negarne la esistenza. Un povero monaco insomma, che ha passata la vita a pregare e benedire. Questo monaco era Giovanni d'Avila. L'inquisitore ha avuto più paura delle sue virtù, che dei vizi degli altri; esso ha detto: "Distruggiamo costui, che è la condanna vivente dei nostri delitti." Ma retrocediamo di alcune ore. Si rammenta il lettore che la notte precedente, Josè aveva preso congedo da Pietro Arbues, sotto pretesto di riposo. In vece di recarsi al suo convento come aveva detto all'inquisitore, Josè era uscito di buon mattino, ed erasi portato alla taverna della Buona Ventura. Là si rinchiuse con Gioachino nel tristo bugigattolo dove dormiva la guardia, ed il monaco e l'uomo del popolo parlavano lungamente a voce bassa, Josè confidando a Gioachino importanti secreti colla più completa fiducia, come uno che è sicuro di quegli a cui s'indirizza, e Gioachino ricevendoli con quella gioia orgogliosa d'un subordinato pieno d'affezione, felice di ricevere la confidenza del suo superiore. Quel colloquio durò circa un'ora Dopo di che il taverniere andò direttamente verso l'Inquisizione, mostrò al carceriere un ordine di Josè avente il sigillo inquisitoriale, onde lo lasciasse penetrare nel carcere di Giovanni d'Avila a fine di provarlo[31], cosa che si praticava presso i prigionieri del Sant'Uffizio. Fu lasciato entrare, ei rimise al monaco il biglietto di Josè, e dopo aver passata una mezz'ora nel carcere, si recò presso il presidente del Consiglio della Suprema. Giovanni d'Avila aveva nel suo carcere scritto con un lapis fornitogli da Gioachino un biglietto destinato al presidente. Gioachino lo rimise in proprie mani, quindi tornò alle sue faccende. Josè erasi diretto verso la Garduna. Riprendiamo ora il nostro racconto dove l'abbiamo lasciato. Siamo nella sala dell'udienza nel palazzo dell'Inquisizione. Attorno vedesi lo stesso lugubre apparato che spiegasi sempre in simili circostanze. Solamente fino dalla mattina è circolata voce nella città che la seduta sarebbe pubblica, a che tutti avrebbero potuto assistervi. Grande era il rumore fra 'l popolo, e più d'uno lasciava le proprie faccende per recarsi molto prima dell'ora la palazzo dell'Inquisizione. Era sì raro ottenere un simile favore.

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