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STORIA DEL
MEDIOEVO - MISTERI E SANTA INQUISIZIONE
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I MISTERI DELLA STORIA
MEDIOEVALE, SANTA INQUISIZIONE |
In quell'istante la porta della taverna fu aperta, e Gioachino stesso, col
suo abito di guardia, si fermò sorpreso di vedere colà sì poca gente: ma
dopo avere ravvisato Estevan, che al suo giungere erasi rivolto verso di
lui, una espressione di tristezza si sparse sulla mobile fisionomia di
tavernaio.
"Finalmente mi risponderete voi," disse il giovane signore; "io ho
interrogato invano vostra sorella e non ho potuto saper niente da essa.
Sedete presso di me, Gioachino, e ditemi quello che è accaduto dal giorno
che ho lasciato Siviglia."
La Graziosa s'era fatta innanzi sulla porta della cucina.
Gioachino si avvicinò ad Estevan, e si fermò in piedi davanti a lui con aria
imbarazzata.
"Ma parlate dunque, ve ne supplico!" gridò il giovane Vargas: "la mia sposa
sarebbe malata?"
"Signor cavaliere," rispose Gioachino con imbarazzo, "io non ardisco in
verità."
"Che c'è dunque? Mio Dio!" dimandò il giovane con impeto.
Gioachino abbassò la testa senza rispondere. Estevan si alzò con un
movimento disperato, e correndo verso la Graziosa le prese le due mani, che
strinse con forza, dicendole con angoscia:
"Parla tu, Graziosa; che è stato della figlia del governatore? È morta o è
viva? Che che ne sia, rispondi; voglio saper tutto."
La Graziosa guardò allora suo fratello, come per domandargli consiglio.
"Tu puoi parlare," disse Gioachino, comprendendo quello sguardo: "per me non
ne avrei la forza: pala sorella mia; questo è lo sposo della giovine
signora."
"Signor cavaliere," disse allora la Graziosa, presa da eccessiva timidezza
in presenza di quel dolore ch'essa stava per destare, "promettetemi almeno
di non affliggervi troppo."
"Ma che cos'è stato?" gridò Estevan in un'angoscia inesprimibile.
"Signore, la vostra sposa."
"Ebbene?"
""E'."
"Che cosa? Finisci dunque per amor del cielo!"
"All'Inquisizione..." Rispose la Graziosa con tremula voce.
"Oh!" gridò Estevan, battendosi la fronet; "avrei dovuto dubitarne.un
Domenicano!"
"Signor cavaliere," disse con vivacità Gioachino, "guardatevi dall'accusare
don Josè: egli è innocente."
Ma le proteste di Gioachino non servivano a distruggere le prevenzioni
d'Estevan.
Ei si rimproverava d'essersi confidato al giovane frate; e siccome è in noi
la tendenza ad accagionare altrui delle sventure che ci colpiscono,
biasimava amaramente in sé medesimo l'imprudente confidenza di Giovanni
d'Avila.
"Tu hai dunque veduto la mia sposa," domandò a Gioachino," poiché sei spesso
di servizio in quell'abbominevole prigione?"
"No, signore," rispose la guardia, "ma Sua Reverenza don Josè l'ha visitata
più volte; e son certo," aggiunse a bassa voce, "che si occupa dei mezzi per
liberarla."
Le labbra d'Estevan si atteggiarono ad un sorriso amaro e sarcastico; un
sospetto terribile sorgeva in sua mente; ei conosceva la profonda immoralità
dei monaci, e in quel momento la notizia della morte di Dolores gli saria
stata forse meno dolorosa del timore che aveva concepito.
Oppresso sotto il peso di tante diverse emozioni, ei si lasciò cadere sulla
panca, e posando i gomiti sulla tavola, mise la testa fra le sue mani.
Il rumore di due voci piuttosto alte gli fecero bentosto rialzare la testa;
due uomini erano entrati nella taverna della Buona Ventura, uno portava il
vestimento elegante e severo dei cavalieri dell'epoca, l'altro era vestito
con una negligenza sordida.
"Voi qui, Estevan!" disse quest'ultimo, stendendo la mano al giovane Vargas.
"Io stesso, don Rodrigo."
"Era un secolo che non vi si vedeva," soggiunse don Rodrigo de Valero, che
il lettore già conosce; "ho piacere d'incontrarvi, e vi domando il permesso
di presentarvi un mio amico, don Ximenes de Herrera, un nobile signore
aragonese, che avrà a grado di fare la vostra conoscenza."
Esprimendosi così, don Rodrigo de Valero presentava ad Estevan quel
gentiluomo aragonese che abbiamo già visto figurare alla festa del conte di
Mondejar.
I due giovani signori si fecero reciprocamente tutte le pulitezze in uso a
quell'epoca di costumi cavallereschi; ma Valero, avvedendosi ben presto
dell'eccessivo
pallore d'Estevan e del fuoco insolito che brillava nei suoi occhi neri, gli
disse con accento di paterna affezione:
"Che avete, don Estevan? Pare che soffriate."
"Io non ho nulla, signor Rodrigo," rispose il giovane con sembiante che
smentiva le parole.
"Voi m'ingannate," riprese Valero; "però sapete che potete aver confidenza
in me."
"Lo so," rispose Estevan, "e so pure che voi siete il più grande nemico
dell'Inquisizione;
ma questo giovane signore?." soggiunse accennando con lo sguardo don Ximens.
"Questo giovane signore è un cavaliere leale e di uno spirito indipendente,
"rispose Valero; "senza di ciò non ve l'avrei presentato come mio amico.
Parlate, ditene ciò che vi affligge; noi siamo pronti a far causa comune con
voi.""Oh! don Rodrigo," esclamò Estevan, felice di trovar finalmente un
cuore in cui poteva versare tutta l'amarezza del suo; "noi viviamo in un
secolo abbominevole; la giustizia è bandita dalla terra!"
"Perché è caduta fra le mani dei monaci," rispose Valero con accento aspro.
"Credete, o signori," proseguì Estevan, "che non contento d'aver gettato
nelle carceri dell'Inquisizione il governatore di Siviglia, Pietro Arbues ha
pur fatto arrestare sua figlia, la più nobil donna di tutta la Spagna?"
"Sua figlia?" esclamò don Ximenes de Herrera, gettando a Valero uno sguardi
d'intelligenza.
"Oh!" disse Valero con vivacità, "ve l'aveva detto, don Ximens, che quel
giorno non sarebbe passato senza denunzie od anco qualche cosa di peggio."
"Voi sapete dunque ciò che è accaduto, don Rodrigo?" domandò Estevan con
ansietà.
"Calmatevi, calmatevi," rispose il vecchio cavaliere; "io vi dirò tutto ciò
che sappiamo."
E don Rodrigo de Valero narrò in brevi parole al fidanzato di Dolores gli
avvenimenti che avevano avuto luogo durante la festa del conte di Mondejar,
eccettuato il tradimento di quest'ultimi, che era rimasto un segreto per
tutti, meno che pel grande inquisitore.
Estevan ascoltò tutto con profonda ammirazione per Dolores ed un alto
disprezzo pei suoi carnefici; ma i suoi terrori aumentarono: ei diffidava di
Josè e conosceva Pietro Arbues.
"Sapete, signori," disse finalmente, "che non bisogna meravigliarsi di
questo sordo fermento di rivolta nascosto sotto l'obbedienza apparente e
passiva degli Spagnuoli?"
"Gli Spagnuoli," rispose Valero, "non sono ancora che un corpo a cui manca
una testa; soffrono e si agitano in dolorose convulsioni sotto il giogo del
dispotismo; ma non hanno l'intelligenza che concepisce, combina e ordina i
mezzi di rompere i ceppi che li opprimono."
"Non vale il dire: -Io soffro-; torcendosi sotto le catene," proseguì il
vecchi cavaliere, "si addentrano maggiormente nella carne; bisogna avere la
perseveranza, che le lima anello per anello, o l'audacia e la temerarietà,
che ad un tratto rompono lo scettro del dispotismo."
Così favellando, il volto del vegliardo, animato dal sacro amore della
libertà, aveva una sublime espressione, e la sua fronte spaziosa brillava
sotto i suoi capelli bianchi come sotto una corona.
"Don Rodrigo," disse Estevan, "non è il capo che manca al corpo, son
piuttosto i soldati che mancano al capo; la nostra armata d'uomini liberi è
troppo debole per lottare con successo contro queste innumerevoli truppe di
monaci e di famigliari."
"Di maniera che," replicò il sarcastico Valero, "si potrebbe quasi involgere
la Spagna in un'immenso cappuccio."
"Oh! Don Rodrigo," esclamò Estevan; "questo non è il momento di scherzare,
la mia fidanzata è nelle carceri del Sant'Uffizio, e suo padre è forse già
condannato."
"Non vi sarà facile il salvarli, mio povero Estevan."
"Io salverò il governatore; lo spero almeno," rispose il giovane, "ma
Dolores, mio dio! Dolores!"
"E con qual mezzo, se lice saperlo, ," domandò il vegliardo, "sperate di
strappare agli artigli dell'avvoltoio inquisitoriale, che si chiama Pietro
Arbues, la preda ch'egli ha afferrato?"
"Oh!" disse il giovane con fiducia, "v'ha in Spagna un potere più grande di
quello dell'Inquisizione."
"Questo potere dove lo troverete?"
"Sul trono, don Valero, ed il re."
"Il re è il primo servo dell'Inquisizione," replicò il vecchio, "credetemi,
cercate altrove il vostro appoggio."
"Però mi sembra," disse don Ximenes, "che l'autorità del re sia superiore a
quella d'un monaco che finalmente."
"Non sapete, o signori," interruppe Estevan, "che giungo oggi da Madrid, e
che l'imperatore, Carlo V si è degnato di darmi una lettera per
l'inquisitore
di Siviglia?"
"E dopo la vostra partenza," disse con sdegno Rodrigo, "il grande imperatore
Carlo V avrà, senza dubbio, fatto partire un corriere apportatore d'un
secondo dispaccio che arriverà aventi il vostro, don Estevan."
"Oh! Tradimento!" esclamarono nello stesso tempo i due giovani cavalieri.
"E' possibile?" domandò il fiero e leale Estevan; "so che il re è ambizioso
ed avido di ricchezze; ma che sia furfante a tal punto, non lo posso
credere."
"Come lo sapete, don Rodrigo?" soggiunse l'aragonese.
"Come i miei capelli bianche hanno veduto più cose delle vostre belle
capigliature nere, signori? Credetemi, in fatto d'appoggio, non fidatevi mai
che su voi medesimi, o sopra un altro voi stesso, se il cielo vi ha fatto
questo raro presente: ma soprattutto non contate mai sull'amicizia d'un
monaco o sopra una protezione reale; è una vela leggiera che volge ognora al
vento dell'interesse personale; colui che vi si fida urta il più sovente in
uno scoglio."
"L'esperienza è una cosa amara," replicò Estevan, con accento di dolore.
"Ecco perché la vecchiezza è triste," rispose Valero. "Tuttavia," soggiunse,
"l'esperienza non rende tutti i vecchi egoisti, duri, indifferenti alle
altrui sofferenze; essa non serve talvolta che a renderli più saggi.o più
coraggiosi," riprese, "perché il vero coraggio è il puro risultato della
saggezza."
Durante quest'animata conversazione, i tre signori non avevano veduta la
testa d'un fraticello avanzarsi alla porta della cucina nella penombra
formata verso il fondo della sala dalla scarsità e piccolezza dei lumi; era
Josè, il quale, entrato per la porta della scuderia e veduti quei tre
signori occupati in una discussione sì viva, aveva ascoltato senza dire
parola, poiché gl'importava di sapere tutto quello che riguardava Estevan e
Dolores. Le parole di Rodrigo de Valero presero per esso un senso che
Estevan non aveva pensato a dar loro; Josè aveva quell'acume d'intelligenza
che da una parola trae immense deduzioni, e non si ferma che agli ultimi
limiti delle tirate conseguenze.
S'indirizzò dunque a Gioachino che, assiso in un canto della cucina,
appoggiava il mento sur una delle mani, e gli disse:
"Gioachino, vedi tu quei tre signori che parlano con Estevan de Vargas?"
"Sì, Reverenza."
"Guardali bene al fine di riconoscerli."
"Li riconosco," rispose la guardia.
"Tu li osserverai e mi renderai conto di tutte le loro azioni."
"Bisognera pur renderne conto a monsignore il grande inquisitore?"
"No, a me solo," replicò severamente don Josè.
2Bene, a voi solo, Beatitudine! Ho inteso perfettamente," rispose Gioachino,
il quale adorava Josè: poiché quell'uomo rozzo ed ignorante comprendeva
istintivamente la superiorità d'animo del fraticello, e subiva pure
l'influenza
dell'adorabile bontà di Josè.
i tre signori continuavano la loro conversazione.
"Voi dunque sperate molto da questa lettera di Carlo V?" domandò Ximenes de
Herrera.
"Se debbo credere a don Rodrigo, non c'è da farvi gran conto; non importa,
proverò. Io debbo tentare tutti i mezzi possibili, e se questo non riesce."
L'arrivo di una quantità di gitani e di frati di tutti i colori, interruppe
in quell'istante Estevan.
Il giovane conte, non trovandosi volentieri in simile compagnia, benché a
quell'epaca sì in Sapgna come in francia i nobili frequentassero volentieri
le taverne, trascinò Valero ed il suo amico nella strada.
"Addio," gli disse; "sono costretto a lasciarvi."
"Dove ci rivedremo?" domandò Valero.
"Non lo so," rispose Estevan.
"Udite," palò Valero con accento grave; "io dubito che la vostra lettera di
Carlo V serva a poco; se non riuscite, venite a trovarmi al Muelle. Io
passeggio là tutte le sere prima di cena.Forse," soggiunse, "troveremo il
mezzo di liberare il governatore di Siviglia a sua figlia."
"Che volete dire?" domandò Estevan.
"Vi spiegherò questo quando non avrete altro mezzo di salvezza per coloro
che amate: addio."
Estevan si allontanò pieno di duolo e di timore.
Valero e don Ximenes rientrarono nella taverna. Era un piacere tutto
particolare del sarcastico osservatore Rodrigo quello di studiare le varie
fisionomie dei ricorrenti della taverna, monaci, e popolani, i quali
riflettevano scambievolmente sui loro i diversi sentimenti che s'inspiravano
gli uni con gli altri. Così l'egoismo e la rapacità dei monaci, il loro
immenso disprezzo per il genere umano, erano scritti in tratti sparuti e
gialli sui meschini volti del popolo o sulla fisionomia maliziosa dei ladri,
mentre nei giocondi sembianti dei monaci, nella loro straordinaria
pinguedine, e perfino nella loro umile ipocrisia, leggevasi il rispetto
profondo e cieco d'un popolo ingannato, che credeva fare opera meritoria
spogliandosi fino alla pelle per ingrassare quei frati sfaccendati.
"Sediamo," disse Valero al suo giovane amico; "qui vengo a fare la mia messe
di disprezzo e di coraggio."
Nell'istante in cui stavano per assidersi, il suono argentino di un
campanello suonò lentamente l'Ave Maria ad una chiesa vicina. I monaci che
cenavano nella taverna si alzarono gravemente, e si posero a recitare l'Ave
Maria, con voce rauca e nasale, con occhi bassi e ipocriti, che però si
fermavano con gran compiacenza sulle gambe nude o sulle brune spalle di
alcune gitanelle, venute quivi per cenare.
Frattanto Josè erasi avvicinato alla tavola a cui erano seduti Valero e don
Ximenes. Il popolo rispondeva in coro all'orazione recitata dai monaci.
Valero rimase con le labbra chiuse, e non fece neppure il segno della croce.
Erasi appena pronunciato l'ultimo amen, che un Gerolomita, il quale
trovatasi a lui vicino, l'apostrofò con accento di collera:
"Sei dunque eretico per non pregare con noi?"
"Tocca a voi pregare in pubblico ed inginocchiarvi nei templi," rispose
gravemente Valero; "voi avete tante turpitudini da espiare, che non sarebbe
troppo il passare tutta la vostra vita in ginocchio, pregando Iddio di farvi
misericordia."
"Che dice questo mendico?" domandò un monaco della Mercede, guardando con
aria sdegnosa gli abiti più che negletti del vecchio gentiluomo.
"Io dico," replicò Valero, "che tu hai pagato più Jugeri di terra coll'oro
dei fedeli, che tu non abbia riscattato di prigionieri."
Il monaco si alzò cogli occhi scintillanti di rabbia, e si avanzò con gesto
minaccevole verso l'uomo che osava così sfidarlo.
I gitani e le genti del popolo abbassavano la testa sulle loro scodelle per
nascondere la soddisfazione che cagionava loro questo litigio.
Josè considerava Valero col suo occhio profondo e scrutatore.
Il vecchio gentiluomo restò fermo al suo posto. E con l'accento più freddo,
più tranquillo, vedendo il monaco col viso rosso per il furore, "Che volete
da me?" gli domandò.
"Ti voglio insegnare come si debbono rispettare i ministri del Signore!"
rispose il monaco con voce soffocata dalla collera.
"I veri ministri del Signore sono dolci come il loro maestro," riprese
Valero, senza sconcertarsi, "sono buoni verso i deboli e li servono, invece
di opprimerli."
"Ben risposto," disse piano un bravo, il quale era nientemeno che Corpo di
Ferro.
Il monaco alzò violentemente la mano sul vecchi signore come per colpirlo.
Josè si gettò vivamente a lui dinanzi, dicendogli con freddezza: "Lasciate
quest'uomo, reverendo, vedete bene che è pazzo."
"Ah! Sì, è Valero," esclamò un giovane Carmelitano, che non aveva ancor
detto nulla; "non lo riconoscete, Padre?"
"Pazzo o no, ei deve pregare ed inginocchiarsi davanti alle sante immagini,"
rispose brutalmente il monaco.
"Senza dubbio," replicò Valero; "adorare come voi il legno e la pietra, ed
insultare colle opere il re del cielo; non è cos' che voi altri adorate
Iddio?"
"E' un eretico," esclamò il Gerolomita, cercando di eccitare la collera del
monaco della Mercede.
"E' un pazzo, vi dico," replicò freddamente Josè.
"I pazzi dicono talvolta cose sensate," rispose Valero, guardano Josè in
viso.
Josè alzò leggermente le spalle, e guardò Valero con un'aria che voleva
dire: E' meglio passare per pazzo, che essere abbruciato.
"E' un seguace di Lutero!" continuò il Carmelitano.
"Reverenza," si azzardò a dire Gioachino, il quale temeva una disputa più
viva, "questo vecchio signore è insensato, ve l'assicuro, il nostro
santissimo inquisitore non ha mai voluto farlo arrestare in causa di ciò."
Un mormorio dei più espressivi corse nell'assemblea.
Le parole del pazzo, piene di verità, trovarono eco nell'anima di quel
popolo oppresso, degradato dal fanatismo e dalla miseria. I soli gitani,
colla superba indifferenza degli esseri nomadi per tutto ciò che è fine alle
questioni morali, continuarono tranquillamente il loro pasto; tuttavia in
quelle anime incolte, degradate, ma piene d'una selvaggia poesia, le parole
di colui che chiamatasi il pazzo risuonavano in una maniera piacevole e
sonora, perocché risvegliavano a loro insaputa, una delle più vive simpatie
in quegli uomini selvaggi; esse erano espressioni di una fierezza altiera e
d'un immenso amore per la libertà. Se la disputa fra Valero ed i monaci
fosse divenuta seria, malgrado il rispetto che inspira il loro abito, forse
i monaci non sarebbero stati favoriti. Il popolo spagnuolo aveva abbastanza
da lagnarsi di essi per usar volentieri delle rappresaglie quando gli si
porgesse il destro. Ma non accadde nulla; i monaci, da uomini prudenti,
riuscirono finalmente a pacificare il monaco della Mercede, opponendogli la
follia di Valero; ciò non per tanto ebbero un bel da fare; il popolo non
rimase convinto di questa follia. Il popolo ha un istinto che raramente
l'inganna;
i suoi giudizi sono talvolta più sicuri di quelli della scienza. Egli ha una
filosofia tutta particolare, alla quale converrebbe talvolta riportarsi.
Questo incidente mise Valero in grande venerazione fra i clienti della
taverna.
Quando uscì, tutti gli occhi lo seguirono con uno sguardo obliquo, poiché
non si ardiva testimoniare davanti ai monaci l'interessa che aveva
inspirato. Ma nulla sfuggì all'occhio penetrante di Valero, che era dotato
di una sagacità ammirabile.
Quando fu nella via con don Ximenes de Herrere:
"Don Ximenes," egli disse, "l'avventura di questa sera potrà esserne utile:
quelle persone ora faranno quello che vorrò."
XXXV. La testimonianza.
Le sedute del tribunale della Inquisizione erano divenute quotidiane; il
momento dell'atto-di-fede avvicinatasi: ogni giorno nuove condanne venivano
ad aumentare il numero delle vittime che dovevano figurarvi. Il mostro
insaziabile non si lasciava abbattere; colpevoli o no, gli abbisognava la
sua messe completa: decima reale, destinata al vincitore di Francesco I.
Ogni mattina Estevan e Giovanni d'Avila si recavano di buon ora alla sala
d'udienza;
grazie al suo abito religioso, l'Apostolo vi entrava senza difficoltà.
Un rumore vago era corso il giorno innanzi nella città, che il governatore
doveva in quel dì essere giudicato; oltracciò Gioachino, inviato da Josè,
aveva avvertito Giovanni d'Avila. Si assise dunque con Estevan sulla panca
destinata ai testimoni[24].
A poco a poco la sala si empiva di gente;m i birri ed i famigliari andavano
e venivano qua e là occupati di cose diverse; i loro passi rimbombavano come
eco lugubre in quella immensa sala.
I tormentatori, secondo la loro abitudine, stavano, come spettri, immobili
alla sinistra del tribunale.
Finalmente l'ora suonò; gl'inquisitori entrarono per la porta posta dietro
al tribunale, ed andarono ad assidersi gravemente ai loro posti. Gli
scrivani occupavano già il loro. La sala era in quel momento piena di monaci
e di famigliari.
La portiera che rimaneva alla sinistra del presidente si aprì, e gli
accusati comparvero, condotti dagli sgherri e guidati dai tormentatori.
Chi si avanzò per primo versi l'asta triangolare che doveva servirgli da
sedile, era una donna; essa portava l'abito delle Carmelitane.
Il secondo era un prete Domenicano. L'assemblea lo vide con stupore figurare
fra gli accusati.
Seguivano altre due vittime; erano due uomini nel fior della vita. Uno
portava sull'austero suo volto l'impronta della meditazione e dei profondi
studi; l'altro, di una fisionomia schietta ed aperta, aveva
quell'abbattimento
doloroso che s'impadronisce così presto delle persone naturalmente gioconde
quando sono colpite da una grave sventura. Questi due inquisiti andarono a
situarsi alllato della Carmelitana.
Il quinto era Manuel Argoso, il quale, guarito dalle sue contusioni
camminava quasi senza difficoltà; ma il suo volto portava sì profondi i
segni delle sue sofferenze, che Estevan non lo riconobbe più.
"Ecco il governatore," gli disse Giovanni d'Avila a voce bassa.
"O, mio Dio! È impossibile!" disse Estevan; e si pose a cercare in quei
lineamenti emaciati, in quella sparuta fisionomia, in quegli occhi quasi
estinti, che potevano appena sopportare la luce del giorno, i tratti
rimarchevoli del nobile conte di Cevallos. Egli aveva perduta quella
espressione fiera e cavalleresca che lo distingueva fra i più grandi signori
di quei tempi. Un'incredibile espressione d'amarezza faceva contrarre le sue
labbra scolorite. Egli si assise.
Gli sgherri e i tormentatori presero il loro solito posto.
Allora Pietro Arbues guardando gli accusati, disse alla religiosa:
"Alzatevi."
La Carmelitana obbedì, e ad un cenno dell'Inquisitore alzò il velo che fino
ad allora aveva coperto il suo volto.
Giovanni d'Avila trasalì; egli aveva riconosciuto Francesca di Lerma.
Malgrado le sofferenze del carcere, il viso della badessa delle Carmelitane
era ancora d'una incomparabile bellezza. La sua robusta e vivace giovinezza
aveva resistito all'aria infetta, al cibo abbominevole dell'Inquisizione,
all'assenza quasi completa di movimento; la sua nobile fisionomia non aveva
perduto nulla della sua altiera espressione, essa fissò il suo occhio nero e
penetrante sul volto dell'inquisitore, cercando di turbare la sua coscienza,
ma l'attore era pronto alla sua parte, Pietro Arbues rimase impassibile.
Allora senza attendere le domande d'uso, la badessa delle Carmelitane,
alzando fieramente la voce:
"Di che sono accusata?" disse.
"Di luteranismo," replicò freddamente l'inquisitore. "Voi avreste dovuto
attendere alle mie domande, sorella," soggiunse con tuono melato.
Francesca sorrise sdegnosamente. "di luteranismo!" ella disse; "e come
potete provarlo?"
"Sorella, Iddio prende sempre cura di svelare i delitti nascosti, affinché
siano riconosciuti e puniti secondo Giustizia."
"Iddio non può avere scoperto un delitto che io non ho commesso," rispose la
Carmelitana.
"Sorella," continuò Pietro Arbues; "sarebbe più conforme allo spirito della
nostra religione il confessare il vostro delitto, e pentirvene."
"Quest'accusa è assurda," rispose Francesca, con un leggiero movimento di
spalle; "Chi ha mai pensato di rendermi eretica? Chi m'accusa finalmente,
monsignore."
"Questo libro, trovato presso di voi," rispose Pietro Arbues, mostrando la
Bibbia luterana involata da lui nell'appartamento di Francesca il giorno del
loro penultimo colloquio.
Francesca riconobbe perfettamente la legatura di quel libro ch'essa aveva
sfogliato con tanto piacere insieme alle sue favorite, indovinò subito per
qual tradimento Pietro Arbues erasi impadronito di quel volume, obliato da
Caterina; e nel profondo stupore in cui la gettò quella vista, serbò un
momento di silenzio, imbarazzata di rispondere ad una prova sì convincente
che valeva tutti i testimoni possibili.
Da quel momento ella disperò di sua salvezza, comprese bene che se Pietro
Arbues non avesse avuto l'intenzione di farla morire, non si sarebbe servito
di una prova così irrecusabile. Vedendosi perduta, accettò quella estrema
posizione con gran coraggio. Quella donna sensuale, che aveva amato tanto la
vita e sì poco pensato all'eternità, si divise in modo subitaneo da questo
mondo, nel quale non aveva marcato i suoi giorni che per delle colpe. La sua
religione superstiziosa e fanatica s'illuminò, per cos' dire, sull'orlo
della tomba; un raggio discese dal cielo sopra di lei, e volle chiudere la
sua carriera con un atto di rassegnazione e di coraggio.
Essa alzò lentamente i suoi occhi che erano rimasti bassi per alcuni minuti,
e guardando l'inquisitore con aria fiera ed inspirata ad un tempo:
"Monsignore," disse, "io sono una grande peccatrice, e tutti i supplizi coi
quali l'Inquisizione punisce i recidivi, gl'infedeli e gli eretici non
basterebbero per estirpare tutti i miei delitti.non è vero, monsignore?"
aggiunse con uno sguardo penetrante che coprì d'un impercettibile pallore il
viso di Pietro Arbues. "Punitemi dunque," proseguì, "punitemi coi tormenti
più spaventevoli: ma in quest'atto di giustizia, monsignore, non obliate di
punire tutti i colpevoli. Rammentate che colui il quale suggerisce il
delitto pecca più ancora di colui che lo commette. Io non ho peccato sola,
monsignore; punite adunque anco il mio complice, e la giustizia eterna sia
soddisfatta."
"Voi sola siete accusata," rispose il giudice, senza guardare Francesca.
"Monsignore," esclamò essa, "so bene che io sola porterò la pena de' miei
misfatti, peorcché, chi oserebbe accusare coloro i quali hanno missione di
giudicare gli altri? Io sarò adunque in questo modo la vittima espiatoria,
ma lassù."
"Si riconduca questa donna nella sua prigione," interruppe freddamente
l'inquisitore;
"essa non ha la sua ragione, l'ascolteremo un'altra volta."
"Monsignore," esclamò Francesca di Lerma, mostrando il cielo con un gesto
energico, "v'è lassù un tribunale supremo che condannerà i giudici
prevaricatori. Pietro Arbues! Tu sei un prete infame, e non vedrai mai la
faccia di Dio! Fammi morir subito," aggiunse; "la giustizia celeste saprà
punire il monaco impudico, l'inquisitore carnefice!."
Francesca non poté continuare; ad un cenno di Pietro Arbues i tormentatori
le sbaragliarono la bocca e le legarono le mani. Essa lascò fare senza
opporre la minima resistenza; ma avendo veduto Giovanni d'Avila, gli rivolse
un mesto sorriso d'affezione e d'addio.
Poscia traversò la sala con tanta dignità, come se fosse stata nel mezzo
alle zitelle della sua abbazia. Questo avvenimento eccitò una profonda
emozione nell'anima di quelli fra gli astanti che non erano venduti al
Sant'Uffizio[25].
L'inquisitore non era amato, ed una simile scena non poteva aumentare la
venerazione degli abitanti di Siviglia per Sua Eminenza.
Pietro Arbues interpellò il primo dei due giovani accusati ch'erano sul
sedile.
"Come vi chiamate?" gli domandò.
"Antonio Herrezuelo."
"La vostra professione?"
"Avvocato."
"Antonio Herrezuelo, siete accusato di professare la religione riformata."
Antonio Herrezuelo non rispose.
"Che cosa avete da dire in vostra difesa?" proseguì l'inquisitore. Lo stesso
silenzio da parte dell'accusato.
"Antonio Herrezuelo; è vero che avete abbracciato la religione di Lutero?"
"Io professo la vera religione di Cristo," rispose Antonio.
"La religione che voi chiamate la religione di Cristo è quella degli
apostati, e non quella della Chiesa," replicò l'inquisitore.
"Quando la chiesa sfigura ed avvilisce le tradizioni evangeliche, e confida
a mani impure la custodia del gregge di Gesù Cristo, bisogna bene che i
dotti si facciano essi medesimi i depositarii della legge, e col Vangelo
alla mano condannino coloro che han fatto del Vangelo un codice di lussuria
e di brigantaggio."
Giammai parola così ardita non era forse stata pronunziata in presenza
dell'Inquisizione.
Si riconosceva in essa l'ardimentoso coraggio dei seguaci del gran Lutero,
il loro eroico disprezzo della vita terrestre, l'incredibile fermezza di
quegli uomini gravi e severi che guardavano come un violazione della legge
cristiana ogni mollezza ed ogni abbandono alle gioie della vita, e cercavano
di ricondurre gli uomini alla semplicità dei primi secoli cristiani.
L'inquisitore non volle udirne di più; ebbe paura di quella scintilla
elettrica sì facilmente comunicata dalla parola d'un uomo coraggioso, che
basta talvolta a destare un immenso incendio.
"Basta," egli disse, "quest'uomo confessa il suo delitto, e vi persevera: si
riconduca alla sua prigione."
"Di' piuttosto che si riconduca al supplizio!" esclamò il dotto con
entusiasmo, "grazie, mio Dio! Io morrò per la tua causa. Il sangue versato
non sarà infecondo; la verità splenderà un giorno sul mondo!"
Un tormentatore si avvicinò per mettergli lo sbavaglio, l'accusato lo
respinse con dignità.
"E' inutile," egli disse, "non ho altro da dire." Quindi volgendosi
all'altro
giovane, che era suo compagno di carcere, gli fece un cenno amichevole come
per incoraggiarlo.
Si condusse via Antonio Herrezuelo.
L'altra vittima si alzò quando le fu ordinato.
"Il vostro nome?" domandò l'inquisitore.
"Guglielmo Franco."
"Guglielmo Franco, voi siete accusato d'aver commesso un sacrilegio
percuotendo un prete del Signore."
"Io ho percosso un'infame che m'aveva disonorato," rispose Franco; " un
ministro indegno, che coperto del suo abito sacro ha portato in casa mia la
disperazione e l'onta; m'ha sedotto una donna ch'io amava, e dalla quale
aveva avuto dei figli; un mostro, che aveva benedetto il mio matrimonio, e
ne ha rotto egli stesso i legami. Io voleva ucciderlo, e l'ho soltanto
cacciato dalla mia casa."
L'inquisitore si morse le labbra; pareva che in quel giorno tutti gli
accusati che comparivano fossero congiurati contro l'Inquisizione, e dotati
di quel coraggio distruttore degli abusi, nato da una lunga e crudele
oppressione, che inspira un superbo sdegno della vita. Ma egli aveva tanto
di destrezza da neutralizzare l'effetto di quelle coraggiose parole.
"Guglielmo Franco," disse con dolcezza, "è assai doloroso per noi l'udire
uscire dalla vostra bocca simili bestemmie; lo spirito delle tenebre vi
accieca, figlio mio; egli vi suggerisce questi sentimenti impuri. Vostra
moglie è persona piena di virtù e di vera pietà; che v'è di straordinario
nell'intrattenersi di frequente col suo santo direttore? Voi eravate
all'incontro
indifferente e freddo per le pratiche religiose, avete trascurato di
fortificare l'anima vostra colla preghiera e gli esercizi di pietà, il
demonio allora se n'è impadronito; vi ha inspirata una cieca gelosia, un
sentimento abbominevole, figlio mio; ed invece d'ammirare la vostra casta
sposa, che procedeva con passo fermo nella via del cielo, preso da una
delittuosa follia avete percosso l'unto del Signore. Pentitevi, figlio mio;
vi si ricondurrà nella vostra prigione, ed il nostro fratello ed
elemosiniere don Josè vi intratterrà religiosamente, e procurerà di
strappare l'anima vostra al demonio e alla fiamme dell'inferno."
"Ah! Mio Dio!" esclamò Franco, "io non temo l'inferno dell'altro mondo; ne
ho abbastanza in questo![26]"
L'inquisitore fece un segno di croce mentre i tormentatori conducevano via
il prevenuto.
Pietro Arbues si volse quindi verso l'assemblea: "Fratelli," disse,
"preghiamo per l'anima di questo povero insensato, posseduto dallo spirito
maligno."
Ed inginocchiandosi il primo per dar l'esempio, borbottò a bassa voce alcune
preghiere latine; poi, alzatosi, interpellò il quarto accusato.
Era un vecchio sacerdote Domenicano[27].
"Fratello," gli disse Pietro Arbues, "mi duole infinitamente il vedere un
uomo coperto di quell'abito santo che io stesso ho l'onore di portare, seder
sulla panca degli accusati. In un'epoca in cui l'eresia, figlia
dell'inferno,
veglia come una prostituta alle porte della Chiesa Romana, chiamando a sé
tutti coloro che vi entrano o che ne escono, con parole di seduzioni e di
licenza, che le guadagnano il cuore dei deboli, noi vigili sentinelle di
Roma, noi, colonne eterne della fede cattolica, non dovremmo noi raddoppiare
di zelo e di attività per custodire la nostra religione minacciata, invece
di lasciarci sedurre dall'errore, e di predicarlo agli altri?"
"Monsignore," rispose il Domenicano, che aveva ascoltato questa strana
requisitoria con un'apparente indifferenza, " io comprendo, meglio d'ogni
altro, quanto sia importante al sostegno d'una religione che coloro i quali
la seguono, la confessino con coraggio e la difendano fino alla morte.
Confesso adunque qui, in presenza di Dio, che quando io sono comparso per la
prima volta davanti a questo tribunale, sono stato vile ed infedele
rinnegando una dottrina che è la mia; sì, io ho abbracciato e predicato la
novella religione, perché mi è sembrata essere la sola conforme a quella
degli apostoli e dei primi cristiani, insegnata dallo stesso Gesù Cristo.
Dichiaro inoltre ch'io non ho avuto complici nella mia abiura, che sono
luterano solamente di cuore e di anima, per la convinzione del mio spirito.
Nessuno adunque sia perseguitato per causa mia. Ho confessato, fatemi
morire, ma risparmiatemi la tortura, io la temo mille volte più della
morte."
"Fratello," rispose l'inquisitore, "oggi il vostro spirito è turbato; forse
le penitenze che v'imponente."
"Io ho tutta la mia ragione," interruppe Boxas.
"Avete però dichiarato davanti a noi d'avere, solo per errore e senza
intenzione, introdotte alcune eresie nelle vostre prediche; e siccome siete
stato sempre attaccato fermamente alle dottrine della Chiesa cattolica,
vogliamo credere che non siate fuorviato, fratello, verremo nio stessi a
visitarvi nella vostra prigione, e forse Iddio esaudendo le nostre preci,
manderà su di voi il suo Spirito Santo. Andate, fratello, e rientrate in voi
stesso, vegliate e pregate; colui che prega non cade in tentazione."
Domenico di Boxas si alzò senza rispondere; ei comprendeva perfettamente il
senso di quelle parole melate.
"Che sant'uomo è monsignore Arbues!" dicevano alcune persone poco perite di
ciò che accadeva fuori della sala del tribunale.
"Pietro Arbues farà forse grazia a colui, mercé il suo abito," disse piani
Estevan all'Apostolo.
"Quegli e gli altri saran bruciati senz'altre formalità," rispose Giovanni
d'Avila;
"l'Inquisizione ha un talento meraviglioso per abbreviare i processi che la
compromettono."
Ciò fu detto a voce molto bassa, ma non tanto però che sfuggisse agli
orecchi d'un famigliare che stava in piedi a pochi passi di distanza.
I famigliari avevano occhi di lince, e udito favoloso.
Non rimaneva da esaminare che il governatore.
Il cuore di Estevan palpitò con violenza e un gran silenzio si fece nella
sala.
Manuel Argoso aveva udito tutto ciò che era avvenuto con una profonda
indifferenza. A coloro che conoscevano l'Inquisizione, queste sedute non
ispiravano che una specie di emozione, quella che nasconde l'orrore
dell'ingiustizia
e da una profonda pietà per delle vittime innocenti. Ivi l'anima non era
eccitata dalla cupa e drammatica poesia d'un dibattimento giudiziario. Ivi
non avvocato per disputare alla spada delle legge un testa innocente o
colpevole; ivi non erano che carnefici e vittime: a che avria servito
difendersi? Lottare contro l'Inquisizione era lo stesso che lottare contro
la fatalità! Come fatalità, l'Inquisizione emetteva decreti irrevocabili
dettati in precedenza; e, come la fatalità implacabile e cieca, essa colpiva
senza posa e senza pietà.
Oh! Era veramente una cosa derisoria il vedere quegli uomini abbigliati di
nero, rivestire d'una solenne fantasmagoria i loro atti ridicoli ed
arbitrari; ma era pur bello il vedere quel popolo nobile della Spagna,
schierato in battaglia contro quel lugubre drappello, succedersi e
ristringersi, per così dire, di generazione in generazione per combattere a
passo a passo il colosso, riempir molte volte in ciascun secolo il vuoto
immenso lasciato nelle sue file dalla morte delle innumerevoli vittime
cadute sul campo di battaglia, e distruggere cos', a poco a poco
quell'edifizio
di morte, rimasto per tanto tempo in piedi nelle Spagne.
Questa è cosa di grandissima importanza da osservarsi per lo storico
filosofo. Al finire del regno di Filippo II, i trionfi dell'Inquisizione
sono andati sempre a indebolirsi in una maniera quasi impercettibile, sotto
gli sforzi perseveranti degli eroici Spagnuoli; e quando ha finalmente
crollato nel 1820 sotto gli ultimi colpi dei patrioti, essa è caduta come un
antico edifizio lentamente minato, le cui fondamenta sarebbero state
distrutte a poco a poco da migliaia di braccia occupate per dei secoli a
togliere ogni giorno un grano d'arena[28].
Quel giorno fu pure un giorno di combattimento, ma l'inquisitore, quel
valente atleta dell'oscurantismo, non si dava per vinto per cos' poco. Egli
aveva all'occasione la perfida pazienza del rettile, il quale attende che il
suo nemico si volga, per morderlo di dietro[29].
Liberato dagli accusati il coraggio dei quali avrebbe potuto comprometterlo,
si rialzò a tutta la sua altezza, unendo tuttavia la più perfetta
moderazione di parole a quell'orgoglio intimo di cui era gonfio.
"Alzatevi, fratello," disse a Manuel Argoso.
Il governatore si alzò con un'aria completamente indifferente, come un uomo
a cui ogni speranza è stata tolta, e che niun interesse lega più in questo
mondo.
"Figlio mio," proseguì l'inquisitore, gettando uno sguardo obliquo verso la
panca dei testimoni, ov'erano assisi Estevan e Giovanni d'Avila: "figliuol
mio, voi lo vedete, la religione cattolica, questa santa religione che è
quella della Spagna, è ovunque fortemente minacciata. Più colpevoli ancora
sono coloro i quali, in questi tempi di controversia religiosa, non usano
dei poteri di cui sono rivestiti per fermare il progresso dell'eresia; non
che la Chiesa possa perire, essendo essa appoggiata su basi eterne, ma per
evitare dei mali immensi, e strappare alla perdizione migliaia di anime che
ogni giorno si precipitano nelle voragini dell'inferno. Voi, figliuol mio,
che per la vostra elevata posizione avevate una grande autorità in Siviglia,
voi avete a rimproverarvi non solo una personale compiacenza per le dottrine
pestifere di Lutero, ma eziandio una criminosa indulgenza per coloro che la
praticavano..per degli eretici che eravate in obbligo di denunziare al
Sant'Uffizio."
"Era io dunque la spia, o il governatore della città?" rispose Manuel
Argoso, alzando fieramente la testa.
"Sempre la stessa ostinazione!" mormorò Pietro Arbues con una tristezza
ipocrita. "Voi confessate dunque finalmente," riprese con accento insidioso,
" che non solamente avete avuto commercio con gli eretici, ma che siete
eretico voi stesso?"
"Io non confesso nulla di tutto questo," replicò Manuel; "ho già risposto a
simili domande; ho subita la tortura senza confessare, perché questo sarebbe
stato mentire, ed io non mentirò, neppure per evitare il rogo."
"Eppure, figliuol mio, dei testimoni vi accusano, e niuno prende la vostra
difesa, niuno viene a protestare contro le prime deposizioni. Vediamo,
figliuol mio, quali sono i vostri testimoni?"
"Eccolo," disse Giovanni d'Avila.
Egli ed Estevan si alzarono.
Pietro Arbues guardò il Francescano ed il giovane cavaliere con una pietà
sdegnosa.
"Noi siamo qui per protestare della innocenza di don Manuel Argoso, conte di
Cevallos," proseguì l'impetuoso Estevan.
"Come vi chiamate?" domandò l'inquisitore.
"Estevan, conte di Vargas," rispose il giovane con alterezza.
"Signor don Estevan," proseguì Pietro Arbues, "noi non possiamo ammettervi
alla testimonianza, il vostro avo non si nominava Vargas, ma Venegas; egli
non era cattolico, bensì maomettano; egli ha cangiato di nome cangiando di
religione. Noi non possiamo accettare come testimoni in discolpa che uomini
di puro sangue cattolico e spagnuolo."
"Monsignore," replicò Estevan, rosso d'indignazione, "il re don Filippo I,
fu meno difficile di Vostra Eminenza; ei giudicò che il discendente di una
tribù che aveva dato dei re a Granata, il rampollo di una schiatta valente e
fedele che s'era volontariamente dedicata alla causa del re di Spagna,
meritava qualche ricompensa, egli fece mio padre del consiglio di Castiglia.
Il figlio d'un consigliere alla corte di Castiglia non ha il diritto di
comparire come testimone davanti al Sant'Uffizio?"
"Tali sono i nostri statuti, figlio mio, io non posso violarli in alcuna
maniera. Sedete dunque, interrogheremo questo sant'uomo."
Durante il dialogo dell'inquisitore e d' Estevan, Manuel Argoso, preso
d'ammirazione
e di riconoscenza per l'affetto del giovane, non aveva cessato di
esprimergli con gli sguardi il dispiacere che provava nel vederlo esporsi
così per lui.
Non ostante, quando Giovanni d'Avila s'alzò a sua volta per rispondere alle
interpellazioni dell'inquisitore, un raggio fuggitivo di speranza passò
negli occhi dello sfortunato Manuel.
"Che cosa avete da dire in difesa dell'accusato?"
"Vengo a protestare qui, dinanzi a tutti, che Manuel Argoso si è sempre
condotto da vero cristiano e da cavaliere leale; che ei non ha mai fatto
nulla da meritare la censura di Roma. Io lo dichiaro adunque innocente di
tutte le colpe delle quali viene accusato."
"Padre," replicò Arbues, con il più umile accento, "la vostra testimonianza
è d'un gran peso e mi duole assai il dirvi che, malgrado il nostro profondo
rispetto per la vostra persona, noi non possiamo contentarci della vostra
sola testimonianza. Gli Statuti della santissima Inquisizione esigno
l'asserzione
di dodici testimoni[30] per rimandare assoluto un accusato. Dove sono gli
altri testimoni, Padre mio?"
"Io son solo," rispose Giovanni d'Avila; "ma poiché la mia testimonianza non
serve, monsignore, forse Vostra Eminenza non ricuserà di credere a questa."
Nello stesso tempo Giovanni d'Avila presentava al grande inquisitore la
lettera di Carlo V.
Questo incidente causò una viva sorpresa fra gli astanti.
Pietro Arbues, senza sconcertarsi, spiegò lentamente la lettera regale, la
lesse da cima a fondo, pesando bene ciascuna delle sue espressioni; poscia
gettò lo sguardo sopra un'altra lettera aperta sul banco.
Era una nota di Carlo V, che conteneva queste parole:
"Don Manuel Argoso, conte di Cevallos, in questo momento nelle prigioni del
Sant'Uffizio, è, dicesi, innocente dei delitti di cui si accusa. Don Manuel
Argoso m'ha sempre servito fedelmente, e desidero che sia favorevolmente
giudicato dal santissimo tribunale di cui Vostra Eminenza è il capo.
Tuttavia, siccome la causa di Dio deve passare innanzi alla mia, siccome il
santo tribunale è il solo competente in queste materie delicate, desidero
che tutto avvenga in modo che ne risulti il trionfo della nostra santissima
religione e la maggior gloria di Dio. Questa lettera solamente dev'essere
tenuta per valevole presso il Santo tribunale, e presso Vostra Eminenza, che
Iddio guardi per lunghi e prosperi anni.
Dal palazzo in Madrid, il maggio 1534.
Don Estevan de Vargas non dev'essere perseguitato."
L'inquisitore confrontò un momento le due firme le quali erano perfettamente
uguali, siccome eguale esattamente era il formato delle due missive.
Pietro Arbues piegò le due lettere insieme, le introdusse nella manica della
sua tonaca, e guardando Giovanni d'Avila e il giovine Vargas: "penseremo a
quello che dobbiamo fare," egli disse. "Don Estevan de Vargas, e voi, Padre
mio, potete ritirarvi. La seduta è terminata," aggiunse l'inquisitore,
alzandosi.
L'effetto di queste ultime parole fu pronto come la folgore, e colpì
l'udienza
di terrore. L'infelice Argoso volse uno sguardo disperato verso i suoi
difensori, come per dar loro un supremo addio.
Giovanni d'Avila si affrettò a condur via Estevan, esterrefatto per lo
sdegno e la sorpresa, nel timore che, ricuperando le sue facoltà, per un
istante smarrite, non perdesse sé medesimo con qualche parola imprudente o
focosa.
Quando ebbe sollevato la portiera di velluto nero che era dietro la sua
poltrona, Pietro Arbues si fermò un momento sulla soglia; poi distese la
mano verso Giovanni d'Avila con un gesto minaccioso, e mormorò fra i denti:
"A noi due, ora, monaco matto!"
XXXVI. Cospirazione.
Era sera; gli oggetti erano velati da quella semioscurità crepuscolare cui
nelle contrade meridionale succede sì presto la notte.
Alcuni passeggeri tardivi abbandonavano lentamente la Muelle per recarsi
all'Alameda.
Due cavalieri s'incontrarono, e quantunque fosse loro impossibile di
distinguere a vicenda i loro lineamenti si fermarono quasi nello stesso
tempo.
"Siete voi, don Rodrigo Valero?" dimandò colui che veniva dalla parte della
città.
"Sono io don Estevan; voi non avete tardato a recarvi all'appuntamento che
io v'ho dato l'altro giorno alla taverna."
"Tre giorni," rispose il giovane conte con aria cupa.
Ebbene," proseguì Valero, abbassando la voce per timore d'essere
inteso.perché i famigliari dell'Inquisizione s'insinuavano per tutto come
gnomi invisibili; ebbene, mio giovane amico, siete riuscito nella vostra
intrapresa? Ed il governatore."
"Il governatore sarà bruciato fra otto giorni se non giungiamo a liberarlo."
"Ah! Io ve l'aveva detto, il re è il primo servo della Inquisizione; meglio
sarebbe stata presso l'Inquisizione la protezione d'un Garduno di quella
dell'imperatore."
"Oh! Valero! Valero!" disse Estevan con rabbia, "se sapeste quale abisso
d'iniquità
è l'anima di Pietro Arbues!"
"Lo conosco meglio di voi," rispose il vecchio signore: "ma voi non potete
cambiarlo, ed ora si tratta di pensare ai mezzi di liberare il governatore
di Siviglia."
"Voi m'avete promesso d'aiutarmi, Valero; parlate, che bisogna fare? Sono
pronto a tutto.
"A tutto! Ne siete sicuro, don Estevan?"
"A tutto! Ve lo giuro, " rispose il giovane conte, esasperato all'ultimo
punto dall'abbominevole iniquità dell'inquisitore.
Ascoltate, don Rodrigo; mio padre era membro del Consiglio di Catiglia, ed
ha lottato costantemente per la libertà e la prosperità della Spagna. Un
profondo oblio per il suo figlio è stata la ricompensa dei suoi servigi; ma
non è ciò che risveglia la mia collera, poiché fo poco conto dei vanionori
della terra, e disprezzo i favori delle corti. Non è adunque questo il
motivo del mio odio contro il barbaro potere dell'Inquisizione, che
suggerisce tutti i decreti del potere reale, e tiene, per così dire, in
tutela il vincitore del mondo. Io ho ben altri motivi di odiarlo!
Ero l'amico intimo del governatore di Siviglia, ero il fidanzato di sua
figlia, hanno mutilato il padre, carcerato Dolores. Forse Pietro Arbues o
alcuno di quei monaci indegni ha usato contro di essa abbominevoli violenze.
Io mi sono presentato come testimone del governatore, ma si è ricusata la
mia testimonianza, e aggiungendo il disprezzo e l'insulto all'ingiustizia,
mi si è rimproverata la mia nobile origine come una macchia. Ho fatto,
finalmente, il viaggio di Madrid per implorare la giustizia di Carlo V, e
l'imperatore
ha dettato a me stesso una lettera per l'inquisitore, nella quale gli ha
ingiunto di non condannare il conte di Cevallos. L'inquisitore, ad onta di
questa lettera, ne rimanda senz'aver fatto giustizia."
"Io ve l'aveva detto, povero mio Estevan!"
"Oh! Vedete don Rodrigo, tutte queste iniquità esacerbano l'anima; la
riempiono di fiele e d'odio; si giunge a detestare l'umanità intera, che
produce tanti mostri."
"Non v'ha altri mostri che gl'inquisitori," disse Valero; "bisogna
colpirli."
"Come si può fare ciò?"
"Ascoltate, o giovane; voi non siete il solo in Spagna che abbia il cuore
esulcerato dall'ingiustizia e dalla persecuzione; migliaia di vittime
serbano nel fondo dell'anima loro un odio sordo e compresso, il quale non
richiede che una scintilla per scoppiare. L'Inquisizione ha riempito la
Spagna di vedove, di vecchi senza figli, e di figli orfani; ha seminato
l'ingiustizia,
raccolga vendetta; il popolo, malcontento ed oppresso, comincia a
comprendere che basterebbe scuotersi per rompere il suo giogo; la luce,
venuta da lungi, rischiara già gli spirit d'un lontano, ma vivo riflesso. Il
popolo è pronto, non gli mancano che i capi. Siam noi. Due altri giovani
signori che conoscete, divideranno con noi questa gloria: don Ximenes de
Herrera ed il giovane don Carlos."
"Il genero del conte di Mondejar!" interruppe vivamente Estevan.
"Doveva esserlo," rispose Valero; ma le cose sono cangiate da qualche
giorno; don Carlos è ora più nemico dell'Inquisizione, che era poco prima
amante della figlia del conte di Mondejar."
"Io diffido di queste conversioni improvvise," rispose Estevan.
"Avete torto, questa è sincera, o piuttosto la lealtà innata del giovane don
Carlos s'è offesa delle condizioni che gli furono imposte al suo matrimonio;
ed ha amato meglio rinunziare a donna Isabella, che divenir infame per
ottenerla."
"Ciò è differente," disse il giovane Vargas, "ed io lo stimo quanto prima lo
disprezzava."
"Ebbene!" proseguì Valero, "siamo dunque i capi di una cospirazione contro
l'inquisitore
Arbues, contro il carnefice di Siviglia!"
"Che volete dire?"
"Voglio dire," continuò Valero, " che è tempo che la Spagna esca dal suo
torpore. L'atto-di-fede è vicino; in questo tempo ordiniamo un'armata di
uomini liberi: voi, don Ximenes, don Carlos ed io ne saremo i capi. Abbiamo
già molti seguaci. Io m'incarico di sollevare il popolo. Il giorno
dell'atto-di-fede,
quando la processione sarà riunita sulla piazza di Siviglia, mentre si
leggerà la sentenza ai condannati, daremo il primo segnale gettandoci
sugl'inquisitori,
il popolo farà il resto, e noi libereremo le vittime."
"Grazie, Valero," disse Estevan, serrando vivamente la mano del vegliardo:
"Grazie! È questo un pensiero che io vagheggio da molto tempo."
"Morto l'inquisitore," proseguì Rodrigo, "il resto diverrà facile."
"Morto! Voi dite? Volete uccidere l'inquisitore?"
"La morte del malvagio è una giustizia," replicò Valero.
"Don Rodrigo!" disse Estevan, "a questa condizione non sono dei vostri."
"Perché?" disse il vegliardo; Pietro Arbues non immolerà vittime
innumerevoli? Se si uccide per slavarli è questo un gran delitto?"
"Il suo delitto almeno è rivestito di forme giudiziarie," replicò Estevan,
"il nostro sarebbe un assassinio; non posso acconsentirvi."
"Tuttavia non v'è che questo mezzo," disse il cupo Valero.
"Se abbiamo forze, non possiamo," disse Estevan, "rapire i prigionieri, e
renderci padroni dell'inquisitore senza attentare alla sua vita?"
"Il serpente che si lascia in vita finisce, un giorno o l'altro, col
mordervi," disse Valero.
"Il sangue insozza colui che lo versa," replicò Estevan. "Pensate a un altro
mezzo, don Rodrigo, io non posso accettare quello che mi proponete."
"Ma," proseguì Valero, "i famigliari e gli sgherri sono in gran numero, noi
non possiamo lusingarci di essere sì numerosi da rapire i prigionieri e
l'inquisitore
stesso sena una gran perdita di gente; mentre giungendo a spegnere Arbues,
si libera la Spagna da un mostro che decima l'Andalusia."
"Un mostro che sarebbe bentosto surrogato da un altro," rispose Estevan.
"Credetemi, don Valero; non basta abbattere un ramo per sradicare un albero.
Quando avremo ucciso Pietro Arbues, avremo distrutto l'Inquisizione? Per
abbattere questo colosso formidabile, bisogna scavare lentamente il terreno
nel quale deve un giorno inabissarsi: ma questa gloria non è riserbata a
noi, credetelo. Ora si tratta di liberare il governatore di Siviglia,
liberiamolo senza attentare alla vita di alcuno."
"Non saremo mai in tal numero da far questo," disse Valero.
"Lo saremo più che non credete; siete ricco, don Rodrigo?"
"Come un gentiluomo che ha sempre avuto più orgoglio che rendite," rispose
il vecchi signore. "La mia gioventù è stata molto dissipata; e se non fosse
notte, non mi avreste fatta questa domanda," aggiunse facendo così allusione
alla semplicità più che negletta de' suoi abiti.
"Ebbene! Io ho la fortuna d'esserlo," disse il giovane Vargas, "e col danaro
tutto può accomodarsi. Lasciatemi fare, don Valero, io vi fornirò più
braccia di quelle che abbisognano in questa faccenda."
"Oh! Comprendo," disse Valero, "vi dirigerete, senza dubbio, a quella
maledetta società della Garduna; ma, mio caro, quelle persone sono vendute
all'Inquisizione."
"Quelle persone sono vendute a chi le paga. Lasciatemi agire, e non
macchiamo di sangue questa eroica insurrezione contro i carnefici della
nostra patria."
Intanto erano giunti davanti ad una casa di bella apparenza. Le finestre del
balcone erano illuminate: Rodrigo batté alla porta.
"Che fate?" domandò Estevan.
"Entro in casa mia," rispose Valero, "o, per meglio dire, in casa del mio
amico don Ximenes de Herrera, che mi ricovera in casa sua perché non ho,
come suol dirsi, né casa, né tetto. Seguitemi, don Estevan, parleremo tutti
e tre del nostro progetto."
Erasi aperta la porta: don Estevan e Valero salirono al primo piano, ov'era
l'appartamento del giovane signore aragonese. Don Ximenes, era solo. Parve
leggermente sorpreso alla vista di Estevan.
"Don Ximenes," disse il vecchio signore, "noi abbiamo finalmente un degno
complice della nostra santa lega, contro gli oppressori; don Estevan de
Vargas è de' nostri."
Ximenes stese la mano al giovane conte.
"Siam dunque amici," disse, "uniamo i nostri cuori e le nostre volontà per
questa santa causa."
"Avete avvertito don Carlos?" domandò Rodrigo. "Don Carlos non è più
libero," rispose mestamente don Ximenes; è stato arrestato il giorno del
Santo e gettato nelle carceri dell'Inquisizione."
"Ecco un'altra vittima!" disse Rodrigo; "e come l'avete saputo questo?"
"Dalla giovane Isabella, che l'adora, e che, malgrado la devozione fanatica
che si è cercato d'inspirarle fino dalla sua infanzia, brucerebbe volentieri
tutti gl'inquisitori per liberare quegli ch'ella ama!"
"Tre capi basteranno," disse Estevan, "e coll'aiuto del quale parlava testé
a don Rodrigo."
"Quale aiuto?" domandò don Ximenes de Herrera.
Estevan allora gli spiegò quello che sperava dalla Garduna, e con qual mezzo
intendeva farla agire.
"Mi ripugna," diceva, "aver ricorso a simil gente; ma credetemi, signori,
non sdegnate questo mezzo; se queste persone non fossero per noi, sarebbero
contro di noi, e Dio sa ciò che avverrebbe della nostra impresa.
"Voi li conoscete dunque?" domandò Ximenes, sorridendo leggermente.
"Non scherzate, don Ximenes: disgraziate circostanze mi hanno forzato ad
impiegarli. Essi hanno già liberato una volta Dolores dalle Mani
dell'Inquisizione;
sventuratamente la sua pietà filiale l'ha perduta."
"Sì, sì, lo so," disse il giovane aragonese; "l'ho veduta la sera in cui,
senza dubbio fu arrestata."
"Ebbene! Signori, queste persone possono aiutarmi a salvala una seconda
volta. Io m'incarico di vederli e di trattare con essi."
"Ed io m'incarico di sollevare le masse," disse Valero[31].
"Ed io di dirigerle all'uopo, aggiunse don Ximenes.
"Io voleva la morte dell'inquisitore," riprese Valero, "ed era giusto che
fosse punito; ma don Estevan ha fatto come voi, don Ximenes, non ha voluto
che si versasse sangue."
"Forse ve ne sarà troppo," dissero nel medesimo tempo i due giovani signori.
"E' tardi," rispose Estevan: "un garduno non tradisce mai chi gli ha dato
del denaro.
Addio, signori, non dimenticate il nostro appuntamento."
Vedremo ben tosto quale fu il risultato dei suoi passi presso la Garduna.
XXXVII. Due eremiti.
A poca distanza da Siviglia, dal lato della casa del'Apostolo, vedevasi una
specie di caverna scavata nella ròcca a pié d'una collina selvosa, la cui
cima sporgeva verso il fiume.
L'ingresso di questa grotta, quasi circolare e dell'altezza di un uomo,
somigliava ad una corona di fiori.
Il pallido citiso, la bianca brionia, il susino selvatico, il cui fiore
esala un soave profumo di vaniglia e di cacao, e il berbera dai grappi di
corallo, crescevano a profusione sul leggiero strato di terra vegetale che
copriva il granito di cui questa collina era formata. Le loro redici e i
loro rami flessibili si stendevano qua e là come migliaia di braccia, e i
loro fusti servivano a ritenere attorno all'orifizio della grotta quella
terra mobile e leggiera, che, senza di ciò ne avrebbe otturato l'ingresso
con continue frane.
L'interno di quella grotta, alquanto umida, era tappezzato di scolopendre e
capelveneri, piante sobrie, nutrite nelle fessure del granito, che pendevano
dalla volta in ciocche d'un verde lucido.
Era notte. Dieci ore erano suonate all'orologio della cattedrale.
In un angolo di quella grotta, un uomo ed una donna erano seduti sopra una
stuoia grossolana di Valenza, che serviva loro di seggiola e di letto ad un
tempo.
Verso l'ingrasso, in un altro angolo, un fuoco vivo di ramo d'ulivo
illuminava gli abitanti di quella singolare dimora, e serviva al tempo
stesso di scacciare l'umidità della grotta, alquanto fredda, malgrado il
calore del clima e della stagione. La donna, giovane, bella e ben fatta, era
seduta sulla stuoia in attitudine graziosa.
L'uomo, vestito di semplici brache di tela, e della sua camicia aperta sul
petto, era disteso sulla stuoia, ed il suo braccio sinistro appoggiato sulle
ginocchia della sua compagna, sosteneva la sua testa. Questo uomo serbava un
profondo silenzio; il suo volto, rozzo e pieno d'energia, aveva una
singolare espressione di abbattimento e di tristezza; non alzava mai gli
occhi sulla sua compagna, che lo considerava con una espressione profonda
d'amore
appassionato e di malinconia.
La fisionomia, l'attitudine di quei due personaggi erano in armonia colla
solitudine melanconica della loro abitazione.
Manofina e la sua compagna, attuali possessori di quella caverna, erano
quasi divenuti romiti cessando d'essere garduni.
Il fiero bravo subiva in quel momento la spaventevole influenza del suo
assoluto mangiamento di vita. L'inerzia dell'anima e del corpo opprimeva
quella forte e vigorosa natura. L'uomo fisico dominava troppo in lui perché
potesse contentarsi d'un puro spiritualismo. Aveva tanto di poesia, di
accortezza, d'istinto, da essere facilmente sedotto dall'attrattiva del bene
e convertito dalla sublime carità dell'Apostolo; ma le sue facoltà energiche
e potenti richiedevano l'esercizio attivo, e non la contemplazione estatica
o la rassegnazione passiva. Manofina avrebbe sopportato il martirio, perché
là pure v'è lotta ed esercizio di forza morale in mancanza di lotta fisica;
ma rinunziare ad un tratto alla sua vita piena d'avventure e di perigli;
lasciare il pugnale, e vivere continuamente d'ozio e di meditazione, era
cosa superiore alle forze del bravo. L'amore stesso della sirena non bastava
più ai bisogni di quell'anima turbolenta e vagabonda. L'inerzia incominciava
a vincerlo; Manofina aveva la febbre dell'inazione. Alcuni giorni ancora, e
sarebbe divenuto idiota o insensato, tanto impero ha la materia sullo
spirito, quando questo non è stato da lunghissimo tempo abituato a dominarla
costantemente per un esercizio continuo e per lotte incessanti.
La sirena erasi, meglio di lui, avvezzata a tale esistenza negativa. Il
vuoto dell'anima non esisteva per essa, era donna, ed amava; però,
quantunque non dividesse per lo intero i sentimenti del bravo, pure soffriva
nel vederlo soffrire, e la sua ingegnosa tenerezza non aveva altro scopo,
altra preoccupazione fuorché quella di consolarlo.
Vedendo che da più di un'ora Manofina, immobile, appoggiato sulle sue
ginocchia, non le aveva indirizzata la parola, Colubrina passò la sua gentil
manina nella ruvida e nera capigliatura del bravo.
Manofina si scosse, e alzò verso la compagna lentamente i suoi occhini,
pieni di mestizia.
"Che vuoi, anima mia?" le disse.
"Vorrei vederti felice," rispose mesta la sirena. Il bravo trasalì, come se
gli fosse stata posta una mano sur una ferita, ma non rispose.
"Oh! Vedi Manofina," proseguì la giovine con un'espressione appassionata;
"tu hai un bel dire ch'io m'inganno, e mostrarti felice quando incontriamo
gli antichi compagni, ma veggo chiaro in tutto questo: ti annoi, soffri, e
questo ritiro, che ti sembrava sì dolce il primo giorno, è divenuto per te
più tristo d'una prigione."
"Oh! Colubrina, non biasimarmi," rispose il bravo, docile come un agnello.
"io ho fatto tutto quello che hai voluto; ho ubbidito all'Apostolo: ebbene!
Mio malgrado perdo il respiro, e mi sembra a momenti che questa montagna che
ci ricovera, abbia a crollare sopra di noi. Vedi, anima mia, v'è qualche
cosa in me, ch'io non comprendo ancor bene, e che pure vorrei conoscere,
perché questa vita diviene intollerabile, e sarebbe tempo di finirla. Aveva
fatto giuramento al maestro della Garduna, e gli aveva promesso d'ubbidirgli
per tutta la mia vita, e tu sai se sono stato per molto tempo fedele alla
mia promessa."
"Oh! Sì; tu eri il più valente dei nostri fratelli," esclamò la sirena
(l'istinto
della gitana si risvegliava); "sì, la Garduna può credere che non troverà
mai chi ti eguagli!"
"Ebbene!" proseguì il bravo, "il maestro mi aveva ordinato d'oscurare don
Estevan de Vargas."
"E poi?" disse la sirena.
"Non è rimprovero ch'io ti faccio," continuò Manofina; "ma tu mi hai pregato
di non oscurare questo giovane cavaliere; tu hai arrestato il mio braccio e
intenerito il mio cuore; poi è venuto l'Apostolo. Finalmente ho mancato al
mio giuramento, e ho lasciato vivere don Estevan.-Poscia," aggiunse il
bravo, con aria feroce, "siccome un delitto porta ognora seco altri delitti,
ho rinnegato la Garduna, ho abbandonato i miei fratelli.ed ora.oh! Ora,"
proseguì con cupa energia, "io ch'era sempre il primo al pericolo, passo la
mia vita per terra come un cane; io, che viveva col mio pugnale, vivo ora
colla melopia dei monaci; e finalmente la notte. sì, la notte, vedi, mentre
tu dormi al mio fianco, se il vento agita i rami degli alberi, a me sembra
sentire lamenti d'agonia!. quando un lampo traccia nell'aria una linea di
sangue, credo di vedere uno spettro che passa innanzi a me per sfidarmi o
spaventarmi.e finalmente.finalmente.io, che tante volte ho sfidato la
morte.tremo al grido d'un insetto.al muoversi d'una foglia.Sono divenuto
vile., ho paura."
Terminando queste parole, il bravo era divenuto d'un pallore livido, un
freddo sudore copriva la sua fronte di bronzo, ed i suoi occhi, cupi e
fieri, esprimevano una indicibile sofferenza.
La sirena sollevò nelle sua braccia la testa di Manofina, ed appoggiandola
al suo seno con una adorabile tenerezza, come avrebbe fatto una madre col
suo figlio malato, lo baciò dolcemente in fronte, come se il contatto delle
sue labbra avesse il potere di calmarlo.
Era, infatti, un balsamo consolante per il cuore del bravo; chiuse
dolcemente gli occhi per non vedere più i fantasmi che l'assediavano, ed
appoggiò la sua testa sul seno della sirena, come per comprimere le violenti
pulsazioni delle sue tempie.
"Mio caro, perché soffri?" disse la gitana; "perché ti rimproveri come un
delitto la più bella azione della tua vita?"
"Io temo che Iddio mi punisca per aver tradito il giuramento fatto alla
confraternita."
"L'Apostolo ti ha dato l'assoluzione, che temi?"
"E' vero, l'Apostolo è un santo, e non ci avrebbe ingannati," disse il
bravo, alquanto rassicurato.
"Non ha forse pregato Iddio di renderti la vita quando eri ammalato?, e
tutti si allontanavano da te temendo di prendere la tua malattia?"
"Eccetto te, mia Colubrina, te che andasti a cercare l'Apostolo per
risuscitarmi, e che non hai avuto paura d'attaccarti al mio male."
"Io non ebbi gran merito in questo; che avrei fatto io se tu fossi morto? Mi
sarei ammalata, e sarei morta io pure dopo di te."
"Oh! Vedo bene che tu mi ami!" gridò Manofina, con una gioia mista
d'orgoglio;
"vedo bene che tu m'hai detto sempre la verità."
"Povero Manofina!" ella disse, "io t'amo perché Iddio lo vuole, ed è pure
per sua volontà che abbiamo lasciato la Garduna."
"Lo credi?" disse in modo semplice il bravo.
"L'Apostolo me l'ha detto, io credo tutto quello che dice l'Apostolo,"
rispose la giovine.
"Tu hai forse ragione, Colubrina," mormorò il bravo, pensieroso."Oh! Ma,"
proseguì ad un tratto con lieve amarezza, "vivere senza far nulla, senza
correre pericoli, senza esporre la sua vita di giorno e di notte, senza che
alcuno vi dica mai: -Bravo Manofina, ben fatto!- vedi anima mia, è cosa da
impazzire. Meno male se potessi salvare qualche vittima dall'Inquisizione,
come diceva l'Apostolo; battermi contro i famigliari del Sant'Uffizio, come
quella sera in cui abbiamo salvato quella giovane signora, lo rammenti?"
"Ciò era ben fatto," disse la sirena, "l'Apostolo aveva ordinato di
salvarla."
"Senza di te però," proseguì Manofina, gli occhi del quale si animavano alla
rimembranza di quella pugna notturna, "senza di te, Colubrina, era finita
per me; Manofina non avrebbe più impugnato il suo coltello d'Albacete."
Così favellando, il bravo accarezzava con compiacenza il manico del suo
pugnale spagnuolo, la cui larga lama sfavillava al chiarore indeciso del
focolare.
"Calmati," disse la sirena, "sta tranquillo, la guerra non è finita; avremo
ancor molti nemici da combattere. Il tuo pugnale non diverrà rugginoso; vi
sono in Siviglia tante povere persone perseguitate dall'Inquisizione!.Non ti
rammenti che l'Apostolo ci ha raccomandato di salvarle ogni volta che lo
possiamo?"
"Ma dove trovarle?" aggiunse Manofina "dacché ho lasciato la Garduna, il mio
coltello non è uscito dal fodero che per tagliare i giunchi del
Guadalquivir, coi quali tu fai le stuoie che ci servono di letto."
"Sta quieto," disse teneramente la sirena; "l'occasione si presenterà e
presto."
E, sorridendogli col più lieto sembiante, faceva vedere due file di denti
bianchissimi. In quel momento un soffio venuto dall'esterno agitò vivamente
la fiamma del focolare; i rami delicati e frondosi, che pendevano
all'ingresso
della caverna, si separarono con un prolungato mormorio.
"Chi è?" gridò il bravo alzandosi tosto, e portando la mano al suo pugnale.
"Hai forse volontà d'uccidermi, fratello?" domandò il nuovo venuto con
accento chiaro e sonoro.
"Vergine del Carmine!" esclamò la sirena; "chi avrebbe pensato che fosse
Gioachino che veniva a visitarci a quest'ora!"
"Hai bisogno di noi?" soggiunse Manofina.
"Bene, ben, Manofina!" esclamò Gioachino; "sempre lo stesso, brav'uomo; tut
non hai perduto il tuo coraggio, benché sii divenuto eremita."
"Ah! Mio Dio!" disse il bravo, "quanto tempo è che questo non mi era stato
detto!.Tu sei felice, Gioachino," proseguì, "tu vai, tu vieni, tu lavori, tu
sei buono a qualche cosa finalmente; mentre io."
La sirena gli appoggiò leggermente la mano sulla bocca per impedirgli di
continuare; ma questo bastava a Gioachino per indovinare lo stato morale del
bravo; aveva letto fino all'ultima sillaba ciò che avveniva nell'anima del
suo antico compagno.
"Bene," pensò; "s'annoia, dunque è de' nostri."
"Che c'è di nuovo a Siviglia?" domandò Colubrina cercando di deviare la
conversazione.
"Oh! Molte cose," rispose Gioachino con aria misteriosa.
"Raccontaci," esclamarono nello stesso tempo la sirena ed il bravo, tendendo
il collo verso di esso con un movimento di curiosità.
"Pazienza," disse Colubrina, ricacciando sotto i suoi piedi la sottana rossa
che ondeggiava sulla stuoia, "siedi là, Gioachino, e dinne quello che
accade."
"Sì, siedi," aggiunse Manofina, gli occhi del quale brillavano d'impazienza;
"sentiamo, fratello, che cosa accade."
Gioachino si assise.
"Debbo dirti, Manofina," continuò l'accorto Gioachino, " che la società
della Garduna non ti ha ancor rimpiazzato."
"Lo credo," replicò con vivacità la sirena.
"lo sperava forse?" proseguì con indicibile vanità di donna e d'amante.
"Lasciate parlare, Colubrina," disse il bravo.
"Diceva dunque, "riprese Gioachino, "che il tuo posto è ancor vacante alla
Garduna."
"E poi, udiamo," disse Manofina.
"Però la società non continua meno ad essere valente, leale e fedele a
coloro che la impiegano."
"Mi fai forse un rimprovero?" mormorò sordamente il bravo.
"No, Dio me ne guardi! Voleva solamente dirti che le funzioni della Garduna
divengono ogni giorno più importanti, e che."
"Ebbene! Che cosa m'importa?" interruppe bruscamente il bravo; "sai che non
ne fo più parte."
"E' tua colpa," disse Gioachino.
"L'Apostolo me l'ha proibito, " replicò l'amante della sirena.
"Perché vieni a tentarlo, Gioachino?" disse Colubrina: "questa non è parte
da buon fratello."
"Se mi lasciate il tempo di parlare," borbottò il giovane taverniere, "non
perdereste così il vostro tempo in parole inutili."
"Ebbene! Parla; noi non diremo più niente; staremo ad ascoltare."
"Intanto mi fate perdere il filo del discorso; tacete dunque una volta.
Dov'eravamo?
Ah! Va ben! La Garduna è sempre più florida, gl'inquisitori la pagano per
oscurare gli eretici, gli eretici vogliono pagarla per oscurare.no, per
arrestare gl'inquisitori."
"Come?" disse Manofina, il cui sguardo si animava d'un fuoco strano ad ogni
parola di Gioachino. "Oh! Amici miei! Se sapeste quello che avviene,"
proseguì questi, "il governatore di Siviglia sta per essere bruciato, e la
sua figlia è in prigione per tutta la sua vita."
"Gesù mio!" esclamò la sirena, "e di Estevan che ne è stato?"
"Silenzio," disse Gioachino, ponendo un dito sulle sue labbra, e volgendo la
testa da tutti i lati come se avesse temuto d'essere ascoltato; "di lui non
bisogna parlare, perché forse sarà messo in carcere egli pure, e."
"Sii tranquillo," si affrettò a dire la Colubrina; "qui non vi sono
famigliari; non abbiamo altri vicini se non gli avvoltoi e le serpi; e
questi sono meno a temersi di quelli."
"Oh amici miei!" continuò il taverniere, "se sapeste quello che si prepara!"
"Finalmente ti spiegherai?" disse Manofina, con impazienza.
"Ecco," riprese Gioachino; "don Estevan de Vargas, che vuole ad ogni costo
salvare il suo suocero e la sua sposa, ha risoluto di rapire il governatore
e sua figlia il giorno dell'atto-di-fede, e di arrestare gl'inquisitori.
"Ci sono!" gridò Manofina.
"Aspetta; tu non potrai far tutto solo; perciò è necessario che la società
della Garduna, che è sempre pronta a battersi per vendicare gl'innocenti,
sia a parte del complotto per assicurare il successo."
"Sai bene ch'io non appartengo più alla società," rispose mestamente
Manofina.
"Giusto per questo tu ci puoi favorire, fratello," disse Gioachino, vedendo
che aveva già fatto il più, e che Manofina stava per cedere.
"Spiegati, fratello."
"Ti ho detto già che il maestro non ha potuto ancora surrogarti, e che
piange la tua perdita. Ora noi abbiamo bisogno dell'aiuto del maestro della
Garduna per condurre a buon fine la nostra intrapresa. Tocca dunque a te,
Manofina, d'andarlo a trovare; tu sei sempre stato il suo favorito, e non
ricuserà di far parte del complotto se tu gli prometti d'essergli compagno,
poiché nella speranza di riacquistarti alla società, farà tutto quello che
vorrai."
"Se gli lascio questa speranza, l'inganno," rispose il bravo, vivamente
combattuto fra i suoi istinti bellicosi, il suo trasporto sfrenato per il
pericolo, e la promessa da lui fatta all'Apostolo.
"Tu non avrai bisogno d'ingannarlo," replicò Gioachino; "s'egli ha una vana
speranza, peggio per lui; tu non sarai obbligato a mantenere quello che non
gli avrai promesso. oltracciò," soggiunse, "Estevan è ricchissimo, e stimo
che la ricompensa ch'io sono autorizzato a promettere in suo nome alla
confraternita valga la pena che si serva. Orsù, preparati a seguirmi; questa
è l'ora; vieni a trovare il maestro, e sbrighiamoci; l'atto-di-fede è
fissato fra otto giorni; non v'è tempo da perdere per disporre le cose.
Partiamo!"
Chi avesse potuto, in quel momento, studiare la fisionomia del bravo,
sarebbe rimasto spaventato dell'immenso poema di emozioni che si svolgevano
dall'anima sua nel tempo che Gioachino favellava. Tutte le forze vitali di
quell'uomo energico, da tanto tempo inattive, eransi ridestate ad un tratto.
Il suo cuore balzò con violenza entro il suo petto, e la febbre
dell'entusiasmo,
l'ardente esaltazione del coraggio lungamente compresso, davanti a quella
virile figura erano in una grandiosa espressione.
Vi si poteva leggere ugualmente un supremo disprezzo del pericolo, ed un
profondo fanatismo religioso.
Era venuto il momento di eseguire il comando dell'Apostolo, di colui che
riguardava come l'inviato di Dio.
Stava finalmente per combattere in favore della giustizia, combattere contro
gli oppressori a pro degli oppressi, secondando le sue tendenze ed i suoi
gusti, acquistarsi il paradiso di Gesù Cristo; il paradiso!.quel sogno
sublime dei miseri e degli afflitti.
Il bravo era rimasto un momento annientato sotto il peso di tante
sensazioni, oppresso dall'immenso piacere che provava.
La sirena lo considerava ansiosa, attendendo la decisione del suo damo.
Finalmente Manofina si alzò, dié un balzo come toro selvaggio, e stringendo
attorno ai suoi fianchi la cintura rossa a cui era appeso il suo pugnale,
gridò con voce potente:
"Partiamo!"
La sirena, più lesta d'una capra delle montagne, era già in piedi al suo
lato.
"Dove vai?" domandò Gioachino a Colubrina.
"Con voi," rispose fieramente la sirena; "non si va senza di me."
"Sicuramente," disse il bravo, stringendola con tenerezza al suo petto;
"Possiamo camminare l'uno senza l'altro?"
Uscirono tutti e tre dalla caverna.
XXXVIII. Il ballo del lampione[32].
A misura che Manofina si avvicinava al Palazzo della Garduna, le sue narici
si dilatavano, e parea fiutar l'aria come avrebbe fatto un cavallo arabo
riconoscendo la tenda del suo padrone.
La sirena stessa non poté fare a meno di provare quel fremito leggiero che
si sente alla vista dei luoghi per tanto tempo diletti, e che si credeva di
non rivedere mai più.
La notte era tranquilla, tiepida e bruna, la luna era disparsa da molto
tempo dietro l'orizzonte.
Era una notte deliziosa per amanti o spasimatori.
Mentre stavano per varcare la prima cinta di mura che circondava il palazzo,
si fermarono alcuni istanti, stupefatti e rapiti ad un tempo dallo
spettacolo che loro si offriva. Una gran luce veniva dalla porta semiaperta,
e uditasi di dentro il suono d'una chitarra, accompagnata da una voce d'uomo
e da lievi accordi del pandero[33].
"Come sono allegri!" disse la sirena con un sospiro.
"Qual è dunque il santo del giorno?" domandò Manofina.
"Forse è la fine d'una novena," rispose Gioachino.
"Entriamo," disse la sirena, i cui piedi impazienti, si muovevano
spontaneamente in cadenza al suono di quella musica conosciuta.
La sirena era la maggior danzatrice di fandango in Siviglia; cantava inoltre
la cana in maniera da far delirare un anacoreta.
Affrettarono il passo, e mentre passavano davanti a un gruppo d'alberi,
videro nell'oscurità tre uomini di cui non poterono riconoscere né i
lineamenti né gli abiti. Questi uomini erano ritti dietro il gruppo
d'alberi,
e parlavano insieme a voce bassa.
Il bravo era troppo preoccupato per porre attenzione ad essi. Gioachino
finse di non vederli, e la sirena non pensava in quel momento che al ballo;
già vedeva le teste dei ballerini coperte di nastri di diversi colori
ondeggianti come bandiere al vento, e seguenti tutte le ondulazioni che loro
imprimeva la passione od il capriccio.
Oh! Era veramente una bella festa il ballo del lampione, il più animato e il
più allegro che da lungo tempo siasi veduto in Siviglia.
Tuttavia, malgrado la loro impazienza, quando furono giunti verso la porta,
il bravo e la sirena si fermarono; un sentimento più forte del loro
desiderio, il pudore dell'orgoglio, se può chiamarsi così, li trattenne
sulla soglia di quella dimora ch'essi avevano volontariamente abbandonata;
stettero in forse.
"Ebbene! Entriamo!" disse Gioachino.
"Entra tu," disse Manofina alla sua compagna.
"Prima tu, Gioachino," disse la sirena: "tocca a te introdurci."
"Oh! Io non farò tanti complimenti," rispose il taverniere con una
galanteria tutta andalusiana; "entra dunque con me, Colubrina, poiché non
osi entrar sola.E tu, Manofina, seguici e vedrai che saremo ben ricevuti."
Nello stesso tempo Gioachino finì d'aprire la porta in tutta la sua
larghezza, e si avanzò con aria di trionfo nel mezzo dell'assemblea.
Manofina lo seguì a poca distanza.
"Dio guardi le vostre signorie!" disse Gioachino, levandosi gentilmente il
cappello. A quella inattesa apparizione un grido di sorpresa si alzò nella
sala, e l'assemblea, un momento prima sì attenta al ballo, si fermò piena di
curiosità ed avida di sapere per qual motivo il bravo e la sua compagna
tornavano fra loro.
Appena avevano posto piede nel palazzo, che l'occhio penetrante di
Mandamiento li aveva riconosciuti.
Stavasi costui all'estremità della sala, tranquillo, sorvegliando con una
gravità piena di benevolenza i piaceri de' suoi figli, poiché quanto il
maestro era severo e dispotico nel fare eseguire i suoi voleri, altrettanto
sapeva, con una indulgenza calcolata e con apparenti concessioni, soggiogare
e rendere contenti quelli ch'ei dominava. Mandamiento sarebbe stato un re
popolarissimo, se in quell'epoca la regalità non fosse stata una cosa sacra,
che non poteva trasmettersi che per eredità, ed alla quale niuno s'avvisava
di giungere.
La sirena camminava timidamente con gli occhi bassi. Una viva luce inondava
la sala. In ogni colonna erano affisse due grandi torce di ragia, che
mandavano verso il soffitto a volta, lampi di fiamme e nuvole di fumo.
Sul suolo, intorno alle colonne, eransi distese moltissima stuoie di
Valenza. Ogni donna avea la sua, che le serviva di seggiola, ed in tal guisa
seduta, lasciava appoggiare su sé medesima un uomo, seduto parimenti per
terra, il quale si adagiava sulle ginocchia di essa come sui bracci d'una
poltroncina.
L'assemblea era disposta in una doppia fila di uomini e donne; era una scena
d'aspetto bizzarro e pittoresco.
I Sivigliani, bruni, svelti ed agili, vestiti dei loro abiti di gala,
presentavano nelle loro fisionomie originali e variate un insieme di effetto
singolarissimo.
Il mezzo circolo formato dalle persone sedute era occupato dai ballerini.
Il lascivo fandango era allora, come lo è oggidì, il ballo favorito degli
Andalusiani, il più delizioso dei loro divertimenti; or che doveva essere
desso per i garduni, gente senza freno e senza ritegno, nature febbrili e
passionate, razza del deserto ancor troppo vicino alla sua origine per
averla dimenticata?
Una folle ebbrezza presiedeva a quella festa. I più graziosi novizi della
società si pavoneggiavano nel loro elegante costume di majos[34] colla mano
appoggiata sul fianco, cogli occhi rivolti in alto, facendosi sentire a
venti passi di distanza col sonoro tintinnio dei loro bottoni d'argento, e
camminando in modo da mostrare con vantaggio le loro gambe agili e
muscolose.
Le giovani ballavano o ciarlavano guardando con civetteria i giovani più
eleganti.
Le vecchie parlavano fra loro dicendo male delle giovani, e adocchiando anco
i giovanotti.
Tuttavia l'apparizione di Manofina e di Colubrina aveva, come dicemmo,
prodotta tal sensazione, che il ballo fu per un momento rallentato, e tutte
le teste si volsero dal loro lato.
A fine di non disturbare il ballo, la sirena fece il giro del circolo per
andare in fondo alla sala; ma il maestro non le diede tempo, facendosele
incontro con tutta galanteria, e, guardandola col suo più grazioso sorriso,
le disse con aria di cortesia:
"Qual santo del paradiso ti ha inspirato il buon pensiero di venire da noi,
figlia mia? Sii la ben venuta,.e Manofina pure," aggiunse, stendendo al
bravo la sua mano larga e callosa.
Manofina, alquanto confuso, strinse, non senza ripugnanza, la mano del
maestro; sembratagli fosse quasi un impegnarsi presso di lui; ciò che non
voleva fare.
A quella benevole accoglienza del maestro verso gli ex-garduni succedette un
grido generale d'approvazione. Tutti i garduni si affollarono attorno ai
loro antichi compagni, e vi furono abbracciamenti innumerevoli ed
acclamazioni assordanti.
Alcune sirene di fresco arruolate guardavano con occhio di gelosia quella
bella e graziosa Colubrina che non aveva rivale in Siviglia.
Ma bentosto una di esse, volgendosi verso una vecchia, le disse con riso di
trionfo e di contento: "Guardate colei, che non ha neppure un nastro nuovo
sul capo: la sua sottana è sporca come se non ne avesse avute altre dacché è
nata, e le sue calze cadono a pezzi."
"E' divenuta gialla come il zafferano dacché ci ha lasciati," rispose la
vecchia; "e ha scelto un cattivo momento per presentarsi vestita in quel
modo in sì buona compagnia. Ecco cosa vuol dire fare i superbi e abbandonare
la compagnia. Davvero era più bella quando quando faceva l'occhio tenero a
quel grosso priore che Manofina ha così battezzato all'occhio sinistro."
"Taci una volta, vecchia," disse Graffio, che in quel momento le si trovava
vicino; "Colubrina è sempre la più bella ragazza di Siviglia; è più bella
essa in cenci, che le altre con nastri e perle."
L'opinione di Graffio era generalmente divisa dagli uomini, e coloro che non
lo dicevano, lo provavano abbastanza coi loro sguardi e coi loro gesti.
Dal suo lato Mandamiento non cercava di dissimulare il suo giubilo. Ei
condusse la sirena sur una stuoia ch'era rimasta vuota verso l'estremità
della sala, e, dopo averla pregata di sedersi, "Divertiti, figliuola," le
disse, "io vado a parlare un poco con Manofina."
Così dicendo, Mandamiento prese la mano del bravo e facendo segno a
Gioachino di seguirlo, li condusse a qualche distanza dal circolo in un
canto isolato.
Poscia, solo con essi, disse loro:
"Suppongo, figliuoli miei, che la presenza di Manofina in questo luogo non
sia senza motivo, e desidero di conoscerlo. Forse il nostro caro Manofina si
trova in qualche situazione pericolosa che reclama il nostro soccorso?
Quantunque non faccia più parte della nostra onorevole confraternita, e niun
dovere c'impegni verso di lui come fratelli, siamo sempre disposti, come
amici e come compagni, a venire in suo aiuto ogni qualvolta ciò sia
possibile.senza derogare alle regole della nostra onorevole confraternita."
"Fratello Mandamiento," si affrettò a rispondere Gioachino," non si tratta
in questo momento di venire in soccorso di Manofina, si tratta, al
contrario, di farlo acconsentire a prestarci il suo."
Mandamiento fece un atto di sorpresa.
"Ho da proporti un'operazione. e delle più gravi," proseguì Gioachino, "ecco
perché sono venuto qui con Manofina. Adesso ascoltami."
"Parla," disse il maestro, maggiormente sorpreso.
"Avvi in Siviglia," continuò Gioachino, "un giovane signore ricchissimo, che
ha bisogno di te."
"Per la barba del re!" esclamò Mandamiento.
"Io sono sempre al servizio dei giovani signori che hanno molto denaro."
"Questo giovane cavaliere te ne darà molto. In ricambio ecco quello che
bisogna fare."
"Oscurare il suo rivale?" interruppe il maestro.
"Più di questo, veramente," disse Gioachino; "un'operazione che la
confraternita non ha mai eseguita."
"Per la Madonna!" esclamò il maestro, "quello che tu mi dici comincia a
mettermi in guardia. Di che si tratta dunque? Spiegati."
Gioachino guardò attorno a sé con aria misteriosa: nessuno poteva udirli,
erano a più di quindici passi distanti dal circolo in cui ballavano.
Tuttavia, per maggior prudenza, il taverniere spinse Mandamiento ed il bravo
fino alla colonna più lontana; poscia, essendosi chinato verso il maestro,
gli disse piano: "Bisogna aiutarci a liberare il governatore di Siviglia il
giorno dell'atto-di-fede."
"Come ciò?"
"Portando via il grande inquisitore, che voi riterrete prigioniero. Due
giorni basteranno perché don Estevan possa giungere al primo porto di Spagna
ed imbarcarsi per un altro paese."
"Fratello," rispose il maestro, "hai ben pensato a quello che tu domandi?
Sai tu che in simile impresa potemmo rischiare la vita?."
"Contro duecentomila reali," aggiunse vivamente il taverniere; "questa è la
somma che don Estevan de Vargas offre di darvi in ricompensa."
"Duecentomila reali!" disse Mandamiento, stordito per l'enormità della
somma, "duecentomila reali per."
"Per portar via monsignor Arbues, e tenerlo in prigione per due giorni nei
sotterranei della Garduna," si affrettò a dire Gioachino.
"Sì," riprese il maestro, "e quando monsignore Arbues sarà tornato in
libertà, ci farà bruciare come eretici. Mi credi dunque un balordo,
Gioachino? Oscurarlo, alla buon'ora, i morti non possono più far del male,
ma portarlo via, no, no, io non porto via che le ragazze."
"Sua signoria non vuole che si oscuri."
"Sua signoria è semplice come una pecorella; senza la compiacenza di
Manofina e gli ordini di.ma basta, io me n'intendo. Se don Estevan è ancora
in vita, non è per volontà dell'inquisitore.
"Oh! A me non importa della vita dell'inquisitore," disse Gioachino, "ma se
parli a don Estevan di oscurarlo non acconsentirà mai, ed il governatore di
Siviglia sarà bruciato."
"Bene! Bene! Saremo discreti," disse Mandamiento, sorridendo con riso di
demone.
-Duecentomila reali!- pensò fra sé medesimo, -per aver il piacere di
pugnalare questo maledetto inquisitore, che mi guarda bieco e non mi fa più
far nulla dopo che ho risparmiato don Estevan. Duecentomila reali è una
bella somma.Di più monsignore Arbues sarà certamente sostituito, ed il nuovo
inquisitore, che non avrà meco alcun rancore, ci farà certamente lavorare.
Tutto è adunque a vantaggio della confraternita in questo affare.-
Tali furono le rapide riflessioni del maestro della Garduna, ma da valente
diplomatico, si guardò dal farne parte a quelli con cui trattava,
indirizzandosi a Gioachino che aspettava la risposta gli disse:
"E Manofina consentirebbe ad essere di questa spedizione?"
"Senza dubbio," rispose tosto il bravo.
"Trovi dunque che la Garduna è una buona madre e ritorni a lei?" domandò
insidiosamente il capo.
"Maestro, io non ho detto ciò," replicò Manofina; questa spedizione mi
piace, voglio aiutarvi, se lo desiderate, in compagnia della sirena,"
aggiunse con orgoglio. "Voi sapete, maestro, che la sirena vale quanto un
bravo per il coraggio e per l'ardire."
"Intendo," disse Mandamiento, "intendo; la sirena e tu siete contenti di
prender parte a questa operazione in causa della promessa ricompensa."
"Maestro," rispose Manofina, "io non ho mai ricusato un salario onestamente
guadagnato: ma se questa volta giudicate convenevole non darci nulla, poco
importa; dividerò volentieri i pericoli di questa spedizione, senza esigere
ricompensa, poiché pensate che non vi abbiamo più diritto non essendo più
membri della confraternita."
"E perché non ne sarete più membri?" continuò Mandamiento, essendo questo il
punto a cui voleva venire.
"Non tentarmi, maestro," disse Manofina: "quel che è fatto è fatto, io non
ci tornerò. Soltanto dimmi se accetti il mio aiuto e quello di Colubrina;
questo è quel che domando. In tal caso tu mi renderai per un giorno la mia
autorità di bravo, mi darai una truppa da comandare, e sta tranquillo, io
m'incarico
del rimanente."
"Ebbene!" disse Gioachino, "è convenuto, Maestro? Posso condur qui don
Estevan ed i suoi amici perché v'intendiate insieme e disponiate la
bisogna?"
"Lo può," rispose Mandamiento, lieto della risoluzione di Manofina, ad onta
delle sue restrizioni, poiché nutriva speranza di ricondurlo intieramente a
sé; poscia, volgendosi al bravo:
"Vedi, figliuol mio," dissegli, "se la confraternita ed io conserviamo
amicizia per te; non abbiamo ancora trovato alcuno dei nostri più abili
postulanti degno di succederti, ed il tuo posto è ancor vacante alla
Garduna. Prendilo dunque per il giorno della progettata spedizione, e Iddio
ti ispiri in seguito! Possa tu prendere una buona e saggia risoluzione."
"Corro ad avvertire don Estevan," disse Gioachino; "è d'uopo che tutto si
accomodi questa sera."
"Va," disse Mandamiento, "nulla è più favorevole ad una operazione di questa
specie del tumulto d'una festa. E tu, Manofina," aggiunse, "non vai a
ballare un fandango colla tua graziosa Colubrina?"
"Sì, davvero," disse il bravo.
E Manofina andò a prendere la sirena per la mano onde condurla nel circolo
dei ballerini. Ad onta della povertà del suo abito, tutti si affollarono a
veder ballare la sirena, la quale era sì bella, sì malinconica, s'
interessante, che era impossibile vederla e non amarla; oltracciò ballava
benissimo.
Intanto Gioachino era uscito dal palazzo, ed erasi diretto verso il gruppo
d'alberi,
ove poco innanzi tre uomini parlavano insieme. Erano ancor fermi nello
stesso posto, e pareva che aspettassero. Il taverniere si avanzò verso di
essi, facendo a bella posta un po' di rumore. Quantunque fosse buio, Estevan
lo riconobbe.
"Ebbene!" gli domandò questi.
"Tutto è pronto, il maestro della Garduna farà tutto quello che vorrete."
"Ve l'aveva detto?" disse Estevan, volgendosi ai suoi compagni, don Rodrigo
de Valero e don Ximenes de Herrera: "ora siamo sicuri dell'esito."
"Don Estevan," mormorò il vecchio signore, "voi avete stimato utile di unire
alla vostra intrapresa questi gitani, sia pure; ma voi non conoscete la metà
della vostra forza, se io avessi la vostra età, se io fossi bello come voi,
e mi chiamassi don Estevan de Vargas, vorrei colla mia sola parola sollevare
la popolazione di Siviglia e metter sossopra la Spagna."
"Don Rodrigo," rispose Estevan, "voi parlate in questo momento come un
giovane; lasciatemi dunque parlare a mia posta come un vecchio.
Voi mi accordate una gran potenza di fascinazione, ebbene, io voglio credere
di possederla, e persuadermi che potrei agevolmente, grazie alla memoria del
mio genitore, ancor viva nel cuore degli Spagnuoli, sollevare Siviglia
contro gl'inquisitori. Supponendo che ciò potesse verificarsi, qual bene ne
emergerebbe per la Spagna? A che l'opera nostra servirebbe? A far perire
migliaia di uomini senza rendere miglior sorte a coloro che rimarrebbero.
Sapete, don Valero, che per infrangere assolutamente il giogo
dell'Inquisizione
bisognerebbe che tutta la Spagna fosse riunita in un accordo unanime di
sentimento e di volontà? Le parziali insurrezioni generano la guerra civile,
depauperano, distruggono un paese ma non lo cambiano: sono reiterati salassi
fatti sopra un corpo robusto, i quali lo fanno respirare un giorno per
ruinarlo alla fine. E' la scienza. È la filosofia che possono di per sé sole
rigenerare la Spagna e renderla libera. Fino a quel punto non lo speriamo;
noi non siamo destinati a vedere quei bei giorni."
"Perché dunque cospiriamo?" interruppe Valero.
"Per un solo fatto," replicò Estevan, "per un interesse particolare. Io per
liberare quelli che amo, voi e don Ximenes, per amicizia verso di me."
"Estevan ," disse don Ximenes, "voi calunniate le nostre intenzioni
restringendole ad un interesse particolare."
"No," riprese Estevan, "non le calunnio; noi abbiamo l'anima grande e calda,
gemiamo dei mali dell'umanità; tre mesi prima avrei detto come voi, don
Rodrigo, che solo l'amore di nostri sofferenti fratelli, l'amore del popolo
avvilito e perseguitato ne spingeva a quest'atto di rivolta. Ho appreso
dipoi a meglio analizzare i sentimenti dell'uomo, e dico, che se Iddio ci
avesse creati per essere i rigeneratori della Spagna, ci avrebbe accordati
altri mezzi d'azione, e ci avrebbe forse fatti nascere un secolo più tardi;
ovvero avremmo avuto il dono dell'apostolato, e saremmo stati umili e
coraggiosi come Giovanni d'Avila, come Giovanni di Dio ed altri: anime
sublimi talmente infiammate del santo amore degli uomini, che fanno una
completa astrazione di sé medesimo d'ogni sentimento personale in favore
della grande umana famiglia. A costoro il diritto di agitare la Spagna fino
nelle sue viscere, e di rigenerarla nello spirito. Quanto alla rigenerazione
colla spada, è una ferita sopra una piaga, non altro e se cospiro oggi con
voi, signori, non è che io ne attenda un bene per i miei fratelli che
soffrono, è perché amo, e voglio salvare quella che amo. Questo è egoismo,
credo," aggiunse egli sorridendo con amarezza.
"Estevan," disse don Ximenes, "voi siete più valente di noi, e all'occasione
sareste anco più forte."
"Qualunque sia il motivo della nostra insurrezione, egli è sacro. Andiamo
dunque," disse Valero, "e siate nostro capo, Estevan, voi siete più
eloquente di Cicerone, ed avete una franchezza alla quale non si può
resistere."
"Dove dobbiamo andare?" aggiunse il vecchio signore, indirizzandosi a
Gioachino.
"Seguitemi, signori," disse Gioachino, " e per non destar sospetti, entrate
al ballo senza cerimonie, divertitevi, chiacchierate con belle ragazze. Voi
signor Estevan, vi consiglio di far ballare la sirena."
"Chi farò ballare io?" domandò il vecchio Rodrigo.
"stia tranquillo," disse sorridendo il taverniere; "le ballerine non mancano
alla Garduna, ve ne sono di tutti i colori e di tutte le età."
Gioachino rientrò solo nella Garduna.
La danza era in quel momento viva ed animata. Un allegro bolero, ballato da
Manofina e dalla sirena, teneva tutti gli animi in sospensione. La sirena
col collo teso in avanti, cogli occhi fiammeggianti ed umidi, colle sue
manine armate di castagnette, ondulava come una serpe, piegando con una
grazia meravigliosa il suo personale gentile e pieno di garbo. Il bravo,
animato dalla musica, dai vezzi della Colubrina, ed eziandio agli applausi
dell'assemblea, spiegava con inconcepibile ardire il vigore e l'elasticità
delle sue gambe. Svelto come un vero figlio dell'Andalusia, il bravo aveva
muscoli d'acciaio, e quella grazia audace, selvaggia, frutto di un'esistenza
vagabonda e di un'immensa libertà.
All'ultimo passo del bolero un applauso unanime e prolungato si alzò nella
sala.
I tre signori entrarono in quel momento.
Il loro arrivo non cangiò in nulla il trasporto di quella onorevole società
il Spagna le persone titolate si mescolano volentieri alle persone del
volgo, senza che i primi credano di drogare alla loro dignità, e senza che i
secondi tengasi onorati di tale condiscendenza.
Gioachino si avvicinò al maestro.
"Ecco il giovane signore che deve pagare," gòi disse, accennandogli don
Estevan de Vargas.
"Quello stesso che Manofina doveva oscurare," osservò Mandamiento; "sembra
che fra questo giovane e l'inquisitor di Siviglia sia una guerra a morte.
Bene! Bene!" proseguì fregandosi le mani, "dove c'è da mangiare si mangia. È
meglio, Gioachino, che rimangano qui; dopo la festa parleremo d'affari; ora
la Garduna ha bisogno di cenare."
Infatti nel mezzo del cerchio dei ballerini, una sirena e due o tre
apprendisti avevano preparato il pasto.
Sopra una grande stuoia distesa per terra vedevansi molti piatti di terra
cotta pieni di gazpacho[35], un enorme guizado[36] e quattro capretti
arrostiti. Non cucchiai, non forchette. I garduni ignoravano completamente
l'uso
di questi oggetti di lusso.
"Signori," disse loro con cortesia, "vogliono degnarsi di dividere il pasto
de' miei figli?"
"Volentierissimo," risposero essi.
E prendendo ciascuno una stuoia, si assisero per terra come gli altri, senza
timore di sciupare i loro abiti di seta.
Estevan si pose accanto alla sirena.
L'amante del bravo, già dispostissima in favore di questo bel giovane, a cui
aveva salvato la vita, lo guardò con dolce tristezza, e le vennero le
lagrima agli occhi pensando che la vaga sposa di lui era nelle carceri
dell'Inquisizione,
e che l'infelice Estevan era forzato a sorridere.
Mentre l'assemblea faceva sparire le vivande con un appetito da garduni,
Estevan, facendo sembiante di mangiare, diceva a Colubrina:
"Tu ballerai con me, non è vero?"
"No, signore," rispose essa con una tristezza affettuosa. "Io amo il ballo,
e mi stimerei onoratissima di ballare un fandango con vossignoria; ma grazie
al cielo, stasera non avrete questo disturbo. Il ballo è terminato oggi, e
dopo cena ognuno anderà per le proprie faccende; già voi non potete aver
volontà di ballare."
"Buona Colubrina!" rispose Estevan.
"Siate tranquillo;" disse quella a bassa voce; "balleremo altrimenti fra
otto giorno, poiché vi sarò io pure. Ma mangiate, e non parliamo più di ciò;
ecco delle sirene che sono gelose di vedervi parlare con me."
La cena disparve con una rapidità meravigliosa. Don Rodrigo mangiava come un
gitano, e sogguardava le ragazze. Don Ximenes rideva di cuore con una
graziosissima sirena che avrebbe volentieri cambiato il suo bravo con quel
bel signore vestito di velluto. Niuno sospettava che quella apparente gaietà
nascondesse una congiura.
Ma tostoché Mandamiento vide finita la cena, fece un cenno, il suo volto
poco prima atteggiato al sorriso, divenne imponente e severo. I garduni si
alzarono tutti ad un tratto, e ciascuno secondo gli ordini ricevuti dal
maestro prima di cominciare il ballo, si recò al posto che gli era stato
indicato.
FINE DEL VOLUME TERZO.
[1] Quantunque in generale tutti fossero soggetti alla giurisdizione
degl'inquisitori,
v'era un'eccezione per i papi, per i loro legati e loro nunzi, per gli
ufficiali e famigliari del Sant'Uffizio; dimodoché quand'anco erano
denunziati come eretici, l'inquisizione non aveva altro diritto fuorché
quello di ricevere l'istruzione segreta, e di mandarla quindi al papa. La
stessa eccezione aveva luogo per i vescovi; ma i re ed i principi erano
sottomessi alla giurisdizione degli inquisitori. (Storia dell'Inquisizione,
cap. II, seconda parte.)
[2] Ogni lamento era inibito ai prigionieri dell'Inquisizione. Quando un
infelice mandava qualche gemito gli si metteva uno sbavaglio per molte ore,
e se ciò non bastava, si frustava crudelmente lungo i corritoi. La punizione
della frusta era inflitta pure a coloro che facevano rumore nelle camerate,
o che contendevano fra loro: in simil caso tutta la camerata diveniva
solidaria e si frustavano tutti quelli che la componevano, senza distinzione
né d'età né di sesso; dimanieraché fanciulle, monche e dame di distinzione
erano sovente spogliate dei loro abiti e battute spietatamente insieme a
uomini giovani e vecchi. (Storia dell'Inquisizione, cap. V, terza parte.)
[3] La tortura dell'acqua fu applicata a donna Giovanna Bohorques sotto
Filippo II:
[4] La crudeltà degl'inquisitori si spinse tant'oltre, che il Consiglio
della Suprema videsi costretto a proibir loro di applicare più d'una volta
la tortura alla stessa persona, ma quei monaci trovarono bentosto il mezzo
d'eludere
quest'inibizione. Così, quando avevano torturato un disgraziato per molto
tempo, lo rimandavano nelle prigioni, dichiarando che la tortura era sospesa
fino al momento in cui giudicavano a proposito di continuarla.(Storia
dell'Inquisizione,
cap. V, terza parte.)
[5] Gl'inquisitori, mentre convenivano che la tortura poteva uccidere tanto
gl'innocenti quanto i colpevoli, sostenevano doversi dare la tortura, perché
se alcuni cattolici innocenti perivano per essa, andavano addirittura in
paradiso. Ragionamento degno dei preti d'un Dio di pace! (Guida
dell'Inquisizione,
di Ximens Cisneros.)
[6] Maria di Borgogna aveva ottantacinque anni quando fu arrestata come
sospetta di giudaismo. In mancanza di prove, gl'inquisitori la tennero
cinque anni in prigione, sperando poterne trovare abbastanza per condannarla
ed impadronirsi dei beni immensi che possedeva. Stanchi d'aspettare, i
giudici del Santo Uffizio sottomisero molte volte alla tortura quella
sventurata, malgrado le disposizioni del Consiglio della Suprema che
inibivano di dare la tortura a persone che avessero più di sessant'anni.
Maria sopportò tutto senza lagnarsi, dichiarando sempre ch'essa era
cattolica, apostolica e romana. Morì nella sua prigione protestando la sua
innocenza. Tuttavia gl'inquisitori continuarono il suo processo e la
condannarono alle fiamme: i suoi beni divennero preda dell'Inquisizione e
del fisco, ed i suoi figli e i figli de'suoi figli furono dannati ad
un'eterna
infamia! (Storia dell'Inquisizione.)
[7] "La tortura non potrà essere applicata, sotto verun pretesto, né ai
fanciulli aventi meno di dieci anni né alle persone aventi più di
sessant'anni."
(Regolamento di procedura, articolo 5.)
[8] Questo era tutto quello che l'Inquisizione aveva lasciato ai monarchi ed
al papa stesso. I papi ed i re avevano il diritto di cassare le sentenze
dell'Inquisizione, ma l'Inquisizione aveva l'accortezza di riprincipiare le
sue persecuzioni, d'intentare nuovi processi, e finiva sempre
coll'impadronirsi
delle vittime che la giustizia del papa o quella del re le aveva sottratte
per qualche tempo.Testimoni i vescovi di Savoja e di Calahorra. Anco le
suppliche del re erano il più spesso impotenti. Gl'inquisitori resistevano
loro apertamente sotto il pretesto di servir gl'interessi della religione e
di distruggere l'eresia. (Storia dell'Inquisizione, e Storia della Spagna,
per Mariana.)
[9] Leggesi nella Storia dell'Inquisizione, cap. VI, parte VI: "San Giovanni
di Dio, fondatore d'un ordine ospitaliere consacrato alla cura ed
all'assistenza
dei poveri malati, fu arrestato con sospetto di eresia e di negromanzia, e
la sua generosa filantropia l'avrebbe forse fatto languire lungo tempo nelle
carceri dell'Inquisizione, se il papa non vi si fosse vivamente opposto."
[10] L'eremitaggio di Sant'Isidoro è situato sopra un'altura all'occidente
della capitale. Questo eremitaggio è l'antico podere nel quale il santo era
stato impiegato in qualità di garzone, e di cui il clero ha fatto una
magnifica cappella a spese della pubblica devozione. Sant'Isidoro deve far
parecchi miracoli ogni anno, sotto pena di perdere la sua riputazione, che è
immensa, e che produce somme enormi al capitolo della collegiale di Madrid;
ma questi miracoli sono di facile esecuzione ed alla portata dello spirito
limitato d'un contadino; Sant'Isidoro, oggi protettore di Madrid, non era
che un villano assai rozzo, che percuoteva alcune volte la sua moglie, santa
Maria de la Cabeza, solo per gelosia. I miracoli che fa Sant'Isidoro si
riducono a riconciliare gli amici e gli amanti in collera, riconciliazione
che ottengono bevendo l'acqua del pozzo, a cui il santo faceva bere le sue
bestie quand'era garzone di podere; l'acqua di questo pozzo, oggidì
convertito in fontana, guarisce pure l'emicrania, purché il malato si
diverta molto dopo averla bevuta; ora v'è sempre un gran divertimento
all'eremitaggio
di Sant'Isidoro il 16 maggio giorno della sua festa. In quel dì la libertà e
la gioia sono grandi nei dintorni dell'eremitaggio. In quel giorno più di
duecentomila persone si recano quivi per bere l'acqua riconciliatrice, far
buone merende sull'erba, mangiare delle schiacciate e ballare colle più
belle ragazze del paese. In quel dì la libertà e la gioia sono grandi nei
dintorni dell'eremitaggio.
Non c'è bisogno di dire che, onde l'acqua della fontana vi riconcili col
vostro nemico, bisogna ch'egli e voi la beviate nello stesso tempo, il che è
facilissimo se siete convenuti in antecedenza dell'ora nella quale dovete
rendervi alla fonte miracolosa. Come pure non c'è bisogno di dire che onde
questi miracoli possano effettuarsi, bisogna aver fede; in quest'ultimo caso
entrate nell'eremitaggio, baciate le reliquia del santo, fate l'elemosina e
andate a bere; il miracolo non si farà aspettare. La cappella di
Sant'Isidoro
non ha perduto di voga; l'acqua della fontana è più miracolosa di prima.
[11] Il popolo spagnuolo, più di tutti gli altri popoli, sembra essere stato
creato per le grandi, per le nobili azioni. Dotato di rara intelligenza, di
gran perspicacia e di retto giudizio, lo Spagnuolo è atto a tutte le
scienze, a tutte le arti.E pertanto gli Spagnoli in generale han poca
scienza, e le arti son da molto tempo appena coltivate in Spagna. Leggendo
la storia di questo popolo infelice, è forza accusare l'Inquisizione o, per
dir meglio, Roma, Roma che ha creato l'Inquisizione e la conserva ancora, di
tutta l'inerzia e di tutta la nullità che hanno trasformato la Sapgna in un
immenso cadavere.
[12] Il mercato dei grani è pure il luogo delle esecuzioni. Su questa piazza
il difensore della libertà, l'immortal Riego, fu ignominiosamente appeso nel
1823 dopo esser stato trascinato sopra un traino attaccato alla coda d'un
asino. Avanti di morire, il nobile Riego fu insultato dallo stesso
carnefice: "io ti tengo, frammassone, figlio del diavolo" e questa volta
pagherai tutto quello che hai fatto." Tali furono le parole che colui del
quale la giustizia si serve come di una spada, rivolse all'uomo che nel
1820, tutta l'Europa l'aveva salutato col nome di liberatore della Spagna!
[13] In Spagna i condannati allo strangolamento son condotti al luogo del
supplizio copra un asino che appartiene al carnefice. Anticamente il boja
vendeva i suoi asini il giorno dopo una esecuzione per ricomprarne altri
alla vigilia di un'altra esecuzione. Alcuni asini venduti dal boia, essendo
stati riconosciuti, attirarono orribili diatribe sui loro possessori.
Furonvi oneste fanciulle che non trovarono marito perché qualcuno della loro
famiglia aveva comprato uno di questi animali. Tali inconvenienti han dato
luogo ad una legge che ordina al carnefice di tagliare le orecchie a tutti
gli asini di cui si serve,m e che sono comperati e nutriti a spese dello
stato
[14] Fu in questa spianata che il 7 luglio 1822, si sgozzarono ottomila
Spagunoli, fra cui tre mila guardie nazionali di Madrid o soldati dei
reggimenti d'Almansa e di Ferdinando VII e cinquemila guardie reali che re
Ferdinando VII eccitò a rivoltarsi contro la costituzione del 1812, allora
in vigore, per abbandonarli, il giorno appresso, dopo che essa li ebbe
vinti. Fu per questa battaglia, in cui la guardia reale perdé più di
quattromila uomini, tutti vecchi soldati della guerra dell'indipendenza, che
la tigre coronata creò una decorazione, la quale più tardi fu un segno di
proscrizione. Che cosa potevano attendersi gli Spagnoli da un re, il quale
dopo aver venduto la Spagna a Napoleone, ha perseguitato, ha fatto morire o
mandati alle case di forza coloro che l'avevano difeso dal 1808 al 1815, e
che, morendo, ha lasciato la guerra civile al suo paese!
[15] Le carrozze del re di Spagna sono tirate da cavalli soltanto la
domenica e i giorni feriali.
[16] Si sa che l'imperatore CarloV lasciò il trono per andare a rinchiudersi
nel convento di San Giusto; ma quello che pochi sanno si è che, dopo la sua
morte, l'inquisitore di Castiglia ardì fare il processo alla memoria del
padre di Filippo II. Secondo i signori de Thom, d'Aubugné e Laboureur, Carlo
V fu dopo la sua morte accusato e convinto d'aver corrispondenza continua
coi protestanti della Germania, e di non essersi ritirato a San Giusto che
per potere liberamente in quella solitudine finire i suoi giorni in esercizi
di pietà conformi alle sue disposizioni segrete, e per far penitenza, in
espiazione dei cattivi trattamenti ch'egli aveva fatto soffrire ai principi
del partito protestante. In appoggio di tali accuse citavasi la scelta da
lui fatta del dottor Cazzalla, canonico di Salamanca, per suo predicatore, e
di Costantino Ponzio, vescovo di Dresda, per suo confessore: due personaggi
sospetti d'eresia. Un'altra prova di cui si servì l'Inquisizione per colpire
la memoria di Carlo V furono le numerose inscrizioni trovate nella sua cella
di San Giusto, inscrizioni fatte dalla mano del monarca sulla
giustificazione e la grazia nel senso degl'innovatori. Infine, il testamento
di Carlo V servì pure all'Inquisizione per attaccare la memoria
dell'imperatore.
Questo testamento non conteneva punto legati religiosi, ed era disteso in
una maniera sì differente da quella usata dai zelanti cattolici, che
l'Inquisizione
credé avere il diritto di formalizzarsene.
Così dopo che l'Inquisizione stimò di potersi mostrar rigorosa senza
incorrere nella disapprovazione di Filippo II, cominciò ad attaccare
l'arcivescovo
di Toledo, Cazzalla e Costantino Ponzio. Questi tre personaggi furono
condannati al rogo insieme al testamento dell'imperatore. Filippo II,
destatosi al rumore che questo recesso scandaloso faceva in Spagna, cominciò
dal gioire di veder abbattuta la gloria di suo padre, ma bentosto ebbe
timore delle conseguenza d'un orribile attentato, ed a forza di bassezza e
di concessioni, ottenne dall'Inquisizione che si separasse Carlo V da
quest'affare.
L'Inquisizione non ardì ricusar tutto al re; ma siccome le abbisognavano le
sue vittime, nel 1559 fe' bruciar vivo il dottor Cazzalla coll'effigie di
Costantino Ponzio, morto alcuni giorni innanzi nelle prigioni del
Sant'Uffizio.
L'arcivescovo di Toledo si appellò a Roma, e a forza di amici e di denaro fu
dichiarato buon cattolico. A tal prezzo l'Inquisizione di Castiglia non
colpì la memoria di Carlo V.
[17] Si sa che in Ispagna l'abito monastico apriva tutte le porte e
facilitava l'accesso presso tutti i dignitari del regno. La sottana non ha,
presso a poco, lo stesso privilegio nel bel regno di Francia?.
[18] le udienze accordate dal re non sono più difficili ad ottenersi oggi,
che al tempo di Carlo V. Chiunque vuol parlare al re di Spagna non deve che
recarsi al palazzo avanti dieci ore, ed aspettar a sua volta nell'anticamera
reale. Questa facilità di parlare al monarca non è cessata nei tempi di
rivoluzione e di sommossa. I re di Spagna, come tutti gli Spagnuoli , non
oserebbero sospettare la possibilità d'un regicidio!.
[19] Alfonso Virues era un Benedettino versatissimo nelle lingue orientali,
autore di molte opere, e gran predicatore. Caduto in sospetto d'eresia nel
1534, Virues fu arrestato dal Sant'Uffizio, e rinchiuso nelle carceri
dell'Inquisizione
di Siviglia. L'imperatore, tenendo per fermo che Virues fosse la vittima di
qualche monaco geloso, ordinò che fosse messo in libertà, ma non fu
ubbidito. Invano Carlo V esiliò Alfonso Manriquez, allora inquisitore del
regno; Virues rimase per quattro anni nelle carceri dell'Inquisizione.
(Storia dell'Inquisizione, cap. IV, parte quarta.)
[20] nel secolo decimosesto l'Inquisizione sfidava la potenza di Roma:
infatti molti cardinali sono stati imprigionati e condannati a diverse pene
in Roma, quantunque la persona d'un cardinale sia sacra anco per i re. Si sa
che Enrico III fu scomunicato da Sisto V, per aver osato punire il cardinale
di Guisa, convinto di ribellione e d'attentato conto lo stato. Ma
l'Inquisizione
non era il re dei re, ed il terrore dei papi stessi?
[21] Adriano Folrencio, terzo inquisitore generale di Spagna, si dice che
fosse meno crudele de' suoi predecessori e de' suoi successori. Adriano
Florencio fu forse il più debole degl'inquisitori o il più accorto. Durante
il suo regno, che dorò circa cinque anni, l'Inquisizione di Spagna condannò
ventiquattromila persone, delle quali mileseicentoventi arsi vivi, e
cinquecentosessanta in effigie. Fu Adriano Florencio che stabilì il secondo
tribunale dell'Inquisizione in America, e distese la sua giurisdizione su
tutte le Indie e sull'Oceano. Fu pure Adriano che impedì a Carlo V di
riformare l'Inquisizione, com'egli aveva promesso ai Castigliani, agli
Aragonesi ed ai Catalani nel 1518. (Storia dell'Inquisizione, cap. III,
parte quarta.)
[22] Al suo giungere in Spagna, consigliato dal suo precettore Guglielmo de
Croy e dal suo gran cancelliere, Selvagio, l'imperatore Carlo V era
dispostissimo ad abolire l'Inquisizione, o almeno ad organizzare la
procedura del Sant'Uffizio secondo le regole del diritto naturale e sul
modello di tutti gli altri tribunali. Le Cortes di Castiglia, credendo fosse
giunto il momento di liberare la Spagna dal giogo dell'Inquisizione,
s'adunarono
al cominciare dell'anno 1518, per domandare al re l'abolizione del
Sant'Uffizio,
o, per lo meno delle riforme che la condotta degl'inquisitori aveva rese
indispensabili. Carlo V fece redigere un nuovo codice da Selvagio, e promise
alle Cortes di imporne l'esecuzione agl'inquisitori. Ma nel momento in cui
la giustizia stava per trionfare, il cancelliere Selvagio morì, e Adriano
Folrencio, terzo inquisitor generale della Spagna, ed eletto papa il 9
gennaio 1522, dopo la morte di Leone, seppe cambiare le disposizioni del re,
ed a furia di menzogna farne un appassionato difensore dell'Inquisizione.
Tuttavia Carlo V promise solennemente alle Cortes che obbligherebbe
l'Inquisizione
a rispettare i privilegi e le costumanze di Castiglia, d'Aragona e di
Catalogna, e ad osservare i santi canoni.
Le Cortes cedettero alla buona fede di Carlo V, e gli manifestarono la loro
riconoscenza con un donativo in danaro. Ma i Castigliani, gli Aragonesi e i
Catalani tardarono poco a comprendere che le promesse di Carlo V erano
ingannevoli quanto quelle dei suoi predecessori. (Storia dell'Inquisizione,
cap. III, parte quarta. Annali d'Aragona, sessione delle Cortes nel 1518; e
Storia di Spagna, di Fernand de Higuera, tom. I.)
[23] Questa lettera è apocrifa in ciò che riguarda il testo, la data ed il
soggetto, ma è vera come tipo e come fatto. Carlo V ne ha scritte molte
nello stesso senso; queste lettere sono state sovente considerate come nulla
dagl'inquisitori, ed invero Alfonso Virues, ad onta delle raccomandazioni
dell'imperatore, languì per quattro anni nelle prigioni del Sant'Uffizio in
Siviglia. Poi dobbiamo aggiungere che molto spesso le lettere che
l'imperatore
scriveva in favore di alcune vittime dell'Inquisizione, erano distrutte da
altre lettere da cui le faceva seguire, del rimanente la doppiezza di Carlo
V è conosciutissima; chi non sa l'astuzia che l'imperatore usò con Francesco
I, mentre questo monarca era prigioniero a Madrid? Francesco I, essendo
maltissimo pel dolore che gli cagionava la perdita della sua libertà, Carlo
V andò a visitarlo. -"Venite a vedere se la morte vi sbarazzerà presto del
vostro prigioniero?" gli domandò il re di Francia. - "Voi non siete mio
prigioniero," rispose Carlo V, "ma mio fratello ed amico; io non ho altro
pensiero, che quello di rendervi libertà e tutta la soddisfazione che potete
aspettarvi da me:" quindi l'abbracciò.
Le promesse dell'imperatore produssero un effetto salutare, e Francesco I si
ristabilì dopo lunga convalescenza. Quando l'imperatore seppe il suo
prigioniero ben ristabilito, divenne nuovamente severo e freddo a suo
riguardo. Indarno Francesco I ricordò a Calo V la promessa che avevagli
fatta durante la sua malattia, Carlo v non lasciò la sua preda che dopo aver
ottenuto il 15 gennaio 1530, il trattato che mise la libertà del re di
Francia ad un prezzo oneroso per la nazione.
[24] Benché fosse il più iniquo dei tribunali, benché procedesse, non
secondo le leggi della giustizia e del diritto comune, ma secondo il
capriccio, l'Inquisizione voleva passare per imparziale e soprattutto per
misericordiosa, quanto alla sua imparzialità, è divenuta proverbiale in
Spagna, dove si dice anco oggidì, parlando d'un giudice prevaricatore: "E'
giusto ed imparziale come un inquisitore." Tuttavia in tutte le sale
d'udienza,
una panca era disposta per i testimoni. Però quando un testimone in discolpa
dell'accusato osava venire ad assidersvisi, l'Inquisizione trovava il mezzo
d'incolparlo e di farlo partecipe delle pene che infliggeva all'accusato.
[25] Era raro che l'Inquisizione giudicasse gli accusati a porte chiuse, per
dar l'apparenza di pubblicità ai dibattimenti, la sala del tribunale era
aperta a tutti coloro che avevano ricevuto un invito; ma questi inviti non
erano accordati che ai famigliari dell'Inquisizione, raramente ed in
piccolissimo numero a dei cattolici provato, cioè anime semplici che
credevano alla purezza dello zelo degli inquisitori, ed alla necessità di
distruggere gli eretici per la maggior gloria di Dio.
[26] Mentre il Sant'Ufficio sacrificava l'onesto Franco alla lubricità d'un
prete e a ciò che il clero chiamava l'onore della religione, come se la
religione potesse avere niente in comune con preti lussuriosi e sozzi per
ogni sorta di iniquità; mentre, io dico, si rinchiudeva Franco nelle carceri
per essersi lagnato della sua moglie, che lo disonorava con un ministro
della religione cristiana, l'Inquisizione s'impietosiva sulla sorte d'un
miserabile che aveva accusato falsamente il proprio genitore d'aver
circonciso un fanciullo. Questo disgraziato, che si chiama Antonio Sanchez,
confessò d'aver denunziato il padre nello scopo di farlo bruciare!
L'Inquisizione
si contentò di punire questo miscredente facendogli dare cento colpi di
frusta!
[27] Questo prete chiamatasi Francesco Domenico di Boxas; era Domenicano, ma
non aveva mai voluto appartenere all'Inquisizione. Egli comparve la prima
volta, il 13 maggio 1558, davanti al tribunale dell'Inquisizione di
Vallalolid, e dichiarò di professare le dottrine di Lutero, poscia ritirò la
sua dichiarazione. Subì molti interrogatori, e sempre negava negli uni
quello che aveva dichiarato negli altri. Pregò che gli fosse risparmiata la
tortura, ch'ei temeva più della morte, questa grazia gli fu concessa a patto
che non tacerebbe più nulla. Domenico de Boxas dichiarò e confermò tutto
quello che si volle, e domandò di essere riconciliato.. Ma grado le leggi
dell'Inquisizione, che accordavano la vita a quelli che si confessavano, gli
fu significato di prepararsi a morire il giorno seguente. Il giorno
dell'esecuzione
Domenico rifiutò di confessarsi, e quando discese il patibolo sul quale era
stato condotto per udire la lettura della sentenza che lo condannava al
rogo, si volse al re e gridò: "vado alla morte per la difesa della vera fede
del vangelo!" Filippo II ordinò che gli si mettesse lo sbavaglio. Nel
momento in cui si stava per porre il fuoco al rogo gli venne meno, domandò
di confessarsi, ricevé l'assoluzione, e fu strangolato. (Llorente Storia
dell'Inquisizione, vol. I, parte quinta.)
[28] quando nel 1820 abbiamo aperte le porte dell'Inquisizione per l'ultima
volta, il numero dei prigionieri che racchiudeva era ancora
considerevolissimo; a Madrid si contavano più di dugento persone, ma nel
1820 l'Inquisizione non era più un tribunale religioso, ma una prigione di
Stato. Dal 1801 in poi non si bruciava più alcuno in Spagna. Però la
procedura era sempre la stessa; sempre il più gran mistero inviluppava le
sue operazioni; sempre la stessa iniquità dettava i giudizi
degl'inquisitori,
giudizi comandati da Ferdinando VII, e pronunciati quasi sempre non contro
eretici, moreschi od ebrei, ma contro coloro che si adoperavano alla
liberazione del proprio paese. L'Inquisizione, divenuta impotente, consunta
a furia di crudeltà e di iniquità, logorata specialmente dai progressi dei
lumi e dalla lotta incessante sostenuta contro il popolo spagnuolo,
l'Inquisizione,
non potendo più essere giudice era divenuta carnefice al servizio del re,
non potendo fanatizzare la Spagna, voleva almeno mantenerla schiava, perché
schiava o fanatica, la Spagna, apparteneva egualmente ai preti ed ai re; ora
questo era quel che Roma voleva: dominare che gl'importava dei mezzi?.
[29] Quando mai Roma ha combattuto apertamente?.il giorno in cui Roma osasse
dire ciò ch'ella vuole; il giorno in cui il clero romano gettasse via la
maschera, e si lasciasse vedere tal qual e, cioè il profanatore della
sublime religione di Cristo, quel giorno il popolo si leverebbe in massa per
cacciarlo dalla chiesa degli apostoli, come altra volta Gesù scacciò i
venditori dal tempio; quel giorno bisognerebbe dire ai preti romani: "Guai a
voi, Scribi e Farisei, ipocriti! Perciocché voi divorate le case delle
vedove e ciò sotto specie di far lunghe orazioni: perciò voi riceverete
maggior condannazione." (Matteo, cap. XXIII, v. 14.)
[30] Quando un accusato era dichiarato innocente da dodici testimoni di puro
sangue cattolico l'Inquisizione era forzata di renderlo immediatamente alla
libertà. Questo rilascio così ottenuto chiamatasi l'assoluzione definitiva,
ma accadeva raramente che dodici persone di puro sangue cattolico osassero
presentarsi per difendere un accusato; perché ognuno che osava difendere un
accusato era perseguitato dal Sant'Uffizio, e considerato come colpevole
dello stesso delitto dell'accusato da lui difeso. Oltraciò l'assoluzione
definitiva non serviva a nulla, perché l'Inquisizione sapeva trovare nuove
ragioni onde perseguitarlo, e terminava sempre col perderlo o almeno col
rovinarlo.
[31] Rodrigo de Valero è un personaggio storico, al quale l'autore ha
conservato il suo vero carattere. Bensì non viveva in Siviglia; Rodrigo de
Valero era un signore aragonese contemporaneo di Carlo V e di Giovanni
d'Avila.
Nella sua gioventù fu scostumato, ma tutto ad un tratto cangiò e si dedicò
ardentemente allo studio della Santa Scrittura. Da vizioso che era, divenne
uno dei più zelanti apostoli di Lutero, e spinse l'audacia a tal punto, che
quando si scontrava con dei monaci, o dei preti, li beffeggiava e li
rimproverava di allontanarsi dalle pure dottrine del vangelo. Fortunatamente
l'Inquisizione lo ritenne per pazzo, e non lo perseguitò. Per lungo lasso di
tempo, profittando di questa idea dell'Inquisizione, predicava nelle strade
e nelle piazze ove si radunava il popolo, a cui piaceva molto ascoltarlo; ma
l'Inquisizione finì per stancarsi delle sue prediche, e, fattolo arrestare,
lo condannò come eretico apostata e falso apostolo, a prigionia perpetua ed
alla confisca dei suoi beni..
Valero andava miseramente e indecentemente vestito, ma si formò numerosi
allievi, il più riguardevole dei quali fu il dottor Egidio, uomo di una
condotta esemplare e di egregi costumi, eloquente predicatore e sapiente
teologo. Egidio fu bentosto arrestato dall'Inquisizione e condannato a
subire una penitenza come sospetto di luteranismo. Poco dopo l'imperatore
Carlo V lo nominò vescovo di Tortosa; nomina che gli fruttò le persecuzioni
dei monaci e l'odio del Sant'Uffizio. Quest'ultimo lo fece nuovamente
carcerare. L'imperatore, che molto l'amava, scrisse reiteratamente in suo
favore all'inquisitore Valdes, che lo mise finalmente in libertà. Egidio
morì poco dopo la sua liberazione.
[32] Il ballo del lampione. Così si chiamano in Spagna i balli della plebe.
Sono balli in cui il lampione affumicato forma l'unica illuminazione, ed in
cui due o tre chitarre, stridule e malconce, accompagnando la voce dei
cantori o cantatrici di canzoni, formano l'orchestra.
[33] Pandero. S'immagini un telaio sul quale sia distesa ed attaccata della
pergamena, ed attorno a cui pendono molti sonagli di rame e molti nastri
colorati, e si avrà una giusta idea del pandero; strumento che potrebbe
dirsi un tamburo a doppia faccia di forma quadra. Il pandero è l'istrumento
per eccellenza, e nella maggior parte dei balli al lampione supplisce alla
chitarra. Questo strumento è adoperato dalle donne, ed è un bel regalo che
si fa alle donne del popolo spagnuolo, offrendo loro un pandero guarnito di
nastri e di sonaglieli, soprattutto quando si abbia avuto cura di far
dipingere sulla pergamena da una prte un cuore infiammato trafitto da
freccie, e dall'altro il ritratto di qualche celebre contrabbandiere.
[34] Majos. La parola majo non ha sinonimo nella nostra lingua, secondo
l'espressione
che le danno gli Spagnuoli. Il majo spagnuolo è un tipo che non si trova che
in Spagna, nell'Andalusia specialmente, ove esiste ancora nel primitivo
lustro. La parola majo significa non solo uomo amante del lusso all'eccesso
e non curante delle vane sue spese, ma significa ancora una specie di
professione. Per meritare il nome di majo non basta adottare il vestimento
di Figaro, vestimento caratteristico dei majos spagnuoli. Un giovane che
aspira al titolo di majo deve riunire una serie di qualità e difetti di
queste qualità. Così deve essere bravo, millantatore, buon cavaliere, buon
tiratore di scherma, ed espertissimo nel maneggiare il coltello ed il
pugnale. Deve danzare con molta grazia, essere forte suonator di chitarra,
saper cantare tutte le arie popolari alla moda, e specialmente improvvisare
un centinaio di strofe od una romanza amorosa. Finalmente, senza essere
toreador di professione, un majo è obbligato a saper provocare, piantar
banderuole sul collo d'un toro, ed ucciderlo secondo tutte le regole
dell'arte,
cioè con grazia, con coraggio, ed immergendo la spada fra le due scapole
dell'animale; però, sapendo tutte queste cose, un giovane spagnuolo non
meriterebbe ancora il nome di majo se no fosse sempre pazzo d'amore per una
sola donna, e galante verso tutto il bel sesso in generale, perocché
l'incostanza,
come l'indifferenza gli sono interdette. Il majo è generoso fino alla
prodigalità; quando trattasi di piacere alla sua diletta, sacrifica tutto ai
suoi minimi capricci; ma per sé è sobrio e indurato ad ogni fatica e
abituato a tutti i dolori; il majo spagnuolo detesta l'orgia ed ogni sorta
di lascivia, non conosce eccesso che in fatto d'amore, di coraggio o di
lusso.
L'avarizia è un peccato sconosciuto ai majos, un majo avaro sarebbe
disonorato. Dicasi lo stesso dell'ubbriachezza; un majo ubriaco sarebbe
mostrato a dito e disprezzato. Nei suoi rapporti con gli uomini il majo ha
una specie di dignità sdegnosa, che gli sta a meraviglia; egli deve mostrare
una estrema suscettibilità verso gli uomini, ed esser pronto a trar il
pugnale alla minima provocazione ad onta dei più grandi pericoli. Poiché per
lui ogni duello, ogni omicidio è un merito presso il bel sesso in generale,
e la sua diletta in particolare, purché non abbia ucciso nessuno
perfidamente. Dal fin qui detto si comprende che i majos sono quasi sempre
imbrogliati colla giustizia: ve ne sono alcuni che sono stati parecchi anni
nelle galere, e questo pure è un titolo per un majo di puro sangue, purché
quegli anni di galera non siano stati la punizione di un furto o di un
assassinio.
La majo è nel sesso femminino ciò che il majo è fra gli uomini; maneggia con
destrezza un pugnale; e più d'un amante infedele, più d'un rivale hanno
sentito la punta della sua lama.per divenire majo è è indispensabile essere
un bel giovane, e non aver passato l'età di venticinque anni, dopo questa
età, incomincia ad esser vecchio, e non più buono che ad improvvisare
canzoni, e fare il mezzano.
[35] Il Gazpacho è una vivanda comunissima in Andalusia non solamente presso
il popolo, ma anco presso le persone agiate. Consiste in alcuni pezzi di
pane che si bagnano nell'acqua, e si condiscono quindi con pepe rosso, olio,
aceto, e sale. Poi vi si aggiunge altr'acqua. Tale è il Gazpacho del popolo.
Le persone agiate vi aggiungono delle salsiccie tagliate a pezzetti, e
spesso dei pezzetti di bue salato. Si crede che il gazpacho sia una vivanda
molto rinfrescante. I soldati che sono di guarnigione nelle differenti città
del mezzogiorno della Spagna, ne ricevono una razione ogni dì dal 1° aprile
fino al 30 settembre. Dicesi che il gazpacho sia il miglior preservativo
contro le febbri calde, di sovente epidemiche nei quattro regni
dell'Andalusia,
cioè nelle provincie di Siviglia, Malaga; Cordova e Granata.
[36] Il guizado è in Spagna uno stufato di Bue o di montone tagliato a
pezzi, in cui si mettono cipolle, e soprattutto molto pepe ed altre spezie.
È un piatto classico che si serve ad ogni cena veramente spaguola.
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