XXVIII. Candore ed ipocrisia.
Malgrado le fatiche di questa lunga cerimonia che durò fino a due ore dopo
mezzogiorno, monsignore Arbues, ritiratosi nel palazzo inquisitoriale, non
poté gustare un sol momento di riposo. L'ardore inestinguibile di
quell'anima
dispotica e passionata dava al suo corpo un continuo bisogno di moto e di
attività: era come l'abisso di cui parla l'Ecclesiaste, mai sazio. Uomini
siffatti divengono inevitabilmente la provvidenza o il flagello
dell'umanità.
Ciononpertanto un'interna soddisfazione leggevasi sul volto
dell'inquisitore;
la certezza che Dolores era ormai in suo potere dava ai suoi tratti uno
splendore infernale; e come lo spirito delle tenebre, quando un'anima pura
cade fra le sue mani, ei gioiva del suo trionfo.
Josè, silenzioso e mesto, sfogliava una Bibbia latina in un canto della
camera. Un cupo presentimento sembrava agitarlo. Egli ignorava che la figlia
del governatore fosse scomparsa dalla casa di Giovanna, ma la gioia
dell'inquisitore
avendo qualche cosa di sinistro e di fatale, Josè ne fu spaventato come di
una sventura.
Per la prima volta eziandio, e per un istinto segreto, l'inquisitore si
sentì disposto alla diffidenza verso il suo favorito; non già che si
credesse malsicuro di lui; ma egli trovava un tale incanto in quella
soddisfazione sconosciuta, aveva durato tanta fatica a giungere al
compimento dei suoi desiderii, che, parlando della sua felicità anco ad un
intimo confidente, sembratagli di perdere una parte della sua illusione;
perciò tacque.
Solamente ad intervalli un sorriso involontario sfiorava le sue labbra, il
suo sguardo scintillava d'uno strano splendore, un rossore passeggero
coloriva la sua fronte ordinariamente pallida.
Di quando in quando Josè alzava lentamente i suoi grandi occhi neri di sopra
al suo libro per considerare il volto del suo signore.
Ei vedeva che quel volto tradiva emozioni insolite, ma non ne poteva
immaginare la causa.
Quando fu vicina mezzanotte, Pietro Arbues non poteva risolversi a differire
fino al giorno successivo la felicità di vedere Dolores. Aspettava che Josè
si fosse ritirato, e Josè, da vero favorito, si affrettava tanto meno ad
allontanarsi, quanto comprendeva che la sua presenza non era allora gradita
a monsignore. Poneva un persistenza calcolata a rimaner cogli occhi fissi
sulla sua Bibbia, di cui non leggeva neppure un parola.
Finalmente Pietro Arbues perdé la pazienza, si avvicinò a lui sorridendo, e
strappandogli il libro dalle mani:
"Lascia, mio Josè" gli disse; "tu riprenderai la tua lettura un'altra volta.
Io ho la volontà di dormire, e tu pure, mi sembra, poiché sei pallido come
un fanciulla nel giorno successivo ad un ballo."
"Tuttavia posso giurare a Vostra Eminenza che non sono niente stanco."
"Il tuo zelo è sì grande, mio buon Josè! Perciò spero, quando tu sarai più
avanti negli anni e la morte dei monsignore Alfonso Manriquez mi permetterà
d'aspirare al grado d'inquisitore generale, spero, io dico di farti nominare
grande inquisitore di Siviglia."
"Io non voglio però abbandonare Vostra Eminenza," rispose Josè.
"Povero fanciullo! Hai ragione, tu non mi lascerai; ma per il momento va a
dormire, va, figlio mio; noi abbiamo bisogno di ricuperare le nostre forze
onde continuare le nostre dure fatiche apostoliche."
"Egli ha certamente qualche progetto per la testa," pensò Josè, alzandosi
come per allontanarsi.
"L'atto-di-fede è vicino," aggiunse l'inquisitore; "le prigioni sono piene
di eretici giudicati o da giudicare, e bisogna segnalarci in presenza del
nostro gran re Carlo V, un monarca sì zelante per la religione del regno!"
Ma dicendo così si vedeva che monsignore Arbues parlava soltanto a fior di
labbra, e che l'animo suo era occupato da altri progetti.
Josè, dotato d'una perspicacia straordinaria, comprese che Carlo V era ciò
che meno occupava in quel momento il pensiero dell'inquisitore; dissimulò
prudentemente, e disse, fregandosi gli occhi:
"Io credo, monsignore, che il sonno prenda me pure; si degni Vostra Eminenza
di darmi la sua benedizione, e mi ritiro."
E il favorito inchinò la sua bella testa coperta di capelli neri, eccettuato
un piccolo spazio, dove la tonsura era appena accennata.
Pietro Arbues distese su di lui le mani riunite, pronunziò le parole
sacramentali, quindi soggiunse:
"A domani, figlio mio, vieni a vedermi innanzi all'ora della tortura."
E partì per la porta che conduceva nella sua camera da letto, e di là nella
strada per un scala segreta.
In vece di ritirarsi in casa don Josè scese le scale del palazzo: poscia,
giunto nel cortile, si nascose dietro un grande oleandro, e aspettò.
Era l'ora in cui, di sovente, Pietro Arbues usciva accompagnato da quattro
famigliari, o guardie del corpo degli inquisitori; impiego che aveva loro
assegnato Tommaso di Torrequemada, fondatore della milizia di Cristo, la cui
vita, essendo spesso minacciata a cagione delle sue crudeltà inaudite, aveva
resa necessaria questa precauzione.
D'ordinario Josè seguiva l'inquisitore nelle sue peregrinazioni misteriose.
Facendosi un riparo co' rami frondosi dell'oleandro, disse fra sé medesimo:
"Vediamo dove vuole recarsi senza di me."
Non tardò a veder partire monsignor Arbues, vestito, al di sopra della sua
tonaca e del suo scapolare da Domenicano, d'un ampio mantello alla spagnuola
e d'un cappello a larga tesa: precauzione che usava abitualmente per non
essere riconosciuto. Pietro Arbues camminava innanzi, i quattro famigliari
lo seguivano a qualche distanza, pronti al menomo cenno a difendere, col
pericolo della loro vita, quel propugnacolo della fede.
Appena chiusa dietro di essi la porta del palazzo Josè, il quale ne aveva
sempre seco la chiave, l'aprì senza farla stridere, e strisciò come una
serpe attraverso la porta semiaperta.
Allora vide Pietro Arbues dirigersi verso la strada dell'Inquisizione. Lo
seguì a passo lento, tenendosi lontano dai famigliari e camminando senza far
rumore, mercé i suoi sandali.
In meno di dieci minuti erano giunti alla porta delle prigioni del
Sant'Uffizio.
Monsignore Arbues si fermò, e batté in un modo particolare e convenuto. Josè
erasi a poco a poco avvicinato a lui.
Quel luogo era molto oscuro.
Josè strisciò leggermente contro il muro, ed appena l'inquisitore ebbe
varcata la soglia, il favorito entrò chiotto chiotto dopo di lui, a rischio
d'esser veduto.
Ma Pietro Arbues non pensava a lui. S'avvanzò a gran passi verso la scala
che conduceva al primo piano, e siccome era cosa consueta il veder Josè
accompagnarlo per tutto, il carceriere lo lasciò entrare senza ostacolo;
poscia richiuse accuratamente la porta, e prendendo in mano la sua lanterna
e il suo mazzo di chiavi, montò la scala in tutta fretta onde aprire a
monsignore la camera che fosse per indicare e onde fargli lume.
I famigliari erano rimasti al di fuori della prigione. Alcuni istanti dopo,
il carceriere discese nuovamente, e, senza curarsi del fraticello, entrò
nella sua stanza, ove si distese sur una panca per dormire, aspettando che
piacesse alla santissima Inquisizione di destarlo un'altra volta.
Josè allora salì, e siccome aveva udito camminare ed aprire una porta sulla
sua testa, si fermò al primo piano, pensando che ivi scoprirebbe quello che
bramava sapere.
Infatti aveva appena mosso alcuni passi a tentone nel corridoio, che vide un
raggio di luce, il quale veniva da una delle celle per il foro della
serratura; nello stesso tempo udì due voci a lui ben cognite: l'una
apparteneva all'inquisitore, l'altra era quella di Dolores.
Josè fremé di terrore all'accento di quella voce ben nota. Ei non poteva
comprendere per quale fatalità Dolores fosse stata rapita dal ritiro che
avevale scelto.
"Io m'inganno," pensò fra sé medesimo, ma lo stesso suono di voce, elvandosi
a note più distinte, venne nuovamente a farlo trasalire.
Preso da una mortale ansietà, tentò di vedere attraverso l'angusta apertura
dalla quale veniva il raggio di luce. La chiave, che era rimasta al di
dentro, non gli permetteva di distinguere gli oggetti. D'altronde il lume
gli sembrò che fosse posto di faccia alla porta, e le voci venivano da un
punto più lontano; concluse che dovevano essere a destra, dal lato in cui
era il letto.
Nell'impossibilità di vedere, si mise ad ascoltare. Ecco ciò che seguiva in
quella camera.
Nel momento in cui Pietro Arbues era entrato, la figlia del governatore era
seduta sulla sponda del letto, colla testa appoggiata sui guanciali. Dopo il
suo ingresso nella prigione, non aveva lasciato i suoi abiti; ma dopo una
notte ed un giorno intiero pieni di terrori e d'angosce, cedendo finalmente
ad un abbattimento insormontabile, erasi leggermente addormentata. Perciò
inclinata su quel letto d'un singolare candore, sul quale i suoi abiti neri
staccavano quasi in rilievo, la fanciulla aveva una grazia toccante ed
inesprimibile.
L'orlo della sua veste era stato castamente ricondotto sui suoi piedini, di
cui non si vedevano che le estremità. Una delle sue mani era, come il suo
braccio, gettato attorno al suo personale: l'altra, posta con abbandono sui
cuscini, sosteneva quella vezzosa testa pallida ed abbattuta. La sua fronte,
sì pura e sì altiera, che somigliava ad un bel marmo, era in quel momento
d'un
bianco smontato, e solcata verso le tempie di vene turchine e trasparenti.
L'ombra
delle sue lunghe ciglia, che si delineava sulle pallide gote, dava pure a
quel nobile volto una più profonda espressione di tristezza e di
scoraggiamento. Pareva si fosse addormentata fra pensieri di morte, volgendo
gli occhi sdegnosa da quel mondo di morte nel quale aveva tanto sofferto.
Nel vederla così, più bella nel suo dolore di quello che gli fosse mai
sembrata nei giorni della sua prosperità, il feroce inquisitore si fermò
commosso e tremante, quasi avesse temuto di commettere un sacrilegio. Una
emozione inesplicabile, un rimorso, forse, fé vacillare quell'uomo
indomabile, che altro padrone non conosceva fuori delle sue passioni.
Guardò attorno a sé con una specie di terrore, come per assicurarsi che non
v'erano nell'aria testimoni invisibili pronti ad accusarlo.
Il più profondo silenzio regnava nella camera, ove non si udiva che la
respirazione tranquilla ed uguale della fanciulla addormentata.
Pietro Arbues si sforzò a discacciare quell'importuno terrore che lo aveva
assalito:
"Sono pazzo!" disse a sé medesimo.
Si assise sur una poltroncina presso al capezzale della prigioniera.
Dolores non s'era ancora svegliata.
Pietro Arbues ebbe tempo di considerarla per alcuni minuti, e di saziare
l'anima
sua all'aspetto di lei; ma di mano in mano che la percorreva così con occhio
audace, numerando senza pudore nella sua mente i vezzi di quella casta
giovinetta, le sue emozioni cangiarono di natura. A quel vago terrore, da
cui s'era lasciato sorprendere, succedette uno di quegli accessi di passione
frenetica, che lo immergeva in una dolorosa esaltazione. Tuttavolta, ad onta
della sua incredibile audacia, e della certezza dell'impunità, non osò
commettere il delitto in tutto il suo orrore. Era un segreto rimorso che il
fermava? Era il timore di aggiungere un misfatto di più alla massa già
enorme dei suoi delitti? Ovvero era per un raffinamento di lussuria che
quest'uomo, dalle passioni sfrenate, temeva di trovar scarso piacere in una
sì facile vittoria? L'anima umana è un abisso impenetrabile; perciò ci
asteniamo dal risolvere la questione.
Il fatto è che quella lotta interna salvò in quel momento la figlia del
governatore: Abbiamo detto ch'essa era leggerissimamente addormentata.
L'inquisitore, immerso in un'estasi profonda, la contemplava con avidità,
ma non ardiva destarla. Nel suo delirio, si piegò dolcemente verso la mano
che riposava sul guanciale, e vi posò le sue labbra, che bruciavano.
A quel contatto colse un fremito in tutte le membra di Dolores, la quale
alzò a metà le gravi sue palpebre, ed all'aspetto di quella cupa figura che
sorgeva a lei davanti, mandò un grido di spavento, cuoprendosi il viso con
le mani.
"Hai dunque paura di me?" disse Pietro Arbues con dolcezza.
"O monsignore! monsignore! perché mi perseguitate così?" esclamò la giovine
con voce interrotta. Fu in quell'istante che Josè l'udì.
"Figlia mia," rispose Pietro Arbues, ricondotto al suo posto d'inquisitore
dallo spavento che inspirava, "figlia mia, il pastore cerca sempre la
pecorella che si smarrisce finché l'abbia ritrovata."
Dolores, che s'era posta a sedere sul letto, guardò l'inquisitore con
diffidenza, ed un amaro sorriso sfiorò le sue labbra; poscia disse
lentamente:
"Anco il lupo cerca la pecorella per divorarla."
"Dolores!" riprese il degno scolaro di Domenico di Guzman irritato di vedere
la sua ipocrisia cadere davanti alla rettitudine ed al candore d'una
fanciulla; "Dolores! Io vedo con dolore la vostr'anima accecata e pervertita
dalle abominevoli dottrine della riforma. Chi ha fede in Dio, ha fede
ne'suoi
ministri, e voi non credete più in me."
"Siate giusto e buono come Iddio," rispose la coraggiosa fanciulla. "io
obbedirò al servo quando seguirà i precetti del suo padrone. Ma che mi
domandate, monsignore?d'adorare la mano che, per colpire, cerca sempre il
posto in cui si trova un capo innocente?volete voi ch'io benedica colui il
quale ha fatto di mio padre, del mio nobile padre, un cadavere vivente?"
"Povera insensata! Siete voi sì innanzi nella via della perdizione, che la
verità non possa dissipare le vostre tenebre profonde? Ignorate voi che noi
colpiamo il corpo caduco onde salvar l'anima immortale?"
"Ah! Monsignore, se tali sono i vostri mezzi di salvare le anime, credetemi,
rinunziateci più presto, essi non sono atti che a far dubitare della
giustizia divina!"
"Ecco," proseguì l'inquisitore, "sempre questa ostinazione e questa
insubordinazione alle leggi della Chiesa; conseguenze della dottrina di un
monaco apostata. Non sapete, o fanciulla, che Dio stesso ha detto: -Ogni
albero che non darà buon frutto sarà tagliato e gettato al fuoco, - e ha
detto eziandio: -Scacciate la pecora scabbiosa dal gregge?- Ecco perché la
santissima Inquisizione, per obbedire agli ordini del suo maestro, estirpa
tutti i membri malvagi del cattolicesimo, la perversità dei quali minaccia
d'infettare
la grande famiglia cristiana."
"Monsignore, il maestro ha detto questo; ma egli ha detto pure: -Non
estirpate il loglio, aspettate il tempo della mietitura. Perché, dunque
impiegate contro di me le persecuzioni e la violenza? Perché mi avete tolto
il genitore? Che v'ha fatto per torturarlo così?"
"Ha pervertito l'anima vostra colla sua colpevole tolleranza.
L'Inquisizione,
volendo punirlo, ha operato secondo giustizia; poiché è per i padri che la
corruzione giunge ai figliuoli."
L'inquisitore, esprimendosi così, aveva una maestà tutto biblica; anco
l'ipocrisia
era grandiosa in lui. La sua parola severa, il suo gesto grave e misurato,
il suo accento energico e sonoro, la giustezza apparente delle sue arguzie,
avevano una gran forza d'affascinazione; ma Dolores, malgrado la sua
giovinezza e la sua inesperienza, aveva un troppo retta ragione per
lasciarsi convincere.
L'uso abbominevole a cui Pietro Arbues adoperava le pregevoli facoltà della
sua intelligenza le inspirava un atto di dispregio, e questo sentimento
leggevasi nella sua nobile fisionomia.
Inoltre essa aveva paura di trovarsi sola con lui in quella prigione, nella
quale ei comandava da re.
Troppo altiera, e troppo candida per dissimulare le sue impressioni, essa
temeva tuttavia d'irritare ulteriormente quell'uomo, dal quale dipendeva la
vita di suo padre; e su quel viso severo in cui l'intolleranza aveva
lasciata la sua impronta di ferro, essa cerva se fossevi rimasta qualche
traccia di sensibilità; se quel feroce inquisitore, per cui la morte di un
uomo non era che un giuoco, avesse ancora nel cuore qualche fibra che
potesse essere tocca.
Ma il volto di Pietro Arbues non esprimeva che una durezza spietata.
Soltanto la passione che lo divorava fiammeggiava da' suoi occhi: la
prigioniera abbassò lo sguardo e non osò parlare.
"Dolores!" riprese l'inquisitore con accento soave e tranquillo; "non volete
dunque convertirvi?"
"Io sono cristiana di cuore e d'anima, monsignore; perché dunque mi
perseguitate?"
"Oh fanciulla! Come t'inganni intorno ai miei veri sentimenti," disse Pietro
Arbues, avvicinandosi alla giovinetta, mentre serrava contro il suo corpo la
sua gonnella di seta che strisciava sulla tonaca dell'inquisitore.
"Tu mi abborri dunque?" disse con dispetto.
"Grazia, monsignore! Grazia e pietà!" soggiunse essa, giungendo le mani con
terrore: "rendetemi il padre, rendetemi la libertà; io ve lo chieggo nel
nome del Dio che adoro, nel nome di quel gran martire che morì sulla croce
per redimerci."
"Oh! Se tu volessi!" proseguì egli, riguardandola con spassionata
ammirazione.
Dolores fremé e divenne pallidissima! Si rammentava la scena che alcuni mesi
prima, era accaduta nel suo oratorio; ed in quell'istante era in potere
dell'inquisitore.
Josè udiva di fuori tutta quella conversazione; egli pure tremò per Dolores;
ma mentre accostava il suo orecchio alla serratura per non perdere una
sillaba, la porta cedé leggermente, e si avvide che non era stata chiusa.
Allora si ritirò alquanto indietro perché non si aprisse maggiormente.
L'inquisitore proseguì, facendo a sé medesimo estrema violenza per restare
tranquillo, mentre era divorato da tutte le fiamme della passione.
"Chi vi ha detto, figlia mia, ch'io non ho agito così con voi per ricondurvi
alla vera fede, da cui vi eravate allontanata, ad usar quindi della
misericordia e della indulgenza del buon pastore? Comprendete dunque che voi
mi siete molto cara, e che non intendo farvi alcun male?"
Un moto quasi impercettibile delle labbra fu l'unica risposta della figlia
del governatore.
"Oh Dolores!" proseguì il Domenicano, "voi non potete comprendere quanto è
grave e faticosa la missione che Dio ci ha imposta di governare gli uomini e
di ricondurli nel retto sentiero. Soventi volte il nostro zelo medesimo ci
attira l'odio e la collera degli eretici, e la nostra ricompensa quaggiù è
di portare incessantemente una croce pesante.Ma," proseguì con accento
penetrante ed ipocrita, "Iddio nella sua bontà, ci riserba talvolta delle
consolazioni mai sperate. Vi sono delle anime elette, la vostra, per
esempio, alle quali ci è lecito accordare non solo un'affezione spirituale,
ma eziandio quella parte d'amor terrestre che, senza offendere la maestà di
Dio, l'onora invece e lo glorifica nella sua creatura. Sono queste anime
elette che sopra tutto ne sta a cuore di togliere all'errore, perocché sono
fatte per servir di esempio alle altre, e per giungere a questo scopo, i
mezzi di dolcezza, di tenerezza e di persuasione essendo i più sicuri, la
nostra anima attende con ardore a questa conquista gloriosa. Ecco perché vi
amo, Dolores, perché vorrei versare in voi questa profonda tenerezza dalla
quale il mio cuore è compreso."
Pietro Arbues parlava con unzione, con calore, e la semplice fanciulla, non
potendo farsi idea di tanta nequizia, dubitò un momento se avesse troppo
precipitato nel condannar quell'uomo.
"Sarebbe possibile," pensò essa, "ch'egli non avesse in mira che
gl'interessi
della religione?"
Essa cessò di considerare l'inquisitore con diffidenza; e guardandolo coi
vezzosi suoi occhi:
"Monsignore, disse con nobiltà, "io vi credo; quale interesse avreste ad
ingannare una povera fanciulla che non vi ha fatto niente? Ebbene! Se
pensate che io sia nell'errore, istruitemi, monsignore, io sarò docile, e
non domando che la verità. Voglio praticare con amore la dottrina del nostro
divin Salvatore. Se ho fuorviato riconducetemi nel buon sentiero, io vi
prometto di seguirlo; ma liberate mio padre, e rendetemi alla sua tenerezza.
"Dolores!" gridò l'inquisitore trionfante, "mia bella Dolores! Io amo di
vederti sì docile ed incantevole; sì, io ti renderò a tuo padre! Ti renderò
alla libertà. Oh1 qual donna sarà più felice e più amata? Io riporrò in ten
tutte le mie affezioni."
Parlando così, il monaco impudico erasi alzato, il suo sguardo fisso sulla
fanciulla, brillava d'uno splendore fiammeggiante.
Per un istinto di pudore messo in guardia, Dolores era discesa dal letto, ed
ormai i suoi piedi toccavano il suolo.
L'inquisitore non parlava, ma il suo petto, tumido di desiderii, si
sollevava mandando un soffio rumoroso e rapido; solo il nobile candore della
giovinetta tratteneva ancora il torrente della sua sfrenata passione..
Seguiva in lui un feroce combattimento.
Per alcuni secondi rimase in piedi spaventato, non osando commettere un
nuovo delitto. Nella sua immaginazione vide passare ed aggirarsi come in
sogno tutte le sue vittime: esse erano ivi, davanti a lui, che mandavano
gridi ed urli, fra cui la parola vendetta!, vendetta!, rimbombava come un
tintinnio d'una campana a martello. Bentosto la sua vista si turbò, la
passione lo serrava come fra ardenti tanaglie; allora, pari ad un uomo preso
da vertigine che si getta a testa bassa in una voragine, l'inquisitore
distese in avanti le sue due braccia, e slanciandosi verso la giovinetta
rimasta immobile:
"Ah! Lascia." gridò con voce spaventevole.
Dolores cacciò un urlo terribile.
"Monsignore!" esclamò Josè, aprendo la porta della prigione.
Pietro Arbues, reso a se stesso da quella inaspettata apparizione, alzò
fieramente la testa con un'aria cupa ed irritata:
"Che venite a far qui?"diss'egli.
"Monsignore, io veniva come Vostra Eminenza a tentare di convertire alcuni
eretici."
"Per Cristo! Siete stanco di vivere voi che attraversate così il mio
cammino?"
"Monsignore non conosce lo zelo del suo più fedele servitore," rispose il
favorito, con accento ironicamente umile; "ma il servitore non ha nulla a
temere da sì buon padrone, e Josè l'inquisitore non ha paura
dell'Inquisizione[1].
Dolores guardava con sorpresa il giovine Domenicano; ma con un cenno ei le
ingiunse di mostrare di non conoscerlo.
"Uscite!" disse imperiosamente l'inquisitore.
"Io non uscirò che con Vostra Eminenza," rispose il favorito; "rumori di
rivolta circolano nella città, parlasi di cospirazione contro la vostra
vita."
"Davvero?" riprese l'inquisitore, un poco inquieto.
"Sì, monsignore. Io vi accompagnerò dunque, poiché al bisogno questa buona
lama di Toledo potria difendere Vostra Eminenza," soggiunse mostrando un
pugnale affilato che portava sotto il suo scapolare; "è un'arme eccellente,
monsignore, e non tradirà mai il suo padrone!..."
E Josè accarezzava con il pollice il tagliente di quella lama lucida come
specchio.
"Venite adunque, monsignore, e non temete di nulla."
Pietro Arbues, cedendo suo malgrado alla influenza di Josè, che in quel
momento detestava di tutto cuore, si avvicinò a Dolores, e le disse
dolcemente:
"Spero di trovarvi domani con sentimenti più sommessi, figlia mia."
"Oh! Io vi odio!" rispose essa, volgendo la testa con disgusto: "fatemi
morire con mio padre, è la sola grazia ch'io voglio da voi!."
Josè trascinò via l'inquisitore.
"Oh! Voglio vendicarmi di essa!." esclamò Pietro Arbues serrando i denti con
rabbia, "che farò io per sottomettere questo spirito indomabile?"
"Monsignore," rispose il favorito, "mandatela nella camera della penitenza."
XXIX. La tortura dell'acqua.
Difficil cosa sarebbe di formarsi una giusta idea della rabbia e del
turbamento dell'inquisitore Pietro Arbues, vedendo le sue più segrete
macchinazioni e le meglio ordite svanire per una inesplicabile fatalità.
Malgrado il suo affetto per Josè, non gli perdonava di averlo sorpreso nella
prigione di Dolores. Non che immaginasse o comprendesse minimamente
l'interesse
che il suo favorito prendeva per quella fanciulla, poiché le persone meno
accorte sono quelle abituate a servirsi dell'astuzia e della furberia, di
più l'inquisitore non aveva il minimo rammarico contro Josè. Ei lo
riguardava semplicemente come un ragazzo scapestrato, a volta a volta
impudente col maestro, o pieno di baloccaggini incantevoli, che facevano
perdonare la sua audacia; ma non gli veniva in mente che Josè, quel grazioso
giovinetto, Josè, sua creatura, potesse tradirlo, e bisogna convenirlo, il
giovane Domenicano gli era ancora più caro di Dolores. Questa eccitava i
suoi desiderii, quegli era sempre pronto a favorire i suoi capricci, ad
applaudire alle sue azioni inique, ad incoraggiarlo nel male; quando, la
superba anima sua, piegando talvolta sotto il fardello di tante iniquità, ei
domandava a sé medesimo, nel segreto della sua coscienza, se quello stesso
Iddio, di cui profanava il nome, non serberebbe un giorno per lui vendette
eterne e terribili.
Ecco perché quell'uomo, che talvolta disperava del cielo, si gettava con
furore in mezzo alle gioie frenetiche della lussuria.
Si rammenti il lettore che era giorno di tortura.
L'atto-di-fede avvicinavasi. Un gran numero d'accusati doveva figurare in un
scena di quel lungo e terribile dramma che durò tre secoli.
Josè, colla sua solita audacia, entrò presso l'inquisitore, mentre questi
era ancor nel suo letto, stanco d'una notte di veglia.
Alla vista del suo favorito, Pietro Arbues aggrottò il sopracciglio; il
giovane Domenicano non si turbò, ed avanzandosi fino al letto fastoso e
reale:
"Monsignore ha qualche comando da darmi?" diss'egli con quella voce dolce e
sommessa, il cui accento fascinatore era irresistibile?
"La vostra audacia è veramente grande," disse Pietro Arbues; "dopo la scena
di questa notte osate ancora presentarvi davanti a me?"
"Monsignore m'aveva ordinato di vederlo innanzi l'ora della tortura,"
rispose umilmente il favorito.
"Io credeva José fedele e Josè non lo è." Replicò l'inquisitore che non
pensava ad una parola di ciò che diceva; tutta la sua collera era svanita ad
un sorriso di quell'essere giovane e bello, eccentrico, che era divenuto una
necessità della sua esistenza.
"Josè si è esposto al corruccio di Vostra Eminenza per vegliare alla vostra
sicurezza; l'umile Domenicano raccoglie i rumori che circolano, vede venir
l'uragano,
e vuole scongiurarlo: ecco tutto quel di cui è colpevole, monsignore."
"Siam noi dunque sì deboli che dobbiamo tremare dinnanzi ad alcuni ebrei e
ad alcuni marrani ribellati?" replicò Pietro Arbues con altiero sembiante.
"Monsignore," rispose il favorito, "il serpente che striscia sulla terra
morde talvolta il leone, che è il re delle foreste.,Ogni piccol nemico è a
temersi, e per abbatterlo sicuramente, è d'uopo dapprima di non lasciarsi
assalire. La prudenza è la madre della sicurezza. Vegliamo, monsignore, non
è questo il momento di addormentarsi fra i piaceri della terra, il nemico è
vicino, prepariamoci a combatterlo.
Pietro Arbues, come tutte le anime ardenti ed appassionate, aveva un lieve
tendenza alla superstizione; malattia, del resto comunissima, nel tempo in
cui vivea. L'accento profondo di Josè, e la sua ria di convinzione produsser
sull'inquisitore l'effetto che il favorito attendevasi. Fra le mani di quel
fanciullo, il feroce Arbues diveniva una molle cera.
"Dolores Argoso sarà dunque la sola donna che mi avrà resistito?" riprese
bentosto con dispetto, assediato com'era da questo pensiero.
"Dolores Argoso non è una donna come le altre, monsignore; essa comprende
che abbandonarsi corpo ed anima per salvare coloro che si amano non è
salvarli, e che è meglio morire con essi che sopravviver loro."
Ciò fu detto con tale accento d'amarezza che colpì vivamente l'inquisitore,
e si scosse involontariamente, come se fosse stato commosso da una terribile
rimembranza.
Josè lo squadrava con uno sguardo profondo; sembrava assaporare con delizia
le torture di quell'anima che dominava a suo bell'agio.
"Sono con voi, Josè," disse tutto ad un tratto Pietro Arbues, quasi
rianimato da una subitanea risoluzione."Orsù," soggiunse, "non bisogna far
languire i tormentatori, questi bravi ausiliarii. Quanti sono alla tortura
d'oggi?"
E come se avesse voluto soffocare le sue angosce e la sua rabbia nelle
orribili voluttà della tortura, si mise a contare ad alta voce le vittime
che passavano sotto i suoi occhi.Questa tigre lanciata nel circo, pascevasi
già dei dolori della preda che doveva divorare.
Alcuni minuti dopo era in piedi.
"Vieni, figlio mio," disse a Josè: "lo zelo nostro per la causa del cielo ne
consoli degl'inganni della terra, e ci meriti la protezione di Dio!"
Quando giunsero alla prigione, i corritoi erano pieni; i due tormentatori,
vestiti della loro lugubre assisa, frustavano, cacciandoli innanzi, sei
prigionieri, fra i quali erano tre donne. Una di esse, giovane, grande e
bella, quantunque sfigurata dalle sofferenze del carcere, portava fra due
file di denti bianchissimi un bavaglio che le vietava di gridare.
Quegl'infelici
erano nudi fino alla cintola, le donne siccome gli uomini; le loro spalle,
contuse dalla frusta, erano coperte di lividure turchine, e ad onta di
questo spaventevole supplizio, niuno di essi proferiva il più leggiero
lamento.
L'inquisitore passò avanti ad essi senza sembrare commosso; Josè solo
fremeva internamente d'una dolorosa pietà.
La donna avente lo sbavaglio era l'ultima. Giunta in faccia a Pietro Arbues,
lo guardò fisso, e non potendo parlare, i suoi occhi neri, fatti più grandi
dal pallore e dallo smagrimento del volto, i suoi occhi pieni d'odio, di
disperazione e di vendetta, si fermarono su quelli dell'inquisitore, come
per dirgli:
-Non mi riconosci?-
Pietro Arbues l'aveva infatti riconosciuta, malgrado lo spaventevole
mangiamento dei suoi tratti.
"Francesca!" mormorò, abbassando gli occhi davanti a quello sguardo
fulminante.
La badessa delle Carmelitane non poteva parlare, alzò gli occhi verso il
cielo come per citare il suo carnefice al tribunale del gran giudice.
L'inquisitore passò, ed i carnefici proseguirono il loro crudele ufficio.
Pietro Arbues ed il suo favorito erano per vedere uno spettacolo ben
altrimenti eccitante e più fertile in sensazioni della miserabile cerimonia
della frusta[2].
Quando furono scesi nella camera del tormento, i birri condussero una
giovane e bella donna, d'un pallore spaventevole, sì debole e malata, che
aveva appena la forza di sostenersi, il suo occhio oscuro ed estinto, di
angelica dolcezza, sembrava implorar grazia. Quando fu in presenza
dell'inquisitore,
fece uno sforzo per giungere le sue deboli e bianchissime mani.
"Il figlio mio!" mormorò con voce che appena si udiva.
"Figliuola," disse l'inquisitore, sempre con quell'accento melato ch'ei
sapeva assumere, "la vostra sorella è luterana, e venite accusata di averla
incoraggiata nella sua apostasia."
"E' falso! È falso" rispose la sventurata con tutta l'energia che le
lasciava il suo stato di deperimento e di debolezza.
"Non avete nulla da dire per appoggiare questa negativa?"
"Mio figlio! Rendetemi il figlio!" ripeteva quella sventurata con accento
lacerante.
Questo figlio, ch'ella reclamava con tanta angoscia, aveva appena otto
giorni; poiché quella povera madre, imprigionata mentre ancor lo portava nel
seno, era stata sottoposta alla tortura, quasi subito dopo il parto, come lo
attestavano i suoi polsi contusi.
Ma sotto il peso di un'accusa sì grave come quella di avere incoraggiata la
sorella che aveva abbracciato apertamente il luteranismo ed era passata in
Alemagna, usare potevasi soverchio rigore.
Né le sue lagrime, né le sue suppliche, sì pietose che avrebbero intenerito
una rupe, commossero lo spietato Arbues; Josè solo nascondeva sotto la sua
esterna impassibilità una emozione terribile e profonda. Il suo cuore
tremava, oppresso da intensa pietà. Gli abbisognò tutta la forza che gli
avevano data lunghi anni di dissimulazione per non prorompere in singhiozzi
ed imprecazioni.
Arbues, al contrario, come se il dolore e le lacrime dovessero essere il suo
eterno alimento, geloso inoltre di dimostrare il suo zelo per la fede
cattolica perseguitando fuor di modo il luteranismo, che sapeva essere lo
spauracchi di Carlo V, Arbues fece un cenno, bentosto i tormentatori
afferrarono la loro vittima.
Non avevano bisogno d'ordine per sapere quello che dovevano fare: era la
seconda volta ch'essa subiva la tortura.
Due uomini vigorosi e robusti portarono un cavalletto nel mezzo della
camera.
Quest'orribile strumento di legno, fatto a forma di truogolo, largo
abbastanza da contenere il corpo di un uomo, non aveva altro fondo che un
bastone sul quale il corpo si curvava per effetto d'un meccanismo,
dimanieraché il paziente aveva la testa più bassa dei piedi.
I tormentatori alzarono la povera donna mezza morta, poscia le legarono le
membra con corde di canapa.
La vittima li lasciò fare senza mettere un grido. Ma l'inquisitore essendosi
avvicinato ad essa per esortarla nuovamente a confessare il delitto di cui
veniva accusata, l'infelice protestò di nuovo la sua innocenza.
"Impenitente! Impenitente!" esclamò il grande inquisitore, con sembiante
triste e desolato.
A tali parole, due uomini robusti girarono con forza un randello di legno
che, serrando le corde colle quali la vittima era legata, la strinsero con
tanta violenza che il sangue spruzzò fin sui carnefici. La sventurata mandò
un grido d'agonia, debole, ma lacerante; sarebbesi detto che tutta la sua
forza di soffrire fosse espressa in quel grido.
I tormentatori asciugarono freddamente col rovesci dell loro larga manica
nera il sangue di cui era macchiata la loro cappa.
Pietro Arbues si avvicinò nuovamente.
"Confessate, sorella mia," le disse con voce carezzante.
La povera donna, che non aveva più forza di parlare, fece colla testa un
segno negativo.
Nella posizione in cui era stata posta, essa poteva appena respirare.
"Impenitente!" ripeté l'inquisitore.
I tormentatori posero allora sul volto della paziente un finissimo pannolino
inzuppato d'acqua, una parte del quale fu introdotto nella sua gola; l'altra
copriva le narici, poscia versarono lentamente dell'acqua nella bocca e nel
naso.
L'acqua infiltratasi a goccia a goccia a traverso il pannolino bagnato, ed a
misura che s'insinuava nella gola e nelle fosse nasali, la vittima, la
respirazione della quale diveniva sempre più difficile, faceva sforzi
inauditi per inghiottire dell'acqua ed aspirare un poco d'aria; ma ad ogni
suo sforzo, che necessariamente imprimeva a tutto il suo corpo una dolorosa
convulsione, i tormentatori giravano il randello, e la corda penetrava fino
ai nervi.
Era uno spettacolo orribile.
Josè col volto coperto dalle sue mani, nell'attitudine di una profonda
meditazione, asciugava colle sue dita lacrime amare. Il suo cuore palpitava
con violenza, e quando talvolta alzava la testa, le sue gote, all'incerta
luce delle torce che rischiaravano quel pandemoni, sembravano avere il
livido pallore della morte.
Pel corso di quasi mezz'ora i tormentatori versarono così dell'acqua, a
goccia a goccia, nella gola della paziente, rianimandola di tanto in tanto
collo stringere più fortemente le corde attorno alle sue membra.
Ad ogni nuovo giro di randello, quella misera creatura mandava un grido più
debole, un grido di inesprimibile agonia, nel quale si esalava ciascuna
volta una parte dell'anima sua.
Finalmente quel grido divenne sì debole, che il medico dell'inquisizione, il
quale assisteva d'ordinario a quelle lugubri tragedie, si avvicinò alla
paziente, pose le dita sul suo polso, e volgendosi verso il grande
inquisitore:
"Monsignore," gli disse, questa donna non può soffrire ulteriormente senza
morire[3].
"Si sciolga," disse Pietro Arbues, "la tortura è sospesa fino a
nuov'ordine[4]."
I tormentatori tolsero subito il pannolino che copriva il viso della
torturata; ma quando ebbero sciolti ad uno ad uno i legami che circondavano
le sue fragili membra, si avvidero che quelle membra erano state tagliate
fino all'osso, tanto le corde erano entrate innanzi nelle carni.
Josè allora si avanzò colpito da inesprimibile orrore, e dopo aver
considerato il viso della vittima:
"Monsignore," disse, "la tortura è finita: questa donna è morta."
"Credete?" domandò l'inquisitore.
Nello stesso tempo i tormentatori avendola sollevata, ed il suo corpo
riprendendo la sua posizione verticale, quella infelice fu presa da un
singhiozzo convulso, e un torrente di nero sangue uscì dalla sua bocca;
quindi senza aprire gli occhi, mormorò a bassa voce un'ultima volta questa
parola, quasi non intelligibile:
"Il figlio!."
E trasse l'ultimo respiro: e la sua vaga testa pallida e scarmigliata, cadde
sul braccio d'uno dei suoi carnefici.
"Iddio abbia misericordia di lei!" mormorò Pietro Arbues.
"Monsignore, se questa donna fosse innocente?" disse piano Josè.
"In questo caso, essa è in cielo," rispose il grande inquisitore; "perché
deplorar la sua morte?[5]"
Due birri portarono via il cadavere, ed una nuova vittima comparve davanti a
Sua Eminenza.
Era questa un vecchia e degna donna, la cui testa era incanutita
nell'esercizio
della più sublime carità. Si chiamava Maria di Borgogna, soprannominata la
madre dei poveri[6], arrestata il giorno della sommossa sulla deposizione
comprata da uno schiavo, il quale pretendeva di averla udita dire:
"I Cristiani non hanno né fede né legge."
Maria aveva allora novant'anni, e quantunque il Consiglio della Suprema
proibisse espressamente di applicare la tortura a persone avanzate di
età[7], la coraggiosa vecchia aveva già subito la tortura della corda e
quella dell'acqua. Pareva che un forza divina sostenesse quel corpo fragile
e debole che non aveva più che alcuni giorni da vivere.
I suoi immensi averi avevano tentato il fisco, e non sapendosi di che
accusarla, era stata arrestata come giudaizzante.
"Sorella," le disse il grande inquisitore, sempre con mansuetudine
evangelica, "volete finalmente confessare il vostro delitto ed ottenere il
perdono?"
"Io sono innocente!" rispose altiera la madre dei poveri; "avvenga di me
quello che Dio vorrà."
"O santa religione di Gesù crocifisso!" esclamò il Domenicano, "non
giungeremo dunque mai a farti trionfare sulla terra?"
"Orsù," disse ai tormentatori, mostrando un braciere ardente, che illuminava
il canto più oscuro della grotta.
"Pietro Arbues!" gridò la vecchia, con un accento inspirato, "tu sei
maledetto da Colui che discese sulla terra per benedire!"
"E' un'ebrea! È un'ebrea!" dissero i birri ed i tormentatori, segnandosi
spaventati.
Così parlando, strapparono ad uno ad uno gli abiti della vecchia.
Quando fu quasi tutta nuda, vollero alzarla nelle loro braccia; ma essa li
respinse con un gesto pieno di dignità. "Io camminerò," disse; "dove bisogna
andare?"
I tormentatori accennarono colla mano il largo braciere che ardeva
nell'ombra
all'estremità della camera del tormento.
Maria si diresse con passo fermo da quel lato, e considerò senza impallidire
quella voragine di fuoco che sembrava innalzare nell'oscurità le sue mille
lingue di fiamma, quasi fosse stata avida della preda che le era destinata.
I tormentatori distesero la paziente sur una panca di legno, a lato del
braciere, e ve la legarono fortemente con delle corde, di maniera che le era
impossibile fare il minimo movimento.
Maria si lasciò legare senza resistenza. Allora, imprimendo alla panca un
movimento di rotazione, la situarono in modo che una delle estremità, quella
in cui riposavano i piedi della paziente, toccava quasi i carboni ardenti.
Alla prima azione del fuoco, Maria di Borgogna mandò un gran sospiro, sola
espressione di dolore che attestasse le sue sofferenze.
"Abbiamo dimenticato qualche cosa," disse tutto ad un tratto uno dei
carnefici, vedendo i piedi della vittima divenire eccessivamente rossi,
poscia divenir bianchi, come pergamena che arde.
"E' vero," disse l'altro, "non ci aveva pensato."
Andò a prendere in un canto un piccol vaso di terra pieno d'olio, e per
mezzo d'una spugna attaccata in cima ad un bastone, ne bagnò i piedi della
paziente.
L'azione del fuoco, eccitata dalla presenza di quel corpo grasso, divenne in
pochi minuti sì penetrante, che la pelle screpolò, le carni si contrassero,
e ritirandosi, lasciarono allo scoperto i nervi, i tendini e le ossa.
L'Inquisizione era dotata d'un abbominevole genio d'invenzione. A questo
incredibile supplizio Maria oppose una fermezza eroica, e quando il dolore,
divenendo intollerabile, le strappava un involontario lamento, essa gridava
come Cristo agonizzante:
"Mio Dio! Perdonate loro perché eglino non sanno quello che fanno."
Sì, senza dubbio: l'Inquisizione aveva degli strumenti ciechi, fanatici, e
per ciò scusabili, i quali non sapevano quello che facevano. Quale
corporazione religiosa e segreta non ne ha? Perciò non sono essi che vengono
accusati, ma coloro nei quali risiede li spirito della cosa, ma coloro che
comandano, e prostituiscono una religione santa al servigio delle più
malvagie passioni. Gli altri non sono che strumenti passivi della società,
inabili a prender parte agli avvenimenti e alle loro conseguenze, ripari
preservatori dietro i quali si ricoverano i capi durante la battaglia.
La religiosa esclamazione di Maria era quella di una martire cristiana, e
non d'un'ebrea. Tuttavia il supplizio fu prolungato per tanto tempo quanto
lo permisero le sue deboli forze.
Quando fu trasportata nel suo carcere, quella coraggiosa e santa cristiana
ebbe ancor forza di dire a Pietro:
"Vi perdoni il nostro Signore, come io vi ho perdonato!."
La deposizione d'un solo testimone aveva fatto condannare Maria di Borgogna,
e questo testimone era uno schiavo; ma Maria era troppo ricca per trovare
grazia davanti al Sant'Uffizio.
Josè abbattuto dalle emozioni, poteva appena sostenersi, si chinò
leggermente all'orecchi di Pietro Arbues:
"Monsignore," gli disse, "io mi sento male; l'odore del carbone mi dà la
vertigine, ed il cuore mi vien meno come s'io fossi vicino a morire."
"Bisogna che tu ti abitui a questo," replicò Pietro Arbues; "Ancora un'altra
tortura e tutto è finito."
Terminava queste parole, ed i birri entrarono nella camera del tormento.
"Monsignore!." dissero essi esitando.
"Ebbene!.che c'è, parlate."
"Monsignore, la prigioniera è morta."
"Morta!" ripeté Pietro Arbues.
"Si è tagliata la gola con un paro di cesoie."
"Perché gliele avete lasciate?"
poscia quel monaco ipocrita aggiunse con accento di desolazione:
"impenitente! Morta impenitente!."
Questa prigioniera che si chiamava Giovanna Sanchez, apparteneva a
quell'ordine,
a metà laico e a metà religioso, di donne indicate col nome di devote; essa
aveva abbracciato il luteranismo, ed era morta senza rinunziarvi.
"Ogni preghiera per la defunta sarebbe inutile," proseguì l'inquisitore,
alzandosi; "la sua anima appartiene al demonio."
Così terminò quella seduta.
Pietro Arbues ed il suo favorito uscirono dal palazzo dell'Inquisizione.
"Oh!" disse Josè, aspirando con forza l'aria pura esteriore, e soffregandosi
colle mani la fronte come un uomo che si sveglia.
"Tu sei più delicato d'una donna," disse Pietro Arbues con accento dolce.
"No, monsignore; io ho il coraggio d'un uomo, credetemi," rispose il giovane
monaco con accento serio.
"Ti vedremo alla prova," proseguì l'inquisitore.
"Oh! Lo vedremo quando il tempo sarà giunto, monsignore, statene certo!."
XXX. La camera di penitenza.
I consigli di Josè non erano andati perduti. Una sera, otto giorni più
tardi, in una delle torricelle che formavano i quattro angoli del palazzo
dell'Inquisizione, la figlia del governatore era sola, inginocchiata.
Uno gabellino di legno di forma rotonda era posto al suo lato; su di esso
appoggiava uno de'suoi gomiti, e colla sua pallida mano sosteneva la sua
debole testa.
La cella in cui si trovava Dolores non aveva più di dieci piedi di diametro.
Era perfettamente rotonda, ed il parco a vòlta, e le mura, non offrivano
allo sguardo che una superficie unita e bianca. Una piccola apertura
praticata nella parte più alta della vòlta, vi lascia giungere solamente una
luce piena e netta, che non potendo dividersi in alcun spigolo, non
produceva la minima penombra, in cui l'occhio, stanco di quello splendore
monotono, potesse riposarsi.
Dolores, oppressa dalla noia, dal disgusto e dalla stanchezza, affaticata
eziandio dall'unico sedile che le era stato lasciato, erasi inginocchiata
sul suolo, procurando così di vincere con un mangiamento di posizione
fisica, la cupa disperazione in cui la precipitava l'eterna monotonia di
quel soggiorno spaventevole.
Abbattuta da prove incessanti, quella povera fanciulla, sì giovane e
pertanto sì forte, domandava a Dio il coraggio di non soccombere. L'amore,
quel santo alimento dell'anima, la sosteneva ancora colla sua sublime
energia. L'amore di cui non aveva che intravedute le ineffabili delizie, le
ispirava il desiderio di vivere ancora per gustare quelle gioie infinite,
speranza di colui che soffre e che ama, tesoro divino che il cielo comparte
sulla terra a coloro ch'egli destina possederlo un giorno in tutta la sua
pienezza.
Nel cuore di quella coraggiosa fanciulla, il suo amore per Estevan non si
separava dalle tenerezza per suo padre. Estevan non era il figlio adottivo
di Manuel Argoso?
E siccome coloro che amano non disperano mai intieramente, le pareva, fino a
che Estevan fosse in vita, tutto non esser perduto per essa.
La notte la sorprese in quelle meditazioni tenere e dolorose.
A poco a poco la luce verticale che piombava attorno ad essa i raggi
diretti, si estinse dolcemente, come lampada cui l'olio venisse meno; il
crepuscolo venne per gradi, e la vista ormai stanca della prigioniera ne
rimase sollevata.
Finalmente venne la notte, e Dolores non distinse più neppure i contorni
della sua cella.
"Oh! Qual felicità" esclamò alzandosi, "non veder più quel muro tutto
bianco, eternamente bianco! Quel muro circolare ed uniforme che mi rende
cieca!"
Mentre terminava queste parole, una luce viva penetrò nella cella, e gli
occhi della fanciulla, nuovamente abbagliati, si richiusero
involontariamente.
"Son io, non abbiate paura," disse una voce amica.
Dolores aprì gli occhi: era Josè.
"Oh, grazie!" ella disse, gettandosi piangente sul seno del monaco; "grazie,
mio buon Josè, d'esser venuto."
"Non ho potuto venir più presto," rispose il fraticello, "temeva di
svegliare i sospetti dell'inquisitore."
"Oh!" gridò Dolores, con un gesto d'orrore, "come potete voi servire
quest'uomo?"
"E' forza!" rispose Josè con accento profondo e convinto.
"Sì, comprendo," rispose la fanciulla, dopo alcuni momenti di riflessione;
bisogna, infatti, che una potente fatalità vi leghi al destino di Pietro
Arbues; voi sì buono, sì nobile, sì generoso avreste senza ciò acconsentito
a divenire, anco in apparenza, il complice di questo mostro?"
"Voi lo credete, non è vero, Dolores?" disse il favorito con amaro sorriso.
"Oh! Sì, senza dubbio, bisogna che sia così; bisogna che abbiate motivi ben
grandi, o che una orribile sventura abbia presieduto alla vostra vita. Così
quando io penso a voi, don Josè, a voi che portate con tanto coraggio questa
croce pesante, io mi trovo ben piccola e miserabile: poiché vedete, bisogna
confessarlo, io soccombo talvolta alle sventure che mi opprimono e mi sembra
che la ragione m'abbandoni. La prigionia mi uccide, e questa è forse una
giusta punizione del mio orgoglio, che faceva credermi capace di resistere a
tutto.
"Povera fanciulla!" disse Josè, gettando attorno a sé un tristo sguardo.
"Sì, don Josè, questo luogo mi uccide; aver sì poc'aria per vivere! Non
poter fare tre passi senza urtare una insormontabile barriera e poi vedermi
sempre intorno questo muro bianco ed unito. Aver la vertigine come uno che
si facesse volteggiare per l'aere sur un'altalena incantata. Chiuder gli
occhi e non veder più, e girare, girare ancor col pensiero, sentire il
pavimento che fugge sotto i passi come in un sogno, e lanciata nel vuoto,
non avere un angolo dove appoggiarsi. Voler dormire e udire incessantemente
all'orecchio uno spaventevole rumore che mi tien desta, chiamar la notte
come gli altri chiamano la luce, e temere, infine, il sorgere del sole, la
cui luce rinnovella ogni mattino questo interminabile supplizio. Oh! È cosa
da divenir pazza, don Josè.e vedete, vedete," proseguì essa con una
spaventevole volubilità, "hanno paura che io non soffra ancora abbastanza,
che io possa riposare un istante il mio capo ardente ed abbattuto, quando il
giorno è comparso, si porta via il mio letto, e non mi vien reso che alla
sera."
L'espressione animata del volto di Dolores, la sua estrema agitazione,
spaventarono il monaco. Bisognava, infatti, che il soggiorno di quella cella
avesse qualche cosa di terribile, per condurre a tal grado d'esaltazione
quella fanciulla, per ordinario sì dolce e sì rassegnata. José si pentì
vivamente di aver consigliato l'inquisitore a rinchiuderla in quel tristo
luogo, benché, facendo ciò, non avesse avuta altra intenzione che quella di
rendere più facile la evasione di Dolores, per la posizione delle torricelle
le quali erano più prossime alla strada, ed avevano inoltre alcune uscite
particolari e meno praticate. Non potendovi riparare, tentò di consolare la
povera prigioniera con parole d'incoraggiamento e di speranza.
"Tornerò a vedervi più spesso che potrò," le disse; "tutto questo avrà un
termine. Frattanto richiamate tutte le forze della vostra ragione, ed
aspettate con coraggio; Dio non vi abbandonerà."
"Oimé1 non è il coraggio che mi manca," rispose, "io resisto ogni giorno con
tutta la forza della mia volontà contro l'influenza malefica di questa
abominevole cella, la quale agisce sì vivamente e sì fatalmente sulle
facoltà della mia mente. Talvolta, la sera,dopo aver lottato tutto il giorno
contro allucinazioni innumerevoli, alquanto calmate dalla notte che riposa
la mia vista, i prendo a riflettere seriamente sulla mia posizione, e dico
in conclusione che la fine probabile di tutto questo sarà la tortura ed una
condanna a morte."
"No," disse Josè, "non lo credete."
"Oh! Mi sono già abituata a questa idea," replicò essa nuovamente; "e sono
ben determinata a sopportar tutto con coraggio, piuttosto che mostrarmi vile
e rinnegare per timore della morte la pura fede del vangelo, che è pure la
mia; piuttosto che rinunziare di morire fidanzata al mio nobile Estevan. Ma
prima, vedete (e questo lo farò per il bene della mia patria, di questa
sciagurata Spagna, della quale si è smunto talmente le vene, che non ha
neppure la forza di protestare contro i suoi oppressori), ebbene!, io povera
donna, protesterò; quando comparirò davanti a questo iniquo inquisitore di
Siviglia, che si pasce del disonore delle femmine e della rovina delle
famiglie, gli getterò pubblicamente in faccia la sua infamia, e vedremo poi
se il sangue d'una vittima coraggiosa sarà infecondo per la libertà della
Spagna."
"Santa e coraggiosa donna!" disse Josè; "non vi lasceranno neppure
quest'ultima
risorsa. La vostra causa non sarà mai chiamata in giudizio, e voi morrete
nelle carceri dell'Inquisizione, come Francesca di Lerma, che vi entrava la
notte in cui vedeste vostro padre!"
"Oh mio Dio, mio Dio!" esclamò la fanciulla con un grido d'orrore: "è
possibile che io così sia seppellita viva? Che mi dite Josè, ma ciò è
impossibile: vedete bene che la giustizia vi si oppone. Che mi condannino
passi; innocente o no, vi sarà stato sempre agli occhi del mondo un atto
giuridico per la quiete di coscienza de' miei giudici. Ma coll'atto
arbitrario più odioso si attenti eternamente alla mia libertà, che mi si
faccia morire lentamente di disperazione.oh!, ciò non sarà, don Josè, ciò
non è possibile, e voi calunniate l'Inquisizione."
"Francesca di Lerma era la favorita di Pietro Arbues," rispose freddamente
il giovane monaco; " e siccome Francesca ha voluto convertirsi, Pietro
Arbues l'ha fatta rinchiudere nel Sant'Uffizio."
"L badessa delle Carmelitane!.di che si accusa?"
"I capi d'accusa non mancano alle ingegnose invenzioni del Sant'Uffizio; ma
siccome un processo potrebbe compromettere l'inquisitore, non si farà
processo; Francesca morrà senz'essere stata giudicata. Credetemi, Dolores,
io non calunnio.
"Oh! È orribile, don Josè! e come il nostro re Carlo V, che si dice sì
grande, può soffrire simili abusi?"
"L'Inquisizione è più forte del re," rispose il Domenicano; "la forza
concentrata in uno solo si rompe contro la forza di molti riuniti insieme.
Tuttavia il nostro re è giusto, e se potesse conoscere tutti gli abusi che
si commettono, non v'ha dubbio che cercherebbe di reprimerli. Egli ignora
questi abusi; e poi lo sapete che gl'inquisitori, i quali hanno il diritto
di accusare e di giudicare i principi ed i re, non sono essi stessi soggetti
che al giudizio del sommo pontefice?"
"Bene," disse la figlia del governatore, con un abbattimento impossibile a
dipingersi, "vedo che non posso far altro che rassegnarmi!"
"Io non ho detto questo," replicò vivamente Josè, "dovesse costarmi la vita,
io vi renderò la libertà, Dolores; ma il momento non è ancor venuto. Estevan
e Giovanni d'Avila sono a Madrid."
"Lo so, don Josè; so tutto quello ch'essi han fatto per me."
"Forse otterranno dal re la grazia di vostro padre."
"La sua grazia, dite? Ma qual grazia può accordare il re ad un uomo
condannato dall'inquisizione? Non mi avete detto che egli non può nulla?"
"L'Inquisizione affine di piacere al re, allenta talora la sua abituale
severità," rispose Josè. "Solamente si accorda al sovrano della Spagna, al
grande imperatore Carlo V, il diritto di supplica[8].
"O mio Dio!" disse la figlia del governatore.
"Quando io era ancora bambina, e scherzava sulle ginocchia di mio padre, se
udiva pronunziare il nome del re, questo nome mi sembrava raggiare come
aureola, e mi figurava un essere bello, potente e magnanimo che con una
parola potesse cangiare i tuguri in palagi, le lacrime del popolo in grida
di gioia, e che seminasse in tutto il suo passaggio la prosperità, la
felicità e la speranza. Re! Imperatore! Queste due parole magiche non sono
adunque che un ingannevole simbolo di cui si riveste un uomo mortale e
fragile come noi, e cento volte più disgraziato; perché oltre alla schiavitù
delle proprie passioni, egli è soggetto a tutte le cose ed a tutti gli
uomini che per una influenza qualunque possono attenuare la sua possanza, od
attaccare la sua autorità. E questo si chiama regnare, mio Dio! E a che cosa
serve l'udirvi chiamare: Sire, ed il veder piegar le ginocchia a voi
dinanzi, se non vi rimane neppure il diritto di far giustizia?"
"Giustizia" nome vuoto e sonoro," mormorò Josè, "questa parola non è che una
maschera, Dolores, come molte altre parole d'uso frequente ed abituale. Per
me, che m'importa? Che mi cale dei mille nonnulla sì gravi di cui si
alimenta la vita religiosa e politica degli uomini, e che si riflettono fino
nel domestico focolare? Che mi cale delle lotte di un dogma contro un altro
dogma, delle suscettibilità di una setta, dell'orgoglio insensato di
un'altra,
delle crudeltà di coloro che rimangono vittoriosi? La mia strada è tracciata
quaggiù, e per giungere allo scopo, io non debbo insozzarmi in questo fango
sanguinolento, sollevato dai piedi di coloro che combattono; io non debbo
che passare in mezzo ad essi senza rivolgermi, sicuro di non essere mai
attaccato; poiché," soggiunse accennando alla sua tonaca, "io porto una
corazza sulla quale si spuntano tutte le spada."
Nell'udirlo parlar così, Dolores guardava fisso in volto il giovane
Domenicano. Essa credeva di comprendere quel singolare miscuglio di amarezza
e di sensibilità, di scetticismo e di confidenza che facevano di lui un
essere distinto dagli altri. Josè mostrava ad un tempo ne' suoi discorsi
l'energia
dell'uomo più forte, e la sensibilità della più tenera donna. La sua anima,
come il suo corpo offriva un seducente insieme delle qualità più opposte
vedendo ed ascoltando Josè, si poneva in dimenticanza essere egli monaco ed
ufficiale dell'Inquisizione; non si considerava in lui che un essere
giovane, seducente, irresistibile, sia che il suo volto, pallido e bello,
portasse l'impronta di un dolore profondo, sia che il suo occhio puro e
brillante, rischiarato da una luce soave, esprimesse con energia la
tenerezza appassionata di quell'anima misteriosa, instabile come i flutti
del mare. Aveva un dono che pochi posseggono, la fascinazione.
Fors'anco colui solo il quale ha lottato contro tutte le avversità acquista
quella mobilità di fisionomia, quell'abbandono di maniere, quella facilità
di linguaggio, ma soprattutto quella mestizia appassionata che attrae
irresistibilmente tutte le simpatie, tanto il cuore è naturalmente
inchinevole verso ciò che è straordinario. Forse anco quel potere attrattivo
di certi individui è un mistero fisiologico che sfugge all'analisi. Si
definisce, e vero, colla parola - magnetismo, -ma ci si spieghi che cosa sia
il magnetismo.chi lo comprende?
A noi sembra che, per trovarne la causa razionale, bisognerebbe rimontare
fino a Dio.
Nell'epoca in cui avevano luogo questi avvenimenti, la parola magnetismo non
esisteva. Si trovava più semplice il chiamare magia tutto ciò che non cadeva
sotto la mediazione immediata dei sensi esterni. Gli uomini di quei tempi
erano molto più spiritualisti di quelli dei nostri giorni: non attribuivano
alla materia i prodigi che l'intelligenza superiore reggitrice del mondo
prodiga contro di noi. Avevano spinto le cose un poco troppo, è vero;
perché non solo credevano ad uno spirito benefico ed eterno, ma conoscevano
eziandio l'influenza dello spirito delle tenebre sull'uomo; e quando un
individuo, fornito d'una ragione superiore o d'un gran genio, sorgeva nel
mezzo a quegli uomini ignoranti e limitati, non potendo comprenderlo, lo
chiamavano stregone perché lo credevano inspirato e servito dal demonio.
Talvolta questa superstizione popolare secondò a meraviglia l'ambizione e la
politica degl'inquisitori, i quali temevano tutti coloro la cui scienza o
filantropia poteva illuminare i popoli. Per questa cagione san Giovanni di
Dio, l'illustre fondatore dell'Ordine degli Ospitalieri, che abbiamo già
veduto figurare in questi libro, fu alcuni anni più tardi accusato di
negromanzia dal tribunale dell'Inquisizione, ed obbligato a ricorrere al
papa per ottenere la sua libertà[9].
Ma in tutti i tempi gli spiriti retti si fan superiori a queste
superstizioni puerili.
La simpatia che traeva Dolores verso Josè, aveva qualche cosa di dolce e di
consonante, esente d'ogni soggezione, somiglievole all'amicizia di una donna
per un'altra. Josè perdeva presso di lei l'austerità e la gravitò del
monaco; Dolores, la risolutezza un poco imbarazzante che inspira ad una
fanciulla un uomo vestito d'abito di prete. Ne risultava per ambedue un
incanto inesprimibile.
"Mio buon Josè," gli disse la figlia del governatore, vedendolo divenir
mesto e pensieroso, "mi affliggete parlando di voi; questo argomento vi è
penoso e non vi tornate mai senza che vi lasci una ineffabile tristezza."
"V'ingannate, cara Dolores; non è tristezza: perché mai dovrò affliggermi?
Io ve l'ho detto, il mio sentiero è già segnato, ubbidisco ad una fatalità
implacabile, di che dunque volete ch'io m'inquieti?"
"Josè, voi mi fate paura; questi sentimenti non sono cristiani."
"Non parliamo di me," rispose il giovane Domenicano, " pensiamo a voi,
Dolores, a voi sola; quivi è la volontà di Dio, io sono lo strumento di cui
si servirà per liberarvi, sono una vittima di espiazione. Quando la mia
missione sarà compiuta, potrò volgere a Dio le mani piene delle benedizioni
dei miei fratelli ed allora se ho peccato, non avrò il diritto di gridare a
lui: Grazia! Grazia! Poiché io pure sono stato martire, ed il martirio è un
battesimo che lava ogni sozzura?"
Parlando così Josè erasi animato, ed una cupa esaltazione infiammava il suo
bel viso; era, meno l'acconciamento, la bella testa di Giuditta.
Dolores, assisa per terra colle mani giunte sulle ginocchia, l'ascoltava in
silenzio; e mentre i suoi grandi occhi umidi seguivano con uno sguardo
atterrito i moti della fisionomia di Josè, lagrime silenziose scorrevano
lungo le sue gote.
Essa prese la mano del monaco, quella mano bianca, fine, elegante, di una
distinzione notevole, e la strinse affettuosamente: "Josè," gli disse, "mio
buon Josè! che avete?"
"Nulla," rispose, richiamato a sé da tali parole, "penso alla mia missione
sulla terra: sollevare coloro che soffrono. Ecco tutto."
"Estevan tornerà presto?" domandò la fanciulla cercando di togliere il
fraticello alla sua triste preoccupazione parlandogli di sè medesima.
"Avanti otto giorni forse," rispose Josè, "io saprò subito del suo arrivo,
ed avrò certamente delle buone notizie da comunicarvi. Spero molto
nell'influenza
di Giovanni d'Avila presso il re."
Qui cade in acconcio di spiegare come Josè aveva conosciuto il viaggio
d'Estevan
e dell'Apostolo. Si ricordi il lettore che nel loro ultimo abboccamento
nella cosuccia moresca, Josè aveva raccomandato a Gioachino di sorvegliare i
passi d'Estevan e di rendergliene conto. Dal taverniere adunque della Buona
Ventura veniva istruito Josè; lo stesso Gioachino era stato incaricato da
Giovanni d'Avila di comunicare la loro partenza a Dolores per rassicurarla.
Disgraziatamente, nel desiderio di salvare suo padre, non aveva avuto la
pazienza d'aspettare: e la sua imprudenza l'aveva fatta cadere nelle mani
del Santo Uffizio.
"Bisogna lasciarci," disse finalmente Josè, vedendo la prigioniera alquanto
rassicurata: "siamo prudenti a fine di rimaner forti."
"Oh! Non ancora," esclamò essa, attaccandosi agli abiti del giovane
Domenicano; "non ancora, don Josè; vedete bene che io ricado nei miei
orribili spaventi, che torno ad impazzare."
Quelle parole - bisogna lasciarci - l'avevano in un subito ricondotta al
sentimento amaro della sua solitudine. I suoi nervi, un istante calmati
dalle consolazioni dell'amicizia, subirono una dolorosa reazione. La sua
immaginazione si ripopolò di spettri e di fantasmi; tristi effetti d'una
prigionia sì crudelmente combinata che faceva soffrire tutti i sensi ad un
tempo, agendo singolarmente in una maniera terribile sulla sede di tutte le
sensazioni, il cervello.
"Josè, Josè, non mi lasciate!" gli diceva la fanciulla con voce soffocata,
"vedete bene che qui io morirò. Oh! Conducetemi, conducetemi con voi:
mettetemi in una prigione, se volete; ma non qui, non qui!."
E smarrita si strascinava alle ginocchia di Josè. quella forte
organizzazione morale, quella fanciulla sì pura, sì religiosa, sì
affezionata, soccombeva agli effetti terribili del sistema cellulare.
Josè la rialzò dolcemente, versò sull'ardente sua fronte alcune goccie
d'acqua
rimaste in un vasetto nel quale bevevo, e colla sua mano fresca e carezzante
percorse dolcemente a più riprese quella fronte dall'una all'altra tempia:
senza dubbio, per un effetto magnetico, quel contatto reiterato sembrò
calmare la povera prigioniera.
"Andate, io sarò tranquilla," disse chiudendo gli occhi, poiché aveva paura
di guardare attorno a sé.
In quel momento fu battuto alla porta della cella.
"Entrate," disse il fraticello, riprendendo presso la prigioniera
inginocchiata l'attitudine d'un confessore in faccia alla sua penitente.
Era il custode che riportava il letto in cui dormiva Dolores.
"La prigioniera è sottomessa," disse il Domenicano, "le lascerete il letto
anco di giorno."
"Vostra Reverenza sarà ubbidita," rispose il carceriere.
"Addio, sorella," proseguì Josè; e, chinandosi verso la fanciulla, aggiunse
piano: "tornerò presto." Egli uscì.
Dolores rimase inginocchiata nell'oscurità, colla testa piegata sul petto.
Ara il lettore favorisca di seguirne a Madrid nel palazzo di Carlo V.
XXXI. Madrid.
In una bella e fresca mattina di maggio, due viaggiatori seguivano la strada
che dalla Manica conduce a Madrid. Già sul piano inclinato sul quale è
fabbricata, compariva loro la città reale, che erge nell'aere, come una
selva d'alberi di nave, i suoi mille campanili acuti, dominati dalle alte
cupole di Sant'Isidoro e di San Francesco. Già scorgevano all'occidente di
Madrid l'eremitaggio del santo agricoltore, piccola cappella in gran
venerazione presso i
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