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LA SANTA INQUISIZIONE DURANTE LA STORIA DELLA CHIESA MEDIOEVALE

LA SANTA INQUISIZIONE E LA STORIA DELLA CHIESA

L'altro viaggiatore, molto più giovane, avendo al più di venti anni, offriva col suo compagno un contrasto tanto più considerevole, in quanto, differenti di fisionomia, di costumi e di carattere, quei due uomini si toccavano frattanto per un punto unico che avvincerà costantemente gli uomini, anche i più disparati d'opinioni e di pensieri; essi avevano un'eguale lealtà di carattere. Inoltre professavano la medesima dottrina; e se le inclinazioni dell'uno pendevano sovente da un alto contrario a quelle dell'altro, almeno agivano sempre nel medesimo scopo e per la medesima causa. Avevano varcato la gola di Despenaperros una delle cime più elevate di quell'alta ed inaccessibile catena di monti, chiamata Sierra Morena. Stanche ambidue, si assisero. Dopo essersi riposati alcuni istanti, sentendo la loro respirazione più libera, ed il coraggio tornar loro con la forza, gettarono simultaneamente attorno a loro ad essi quello sguardo profondamente investigatore del filosofo, il quale, nel mezzo delle meraviglie della creazione, cerca costantemente la causa degli effetti, e, ammirando le opere di Dio, vede, per così dire, Dio stesso, tanto le percezioni dell'anima, che sole ci fanno comunicare con lo spirito, divengono allora vive e lucide. Dietro di essi la Sierra Morena propriamente detta alzava la cresta orgogliosa, bianca per la neve di tutti i secoli. Dinanzi ad essi si estendevano i piani desolati della Manica; un poco a sinistra, ed indietro, la voluttuosa Andalusia mostrava con orgoglioso contrasto i suoi campi d'olivi, e le sue vigne verdeggianti ed i suoi cedri fioriti. Più lungi, a dritta, era la Sierra Nevada, la Sierra Elvira e gli Apuxarras, continuando quella catena di montagne inaccessibili che inviluppano le due Castiglie come fra un'immensa barriera di granito. Poscia, finalmente, varcando col pensiero il lungo spazio che li separava, ancora essi cedettero veder le Castiglie, quel sanctum della Spagna mai conquistato dagli stranieri; le Castiglie dall'aspetto bizzarro e variato, in cui serpeggiano il Tago dalle onde dorate, e il Manganare dall'onde argentine. Il quel luogo elevato i viaggiatori dominavano la Spagna intiera.Considerando quel ricco e bel paese, un pensiero amaro si mischiava alla loro ammirazione.Laggiù sotto i loro piedi, in quei piani fertili usciti dalla mano di Dio, un potere iniquo e brutale toglieva agli uomini il libero godimento dei beni della terra e di lor medesimi, e la felicità che è un diritto della vita. "Ecco lo scopo del nostro viaggio," disse tutto ad un tratto il frate, stendendo la mano all'orizzonte, verso un punto in cui il solo pensiero poteva arrivare perché era perduto nello spazio. "Mio Dio! Mio dio!" gridò dolorosamente il giovane laico, "giungeremo noi a tempo?.e soprattutto perverremo noi a commuovere il cuore del re?" "Abbiate fiducia," rispose il frate, "perché tormentarvi innanzi di una cosa incerta? L'impeto nuoce sempre al successo delle intraprese, con la calma si giunge a tutto. Il gran segreto della vita è di sapere attendere, e di non fare dell'avvenire incerto un tormento positivo per il presente. L'anima si affatica e si snerva in quelle apprensioni continue, in quelle inquietudini premature. L'uomo forte attende di pié fermo gli avvenimenti senza temerli; ei passa sovente per insensibile, mentre è solamente coraggioso." "Oh Padre mio!" disse il giovane con amarezza, "si vede bene che niun rancore giunse fino a voi, e che, rinunziando alle gioie terrestri, avete pure rinunziato alle miserie dell'umanità, che vi siete isolato nella vostra regola religiosa come in un deserto, e che, non vivendo più della vita comune, non potete comprenderne i dolori. "Figlio," riprese dolcemente il Francescano, "pensate voi che l'apostolato sia una emissione d'egoismo e di durezza? Non è forse per entrare più addentro con lo spirito nelle miserie dell'uomo che abbiamo abbracciato delle miserie volontarie? Guai a colui che comprende altrimenti la missione di prete, a colui che l'autorità evangelica riduce ad una potenza temporale, di cui fa uso a profitto delle sue proprie passioni, invece di impiegarla al ben essere e alla consolazione di tutti! L'apostolato non ha altro scopo. Colui che ne usa altrimenti misconosce i doveri del suo ministero. Quale, infatti deve essere la nostra vita? Esser pronti ognora a versar il sangue pei nostri fratelli, a soccorrerli, a consolarli nelle avversità, a render loro la vita più dolce con la speranza di una vita migliore. Credete voi, figlio mio, che colui il quale rinunzia alle dolcezze della famiglia particolare per dedicarsi alla felicità della grande umana famiglia sia un egoista od un vile? No, non lo pensate: il sacrificio è una virtù che viene da Dio, e Dio solo ne comparte la forza!" "Oh Padre mio!" riprese il giovane, "perdonatemi, io sono ingrato ed ingiusto; vi debbo tutto, e vi oltraggio: il dolore mi toglie la ragione. Voi siete un'eccezione sublime. Ma ditemi," proseguì egli con quell'amaro scetticismo che danno talvolta i grandi infortuni, "dove sono i discendenti degli apostoli? Ho un bel cercarli attorno di me in tutta la Spagna, che formicola di monaci, io non vedo che mendicanti serviti, od abietti oppressori." "Figlio mio," rispose il Francescano, con voce severa, "voi siete troppo giovane, ed avete poca esperienza per giudicare così in una maniera assoluta. Riconosco come voi gli abusi della chiesa di Spagna; piango tutti i giorni sui mali che ne risultano, lotto contro di essi con tutte le mie forze; ma quando, rientrando in me medesimo, mi prostro ai piedi dell'eterno, offrendo i miei combattimenti, le mie preghiere, le mie lacrime, io dico talvolta con dolore, ma con rassegnazione: -Ciò è forse nei disegni di Dio.-" "No, no, ciò non può essere," esclamò impetuosamente il giovane, "Dio grande e magnanimo; Dio, la cui essenza divina si compone d'amore, può egli permettere che si opprima in suo nome coloro ai quali ha dato un'anima immortale, scintilla di sé medesimo?" "Figlio mio," disse il frate, molto imbarazzato da questa domanda, ma troppo fermo nella sua fede per cercare di addentrarsi nei misteri che la sua ragione non poteva comprendere; "figlio mio, egli è cosa certa che Dio ha creato l'uomo per la felicità, e che la felicità è nella perfezione. Noi tendiamo incessantemente verso questo unico scopo: forse non vi si giunge che per il dolore, forse le generazioni che seguiranno hanno bisogno del sangue e delle lacrime dei loro padri, come noi abbiamo avuto bisogno del sangue di Gesù Cristo; e forse anche per coloro che soffrono, Dio, che è la sorgente dell'eterna giustizia, tiene in serbo anco per questa vita dei guiderdoni incomprensibili. "Nei tempi di persecuzione l'uomo, sempre al cospetto del martirio, vivendo giorno per giorno, si attacca poco alle cose della terra, si abitua a vivere con lo spirito, e da questa grande meditazione dei popoli escono talvolta quei sublimi insegnamenti che rigenerano le nazioni. Cessiamo dunque di mormorare, lottiamo con perseveranza; la sommissione volontaria ai decreti di un essere onnipotente, ma infinitamente buono, porta con sé magnanime consolazioni. Non è ad una fatalità cieca che si obbedisce, ed è un essere intelligente e pieno d'amore, che pone sempre il bene al lato del male, e spesso il bene nel male stesso per forza di combinazioni superiori, talvolta oscure per le nostre limitate intelligenze, ma che conducono sempre, io ve l'accerto, ad uno scopo segnato innanzi nella sua eterna volontà." Il giovane laico non rispose, ma considerava in silenzio quell'uomo giovane, bello e grave, che fornito dei doni più preziosi dell'intelligenza e della fortuna, aveva rinunziato ai vari onori di questo mondo per vivere della sola vita dello spirito, e contribuire con tutto il suo potere, con tutte le sue facoltà all'edifizio della felicità sociale, non di quella fragile felicità basata sopra utopie paradossali, ma di quella felicità certa, eterna, infallibile, che, ad onta delle sventure, della sofferenza e della morte, nasce nel cuore dell'uomo che abbraccia con ardore una fede consolante, e vive, per così dire, anco quaggiù di quella vita che è al di là della tomba. Quantunque questo giovane fosse stato nutrito in sentimenti purissimi e cristianissimi, l'ardore naturale di un sangue giovanile e spagnuolo, l'esistenza tutta cavalleresca che menavano i signori di quell'epoca, avevano malgrado il suo gusto naturale per le meditazioni filosofiche, dato un giro vivace e marziale all'espressione delle sue opinioni e delle sue idee. Fatto per abbracciare tutti i grandi pensieri religiosi od umanitari, mancava ancora al giovane filosofo la pazienza che sopporta e non sorpassa giammai l'ordine naturale degli avvenimenti. Nobile, egli era nel morale un lottatore ardito ed intrepido, che, sicuro sempre della sua forza, attacca di fronte tutti i suoi nemici ad un tempo, ed invece di combatterli ad uno ad uno, di assicurare la sua vittoria con la lentezza stessa della lotta, corre superbamente pel suo impeto il rischio della disfatta. Ciò spiega forse la sconfitta costante in tutti i secoli della Spagna filosofica e liberale nelle sue lotte contro la Spagna oltremontana. Non è il coraggio, non è la perseveranza che sono mancati ai difensori della libertà di coscienza, è la prudenza d'Ulisse, e la diffidenza degli uomini e degli avvenimenti, quella accortezza che partecipa quasi dell'astuzia. Essi avevano il valore dei leali cavalieri, combattevano alla luce del giorno col petto scoperto contro nemici tenebrosi, chiusi nell'ignoranza e nel fanatismo del popolo, come il bandito nelle macchi della strada; nemici che non si difendevano durante il combattimento, ma che colpivano vilmente il loro avversario per di dietro tostochè era stanco di combattere. Quest'abitudine al tradimento era da lungo tempo nei costumi della chiesa romana; essa non combatte mai per legioni; non presenta al nemico che scaramuccie; le lascia consumare le sue forze a perseguitare antagonisti innumerevoli, invisibili, che sembrano fuggire e moltiplicarsi sotto i suoi passi; e quando lo crede abbattuto, allora si alza in massa come un sol uomo, e manda il suo grido terribile di trionfo, che va a rimbombare fino agli ultimi limiti del mondo. "Son già cinque giorni," disse il giovane, "che abbiamo lasciato Siviglia; quanto vi è ancora da qui a Madrid?" "otto giorni di cammino almeno," rispose il Francescano. "E in questo tempo l'avvoltoio inquisitoriale lascerà la sua preda, e forse quando ritorneremo sarà già troppo tardi." "State tranquillo," disse il frate, "l'Inquisizione non procede con tanta fretta, essa beve l'ultima goccia di sangue delle sue vittime innanzi di abbandonarle al carnefice. Orsù, coraggio" continuò, vedendo approssimarsi le guide che conducevano le loro mule, lasciate indietro per varcare le montagne a piedi. I viaggiatori si alzarono; scendendo gli stretti sentieri del pendio settentrionale della montagna, raggiunsero le loro guide, battevano con fatica fra le rupi la via che conduceva in Castiglia, appena indicata dalla traccia dei viaggiatori, e dove è oggi una magnifica strada reale che si avvolge in spirale fino alla cima della montagna, e con giri e circuiti uguali conduce dalla Castiglia in Andalusia, e dall'Andalusia in Castiglia. Nell'epoca in cui accadevano queste cose era molto più malagevole, ma il coraggio non mancava ai nostri viaggiatori. Si rimisero dunque in via, e, ora sulle loro mule, ora a piedi, discesero la montagna per guadagnare la Carolina, ove giunsero la stessa sera. In questi due viandanti i nostri lettori han senza dubbio riconosciuto Estevan de Vargas e Giovanni d'Avila. XXII. Il tribunale. Era un giorno tristo e lugubre, un giorno di seduta inquisitoriale. La grande sala del tribunale era stata aperta. Questa sala era un vasto quadrato lungo, parato di nero. Verso il fondo si stendeva da una parte all'altra una tavola semicircolare. Dietro a questa tavola, coperta in tutta la sua lunghezza da una fitta rascia nera, si vedeva un seggiolone di velluto nero, sormontato da un baldacchino della medesima stoffa. Era il seggio del presidente o grande inquisitore. Al di sopra del baldacchino pendeva, addossato al muro, un gran crocifisso d'avorio sopra un fondo nero. Due altri seggi, del medesimo colore del baldacchino, si elevavano ai due lati del seggiolone del presidente; erano destinati agli inquisitori consiglieri che componevano il tribunale. Sulla tavola a destra era un campanello, dall'altro lato un gran libro degli Evangeli aperto, e nel mezzo, davanti al presidente, un quaderno di carta bianca, sul quale inscriveva le sue note particolari. Dirimpetto al Cristo, al di fuori della tavola si elevava un banco, o piuttosto bastone triangolare, montato su quattro piedi in isquadra, che serviva di seggio agl'inquisiti. Finalmente alla destra del presidente, al di fuori pure della tavola, si stavano i birri e quattro uomini mascherati, coperti da una lunga veste di tela nera, con la testa coperta da un cappuccio della medesima stoffa, forati nei punti corrispondenti agli occhi, al naso ed alla bocca; quattro uomini di un aspetto spaventevole, poscia, a sinistra, due cancellieri, assisi davanti ad un tavolino, scrivevano sotto la dettature del presidente, o secondo i suoi ordini, o sotto quella dei testimoni. Pietro Arbues, vestito del suo grand'abito da monaco, ornato della croce bianca che brilla sul petto dei figli di san Domenico, Pietro Arbues, assiso sul seggio di presidente, volgeva attorno a sé uno sguardo sinistro. I suoi due assessori, indifferenti alle tempeste che si agitavano nel cuor di quell'uomo feroce, ma animati dal medesimo spirito di dominio, attendevano in un ipocrito raccoglimento il giungere dell'accusato. Niuna emozione interiore si mostrava sul loro volto inumano; essi ignoravano i combattimenti e le incertezze del giudice, diviso fra l'obbligo di punire un colpevole ed il timore di colpire un innocente. Le loro sentenze erano dettate in antecedenza. Colpire, colpire senza interruzione: tale era la loro divisa; eglino non temevano che di assolvere, e non assolvevano mai volontariamente. Verso il fondo della sala stavano dei monaci di differenti Ordini, testimoni ordinari di quelle solennità, ed alcuni grandi di Spagna venduti all'Inquisizione, che Pietro Arbues, aveva invitati con biglietti: poiché non era un accusato volgare che stava per comparire; era un nobile e potente signore, un buon cattolico, accusato di eresia, che i suoi pari stavano forse per vedere condannato senza ardire di pronunziare una sola parola in sua difesa. Un silenzio spaventevole regnava in quella lugubre assemblea; sarebbesi detto un convoglio funebre, tanto quei volti diversi portavano un'impronta uniforma di tristezza e di morte. Ma bentosto un leggiero movimento, quasi impercettibile, accadde in quella cupa assemblea; gli sguardi si diressero lentamente verso la porta: l'accusato, condotto da due birri, era entrato nella sala. Era un uomo grande e pallido, d'una cinquantina d'anni circa. I suoi capelli d'un nero cupo, ma di cui la metà erano imbianchiti, ornavano una fronte vasta, in cui aveva sede la lealtà piuttosto che il genio; il suo occhio, franco ed aperto, avea l'espressione leale e cavalleresca d'un vero figlio di Castiglia, ed una grande rassegnazione religiosa, carattere distintivo dei cristiani di Spagna, temperava l'espressione d'amarezza e di rancore che velava la fisionomia di quell'uomo. Era inoltre debole e dimagrito da un soggiorno di più di due mesi nelle prigioni dell'Inquisizione. Si avanzò a passi lenti nel mezzo delle sue guardie, e giunto in faccia al presidente, cercò attorno a sé un seggio per riposarsi; ma no vedendo che quella specie di stanga triangolare, su cui il tribunale faceva assidere le sue vittime, le di lui labbra si aprirono ad un leggiero sorriso amaro e sarcastico. Egli si assise come poté su quel seggio bizzarro d'inquisitoriale invenzione[25]. Poscia, alzando la testa senza orgoglio, ma con incredibile dignità, fissò su Pietro Arbues uno sguardo chiaro e penetrante, che avrebbe fatto abbassare gli occhi a qualunque altro, fuorché ad un inquisitore. Pietro Arbues lo sostenne senza cambiare fisionomia, ed indirizzandosi all'inquisito: "Accusato," gli disse, "alzatevi e giurate sul Vangelo di dire la verità." L'inquisito si alzò lentamente, si avvicinò alla tavola, e, posando la mano sopra il libro santo, disse con voce ferma e vibrante: "Giuro in nome di Gesù Cristo e del suo santo Vangelo di dire tutta la verità." "Adesso il vostro nome?" proseguì l'inquisitore. "Paolo Gioachino Manuel Argoso, conte di Cevallos, grande di Spagna di seconda classe, e governatore della città di Siviglia per la volontà del nostro diletto re Carlo V." "Lasciate i vostri titoli," disse l'inquisitore, "essi non vi appartengono più.[26]" Manuel Argoso non ripose; ma il suo labbro inferiore si alzò sdegnosamente: il puro sangue di Castiglia s'era in lui rivoltato. "La vostra età?" domandò il presidente. "Cinquant'anni," rispose il governatore. "Manuel Argoso," proseguì Pietro Arbues, con voce lenta, metallica, aspra; "Manuel Argoso, siete accusato d'aver ricevuto presso di voi un giovane uscito da una schiatta eretica; un giovane che professa sentimenti opposti alle dottrine della santa Chiesa cattolica romana, e di non averlo denunziato." "Monsignore, io non so quello che volete dire." Rispose gravemente Manuel Argoso. "Non denunziar l'eresia è incoraggiarla," proseguì l'inquisitore. "Non avete potuto ignorare che Estevan de Vargas, discendente da famiglia moresca, è tutt'altro che puro cattolico; ; e non solamente l'avete ricevuto in casa, ma gli avete promessa in isposa la vostra unica figlia." A questa parola un sospiro doloroso sollevò il petto dello sventurato governatore, e videsi una lacrima scorrere lungo la sua pallida gota, ma tosto rimettendosi: "Monsignore," rispose, "il giovane Estevan de Vargas discende da uno di quei nobili cavalieri abenceragi, i quali si sottomisero volontariamente alla religione di Gesù Cristo, e si riconobbero sudditi del re Ferdinando d'Aragona, e della grande Isabella, la nostra gloriosa sovrana[27]. Questi cavalieri ricevettero dai nostri re gl'istessi privilegi di cui godono i signori Casigliani; perché diniegheremo loro ogni diritto che si sono legittimamente acquistati già da un secolo?" "Colui che ottiene un diritto s'impegna in un dovere," osservò l'inquisitore, "e da che manca a questo dovere, il suo diritto diven nullo. Don Estevan de Vargas, professando dottrine contrarie ai santi canoni della Chiesa, perde la sua salvaguardia di buon cattolico; è in difetto d'eresia, e chiunque fa alleanza con lui è reputato eretico e degno delle pene inerenti a questo delitto." "Monsignore," disse gravemente Argoso, "vi giuro sul mio onore che mai don Estevan de Vargas non ha pronunziato davanti a me parola che non fosse degna di pio cristiano e di leale cavaliere; come dunque sarei complice d'un delitto che non esiste?" "Egli nega!" disse l'inquisitore con aria di compassione, volgendosi verso i suoi consiglieri come per consultarli con lo sguardo. I consiglieri fecero un gesto d'orrore, alzando gli occhi al cielo con aria ipocrita. Questa pantomima era loro famigliare, e sostituiva in essi la rettitudine del giudizio e la logica della parola, che nessuno fra essi possedeva. I cancellieri scrivevano le domande e le risposte. Pietro Arbues sembrava riflettere. Accadde un lungo silenzio, nel quale quell'anima impetuosa ed appassionata eransi profondamente raccolta in sé medesima per trovare quelle dolci intonazioni, quello sguardo devoto e tenero, quelle parole piene di dolcezza evangelica, solo linguaggio usato fra gli inquisitori, e dal quale nessuno fra loro si allontanava mai sotto alcun pretesto ed in veruna circostanza, sia che questo fosse uno degli statuti della loro regola[28], sia che questa dolcezza ipocrita non fosse che un raffinamento di crudeltà; poiché invano ci si vorrebbe far persuasi che essi facessero il male con convinzione, e che quella studiata mansuetudine, congiunta a tanta barbarie, fosse il resultato del loro zelo per la religione, e di una tenera pietà per le vittime che si credevano obbligati di torturare così. La depravazione dei loro costumi risponde vittoriosamente a tutte le apologie che potrebbesi intraprendere in questo argomento. L'intiera purezza del cuore è la sola garanzia della sua bontà. Finalmente, guardando il governatore di Siviglia con aria di compunzione: "Figlio mio," disse Pietro Arbues, "voi mi vedete sinceramente afflitto dell'ostinazione che il nemico del bene ha messo in voi. Io vi ho amato in Dio, e nel mio zelo per la santa causa della Chiesa, nella mia amicizia sincera per la vostra persona, prego il Signore che vi mandi lo spirito di pentimento, affinché, riconoscendo le vostre colpe, ne facciate abiurazione solenne, e ritorniate nel retto sentiero che conduce al cielo." "Padre mio," rispose Manuel Argoso, con aria tranquilla, "Dio m'è testimonio che io non ho mai avuto un solo pensiero che fosse contrario alle leggi del santo Vangelo, e che io l'ho sempre seguito con amore e confidenza." "Ma voi confessate che avete avuto delle relazioni con un moresco," soggiunse insidiosamente l'inquisitore. "Don Estevan de Vargas non è un moresco," rispose il governatore; "egli è buon cattolico quanto voi e me, monsignore." "Dio del cielo!" gridò l'inquisitore, "lo spirito maligno l'accieca, ed egli insulta la nostra santa religione." "Monsignore," obiettò a voce bassa uno dei consiglieri, "egli confessa le sue relazioni con Estevan de Vargas." Pietro Arbues fece un movimento di testa, che voleva dire: Bene, mi servirò di questo. -"Fratello," proseguì indirizzandosi all'accusato, "negherete voi pure di aver educato vostra figlia a sentimenti contrari al vero spirito della religione cattolica, e che essa siasi occupata di quello studio pernicioso che ci viene dal Nord e che si chiama filosofia?" "Lo nego," rispose il governatore. "Potete provarlo?" domandò l'inquisitore. Manuel Argoso si volse verso l'assemblea, che occupava la parte inferiore della sala, e vedendo alcuni nobili, i quali ai tempi della sua fortuna frequentavano abitualmente la sua casa, "Signori," gridò, "quale di voi verrà a rendere testimonianza della verità, ed affermare che né Manuel Argoso né la sua figlia, la nobile Dolores, non hanno giammai avuto altre massime che quelle del vangelo? Voi tutti sapete questo, signori, perché la mia anima vi era aperta come la mia casa." Il governatore attese invano una risposta; tutti restarono muti, con gli occhi inclinati verso terra, ché temevano di lasciar intravedere la minima traccia di intenerimento o di pietà. Manuel Argoso lasciò ricadere tutteddue le braccia con una espressione di scoraggiamento che sarebbe impossibile a dipingersi, poi, volgendosi vivamente verso l'inquisitore, e , come illuminato da subitanea inspirazione; "Monsignore," esclamò, " io mi appello a voi stesso; voi venivate tutti i giorni nella mia casa, e della vostra doppia qualità di amico e di ministro di Dio dovete, meglio di tutti, conoscere i miei veri sentimenti, e specialmente quelli di mia figlia." "Io non era il suo confessore," rispose il Domenicano, con voce glaciale. "Oh, monsignore!" disse Manuel Argoso, con accento da intenerire una rupe; "monsignore, Dolores pure è accusata d'eresia? Dolores è prigioniera come me?" "Non è questione di vostra figlia in questo momento," rispose l'inquisitore, che voleva a bella posta prolungare le incertezze di quel padre infelice, "l'accusa cade sopra di voi, Manuel Argoso; confessate il vostro delitto se volte meritare il perdono del cielo e quello della santa Chiesa." Il governatore non rispose; il suo occhio, avido e febbricitante, interrogava quello di Pietro Arbues; cercava d'indovinare su i suoi lineamenti la sorte che riserbava a sua figlia, ma invano, la fisionomia dell'inquisitore non mostrava altro che una spaventevole durezza di cuore, circondata da un'aureola, d'ipocrita dolcezza. "Mia figlia! Che cosa avete fatto di mia figlia?" gridò il governatore, congiungendo le mani supplichevoli; "rispondetemi, monsignore, ve ne scongiuro; ditemi che nulla la minaccia, ed io potrò tutto soffrire.2 "Manuel Argoso," disse l'inquisitore con voce lenta e dolce, "non è momento d'occuparvi d'affezioni terrestri; pensate a Dio ed alla vostra salute, e lasciate alla Provvidenza la cura di vegliare su coloro che vi sono cari." Malgrado la simulata dolcezza delle sue parole, il viso dell'inquisitore esprimeva una volontà inflessibile. Il padre di Dolores comprese che non vi era da sperar nulla da quell'anima di ferro: curvò la testa sul suo petto,e, rassegnandosi con un eroismo degno dei primi martiri, "Sia fatta la volonta di Dio!" pensò egli, e serbò il silenzio. "fratello," gli disse l'inquisitore, con la voce più dolce, "confessate almeno che siete stato tentato dallo spirito maligno. Noi deboli creature, non fuggiamo sempre alle sue insidie, malgrado le migliori intenzioni. Ebbene! Fratello, diteci che il suo potere fatale vi ha sottomesso; che siete stato più cieco che colpevole; e, mitigando per voi il rigore delle pene terrestri, procureremo allo stesso tempo di salvare la vostra anima dalla perdizione." Il governatore non rispose. "Confessate almeno che avete preso piacere ad udire le massime filosofiche ed anticristiane di cui il luteranismo infesta l'Europa." "Io non so che cosa sia il luteranismo," rispose il governatore, "non me ne sono mai occupato.bisogna, invero che Lutero sia un grand'uomo per mandare così sossopra il mondo." A quest'ardita risposta l'assemblea intiera fremé di terrore, poiché aveva veduto un lampo sinistro splendere sugli occhi del grande inquisitore. Molto meno di questo era necessario per far condannare un uomo dall'Inquisizione. "Disgraziato! Egli bestemmia!." gridò Pietro Arbues; "egli si tradisce!" soggiunse piano. gli altri due inquisitori si scambiarono uno sguardo d'intelligenza. "E' dunque vero," proseguì Arbues, "che venite accusato con ragione di professare segretamente le massime del nemico di Dio, e d'essere l'ammiratore di Lutero?" "Come posso ammirare un uomo che non conosco, e sguir le sue massime?" rispose il governatore; " son esse dunque migliori delle mie? La sua religione è forse migliore di quella che mi è stata insegnata? E, d'altronde, chi mi accusa? Nominatemi il mio accusatore affinché possa confonderlo." "La carità cristiana non lo permette[29]," rispose il presidente. "Confessate, figlio mio, confessate, e pentitevi, è il solo mezzo di salute che vi rimane per l'altra vita." "Io non ho altro da dire," rispose il governatore; "non ho che a pregare Iddio, il quale conosce la mia innocenza, di svelarla a tutti e di convincerne i liei giudici. -Qualunque sia il nemico che mi accusa," continuò, "giuro in faccia a Dio, il quale mi vede e mi sente, che è un infame calunniatore; e dichiaro che mia figlia Dolores è un angiolo. Sia maledetto colui il quale osasse attentare alla purezza della sua vita! - Ora," soggiunse, "sia fatta la volontà di Dio sopra di essa e sopra di me; ho confidenza in colui che protegge gli innocenti!" Poi si ebbe un bell'opprimerlo di domande insidiose e molteplici: Manuel Argoso tenne un silenzio imperturbabile: fu impossibile di farlo parlare. "Disgraziato! Egli lo vuole," disse Pietro Arbues, con accento d'ipocrita commiserazione. E volgendosi verso gli uomini mascherati, che si tenevano immobili come spettri alla destra del tribunale, stese la mano in avanti, disegnando col dito l'inquisito. Un fremito glaciale corse nell'assemblea; bentosto vi regnò un terribile silenzio; nessun rumore si fece sentire nell'ambiente sonoro di quell'immensa sala: sarebbesi detto che tutti quegli esseri viventi fossero diventati di pietra. Solamente i quattro uomini mascherati sembrarono staccarsi dal suolo come fantasmi, scorrere lentamente e senza rumore sull'intavolato; poi giunti presso l'accusato, lo afferrarono, lo alzarono quasi sotto le braccia, senza che facesse un sol moto, e disparvero con lui per un porta laterale. XXIII. La camera del tormento. Nel mezzo d'una vasta rotonda, in un profondo sotterraneo rischiarato da due pallide fiaccole, quattro uomini mascherati circondavano un'altr'uomo, mesto e debole, che si sosteneva a pena, ed a cui la vista infievolita rendeva penoso ed affaticante il lugubre chiarore di quel luogo funebre. Un'aria umida e densa riempiva come nebbia infetta quelle regioni sotterranee da cui esalava un odore fetido e sepolcrale. In quella specie di grotta, intorno alle muraglie ineguali e bagnate dall'acqua che scorreva attraverso la molle pietra, vedevasi appesi gli stromenti di tortura: infernale ritrovato dell'ascetica e feroce immaginazione dei monaci, il cui solo aspetto faceva fremere. Vedevansi colà cavalletti, calzari di ferro, chiodi di una dimensione enorme, corde di tutte le grossezze; poscia in un canto, allato di un cavalletto, un braciere ardente che rifletteva le sue fiamme rossiccie e azzurrognole nella profondità di quell'angolo oscuro. Era spaventevole a vedersi. Si discendeva in quel luogo infernale per una quantità di piccoli scalini tortuosi, coperti di muffa e su cui si scivolava a ciascun passo sopra scorrevole poltiglia. Ma i servitori dell'Inquisizione avevano, come suol dirsi, il piede marino. Essi conoscevano i più piccoli anditi di quello spaventevole labirinto, in cui avevano condotto Manuel Argoso lasciando la sala del tribunale, ed in cui li ritroviamo adesso con l'infelice accusato, aspettando l'arrivo del grande inquisitore[30]. L'antico governatore di Siviglia erasi lasciato guidare o piuttosto portare, chiudendo gli occhi per non vedere la strada che gli si faceva percorrere; ma i carnefici essendosi fermati nel mezzo della camera del tormento (così si chiamava l'antro tenebroso), l'inquisito aprì gli occhi, volse attorno a sé uno sguardo inquieto, e quando non vide altro che la figura velata degli uomini sinistri che in quell'inferno terrestre compivano l'ufficio di demoni, e si chiamavano i tormentatori, quando ebbe contato uno dopo l'altro gli orribili strumenti di tortura che lo circondavano, la sua fantasia, indebolita dal digiuno e dalla reclusione, divenne preda di un'allucinazione bizzarra. Nella sua fede di religioso cristiano credette aver lasciato questo mondo, ed esser giunto in quel luogo orribile del quale parla il Vangelo, in cui sono lacrime e stridor di denti. Deve far meraviglia che in tali momenti, e nel mezzo di una simile fantasmagoria, l'Inquisizione abbia ottenuto le abiurazioni e le confessioni più strane e più contrarie al carattere degli uomini di cui faceva le sue vittime? Pietro Arbues arrivò finalmente, seguito da un secondo inquisitore e dal notaro apostolico. L'accusato era in piedi in mezzo alla camera del tormento. All'aspetto del suo giudice tornò al sentimento doloroso della realtà; alzando gli occhi verso il cielo, come per implorarlo, vide che al di sopra della sua testa, nella volta, erasi fissata una forte puleggia, nella quale passava una solida corda di canape, che cadeva fino ai suoi piedi. Involontariamente fremé. I quattro uomini mascherati stavano in silenzio presso di lui. Pietro Arbues e l'inquisitore che l'accompagnava, si assisero sopra delle seggiole per assistere a quella lugubre scena, conformemente al diciottesimo articolo del codice dell'Inquisizione, il quale voleva che uno o due inquisitori, assistiti dal notaro apostolico, fossero sempre presenti alla tortura per registrare le dichiarazioni dell'accusato. Manuel Argoso, benché avesse il coraggio delle anime forti, non poté difendersi da un terrore profondo; pensava a sua figlia, la quale avrebbe forse dovuto subire le medesime prove, e tutto il suo coraggio l'abbandonò. Se avesse potuto risparmiargliele confessando delitti immaginarii, non avrebbe esitato un sol momento; ma sapeva bene che una simile confessione la perderebbe invece di salvarla. Richiamò dunque a sé tutta la sua energia, e si preparò a soffrire. Ad un cenno del grande inquisitore i tormentatori spogliarono l'accusato de' suoi abiti, e lo lasciarono nudo fino alla camicia. Allora Pietro Arbues, avanzandosi verso di lui: "Figlio mio," gli disse con dolcezza, "figlio mio, confessate i vostri delitti, e non contristate la nostra anima perseverando nell'errore e nell'eresia; risparmiateci il dolore di obbedire alle leggi giuste e severe della santissima Inquisizione, trattandovi con tutto il rigore che esse reclamano." Manuel Argoso non rispose, ma gettò sull'inquisitore uno sguardo fisso, freddo ed acuto, uno sguardo che sfidava la tortura. "Confessate," proseguì Pietro Arbues, con una incredibile persistenza, ma sempre con voce piena d'unzione e di mansuetudine. "Noi siamo i vostri padri in Dio; ed il solo desiderio di salvare la vostra anima ci guida. Orsù, figliuol mio, una confessione sincera può sola salvarvi nell'altra vita, e risparmiarvi in questa le giuste vendette di Dio; confessate adunque, confessate il vostro peccato." "Io non posso confessare un delitto che non esiste," rispose il governatore. "Figlio mio," proseguì il giudice, "io mi rattristo della vostra impenitenza, e supplico il Signore di toccare la vostra anima, che senza la grazia sarebbe infallibilmente perduta; poiché il demone la tiene in suo potere, e v'inspira questa colpevole ostinazione nel male. Pregate adunque con me, se vi è possibile, perché Dio abbia pietà di voi, e vi mandi la luce dello Spirito Santo." Nello stesso tempo Pietro Arbues, inginocchiandosi a terra a lato del paziente, borbottò a voce bassa un'orazione non intelligibile, con aria devota ed intenerita. Poscia fece, uno dopo l'altro, molti segni di croce rapidi, si batté umilmente il petto, e restò alcuni minuti col viso appoggiato sulle mani giunte. In quel momento il feroce inquisitor di Siviglia non era che un umile Domenicano che pregava e piangeva per i peccati degli altri. Finalmente si alzò. "Disgraziato schiavo del demonio," disse allora, indirizzandosi all'accusato. "Dio si è degnato esaudire le mie umili preghiere, e schiudere i vostri occhi alla luce della nostra fede!" "La mia fede è sempre la stessa," rispose Argoso, "essa non ha variato mai un solo istante, come l'ho ricevuta da mio padre, che era un pio cristiano, così la porterò nella tomba." "Dio mìè testimone che non vi ho colpa," disse il giudice, alzando gli occhi al cielo; "via," proseguì, guardando i tormentatori, "applicategli la corda." A queste parole l'accusato chiuse gli occhi; un sordo bisbiglio risuonò nelle sue orecchie; un sudore freddo inondò le sue membra, e fremé fino nelle sue viscere. I tormentatori tirarono a sé la fune che pendeva dalla vòlta. "Voi continuerete la tortura finché giudicheremo convenevole di farla cessare," continuò l'inquisitore, " e se in questo tempo sopravvenisse all'accusato, sia un lesione, sia la frattura di un membro, sia anco la morte, protesto davanti a tutti che la colpa dev'essere imputata a lui solo." "Ed ora sia fatta la volontà di Dio," soggiunse stendendo la mano verso i carnefici. Bentosto i quattro uomini mascherati si impadronirono dell'infelice governatore, e gli legarono le mani dietro il dorso con un capo della corda che pendeva al di sopra della sua testa, poscia, prendendo l'altro capo, alzarono col mezzo della puleggia, il paziente fino all'altezza della volta, e lo lasciarono ricadere ad un tratto fino alla distanza di mezzo piede dal terreno. Lo sventurato restò mezzo svenuto da quella terribile scossa. I tormentatori attesero per qualche minuto che fosse ritornato in sé stesso; ed appena ebbe riaperto gli occhi ricominciarono quella crudele ascensione, e lo lasciarono ricadere con violenza come la prima volta. Questo supplizio durò un'ora[31]. L'infelice governatore non aveva proferito lamento, soltanto il suo petto, affannoso e soffocato, mandava un respiro roco e frequente, simile al rantolo dell'agonizzante. I suoi occhi, secchi e vitrei come quelli dei moribondi, sembravano doversi chiudere all'ultimo sonno. La corda che serrava i polsi della mano, era sì penetrata nelle carni, che il sangue del torturato essendosi sparso per tutto il corpo; la camicia, il solo abito che gli fosse lasciato, era sporca di un fango sanguinolento, poiché il suolo era terroso ed umido, e, finita la tortura, l'infelice governatore, sciolto dai suoi lacci, era caduto a terra come una massa inerte; le sue ossa slogate ed i suoi muscoli contusi non potevano più sostenerlo. Era uno spettacolo lacerante ed orribile il vedere quell'uomo forte, grande e robusto, ancora nel vigore dell'età, annichilito da un'atroce tortura, e tormentato innanzi d'essere giudicato. Che non dovevasi attendere da un giurisprudenza che imponeva agl'inquisiti simili prove! Ma gl'inquisitori non avevano viscere; essi regnavano per la tortura. Si pascevano d'agonia. "Che si riconduca quest'uomo nella sua prigine," disse Pietro Arbues, con aria afflitta, "basta per oggi." E volgendosi verso l'inquisitore consigliere: "Fratello," disse, "non dimenticate questo sfortunato nelle vostre preghiere." Tale era la maniera d'agire degl'inquisitori in faccia alle loro vittime; essi coprivano l'abominevole durezza del loro cuore sotto le apparenze ipocrite d'una profonda pietà. Due birri alzarono nelle loro braccia l'infelice governatore. Manuel Argoso non dava più segno di vita. XXIV. Le carceri dell'Inquisizione. Era mezza notte. Tutti dormivano in Siviglia, eccettuati forse gl'infelici prigionieri rinchiusi nella carceri dell'Inquisizione. Agli ingrassi di quell'oscuro edifizio, chiamato prigione della fede, nulla rischiarava l'oscurità della notte. Regnava un silenzio di morte; quelle tombe che racchiudevano dei vivi erano troppo profonde perché le grida delle vittime agonizzanti potessero giungere al di fuori. Due persone si avanzavano a passo furtivo verso la prigione, un monaco e una donna. La notte era sì oscura ed i loro abiti sì cupi, che neppure una spia avrebbe potuto distinguerli contro la muraglia annerita che seguivano appoggiandosi alle pareti per guidarsi nell'oscurità. Giunsero bentosto alla porta della prigione; il monaco batté un colpo secco e sonoro, benché leggiero, con una chiave che teneva in mano; nel medesimo istante la porta girò lentamente sui suoi cardini come per magia. Il monaco e la donna furono introdotti all'interno. Nessuna luce rischiarava i loro passaggio, e poiché furono entrati, la porta si richiuse dolcemente senza scricchiolare su' suoi cardini, diligentemente unti per l'avanti. "Oh! Io tremo," disse a voce bassa la compagna del frate. "Rassicuratevi, Dolores," rispose Josè, "rassicuratevi; con me non avrete nulla da temere." La fanciulla s'appoggiò sul braccio del Domenicano per sostenersi, poiché il suo cuore batteva con violenza. Il carceriere aveva in questo tempo accesoun lanterna cieca. "Reverenza," disse indirizzandosi al monaco, "ove debbo condurre Vostra Paternità?" "Al carcere del governatore di Siviglia; va, e cammina avanti di noi." Il carceriere esitò un istante; egli sapeva con qual barbarie sarebbe trattato dall'Inquisizione se si scuopriva che aveva introdotto una donna nel carcere d'un prigioniero. "Ebbene" disse Josè, "tu esiti?" "Reverenza!." Il favorito del grande inquisitore fece un cenno imperativo, Il carceriere andò bentosto innanzi, senza ardire di parlare. Il monaco e la fanciulla lo seguirono. Avanti di giungere al luogo sotterraneo ove il Santo Uffizio teneva le sue vittime, discesero per una scala a chiocciola di circa cinquanta scalini. Un odore nauseante, insopportabile, esalava da quei luoghi infetti. Il fraticello e la sua compagna si sentirono soffocati e presso a svenire; la delicatezza dei loro organi rendeva loro quell'odore intollerabile[32]. Tuttavia Josè, più coraggioso, sostenne col suo braccio Dolores, pallida e quasi priva di sensi. "Oh!" Gridò la fanciulla con angoscia, fermandosi sull'ultimo gradino della scala, "qui dunque abita mio padre!." "Coraggio!" disse a voce bassa il Domenicano, "coraggio, voi ne avete bisogno!" In quel momento una porta pesante di ferro si aprì con fatica, lasciando sfuggire fuori uno sbuffo d'aria sì densa e sì fetida, che somigliava a fumo. "E' qui, Reverenza," disse il carceriere, rimettendo al monaco la lanterna cieca che teneva nelle mani, "entrate, ma, in nome del cielo! Non fate rumore e non vi trattenete molto." "Allontanati," disse imperiosamente Josè, prendendo la lanterna dalle mani del carceriere; "no debbo ascoltare obiezioni da te." Il carceriere obbedì e si ritirò in un angolo oscuro del corridoio sotterraneo. Allora, al chiarore incerto e vacillante della lanterna, Josè cercò di guidare Dolores in quella profonda oscurità. Passarono la soglia di quella porta angusta, e dopo che i loro occhi si furono un poco abituati alla dubbia luce che li circondava, nel fondo del carcere, largo dieci piedi su dodici, sopra uno strato che ne occupava la metà, videro un uomo disteso come addormentato. Quest'uomo era l'antoco governatore di Siviglia. Era solo; gli altri cinque prigionieri che d'ordinario abitavano quella spelonca, capace solamente di tre persone, erano morti l'uno dopo l'altro durante o appresso la tortura. L'infelice Argoso, più forte e più coraggioso, aveva resistito alle terribili ascensioni da lui subite, alcune ore dopo essere stato riportato nella sua carcere era tornato alla vita ed al dolore. Nel momento in cui sua figlia entrò nella prigione, un leggiero sonno l'aveva sottratto al supplizio di abitare in quel luogo immondo. Alcuni vasi di terra, destinati a soddisfare i bisogni naturali, e che non si vuotavano che ogni settimana, esalavano attorno a lui un odore intollerabile. Quella orribile spelonca non riceveva luce che da una specie d'abbaino esistente nella parte superiore del muro a livello della strada, ed era sì umida, che la stuoja su cui dormiva il prigioniero, era intieramente muffata, e sen'andava in pezzi. Quando la prigione era piena, lo strato si trovava troppo piccolo, onde i detenuti meno deboli dormivano sulla terra fredda e fangosa:; tali erano i luoghi in cui l'Inquisizione racchiudeva le sue vittime[33]. Dolores si avvicinò dolcemente allo strato su cui dormiva suo padre, e, giungendo le mani con un'espressione di dolore ineffabile, lo considerò per alcuni istanti; tuttavia non poteva vedere il suo viso, voltato dalla parte del muro ed appoggiato sopra uno dei suoi bracci; sembrava sì tranquillo che non osò svegliarlo. Ma avvicinandosi a sua volta, Josè urtò in una mezzana di terra che incontrò nel suo passaggio. Al rumore che fece cadendo, il governatore alzò la testa; era sì pallido e sì cambiato, che sua figlia sola poteva riconoscerlo. "Padre mio!" gridò Dolores con gemito doloroso. Gli si gettò, singhiozzando, sul seno, e tenendolo fra le braccia col sublime entusiasmo della tenerezza e del dolore, lo strinse contro il petto. Ma lo sventurato padre non rispose a quella stretta; suo malgrado un lamento lacerante sfuggì dalle sue labbra: la figlia aveva, abbracciandolo, risvegliati i cocenti dolori delle sue membra slogate. "Che cos'hai?" esclamò essa, provandosi di sollevarlo fra le sue deboli braccia." "Nulla, non ho nulla, mia diletta Dolores," disse egli sforzandosi di sorridere: "oh! Io sono felice di rivederti!" Josè indovinò tutto; aggrottò il sopracciglio, facendo un gesto energico d'indignazione, e mormorò a voce bassa: "Oh! Se avessi saputo questo, mio Dio." Manuel Argoso faceva vani sforzi per rialzarsi; le sue braccia paralizzate dalla sofferenza, le sue ossa slogate, ed i suoi muscoli contusi, rimanevano inerti, e ricusavano d'obbedire agli sforzi della volontà. Sua figlia, il solo essere che egli amava al mondo, la sua figlia che aveva creduto di non rivedere mai più, era là dinanzi a lui, nella sua prigione, ove era discesa come per miracolo, e non poteva stringerla con amore contro il suo seno; non poteva che balbettare parole senza seguito, interrotto da singhiozzi e da lacrime. Quella morte esteriore che lo colpiva vivo era un'indicibile tortura. I suoi occhi non potevano saziarsi di contemplare sua figlia, ei la esaminava minutamente con un amore appassionato, con la tenerezza santamente puerile di una madre, ma senza parlare; sospiri tumultuosi gonfiavano il suo petto, il suo grande occhio, oscuro, brillante e febbrile, nella sua orbita profonda si velava di lacrime, e le sue labbra tremavano, agitate da moti convulsi. "Oh! Tu sei dunque libera!" esclamò finalmente con un'espressione di gioia sì vera e sì trista, che il cuore di Josè vibrò come un metallo sonoro; un fremito glaciale corse nelle sue ossa, e con un atto involontario cadde alle ginocchia del governatore. "Chi è questo monaco?" domandò Manuel Argoso. "Un angiolo, padre mio," rispose Dolores; "un angiolo che ci ha riuniti." "Troppo tardi!" mormorò il governatore. "Perché troppo tardi?" replicò la fanciulla; "tu soffri, ma noi ti slaveremo." Essa non comprendeva che di quell'uomo robusto l'Inquisizione aveva fatto un cadavere. Josè non si contenva più. Lacrime amare gonfiavano il suo seno; la sua indignazione lo uccideva. "Disgraziata figlia!" gridò egli con isfogo, "non vedete che hanno rotto le sue membra!" "Tacete, tacete!" gridò vivamente il padre. Non era più tempo; Dolores aveva tutto compreso. Colpita, abbattuta, si gettò in ginocchio davanti alla stuoia su cui era coricato il suo infelice padre; sollevò dolcemente le sue membra contuse, le cuoprì di baci e di lacrime; le sembrava che, a forza di tenerezza, avrebbe potuto rendere a suo padre la vita che gli era stata tolta. Ma finalmente, vedendo che i suoi sforzi erano inutili, e che l'infelice governatore, sempre immobile, non viveva che per il dolore, si volse con collera verso il Domenicano: "Voi lo sapevate," ella disse, "e non me ne avete avvertita!" "Se l'avessi saputo," rispose Josè, "non vi avrei condotta qui; sono stato ingannato come voi, Dolores; è stata applicata la tortura immediatamente dopo l'interrogatorio, ciò che non si fa quasi mai; e voi sapete che ieri sono stato costretto ad assentarmi da Siviglia." "Oh mio Dio! Essi l'hanno ucciso," mormorò dolorosamente la fanciulla. E coprendo le mani di suo padre di baci convulsi: "Vedete, don Josè ei non può più fare alcun passo, e l'hanno abbandonato così in questa prigione infetta senza neppure medicare le sue ferite. Oh padre mio! Come avete potuto vivere in questa tomba?" "Calmati, figlia mia," disse dolcemente il governatore; i miei mali non sono irrimediabili; guarirò, rassicurati." "Sì, guarirete," ella disse con risoluzione, "perché io resterò qui per curarvi. - Chi oserà strapparmi dappresso di lui?" gridò la fanciulla con nobile entusiasmo, gittando attorno di sé uno sguardo sublime"Io," rispose Josè, "io, che voglio slavarvi tutti e due." "Voi me lo avete già detto," ella disse, "e frattanto vedete in qual stato l'hanno ridotto. Voi tutti m'ingannate, io non ascolto che me stessa, voglio restar qui!" "Dolores," disse il fraticello, "credetemi, non cedete a questa inutile esaltazione, restate libera per salvar vostro padre. Non si riprenderà così presto l'istruzione del processo. Non sapete che Estevan e Giovanni d'Avila s'occupano dei mezzi di strapparlo all'Inquisizione?" "Mi hanno dunque cercato dei testimoni!" domandò Manuel Argoso con voce debole. A quella parola di testimoni la figlia del governatore si rammentò di un progetto che già l'aveva occupata. "Don Josè," disse rivolgendosi verso il giovane Domenicano, "mi assicurate voi che le ferite di mio padre possono guarire?" Josè, che aveva alcune cognizioni in chirurgia, toccò, l'uno dopo l'altro le membra del prigioniero. "Ve lo giuro," rispose; "fra pochi giorni vostro padre potrà camminare: le sue articolazioni sono state rimesse." "Ebbene," proseguì Dolores, dissimulando il suo pensiero pel timore che Josè le impedisse di metterlo in esecuzione, "aspetterò il ritorno di Giovanni d'Avila." "Don Manuel," disse il fraticello, indirizzandosi al governatore, "non vi affrettate a mostrarvi guarito: ritardate, per quanto è possibile, un secondo interrogatorio, laciate ai vostri amici il tempo di giungere.Dio avrà pietà di noi," continuò con una cupa esaltazione, "ed il giorno della vendetta non è lontano!" "io posso sopportar tutto," rispose il governatore, "la mia figlia è libera: e voi non ci tradirete!" soggiunse guardando Josè con sembiante indefinibile. Manuel Argoso aveva paura di quell'uomo che portava la livrea dell'Inquisizione. "Io gli debbo la libertà," disse vivamente Dolores che comprendeva i timori di suo padre, "è egli che mia ha salvata dal disonore e dalla morte, sperate in lui.e voi, don josè," disse ella con dolcezza, "perdonate le mie ingiustizie e le mie rivolte, oh! Io soffro tanto, mio Dio!" "io pure ho sofferto," rispose amaramente il giovane Domenicano; "ecco perché m'interesso per voi e vi perdono." In quell'istante alcuni passi risuonarono sulla stretta scala che conduceva alle prigioni. Josè nascose con prestezza la lanterna cieca sotto il suo mantello, e guardando il governatore e sua figlia: "Neppure un parola," disse, "aspettate." Un amaro sentimento di dubbio attraversò il cuore di Manuel Argoso; malgrado la confidenza di sua figlia: temeva un tradimento: tuttavia non dimostrò nulla. Il rumore continuò ancora per alcuni minuti. Coloro che discendevano la scala passarono davanti alla porta del carcere dove il governatore era rinchiuso, poscia si allontanarono d'alcuni passi; la porta d'un carcere vicino si aprì, si richiuse, fu risalita la scala, e non si udì più nulla, fuorché singhiozzi convulsivi che la grossezza dei muri non poteva intercettare. I birri del Sant'Uffizio avevano terminata una spedizione notturna. "ancora un vittima!" disse amaramente Josè. "una donna!" soggiunse Dolores, fremendo; "lìho riconosciuta dalla voce." "va, va!" gridò il governatore, "l'aria di questa prigione è contagiosa; ritorna alla libertà, o mia Dolores, noi ci rivedremo, va!" "Si, ci rivedremo, padre mio, perché io ritornerò;" disse la fanciulla, interrogando Josè con lo sguardo. "Qui no," disse vivamente il governatore, "qui no, io te lo proibisco, fa tutto quello che potrai per liberarmi, ma, in nome del cielo! Non ritornar qui." "venite, venite," disse Josè, "egli ha ragione; non si è mai sicuri nelle prigioni del Sant'Uffizio." "Non ancora, oh! Non ancora!" diceva Dolores, attaccandosi a suo padre, che non poteva più lasciare. "E' forza," proseguì il fraticello, impiegando quasi la violenza per distaccarnela. "Addio don Manuel, sperate, voi avete degli amici, essi vi salveranno." In quel momento il carceriere aprì la porta del carcere e disse a Josè: "Reverenza, conducete via questa fanciulla, ve ne supplico; essa non è sicura qui, ed io rischi la mia vita; ve ne scongiuro, conducetela via." "addio, padre mio; non bisogna far ricadere la nostra sventura sopra altri: addio, e fatevi animo,"soggiunse piano, abbracciandolo per l'ultima volta. Dolores e Josè uscirono, la porta del carcere si rinchiuse sul prigioniero. XXV. Una gran festa a Siviglia. Era un giorno di gran gala a Siviglia. I balconi facevano mostra dei loro splendidi arazzi di seta, o dei bei tappeti di granata. Erasi elargito verso il popolo; fino dallo spuntar del sole, del vino di Pajarete usciva a grandi fiotti dalla fontana della Spianata. I gitani, i mendici ed i frati avevano fatto un'ampia raccolta; perché in Spagna i giorni di festa il buon popolo spagnuolo era, come suol dirsi, la provvidenza dei frati e dei gitani. Ciascuna di queste caste sapeva alla sua maniera governare la di lui credulità, o la di lui dabbenaggine: i frati col mezzo delle reliquie da baciarsi; gli altri predicendo la buona fortuna, e dando amuleti alle ragazze: tutte cose importanti che non rimanevano mai senza premio. L'immaginazione del popolo, quella folle e vivace maga, sì ardente in quei climi meridionali, non si è mai sottratta ai furbi, ed i furbi non vi sono mancati giammai. Perché non si sono trovati uomini gravi, animati dal santo amore dell'umanità, che abbiano saputo volgere a bene quella tendenza al meraviglioso, poetizzare, per così dire, la filosofia, rendere la ragione e la verità incantevoli a forza di vestirle con poesia bella e sublime, e finalmente ottenere nel bene quello che il fanatismo aveva ottenuto nel male, dominare, cioè le masse a fine di renderle felici, come regnava su di esse per la loro eterna sventura? Questo giorno verrà senza dubbio: la lotta è cominciata, il genio dell'avvenire stende già le sue ali sulla Spagna. Possa egli, come lo spirito santo di Milton, fecondare quel vasto abisso per tanto tempo immensurabile, e da quel profondo caos di passioni e di pensieri diversi far risplendere l'eterna scintilla! Ma torniamo a Siviglia. Era, come abbiamo detto, un giorno di festa straordinaria. La bella città andalusiana aveva con giubilo deposto per un giorno le gramaglie che abitualmente la cuoprivano. Molti cuori sanguinavano, senza dubbio, profondi dolori o amari risentimenti vivevano nell'anima degli Andalusiani; ciò non ostante, quei giovani spensierati della più bella contrada dell'universo, quei figli del piacere, che sono più artisti e più poeti senza saperlo dei più grandi scrittori e dei cantori più celebri, erano tornati pazzamente alla loro canzone diletta, al loro voluttuoso ballo. L'Inquisizione era dimenticata, dimenticati i morti, dimenticati i birri, dimenticato il terrore; i sivigliani, ritornati musici, poeti ed amanti, cantavano e danzavano con delirio; non vivevano più che del momento presente, e, cosa strana, quella festa, oggetto di sì vivo entusiasmo, era una festa in onore dell'Inquisizione. La nobile città di Siviglia celebrava l'arrivo nelle sue mura del duca Medina-Coli, gran porta stendardo della fede[34], venuto a tenere il suo posto in un atto-di-fede reale che doveva aver luogo per celebrare uno di quegli innumerevoli piccoli trionfi di Carlo V, il quale ne aveva avuti sì grandi contro il protestantismo d'Alemagna: trionfi il più spesso seguiti da sconfitte, miscuglio di bene e di male, di alleanze e di defezioni che dopo la lega si Smalkald[35], tennero tanto tempo l'Europa in sospensione, e fecero dubitare chi sarebbe il vincitore, se Roma o Lutero; trionfi i quali servirono tante volte di pretesto alla chiesa Romana, per moltiplicare i roghi. La notte era venuta bella e stellata, come al solito. L'aria serena e profumata, l'eccitazione della danza e del vino della fontana avevano portato un aumento di esaltazione fra il popolo di Siviglia. Mai la Jacara non era stata ballata sì di buon animo, né la canzone cantata con più voluttuoso abbandono. E' vero che il duca di Medina-Coli, che pagava la festa con i suoi denari erasi mostrato grande e generoso signore: aveva largamente fornito di che bere ai gentiluomini, ai Moreschi ed agli accattoni della città. Ma mentre il popolo gioiva nelle strade, bisognava bene che i signori ed i grandi di Spagna, avessero la loro parte in quella festa nazionale. I gentiluomini di Siviglia ben pensanti (vale a dire i servitori dell'Inquisizione), divertivansi adunque dal loro lato nelle splendide sale del conte e duca di Mondejar, genero e nipote del potente ed eccellentissimo duca di Medina-Coli. Dopo un sontuoso banchetto, che aveva avuto luogo presso il conte di Mondejar, i convitati, riuniti in una delle magnifiche sale del palazzo, discorrevano assisi su larghi divani di seta, che rammentavano il lusso orientale dei re di Siviglia, fumando deliziosi cigarri, lusso che in quell'epoca non era ancora permesso che ai re ed ai grandi signori[36]. Numerose lumiere di cristallo di rocca, sospese alla soffitta, gettavano nella sala una splendida luce che scorreva in ondulazioni erranti sugli abiti di seta di quei nobili signori. Niuna donna era stata ammessa in quel divertimento serale, che sarebbesi potuto designare col nome di circolo cattolico inquisitoriale, e del quale il conte di Mondejar era il presidente, salvo tuttavia i rari momenti in cui il suo illustrissimo suocero degnatasi di onorare di sua presenza quella santa riunione. "Sapete, don Rodrigo, che un nuovo trionfo è stato riportato dal cattolicismo sui protestanti d'Alemagna dovuto alla politica ammirabile del nostro amorevolissimo sovrano Carlo V?" Queste parole, pronunziate con tutta l'enfasi casigliana da un giovane signore, favorito del duca di Mondejar, che già si veniva additando come suo genero, s'indirizzavano ad un vecchio i cui abiti indecenti e senza grazia contrastavano in un modo singolare con l'eleganza ricercata, benché severa, dei signori che componevano l'assemblea. Tuttavolta, malgrado la miserabile e sordida apparenza dei suoi abiti, quell'uomo aveva una grande nobiltà di maniera, e quel disordine esteriore sembrava essere piuttosto l'effetto della negligenza, o di un cinismo superbo, che quello della miseria. La sua fisionomia, rozza ed altiera, svelava il genio, mentre le linee orizzontali che si vedevano sulla vasta fronte, unite ad un aggrottare si sopraccigli particolare, tradivano delle abitudini meditative, innestate sopra passioni tumultuose ed anco disordinate. Quel volto doveva aver subito la stessa trasformazione di quello di Socrate: l'anima, modificandosi, l'aveva assoggettato a quella metamorfosi, e se lo sguardo ardente ed alquanto obliquo di quell'uomo attestava che era in preda ad un entusiasmo abituale, i contorni decisi de' suoi lineamenti, la fina ironia de' suoi labbri e la severità della sua fronte annunziavano che il suo pensiero, lucido e profondo, non aveva nulla di quella instabilità che caratterizza gli insensati, ma che, al contrario, era in lui un diritto e completo sviluppo nelle facoltà intellettuali. Si volse lentamente verso il giovane che gli aveva indirizzata la parola e lo guardò senza rispondere. "Ecco, avremo un mese di feste e di divertimenti pubblici," continuò il giovine signore, "senza contare l'atto-di-fede reale, che sarà certamente di grande effetto, stando alle promesse del programma." "State tranquillo, che non vi mancherà niente," riprese il vecchio, con accento che il suo interlocutore prese per una approvazione, ma che era pieno d'amarezza e d'ironia. "Niente, infatti," proseguì il giovane che si chiamava don Carlos; "poiché si assicura che il grande inquisitore ha serbato per questa solennità don Manuel Argoso, l'antico governatore di Siviglia." "Un vero cristiano," disse gravemente il vecchio. "Hum!" disse don Carlos; "era l'amico intimo di don Estevan de Vargas, e don Estevan de Vargas si è sempre dato aria di filosofia. Egli sa di eretico un miglio lontano; convenitene, don Rodrigo de Valero." "Don Estevan ha cuor nobile," rispose don Rodrigo, "ma ha qualche nemico.non ha voluto giammai servire nella milizia di Cristo. -E voi, don Carlos," continuò egli con tuono leggermente sarcastico, "siete finalmente giunto a farvi dare il Santo?" "Non ancora," rispose tristemente il futuro genero del duca di Mondejar; "ma spero farne stasera un motto a sua eccellenza monsignore il grande porta-stendardo." "L'occasione è bella veramente; io vi consiglio di non lasciarla suggire." "Come, don Carlos, volete voi divenir famigliare?" gridò un giovane signore aragonese, venuto per la prima volta in quella illustrissima assemblea. "Senza dubbio, don Ximenes; oserei, senza di ciò, pretendere la mano di donna Isabella, la figlia del duca di Mondejar?" "Trista parte per un cavaliere castigliano," disse l'aragonese, scuotendo la testa. "Al contrario, bella parte," disse Valero, con voce stridula, "bella parte, don Ximenes! Essere famigliare dell'Inquisizione?.è lo stesso che essere a cavallo sulla via della fortuna. Portare sotto il suo abito le insegne di quell'Ordine è lo stesso che avere il suo passaporto per i posti più importanti del regno; con quelle si arriva a tutto! Quali case in Ispagna, ditemi, riuniscono più cariche, ricchezze ed onori di quelle di Medina-Coli e di Mondejar? Credete voi che se don Manuel Argoso e don Estevan de Vargas fossero appartenuti al Sant'Uffizio, sarebbero oggi, uno sul punto d'esser bruciato vivo, l'altro errante per monti e per valli; e che se il confessore della bella Dolores si fosse chiamato don Pietro Arbues, ovvero don Josè, questa graziosa eretica sarebbe ora povera e vagabonda come una gitana, non avendo neppure una pietra per capezzale?" "Silenzio!" disse don Ximens, "voi vi perdete, signor Valero." "State tranquillo; mi prendono per un insensato." Infatti gli altri signori che componevano quella riunione, occupati di gravissimi nonnulli relativi agli affari della religione, non prestavano veruna attenzione ai discorsi di Rodrigo de Valero, del quale non s'inquietavano menomamente, perocché non comprendevano la sua profonda sapienza. "Credetemi, signore," proseguì il vecchio, "oggi in Ispagna non vi è che una specie d'onore: appartenere al padrone, e voi sapete che il padrone è l'Inquisizione.- Per l'addietro," continuò, animandosi a grado a grado, "per meritare il nome di prode cavaliere bisognava sapere rompere una lancia e domare un cavallo focoso. Era reputato leale e buon servitore del re colui che aveva combattuti i Mori sui campi di battaglia. Allora vi era della gloria!.oggidì, signori, non vi sono più Mori da combattere, non vi sono che Mori da denunziare! Non vi è più una nobile e bella regina che vi ricompensi di un sorriso al ritorno dal combattimento, e vi porga la sua candida mano da baciare; vi sono dei monaci che vi benedicono con lurida mano quando avete perduto un fedele servitore del re.; una volta, dopo un giorno di battaglia, gli squadroni si formavano in cerchio, ed un araldo d'armi proclamava per tre volte il nome di coloro che avevano ben combattuto, e per sei volte il nome di coloro che erano morti con l'armi alla mani. Oggidì il nome dei servitori del Sant'Uffizio non è pronunziato da veruno; essi non hanno neppure il diritto di mostrare la loro infamia." "Don Rodrigo?" gridò il giovane aragonese, spaventato dalle parole che aveva ascoltate; "sull'anima mia! Io non darei un soldo per la vostra testa." "Don Rodrigo de Valero ha un'audacia ed una fortuna inconcepibile," aggiunse don Carlos; "gli si lascia dire quello che vuole." "E' singolare, non è vero, don Carlos?" replicò il vecchio con maggior amarezza, "poiché se io non mi chiamassi don Rodrigo de Valero, riferendo solamente a Pietro Arbues il quarto di quello che avete udito, sareste sicuro di ottenere la mano di donna Isabella, e sareste iscritto, senz'altra informazione, fra quell'orde di demoni che si chiamano soldati di Cristo[37]. Disgraziatamente io non valgo neppure la pena di una denunzia, e voi perdereste in ciò il vostro tempo." Terminando queste parole il veglio lasciò l'assemblea. Don Carlos arrossì fino alla fronte, e rimase con gli occhi bassi. In quel momento il grande inquisitore entrò nella sala, accompagnato dal duca di Medina-Coli. Il duca era un vecchietto rachitico, malaticcio e di carnagione giallastra. Il suo occhio alquanto rosso, tradiva dei costumi ascetici, aveva il passo ineguale, la voce rauca e troppo forte per sì meschino personale; ciò che produceva un effetto sbizzarrissimo; quando parlava, si credeva ascoltare la voce d'un ventriloquio, tanto quest'organo, smisuratamente sviluppato, era in disarmonia con l'esteriore del duca. Il grande signore ed il prete salutarono l'assemblea; poi il duca, indirizzandosi a don Carlos: "Giovine," disse, "mio genero mi ha parlato di un desiderio da voi espresso; io ne ho detto parola a Sua Eminenza, che, spero, mom vi ricuserà questa grazia." "Signor don Carlos," soggiunse Pietro Arbues. "godo nel vedere il vostro zelo per il servizio di Dio." "Orsù dunque, non siate timido," riprese il duca, "Sua Eminenza conosce il vostro merito; sa quanto il vostro sangue è puro[38]." Don Carlos non rispose. Questo giovane signore, che due giorni innanzi avrebbe dato tutto per divenire famigliare del Sant'Uffizio, titolo che il duca di Mondejar esigeva da lui per accordargli la mano di sua figlia, vergognava in quel momento di averne fatto domanda. Il dica di Medina-Coli non intendeva la sua esitazione, ed ingannandosi sui veri sentimenti del giovane, si voltò verso il grande inquisitore. "Monsignore," disse, "questo giovine cavaliere sarà un caldo difensore della nostra santissima religione." Pietro Arbues porse a baciare la mano a don Carlos, e gli disse in tuono dolce: "Domani, dopo la gran messa, trovatevi alla cattedrale per ricevere il santo di mia propria mano." Don Carlo s'inchinò senza rispondere. In quell'istante un usciere, sollevando un portiera di velluto cremisi, che cuopriva l'ingresso della sala, annunziò ad alta voce: "Donna Dolores Argoso y Cevallos." L'inquisitore trasalì, e vedendo un gabinetto aperto contiguo alla stanza in cui si trovava, vi trascinò il duca di Medina-Coli. In quel momento Dolore entrava nella sala. All'aspetto di tanata gente la fanciulla si arrestò confusa, cercando con lo sguardo il padrone della casa. Il duca di Mondejar erasi pertanto alzato al di lei nome; ma vedendo l'inquisitore disparire col duca di Medina-Coli, temé sì fortemente di offendere Pietro Arbues, che appena si sentì la forza di fare un passo verso la figlia del suo vecchio amico; restò fermo ed in piedi al suo posto, balbettando per abitudine alcune formole di convenienza. Dolores si avanzò verso di lui con aria nobile e toccante. Un mormorio d'ammirazione circolò nell'assemblea, malgrado il terrore che avevasi di un'eretica, tant'era grande il prestigio di quella bellezza sovrumana, unita alla dignità dell'anima. "Monsignore," disse Dolores, vedendo il duca di Mondejar impallidire e tremare al suo avvicinarsi, "la presenza di una fuggitiva è dunque sì fatale presso di voi, che essa debba cangiare in tristezza la gioia che anima questa nobile assemblea?" Il duca le indicò una seggiola senza rispondere, uno di quegli sgabelli scolpiti, sì ricchi e sì duri, mobili già antichi che appartenevano al medio evo, conservati nelle famiglie come una tradizione. Dopo che si fu assisa, la figlia del governatore rimase alcuni istanti senza parlare. Il duca serbava egualmente il silenzio, un silenzio forzato e pieno d'imbarazzo. Malgrado il suo coraggio, Dolores si sentì presa da quella timidezza propria delle fanciulle, che, se non è incoraggiata, degenera in una vera sofferenza. La sua fronte si cuoprì di un ardente rossore, essa sentì il suo cuore battere a colpi precipitati nel suo petto, e le sue tremule labbra ricusarono di articolare una sola parola. I testimoni di quella scena attendevano con una ansietà crescente. Vedendo Dolores in quello stato il conte di Mondejar provò una estrema compassione per quella giovane e bella creatura, poco prima sì brillante, ora s' povera, sì abbandonata, e che si presentava a lui sotto l'umile livrea di una fanciulla popolana. Ma il grande inquisitore e duca di Medina-Coli potevano, dal gabinetto in cui erano entrati, vedere ed udire ciò che accadeva. La fortuna, la vita d'un signore spagnuolo dipendevano intieramente dall'Inquisizione, ed il duca di Mondejar aveva quel terrore profondo che, bisognava ben dirlo, snervava il carattere nazionale, naturalmente sì nobile, sì cavalleresco, sì affezionato! Dolores esaminò per alcuni istanti la fisionomia del duca, e non s'ingannò, a quella freddezza glaciale, a quella maschera di bronzo che ricusava di tradire le emozioni dell'anima. -Mio padre è perduto!- pensò essa. Tuttavia, risolta a sfidar tutto, ritrovò con grande sforzo di volontà la sua solita energia, e alzandosi dalla sua seggiola con una nobiltà ed una modestia pena di seduzioni: "Monsignore," disse, indirizzandosi al duca di Mondejar, "io vedo quanto la mia presenza vi è penosa, e non vi do torto, poiché so bene quanto vi apporta di pericolo. La sventura è tanto contagiosa!.ma non sarà detto che io abbia ricusato il compimento di un dovere. Mio padre geme nelle carceri dell'Inquisizione, mio padre, calunniato senza dubbio," aggiunse ella arrossendo, poiché non voleva svelare il vero motivo della sua disgrazia, "mio padre sarà condannato come colpevole se i suoi amici non verranno in suo aiuto. - Voi l'avete amato, monsignore," proseguì essa, "e meglio di ogni altro conoscete la purezza della sua fede: siate suo testimone in questa disgraziata causa, ché la testimonianza di uno dei più puri cristiani di Siviglia confonderà la calunnia e l'impostura: rendete un padre a sua figlia.oh monsignore! Rendetemi mio padre ed io vi benedirò!" "quando io volessi, un testimone non basta," rispose il duca di Mondejar, imbarazzatissimo dell'effetto di questa risposta. Allora Dolores, volgendosi verso l'assemblea con un atto pieno di dolcezza e di grazia: "Signori," disse con voce supplichevole e piena di lacrime, "signori, voi tutti avete conosciuto mio padre!" Un silenzio di morte rispose solo a quel richiamo. Dolores giunse le mani, e alzò verso il cielo uno sguardo disperato. In quel momento Rodrigo de Valero entrava nella sala; egli aveva udito ciò che era accaduto. Con aria fiera e grave si avanzò verso la fanciulla e, salutandola con cortesia: "Signora," disse, "io sarò il testimone di vostro padre." "Oh! Grazie," rispose ella, giungendo le mani. In quel momento un riso glaciale, stridulo, metallico, un riso che somigliava ad una campana d'agonia, uscì dal gabinetto in cui l'inquisitore si era rifuggito; poi, alzando la portiera si lasciò vedere all'assemblea pallida e muta di spavento. "Rodrigo de Valero," disse Pietro Arbues, continuando nel suo spaventevole riso, "Rodrigo de Valero non si riceve testimonianza dai pazzi." All'aspetto dell'inquisitore, Dolores mandò un grand'urlo e svenne. Il duca di Mondejar, pallido ed atterrito, non sapeva più qual contegno tenere. Pietro Arbues lo guardò in una maniera particolare. Il duca sembrò rassicurarsi; egli suonò, due servi accorsero. "Si trasporti questa fanciulla in casa sua nella mia lettiga," disse ad alta voce. I servi obbedirono; trasportarono fra le loro braccia la figlia del governatore, tuttora priva di sensi. Il duca usciva da un'altra porta. A capo di alcuni minuti rientrò. Il suo viso raggiava. "Duca di Mondejar," gli disse l'inquisitore a mezza voce, "quando Iddio chiamerà a sé il duca di Medina-Coli voi gli succederete nella carica di gran porta stendardo." "Monsignore," disse Valero, che si era avvicinato, "Dio mi liberi d'andare in paradiso se Vostra Eminenza vi conserva la sua dignità di grande inquisitore." XXVI. La camera di misericordia. La prigione del Sant'Uffizio di Siviglia era situata nella via che chiamasi oggidì Via della Costituzione, e che chiamatasi allora Via dell'Inquisizione. In tutte le grandi città di Spagna eravi una strada che portava questo nome, ed un edifizio chiamato Palazzo dell'Inquisizione. In Siviglia il palazzo dell'Inquisizione era un gran monumento quadro, fiancheggiato da quattro torrette, costrutto in mattoni rossi, e incrostato di pietra. Sulla facciata esteriore vedevasi una moltitudine di finestre regolari. Queste finestre non avevano imposte esterne, ma ciascuna di esse era coperta fino alla sua sommità, ed anco un poco più in alto, da un muro che s'innalzava ad angolo retto, appresso a poco come ripari di tavole che si mettono ne' manicomii, di maniera che dalle abitazioni vicine l'occhio non poteva in alcun modo penetrare nell'interno del palazzo, e quelli che lo abitavano non potevano vedere all'esterno altro che un frammento del cielo della dimensione angusta dell'apertura, che lasciava loro arrivare dall'alto una rara e debole luce. Nel palazzo dell'Inquisizione si trovavano ad un tempo il tribunale, la cancelleria, le camere del tormento, le camere di misericordia, le camere di penitenza e le carceri; prigioni diverse nelle quali si classavano gl'inquisiti secondo quello che si sperava da essi, e secondo la sorte che veniva loro serbata. Un accusato ricchissimo andava ad abitare la camera di misericordia: l'Inquisizione lo convertiva al punto che, in una completa rinunzia ai beni di questo mondo, faceva al Sant'Uffizio un dono volontario della sua fortuna, ed usciva, dopo alcuni mesi di reclusione, povero come Giobbe, ma ricco dei doni della grazia, ed avviato al sentiero che conduce al cielo. Altre volte confidatasi nella camera di penitenza, che descriveremo più tardi, la cura di una conversione difficile. Finalmente, per ultimo espediente, si ricorreva alle carceri, alla tortura ed alla morte. Le camere di penitenza erano costruite sotto i tetti, nelle torricelle; quelle dette di misericordia occupavano con la sala del tribunale tutto il primo piano; al piano terreno erano la cancelleria e le abitazioni degli impiegati subalterni del tribunale. Le carceri e le camere del tormento trovavansi, come sa il lettore, sotto terra. Erano due ore circa del mattino. Le illuminazioni della festa che aveva avuto luogo nella giornata, eransi spente lentamente ad una ad una. Alle danze ed ai canti di gioia era successo un profondo silenzio. Le strade erano intieramente deserte, e alcuni lumi rari, che brillavano ancora da un punto all'altro nell'interno delle case, attestavano soltanto che la città, sveglia per più lungo tempo del solito, non era ancora intieramente addormentata. Una lettiga chiusa uscì dal palazzo del duca di Modejar, passò lungo la via dell'Inquisizione, che era poco lungi, e non si fermò che davanti al palazzo. Uno dei servi che accompagnavano la lettiga alzò il pesante martello della porte. Il carceriere aprì. Bentosto il servo gli disse alcune parole a voce bassa. Questi due uomini si avvicinarono insieme alla lettiga, e portando nelle loro braccia una fanciulla svenuta, la trasferirono al primo piano in una delle camere di misericordia. Ivi la deposero sopra un letto, ed il servo si ritirò. Il custode allora chiuse accuratamente la porta della camera e discese. "Teresa," disse a sua moglie, "sali a vedere ciò che accade a quella signora, che sembra più morta che viva." Teresa obbedì; salì nella camera in cui era stata deposta la fanciulla, la quale non dava ancora alcun segno di vita. La moglie del carceriere, creatura limitata e quasi idiota, si assise presso di lei in silenzio, aspettando che piacesse a Dio di richiamarla alla vita. Tuttavia quello spasimo che durava da quasi tre ore sembrò finalmente giungere al suo termine. La prigioniera fece un movimento, stese le braccia come uno che esce da un profondo sonno, aprì lentamente gli occhi, e sollevandosi sopra un gomito, percorse la camera con occhio stupefatto, ma senza poterne riconoscere i mobili né la disposizione. Il letto sul quale era coricata aveva un gran cielo quadrato, guarnito di cortine di tela di cotone bianca. Un crocifisso d'avorio si staccava dal muro sopra una croce d'ebano; alcune seggiole comode, ma semplici, un baule scolpito, una tavola dai piedi torti, ed una stuoia di giunco componevano la mobilia. Alcuni libri erano posti sopra uno scaffale d'ebano, al di sopra di un'inginocchiatoio del medesimo legno, e dei fiori, colti dal giorno innanzi, riempivano un gran vaso di terra porosa e rosea, chiamato alcarraza de Valencia, posto nel mezzo della tavola. Inoltre potevasi rimarcare qua e là alcuni piccoli mobili ad uso delle donne di quei tempi; piccoli nonnulla incantevoli e comodi che in tutte le epoche sono come i balocchi dei fanciulli, e che esse preferiscono spesso alle cose più utili. Questi dettagli sfuggirono alla fanciulla; essa non fu colpita che dall'insieme e dall'aspetto di quella camera, strani per essa, poiché il suo pensiero non era ancora ritornato chiaro e distinto. "Giovanna?" disse essa, con voce mesta e dolce. "Io non mi chiamo Giovanna," rispose l'idiota, che era assisa al suo capezzale, "mi chiamo Teresa." La fanciulla guardò allora quella donna, e, non riconoscendo il suo volto mandò un grido di terrore. "Dove sono io dunque?" gridò essa ad un tratto, con voce piena d'angoscia. "In prigione," rispose la stupida creatura. "In prigione! In prigione, dite? Ma che ho fatto per trovarmi in prigione?" "Io non lo so; ciò non mi riguarda." "Oh! Oh! Mio Dio!" disse la fanciulla, passando le mani sulla fronte come uno che cerca di rammentarsi una cosa ; "che è dunque accaduto oggi e perché son qui adesso? Ah! Sì, sì, ora mi ricordo; sono uscita questa sera dalla casa di Giovanna; nelle strade si ballava.tutti erano contenti!.io era oppressa dal dispiacere.io aveva veduto mio padre morente, e non poteva far nulla per lui; nulla! Nulla!" ripeté con amarezza la disperata. "pertanto ho voluto provare, mi son presentata a' suoi amici.a quelli che chiamava suoi amici! Io gli ho sorpresi nell'ebbrezza di una festa.io sono tutta ad un tratto comparsa nel mezzo di essi col mio lutto e la mia tristezza.ho pregato, ho pianto, domandando in ginocchio che mi fosse reso mio padre; essi non mi hanno ascoltata. E là nascosto come un traditore, il grande inquisitore spiava le mie parole! Poscia mi hanno consegnata al carnefice, come si farebbe di un assassino, e nella casa di quel nobile duca non ho avuta neppure la salva guardia della ospitalità. Sì!Sì!, è questo," proseguì richiamandosi a poco a poco alla memoria ciascuno degli incidenti della sera, "il duca di Mondejar ha generosamente pagato con la mia vita un sorriso di Pietro Arbues. Che ora è?" domandò ad un tratto, indirizzandosi alla moglie del portiere. "Non lo so, signora; ma è già molto che è notte, io dormiva quando voi siete giunta, poiché era molto stanca; oggi è festa, e ci sono venuti tanti prigionieri!" "Festa davvero?" disse la giovane con ironia, "festa memorabile!, gloriosamente terminata con un infame tradimento. Dolores Argoso era una vittima degna d'essere sacrificata al dio che presiedeva quella solennità!." Dolore snon s'ingannava: la più vile perfidia l'aveva infatti abbandonata in potere dell'Inquisizione. Si rammenta il lettore dell'ordine dato dal duca di Mondejar ai suoi servi di ricondurla a casa propria. Quell'ordine dato ad alta voce non era destinato che ad ingannar l'assemblea. Nei pochi momenti in cui aveva lasciato la sala, il nobile duca, avendo perfettamente compreso ad un semplice cenno la volontà dell'Inquisitore, aveva dato nuove istruzioni ai suoi servi, famigliari di bassa condizione; e la figlia del governatore fu immediatamente trasportata al palazzo dell'Inquisizione. Invece di difenderla da vero cavaliere, il duca l'aveva consegnata al Sant'Uffizio, e tuttavia il duca di Mondejar non era né un vile soldato, né un malvagio signore, né un amico sleale; era semplicemente un uomo che aveva paura del quemadéro. Ma chi potrebbe esprimere l'orrore profondo della fidanzata d'Estevan, di quella nobile eleale fanciulla, che sarebbesi abbandonata al martirio piuttosto che tradire un amico; chi potrebbe dipingere quel dolore amaro, profondo, lacerante in presenza di un sì odioso tradimento? Il suo primo movimento fu una generosa collera, uno sdegno altiero; nella nobiltà e dignità dell'anima sua, essa resisteva contro ogni ingiustizia ed ogni slealtà; ma a poco a poco, passata questa esaltazione d'un giusto orgoglio, la sensibilità, facoltà tanto più dolorosa presso le donne fiere e passionate quando è congiunta in loro alla debolezza fisica, che più di sovente le condanna all'inerzia; la sensibilità, riprendendo disopra, la rese intieramente al sentimento dei suoi mali, ed essa riguardò quella sua nuova posizione con uno spavento mortale. La carceriera, mezzo addormentata, chiudeva gli stupidi suoi occhi senza inquietarsi della prigioniera, come se non fosse esistita. Quell'essere privo di intelligenza non aveva la minima percezione dei dolori morali. Dolores rimase alcuni istanti annichilita sotto il peso di un'orribile certezza: essa non era più libera! Taciturna, con la testa inchinata sul petto, si inabissò in quel pensiero desolante, quindi per un subitaneo ritorno d'insensata disperazione, mandò grandi urli laceranti, e singhiozzi convulsivi. La guardiana, svegliata ad un tratto, si alzò allora spaventata da quello sfrenato dolore. "Signore," disse "non gridate tanto forte; voi non siete tanto sventurata, poiché siete stata messa nella camera più bella del palazzo dell'Inquisizione." A questo nome temuto, la figlia del governatore trasalì convulsamente sul suo letto, ed i suoi singhiozzi si calmarono. Il suo terrore era divenuto sì grande, che non osò neppure gemere né lamentarsi. La memoria di suo padre, che aveva veduto la sera innanzi, di suo padre, che era stato colpito, ucciso, senza farlo morire, sorgeva davanti a lei in tutto il suo orrore. Forse le si serbava la stessa tortura, e la morte sarebbe il termine delle loro sofferenze. Nel mezzo delle sue crudeli apprensioni, una sola idea fu per essa dolce e confortevole: essa moriva martire della sua affezione figliale. La religiosa e magnanima rassegnazione di quell'anima veramente cristiana vinse allora i terrori mortali. Sciolta dalle preoccupazioni terrestri, si alzò più in alto fino a quella speranza sublime, eredità dell'Uomo-Dio, eterno consolatore di quelli che soffrono. Essa avea detto come Cristo, bevendo il suo calice amaro: "Padre mio, sia fatta la vostra volontà!" e la morte non la spaventò più; era per riceverla come pegno dell'eterna vita. Il suo bel viso, poco prima sì pallido, s'illuminò subitaneamente d'un raggio celeste. Dai suoi grandi occhi, sì ardenti e sì dolci, sembrava uscire una fiamma divina, e le sue mani, bianche e trasparenti, riunite su suo seno, le davano l'aspetto di una di quelle vergini eroine, le quali in Roma morivano per la fede di Gesù Cristo. "Signora," disse ad un tratto la carceriera, "poiché non siete morta, non avete bisogno di me: vado a dormire." Essa uscì. Dolores non l'avea udita; il suo spirito vagava in regioni superiori, e le tremule sue labbra mormoravano, a bassa voce, una preghiera a Colui che venne sulla terra per pregare, per soffrire e per morire. XXVII. Il Santo. Le campane dell'antica cattedrale di Siviglia suonavano a distesa, interrotte da un rumore monotono, per annunziare alla popolazione che la gran messa incominciava. Questa messa, alla quale doveva officiare Monsignore arcivescovo di Siviglia, era uno dei numerosi episodii della gran festa data all'occasione dell'atto-di-fede reale di cui la vigilia, nella serenata del conte di Mondejar, il giovane don Carlos de Herrera ragionava con tanta compiacenza. Era brillante solennità religiosa, perché, dopo il vangelo, monsignore Pietro Arbues doveva con la sua mano inquisitoriale dare il Santo ad un gran numero di persone, che, senza distinzione di grado inginocchiate dinanzi a lui, dovevano essere arruolate nella santa milizia di Cristo[39]. Sublime eguaglianza davvero! Villani e nobili stavano per essere segnati col medesimo sigillo, assoggettati ai medesimi doveri, chiamati col medesimo nome: Soldato di Cristo. L'Inquisizione, posando la sua mano potente sulle loro teste, li abbassava tutti al medesimo livello, essa li segnava tutti colla sua stimmata senza distinzione né di grado né di età, come il pastore segna indistintamente le sue pecore. L'antica basilica dal largo circuito, la cui alta navata, separata da quattro ordini di colonne, rassomigliava ad un foresta di granito, era vestita de' suoi ornamenti più pomposi. Migliaia di ceri situati i ordine intorno all'altare fino alla volta mandavano torrenti di luce nel sacro recinto. L'ombra gigantesca delle colonne segnava di grandi strisce nere il pavimento, di un marmo bianco opaco, attraverso le innumerevoli vetrate di mille colori la luce esteriore arrivava sì debole, che impallidiva intieramente dinnanzi all'abbagliante chiarore che regnava nella parte alta della chiesa. Nel coro, dietro l'altar maggiore, larghe panche di quercia, scolpite ed accuratamente pulite, erano già occupate dai canonici della cattedrale, appartenenti quasi tutti all'Ordine di san Domenico. Nel mezzo dell'altar maggiore un grande ostensorio d'oro massiccio sembrava mandar raggi scintillanti, e affascinando gli occhi, proteggere il Dio che racchiudeva, contro gli sguardi profani. L'oro, i diamanti ed il cristallo erano dovunque sparsi a profusione come in un racconto di Mille ed una notte. I candelabri erano d'oro massiccio, d'oro il tabernacolo, d'oro il calice, d'oro le ampolle; gli angioli, che ai due lati dell'altar maggiore si coprivano il viso con le loro ali, erano d'oro. Grandi statue d'argento, rappresentanti i molti santi che la Spagna onora, adornavano tutto intorno alla chiesa innumerevoli cappelle innalzate fra gli intercolonnii. Ivi erano più ricchezze che nell'antico tabernacolo degli Ebrei; solamente la nazione ebrea non aveva che una sola arca dell'alleanza, mentre la Spagna aveva centinaia di chiese e di cappelle in cui venivano ad accumularsi sotto forme differenti le ricchezze del nuovo mondo. Erano spettacolo veramente mitologico e molto acconcio ad esaltare l'immaginazione del popolo: quel misero popolo, che era saziato d'incensi, di luce e di musica per fargli dimenticare la sua schiavitù e la sua miseria. Così vedevasi accorrere in folla agli ingressi della chiesa, quante volte un cerimonia religiosa era offerta in pasto alla sua poetica oziosaggine, del suo bisogno incessante d'emozioni, della sua ardente e puerile curiosità. Vedete già nella basilica quelle donne del volgo, inginocchiate, adorne delle loro larghe mantiglie nere? Vedete come si battono il seno a più riprese, sgranellando, con mano quasi convulsa, la corona lucente che pende dalla loro cintola? Scorgete tutti quei piedini andalusiani, che sfuggono sotto la loro corta veste, e quelle mani delicate e brune, ma sì graziose, e quegli occhi neri e brillanti come lo smalto attraverso della rete trasparente della trina che cuopre il loro volto? Non v'ha contrasto bizzarro e mistico fra quell'immensa cattedrale, splendida come una sala da ballo, e quelle donne in gramaglie umilmente inginocchiate? Donne, di natura sì ridente e sì gaia, che in quel luogo somigliano ora ad anime penitenti che pregano di quaggiù affinché Dio le lasci arrivare fino a quelle splendide meraviglie che brillano sulla loro testa? Vedete pure nel fondo della chiesa in un'immensa tribuna quegli uomini che pregano a voce bassa con sembiante unito e contrito? Essi han lasciato alla porta il loro amore per i piaceri e per la danza, essi si prostrano con sentimenti di compunzione dinanzi alla maestà del Dio vivente, che fu rivestito d'una magnificenza mondana! Sono stati accostumati a non adorare che la materia, la divinità per essi è un altare di marmo e d'oro. Poi, finalmente, alla gran porta mirate quella densa folla di mendici e di gitani che si comprimono e si urtano per entrare. Andiamo, aprite dunque le porte a due battenti! Lasciate entrare questo popolo vestito di stracci; lasciategli respirare l'odore inebriante dell'incenso; lasciategli saziare i suoi occhi in tutta quella magnificenza! E' il suo pane, è il pane di lui, che questa sera dormirà digiuno nel suo mantello disteso sopra una pietra gelata; lasciate, lasciate entrare tutte queste persone che non hanno altro tetto fuorché la volta celeste, esse pure vogliono la loro parte delle gioie e dei beni di questo mondo, ed il tempio di Dio è la sala del povero!. Ma silenzio! Ciascuno or stia tranquillo al posto che ha potuto ottenere. Ecco l'ora del raccoglimento e della preghiera, il prete è appié all'altare. Era, come abbiam detto, monsignore arcivescovo di Siviglia. Due diaconi, in cappa ricamata, stavano in piedi a'suoi lati. Alla destra dell'altare, nell'abside, monsignor Arbues, coperto della veste violetta che egli portava nelle grandi cerimonie, sedeva nel mezzo d'un trono d'oro e di velluto, innalzato sopra dodici scalini, coperti d'un ricco tappeto, che lo innalzavano alcuni piedi al di sopra dell'ostensorio, di maniera che il rappresentante di Dio, signoreggiava più alto del suo padrone[40]. Alla destra del trono, e due scalini più basso, era il seggio dell'arcivescovo. Nell'altro lato un seggio simile era occupato da Josè, elemosiniere e favorito di Sua Eminenza. Un gran numero di preti e di frati, in pianete bianche, gialle o ricamate accrescevano lo splendore di quella solennità, ed un gran manto ricamato in oro, di grandissimo peso, copriva le spalle del celebrante. Non lungi dall'altar maggiore, in seggiole particolari, dame e signori occupavano posti distinti. Bentosto un gran concerto di voci gravi, rauche, dure all'orecchie, ma di una giustezza perfetta, s'innalzò fino alla volta della cattedrale. Quel canto fermo, la cui monotonia non permette mai alla voce d'infiammarsi del fuoco della passione, quell'insieme di note di petto metodicamente cantate senz'arte e senza trasporto, aveva qualche cosa di straordinario e di lugubre che inviluppava l'anima come un sudario. V'era disaccordo fra le liete magnificenze dell'altare e quella glaciale e cupa armonia. Vi mancava la divina melodia degli italiani, quelle voci stupende e sonore che aggiungono un prestigio divino alla pompa teatrale delle cerimonie del culto romano. Tuttavia il popolo spagnuolo, poco sensibile, o per dir meglio, poco avvezzo alla musica dotta, pascolava con delizia i suoi occhi, ed il raccoglimento più completo regnava in quella folla inginocchiata. Ma bentosto un grande movimento accadde nella chiesa, tutti si alzarono in piedi, facendosi un segno di croce. Erasi al Vangelo della Messa. L'arcivescovo lo lesse lentamente, poscia andò ad assidersi presso il grande inquisitore sul seggio che gli era destinato. I diaconi stettero alla parte bassa del trono. Allora una larga strada si aprì nella folla, ed avresti veduto avanzarsi nel mezzo di essa, senza ostacolo, un gruppo di persone d'ogni specie, che tutte aspiravano al medesimo onore; quel gruppo si diresse verso il trono dell'inquisitore. Poscia verso la parte bassa, un poco al di fuori della navata, fra il polpaccio che non aveva potuto entrare o situarsi convenevolmente per vedere a bell'agio la cerimonia del Santo, avresti udito i dialoghi più strani. "Vergine santissima!" diceva un vecchio gitano dalla barba bianca: "guarda quel miscredente di Giannino come sale presto di fortuna. La società della Garduna non l'aveva voluto neppure per farne un gancio, tanto è ignorante e pigro, ed ecco che gli è riuscito d'arruolarsi nella milizia di Cristo." "davvero," gridò una giovane ballerina di nacchere, bruna quanto un'oliva in novembre; "davvero! Giannino va a ricevere il Santo con tutti quei bei signori là?" "perché no, Concetta!" replicò il vecchi gitano; "non è figlio del buon Dio, come tutti quei bei signori che il cielo guardi?" "To!to!" disse un'altra "ecco Ramone il mancino; sembra che abbia finito il suo tempo in galera, poiché eccolo là." "Dove dunque?" domandò un quarto interlocutore. "Laggiù, guardate, quel giovane dalla veste color d'arancio, allato di Sua Eccellenza il marchese della Ronca, che si è pure fatto innanzi per ricevere il Santo." "Quanti sono?" domandò la gitana. "Sono troppi per contarli," rispose il vecchio; "Santa Maria, quale recluta!" "Essi sono come i soldati del papa," disse una vecchia scherzando, "non camminano mai in piena luce." "Cos'è il papa?" domandò la gitanella."E' il maggiordomo del grande inquisitore," rispose la vecchia, che non aveva un'idea più precisa e più alta del vicario di Cristo. "Tacete, donne," gridò un vecchio soldato delle campagne di Fiandra; "voi avete la lingua troppo lunga, e chi tocca il fuoco si brucia." "Levateci dunque un poco il cappello, perché ci vegga, signor soldato," disse un giovane di quindici anni, che non arrivava alle spalle del militare. "Ne vedrai degli altri, monello," rispose colui. In questo tempo gli aspiranti al Santo eransi avanzati fino appié del trono del grande inquisitore. E nella tribuna del duca di Mondejar aveva luogo una animatissima scena, quantunque accadesse a voce bassa, ed i diversi attori di quella avessero tutta l'arte richiesta per serbare un volto impassibile in mezzo ad un vivissimo alterco, e per mascherarsi di tal guisa che niuno potesse comprendere l'oggetto di quelle parole brevi, concise e rapide, scambiate fra loro a voce bassa. Erano in numero di quattro: il duca di Medina-Coli, il conte di Mondejar, la giovane Isabella, figlia del conte, e don Carlo de Herrera. Si rammenterà il lettore che questo ultimo era stato citato da monsignore Pietro Arbues a comparire in quello stesso giorno davanti a lui, affine di ricevere il Santo, e di prestare giuramento nelle sue mani. Si rammenterà pure che don Carlos, dapprima caldissimo per la causa dell'Inquisizione, come un giovane amante è ordinariamente per tutto ciò che può secondare i propri amori, aveva sollecitato l'onore di far parte della sacra milizia; e che frattanto, quell'anima giovane ed ardente, ricondotta al sentimento del vero onore dal nobile sdegno del giovane Ximenes, e dalle severe parole di Rodrigo Valero, aveva ricevuto timidamente, e con un senso d'indicibile vergogna, le premure dell'inquisitore, e le sue promesse di protezione. Tuttavia, trascinato da un ardente amore, certo che il solo mezzo d'ottener colei che amava era quello di obbedire ai voleri del conte di Mondejar, don Carlos era venuto alla messa, incapace di resistere al desiderio di passare alcune ora al fianco d'Isabella. Era venuto là combattuto ad un tempo e trascinato: trascinato da una passione violenta, una vera passione spagnola; combattuta da un'orribile antipatia, nata da quelle poche parole pronunziate a lui innanzi:- Cattiva parte per un casigliano!_ Quelle parole avevano fatto nascere nella sua anima giovanile, ardente e talvolta frenata, una quantità di riflessioni serie e profonde. Cristiano, gli si diceva:- tu sarai soldato di Cristo, il campione della fede.- Cavaliere, - la sua riflessione aggiungeva: -la tua leale spada di battaglia diverrà schiava di una stola e di un berretto quadro. Avrai venduta la tua libertà; la tua coscienza non ti apparterrà più.- Poscia, nel suo inesprimibile desiderio di dividere lo sposo da quella che amava, egli diceva a sé medesimo, come per incoraggiarsi: -I più grandi signori di Spagna son divenuti famigliari del Sant'Uffizio; - e soggiungeva subito: - han fatto bene o male facendo questo?- Don Carlos non era abbastanza teologo, né sì profondo filosofo da risolvere quelle difficili questioni. Nel suo dubbio un puro istinto, l'istinto di ciò che è retto e giusto, l'avvertiva solamente che don Ximenes aveva avuto ragione di gettare il biasimo sulla sua prima risoluzione, poiché non poteva dissimularsi che famigliare del Sant'Uffizio, bisognerebbe ubbidire ciecamente, essere strumento passivo di quella cosa formidabile che si chiama Inquisizione e sapeva benissimo che non ordinava sempre cose giuste. Era in queste disposizioni, quando il corteo d'aspiranti al Santo giunse dinanzi al trono dell'inquisitore. Pietro Arbues con quello sguardo penetrante. Che è passato in proverbio, contò a vista d'occhio gli uomini che erano a lui dinanzi, e non vedendo don Carlos, volse lentamente la testa dal lato della tribuna del duca di Mondejar. In quel momento il vecchio duca, spingendo il giovane col gomito, gli disse vivamente: "Ebbene! Don Carlos, è così che mostrate il vostro zelo per il servizio di Dio? Sarete dunque l'ultimo a presentarvi davanti al grande inquisitore?" "Signore," rispose il giovane, con voce tremante, "non so, veramente se son degno." "Andiamo! Quale scrupolo singolare! Non siete nobile di pura razza? E il minimo miscuglio di sangue moresco ha mai oscurato la vostra nobile arme?" "Giovane," aggiunse il duca di Medina-Coli, parlando piano quanto glielo permetteva la sua voce stridula, "giovane, rispondete così alla mia bontà?" "Ed io?" aggiunse con uno sguardo eloquente Isabella, "non farete dunque nulla per me?" Don Carlos fremeva d'onta, d'irresoluzione e di collera. Malgrado l'amore che gli stava a cuore, ei malediva internamente l'idea sortagli nel pensiero di venire a quella cerimonia. Dall'altro lato il duca di Medina-Coli ed il suo genero, irritati da quella indecisione, che poteva comprometterli agli occhi dell'Inquisizione, serravano i loro pugni dicendo adagio: "Ebbene, don Carlos, andate a prendere il posto che vi attende, o vi rinnego per sempre." "Oh! Andateci ve ne prego," disse a voce bassa la figlia del conte di Mondejar con uno sguardo supplichevole. Nel tempo stesso il duca di Medina-Coli spingeva il giovane per il braccio. Don Carlos, smarrito, mezzo pazzo, uscì, barcollando, dalla tribuna, attraversò la folla, che privasi dinanzi a lui, e giunse appié del trono inquisitoriale. Pietro Arbues aveva indovinato tutto, il suo sguardo scintillò della gioia del trionfo. Don Carlos, con gli occhi bassi e col rossore sul viso, si tenne dietro agli altri, ultimo di quella folla avia d'ifamia inquisitoriale. Allora Josè, nella sua qualità d'elemosiniere dell'inquisitore, si alzò dal seggio dove era assiso, ricevé dalle mani d'un diacono un pacchetto di fogli stampati, ed una scatola contenente una gran quantità di lastre di metallo, sulle quali era inciso un Cristo rovesciato, circondato da un sole. Poscia gli aspiranti all'affigliazione si avanzarono l'un dopo l'altro; salirono i gradini del trono, e, inginocchiati ai piedi di monsignor Arbues, ricevettero individualmente dalle sue mani una di quelle lastre ed il foglio stampato, che Josè presentava loro di mano in mano. Questa carta conteneva le istruzioni necessarie ai famigliari per agire in ogni circostanza secondo le regole o le intenzioni del potere a cui si erano dedicati. La lastra di metallo era un segno distintivo, un segno di annodamento e di riconoscimento che serviva loro a ravvisarsi per tutto e ad unirsi in uno scopo comune, qualunque fossero, del resto, le loro antipatie e le loro inimicizie particolari. Durante questa distribuzione, che durò circa venti minuti, l'inquisitore non aveva cessato di dirigere i suoi sguardi ora sul giovane don Carlos, che stava sempre dietro agli altri in sembiante d'uomo vivamente contrariato, ora verso la tribuna del duca di Mondejar, ove costui serbava un contegno imbarazzatissimo, mentre il duca di Medina-Coli lanciava sguardi fiammeggianti sulla sua nipote, come per dirle: "Ecco l'uomo che avete scelto!" Quanto a don Carlos, non ardiva più volgere gli occhi dal lato della sua fidanzata. Ma quando non vi fu più nessuno davanti alui, e che giunse finalmente la sua volta di ricevere il Santo, si avanzò barcollando come un ubriaco fino ai piedi di monsignore Arbues, e ricevé con mano tremante le insegne del suo titolo. "Don Carlos de Herrera," gli disse l'inquisitore a voce bassa, "avete qualche cosa da rimproverarvi?" Don Carlos s'inchinò senza rispondere, avrebbe voluto essere cento piedi sotto terra. Discese lentamente i gradini del trono, ed andò a mischiarsi alla folla dei nuovi famigliari, la quale erasi posta da sé medesima in semicerchio davanti al trono inquisitoriale. Il più grande silenzio regnava nella chiesa. Quello spettacolo bizzarro era per la popolazione sivigliana palpitante d'interesse, e fecondo in emozioni diverse. Tutti gli occhi erano invincibilmente diretti verso l'altare maggiore. Monsignore Arbues, con la sua grazia e la sua maestà consueta, si alzò dal suo seggio dorato, discese altieramente i gradini del trono, come s'addice ad un principe della Chiesa, e, seguito da Josè, che si teneva sempre alla sua sinistra, si fermò davanti a don Crlos, che chiudeva il cerchio alla sua diritta. Don Carlos arrossì ed abbassò gli occhi; non potè sostenere lo sguardo penetrativo, che monsignore Arbues fissava sopra di lui. Allora con voce piena, breve, imperativa, che in certe circostanze sapeva sì bene prendere il tuono del comando: "Don Carlos de Herrera," disse il feroce Domenicano, "giurate di consacrarvi corpo ed anima al servizio della nostra santissima religione cattolica, apostolica, romana?" "Lo giuro!" rispose con voce ferma il giovane signore casigliano, non vedendo in quel giuramento nulla che dovesse allarmare la sua coscienza di leale cavaliere. "Giurate di non prestare mai l'orecchio alle dottrine corruttrici ed appestate di quegli empi del Nord che si chiamano filosofi e riformatori, e di non incoraggiarli in qualunque siasi maniera?" "Lo giuro!" disse pure don Carlos. "Giurate di no dar mai asilo né protezione ad un eretico o ad un uomo perseguitato come tale dal santo tribunale dell'Inquisizione?" Don Carlos alzò, senza rispondere, i suoi grandi occhi spaventati sul volto severo dell'inquisitore; quel giuramento gli sembrava atroce. Monsignore Arbues inarcava il sopracciglio come Giove Olimpico, ed il giovane, dominato da quella superba espressione di dispotismo e di autorità, balbettò con voce inintelligibile: "Lo giuro!" L'inquisitore parve contentarsene; poscia con tuono breve, incisivo, aggiunse: "Giurate di perseguitare con la parola e con la spada ogni marrano, moresco, ebreo, cristiano giudaizzante o luterano; di denunziarli al santo tribunale per la maggiore gloria di Dio, e di consegnarli, se fossero vostri ospiti, sia che con le vostre orecchie li abbite uditi proferire eresie, sia che li abbiate veduti commettere azioni indicanti che non sono nel vero cammino della salute, sia che li abbiate solamente in sospetto di no essere attaccati di cuore e di anima alla nostra santissima religione, o che vi siate avveduto che ne abbiano trascurata qualche pratica, sia, infine, che nella loro casa abbiano tollerato qualche negligenza simile per parte d'uno dei loro?" "Monsignore" monsignore!" disse piano il giovane cavaliere in un'angoscia inesprimibile, "quello che voi mi domandate è uno spionaggio, un." Lo sguardo terribile di Pietro Arbues soffocò la parola nella gola del giovane: le sue labbra rimasero mezzo aperte: sarebbesi detto che parlasse piano, ma infatti non articolava nulla. Era soltanto una convulsione della bocca. L'inquisitore parve contentarsen. Continuò sul medesimo tuono. "Giurate di essere sempre pronto a marciare per il servizio di Dio al primo richiamo dei suoi rappresentanti, foste anco presso un amico morente, foste al capezzale di vostra madre agonizzante?" Gli occhi del giovane rimasero fissi e spaventati, e i suoi capelli si rizzarono per l'orrore. "Grazia, grazia, monsignore!" mormorò con voce soffocata. L'inquisitore e Josè solamente intesero queste parole. Pietro Arbues fece le viste di non intendere. Soggiunse fermandosi su ciascuna parola: "Giurate di rinunziare a tutti i legami di amicizia e di famiglia quando si tratterà della causa di Dio?.e di denunziare senza restrizione i vostri fratelli, le vostre sorelle, vostra madre, vostra moglie, vostro padre, ed anco i vostri figli, se veniste a scoprire in essi sentimenti contrari alla nostra santa fede cattolica?" A quest'ultime parole, don Carlos, reso a sé stesso da un vivo sentimento d'indignazione, alzò la testa in atteggiamento fiero. "Monsignore," disse con voce ferma, ma senza strepito, "io non giurerò questo; io non sarò spia ed infame ad un tempo. Tenete," aggiunse con amara ironia, rendendo all'inquisitore il Santo ed il Cristo che ne aveva ricevuto, "io sono indegno di un tale onore<, serbatelo, monsignore, per un servitore più degno di me." Nel tempo stesso si slanciò dal posto ove era, attraversò il cerchio d'uomini che circondava il trono, passò nel mezzo della folla inginocchiata, ed uscì senza voltarsi indietro, come se, volgendosi, avesse temuto di veder la chiesa crollare su di lui. Il duca di Mondejar ed il suo genero fremettero di spavento e di corruccio. Isabella piangeva senza comprendere ciò che era accaduto, e la folla scandalizzata, aspettava a bocca aperta la spiegazione di questo enigma. Josè solo sembrava impassibile nel mezzo del generale spavento: solamente un riso impercettibile e sarcastico contraeva le commessure delle sue labbra espressive. Monsignore Arbues alzò verso il cielo uno sguardo inspirato, ed indirizzandosi all'assemblea: "Fratelli," disse, "questo giovane era in peccato mortale; egli si è fatto giustizia, giudicandosi indegno di far parte oggi di questa santa cerimonia. preghiamo per lui, fratelli," soggiunse inginocchiandosi. Tutti imitarono l'inquisitore. Pregarono circa dieci minuti, nei quali Pietro Arbues ebbe tempo di porre un freno alla sua rabbia e di rendere composta la sua fisionomia. Quando si alzò, il suo viso non aveva più la minima traccia d'emozione né di collera; egli era dignitoso, tranquillo, impassibile: sarebbesi detta una testa di marmo. Il grande inquisitore ricominciò allora la formula del giuramento alla quale tutti risposero con gioia e senza restrizione. In quel giorno la milizia di Cristo si arricchì di più di duecento membri. La stessa sera le carceri del Sant'Uffizio contavano un prigioniero in più. FINE DEL VOLUME SECONDO. [1] Alcuni monaci pii di quei tempi percorrevano la Spagna domandando ai ricchi, dando ai poveri, predicando a tutti le sante dottrine del vangelo, e consolando tutti i dolori. Quella condotta veramente apostolica, era troppo in contraddizione con quella della monacaglia, e con quella degli inquisitori; perciò la monacaglia e l'Inquisizione perseguitavano con accanimento quei monaci caritatevoli. [2] Nel secolo tredicesimo i monaci del clero figuravano per un centesimo della popolazione di Spagna, che era allora di trenta milioni d'anime; gl'impiegati del governo, comprese le truppe, ascendevano ad un milione circa: potevano ascendere presso a poco a due milioni tra grandi e piccoli proprietari; tutto il rimanente della popolazione era composto di proletari e di mendicanti. I monaci ed il clero possedevano per sé soli un buon terzo della Spagna. (Statistica di Belmonte y Baldivigo.) I monaci ed il clero spagnuolo, grazie alla loro intolleranza e alla loro insaziabile avarizia, hanno ridotto il popolo di Spagna al numero di undici milioni circa. L'inerzia e la crudeltà dei governanti avranno bentosto cambiato la Spagna in un deserto se Dio non ha pietà di quel disgraziato paese. [3] Questi due vescovi erano figli di ebrei battezzati, ma godevano la stima generale. L'inquisitore Torrequemada li fece sottoporre ad un processo benché, secondo le bolle apostoliche, i vescovi non fossero soggetti alla giurisdizione del Sant'Uffizio. I due prelati si recarono in Roma per appellarsi al papa. Il supremo pontefice rimandò l'affare davanti ad altri vescovi, la decisione dei quali fu favorevole agli accusati. In ricompensa delle persecuzioni che avevano provato, , il papa nominò il vescovo di Segovia all'ambasciata di Napoli , e quello di Calahorra all'ambasciata di Venezia. L'inquisitore non si sgomentò. Torrequemada trovò ancora il mezzo d'intentar loro un nuovo processo, nel quale riuscì a dimostrare che quei vescovi eran caduti nell'eresia, e a farli rinchiudere in un castello, ove morirono dopo esser stati spogliati dei loro beni, e degradati dalla dignità vescovile. (Llorente, Storia dell'Inquisizione.) [4] In tutti i tempi gli Spagnuoli hanno accusato gl'inquisitori ed altri impiegati del Sant'Uffizio di rendere le donne rinchiuse nelle carceri vittime dei loro trasporti. Questa accusa non è tanto ingiusta quanto hanno preteso i difensori di quel laido tribunale. Dopo la rivolta di Cordova e la fuga dell'inquisitore Deza, il successore di quest'ultimo, Ximenes Cisneros, "volendo porre un termine agli eccessi scandalosi commessi con le donne che erano nelle prigioni, decretò, stando all'avviso del consiglio della Suprema, che ogni persona addetta al Sant'Uffizio, che si rendesse colpevole di simili eccessi, sarebbe punita di morte. Le occasioni di applicare questa legge non sono mancate in seguito; tuttavia essa è rimasta senza effetto." (Llorente, Storia dell'Inquisizione.) [5] Il fanatismo di Torrequemada uguagliava la sua crudeltà, o per meglio dire, la sua crudeltà non era che il resultato del suo fanatismo. Ogni qual volta vedevasi obbligato ad agire contro qualche eretico, il confessore di Ferdinando di Aragona, preparavasi col digiuno e colla penitenza. Quest'ultima consisteva a darsi la disciplina finché le carni fossero lacerate e versassero sangue. (Vita di Torrequemada, per Ponzio de Leon.) [6] Il ballo descritto dall'autore in questo capitolo, è parte della cerimonia chiamata la veglia dei morti. Questa cerimonia ha molto rapporto col Wake degl'iralndesi. [7] I gitani non professano veruna religione; fingono sempre di seguire quella del paese che abitano, ma sono al tempo stesso le persone più superstiziose della terra. Così un gitano avvezzo a vivere di furti e di baratterie d'ogni genere, non ruberà, né commetterà baratterie il giorno successivo ad una notte nel corso della quale abbia udito il grido d'una civetta; poiché, secondo la superstizione della sua casta, il grido della civetta annunzia ognora un arresto giudiziario, o, per lo meno, faccende colla giustizia. Il gitano non beverà un liquore nel quale sia caduta una mosca, imperciocché, chiunque beve un liquore che annega sarà annegato. Finalmente il gitano che è stato toccato da un cadavere nella veglia, deve passare la notte col morto, ed avere il coraggio di vedere il diavolo che viene a portar via il corpo del defunto, dopo aver ballato intorno a lui, sotto la pena di morire nel corso dell'anno. Così è una grande sventura quando un morto cade durante la danza che la sera del suo sotterramento fanno [cerchio] i suoi parenti ed i suoi amici intorno a lui per guarentirlo dalla vista dei demoni. [8] I gitani e molte altre persone del poplaccio, in Andalusia, amano farsi dei bottoni con delle monete. I poveri forano gli ochavos, i più agiati forano le monete d'un reale, vi sono ricchi mulattieri e ricchi contrabbandieri che fanno forare parecchie centinaia di monete d'oro di cinque, dieci e venti franchi, onde farne dei bottoni per una sola veste di velluto. [9] Francesca di Lerma non è un personaggio storico, ma solo un tipo, una personificazione delle badesse di quei tempi, ed anco di alcune dei nostri giorni. [10] Questo cerimoniale interamente cristiano si è conservato fino ai nostri giorni fra i servi di Gesù Cristo. Le monche della via san Domenico presentano all'umile superiora delle gesuitesse le missive indirizzatele con un ginocchio a terra e con un piatto d'argento nelle mani. [11] Non è soltanto nel secolo decimosesto, non sono soltanto gli inquisitori che dicono alle loro penitenti: "Iddio permette che si soddisfacciano i bisogni dei sensi, purché sia con uno dei suoi ministri e senza scandalo;" queste parole sacrileghe sono state dette a Tolosa, non sono ancora cinque anni, ad una religiosa del convento di Sant'Antonio dal suo direttore, a cui ella videsi più tardi nell'obbligo d'intentare una causa pei danni dinanzi ai tribunali civili d'Agen e alla corte reale di Tolosa. [12] Vedi nota n° 14 [13] I monaci della Mercede seguivano, come i Domenicani, la regola di Sant'Agostino. Nel suo nascere, l'ordine della Mercede fu utilissimo. I fratelli di quest'ordine si spargevano per tutta la cristianità, domandando ed ottenendo copiose limosine, le quali erano fedelmente impiegate a riscattare i cristiani prigionieri in Barbaria. Alcuni monaci della Mercede, inviati in Algeri, per riscattare i prigionieri, sono riamasti nel posto di coloro dei quali non potevano pagare il riscatto. Alcuni altri nella stessa epoca soffrirono il martirio, ma questo sacrificio sublime non durò lungo tempo. Nel diciottesimo secolo i monaci della Mercede domandavano sempre ed ottenevano copiose limosine, ma invece d'impiegarle al riscatto dei prigionieri, le impiegavano, come il resto dei monaci impiegavano le somme enormi che estorcevano alla pubblica credulità.a ingrandire la loro potenza e ad estendere il loro dominio. [14] Il convento dei Cappuccini di Madrid era, a mio tempo, il più rinomato per la melopia interna. Un piatto specialmente, mescolanza di fegato, di polmone e di cuore d'agnello, era ricercatissimo dai ghiotti della capitale. Io ho mangiato parecchie volte questa vivanda in numerosa e buona compagnia. Uomini e donne, signori e dame andavano a mangiare quella vivanda presso i cappuccini insieme a borghesi e a mendicanti: gli uni per devozione, gli altri per gusto, alcuni per necessità; ma siccome questi ultimi erano in picciol numero, e gli altri non lasciavano mai il convento senza ordinare almeno delle buone messe, cioè senza lasciare cinque o sei franchi fra le mani del frate elemosiniere, questo caritatevole refettorio diveniva una vera tavola rotonda, alla quale uno poteva assidersi pagando sottosopra cinque franchi. Nel 1816 un bel toreador, chiamato Zapata, corse rischio di rimanere ucciso da un toro, non gli avvenne alcun male. Una giovane e bella duchessa fece nel tempo stesso voto di mangiar la melopia dei cappuccini pel corso di otto giorni, se Iddio avesse salvato il bel Zapata. Sua Eccellenza mangiò infatti la indicata vivanda per otto giorni, dopo i quali il fratello elemosiniere ricevette una somma assai ragguardevole che servì per istabilire una rendita di mille e ottocento franchi, o due messe a due franchi e cinquanta al giorno. I frati Gerolamiti facevano ancor meglio. Oltre la loro melopia interna, che poteva stare a fronte di tutte le melopie del regno, questi buoni Padri avevano stabilito una taverna ove si forniva vino eccellente di Valdepenas e della buonissima trippa. In ogni domenica gli operai ed i borghesi di Madrid si recavano a migliaia in questo stabilimento. Nel 1824, al ritorno di Ferdinando VII da Cadice, la taverna dei Gerolamiti ha riportato sessantacinque mila e settecentonovantotto reali di utile netto. Io ho saputo ciò dal frate taverniere di quell'epoca. Questo buon frate, emigrato a sua volta nel 1832, continuava il suo mestiere a Rouen, ove vendeva la trippa sotto il pseudonimo di trippa alla moda di Caen. [15] Fra tutti gli abitanti della Spagna, l'Andalusiano è uno dei più sobrii. Egli vive, per così dire, di sole e di profumi; non si può immaginare quanta poesia e quanta indifferenza per le cose di questo mondo esiste in lui. Un pezzo di pane, un cigarro e molta meditazione, o, per dir meglio, molti sogni; ecco tutto quello che abbisogna all'Andalusiano per essere interamente felice. [16] E' giunto per la Spagna il tempo d'innalzare questo novello edifizio.E' già più d'un mezzo secolo che gli Spagnoli lottano e faticano a ricostruire una Spagna novella sulle rovine del fanatismo monastico e del dispotismo del re. Riusciranno eglino a progredire innanzi? Supereranno finalmente tutti gli ostacoli che la politica machiavellica dell'Inghilterra e la debolezza del gabinetto francese han frapposto alla rigenerazione della Spagna? Gli Spagnoli dovranno versare ancora molto sangue, sopportare molte miserie, ma non torneranno indietro. Un popolo che ha saputo lottare per otto secoli contro i Mori, e che ha terminato di riacquistare la sua indipendenza, non si perderà di coraggio. E' vero che nelle loro lotte contro i Mori, la religione somministrava forze agli Spagnoli e eccitava l'animo loro; ma la libertà non è la religione dei popoli? Non è l'eredità che Cristo ha lasciato al mondo? [17] Non havvi Spagnolo, benché non istrutto, il quale non sia fornito della facoltà d'improvvisare delle strofe. Questa facoltà poetica è eredità dei Mori. [18] Alhambra è una parola composta di due voci arabe, che significano palazzo rosso. Ed invero Alhambra è fabbricato con mattoni rossi. [19] Dopo Deza, gli Spagnoli chiamavano l'inquisitore generale il re dei carnefici. [20] La descrizione di questa cavalcata è tale quale si può leggere, nella Storia dell'Inquisizione, Llorente, c. VI, parte seconda. [21] Praticante la religione degli Ebrei. [22] Si conosce l'eterna disputa dei Francescani e dei Domenicani sull'argomento dell'immacolata concezione di Maria Vergine. I Domenicani han sempre sostenuto ch'essa ha concepito nel peccato: e per provarlo avrebbero arso tutti i figli si san Francesco, i quali dichiararono immacolata la madre di Dio. Queste gravi dispute, che occuparono sì vivamente i dottori del concilio di Trento, son lungi dall'essere terminate. In Italia, a Roma specialmente, forniscono ancora abitualmente il testo di quasi tutti i sermoni dei due ordini rivali; ma come in tutte le altre guerre havvi un armistizio, queste declamazioni teologiche cessano da ambe le parti il giorno della seconda festa di Natale. In quel giorno i due campi nemici si riuniscono in un sontuoso banchetto, e scordano fra i bagordi e gli stravizi le loro inimicizie di tutto l'anno. Durante il pasto, che si prolunga per tutta la notte, i fieri figli di san Domenico sono i migliori amici degli umili figli di san Francesco. [23] L'inquisitore Torrequemada aveva infatti un dente di liocorno che credeva realmente dotato della proprietà di fare scuoprire e neutralizzare i veleni. (Llorente, Storia dell'Inquisizione.) Gli inquisitori di Spagna avevano conservato questo pregiudizio dei Mori. [24] Nulla può cancellare il nostro sacro carattere. Il nostro potere spirituale è sì esteso, che, qualunque cosa ordinassimo di fare ad un penitente, ei non potrebbe commetter peccato obbedendoci. Questa maniera di spiegare la loro potenza è stata impiegata con successo dai malvagi preti quando hanno voluto pervertire un donna. [25] Quando gli accusati comparivano davanti al tribunale dell'Inquisizione, non era permesso loro di sedersi sopra una panca, ma sull'angolo di un'asta triangolare, appoggiata sopra due X, chiamata potro. Quando un accusato ricusava di fare le confessioni che si esigevano da lui, soventi volte tenevasi assiso od in ginocchio due od anco tre ore sull'angolo del potro. Non era questa una tortura preparatoria? Dico preparatoria, perché gl'inquisitori avevano qualche cosa di meglio. [26] Qualunque persona arrestata per ordine del Sant'Uffizio perdeva per questo solo fatto tutti i suoi titoli e le sue dignità non ché i suoi diritti civili; no li riacquistava che dopo avere ottenuta l'assoluzione definitiva, il che accadeva rarissimamente. Il primo effetto adunque della persecuzione inquisitoriale era la rovina, il disonore delle famiglia!.e gl'inquisitori ricevansi i difensori della fede catolica! [27] Don Estevan de Vargas discendeva infatti da famiglia moresca appartenente alla tribù di Venegas. Il padre di don Estevan fu nominato membro del Consiglio di Castiglia da Filippo I nel 1506. Don Estevan aveva un fratello inquisitore, chiamato Pedro de Vargas de la Santa-Cux, che fu il suo più crudele persecutore. Don Estevan non sfuggì all'Inquisizione che lasciando la Spagna. [28] Ecco ciò che rilegge nella pagina 100 dell'Ultramontanismo di E. Quinet: -Maniera di dare la corda all'inquisito che ricusa di rispondere, o che non vuol rispondere precisamente.- "Accade sovente che l'inquisito non vuol rispondere con precisione, "ma lo fa in termini evasivi: Non so, non mi rammento: questo può essere, "non credo; io non devo essere colpevole di tal delitto. "Egli deve rispondere con parole chiare e precise: Ho detto, non ho "detto, ho "fatto, non ho fatto. In questo caso è mestieri porre in opera la tortura per "avere da lui una risposta assoluta, precisa, soddisfacente e sufficiente. Ma "prima è d'uopo fargli le debite ammonizioni, quindi minacciarlo della corda. "Ed il notaro registrerà le accennate ammonizioni e minaccie. La formola è la "seguente..Benignamente avvertito, benigne monitus." [29] L'Inquisizione non nominava mai i testimoni, e con questo mezzo incoraggiava lo spionaggio. (Annali del Sant'Uffizio.) [30] La descrizione della camera del tormento è fatta secondo quella che può leggersi nella Storia dell'Inquisizione. [31] Tolgo pure da E. Quinet una parte della nota [a pagina 101]. "Dopo averlo fatto sospendere (l'inquisito), s'interrogherà nella sua tortura sull'accennato fatto solamente (sul fatto in questione), mantenendolo sospeso più o meno tempo, ad arbitrio, secondo la qualità della causa, la gravità degl'indizi, lo stato della persona torturata ed altre cose simili, che il giudice dovrà considerare (e che non considerava sempre, almeno in Ispagna), affinchè la giustizia abbia il suo effetto senza che alcuno venga indebitamente offeso. (Maniera di dar la corda, ecc., pag 286 e 287.) Se nella tortura l'inquisito persiste nella negativa, si terminerà l'esame (il tormento) come segue: i signori inquisitori non potendo ricavare da lui (dall'accusato) nulla di più, ordineranno che l'inquisito sia fatto discendere lievemente dalla corda a cui è sospeso, che sia sciolto, che si ripongano in sito le articolazioni del braccio, che sia rivestito e ricondotto al suo posto, dopo averlo tenuto sospeso una mezz'ora, ed il notaro segnerà.." Questo supplizio il quale non durava a Roma che una mezz'ora, durava in Spagna, più di un'ora, secondo Llorente (Dei supplizi inflitti dall'Inquisizione.) [32] Annali dell'Inquisizione. [33] "Le carceri dell'Inquisizione erano sotterranei profondi, vere tombe poste più di trenta piedi sotterra. In ogni prigione lunga dodici piedi e larga otto circa, trovatasi un lettuccio largo quattro piedi e lungo dodici. Ogni prigione conteneva ordinariamente sei o spesso otto persone, tre o quattro delle quali, più robuste, dormivano sul terreno umido, e le altre sul lettuccio. Un vaso, che era destinato a soddisfare i bisogni naturali, e non era vuotato che ogni otto o quindici giorni, stava in un canto, e terminava d'infettare l'aria, già disossigenata in gran parte dal respiro degl'infelici condannati ad abitar questi luogo." (Storia dell'Inquisizione). [34] La casa di Medina-Coli, una delle più illustri di Spagna, godeva tuttavia nel 1820 l'altro privilegio di serbare e di portare lo stendardo della fede nei grandi atti-di-fede ed altre solennità dell'Inquisizione. [35] Nel 1530, il 28 dicembre, i principi alemanni che avevano adottato le dottrine di Lutero, avendo saputo che i principi cattolici dell'Impero avevano formato, per il sostegno della religione stabilita, una lega, alla testa della quale trovatasi l'imperatore stesso, si adunarono frettolosamente a Smalkald ed ivi conclusero una lega offensiva e difensiva contro ogni aggressore. Per questa lega tutti gli Stati protestanti dell'impero non dovevano che formare un sol corpo. (Meineres, Storia della Riforma, cap. IV.) [36] Il primo tabacco introdotto in Spagna fu mandato da Fernando Cortes a Carlo V, nel 1519. [37] Il mezzo più sicuro per ottenere l'onore di essere annoverato fra i famigliari del Sant'Uffizio, era di denunziare qualche personaggio distinto; perciocché i poveri, coloro che non avevano niente da perdere, non avevano a temer nulla dall'Inquisizione. Questo fatto, constatato da tutte le opere che sono state scritte sull'Inquisizione, prova che non era la gloria di Dio né il trionfo della fede che stavano a cuore agl'inquisitori; essi non cercavano che arricchirsi colle spoglie delle vittime, acquistare potenza ammassando ricchezze. [38] Per un calcolo giustissimo l'Inquisizione bramava d'avere per famigliari uomini di sangue nobile, e vecchi cristiani; con questo mezzo assicuratasi il rispetto del popolo, che tendeva in quel tempo a creder nobile e grande ciò che facevano i nobili, e che non comprendeva come un nobile potesse commettere un'azione bassa ed infame; per essere ammesso all'onore di figurare fra la milizia di Cristo, bisognava almeno giustificare la pressa del sangue, cioè provare che non discendevasi né da Ebreo, né da Moro, né da parenti che fossero stati condannati dalla Santissima Inquisizione (Regolamento sacro delle condizioni essenziali per potere far parte delle milizia di Cristo). Questo stesso regolamento dispensava le donne che volevano servire la Santa Inquisizione di provare la purezza del loro sangue "considerando i grandi servigi ch'esse possono rendere alla causa di Dio." [39] Quando l'inquisizione facea un'infornata di famigliari, ciò che accadeva quasi tutti gli anni, alcuni giorni innanzi a tutti gli atti-di-fede solenni, il grande inquisitore, vestito dei suoi ornamenti pontificali, e dopo una messa cantata ed una lunga predica relativa alla circostanza esortava i postulanti a servir fedelmente il Sant'Uffizio, e riceveva l'abominevole giuramento che l'autore descrive in questo capitolo. Ogni nuovo famigliare riceveva una pergamena che conteneva le parole sacramentali e la descrizione esatta dei segni e dei toccamenti per mezzo dei quali dovevasi riconoscere tutti gli agenti del Sant'Uffizio ed esserne riconosciuto. Questi segni, queste parole, questi toccamenti costituivano el santo, o parola d'ordine della milizia di Cristo. [40] In tutte le solennità nelle quali un inquisitore trovavansi in presenza del re o di Dio, l'inquisitore aveva la precedenza. Nei grandi atti-di-fede il trono degl'inquisitori era sempre più alto di quello del re; nella chiesa il trono inquisitoriale era sempre alla destra e più alto del santo sacramento. L'nquisitore Jabera fece languire due anni nelle prigioni del Sant'Uffizio l'arciprete della cattedrale di Malaga, accusato d'irriverenza verso il Sant'Uffizio, perciocché quest'ecclesiastico, recando il santo viatico ad un moribondo, non erasi fermato per lasciar passare l'Inquisitore. (Dei diritti degl'inquisiti in faccia ad altri membri del Clero.)

 
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