L'altro viaggiatore, molto più giovane, avendo al più di venti anni, offriva
col suo compagno un contrasto tanto più considerevole, in quanto, differenti
di fisionomia, di costumi e di carattere, quei due uomini si toccavano
frattanto per un punto unico che avvincerà costantemente gli uomini, anche i
più disparati d'opinioni e di pensieri; essi avevano un'eguale lealtà di
carattere. Inoltre professavano la medesima dottrina; e se le inclinazioni
dell'uno pendevano sovente da un alto contrario a quelle dell'altro, almeno
agivano sempre nel medesimo scopo e per la medesima causa.
Avevano varcato la gola di Despenaperros una delle cime più elevate di
quell'alta
ed inaccessibile catena di monti, chiamata Sierra Morena. Stanche ambidue,
si assisero.
Dopo essersi riposati alcuni istanti, sentendo la loro respirazione più
libera, ed il coraggio tornar loro con la forza, gettarono simultaneamente
attorno a loro ad essi quello sguardo profondamente investigatore del
filosofo, il quale, nel mezzo delle meraviglie della creazione, cerca
costantemente la causa degli effetti, e, ammirando le opere di Dio, vede,
per così dire, Dio stesso, tanto le percezioni dell'anima, che sole ci fanno
comunicare con lo spirito, divengono allora vive e lucide. Dietro di essi la
Sierra Morena propriamente detta alzava la cresta orgogliosa, bianca per la
neve di tutti i secoli. Dinanzi ad essi si estendevano i piani desolati
della Manica; un poco a sinistra, ed indietro, la voluttuosa Andalusia
mostrava con orgoglioso contrasto i suoi campi d'olivi, e le sue vigne
verdeggianti ed i suoi cedri fioriti.
Più lungi, a dritta, era la Sierra Nevada, la Sierra Elvira e gli Apuxarras,
continuando quella catena di montagne inaccessibili che inviluppano le due
Castiglie come fra un'immensa barriera di granito.
Poscia, finalmente, varcando col pensiero il lungo spazio che li separava,
ancora essi cedettero veder le Castiglie, quel sanctum della Spagna mai
conquistato dagli stranieri; le Castiglie dall'aspetto bizzarro e variato,
in cui serpeggiano il Tago dalle onde dorate, e il Manganare dall'onde
argentine.
Il quel luogo elevato i viaggiatori dominavano la Spagna
intiera.Considerando quel ricco e bel paese, un pensiero amaro si mischiava
alla loro ammirazione.Laggiù sotto i loro piedi, in quei piani fertili
usciti dalla mano di Dio, un potere iniquo e brutale toglieva agli uomini il
libero godimento dei beni della terra e di lor medesimi, e la felicità che è
un diritto della vita.
"Ecco lo scopo del nostro viaggio," disse tutto ad un tratto il frate,
stendendo la mano all'orizzonte, verso un punto in cui il solo pensiero
poteva arrivare perché era perduto nello spazio.
"Mio Dio! Mio dio!" gridò dolorosamente il giovane laico, "giungeremo noi a
tempo?.e soprattutto perverremo noi a commuovere il cuore del re?"
"Abbiate fiducia," rispose il frate, "perché tormentarvi innanzi di una cosa
incerta? L'impeto nuoce sempre al successo delle intraprese, con la calma si
giunge a tutto. Il gran segreto della vita è di sapere attendere, e di non
fare dell'avvenire incerto un tormento positivo per il presente. L'anima si
affatica e si snerva in quelle apprensioni continue, in quelle inquietudini
premature. L'uomo forte attende di pié fermo gli avvenimenti senza temerli;
ei passa sovente per insensibile, mentre è solamente coraggioso."
"Oh Padre mio!" disse il giovane con amarezza, "si vede bene che niun
rancore giunse fino a voi, e che, rinunziando alle gioie terrestri, avete
pure rinunziato alle miserie dell'umanità, che vi siete isolato nella vostra
regola religiosa come in un deserto, e che, non vivendo più della vita
comune, non potete comprenderne i dolori.
"Figlio," riprese dolcemente il Francescano, "pensate voi che l'apostolato
sia una emissione d'egoismo e di durezza? Non è forse per entrare più
addentro con lo spirito nelle miserie dell'uomo che abbiamo abbracciato
delle miserie volontarie? Guai a colui che comprende altrimenti la missione
di prete, a colui che l'autorità evangelica riduce ad una potenza temporale,
di cui fa uso a profitto delle sue proprie passioni, invece di impiegarla al
ben essere e alla consolazione di tutti! L'apostolato non ha altro scopo.
Colui che ne usa altrimenti misconosce i doveri del suo ministero. Quale,
infatti deve essere la nostra vita? Esser pronti ognora a versar il sangue
pei nostri fratelli, a soccorrerli, a consolarli nelle avversità, a render
loro la vita più dolce con la speranza di una vita migliore. Credete voi,
figlio mio, che colui il quale rinunzia alle dolcezze della famiglia
particolare per dedicarsi alla felicità della grande umana famiglia sia un
egoista od un vile? No, non lo pensate: il sacrificio è una virtù che viene
da Dio, e Dio solo ne comparte la forza!"
"Oh Padre mio!" riprese il giovane, "perdonatemi, io sono ingrato ed
ingiusto; vi debbo tutto, e vi oltraggio: il dolore mi toglie la ragione.
Voi siete un'eccezione sublime. Ma ditemi," proseguì egli con quell'amaro
scetticismo che danno talvolta i grandi infortuni, "dove sono i discendenti
degli apostoli? Ho un bel cercarli attorno di me in tutta la Spagna, che
formicola di monaci, io non vedo che mendicanti serviti, od abietti
oppressori."
"Figlio mio," rispose il Francescano, con voce severa, "voi siete troppo
giovane, ed avete poca esperienza per giudicare così in una maniera
assoluta. Riconosco come voi gli abusi della chiesa di Spagna; piango tutti
i giorni sui mali che ne risultano, lotto contro di essi con tutte le mie
forze; ma quando, rientrando in me medesimo, mi prostro ai piedi
dell'eterno,
offrendo i miei combattimenti, le mie preghiere, le mie lacrime, io dico
talvolta con dolore, ma con rassegnazione: -Ciò è forse nei disegni di
Dio.-"
"No, no, ciò non può essere," esclamò impetuosamente il giovane, "Dio grande
e magnanimo; Dio, la cui essenza divina si compone d'amore, può egli
permettere che si opprima in suo nome coloro ai quali ha dato un'anima
immortale, scintilla di sé medesimo?"
"Figlio mio," disse il frate, molto imbarazzato da questa domanda, ma troppo
fermo nella sua fede per cercare di addentrarsi nei misteri che la sua
ragione non poteva comprendere; "figlio mio, egli è cosa certa che Dio ha
creato l'uomo per la felicità, e che la felicità è nella perfezione. Noi
tendiamo incessantemente verso questo unico scopo: forse non vi si giunge
che per il dolore, forse le generazioni che seguiranno hanno bisogno del
sangue e delle lacrime dei loro padri, come noi abbiamo avuto bisogno del
sangue di Gesù Cristo; e forse anche per coloro che soffrono, Dio, che è la
sorgente dell'eterna giustizia, tiene in serbo anco per questa vita dei
guiderdoni incomprensibili.
"Nei tempi di persecuzione l'uomo, sempre al cospetto del martirio, vivendo
giorno per giorno, si attacca poco alle cose della terra, si abitua a vivere
con lo spirito, e da questa grande meditazione dei popoli escono talvolta
quei sublimi insegnamenti che rigenerano le nazioni. Cessiamo dunque di
mormorare, lottiamo con perseveranza; la sommissione volontaria ai decreti
di un essere onnipotente, ma infinitamente buono, porta con sé magnanime
consolazioni. Non è ad una fatalità cieca che si obbedisce, ed è un essere
intelligente e pieno d'amore, che pone sempre il bene al lato del male, e
spesso il bene nel male stesso per forza di combinazioni superiori, talvolta
oscure per le nostre limitate intelligenze, ma che conducono sempre, io ve
l'accerto,
ad uno scopo segnato innanzi nella sua eterna volontà."
Il giovane laico non rispose, ma considerava in silenzio quell'uomo giovane,
bello e grave, che fornito dei doni più preziosi dell'intelligenza e della
fortuna, aveva rinunziato ai vari onori di questo mondo per vivere della
sola vita dello spirito, e contribuire con tutto il suo potere, con tutte le
sue facoltà all'edifizio della felicità sociale, non di quella fragile
felicità basata sopra utopie paradossali, ma di quella felicità certa,
eterna, infallibile, che, ad onta delle sventure, della sofferenza e della
morte, nasce nel cuore dell'uomo che abbraccia con ardore una fede
consolante, e vive, per così dire, anco quaggiù di quella vita che è al di
là della tomba.
Quantunque questo giovane fosse stato nutrito in sentimenti purissimi e
cristianissimi, l'ardore naturale di un sangue giovanile e spagnuolo,
l'esistenza
tutta cavalleresca che menavano i signori di quell'epoca, avevano malgrado
il suo gusto naturale per le meditazioni filosofiche, dato un giro vivace e
marziale all'espressione delle sue opinioni e delle sue idee. Fatto per
abbracciare tutti i grandi pensieri religiosi od umanitari, mancava ancora
al giovane filosofo la pazienza che sopporta e non sorpassa giammai l'ordine
naturale degli avvenimenti. Nobile, egli era nel morale un lottatore ardito
ed intrepido, che, sicuro sempre della sua forza, attacca di fronte tutti i
suoi nemici ad un tempo, ed invece di combatterli ad uno ad uno, di
assicurare la sua vittoria con la lentezza stessa della lotta, corre
superbamente pel suo impeto il rischio della disfatta.
Ciò spiega forse la sconfitta costante in tutti i secoli della Spagna
filosofica e liberale nelle sue lotte contro la Spagna oltremontana.
Non è il coraggio, non è la perseveranza che sono mancati ai difensori della
libertà di coscienza, è la prudenza d'Ulisse, e la diffidenza degli uomini e
degli avvenimenti, quella accortezza che partecipa quasi dell'astuzia. Essi
avevano il valore dei leali cavalieri, combattevano alla luce del giorno col
petto scoperto contro nemici tenebrosi, chiusi nell'ignoranza e nel
fanatismo del popolo, come il bandito nelle macchi della strada; nemici che
non si difendevano durante il combattimento, ma che colpivano vilmente il
loro avversario per di dietro tostochè era stanco di combattere.
Quest'abitudine al tradimento era da lungo tempo nei costumi della chiesa
romana; essa non combatte mai per legioni; non presenta al nemico che
scaramuccie; le lascia consumare le sue forze a perseguitare antagonisti
innumerevoli, invisibili, che sembrano fuggire e moltiplicarsi sotto i suoi
passi; e quando lo crede abbattuto, allora si alza in massa come un sol
uomo, e manda il suo grido terribile di trionfo, che va a rimbombare fino
agli ultimi limiti del mondo.
"Son già cinque giorni," disse il giovane, "che abbiamo lasciato Siviglia;
quanto vi è ancora da qui a Madrid?"
"otto giorni di cammino almeno," rispose il Francescano.
"E in questo tempo l'avvoltoio inquisitoriale lascerà la sua preda, e forse
quando ritorneremo sarà già troppo tardi."
"State tranquillo," disse il frate, "l'Inquisizione non procede con tanta
fretta, essa beve l'ultima goccia di sangue delle sue vittime innanzi di
abbandonarle al carnefice. Orsù, coraggio" continuò, vedendo approssimarsi
le guide che conducevano le loro mule, lasciate indietro per varcare le
montagne a piedi.
I viaggiatori si alzarono; scendendo gli stretti sentieri del pendio
settentrionale della montagna, raggiunsero le loro guide, battevano con
fatica fra le rupi la via che conduceva in Castiglia, appena indicata dalla
traccia dei viaggiatori, e dove è oggi una magnifica strada reale che si
avvolge in spirale fino alla cima della montagna, e con giri e circuiti
uguali conduce dalla Castiglia in Andalusia, e dall'Andalusia in Castiglia.
Nell'epoca in cui accadevano queste cose era molto più malagevole, ma il
coraggio non mancava ai nostri viaggiatori.
Si rimisero dunque in via, e, ora sulle loro mule, ora a piedi, discesero la
montagna per guadagnare la Carolina, ove giunsero la stessa sera.
In questi due viandanti i nostri lettori han senza dubbio riconosciuto
Estevan de Vargas e Giovanni d'Avila.
XXII. Il tribunale.
Era un giorno tristo e lugubre, un giorno di seduta inquisitoriale. La
grande sala del tribunale era stata aperta. Questa sala era un vasto
quadrato lungo, parato di nero.
Verso il fondo si stendeva da una parte all'altra una tavola semicircolare.
Dietro a questa tavola, coperta in tutta la sua lunghezza da una fitta
rascia nera, si vedeva un seggiolone di velluto nero, sormontato da un
baldacchino della medesima stoffa.
Era il seggio del presidente o grande inquisitore.
Al di sopra del baldacchino pendeva, addossato al muro, un gran crocifisso
d'avorio
sopra un fondo nero. Due altri seggi, del medesimo colore del baldacchino,
si elevavano ai due lati del seggiolone del presidente; erano destinati agli
inquisitori consiglieri che componevano il tribunale.
Sulla tavola a destra era un campanello, dall'altro lato un gran libro degli
Evangeli aperto, e nel mezzo, davanti al presidente, un quaderno di carta
bianca, sul quale inscriveva le sue note particolari.
Dirimpetto al Cristo, al di fuori della tavola si elevava un banco, o
piuttosto bastone triangolare, montato su quattro piedi in isquadra, che
serviva di seggio agl'inquisiti.
Finalmente alla destra del presidente, al di fuori pure della tavola, si
stavano i birri e quattro uomini mascherati, coperti da una lunga veste di
tela nera, con la testa coperta da un cappuccio della medesima stoffa,
forati nei punti corrispondenti agli occhi, al naso ed alla bocca; quattro
uomini di un aspetto spaventevole, poscia, a sinistra, due cancellieri,
assisi davanti ad un tavolino, scrivevano sotto la dettature del presidente,
o secondo i suoi ordini, o sotto quella dei testimoni.
Pietro Arbues, vestito del suo grand'abito da monaco, ornato della croce
bianca che brilla sul petto dei figli di san Domenico, Pietro Arbues, assiso
sul seggio di presidente, volgeva attorno a sé uno sguardo sinistro.
I suoi due assessori, indifferenti alle tempeste che si agitavano nel cuor
di quell'uomo feroce, ma animati dal medesimo spirito di dominio,
attendevano in un ipocrito raccoglimento il giungere dell'accusato. Niuna
emozione interiore si mostrava sul loro volto inumano; essi ignoravano i
combattimenti e le incertezze del giudice, diviso fra l'obbligo di punire un
colpevole ed il timore di colpire un innocente. Le loro sentenze erano
dettate in antecedenza. Colpire, colpire senza interruzione: tale era la
loro divisa; eglino non temevano che di assolvere, e non assolvevano mai
volontariamente.
Verso il fondo della sala stavano dei monaci di differenti Ordini, testimoni
ordinari di quelle solennità, ed alcuni grandi di Spagna venduti
all'Inquisizione,
che Pietro Arbues, aveva invitati con biglietti: poiché non era un accusato
volgare che stava per comparire; era un nobile e potente signore, un buon
cattolico, accusato di eresia, che i suoi pari stavano forse per vedere
condannato senza ardire di pronunziare una sola parola in sua difesa.
Un silenzio spaventevole regnava in quella lugubre assemblea; sarebbesi
detto un convoglio funebre, tanto quei volti diversi portavano un'impronta
uniforma di tristezza e di morte.
Ma bentosto un leggiero movimento, quasi impercettibile, accadde in quella
cupa assemblea; gli sguardi si diressero lentamente verso la porta:
l'accusato,
condotto da due birri, era entrato nella sala. Era un uomo grande e pallido,
d'una cinquantina d'anni circa. I suoi capelli d'un nero cupo, ma di cui la
metà erano imbianchiti, ornavano una fronte vasta, in cui aveva sede la
lealtà piuttosto che il genio; il suo occhio, franco ed aperto, avea
l'espressione
leale e cavalleresca d'un vero figlio di Castiglia, ed una grande
rassegnazione religiosa, carattere distintivo dei cristiani di Spagna,
temperava l'espressione d'amarezza e di rancore che velava la fisionomia di
quell'uomo. Era inoltre debole e dimagrito da un soggiorno di più di due
mesi nelle prigioni dell'Inquisizione.
Si avanzò a passi lenti nel mezzo delle sue guardie, e giunto in faccia al
presidente, cercò attorno a sé un seggio per riposarsi; ma no vedendo che
quella specie di stanga triangolare, su cui il tribunale faceva assidere le
sue vittime, le di lui labbra si aprirono ad un leggiero sorriso amaro e
sarcastico. Egli si assise come poté su quel seggio bizzarro
d'inquisitoriale
invenzione[25]. Poscia, alzando la testa senza orgoglio, ma con incredibile
dignità, fissò su Pietro Arbues uno sguardo chiaro e penetrante, che avrebbe
fatto abbassare gli occhi a qualunque altro, fuorché ad un inquisitore.
Pietro Arbues lo sostenne senza cambiare fisionomia, ed indirizzandosi
all'inquisito:
"Accusato," gli disse, "alzatevi e giurate sul Vangelo di dire la verità."
L'inquisito si alzò lentamente, si avvicinò alla tavola, e, posando la mano
sopra il libro santo, disse con voce ferma e vibrante:
"Giuro in nome di Gesù Cristo e del suo santo Vangelo di dire tutta la
verità."
"Adesso il vostro nome?" proseguì l'inquisitore.
"Paolo Gioachino Manuel Argoso, conte di Cevallos, grande di Spagna di
seconda classe, e governatore della città di Siviglia per la volontà del
nostro diletto re Carlo V."
"Lasciate i vostri titoli," disse l'inquisitore, "essi non vi appartengono
più.[26]"
Manuel Argoso non ripose; ma il suo labbro inferiore si alzò sdegnosamente:
il puro sangue di Castiglia s'era in lui rivoltato.
"La vostra età?" domandò il presidente.
"Cinquant'anni," rispose il governatore.
"Manuel Argoso," proseguì Pietro Arbues, con voce lenta, metallica, aspra;
"Manuel Argoso, siete accusato d'aver ricevuto presso di voi un giovane
uscito da una schiatta eretica; un giovane che professa sentimenti opposti
alle dottrine della santa Chiesa cattolica romana, e di non averlo
denunziato."
"Monsignore, io non so quello che volete dire." Rispose gravemente Manuel
Argoso.
"Non denunziar l'eresia è incoraggiarla," proseguì l'inquisitore. "Non avete
potuto ignorare che Estevan de Vargas, discendente da famiglia moresca, è
tutt'altro che puro cattolico; ; e non solamente l'avete ricevuto in casa,
ma gli avete promessa in isposa la vostra unica figlia."
A questa parola un sospiro doloroso sollevò il petto dello sventurato
governatore, e videsi una lacrima scorrere lungo la sua pallida gota, ma
tosto rimettendosi:
"Monsignore," rispose, "il giovane Estevan de Vargas discende da uno di quei
nobili cavalieri abenceragi, i quali si sottomisero volontariamente alla
religione di Gesù Cristo, e si riconobbero sudditi del re Ferdinando
d'Aragona,
e della grande Isabella, la nostra gloriosa sovrana[27]. Questi cavalieri
ricevettero dai nostri re gl'istessi privilegi di cui godono i signori
Casigliani; perché diniegheremo loro ogni diritto che si sono legittimamente
acquistati già da un secolo?"
"Colui che ottiene un diritto s'impegna in un dovere," osservò
l'inquisitore,
"e da che manca a questo dovere, il suo diritto diven nullo. Don Estevan de
Vargas, professando dottrine contrarie ai santi canoni della Chiesa, perde
la sua salvaguardia di buon cattolico; è in difetto d'eresia, e chiunque fa
alleanza con lui è reputato eretico e degno delle pene inerenti a questo
delitto."
"Monsignore," disse gravemente Argoso, "vi giuro sul mio onore che mai don
Estevan de Vargas non ha pronunziato davanti a me parola che non fosse degna
di pio cristiano e di leale cavaliere; come dunque sarei complice d'un
delitto che non esiste?"
"Egli nega!" disse l'inquisitore con aria di compassione, volgendosi verso i
suoi consiglieri come per consultarli con lo sguardo.
I consiglieri fecero un gesto d'orrore, alzando gli occhi al cielo con aria
ipocrita.
Questa pantomima era loro famigliare, e sostituiva in essi la rettitudine
del giudizio e la logica della parola, che nessuno fra essi possedeva.
I cancellieri scrivevano le domande e le risposte.
Pietro Arbues sembrava riflettere.
Accadde un lungo silenzio, nel quale quell'anima impetuosa ed appassionata
eransi profondamente raccolta in sé medesima per trovare quelle dolci
intonazioni, quello sguardo devoto e tenero, quelle parole piene di dolcezza
evangelica, solo linguaggio usato fra gli inquisitori, e dal quale nessuno
fra loro si allontanava mai sotto alcun pretesto ed in veruna circostanza,
sia che questo fosse uno degli statuti della loro regola[28], sia che questa
dolcezza ipocrita non fosse che un raffinamento di crudeltà; poiché invano
ci si vorrebbe far persuasi che essi facessero il male con convinzione, e
che quella studiata mansuetudine, congiunta a tanta barbarie, fosse il
resultato del loro zelo per la religione, e di una tenera pietà per le
vittime che si credevano obbligati di torturare così.
La depravazione dei loro costumi risponde vittoriosamente a tutte le
apologie che potrebbesi intraprendere in questo argomento. L'intiera purezza
del cuore è la sola garanzia della sua bontà.
Finalmente, guardando il governatore di Siviglia con aria di compunzione:
"Figlio mio," disse Pietro Arbues, "voi mi vedete sinceramente afflitto
dell'ostinazione
che il nemico del bene ha messo in voi. Io vi ho amato in Dio, e nel mio
zelo per la santa causa della Chiesa, nella mia amicizia sincera per la
vostra persona, prego il Signore che vi mandi lo spirito di pentimento,
affinché, riconoscendo le vostre colpe, ne facciate abiurazione solenne, e
ritorniate nel retto sentiero che conduce al cielo."
"Padre mio," rispose Manuel Argoso, con aria tranquilla, "Dio m'è testimonio
che io non ho mai avuto un solo pensiero che fosse contrario alle leggi del
santo Vangelo, e che io l'ho sempre seguito con amore e confidenza."
"Ma voi confessate che avete avuto delle relazioni con un moresco,"
soggiunse insidiosamente l'inquisitore.
"Don Estevan de Vargas non è un moresco," rispose il governatore; "egli è
buon cattolico quanto voi e me, monsignore."
"Dio del cielo!" gridò l'inquisitore, "lo spirito maligno l'accieca, ed egli
insulta la nostra santa religione."
"Monsignore," obiettò a voce bassa uno dei consiglieri, "egli confessa le
sue relazioni con Estevan de Vargas."
Pietro Arbues fece un movimento di testa, che voleva dire: Bene, mi servirò
di questo. -"Fratello," proseguì indirizzandosi all'accusato, "negherete voi
pure di aver educato vostra figlia a sentimenti contrari al vero spirito
della religione cattolica, e che essa siasi occupata di quello studio
pernicioso che ci viene dal Nord e che si chiama filosofia?"
"Lo nego," rispose il governatore.
"Potete provarlo?" domandò l'inquisitore.
Manuel Argoso si volse verso l'assemblea, che occupava la parte inferiore
della sala, e vedendo alcuni nobili, i quali ai tempi della sua fortuna
frequentavano abitualmente la sua casa, "Signori," gridò, "quale di voi
verrà a rendere testimonianza della verità, ed affermare che né Manuel
Argoso né la sua figlia, la nobile Dolores, non hanno giammai avuto altre
massime che quelle del vangelo? Voi tutti sapete questo, signori, perché la
mia anima vi era aperta come la mia casa."
Il governatore attese invano una risposta; tutti restarono muti, con gli
occhi inclinati verso terra, ché temevano di lasciar intravedere la minima
traccia di intenerimento o di pietà.
Manuel Argoso lasciò ricadere tutteddue le braccia con una espressione di
scoraggiamento che sarebbe impossibile a dipingersi, poi, volgendosi
vivamente verso l'inquisitore, e , come illuminato da subitanea
inspirazione; "Monsignore," esclamò, " io mi appello a voi stesso; voi
venivate tutti i giorni nella mia casa, e della vostra doppia qualità di
amico e di ministro di Dio dovete, meglio di tutti, conoscere i miei veri
sentimenti, e specialmente quelli di mia figlia."
"Io non era il suo confessore," rispose il Domenicano, con voce glaciale.
"Oh, monsignore!" disse Manuel Argoso, con accento da intenerire una rupe;
"monsignore, Dolores pure è accusata d'eresia? Dolores è prigioniera come
me?"
"Non è questione di vostra figlia in questo momento," rispose l'inquisitore,
che voleva a bella posta prolungare le incertezze di quel padre infelice,
"l'accusa
cade sopra di voi, Manuel Argoso; confessate il vostro delitto se volte
meritare il perdono del cielo e quello della santa Chiesa."
Il governatore non rispose; il suo occhio, avido e febbricitante,
interrogava quello di Pietro Arbues; cercava d'indovinare su i suoi
lineamenti la sorte che riserbava a sua figlia, ma invano, la fisionomia
dell'inquisitore non mostrava altro che una spaventevole durezza di cuore,
circondata da un'aureola, d'ipocrita dolcezza.
"Mia figlia! Che cosa avete fatto di mia figlia?" gridò il governatore,
congiungendo le mani supplichevoli; "rispondetemi, monsignore, ve ne
scongiuro; ditemi che nulla la minaccia, ed io potrò tutto soffrire.2
"Manuel Argoso," disse l'inquisitore con voce lenta e dolce, "non è momento
d'occuparvi d'affezioni terrestri; pensate a Dio ed alla vostra salute, e
lasciate alla Provvidenza la cura di vegliare su coloro che vi sono cari."
Malgrado la simulata dolcezza delle sue parole, il viso dell'inquisitore
esprimeva una volontà inflessibile. Il padre di Dolores comprese che non vi
era da sperar nulla da quell'anima di ferro: curvò la testa sul suo petto,e,
rassegnandosi con un eroismo degno dei primi martiri, "Sia fatta la volonta
di Dio!" pensò egli, e serbò il silenzio.
"fratello," gli disse l'inquisitore, con la voce più dolce, "confessate
almeno che siete stato tentato dallo spirito maligno. Noi deboli creature,
non fuggiamo sempre alle sue insidie, malgrado le migliori intenzioni.
Ebbene! Fratello, diteci che il suo potere fatale vi ha sottomesso; che
siete stato più cieco che colpevole; e, mitigando per voi il rigore delle
pene terrestri, procureremo allo stesso tempo di salvare la vostra anima
dalla perdizione."
Il governatore non rispose.
"Confessate almeno che avete preso piacere ad udire le massime filosofiche
ed anticristiane di cui il luteranismo infesta l'Europa."
"Io non so che cosa sia il luteranismo," rispose il governatore, "non me ne
sono mai occupato.bisogna, invero che Lutero sia un grand'uomo per mandare
così sossopra il mondo."
A quest'ardita risposta l'assemblea intiera fremé di terrore, poiché aveva
veduto un lampo sinistro splendere sugli occhi del grande inquisitore. Molto
meno di questo era necessario per far condannare un uomo dall'Inquisizione.
"Disgraziato! Egli bestemmia!." gridò Pietro Arbues; "egli si tradisce!"
soggiunse piano. gli altri due inquisitori si scambiarono uno sguardo
d'intelligenza.
"E' dunque vero," proseguì Arbues, "che venite accusato con ragione di
professare segretamente le massime del nemico di Dio, e d'essere
l'ammiratore
di Lutero?"
"Come posso ammirare un uomo che non conosco, e sguir le sue massime?"
rispose il governatore; " son esse dunque migliori delle mie? La sua
religione è forse migliore di quella che mi è stata insegnata? E,
d'altronde, chi mi accusa? Nominatemi il mio accusatore affinché possa
confonderlo."
"La carità cristiana non lo permette[29]," rispose il presidente.
"Confessate, figlio mio, confessate, e pentitevi, è il solo mezzo di salute
che vi rimane per l'altra vita."
"Io non ho altro da dire," rispose il governatore; "non ho che a pregare
Iddio, il quale conosce la mia innocenza, di svelarla a tutti e di
convincerne i liei giudici. -Qualunque sia il nemico che mi accusa,"
continuò, "giuro in faccia a Dio, il quale mi vede e mi sente, che è un
infame calunniatore; e dichiaro che mia figlia Dolores è un angiolo. Sia
maledetto colui il quale osasse attentare alla purezza della sua vita! -
Ora," soggiunse, "sia fatta la volontà di Dio sopra di essa e sopra di me;
ho confidenza in colui che protegge gli innocenti!"
Poi si ebbe un bell'opprimerlo di domande insidiose e molteplici: Manuel
Argoso tenne un silenzio imperturbabile: fu impossibile di farlo parlare.
"Disgraziato! Egli lo vuole," disse Pietro Arbues, con accento d'ipocrita
commiserazione.
E volgendosi verso gli uomini mascherati, che si tenevano immobili come
spettri alla destra del tribunale, stese la mano in avanti, disegnando col
dito l'inquisito.
Un fremito glaciale corse nell'assemblea; bentosto vi regnò un terribile
silenzio; nessun rumore si fece sentire nell'ambiente sonoro di
quell'immensa
sala: sarebbesi detto che tutti quegli esseri viventi fossero diventati di
pietra.
Solamente i quattro uomini mascherati sembrarono staccarsi dal suolo come
fantasmi, scorrere lentamente e senza rumore sull'intavolato; poi giunti
presso l'accusato, lo afferrarono, lo alzarono quasi sotto le braccia, senza
che facesse un sol moto, e disparvero con lui per un porta laterale.
XXIII. La camera del tormento.
Nel mezzo d'una vasta rotonda, in un profondo sotterraneo rischiarato da due
pallide fiaccole, quattro uomini mascherati circondavano un'altr'uomo, mesto
e debole, che si sosteneva a pena, ed a cui la vista infievolita rendeva
penoso ed affaticante il lugubre chiarore di quel luogo funebre.
Un'aria umida e densa riempiva come nebbia infetta quelle regioni
sotterranee da cui esalava un odore fetido e sepolcrale.
In quella specie di grotta, intorno alle muraglie ineguali e bagnate
dall'acqua
che scorreva attraverso la molle pietra, vedevasi appesi gli stromenti di
tortura: infernale ritrovato dell'ascetica e feroce immaginazione dei
monaci, il cui solo aspetto faceva fremere.
Vedevansi colà cavalletti, calzari di ferro, chiodi di una dimensione
enorme, corde di tutte le grossezze; poscia in un canto, allato di un
cavalletto, un braciere ardente che rifletteva le sue fiamme rossiccie e
azzurrognole nella profondità di quell'angolo oscuro.
Era spaventevole a vedersi.
Si discendeva in quel luogo infernale per una quantità di piccoli scalini
tortuosi, coperti di muffa e su cui si scivolava a ciascun passo sopra
scorrevole poltiglia. Ma i servitori dell'Inquisizione avevano, come suol
dirsi, il piede marino. Essi conoscevano i più piccoli anditi di quello
spaventevole labirinto, in cui avevano condotto Manuel Argoso lasciando la
sala del tribunale, ed in cui li ritroviamo adesso con l'infelice accusato,
aspettando l'arrivo del grande inquisitore[30].
L'antico governatore di Siviglia erasi lasciato guidare o piuttosto portare,
chiudendo gli occhi per non vedere la strada che gli si faceva percorrere;
ma i carnefici essendosi fermati nel mezzo della camera del tormento (così
si chiamava l'antro tenebroso), l'inquisito aprì gli occhi, volse attorno a
sé uno sguardo inquieto, e quando non vide altro che la figura velata degli
uomini sinistri che in quell'inferno terrestre compivano l'ufficio di
demoni, e si chiamavano i tormentatori, quando ebbe contato uno dopo l'altro
gli orribili strumenti di tortura che lo circondavano, la sua fantasia,
indebolita dal digiuno e dalla reclusione, divenne preda di un'allucinazione
bizzarra. Nella sua fede di religioso cristiano credette aver lasciato
questo mondo, ed esser giunto in quel luogo orribile del quale parla il
Vangelo, in cui sono lacrime e stridor di denti.
Deve far meraviglia che in tali momenti, e nel mezzo di una simile
fantasmagoria, l'Inquisizione abbia ottenuto le abiurazioni e le confessioni
più strane e più contrarie al carattere degli uomini di cui faceva le sue
vittime?
Pietro Arbues arrivò finalmente, seguito da un secondo inquisitore e dal
notaro apostolico. L'accusato era in piedi in mezzo alla camera del
tormento. All'aspetto del suo giudice tornò al sentimento doloroso della
realtà; alzando gli occhi verso il cielo, come per implorarlo, vide che al
di sopra della sua testa, nella volta, erasi fissata una forte puleggia,
nella quale passava una solida corda di canape, che cadeva fino ai suoi
piedi. Involontariamente fremé.
I quattro uomini mascherati stavano in silenzio presso di lui.
Pietro Arbues e l'inquisitore che l'accompagnava, si assisero sopra delle
seggiole per assistere a quella lugubre scena, conformemente al diciottesimo
articolo del codice dell'Inquisizione, il quale voleva che uno o due
inquisitori, assistiti dal notaro apostolico, fossero sempre presenti alla
tortura per registrare le dichiarazioni dell'accusato.
Manuel Argoso, benché avesse il coraggio delle anime forti, non poté
difendersi da un terrore profondo; pensava a sua figlia, la quale avrebbe
forse dovuto subire le medesime prove, e tutto il suo coraggio l'abbandonò.
Se avesse potuto risparmiargliele confessando delitti immaginarii, non
avrebbe esitato un sol momento; ma sapeva bene che una simile confessione la
perderebbe invece di salvarla. Richiamò dunque a sé tutta la sua energia, e
si preparò a soffrire.
Ad un cenno del grande inquisitore i tormentatori spogliarono l'accusato de'
suoi abiti, e lo lasciarono nudo fino alla camicia.
Allora Pietro Arbues, avanzandosi verso di lui: "Figlio mio," gli disse con
dolcezza, "figlio mio, confessate i vostri delitti, e non contristate la
nostra anima perseverando nell'errore e nell'eresia; risparmiateci il dolore
di obbedire alle leggi giuste e severe della santissima Inquisizione,
trattandovi con tutto il rigore che esse reclamano."
Manuel Argoso non rispose, ma gettò sull'inquisitore uno sguardo fisso,
freddo ed acuto, uno sguardo che sfidava la tortura.
"Confessate," proseguì Pietro Arbues, con una incredibile persistenza, ma
sempre con voce piena d'unzione e di mansuetudine. "Noi siamo i vostri padri
in Dio; ed il solo desiderio di salvare la vostra anima ci guida. Orsù,
figliuol mio, una confessione sincera può sola salvarvi nell'altra vita, e
risparmiarvi in questa le giuste vendette di Dio; confessate adunque,
confessate il vostro peccato."
"Io non posso confessare un delitto che non esiste," rispose il governatore.
"Figlio mio," proseguì il giudice, "io mi rattristo della vostra
impenitenza, e supplico il Signore di toccare la vostra anima, che senza la
grazia sarebbe infallibilmente perduta; poiché il demone la tiene in suo
potere, e v'inspira questa colpevole ostinazione nel male. Pregate adunque
con me, se vi è possibile, perché Dio abbia pietà di voi, e vi mandi la luce
dello Spirito Santo."
Nello stesso tempo Pietro Arbues, inginocchiandosi a terra a lato del
paziente, borbottò a voce bassa un'orazione non intelligibile, con aria
devota ed intenerita. Poscia fece, uno dopo l'altro, molti segni di croce
rapidi, si batté umilmente il petto, e restò alcuni minuti col viso
appoggiato sulle mani giunte.
In quel momento il feroce inquisitor di Siviglia non era che un umile
Domenicano che pregava e piangeva per i peccati degli altri.
Finalmente si alzò.
"Disgraziato schiavo del demonio," disse allora, indirizzandosi
all'accusato.
"Dio si è degnato esaudire le mie umili preghiere, e schiudere i vostri
occhi alla luce della nostra fede!"
"La mia fede è sempre la stessa," rispose Argoso, "essa non ha variato mai
un solo istante, come l'ho ricevuta da mio padre, che era un pio cristiano,
così la porterò nella tomba."
"Dio mìè testimone che non vi ho colpa," disse il giudice, alzando gli occhi
al cielo; "via," proseguì, guardando i tormentatori, "applicategli la
corda."
A queste parole l'accusato chiuse gli occhi; un sordo bisbiglio risuonò
nelle sue orecchie; un sudore freddo inondò le sue membra, e fremé fino
nelle sue viscere.
I tormentatori tirarono a sé la fune che pendeva dalla vòlta.
"Voi continuerete la tortura finché giudicheremo convenevole di farla
cessare," continuò l'inquisitore, " e se in questo tempo sopravvenisse
all'accusato,
sia un lesione, sia la frattura di un membro, sia anco la morte, protesto
davanti a tutti che la colpa dev'essere imputata a lui solo."
"Ed ora sia fatta la volontà di Dio," soggiunse stendendo la mano verso i
carnefici.
Bentosto i quattro uomini mascherati si impadronirono dell'infelice
governatore, e gli legarono le mani dietro il dorso con un capo della corda
che pendeva al di sopra della sua testa, poscia, prendendo l'altro capo,
alzarono col mezzo della puleggia, il paziente fino all'altezza della volta,
e lo lasciarono ricadere ad un tratto fino alla distanza di mezzo piede dal
terreno. Lo sventurato restò mezzo svenuto da quella terribile scossa.
I tormentatori attesero per qualche minuto che fosse ritornato in sé stesso;
ed appena ebbe riaperto gli occhi ricominciarono quella crudele ascensione,
e lo lasciarono ricadere con violenza come la prima volta. Questo supplizio
durò un'ora[31]. L'infelice governatore non aveva proferito lamento,
soltanto il suo petto, affannoso e soffocato, mandava un respiro roco e
frequente, simile al rantolo dell'agonizzante. I suoi occhi, secchi e vitrei
come quelli dei moribondi, sembravano doversi chiudere all'ultimo sonno. La
corda che serrava i polsi della mano, era sì penetrata nelle carni, che il
sangue del torturato essendosi sparso per tutto il corpo; la camicia, il
solo abito che gli fosse lasciato, era sporca di un fango sanguinolento,
poiché il suolo era terroso ed umido, e, finita la tortura, l'infelice
governatore, sciolto dai suoi lacci, era caduto a terra come una massa
inerte; le sue ossa slogate ed i suoi muscoli contusi non potevano più
sostenerlo.
Era uno spettacolo lacerante ed orribile il vedere quell'uomo forte, grande
e robusto, ancora nel vigore dell'età, annichilito da un'atroce tortura, e
tormentato innanzi d'essere giudicato.
Che non dovevasi attendere da un giurisprudenza che imponeva agl'inquisiti
simili prove!
Ma gl'inquisitori non avevano viscere; essi regnavano per la tortura. Si
pascevano d'agonia.
"Che si riconduca quest'uomo nella sua prigine," disse Pietro Arbues, con
aria afflitta, "basta per oggi." E volgendosi verso l'inquisitore
consigliere: "Fratello," disse, "non dimenticate questo sfortunato nelle
vostre preghiere."
Tale era la maniera d'agire degl'inquisitori in faccia alle loro vittime;
essi coprivano l'abominevole durezza del loro cuore sotto le apparenze
ipocrite d'una profonda pietà.
Due birri alzarono nelle loro braccia l'infelice governatore. Manuel Argoso
non dava più segno di vita.
XXIV. Le carceri dell'Inquisizione.
Era mezza notte.
Tutti dormivano in Siviglia, eccettuati forse gl'infelici prigionieri
rinchiusi nella carceri dell'Inquisizione.
Agli ingrassi di quell'oscuro edifizio, chiamato prigione della fede, nulla
rischiarava l'oscurità della notte. Regnava un silenzio di morte; quelle
tombe che racchiudevano dei vivi erano troppo profonde perché le grida delle
vittime agonizzanti potessero giungere al di fuori.
Due persone si avanzavano a passo furtivo verso la prigione, un monaco e una
donna.
La notte era sì oscura ed i loro abiti sì cupi, che neppure una spia avrebbe
potuto distinguerli contro la muraglia annerita che seguivano appoggiandosi
alle pareti per guidarsi nell'oscurità.
Giunsero bentosto alla porta della prigione; il monaco batté un colpo secco
e sonoro, benché leggiero, con una chiave che teneva in mano; nel medesimo
istante la porta girò lentamente sui suoi cardini come per magia.
Il monaco e la donna furono introdotti all'interno.
Nessuna luce rischiarava i loro passaggio, e poiché furono entrati, la porta
si richiuse dolcemente senza scricchiolare su' suoi cardini, diligentemente
unti per l'avanti.
"Oh! Io tremo," disse a voce bassa la compagna del frate.
"Rassicuratevi, Dolores," rispose Josè, "rassicuratevi; con me non avrete
nulla da temere."
La fanciulla s'appoggiò sul braccio del Domenicano per sostenersi, poiché il
suo cuore batteva con violenza. Il carceriere aveva in questo tempo accesoun
lanterna cieca.
"Reverenza," disse indirizzandosi al monaco, "ove debbo condurre Vostra
Paternità?"
"Al carcere del governatore di Siviglia; va, e cammina avanti di noi."
Il carceriere esitò un istante; egli sapeva con qual barbarie sarebbe
trattato dall'Inquisizione se si scuopriva che aveva introdotto una donna
nel carcere d'un prigioniero.
"Ebbene" disse Josè, "tu esiti?"
"Reverenza!."
Il favorito del grande inquisitore fece un cenno imperativo, Il carceriere
andò bentosto innanzi, senza ardire di parlare. Il monaco e la fanciulla lo
seguirono.
Avanti di giungere al luogo sotterraneo ove il Santo Uffizio teneva le sue
vittime, discesero per una scala a chiocciola di circa cinquanta scalini.
Un odore nauseante, insopportabile, esalava da quei luoghi infetti. Il
fraticello e la sua compagna si sentirono soffocati e presso a svenire; la
delicatezza dei loro organi rendeva loro quell'odore intollerabile[32].
Tuttavia Josè, più coraggioso, sostenne col suo braccio Dolores, pallida e
quasi priva di sensi.
"Oh!" Gridò la fanciulla con angoscia, fermandosi sull'ultimo gradino della
scala, "qui dunque abita mio padre!."
"Coraggio!" disse a voce bassa il Domenicano, "coraggio, voi ne avete
bisogno!"
In quel momento una porta pesante di ferro si aprì con fatica, lasciando
sfuggire fuori uno sbuffo d'aria sì densa e sì fetida, che somigliava a
fumo.
"E' qui, Reverenza," disse il carceriere, rimettendo al monaco la lanterna
cieca che teneva nelle mani, "entrate, ma, in nome del cielo! Non fate
rumore e non vi trattenete molto."
"Allontanati," disse imperiosamente Josè, prendendo la lanterna dalle mani
del carceriere; "no debbo ascoltare obiezioni da te."
Il carceriere obbedì e si ritirò in un angolo oscuro del corridoio
sotterraneo.
Allora, al chiarore incerto e vacillante della lanterna, Josè cercò di
guidare Dolores in quella profonda oscurità. Passarono la soglia di quella
porta angusta, e dopo che i loro occhi si furono un poco abituati alla
dubbia luce che li circondava, nel fondo del carcere, largo dieci piedi su
dodici, sopra uno strato che ne occupava la metà, videro un uomo disteso
come addormentato. Quest'uomo era l'antoco governatore di Siviglia.
Era solo; gli altri cinque prigionieri che d'ordinario abitavano quella
spelonca, capace solamente di tre persone, erano morti l'uno dopo l'altro
durante o appresso la tortura.
L'infelice Argoso, più forte e più coraggioso, aveva resistito alle
terribili ascensioni da lui subite, alcune ore dopo essere stato riportato
nella sua carcere era tornato alla vita ed al dolore. Nel momento in cui sua
figlia entrò nella prigione, un leggiero sonno l'aveva sottratto al
supplizio di abitare in quel luogo immondo. Alcuni vasi di terra, destinati
a soddisfare i bisogni naturali, e che non si vuotavano che ogni settimana,
esalavano attorno a lui un odore intollerabile. Quella orribile spelonca non
riceveva luce che da una specie d'abbaino esistente nella parte superiore
del muro a livello della strada, ed era sì umida, che la stuoja su cui
dormiva il prigioniero, era intieramente muffata, e sen'andava in pezzi.
Quando la prigione era piena, lo strato si trovava troppo piccolo, onde i
detenuti meno deboli dormivano sulla terra fredda e fangosa:; tali erano i
luoghi in cui l'Inquisizione racchiudeva le sue vittime[33].
Dolores si avvicinò dolcemente allo strato su cui dormiva suo padre, e,
giungendo le mani con un'espressione di dolore ineffabile, lo considerò per
alcuni istanti; tuttavia non poteva vedere il suo viso, voltato dalla parte
del muro ed appoggiato sopra uno dei suoi bracci; sembrava sì tranquillo che
non osò svegliarlo. Ma avvicinandosi a sua volta, Josè urtò in una mezzana
di terra che incontrò nel suo passaggio. Al rumore che fece cadendo, il
governatore alzò la testa; era sì pallido e sì cambiato, che sua figlia sola
poteva riconoscerlo.
"Padre mio!" gridò Dolores con gemito doloroso. Gli si gettò, singhiozzando,
sul seno, e tenendolo fra le braccia col sublime entusiasmo della tenerezza
e del dolore, lo strinse contro il petto.
Ma lo sventurato padre non rispose a quella stretta; suo malgrado un lamento
lacerante sfuggì dalle sue labbra: la figlia aveva, abbracciandolo,
risvegliati i cocenti dolori delle sue membra slogate.
"Che cos'hai?" esclamò essa, provandosi di sollevarlo fra le sue deboli
braccia."
"Nulla, non ho nulla, mia diletta Dolores," disse egli sforzandosi di
sorridere: "oh! Io sono felice di rivederti!"
Josè indovinò tutto; aggrottò il sopracciglio, facendo un gesto energico
d'indignazione,
e mormorò a voce bassa:
"Oh! Se avessi saputo questo, mio Dio."
Manuel Argoso faceva vani sforzi per rialzarsi; le sue braccia paralizzate
dalla sofferenza, le sue ossa slogate, ed i suoi muscoli contusi, rimanevano
inerti, e ricusavano d'obbedire agli sforzi della volontà.
Sua figlia, il solo essere che egli amava al mondo, la sua figlia che aveva
creduto di non rivedere mai più, era là dinanzi a lui, nella sua prigione,
ove era discesa come per miracolo, e non poteva stringerla con amore contro
il suo seno; non poteva che balbettare parole senza seguito, interrotto da
singhiozzi e da lacrime.
Quella morte esteriore che lo colpiva vivo era un'indicibile tortura. I suoi
occhi non potevano saziarsi di contemplare sua figlia, ei la esaminava
minutamente con un amore appassionato, con la tenerezza santamente puerile
di una madre, ma senza parlare; sospiri tumultuosi gonfiavano il suo petto,
il suo grande occhio, oscuro, brillante e febbrile, nella sua orbita
profonda si velava di lacrime, e le sue labbra tremavano, agitate da moti
convulsi.
"Oh! Tu sei dunque libera!" esclamò finalmente con un'espressione di gioia
sì vera e sì trista, che il cuore di Josè vibrò come un metallo sonoro; un
fremito glaciale corse nelle sue ossa, e con un atto involontario cadde alle
ginocchia del governatore.
"Chi è questo monaco?" domandò Manuel Argoso.
"Un angiolo, padre mio," rispose Dolores; "un angiolo che ci ha riuniti."
"Troppo tardi!" mormorò il governatore.
"Perché troppo tardi?" replicò la fanciulla; "tu soffri, ma noi ti
slaveremo."
Essa non comprendeva che di quell'uomo robusto l'Inquisizione aveva fatto un
cadavere.
Josè non si contenva più. Lacrime amare gonfiavano il suo seno; la sua
indignazione lo uccideva.
"Disgraziata figlia!" gridò egli con isfogo, "non vedete che hanno rotto le
sue membra!"
"Tacete, tacete!" gridò vivamente il padre.
Non era più tempo; Dolores aveva tutto compreso. Colpita, abbattuta, si
gettò in ginocchio davanti alla stuoia su cui era coricato il suo infelice
padre; sollevò dolcemente le sue membra contuse, le cuoprì di baci e di
lacrime; le sembrava che, a forza di tenerezza, avrebbe potuto rendere a suo
padre la vita che gli era stata tolta.
Ma finalmente, vedendo che i suoi sforzi erano inutili, e che l'infelice
governatore, sempre immobile, non viveva che per il dolore, si volse con
collera verso il Domenicano:
"Voi lo sapevate," ella disse, "e non me ne avete avvertita!"
"Se l'avessi saputo," rispose Josè, "non vi avrei condotta qui; sono stato
ingannato come voi, Dolores; è stata applicata la tortura immediatamente
dopo l'interrogatorio, ciò che non si fa quasi mai; e voi sapete che ieri
sono stato costretto ad assentarmi da Siviglia."
"Oh mio Dio! Essi l'hanno ucciso," mormorò dolorosamente la fanciulla. E
coprendo le mani di suo padre di baci convulsi:
"Vedete, don Josè ei non può più fare alcun passo, e l'hanno abbandonato
così in questa prigione infetta senza neppure medicare le sue ferite. Oh
padre mio! Come avete potuto vivere in questa tomba?"
"Calmati, figlia mia," disse dolcemente il governatore; i miei mali non sono
irrimediabili; guarirò, rassicurati."
"Sì, guarirete," ella disse con risoluzione, "perché io resterò qui per
curarvi. - Chi oserà strapparmi dappresso di lui?" gridò la fanciulla con
nobile entusiasmo, gittando attorno di sé uno sguardo sublime"Io," rispose
Josè, "io, che voglio slavarvi tutti e due."
"Voi me lo avete già detto," ella disse, "e frattanto vedete in qual stato
l'hanno
ridotto. Voi tutti m'ingannate, io non ascolto che me stessa, voglio restar
qui!"
"Dolores," disse il fraticello, "credetemi, non cedete a questa inutile
esaltazione, restate libera per salvar vostro padre. Non si riprenderà così
presto l'istruzione del processo. Non sapete che Estevan e Giovanni d'Avila
s'occupano dei mezzi di strapparlo all'Inquisizione?"
"Mi hanno dunque cercato dei testimoni!" domandò Manuel Argoso con voce
debole.
A quella parola di testimoni la figlia del governatore si rammentò di un
progetto che già l'aveva occupata.
"Don Josè," disse rivolgendosi verso il giovane Domenicano, "mi assicurate
voi che le ferite di mio padre possono guarire?"
Josè, che aveva alcune cognizioni in chirurgia, toccò, l'uno dopo l'altro le
membra del prigioniero.
"Ve lo giuro," rispose; "fra pochi giorni vostro padre potrà camminare: le
sue articolazioni sono state rimesse."
"Ebbene," proseguì Dolores, dissimulando il suo pensiero pel timore che Josè
le impedisse di metterlo in esecuzione, "aspetterò il ritorno di Giovanni
d'Avila."
"Don Manuel," disse il fraticello, indirizzandosi al governatore, "non vi
affrettate a mostrarvi guarito: ritardate, per quanto è possibile, un
secondo interrogatorio, laciate ai vostri amici il tempo di giungere.Dio
avrà pietà di noi," continuò con una cupa esaltazione, "ed il giorno della
vendetta non è lontano!"
"io posso sopportar tutto," rispose il governatore, "la mia figlia è libera:
e voi non ci tradirete!" soggiunse guardando Josè con sembiante
indefinibile.
Manuel Argoso aveva paura di quell'uomo che portava la livrea
dell'Inquisizione.
"Io gli debbo la libertà," disse vivamente Dolores che comprendeva i timori
di suo padre, "è egli che mia ha salvata dal disonore e dalla morte, sperate
in lui.e voi, don josè," disse ella con dolcezza, "perdonate le mie
ingiustizie e le mie rivolte, oh! Io soffro tanto, mio Dio!"
"io pure ho sofferto," rispose amaramente il giovane Domenicano; "ecco
perché m'interesso per voi e vi perdono."
In quell'istante alcuni passi risuonarono sulla stretta scala che conduceva
alle prigioni.
Josè nascose con prestezza la lanterna cieca sotto il suo mantello, e
guardando il governatore e sua figlia:
"Neppure un parola," disse, "aspettate."
Un amaro sentimento di dubbio attraversò il cuore di Manuel Argoso; malgrado
la confidenza di sua figlia: temeva un tradimento: tuttavia non dimostrò
nulla.
Il rumore continuò ancora per alcuni minuti. Coloro che discendevano la
scala passarono davanti alla porta del carcere dove il governatore era
rinchiuso, poscia si allontanarono d'alcuni passi; la porta d'un carcere
vicino si aprì, si richiuse, fu risalita la scala, e non si udì più nulla,
fuorché singhiozzi convulsivi che la grossezza dei muri non poteva
intercettare.
I birri del Sant'Uffizio avevano terminata una spedizione notturna.
"ancora un vittima!" disse amaramente Josè.
"una donna!" soggiunse Dolores, fremendo; "lìho riconosciuta dalla voce."
"va, va!" gridò il governatore, "l'aria di questa prigione è contagiosa;
ritorna alla libertà, o mia Dolores, noi ci rivedremo, va!"
"Si, ci rivedremo, padre mio, perché io ritornerò;" disse la fanciulla,
interrogando Josè con lo sguardo.
"Qui no," disse vivamente il governatore, "qui no, io te lo proibisco, fa
tutto quello che potrai per liberarmi, ma, in nome del cielo! Non ritornar
qui."
"venite, venite," disse Josè, "egli ha ragione; non si è mai sicuri nelle
prigioni del Sant'Uffizio."
"Non ancora, oh! Non ancora!" diceva Dolores, attaccandosi a suo padre, che
non poteva più lasciare.
"E' forza," proseguì il fraticello, impiegando quasi la violenza per
distaccarnela. "Addio don Manuel, sperate, voi avete degli amici, essi vi
salveranno."
In quel momento il carceriere aprì la porta del carcere e disse a Josè:
"Reverenza, conducete via questa fanciulla, ve ne supplico; essa non è
sicura qui, ed io rischi la mia vita; ve ne scongiuro, conducetela via."
"addio, padre mio; non bisogna far ricadere la nostra sventura sopra altri:
addio, e fatevi animo,"soggiunse piano, abbracciandolo per l'ultima volta.
Dolores e Josè uscirono, la porta del carcere si rinchiuse sul prigioniero.
XXV. Una gran festa a Siviglia.
Era un giorno di gran gala a Siviglia.
I balconi facevano mostra dei loro splendidi arazzi di seta, o dei bei
tappeti di granata. Erasi elargito verso il popolo; fino dallo spuntar del
sole, del vino di Pajarete usciva a grandi fiotti dalla fontana della
Spianata.
I gitani, i mendici ed i frati avevano fatto un'ampia raccolta; perché in
Spagna i giorni di festa il buon popolo spagnuolo era, come suol dirsi, la
provvidenza dei frati e dei gitani. Ciascuna di queste caste sapeva alla sua
maniera governare la di lui credulità, o la di lui dabbenaggine: i frati col
mezzo delle reliquie da baciarsi; gli altri predicendo la buona fortuna, e
dando amuleti alle ragazze: tutte cose importanti che non rimanevano mai
senza premio. L'immaginazione del popolo, quella folle e vivace maga, sì
ardente in quei climi meridionali, non si è mai sottratta ai furbi, ed i
furbi non vi sono mancati giammai. Perché non si sono trovati uomini gravi,
animati dal santo amore dell'umanità, che abbiano saputo volgere a bene
quella tendenza al meraviglioso, poetizzare, per così dire, la filosofia,
rendere la ragione e la verità incantevoli a forza di vestirle con poesia
bella e sublime, e finalmente ottenere nel bene quello che il fanatismo
aveva ottenuto nel male, dominare, cioè le masse a fine di renderle felici,
come regnava su di esse per la loro eterna sventura?
Questo giorno verrà senza dubbio: la lotta è cominciata, il genio
dell'avvenire
stende già le sue ali sulla Spagna. Possa egli, come lo spirito santo di
Milton, fecondare quel vasto abisso per tanto tempo immensurabile, e da quel
profondo caos di passioni e di pensieri diversi far risplendere l'eterna
scintilla!
Ma torniamo a Siviglia.
Era, come abbiamo detto, un giorno di festa straordinaria. La bella città
andalusiana aveva con giubilo deposto per un giorno le gramaglie che
abitualmente la cuoprivano. Molti cuori sanguinavano, senza dubbio, profondi
dolori o amari risentimenti vivevano nell'anima degli Andalusiani; ciò non
ostante, quei giovani spensierati della più bella contrada dell'universo,
quei figli del piacere, che sono più artisti e più poeti senza saperlo dei
più grandi scrittori e dei cantori più celebri, erano tornati pazzamente
alla loro canzone diletta, al loro voluttuoso ballo. L'Inquisizione era
dimenticata, dimenticati i morti, dimenticati i birri, dimenticato il
terrore; i sivigliani, ritornati musici, poeti ed amanti, cantavano e
danzavano con delirio; non vivevano più che del momento presente, e, cosa
strana, quella festa, oggetto di sì vivo entusiasmo, era una festa in onore
dell'Inquisizione.
La nobile città di Siviglia celebrava l'arrivo nelle sue mura del duca
Medina-Coli, gran porta stendardo della fede[34], venuto a tenere il suo
posto in un atto-di-fede reale che doveva aver luogo per celebrare uno di
quegli innumerevoli piccoli trionfi di Carlo V, il quale ne aveva avuti sì
grandi contro il protestantismo d'Alemagna: trionfi il più spesso seguiti da
sconfitte, miscuglio di bene e di male, di alleanze e di defezioni che dopo
la lega si Smalkald[35], tennero tanto tempo l'Europa in sospensione, e
fecero dubitare chi sarebbe il vincitore, se Roma o Lutero; trionfi i quali
servirono tante volte di pretesto alla chiesa Romana, per moltiplicare i
roghi.
La notte era venuta bella e stellata, come al solito. L'aria serena e
profumata, l'eccitazione della danza e del vino della fontana avevano
portato un aumento di esaltazione fra il popolo di Siviglia. Mai la Jacara
non era stata ballata sì di buon animo, né la canzone cantata con più
voluttuoso abbandono. E' vero che il duca di Medina-Coli, che pagava la
festa con i suoi denari erasi mostrato grande e generoso signore: aveva
largamente fornito di che bere ai gentiluomini, ai Moreschi ed agli
accattoni della città.
Ma mentre il popolo gioiva nelle strade, bisognava bene che i signori ed i
grandi di Spagna, avessero la loro parte in quella festa nazionale.
I gentiluomini di Siviglia ben pensanti (vale a dire i servitori
dell'Inquisizione),
divertivansi adunque dal loro lato nelle splendide sale del conte e duca di
Mondejar, genero e nipote del potente ed eccellentissimo duca di
Medina-Coli.
Dopo un sontuoso banchetto, che aveva avuto luogo presso il conte di
Mondejar, i convitati, riuniti in una delle magnifiche sale del palazzo,
discorrevano assisi su larghi divani di seta, che rammentavano il lusso
orientale dei re di Siviglia, fumando deliziosi cigarri, lusso che in
quell'epoca
non era ancora permesso che ai re ed ai grandi signori[36].
Numerose lumiere di cristallo di rocca, sospese alla soffitta, gettavano
nella sala una splendida luce che scorreva in ondulazioni erranti sugli
abiti di seta di quei nobili signori.
Niuna donna era stata ammessa in quel divertimento serale, che sarebbesi
potuto designare col nome di circolo cattolico inquisitoriale, e del quale
il conte di Mondejar era il presidente, salvo tuttavia i rari momenti in cui
il suo illustrissimo suocero degnatasi di onorare di sua presenza quella
santa riunione.
"Sapete, don Rodrigo, che un nuovo trionfo è stato riportato dal
cattolicismo sui protestanti d'Alemagna dovuto alla politica ammirabile del
nostro amorevolissimo sovrano Carlo V?"
Queste parole, pronunziate con tutta l'enfasi casigliana da un giovane
signore, favorito del duca di Mondejar, che già si veniva additando come suo
genero, s'indirizzavano ad un vecchio i cui abiti indecenti e senza grazia
contrastavano in un modo singolare con l'eleganza ricercata, benché severa,
dei signori che componevano l'assemblea.
Tuttavolta, malgrado la miserabile e sordida apparenza dei suoi abiti,
quell'uomo
aveva una grande nobiltà di maniera, e quel disordine esteriore sembrava
essere piuttosto l'effetto della negligenza, o di un cinismo superbo, che
quello della miseria.
La sua fisionomia, rozza ed altiera, svelava il genio, mentre le linee
orizzontali che si vedevano sulla vasta fronte, unite ad un aggrottare si
sopraccigli particolare, tradivano delle abitudini meditative, innestate
sopra passioni tumultuose ed anco disordinate.
Quel volto doveva aver subito la stessa trasformazione di quello di Socrate:
l'anima, modificandosi, l'aveva assoggettato a quella metamorfosi, e se lo
sguardo ardente ed alquanto obliquo di quell'uomo attestava che era in preda
ad un entusiasmo abituale, i contorni decisi de' suoi lineamenti, la fina
ironia de' suoi labbri e la severità della sua fronte annunziavano che il
suo pensiero, lucido e profondo, non aveva nulla di quella instabilità che
caratterizza gli insensati, ma che, al contrario, era in lui un diritto e
completo sviluppo nelle facoltà intellettuali.
Si volse lentamente verso il giovane che gli aveva indirizzata la parola e
lo guardò senza rispondere.
"Ecco, avremo un mese di feste e di divertimenti pubblici," continuò il
giovine signore, "senza contare l'atto-di-fede reale, che sarà certamente di
grande effetto, stando alle promesse del programma."
"State tranquillo, che non vi mancherà niente," riprese il vecchio, con
accento che il suo interlocutore prese per una approvazione, ma che era
pieno d'amarezza e d'ironia.
"Niente, infatti," proseguì il giovane che si chiamava don Carlos; "poiché
si assicura che il grande inquisitore ha serbato per questa solennità don
Manuel Argoso, l'antico governatore di Siviglia."
"Un vero cristiano," disse gravemente il vecchio.
"Hum!" disse don Carlos; "era l'amico intimo di don Estevan de Vargas, e don
Estevan de Vargas si è sempre dato aria di filosofia. Egli sa di eretico un
miglio lontano; convenitene, don Rodrigo de Valero."
"Don Estevan ha cuor nobile," rispose don Rodrigo, "ma ha qualche nemico.non
ha voluto giammai servire nella milizia di Cristo. -E voi, don Carlos,"
continuò egli con tuono leggermente sarcastico, "siete finalmente giunto a
farvi dare il Santo?"
"Non ancora," rispose tristemente il futuro genero del duca di Mondejar; "ma
spero farne stasera un motto a sua eccellenza monsignore il grande
porta-stendardo."
"L'occasione è bella veramente; io vi consiglio di non lasciarla suggire."
"Come, don Carlos, volete voi divenir famigliare?"
gridò un giovane signore aragonese, venuto per la prima volta in quella
illustrissima assemblea.
"Senza dubbio, don Ximenes; oserei, senza di ciò, pretendere la mano di
donna Isabella, la figlia del duca di Mondejar?"
"Trista parte per un cavaliere castigliano," disse l'aragonese, scuotendo la
testa.
"Al contrario, bella parte," disse Valero, con voce stridula, "bella parte,
don Ximenes! Essere famigliare dell'Inquisizione?.è lo stesso che essere a
cavallo sulla via della fortuna. Portare sotto il suo abito le insegne di
quell'Ordine è lo stesso che avere il suo passaporto per i posti più
importanti del regno; con quelle si arriva a tutto! Quali case in Ispagna,
ditemi, riuniscono più cariche, ricchezze ed onori di quelle di Medina-Coli
e di Mondejar? Credete voi che se don Manuel Argoso e don Estevan de Vargas
fossero appartenuti al Sant'Uffizio, sarebbero oggi, uno sul punto d'esser
bruciato vivo, l'altro errante per monti e per valli; e che se il confessore
della bella Dolores si fosse chiamato don Pietro Arbues, ovvero don Josè,
questa graziosa eretica sarebbe ora povera e vagabonda come una gitana, non
avendo neppure una pietra per capezzale?"
"Silenzio!" disse don Ximens, "voi vi perdete, signor Valero."
"State tranquillo; mi prendono per un insensato."
Infatti gli altri signori che componevano quella riunione, occupati di
gravissimi nonnulli relativi agli affari della religione, non prestavano
veruna attenzione ai discorsi di Rodrigo de Valero, del quale non
s'inquietavano
menomamente, perocché non comprendevano la sua profonda sapienza.
"Credetemi, signore," proseguì il vecchio, "oggi in Ispagna non vi è che una
specie d'onore: appartenere al padrone, e voi sapete che il padrone è
l'Inquisizione.-
Per l'addietro," continuò, animandosi a grado a grado, "per meritare il nome
di prode cavaliere bisognava sapere rompere una lancia e domare un cavallo
focoso. Era reputato leale e buon servitore del re colui che aveva
combattuti i Mori sui campi di battaglia. Allora vi era della
gloria!.oggidì, signori, non vi sono più Mori da combattere, non vi sono che
Mori da denunziare! Non vi è più una nobile e bella regina che vi ricompensi
di un sorriso al ritorno dal combattimento, e vi porga la sua candida mano
da baciare; vi sono dei monaci che vi benedicono con lurida mano quando
avete perduto un fedele servitore del re.; una volta, dopo un giorno di
battaglia, gli squadroni si formavano in cerchio, ed un araldo d'armi
proclamava per tre volte il nome di coloro che avevano ben combattuto, e per
sei volte il nome di coloro che erano morti con l'armi alla mani. Oggidì il
nome dei servitori del Sant'Uffizio non è pronunziato da veruno; essi non
hanno neppure il diritto di mostrare la loro infamia."
"Don Rodrigo?" gridò il giovane aragonese, spaventato dalle parole che aveva
ascoltate; "sull'anima mia! Io non darei un soldo per la vostra testa."
"Don Rodrigo de Valero ha un'audacia ed una fortuna inconcepibile," aggiunse
don Carlos; "gli si lascia dire quello che vuole."
"E' singolare, non è vero, don Carlos?" replicò il vecchio con maggior
amarezza, "poiché se io non mi chiamassi don Rodrigo de Valero, riferendo
solamente a Pietro Arbues il quarto di quello che avete udito, sareste
sicuro di ottenere la mano di donna Isabella, e sareste iscritto, senz'altra
informazione, fra quell'orde di demoni che si chiamano soldati di
Cristo[37]. Disgraziatamente io non valgo neppure la pena di una denunzia, e
voi perdereste in ciò il vostro tempo."
Terminando queste parole il veglio lasciò l'assemblea.
Don Carlos arrossì fino alla fronte, e rimase con gli occhi bassi. In quel
momento il grande inquisitore entrò nella sala, accompagnato dal duca di
Medina-Coli.
Il duca era un vecchietto rachitico, malaticcio e di carnagione giallastra.
Il suo occhio alquanto rosso, tradiva dei costumi ascetici, aveva il passo
ineguale, la voce rauca e troppo forte per sì meschino personale; ciò che
produceva un effetto sbizzarrissimo; quando parlava, si credeva ascoltare la
voce d'un ventriloquio, tanto quest'organo, smisuratamente sviluppato, era
in disarmonia con l'esteriore del duca.
Il grande signore ed il prete salutarono l'assemblea; poi il duca,
indirizzandosi a don Carlos:
"Giovine," disse, "mio genero mi ha parlato di un desiderio da voi espresso;
io ne ho detto parola a Sua Eminenza, che, spero, mom vi ricuserà questa
grazia."
"Signor don Carlos," soggiunse Pietro Arbues. "godo nel vedere il vostro
zelo per il servizio di Dio."
"Orsù dunque, non siate timido," riprese il duca, "Sua Eminenza conosce il
vostro merito; sa quanto il vostro sangue è puro[38]."
Don Carlos non rispose. Questo giovane signore, che due giorni innanzi
avrebbe dato tutto per divenire famigliare del Sant'Uffizio, titolo che il
duca di Mondejar esigeva da lui per accordargli la mano di sua figlia,
vergognava in quel momento di averne fatto domanda.
Il dica di Medina-Coli non intendeva la sua esitazione, ed ingannandosi sui
veri sentimenti del giovane, si voltò verso il grande inquisitore.
"Monsignore," disse, "questo giovine cavaliere sarà un caldo difensore della
nostra santissima religione."
Pietro Arbues porse a baciare la mano a don Carlos, e gli disse in tuono
dolce:
"Domani, dopo la gran messa, trovatevi alla cattedrale per ricevere il santo
di mia propria mano."
Don Carlo s'inchinò senza rispondere.
In quell'istante un usciere, sollevando un portiera di velluto cremisi, che
cuopriva l'ingresso della sala, annunziò ad alta voce:
"Donna Dolores Argoso y Cevallos."
L'inquisitore trasalì, e vedendo un gabinetto aperto contiguo alla stanza in
cui si trovava, vi trascinò il duca di Medina-Coli.
In quel momento Dolore entrava nella sala.
All'aspetto di tanata gente la fanciulla si arrestò confusa, cercando con lo
sguardo il padrone della casa.
Il duca di Mondejar erasi pertanto alzato al di lei nome; ma vedendo
l'inquisitore
disparire col duca di Medina-Coli, temé sì fortemente di offendere Pietro
Arbues, che appena si sentì la forza di fare un passo verso la figlia del
suo vecchio amico; restò fermo ed in piedi al suo posto, balbettando per
abitudine alcune formole di convenienza.
Dolores si avanzò verso di lui con aria nobile e toccante.
Un mormorio d'ammirazione circolò nell'assemblea, malgrado il terrore che
avevasi di un'eretica, tant'era grande il prestigio di quella bellezza
sovrumana, unita alla dignità dell'anima.
"Monsignore," disse Dolores, vedendo il duca di Mondejar impallidire e
tremare al suo avvicinarsi, "la presenza di una fuggitiva è dunque sì fatale
presso di voi, che essa debba cangiare in tristezza la gioia che anima
questa nobile assemblea?"
Il duca le indicò una seggiola senza rispondere, uno di quegli sgabelli
scolpiti, sì ricchi e sì duri, mobili già antichi che appartenevano al medio
evo, conservati nelle famiglie come una tradizione.
Dopo che si fu assisa, la figlia del governatore rimase alcuni istanti senza
parlare. Il duca serbava egualmente il silenzio, un silenzio forzato e pieno
d'imbarazzo.
Malgrado il suo coraggio, Dolores si sentì presa da quella timidezza propria
delle fanciulle, che, se non è incoraggiata, degenera in una vera
sofferenza. La sua fronte si cuoprì di un ardente rossore, essa sentì il suo
cuore battere a colpi precipitati nel suo petto, e le sue tremule labbra
ricusarono di articolare una sola parola.
I testimoni di quella scena attendevano con una ansietà crescente.
Vedendo Dolores in quello stato il conte di Mondejar provò una estrema
compassione per quella giovane e bella creatura, poco prima sì brillante,
ora s' povera, sì abbandonata, e che si presentava a lui sotto l'umile
livrea di una fanciulla popolana. Ma il grande inquisitore e duca di
Medina-Coli potevano, dal gabinetto in cui erano entrati, vedere ed udire
ciò che accadeva. La fortuna, la vita d'un signore spagnuolo dipendevano
intieramente dall'Inquisizione, ed il duca di Mondejar aveva quel terrore
profondo che, bisognava ben dirlo, snervava il carattere nazionale,
naturalmente sì nobile, sì cavalleresco, sì affezionato!
Dolores esaminò per alcuni istanti la fisionomia del duca, e non s'ingannò,
a quella freddezza glaciale, a quella maschera di bronzo che ricusava di
tradire le emozioni dell'anima.
-Mio padre è perduto!- pensò essa.
Tuttavia, risolta a sfidar tutto, ritrovò con grande sforzo di volontà la
sua solita energia, e alzandosi dalla sua seggiola con una nobiltà ed una
modestia pena di seduzioni:
"Monsignore," disse, indirizzandosi al duca di Mondejar, "io vedo quanto la
mia presenza vi è penosa, e non vi do torto, poiché so bene quanto vi
apporta di pericolo. La sventura è tanto contagiosa!.ma non sarà detto che
io abbia ricusato il compimento di un dovere. Mio padre geme nelle carceri
dell'Inquisizione, mio padre, calunniato senza dubbio," aggiunse ella
arrossendo, poiché non voleva svelare il vero motivo della sua disgrazia,
"mio padre sarà condannato come colpevole se i suoi amici non verranno in
suo aiuto. - Voi l'avete amato, monsignore," proseguì essa, "e meglio di
ogni altro conoscete la purezza della sua fede: siate suo testimone in
questa disgraziata causa, ché la testimonianza di uno dei più puri cristiani
di Siviglia confonderà la calunnia e l'impostura: rendete un padre a sua
figlia.oh monsignore! Rendetemi mio padre ed io vi benedirò!"
"quando io volessi, un testimone non basta," rispose il duca di Mondejar,
imbarazzatissimo dell'effetto di questa risposta.
Allora Dolores, volgendosi verso l'assemblea con un atto pieno di dolcezza e
di grazia:
"Signori," disse con voce supplichevole e piena di lacrime, "signori, voi
tutti avete conosciuto mio padre!"
Un silenzio di morte rispose solo a quel richiamo.
Dolores giunse le mani, e alzò verso il cielo uno sguardo disperato.
In quel momento Rodrigo de Valero entrava nella sala; egli aveva udito ciò
che era accaduto.
Con aria fiera e grave si avanzò verso la fanciulla e, salutandola con
cortesia:
"Signora," disse, "io sarò il testimone di vostro padre."
"Oh! Grazie," rispose ella, giungendo le mani.
In quel momento un riso glaciale, stridulo, metallico, un riso che
somigliava ad una campana d'agonia, uscì dal gabinetto in cui l'inquisitore
si era rifuggito; poi, alzando la portiera si lasciò vedere all'assemblea
pallida e muta di spavento.
"Rodrigo de Valero," disse Pietro Arbues, continuando nel suo spaventevole
riso, "Rodrigo de Valero non si riceve testimonianza dai pazzi."
All'aspetto dell'inquisitore, Dolores mandò un grand'urlo e svenne.
Il duca di Mondejar, pallido ed atterrito, non sapeva più qual contegno
tenere.
Pietro Arbues lo guardò in una maniera particolare. Il duca sembrò
rassicurarsi; egli suonò, due servi accorsero.
"Si trasporti questa fanciulla in casa sua nella mia lettiga," disse ad alta
voce.
I servi obbedirono; trasportarono fra le loro braccia la figlia del
governatore, tuttora priva di sensi.
Il duca usciva da un'altra porta. A capo di alcuni minuti rientrò. Il suo
viso raggiava.
"Duca di Mondejar," gli disse l'inquisitore a mezza voce, "quando Iddio
chiamerà a sé il duca di Medina-Coli voi gli succederete nella carica di
gran porta stendardo."
"Monsignore," disse Valero, che si era avvicinato, "Dio mi liberi d'andare
in paradiso se Vostra Eminenza vi conserva la sua dignità di grande
inquisitore."
XXVI. La camera di misericordia.
La prigione del Sant'Uffizio di Siviglia era situata nella via che chiamasi
oggidì Via della Costituzione, e che chiamatasi allora Via
dell'Inquisizione.
In tutte le grandi città di Spagna eravi una strada che portava questo nome,
ed un edifizio chiamato Palazzo dell'Inquisizione.
In Siviglia il palazzo dell'Inquisizione era un gran monumento quadro,
fiancheggiato da quattro torrette, costrutto in mattoni rossi, e incrostato
di pietra. Sulla facciata esteriore vedevasi una moltitudine di finestre
regolari. Queste finestre non avevano imposte esterne, ma ciascuna di esse
era coperta fino alla sua sommità, ed anco un poco più in alto, da un muro
che s'innalzava ad angolo retto, appresso a poco come ripari di tavole che
si mettono ne' manicomii, di maniera che dalle abitazioni vicine l'occhio
non poteva in alcun modo penetrare nell'interno del palazzo, e quelli che lo
abitavano non potevano vedere all'esterno altro che un frammento del cielo
della dimensione angusta dell'apertura, che lasciava loro arrivare dall'alto
una rara e debole luce.
Nel palazzo dell'Inquisizione si trovavano ad un tempo il tribunale, la
cancelleria, le camere del tormento, le camere di misericordia, le camere di
penitenza e le carceri; prigioni diverse nelle quali si classavano
gl'inquisiti
secondo quello che si sperava da essi, e secondo la sorte che veniva loro
serbata.
Un accusato ricchissimo andava ad abitare la camera di misericordia:
l'Inquisizione
lo convertiva al punto che, in una completa rinunzia ai beni di questo
mondo, faceva al Sant'Uffizio un dono volontario della sua fortuna, ed
usciva, dopo alcuni mesi di reclusione, povero come Giobbe, ma ricco dei
doni della grazia, ed avviato al sentiero che conduce al cielo.
Altre volte confidatasi nella camera di penitenza, che descriveremo più
tardi, la cura di una conversione difficile. Finalmente, per ultimo
espediente, si ricorreva alle carceri, alla tortura ed alla morte.
Le camere di penitenza erano costruite sotto i tetti, nelle torricelle;
quelle dette di misericordia occupavano con la sala del tribunale tutto il
primo piano; al piano terreno erano la cancelleria e le abitazioni degli
impiegati subalterni del tribunale.
Le carceri e le camere del tormento trovavansi, come sa il lettore, sotto
terra.
Erano due ore circa del mattino. Le illuminazioni della festa che aveva
avuto luogo nella giornata, eransi spente lentamente ad una ad una. Alle
danze ed ai canti di gioia era successo un profondo silenzio. Le strade
erano intieramente deserte, e alcuni lumi rari, che brillavano ancora da un
punto all'altro nell'interno delle case, attestavano soltanto che la città,
sveglia per più lungo tempo del solito, non era ancora intieramente
addormentata.
Una lettiga chiusa uscì dal palazzo del duca di Modejar, passò lungo la via
dell'Inquisizione, che era poco lungi, e non si fermò che davanti al
palazzo.
Uno dei servi che accompagnavano la lettiga alzò il pesante martello della
porte. Il carceriere aprì. Bentosto il servo gli disse alcune parole a voce
bassa. Questi due uomini si avvicinarono insieme alla lettiga, e portando
nelle loro braccia una fanciulla svenuta, la trasferirono al primo piano in
una delle camere di misericordia. Ivi la deposero sopra un letto, ed il
servo si ritirò.
Il custode allora chiuse accuratamente la porta della camera e discese.
"Teresa," disse a sua moglie, "sali a vedere ciò che accade a quella
signora, che sembra più morta che viva."
Teresa obbedì; salì nella camera in cui era stata deposta la fanciulla, la
quale non dava ancora alcun segno di vita.
La moglie del carceriere, creatura limitata e quasi idiota, si assise presso
di lei in silenzio, aspettando che piacesse a Dio di richiamarla alla vita.
Tuttavia quello spasimo che durava da quasi tre ore sembrò finalmente
giungere al suo termine. La prigioniera fece un movimento, stese le braccia
come uno che esce da un profondo sonno, aprì lentamente gli occhi, e
sollevandosi sopra un gomito, percorse la camera con occhio stupefatto, ma
senza poterne riconoscere i mobili né la disposizione.
Il letto sul quale era coricata aveva un gran cielo quadrato, guarnito di
cortine di tela di cotone bianca. Un crocifisso d'avorio si staccava dal
muro sopra una croce d'ebano; alcune seggiole comode, ma semplici, un baule
scolpito, una tavola dai piedi torti, ed una stuoia di giunco componevano la
mobilia. Alcuni libri erano posti sopra uno scaffale d'ebano, al di sopra di
un'inginocchiatoio del medesimo legno, e dei fiori, colti dal giorno
innanzi, riempivano un gran vaso di terra porosa e rosea, chiamato alcarraza
de Valencia, posto nel mezzo della tavola. Inoltre potevasi rimarcare qua e
là alcuni piccoli mobili ad uso delle donne di quei tempi; piccoli nonnulla
incantevoli e comodi che in tutte le epoche sono come i balocchi dei
fanciulli, e che esse preferiscono spesso alle cose più utili.
Questi dettagli sfuggirono alla fanciulla; essa non fu colpita che
dall'insieme
e dall'aspetto di quella camera, strani per essa, poiché il suo pensiero non
era ancora ritornato chiaro e distinto.
"Giovanna?" disse essa, con voce mesta e dolce.
"Io non mi chiamo Giovanna," rispose l'idiota, che era assisa al suo
capezzale, "mi chiamo Teresa."
La fanciulla guardò allora quella donna, e, non riconoscendo il suo volto
mandò un grido di terrore.
"Dove sono io dunque?" gridò essa ad un tratto, con voce piena d'angoscia.
"In prigione," rispose la stupida creatura.
"In prigione! In prigione, dite? Ma che ho fatto per trovarmi in prigione?"
"Io non lo so; ciò non mi riguarda."
"Oh! Oh! Mio Dio!" disse la fanciulla, passando le mani sulla fronte come
uno che cerca di rammentarsi una cosa ; "che è dunque accaduto oggi e perché
son qui adesso? Ah! Sì, sì, ora mi ricordo; sono uscita questa sera dalla
casa di Giovanna; nelle strade si ballava.tutti erano contenti!.io era
oppressa dal dispiacere.io aveva veduto mio padre morente, e non poteva far
nulla per lui; nulla! Nulla!" ripeté con amarezza la disperata. "pertanto ho
voluto provare, mi son presentata a' suoi amici.a quelli che chiamava suoi
amici! Io gli ho sorpresi nell'ebbrezza di una festa.io sono tutta ad un
tratto comparsa nel mezzo di essi col mio lutto e la mia tristezza.ho
pregato, ho pianto, domandando in ginocchio che mi fosse reso mio padre;
essi non mi hanno ascoltata. E là nascosto come un traditore, il grande
inquisitore spiava le mie parole! Poscia mi hanno consegnata al carnefice,
come si farebbe di un assassino, e nella casa di quel nobile duca non ho
avuta neppure la salva guardia della ospitalità. Sì!Sì!, è questo," proseguì
richiamandosi a poco a poco alla memoria ciascuno degli incidenti della
sera, "il duca di Mondejar ha generosamente pagato con la mia vita un
sorriso di Pietro Arbues. Che ora è?" domandò ad un tratto, indirizzandosi
alla moglie del portiere.
"Non lo so, signora; ma è già molto che è notte, io dormiva quando voi siete
giunta, poiché era molto stanca; oggi è festa, e ci sono venuti tanti
prigionieri!"
"Festa davvero?" disse la giovane con ironia, "festa memorabile!,
gloriosamente terminata con un infame tradimento. Dolores Argoso era una
vittima degna d'essere sacrificata al dio che presiedeva quella solennità!."
Dolore snon s'ingannava: la più vile perfidia l'aveva infatti abbandonata in
potere dell'Inquisizione. Si rammenta il lettore dell'ordine dato dal duca
di Mondejar ai suoi servi di ricondurla a casa propria. Quell'ordine dato ad
alta voce non era destinato che ad ingannar l'assemblea. Nei pochi momenti
in cui aveva lasciato la sala, il nobile duca, avendo perfettamente compreso
ad un semplice cenno la volontà dell'Inquisitore, aveva dato nuove
istruzioni ai suoi servi, famigliari di bassa condizione; e la figlia del
governatore fu immediatamente trasportata al palazzo dell'Inquisizione.
Invece di difenderla da vero cavaliere, il duca l'aveva consegnata al
Sant'Uffizio,
e tuttavia il duca di Mondejar non era né un vile soldato, né un malvagio
signore, né un amico sleale; era semplicemente un uomo che aveva paura del
quemadéro. Ma chi potrebbe esprimere l'orrore profondo della fidanzata
d'Estevan,
di quella nobile eleale fanciulla, che sarebbesi abbandonata al martirio
piuttosto che tradire un amico; chi potrebbe dipingere quel dolore amaro,
profondo, lacerante in presenza di un sì odioso tradimento?
Il suo primo movimento fu una generosa collera, uno sdegno altiero; nella
nobiltà e dignità dell'anima sua, essa resisteva contro ogni ingiustizia ed
ogni slealtà; ma a poco a poco, passata questa esaltazione d'un giusto
orgoglio, la sensibilità, facoltà tanto più dolorosa presso le donne fiere e
passionate quando è congiunta in loro alla debolezza fisica, che più di
sovente le condanna all'inerzia; la sensibilità, riprendendo disopra, la
rese intieramente al sentimento dei suoi mali, ed essa riguardò quella sua
nuova posizione con uno spavento mortale.
La carceriera, mezzo addormentata, chiudeva gli stupidi suoi occhi senza
inquietarsi della prigioniera, come se non fosse esistita. Quell'essere
privo di intelligenza non aveva la minima percezione dei dolori morali.
Dolores rimase alcuni istanti annichilita sotto il peso di un'orribile
certezza: essa non era più libera! Taciturna, con la testa inchinata sul
petto, si inabissò in quel pensiero desolante, quindi per un subitaneo
ritorno d'insensata disperazione, mandò grandi urli laceranti, e singhiozzi
convulsivi.
La guardiana, svegliata ad un tratto, si alzò allora spaventata da quello
sfrenato dolore.
"Signore," disse "non gridate tanto forte; voi non siete tanto sventurata,
poiché siete stata messa nella camera più bella del palazzo
dell'Inquisizione."
A questo nome temuto, la figlia del governatore trasalì convulsamente sul
suo letto, ed i suoi singhiozzi si calmarono. Il suo terrore era divenuto sì
grande, che non osò neppure gemere né lamentarsi. La memoria di suo padre,
che aveva veduto la sera innanzi, di suo padre, che era stato colpito,
ucciso, senza farlo morire, sorgeva davanti a lei in tutto il suo orrore.
Forse le si serbava la stessa tortura, e la morte sarebbe il termine delle
loro sofferenze.
Nel mezzo delle sue crudeli apprensioni, una sola idea fu per essa dolce e
confortevole: essa moriva martire della sua affezione figliale. La religiosa
e magnanima rassegnazione di quell'anima veramente cristiana vinse allora i
terrori mortali. Sciolta dalle preoccupazioni terrestri, si alzò più in alto
fino a quella speranza sublime, eredità dell'Uomo-Dio, eterno consolatore di
quelli che soffrono. Essa avea detto come Cristo, bevendo il suo calice
amaro: "Padre mio, sia fatta la vostra volontà!" e la morte non la spaventò
più; era per riceverla come pegno dell'eterna vita.
Il suo bel viso, poco prima sì pallido, s'illuminò subitaneamente d'un
raggio celeste. Dai suoi grandi occhi, sì ardenti e sì dolci, sembrava
uscire una fiamma divina, e le sue mani, bianche e trasparenti, riunite su
suo seno, le davano l'aspetto di una di quelle vergini eroine, le quali in
Roma morivano per la fede di Gesù Cristo.
"Signora," disse ad un tratto la carceriera, "poiché non siete morta, non
avete bisogno di me: vado a dormire."
Essa uscì.
Dolores non l'avea udita; il suo spirito vagava in regioni superiori, e le
tremule sue labbra mormoravano, a bassa voce, una preghiera a Colui che
venne sulla terra per pregare, per soffrire e per morire.
XXVII. Il Santo.
Le campane dell'antica cattedrale di Siviglia suonavano a distesa,
interrotte da un rumore monotono, per annunziare alla popolazione che la
gran messa incominciava. Questa messa, alla quale doveva officiare
Monsignore arcivescovo di Siviglia, era uno dei numerosi episodii della gran
festa data all'occasione dell'atto-di-fede reale di cui la vigilia, nella
serenata del conte di Mondejar, il giovane don Carlos de Herrera ragionava
con tanta compiacenza.
Era brillante solennità religiosa, perché, dopo il vangelo, monsignore
Pietro Arbues doveva con la sua mano inquisitoriale dare il Santo ad un gran
numero di persone, che, senza distinzione di grado inginocchiate dinanzi a
lui, dovevano essere arruolate nella santa milizia di Cristo[39].
Sublime eguaglianza davvero! Villani e nobili stavano per essere segnati col
medesimo sigillo, assoggettati ai medesimi doveri, chiamati col medesimo
nome: Soldato di Cristo.
L'Inquisizione, posando la sua mano potente sulle loro teste, li abbassava
tutti al medesimo livello, essa li segnava tutti colla sua stimmata senza
distinzione né di grado né di età, come il pastore segna indistintamente le
sue pecore.
L'antica basilica dal largo circuito, la cui alta navata, separata da
quattro ordini di colonne, rassomigliava ad un foresta di granito, era
vestita de' suoi ornamenti più pomposi. Migliaia di ceri situati i ordine
intorno all'altare fino alla volta mandavano torrenti di luce nel sacro
recinto. L'ombra gigantesca delle colonne segnava di grandi strisce nere il
pavimento, di un marmo bianco opaco, attraverso le innumerevoli vetrate di
mille colori la luce esteriore arrivava sì debole, che impallidiva
intieramente dinnanzi all'abbagliante chiarore che regnava nella parte alta
della chiesa.
Nel coro, dietro l'altar maggiore, larghe panche di quercia, scolpite ed
accuratamente pulite, erano già occupate dai canonici della cattedrale,
appartenenti quasi tutti all'Ordine di san Domenico.
Nel mezzo dell'altar maggiore un grande ostensorio d'oro massiccio sembrava
mandar raggi scintillanti, e affascinando gli occhi, proteggere il Dio che
racchiudeva, contro gli sguardi profani.
L'oro, i diamanti ed il cristallo erano dovunque sparsi a profusione come in
un racconto di Mille ed una notte. I candelabri erano d'oro massiccio, d'oro
il tabernacolo, d'oro il calice, d'oro le ampolle; gli angioli, che ai due
lati dell'altar maggiore si coprivano il viso con le loro ali, erano d'oro.
Grandi statue d'argento, rappresentanti i molti santi che la Spagna onora,
adornavano tutto intorno alla chiesa innumerevoli cappelle innalzate fra gli
intercolonnii. Ivi erano più ricchezze che nell'antico tabernacolo degli
Ebrei; solamente la nazione ebrea non aveva che una sola arca dell'alleanza,
mentre la Spagna aveva centinaia di chiese e di cappelle in cui venivano ad
accumularsi sotto forme differenti le ricchezze del nuovo mondo.
Erano spettacolo veramente mitologico e molto acconcio ad esaltare
l'immaginazione
del popolo: quel misero popolo, che era saziato d'incensi, di luce e di
musica per fargli dimenticare la sua schiavitù e la sua miseria.
Così vedevasi accorrere in folla agli ingressi della chiesa, quante volte un
cerimonia religiosa era offerta in pasto alla sua poetica oziosaggine, del
suo bisogno incessante d'emozioni, della sua ardente e puerile curiosità.
Vedete già nella basilica quelle donne del volgo, inginocchiate, adorne
delle loro larghe mantiglie nere? Vedete come si battono il seno a più
riprese, sgranellando, con mano quasi convulsa, la corona lucente che pende
dalla loro cintola? Scorgete tutti quei piedini andalusiani, che sfuggono
sotto la loro corta veste, e quelle mani delicate e brune, ma sì graziose, e
quegli occhi neri e brillanti come lo smalto attraverso della rete
trasparente della trina che cuopre il loro volto?
Non v'ha contrasto bizzarro e mistico fra quell'immensa cattedrale,
splendida come una sala da ballo, e quelle donne in gramaglie umilmente
inginocchiate? Donne, di natura sì ridente e sì gaia, che in quel luogo
somigliano ora ad anime penitenti che pregano di quaggiù affinché Dio le
lasci arrivare fino a quelle splendide meraviglie che brillano sulla loro
testa?
Vedete pure nel fondo della chiesa in un'immensa tribuna quegli uomini che
pregano a voce bassa con sembiante unito e contrito? Essi han lasciato alla
porta il loro amore per i piaceri e per la danza, essi si prostrano con
sentimenti di compunzione dinanzi alla maestà del Dio vivente, che fu
rivestito d'una magnificenza mondana!
Sono stati accostumati a non adorare che la materia, la divinità per essi è
un altare di marmo e d'oro.
Poi, finalmente, alla gran porta mirate quella densa folla di mendici e di
gitani che si comprimono e si urtano per entrare. Andiamo, aprite dunque le
porte a due battenti! Lasciate entrare questo popolo vestito di stracci;
lasciategli respirare l'odore inebriante dell'incenso; lasciategli saziare i
suoi occhi in tutta quella magnificenza! E' il suo pane, è il pane di lui,
che questa sera dormirà digiuno nel suo mantello disteso sopra una pietra
gelata; lasciate, lasciate entrare tutte queste persone che non hanno altro
tetto fuorché la volta celeste, esse pure vogliono la loro parte delle gioie
e dei beni di questo mondo, ed il tempio di Dio è la sala del povero!.
Ma silenzio! Ciascuno or stia tranquillo al posto che ha potuto ottenere.
Ecco l'ora del raccoglimento e della preghiera, il prete è appié all'altare.
Era, come abbiam detto, monsignore arcivescovo di Siviglia.
Due diaconi, in cappa ricamata, stavano in piedi a'suoi lati.
Alla destra dell'altare, nell'abside, monsignor Arbues, coperto della veste
violetta che egli portava nelle grandi cerimonie, sedeva nel mezzo d'un
trono d'oro e di velluto, innalzato sopra dodici scalini, coperti d'un ricco
tappeto, che lo innalzavano alcuni piedi al di sopra dell'ostensorio, di
maniera che il rappresentante di Dio, signoreggiava più alto del suo
padrone[40].
Alla destra del trono, e due scalini più basso, era il seggio
dell'arcivescovo.
Nell'altro lato un seggio simile era occupato da Josè, elemosiniere e
favorito di Sua Eminenza.
Un gran numero di preti e di frati, in pianete bianche, gialle o ricamate
accrescevano lo splendore di quella solennità, ed un gran manto ricamato in
oro, di grandissimo peso, copriva le spalle del celebrante.
Non lungi dall'altar maggiore, in seggiole particolari, dame e signori
occupavano posti distinti.
Bentosto un gran concerto di voci gravi, rauche, dure all'orecchie, ma di
una giustezza perfetta, s'innalzò fino alla volta della cattedrale. Quel
canto fermo, la cui monotonia non permette mai alla voce d'infiammarsi del
fuoco della passione, quell'insieme di note di petto metodicamente cantate
senz'arte e senza trasporto, aveva qualche cosa di straordinario e di
lugubre che inviluppava l'anima come un sudario. V'era disaccordo fra le
liete magnificenze dell'altare e quella glaciale e cupa armonia. Vi mancava
la divina melodia degli italiani, quelle voci stupende e sonore che
aggiungono un prestigio divino alla pompa teatrale delle cerimonie del culto
romano.
Tuttavia il popolo spagnuolo, poco sensibile, o per dir meglio, poco avvezzo
alla musica dotta, pascolava con delizia i suoi occhi, ed il raccoglimento
più completo regnava in quella folla inginocchiata.
Ma bentosto un grande movimento accadde nella chiesa, tutti si alzarono in
piedi, facendosi un segno di croce.
Erasi al Vangelo della Messa.
L'arcivescovo lo lesse lentamente, poscia andò ad assidersi presso il grande
inquisitore sul seggio che gli era destinato.
I diaconi stettero alla parte bassa del trono.
Allora una larga strada si aprì nella folla, ed avresti veduto avanzarsi nel
mezzo di essa, senza ostacolo, un gruppo di persone d'ogni specie, che tutte
aspiravano al medesimo onore; quel gruppo si diresse verso il trono
dell'inquisitore.
Poscia verso la parte bassa, un poco al di fuori della navata, fra il
polpaccio che non aveva potuto entrare o situarsi convenevolmente per vedere
a bell'agio la cerimonia del Santo, avresti udito i dialoghi più strani.
"Vergine santissima!" diceva un vecchio gitano dalla barba bianca: "guarda
quel miscredente di Giannino come sale presto di fortuna. La società della
Garduna non l'aveva voluto neppure per farne un gancio, tanto è ignorante e
pigro, ed ecco che gli è riuscito d'arruolarsi nella milizia di Cristo."
"davvero," gridò una giovane ballerina di nacchere, bruna quanto un'oliva in
novembre; "davvero! Giannino va a ricevere il Santo con tutti quei bei
signori là?"
"perché no, Concetta!" replicò il vecchi gitano; "non è figlio del buon Dio,
come tutti quei bei signori che il cielo guardi?"
"To!to!" disse un'altra "ecco Ramone il mancino; sembra che abbia finito il
suo tempo in galera, poiché eccolo là."
"Dove dunque?" domandò un quarto interlocutore.
"Laggiù, guardate, quel giovane dalla veste color d'arancio, allato di Sua
Eccellenza il marchese della Ronca, che si è pure fatto innanzi per ricevere
il Santo."
"Quanti sono?" domandò la gitana.
"Sono troppi per contarli," rispose il vecchio; "Santa Maria, quale
recluta!"
"Essi sono come i soldati del papa," disse una vecchia scherzando, "non
camminano mai in piena luce."
"Cos'è il papa?" domandò la gitanella."E' il maggiordomo del grande
inquisitore," rispose la vecchia, che non aveva un'idea più precisa e più
alta del vicario di Cristo.
"Tacete, donne," gridò un vecchio soldato delle campagne di Fiandra; "voi
avete la lingua troppo lunga, e chi tocca il fuoco si brucia."
"Levateci dunque un poco il cappello, perché ci vegga, signor soldato,"
disse un giovane di quindici anni, che non arrivava alle spalle del
militare.
"Ne vedrai degli altri, monello," rispose colui.
In questo tempo gli aspiranti al Santo eransi avanzati fino appié del trono
del grande inquisitore. E nella tribuna del duca di Mondejar aveva luogo una
animatissima scena, quantunque accadesse a voce bassa, ed i diversi attori
di quella avessero tutta l'arte richiesta per serbare un volto impassibile
in mezzo ad un vivissimo alterco, e per mascherarsi di tal guisa che niuno
potesse comprendere l'oggetto di quelle parole brevi, concise e rapide,
scambiate fra loro a voce bassa.
Erano in numero di quattro: il duca di Medina-Coli, il conte di Mondejar, la
giovane Isabella, figlia del conte, e don Carlo de Herrera.
Si rammenterà il lettore che questo ultimo era stato citato da monsignore
Pietro Arbues a comparire in quello stesso giorno davanti a lui, affine di
ricevere il Santo, e di prestare giuramento nelle sue mani. Si rammenterà
pure che don Carlos, dapprima caldissimo per la causa dell'Inquisizione,
come un giovane amante è ordinariamente per tutto ciò che può secondare i
propri amori, aveva sollecitato l'onore di far parte della sacra milizia; e
che frattanto, quell'anima giovane ed ardente, ricondotta al sentimento del
vero onore dal nobile sdegno del giovane Ximenes, e dalle severe parole di
Rodrigo Valero, aveva ricevuto timidamente, e con un senso d'indicibile
vergogna, le premure dell'inquisitore, e le sue promesse di protezione.
Tuttavia, trascinato da un ardente amore, certo che il solo mezzo d'ottener
colei che amava era quello di obbedire ai voleri del conte di Mondejar, don
Carlos era venuto alla messa, incapace di resistere al desiderio di passare
alcune ora al fianco d'Isabella. Era venuto là combattuto ad un tempo e
trascinato: trascinato da una passione violenta, una vera passione spagnola;
combattuta da un'orribile antipatia, nata da quelle poche parole pronunziate
a lui innanzi:- Cattiva parte per un casigliano!_
Quelle parole avevano fatto nascere nella sua anima giovanile, ardente e
talvolta frenata, una quantità di riflessioni serie e profonde.
Cristiano, gli si diceva:- tu sarai soldato di Cristo, il campione della
fede.- Cavaliere, - la sua riflessione aggiungeva: -la tua leale spada di
battaglia diverrà schiava di una stola e di un berretto quadro. Avrai
venduta la tua libertà; la tua coscienza non ti apparterrà più.-
Poscia, nel suo inesprimibile desiderio di dividere lo sposo da quella che
amava, egli diceva a sé medesimo, come per incoraggiarsi: -I più grandi
signori di Spagna son divenuti famigliari del Sant'Uffizio; - e soggiungeva
subito: - han fatto bene o male facendo questo?-
Don Carlos non era abbastanza teologo, né sì profondo filosofo da risolvere
quelle difficili questioni. Nel suo dubbio un puro istinto, l'istinto di ciò
che è retto e giusto, l'avvertiva solamente che don Ximenes aveva avuto
ragione di gettare il biasimo sulla sua prima risoluzione, poiché non poteva
dissimularsi che famigliare del Sant'Uffizio, bisognerebbe ubbidire
ciecamente, essere strumento passivo di quella cosa formidabile che si
chiama Inquisizione e sapeva benissimo che non ordinava sempre cose giuste.
Era in queste disposizioni, quando il corteo d'aspiranti al Santo giunse
dinanzi al trono dell'inquisitore.
Pietro Arbues con quello sguardo penetrante. Che è passato in proverbio,
contò a vista d'occhio gli uomini che erano a lui dinanzi, e non vedendo don
Carlos, volse lentamente la testa dal lato della tribuna del duca di
Mondejar.
In quel momento il vecchio duca, spingendo il giovane col gomito, gli disse
vivamente:
"Ebbene! Don Carlos, è così che mostrate il vostro zelo per il servizio di
Dio? Sarete dunque l'ultimo a presentarvi davanti al grande inquisitore?"
"Signore," rispose il giovane, con voce tremante, "non so, veramente se son
degno."
"Andiamo! Quale scrupolo singolare! Non siete nobile di pura razza? E il
minimo miscuglio di sangue moresco ha mai oscurato la vostra nobile arme?"
"Giovane," aggiunse il duca di Medina-Coli, parlando piano quanto glielo
permetteva la sua voce stridula, "giovane, rispondete così alla mia bontà?"
"Ed io?" aggiunse con uno sguardo eloquente Isabella, "non farete dunque
nulla per me?"
Don Carlos fremeva d'onta, d'irresoluzione e di collera. Malgrado l'amore
che gli stava a cuore, ei malediva internamente l'idea sortagli nel pensiero
di venire a quella cerimonia.
Dall'altro lato il duca di Medina-Coli ed il suo genero, irritati da quella
indecisione, che poteva comprometterli agli occhi dell'Inquisizione,
serravano i loro pugni dicendo adagio:
"Ebbene, don Carlos, andate a prendere il posto che vi attende, o vi rinnego
per sempre."
"Oh! Andateci ve ne prego," disse a voce bassa la figlia del conte di
Mondejar con uno sguardo supplichevole.
Nel tempo stesso il duca di Medina-Coli spingeva il giovane per il braccio.
Don Carlos, smarrito, mezzo pazzo, uscì, barcollando, dalla tribuna,
attraversò la folla, che privasi dinanzi a lui, e giunse appié del trono
inquisitoriale. Pietro Arbues aveva indovinato tutto, il suo sguardo
scintillò della gioia del trionfo.
Don Carlos, con gli occhi bassi e col rossore sul viso, si tenne dietro agli
altri, ultimo di quella folla avia d'ifamia inquisitoriale. Allora Josè,
nella sua qualità d'elemosiniere dell'inquisitore, si alzò dal seggio dove
era assiso, ricevé dalle mani d'un diacono un pacchetto di fogli stampati,
ed una scatola contenente una gran quantità di lastre di metallo, sulle
quali era inciso un Cristo rovesciato, circondato da un sole.
Poscia gli aspiranti all'affigliazione si avanzarono l'un dopo l'altro;
salirono i gradini del trono, e, inginocchiati ai piedi di monsignor Arbues,
ricevettero individualmente dalle sue mani una di quelle lastre ed il foglio
stampato, che Josè presentava loro di mano in mano.
Questa carta conteneva le istruzioni necessarie ai famigliari per agire in
ogni circostanza secondo le regole o le intenzioni del potere a cui si erano
dedicati. La lastra di metallo era un segno distintivo, un segno di
annodamento e di riconoscimento che serviva loro a ravvisarsi per tutto e ad
unirsi in uno scopo comune, qualunque fossero, del resto, le loro antipatie
e le loro inimicizie particolari.
Durante questa distribuzione, che durò circa venti minuti, l'inquisitore non
aveva cessato di dirigere i suoi sguardi ora sul giovane don Carlos, che
stava sempre dietro agli altri in sembiante d'uomo vivamente contrariato,
ora verso la tribuna del duca di Mondejar, ove costui serbava un contegno
imbarazzatissimo, mentre il duca di Medina-Coli lanciava sguardi
fiammeggianti sulla sua nipote, come per dirle: "Ecco l'uomo che avete
scelto!"
Quanto a don Carlos, non ardiva più volgere gli occhi dal lato della sua
fidanzata. Ma quando non vi fu più nessuno davanti alui, e che giunse
finalmente la sua volta di ricevere il Santo, si avanzò barcollando come un
ubriaco fino ai piedi di monsignore Arbues, e ricevé con mano tremante le
insegne del suo titolo.
"Don Carlos de Herrera," gli disse l'inquisitore a voce bassa, "avete
qualche cosa da rimproverarvi?"
Don Carlos s'inchinò senza rispondere, avrebbe voluto essere cento piedi
sotto terra.
Discese lentamente i gradini del trono, ed andò a mischiarsi alla folla dei
nuovi famigliari, la quale erasi posta da sé medesima in semicerchio davanti
al trono inquisitoriale. Il più grande silenzio regnava nella chiesa.
Quello spettacolo bizzarro era per la popolazione sivigliana palpitante
d'interesse,
e fecondo in emozioni diverse. Tutti gli occhi erano invincibilmente diretti
verso l'altare maggiore.
Monsignore Arbues, con la sua grazia e la sua maestà consueta, si alzò dal
suo seggio dorato, discese altieramente i gradini del trono, come s'addice
ad un principe della Chiesa, e, seguito da Josè, che si teneva sempre alla
sua sinistra, si fermò davanti a don Crlos, che chiudeva il cerchio alla sua
diritta.
Don Carlos arrossì ed abbassò gli occhi; non potè sostenere lo sguardo
penetrativo, che monsignore Arbues fissava sopra di lui.
Allora con voce piena, breve, imperativa, che in certe circostanze sapeva sì
bene prendere il tuono del comando:
"Don Carlos de Herrera," disse il feroce Domenicano, "giurate di consacrarvi
corpo ed anima al servizio della nostra santissima religione cattolica,
apostolica, romana?"
"Lo giuro!" rispose con voce ferma il giovane signore casigliano, non
vedendo in quel giuramento nulla che dovesse allarmare la sua coscienza di
leale cavaliere.
"Giurate di non prestare mai l'orecchio alle dottrine corruttrici ed
appestate di quegli empi del Nord che si chiamano filosofi e riformatori, e
di non incoraggiarli in qualunque siasi maniera?"
"Lo giuro!" disse pure don Carlos.
"Giurate di no dar mai asilo né protezione ad un eretico o ad un uomo
perseguitato come tale dal santo tribunale dell'Inquisizione?"
Don Carlos alzò, senza rispondere, i suoi grandi occhi spaventati sul volto
severo dell'inquisitore; quel giuramento gli sembrava atroce. Monsignore
Arbues inarcava il sopracciglio come Giove Olimpico, ed il giovane, dominato
da quella superba espressione di dispotismo e di autorità, balbettò con voce
inintelligibile:
"Lo giuro!" L'inquisitore parve contentarsene; poscia con tuono breve,
incisivo, aggiunse:
"Giurate di perseguitare con la parola e con la spada ogni marrano, moresco,
ebreo, cristiano giudaizzante o luterano; di denunziarli al santo tribunale
per la maggiore gloria di Dio, e di consegnarli, se fossero vostri ospiti,
sia che con le vostre orecchie li abbite uditi proferire eresie, sia che li
abbiate veduti commettere azioni indicanti che non sono nel vero cammino
della salute, sia che li abbiate solamente in sospetto di no essere
attaccati di cuore e di anima alla nostra santissima religione, o che vi
siate avveduto che ne abbiano trascurata qualche pratica, sia, infine, che
nella loro casa abbiano tollerato qualche negligenza simile per parte d'uno
dei loro?"
"Monsignore" monsignore!" disse piano il giovane cavaliere in un'angoscia
inesprimibile, "quello che voi mi domandate è uno spionaggio, un."
Lo sguardo terribile di Pietro Arbues soffocò la parola nella gola del
giovane: le sue labbra rimasero mezzo aperte: sarebbesi detto che parlasse
piano, ma infatti non articolava nulla. Era soltanto una convulsione della
bocca. L'inquisitore parve contentarsen. Continuò sul medesimo tuono.
"Giurate di essere sempre pronto a marciare per il servizio di Dio al primo
richiamo dei suoi rappresentanti, foste anco presso un amico morente, foste
al capezzale di vostra madre agonizzante?"
Gli occhi del giovane rimasero fissi e spaventati, e i suoi capelli si
rizzarono per l'orrore.
"Grazia, grazia, monsignore!" mormorò con voce soffocata.
L'inquisitore e Josè solamente intesero queste parole. Pietro Arbues fece le
viste di non intendere.
Soggiunse fermandosi su ciascuna parola:
"Giurate di rinunziare a tutti i legami di amicizia e di famiglia quando si
tratterà della causa di Dio?.e di denunziare senza restrizione i vostri
fratelli, le vostre sorelle, vostra madre, vostra moglie, vostro padre, ed
anco i vostri figli, se veniste a scoprire in essi sentimenti contrari alla
nostra santa fede cattolica?"
A quest'ultime parole, don Carlos, reso a sé stesso da un vivo sentimento
d'indignazione,
alzò la testa in atteggiamento fiero.
"Monsignore," disse con voce ferma, ma senza strepito, "io non giurerò
questo; io non sarò spia ed infame ad un tempo. Tenete," aggiunse con amara
ironia, rendendo all'inquisitore il Santo ed il Cristo che ne aveva
ricevuto, "io sono indegno di un tale onore<, serbatelo, monsignore, per un
servitore più degno di me."
Nel tempo stesso si slanciò dal posto ove era, attraversò il cerchio
d'uomini
che circondava il trono, passò nel mezzo della folla inginocchiata, ed uscì
senza voltarsi indietro, come se, volgendosi, avesse temuto di veder la
chiesa crollare su di lui.
Il duca di Mondejar ed il suo genero fremettero di spavento e di corruccio.
Isabella piangeva senza comprendere ciò che era accaduto, e la folla
scandalizzata, aspettava a bocca aperta la spiegazione di questo enigma.
Josè solo sembrava impassibile nel mezzo del generale spavento: solamente un
riso impercettibile e sarcastico contraeva le commessure delle sue labbra
espressive.
Monsignore Arbues alzò verso il cielo uno sguardo inspirato, ed
indirizzandosi all'assemblea:
"Fratelli," disse, "questo giovane era in peccato mortale; egli si è fatto
giustizia, giudicandosi indegno di far parte oggi di questa santa cerimonia.
preghiamo per lui, fratelli," soggiunse inginocchiandosi.
Tutti imitarono l'inquisitore. Pregarono circa dieci minuti, nei quali
Pietro Arbues ebbe tempo di porre un freno alla sua rabbia e di rendere
composta la sua fisionomia. Quando si alzò, il suo viso non aveva più la
minima traccia d'emozione né di collera; egli era dignitoso, tranquillo,
impassibile: sarebbesi detta una testa di marmo.
Il grande inquisitore ricominciò allora la formula del giuramento alla quale
tutti risposero con gioia e senza restrizione.
In quel giorno la milizia di Cristo si arricchì di più di duecento membri.
La stessa sera le carceri del Sant'Uffizio contavano un prigioniero in più.
FINE DEL VOLUME SECONDO.
[1] Alcuni monaci pii di quei tempi percorrevano la Spagna domandando ai
ricchi, dando ai poveri, predicando a tutti le sante dottrine del vangelo, e
consolando tutti i dolori. Quella condotta veramente apostolica, era troppo
in contraddizione con quella della monacaglia, e con quella degli
inquisitori; perciò la monacaglia e l'Inquisizione perseguitavano con
accanimento quei monaci caritatevoli.
[2] Nel secolo tredicesimo i monaci del clero figuravano per un centesimo
della popolazione di Spagna, che era allora di trenta milioni d'anime;
gl'impiegati
del governo, comprese le truppe, ascendevano ad un milione circa: potevano
ascendere presso a poco a due milioni tra grandi e piccoli proprietari;
tutto il rimanente della popolazione era composto di proletari e di
mendicanti. I monaci ed il clero possedevano per sé soli un buon terzo della
Spagna. (Statistica di Belmonte y Baldivigo.) I monaci ed il clero
spagnuolo, grazie alla loro intolleranza e alla loro insaziabile avarizia,
hanno ridotto il popolo di Spagna al numero di undici milioni circa.
L'inerzia
e la crudeltà dei governanti avranno bentosto cambiato la Spagna in un
deserto se Dio non ha pietà di quel disgraziato paese.
[3] Questi due vescovi erano figli di ebrei battezzati, ma godevano la stima
generale. L'inquisitore Torrequemada li fece sottoporre ad un processo
benché, secondo le bolle apostoliche, i vescovi non fossero soggetti alla
giurisdizione del Sant'Uffizio. I due prelati si recarono in Roma per
appellarsi al papa. Il supremo pontefice rimandò l'affare davanti ad altri
vescovi, la decisione dei quali fu favorevole agli accusati. In ricompensa
delle persecuzioni che avevano provato, , il papa nominò il vescovo di
Segovia all'ambasciata di Napoli , e quello di Calahorra all'ambasciata di
Venezia. L'inquisitore non si sgomentò. Torrequemada trovò ancora il mezzo
d'intentar
loro un nuovo processo, nel quale riuscì a dimostrare che quei vescovi eran
caduti nell'eresia, e a farli rinchiudere in un castello, ove morirono dopo
esser stati spogliati dei loro beni, e degradati dalla dignità vescovile.
(Llorente, Storia dell'Inquisizione.)
[4] In tutti i tempi gli Spagnuoli hanno accusato gl'inquisitori ed altri
impiegati del Sant'Uffizio di rendere le donne rinchiuse nelle carceri
vittime dei loro trasporti. Questa accusa non è tanto ingiusta quanto hanno
preteso i difensori di quel laido tribunale. Dopo la rivolta di Cordova e la
fuga dell'inquisitore Deza, il successore di quest'ultimo, Ximenes Cisneros,
"volendo porre un termine agli eccessi scandalosi commessi con le donne che
erano nelle prigioni, decretò, stando all'avviso del consiglio della
Suprema, che ogni persona addetta al Sant'Uffizio, che si rendesse colpevole
di simili eccessi, sarebbe punita di morte. Le occasioni di applicare questa
legge non sono mancate in seguito; tuttavia essa è rimasta senza effetto."
(Llorente, Storia dell'Inquisizione.)
[5] Il fanatismo di Torrequemada uguagliava la sua crudeltà, o per meglio
dire, la sua crudeltà non era che il resultato del suo fanatismo. Ogni qual
volta vedevasi obbligato ad agire contro qualche eretico, il confessore di
Ferdinando di Aragona, preparavasi col digiuno e colla penitenza.
Quest'ultima
consisteva a darsi la disciplina finché le carni fossero lacerate e
versassero sangue. (Vita di Torrequemada, per Ponzio de Leon.)
[6] Il ballo descritto dall'autore in questo capitolo, è parte della
cerimonia chiamata la veglia dei morti. Questa cerimonia ha molto rapporto
col Wake degl'iralndesi.
[7] I gitani non professano veruna religione; fingono sempre di seguire
quella del paese che abitano, ma sono al tempo stesso le persone più
superstiziose della terra. Così un gitano avvezzo a vivere di furti e di
baratterie d'ogni genere, non ruberà, né commetterà baratterie il giorno
successivo ad una notte nel corso della quale abbia udito il grido d'una
civetta; poiché, secondo la superstizione della sua casta, il grido della
civetta annunzia ognora un arresto giudiziario, o, per lo meno, faccende
colla giustizia. Il gitano non beverà un liquore nel quale sia caduta una
mosca, imperciocché, chiunque beve un liquore che annega sarà annegato.
Finalmente il gitano che è stato toccato da un cadavere nella veglia, deve
passare la notte col morto, ed avere il coraggio di vedere il diavolo che
viene a portar via il corpo del defunto, dopo aver ballato intorno a lui,
sotto la pena di morire nel corso dell'anno. Così è una grande sventura
quando un morto cade durante la danza che la sera del suo sotterramento
fanno [cerchio] i suoi parenti ed i suoi amici intorno a lui per guarentirlo
dalla vista dei demoni.
[8] I gitani e molte altre persone del poplaccio, in Andalusia, amano farsi
dei bottoni con delle monete. I poveri forano gli ochavos, i più agiati
forano le monete d'un reale, vi sono ricchi mulattieri e ricchi
contrabbandieri che fanno forare parecchie centinaia di monete d'oro di
cinque, dieci e venti franchi, onde farne dei bottoni per una sola veste di
velluto.
[9] Francesca di Lerma non è un personaggio storico, ma solo un tipo, una
personificazione delle badesse di quei tempi, ed anco di alcune dei nostri
giorni.
[10] Questo cerimoniale interamente cristiano si è conservato fino ai nostri
giorni fra i servi di Gesù Cristo. Le monche della via san Domenico
presentano all'umile superiora delle gesuitesse le missive indirizzatele con
un ginocchio a terra e con un piatto d'argento nelle mani.
[11] Non è soltanto nel secolo decimosesto, non sono soltanto gli
inquisitori che dicono alle loro penitenti: "Iddio permette che si
soddisfacciano i bisogni dei sensi, purché sia con uno dei suoi ministri e
senza scandalo;" queste parole sacrileghe sono state dette a Tolosa, non
sono ancora cinque anni, ad una religiosa del convento di Sant'Antonio dal
suo direttore, a cui ella videsi più tardi nell'obbligo d'intentare una
causa pei danni dinanzi ai tribunali civili d'Agen e alla corte reale di
Tolosa.
[12] Vedi nota n° 14
[13] I monaci della Mercede seguivano, come i Domenicani, la regola di
Sant'Agostino.
Nel suo nascere, l'ordine della Mercede fu utilissimo. I fratelli di
quest'ordine
si spargevano per tutta la cristianità, domandando ed ottenendo copiose
limosine, le quali erano fedelmente impiegate a riscattare i cristiani
prigionieri in Barbaria. Alcuni monaci della Mercede, inviati in Algeri, per
riscattare i prigionieri, sono riamasti nel posto di coloro dei quali non
potevano pagare il riscatto. Alcuni altri nella stessa epoca soffrirono il
martirio, ma questo sacrificio sublime non durò lungo tempo. Nel
diciottesimo secolo i monaci della Mercede domandavano sempre ed ottenevano
copiose limosine, ma invece d'impiegarle al riscatto dei prigionieri, le
impiegavano, come il resto dei monaci impiegavano le somme enormi che
estorcevano alla pubblica credulità.a ingrandire la loro potenza e ad
estendere il loro dominio.
[14] Il convento dei Cappuccini di Madrid era, a mio tempo, il più rinomato
per la melopia interna. Un piatto specialmente, mescolanza di fegato, di
polmone e di cuore d'agnello, era ricercatissimo dai ghiotti della capitale.
Io ho mangiato parecchie volte questa vivanda in numerosa e buona compagnia.
Uomini e donne, signori e dame andavano a mangiare quella vivanda presso i
cappuccini insieme a borghesi e a mendicanti: gli uni per devozione, gli
altri per gusto, alcuni per necessità; ma siccome questi ultimi erano in
picciol numero, e gli altri non lasciavano mai il convento senza ordinare
almeno delle buone messe, cioè senza lasciare cinque o sei franchi fra le
mani del frate elemosiniere, questo caritatevole refettorio diveniva una
vera tavola rotonda, alla quale uno poteva assidersi pagando sottosopra
cinque franchi. Nel 1816 un bel toreador, chiamato Zapata, corse rischio di
rimanere ucciso da un toro, non gli avvenne alcun male. Una giovane e bella
duchessa fece nel tempo stesso voto di mangiar la melopia dei cappuccini pel
corso di otto giorni, se Iddio avesse salvato il bel Zapata. Sua Eccellenza
mangiò infatti la indicata vivanda per otto giorni, dopo i quali il fratello
elemosiniere ricevette una somma assai ragguardevole che servì per
istabilire una rendita di mille e ottocento franchi, o due messe a due
franchi e cinquanta al giorno.
I frati Gerolamiti facevano ancor meglio. Oltre la loro melopia interna, che
poteva stare a fronte di tutte le melopie del regno, questi buoni Padri
avevano stabilito una taverna ove si forniva vino eccellente di Valdepenas e
della buonissima trippa. In ogni domenica gli operai ed i borghesi di Madrid
si recavano a migliaia in questo stabilimento. Nel 1824, al ritorno di
Ferdinando VII da Cadice, la taverna dei Gerolamiti ha riportato
sessantacinque mila e settecentonovantotto reali di utile netto. Io ho
saputo ciò dal frate taverniere di quell'epoca. Questo buon frate, emigrato
a sua volta nel 1832, continuava il suo mestiere a Rouen, ove vendeva la
trippa sotto il pseudonimo di trippa alla moda di Caen.
[15] Fra tutti gli abitanti della Spagna, l'Andalusiano è uno dei più
sobrii. Egli vive, per così dire, di sole e di profumi; non si può
immaginare quanta poesia e quanta indifferenza per le cose di questo mondo
esiste in lui. Un pezzo di pane, un cigarro e molta meditazione, o, per dir
meglio, molti sogni; ecco tutto quello che abbisogna all'Andalusiano per
essere interamente felice.
[16] E' giunto per la Spagna il tempo d'innalzare questo novello edifizio.E'
già più d'un mezzo secolo che gli Spagnoli lottano e faticano a ricostruire
una Spagna novella sulle rovine del fanatismo monastico e del dispotismo del
re. Riusciranno eglino a progredire innanzi? Supereranno finalmente tutti
gli ostacoli che la politica machiavellica dell'Inghilterra e la debolezza
del gabinetto francese han frapposto alla rigenerazione della Spagna? Gli
Spagnoli dovranno versare ancora molto sangue, sopportare molte miserie, ma
non torneranno indietro. Un popolo che ha saputo lottare per otto secoli
contro i Mori, e che ha terminato di riacquistare la sua indipendenza, non
si perderà di coraggio. E' vero che nelle loro lotte contro i Mori, la
religione somministrava forze agli Spagnoli e eccitava l'animo loro; ma la
libertà non è la religione dei popoli? Non è l'eredità che Cristo ha
lasciato al mondo?
[17] Non havvi Spagnolo, benché non istrutto, il quale non sia fornito della
facoltà d'improvvisare delle strofe. Questa facoltà poetica è eredità dei
Mori.
[18] Alhambra è una parola composta di due voci arabe, che significano
palazzo rosso. Ed invero Alhambra è fabbricato con mattoni rossi.
[19] Dopo Deza, gli Spagnoli chiamavano l'inquisitore generale il re dei
carnefici.
[20] La descrizione di questa cavalcata è tale quale si può leggere, nella
Storia dell'Inquisizione, Llorente, c. VI, parte seconda.
[21] Praticante la religione degli Ebrei.
[22] Si conosce l'eterna disputa dei Francescani e dei Domenicani
sull'argomento
dell'immacolata concezione di Maria Vergine. I Domenicani han sempre
sostenuto ch'essa ha concepito nel peccato: e per provarlo avrebbero arso
tutti i figli si san Francesco, i quali dichiararono immacolata la madre di
Dio. Queste gravi dispute, che occuparono sì vivamente i dottori del
concilio di Trento, son lungi dall'essere terminate. In Italia, a Roma
specialmente, forniscono ancora abitualmente il testo di quasi tutti i
sermoni dei due ordini rivali; ma come in tutte le altre guerre havvi un
armistizio, queste declamazioni teologiche cessano da ambe le parti il
giorno della seconda festa di Natale. In quel giorno i due campi nemici si
riuniscono in un sontuoso banchetto, e scordano fra i bagordi e gli stravizi
le loro inimicizie di tutto l'anno. Durante il pasto, che si prolunga per
tutta la notte, i fieri figli di san Domenico sono i migliori amici degli
umili figli di san Francesco.
[23] L'inquisitore Torrequemada aveva infatti un dente di liocorno che
credeva realmente dotato della proprietà di fare scuoprire e neutralizzare i
veleni. (Llorente, Storia dell'Inquisizione.) Gli inquisitori di Spagna
avevano conservato questo pregiudizio dei Mori.
[24] Nulla può cancellare il nostro sacro carattere. Il nostro potere
spirituale è sì esteso, che, qualunque cosa ordinassimo di fare ad un
penitente, ei non potrebbe commetter peccato obbedendoci. Questa maniera di
spiegare la loro potenza è stata impiegata con successo dai malvagi preti
quando hanno voluto pervertire un donna.
[25] Quando gli accusati comparivano davanti al tribunale dell'Inquisizione,
non era permesso loro di sedersi sopra una panca, ma sull'angolo di un'asta
triangolare, appoggiata sopra due X, chiamata potro. Quando un accusato
ricusava di fare le confessioni che si esigevano da lui, soventi volte
tenevasi assiso od in ginocchio due od anco tre ore sull'angolo del potro.
Non era questa una tortura preparatoria? Dico preparatoria, perché
gl'inquisitori
avevano qualche cosa di meglio.
[26] Qualunque persona arrestata per ordine del Sant'Uffizio perdeva per
questo solo fatto tutti i suoi titoli e le sue dignità non ché i suoi
diritti civili; no li riacquistava che dopo avere ottenuta l'assoluzione
definitiva, il che accadeva rarissimamente. Il primo effetto adunque della
persecuzione inquisitoriale era la rovina, il disonore delle famiglia!.e
gl'inquisitori
ricevansi i difensori della fede catolica!
[27] Don Estevan de Vargas discendeva infatti da famiglia moresca
appartenente alla tribù di Venegas. Il padre di don Estevan fu nominato
membro del Consiglio di Castiglia da Filippo I nel 1506. Don Estevan aveva
un fratello inquisitore, chiamato Pedro de Vargas de la Santa-Cux, che fu il
suo più crudele persecutore. Don Estevan non sfuggì all'Inquisizione che
lasciando la Spagna.
[28] Ecco ciò che rilegge nella pagina 100 dell'Ultramontanismo di E.
Quinet:
-Maniera di dare la corda all'inquisito che ricusa di rispondere, o che non
vuol rispondere precisamente.-
"Accade sovente che l'inquisito non vuol rispondere con precisione, "ma lo
fa in termini evasivi: Non so, non mi rammento: questo può essere, "non
credo; io non devo essere colpevole di tal delitto.
"Egli deve rispondere con parole chiare e precise: Ho detto, non ho "detto,
ho "fatto, non ho fatto. In questo caso è mestieri porre in opera la tortura
per "avere da lui una risposta assoluta, precisa, soddisfacente e
sufficiente. Ma "prima è d'uopo fargli le debite ammonizioni, quindi
minacciarlo della corda. "Ed il notaro registrerà le accennate ammonizioni e
minaccie. La formola è la "seguente..Benignamente avvertito, benigne
monitus."
[29] L'Inquisizione non nominava mai i testimoni, e con questo mezzo
incoraggiava lo spionaggio. (Annali del Sant'Uffizio.)
[30] La descrizione della camera del tormento è fatta secondo quella che può
leggersi nella Storia dell'Inquisizione.
[31] Tolgo pure da E. Quinet una parte della nota [a pagina 101]. "Dopo
averlo fatto sospendere (l'inquisito), s'interrogherà nella sua tortura
sull'accennato
fatto solamente (sul fatto in questione), mantenendolo sospeso più o meno
tempo, ad arbitrio, secondo la qualità della causa, la gravità degl'indizi,
lo stato della persona torturata ed altre cose simili, che il giudice dovrà
considerare (e che non considerava sempre, almeno in Ispagna), affinchè la
giustizia abbia il suo effetto senza che alcuno venga indebitamente offeso.
(Maniera di dar la corda, ecc., pag 286 e 287.)
Se nella tortura l'inquisito persiste nella negativa, si terminerà l'esame
(il tormento) come segue: i signori inquisitori non potendo ricavare da lui
(dall'accusato) nulla di più, ordineranno che l'inquisito sia fatto
discendere lievemente dalla corda a cui è sospeso, che sia sciolto, che si
ripongano in sito le articolazioni del braccio, che sia rivestito e
ricondotto al suo posto, dopo averlo tenuto sospeso una mezz'ora, ed il
notaro segnerà.." Questo supplizio il quale non durava a Roma che una
mezz'ora,
durava in Spagna, più di un'ora, secondo Llorente (Dei supplizi inflitti
dall'Inquisizione.)
[32] Annali dell'Inquisizione.
[33] "Le carceri dell'Inquisizione erano sotterranei profondi, vere tombe
poste più di trenta piedi sotterra. In ogni prigione lunga dodici piedi e
larga otto circa, trovatasi un lettuccio largo quattro piedi e lungo dodici.
Ogni prigione conteneva ordinariamente sei o spesso otto persone, tre o
quattro delle quali, più robuste, dormivano sul terreno umido, e le altre
sul lettuccio. Un vaso, che era destinato a soddisfare i bisogni naturali, e
non era vuotato che ogni otto o quindici giorni, stava in un canto, e
terminava d'infettare l'aria, già disossigenata in gran parte dal respiro
degl'infelici condannati ad abitar questi luogo." (Storia
dell'Inquisizione).
[34] La casa di Medina-Coli, una delle più illustri di Spagna, godeva
tuttavia nel 1820 l'altro privilegio di serbare e di portare lo stendardo
della fede nei grandi atti-di-fede ed altre solennità dell'Inquisizione.
[35] Nel 1530, il 28 dicembre, i principi alemanni che avevano adottato le
dottrine di Lutero, avendo saputo che i principi cattolici dell'Impero
avevano formato, per il sostegno della religione stabilita, una lega, alla
testa della quale trovatasi l'imperatore stesso, si adunarono
frettolosamente a Smalkald ed ivi conclusero una lega offensiva e difensiva
contro ogni aggressore. Per questa lega tutti gli Stati protestanti
dell'impero
non dovevano che formare un sol corpo. (Meineres, Storia della Riforma, cap.
IV.)
[36] Il primo tabacco introdotto in Spagna fu mandato da Fernando Cortes a
Carlo V, nel 1519.
[37] Il mezzo più sicuro per ottenere l'onore di essere annoverato fra i
famigliari del Sant'Uffizio, era di denunziare qualche personaggio distinto;
perciocché i poveri, coloro che non avevano niente da perdere, non avevano a
temer nulla dall'Inquisizione. Questo fatto, constatato da tutte le opere
che sono state scritte sull'Inquisizione, prova che non era la gloria di Dio
né il trionfo della fede che stavano a cuore agl'inquisitori; essi non
cercavano che arricchirsi colle spoglie delle vittime, acquistare potenza
ammassando ricchezze.
[38] Per un calcolo giustissimo l'Inquisizione bramava d'avere per
famigliari uomini di sangue nobile, e vecchi cristiani; con questo mezzo
assicuratasi il rispetto del popolo, che tendeva in quel tempo a creder
nobile e grande ciò che facevano i nobili, e che non comprendeva come un
nobile potesse commettere un'azione bassa ed infame; per essere ammesso
all'onore
di figurare fra la milizia di Cristo, bisognava almeno giustificare la
pressa del sangue, cioè provare che non discendevasi né da Ebreo, né da
Moro, né da parenti che fossero stati condannati dalla Santissima
Inquisizione (Regolamento sacro delle condizioni essenziali per potere far
parte delle milizia di Cristo). Questo stesso regolamento dispensava le
donne che volevano servire la Santa Inquisizione di provare la purezza del
loro sangue "considerando i grandi servigi ch'esse possono rendere alla
causa di Dio."
[39] Quando l'inquisizione facea un'infornata di famigliari, ciò che
accadeva quasi tutti gli anni, alcuni giorni innanzi a tutti gli
atti-di-fede solenni, il grande inquisitore, vestito dei suoi ornamenti
pontificali, e dopo una messa cantata ed una lunga predica relativa alla
circostanza esortava i postulanti a servir fedelmente il Sant'Uffizio, e
riceveva l'abominevole giuramento che l'autore descrive in questo capitolo.
Ogni nuovo famigliare riceveva una pergamena che conteneva le parole
sacramentali e la descrizione esatta dei segni e dei toccamenti per mezzo
dei quali dovevasi riconoscere tutti gli agenti del Sant'Uffizio ed esserne
riconosciuto. Questi segni, queste parole, questi toccamenti costituivano el
santo, o parola d'ordine della milizia di Cristo.
[40] In tutte le solennità nelle quali un inquisitore trovavansi in presenza
del re o di Dio, l'inquisitore aveva la precedenza. Nei grandi atti-di-fede
il trono degl'inquisitori era sempre più alto di quello del re; nella chiesa
il trono inquisitoriale era sempre alla destra e più alto del santo
sacramento. L'nquisitore Jabera fece languire due anni nelle prigioni del
Sant'Uffizio l'arciprete della cattedrale di Malaga, accusato d'irriverenza
verso il Sant'Uffizio, perciocché quest'ecclesiastico, recando il santo
viatico ad un moribondo, non erasi fermato per lasciar passare
l'Inquisitore.
(Dei diritti degl'inquisiti in faccia ad altri membri del Clero.)
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