XIII. Un miracolo.
Si rammenterà il lettore che Enrico, governatore della nobilissima città di
Siviglia per la grazia di monsignore Arbues aveva segnalato i primi giorno
della sua potenza con arresti numerosi.
Alcuni uomini rimarchevolissimi, dotti e pii dottori in teologia, donne
spiritose, amabili, dal cuore forte, dall'anima energica e potente,
giacevano nelle prigioni del Sant'Uffizio sotto il semplice sospetto di
luteranismo. Allarmato non per lui, ma per coloro che amava, di questa
recrudescenza di persecuzioni, l'Apostolo aveva impegnato Estevan ad
allontanarsi per alcuni giorni di Siviglia; egli stesso desiderava visitare
i suoi poveri. Partirono dunque insieme, e si diressero dal lato di San
Lucardo. Ecco perché Dolores non aveva trovato nessuno nella casa
dell'Apostolo.
Era costume di quell'uomo di Dio di fare, di tanto in tanto, delle
escursioni nei numerosi villaggi dell'Andalusia; ivi la sua tolleranza,
confondendo tutte le sètte e tutte le professioni, accoglieva egualmente gli
ebrei ed i cristiani, i moreschi ed i gitani: consolava gli uni, svolgeva
gli altri dal male, gl'incoraggiava tutti, e spandeva su tutti egualmente i
doni della sua inestinguibile carità[1].
In tutta l'Andalusia il nome dell'Apostolo era un talismano magico; bastava
pronunziarlo per veder subito sorridere tutti i labbri, e tutti gli occhi,
alzarsi verso il cielo con espressione di riconoscenza. Così, quando da un
villaggio all'altro si spargeva la voce che egli avea incominciato il suo
giro, tu avresti veduto lungo il cammino molte povere donne con i loro
figliuoletti in braccio, le quali attendevano il passaggio del santo per
essere le prime a ricevere la benedizione, e quando avevano potuto toccare
l'orlo
della sua veste, si credevano al sicuro di tutti i mali. L?Apostolo aveva un
bel dir loro con dolce autorità:
"Non è a me che bisogna rendere omaggio, io non sono che polvere come voi,
ma a Dio, che è lassù e che vi parla per mia voce."
Il popolo, sempre un po' idolatra nelle sue adorazioni, trovava molto più
semplice di prosternarsi avanti quest'uomo, che lo colmava di beni, e che
vedeva, che davanti a Dio che non vedeva.
"Figlio mio," diceva l'Apostolo a Estevan, stupefatto della sua dolcezza e
della docilità di quegli uomini grossolani, i quali divenivano agnelli dopo
che il santo aveva loro parlato; "vedete quanto sarebbe facile il rendere
questi uomini probi e pii, se, invece di abbrutirli col terrore e di
inasprirli con le torture, si disponessero a forza di benefizi e di dolcezza
a credere in Dio e nella sua provvidenza. In luogo di ciò, si riempie il
loro cervello di superstizioni; si tormentano tanto e si fa loro sì poco
bene, che non credono più se non che ai demoni e all'inferno, di cui si da
loro un saggio sulla terra. Privi di felicità, di consolazioni e di speranze
divengono ad un tempo fanatici, deboli e crudeli.
"Come potrebbe essere altrimenti?" rispose Estevan: "questi uomini non
possiedono nulla, i monaci han loro tutto carpito[2], e ciascun giorno
l'inquisizione
toglie a questi infelici il solo bene che loro rimane, la libertà di
coscienza. Sarebbe sì facile tuttavia di render felice questo popolo sì
ardente e sì poeta!"
"Meglio ancora di questo," disse l'Apostolo: "egli è intelligente e probo;
il suo spirito è di un singolare miscuglio di gaietà, di finezza e di buon
senso naturale che gli rende agevole ogni seria meditazione. Questo popolo è
capace di comprender la vita nel suo scopo più largo ed elevato, la
fraternità universale. Ebbene! questi uomini, naturalmente probi, leali ed
amanti, si convertono in vili ed ipocriti, peggio ancora in delatori! ed io
pure, sì, io non devo la mia sicurezza che all'abito che porto. Laico, avrei
fatto loro il medesimo bene, avrei predicato loro la stessa morale, ed essi
mi avrebbero riguardato come un luterano od un illuminato, ed avrei pagato
con la vita il mio zelo per la loro felicità e per la verità; ma io era
prete, io era monaco; e un monaco può ingannarsi?"
"Guardatevi, Padre mio," rispose Estevan con amaro sorriso; "monsignore
Alfondo Manriquez e monsignore Arbues potrebbero non rispettare il vostro
abito, come il grande inquisitore Torrequemada, d'odiosa memoria, non
rispettò la dignità episcopale dei vescovi di Calahorra e di Segovia[3]."
"Torrequemada era un genio crudele," disse l'Apostolo con un sospiro; "ma
almeno al suo brutale fanatismo, alla sua crudeltà inesorabile, non
aggiungeva la più infame lussuria[4]. Il fanatismo l'avea reso pazzo,
perché, altrimenti, la crudeltà d'un uomo potrebbe trascorrer tant'oltre? e
dopo che il grande inquisitore aveva pronunziato la sentenza di un infedele,
il severo Domenicano Tommaso di Torrequemada s'inginocchiava umilmente
davanti al suo crocifisso, si dava la disciplina, e lacerava il suo corpo
per espiare tutte le eresie del regno di Castiglia[5]."
"Oh padre mio! fra qualche secolo, se l'umanità progredisse, come deve
farlo, si vorrà credere a tutti questi orrori mischiati a tante follie?"
"Senza dubbio, figlio mio, ma per deplorarli; gli errori del passato saranno
scuola per l'avvenire. verrà tempo in cui tutti gli uomini leggeranno il
Vangelo, ed allora tutti avranno il diritto di dirsi gli uni gli altri: -
Siamo vostri fratelli; perché ci trattate come stranieri?"
"Quando tutti gli individui di una nazione conoscono bene il codice delle
leggi che li governa è ben difficile che si danneggino gli uni gli altri.
meglio ancora quando questo codice è il vangelo, questa guida dell'anima,
allora l'anima è bene governata, ed è raro che le azioni non lo siano.
Laddove regna l'ignoranza, regnano pure il disordine, la superstizione, la
follia, tutti quei flagelli che fanno della terra un inferno abitato da
demoni e dai dannati."
mentre si trattenevano così, l'Apostolo e il suo compagno arrivarono ad un
villaggetto fabbricato sulla cima di una montagna, come se ne incontra
spesso in Ispagna. case basse, per la maggior parte dipinte in rosso ed in
verde, erano poste tortuosamente in due file sulla vetta della montagna,
formando in tal guisa una strada irregolare, terminata da una chiesuccia, il
cui campanile si alzava più di quaranta piedi al di sopra delle abitazioni.
Quando i due viaggiatori vi arrivarono, tutto era tranquillo. Era quasi
notte; i contadini tornati, tornati dai campi, si occupavano in silenzio
della cena; dal fondo delle case s'innalzava un profumo piccante di
pasticcio, ed alcuni pastori salivano lentamente la montagna riconducendo le
capre all'ovile.
L'Apostolo non era venuto che una o due volte nel villaggio, ed i fanciulli,
che hanno ordinariamente la memoria leggiera, non lo riconobbero.
Estevan e l'Apostolo traversarono dunque la maggior parte della strada senza
che alcuno venisse a disturbarli nel loro cammino.
Ma mentre passavano davanti ad una casa bassa, l'esterno diroccato della
quale annunziava la più orrenda miseria, si fermarono simultaneamente,
colpiti da un insieme straordinario di voci giovani, virili, vecchie e
capreggianti, fresche e rozze. Era certamente molta gente in quella casa,
doveva accadervi uno strano avvenimento.
i viaggiatori ascoltarono per alcuni istanti; tutto ad un tratto udirono una
vocina chiara, che diceva con accento di compassione femminile:
"Questo povero Paolo stava tanto bene stamattina!"
"Qui v'ha qualcuno che ha bisogno di noi," disse l'Apostolo, spingendo la
porta tarlata che cedé subito.
Estevan entrò con lui.
In una cattiva baracca, in cui la luce del giorno penetrava appena, e il
suolo ineguale e fangoso era coperto d'avanzi d'ogni genere, una ventina di
gitani, uomini e donne, fanciulli e fanciulle, circondavano un uomo vestito
dei suoi abiti da festa ed assiso sopra una seggiola in singolare
attitudine. Quest'uomo era pallidissimo, e pareva che dormisse.
L'intiera compagnia dei gitani, presieduta dalla regina di quelle strane
corporazioni, circondava il gitano che si era assiso. Al giunger
dell'Apostolo
e del suo compagno il cerchi non si ruppe; ma la regina, che venerava molto
il monaco, gli fece portare uno sgabellino di legno in forma di tripode,
unica seggiola che fosse rimasta in quella camera. Estevan rimase in piedi.
"Che significa ciò, Padre mio?" domandò egli all'Apostolo.
"Quest'uomo è morto, ed essi fanno la cerimonia dei funerali; guardate."
Un gitano s'avanzò verso il morto, e gli pose un mandolino fra le braccia.
Quindi ad alta voce, e senza vergogna, si accusò di tutti i delitti che avea
commesso dopo la morte dell'ultimo fratello defunto della compagnia. Dopo
che ebbe finito quella singolare confessione; il gitano interrogò il morto:
"Su," gli disse, "se ho fatto male, la tua musica mi renda sordo, se ho
fatto bene, non fiatare, ed io mi crederò assoluto."
Come si penserà facilmente, il morto non obbedì alla prima di queste
ingiunzioni, ed il gitano si ritirò sgravato di coscienza, come un usuraio
che ha ricevuto l'assoluzione promettendo di restituire tutto quello che ha
rubato.
"Quale barbarie!" disse a voce bassa Estevan. "Aspettate, figlio mio," disse
l'Apostolo "non è ancora finito."
Infatti ciascuno dei membri della compagnia fece a sua volta la confessione,
e tutti rimasero pienamente rassicurati sull'enormità dei loro delitti, il
defunto li aveva assolti, e si credevano tutti innocenti come colombe.
La camera era illuminata da torcie di ragia; l'Apostolo, che per l'epoca in
cui viveva avea profonde cognizioni di medicina, ma che aveva soprattutto
quel dono di seconda visione, privilegio esclusivo di alcuni uomini di
genio, l'Apostolo esaminò attentamente il morto.
"Quest'uomo ha membra molto pieghevoli," disse piano ad Estevan; "ed il suo
colore non ha subito la minima alterazione; soltanto è pallidissimo."
"E' vero, "disse Estevan;" che si mise ad esaminarlo a sua volta.
Ma bentosto non fu loro altrimenti possibile di darsi a queste osservazioni
fisiologiche; un ragazza si mise a ballare davanti al morto un ballo lascivo
ed animato; a poco a poco tutti i membri della compagnia si misero a ballare
l'un dopo l'altro; quindi si presero per mano, e formarono un cerchio
attorno al morto. Cominciarono dal muoversi lentamente ed in cadenza, come
se avessero voluto mettersi la passo e abituarsi al tempo; poscia la danza
divenne più rapida, s'innalzarono l'un coll'altro girando attorno, ed
animandosi così per gradi, terminarono col girare sì presto, che sarebbesi
detto una compagnia di demoni trasportati nello spazio da una potenza
invisibile[6].
Tutto ad un tratto quella compagnia furiosa si fermò, mandando grandi urli:
il morto era stato rovesciato dalla sua seggiola, era caduto nel mezzo del
cerchio formato attorno ad esso, sopra una ragazza, che, meno lesta delle
altre, aveva attaccato la sua sciarpa ai bottoni di metallo della veste del
defunto. La gitana indietreggiò con un moto d'orrore, ed il morto andò a
battere il viso contro terra.
"Gesù!" gridò la regina; "qual disgrazia. povera Maria, che Paolo sia caduto
su di te!"
"Sì," dissero le altre, "ecco che grandi sciagure l'attendono, e forse la
morte: ammenoché tu non voglia passare la notte presso Paolo."
"Io passare la notte sola con un morto!" gridò la gitana spaventata; "io
passare la notte con Paolo per vedere tutti i diavoli dell'inferno venire a
ballare davanti a lui e portarlo via[7]."
"Resterei io con te, povera Marietta," disse un giovanotto che dava tenere
occhiate alla gitana, "ma allora ciò non ti conterebbe nulla."
"Oh! io ho troppa paura," disse la gitanella piangendo; "preferisco il
morire, se Paolo lo vuole."
mentre i gitani dibattevano così questa grave questione, l'Apostolo si era
slanciato corso il morto, e, inchinandosi verso di lui per rialzarlo, si era
avveduto che, cadendo, Paolo si era fatto nel viso una leggera ferita, e che
questa ferita gettava sangue.
"Silenzio figliuoli!" esclamò egli ad alta voce; "quest'uomo non è morto:
aspettate!"
Le grida cessarono come per incanto, e tutti i gitani rimasero incatenati al
loro posto da uno stupore indescrivibile: avevano ballato senza timore
attorno al morto, e avevano paura di un uomo che resuscitava.
Aiutato da Estevan, l'Apostolo assise Paolo sulla seggiola, e traendo dalla
sua tasca destra una boccetta, che non lasciava mai, fece respirare dei sali
al malato, mentre Estevan gli fregava forte le mani per richiamarvi il
calore e la vita.
A capo di alcuni minuti il gitano aprì gli occhi; la faccia si colorò
subitaneamente, la reazione minacciava di recare un attacco di apoplessia.
Il monaco allora eccitò la ferita del gitano per farla gettar sangue, ed
ordinò ad Estevan di fregargli gli arti inferiori.
Bentosto il malato respirò liberamente, aprì con lentezza i gravi suoi
occhi, e volse i suoi sguardi attorno a sé con stupore.
Egli era salvo.
Non era stato che uno svenimento, seguito da un letargo, cagionato da un
eccesso di ebbrezza. Ma nel rivedere vivo colui del quale avevano celebrato
i funerali, gli zingari si gettarono in ginocchio, ed i più giovani si
misero a correre per la strada gridando che il santo aveva fatto un
miracolo. Il resuscitato stesso, ancor debole e potendo appena sostenersi,
baciò le mani dell'Apostolo, dicendogli:
"io era morto, e voi mi avete chiamato dai luoghi delle tenebre."
"Non fui io," disse l'Apostolo; "fu Iddio."
"Padre mio," gli domandò Estevan in lingua latina per non esser compreso,
"perché lasciate lor credere che quest'uomo fosse morto, e che sia
resuscitato?"
"Figlio mio," rispose il santo, questo popolo non è ancor maturo per la
verità. Se si cercasse di spiegargli in una maniera naturale il fenomeno che
è accaduto, griderebbe alla magia, e ci prenderebbe per stregoni.
Lasciategli dunque la sua schietta fede, che è la sola consolazione.
Credetemi, Estevan, rischiare la ragione di un popolo, migliorarlo con la
scienza è l'opera di più d'un giorno, soprattutto quando già da lungo tempo
si sono falsati i suoi istinti naturali. Si dipinge facilmente sopra un tela
bianca, ma sopra una tela già dipinta, bisogna prima cancellare i colori per
porvene dei nuovi."
"Bisognerà dunque che questo popolo resti in un'eterna ignoranza?"
"No, figlio mio, no; lasciate filtrar l'acqua goccia a goccia, che finirà
per iscavarsi il letto."
Tuttavolta, al rumore del miracolo che era succeduto, gli abitanti del
villaggio avevano abbandonato le loro case; i ragazzi stessi si erano,
malgrado il loro appetito, allontanati dalla cucina per veder il santo che
aveva resuscitato il morto.
Dopo aver lasciato qualche limosina ai gitani, ed averli esortati a
rinunziare al furto e all'omicidio, esortazioni che essi ascoltavano sempre
con emozione, ma che scordavano ben presto in forza della loro selvaggia
natura, delle loro radicate abitudini, ed anco della difficoltà che avevano
a vivere altrimenti, l'Apostolo uscì per andare nel villaggio a portar
soccorsi e consolazioni ai malati ed agli afflitti, ed a regalare loro
alcune monete; benefizio prezioso per quei poveri servi dei monasteri, che
avevano pane e minestra, ma denaro giammai; così molte volte quelle povere
persone conservavano come reliquie i soldi che erano dati loro
dall'Apostolo;
essi li foravano e ne facevano bottoni di cui ornavano le loro giubbe di
velluto[8].
I viaggiatori non ebbero la pena di entrar nelle case: una folla si
precipitò davanti ad essi; ma all'avvicinarsi del santo si aprì in due file
per lasciare libero il passaggio. Ed egli, fermandosi dinanzi a ciascuno, lo
interrogava sulla sua famiglia, sui suoi bisogni e sulle sue sofferenze; a
coloro che gli sembravano malati od afflitti dava rimedi e conforti; ai
malvestiti qualche danaro per comprare abiti. Ma predicava egualmente a
tutti l'obbedienza e la rassegnazione; "perocché," diceva egli, "la
mormorazione e la irritazione dell'anima non rimediano a nulla: ciò non
serve che a rendere i mali più gravi."
L'impetuoso Estevan, malgrado le sue dottrine filosofiche, che tentavano ad
una riforma più attiva, non poteva impedirsi di ammirare la profonda
sapienza dell'Apostolo.
"Così," pensava fra sé medesimo, "dovrebbero essere tutti riformatori,
sobrii, perseveranti nell'azione, pazienti al resultato: così solamente si
rigenera un popolo."
Il passaggio dell'Apostolo nel mezzo di quella popolazione entusiasta ed
oppressa, fu una scena commovente, un raggio di sole caduto sulle tenebre di
quelle anime semplici, ma ardenti.
"Francesca," diceva un giovane a sua moglie, "nostro figlio sarà bello e
forte; l'Apostolo l'ha guardato ed ha baciato il suo manino."
"La raccolta sarà buona," diceva un altro, "l'Apostolo è venuto a visitarci
nella stagione in cui le spighe cominciano ad empersi."
"Il fuoco del cielo rispetterà la mia casa," sclamava un terzo; "l'Apostolo
si è fermato, passando, davanti alla porta."
"Dio vi benedirà perciocché siete buoni," disse loro il santo, "e voi sarete
felici perciocchè non farete male da alcuno."
"Padre, " gridò piangendo una giovane che portava sulle sue braccia due
fanciullini gemelli, "mio marito è stato messo in prigione dal Sant'Uffizio
perché era Moro convertito, ed aveva mancato alla messa per custodirmi il
giorno in cui ho messo al mondo questi due figli."
L'Apostolo alzò verso il cielo un mesto sguardo. "Abbi pazienza, figlia
mia," disse alla povera donna, "il tuo marito ti sarà reso: abbi confidenza
in Dio che ti consolerà, ed io avrò cura di te, intendi?"
"E' veramente un santo," disse piano una vecchia, "ei non ha paure
dell'Inquisizione."
"Donna," disse l'Apostolo che l'avea intesa, "coloro che credono veramente
in Dio non hanno paura di nulla."
Così terminò quella giornata.
Estevan e la sua guida accettarono alcune provvigioni di cui fu riempiuta la
loro saccoccia, e che trovarono il mezzo di pagare centuplicatamente; poscia
si allontanarono, accompagnati dalle benedizioni, per andare a nottare in
una di quelle capanne che i pastori innalzavano sulla cima delle montagne
onde passarvi l'inverno col loro gregge.
XIV. Josè.
Ritorniamo a Dolores, che abbiamo lasciato sulla via della taverna. Giunta
all'estremità della strada dei Gitani, le fu facile riconoscere l'insegna
della buona ventura, che era scritta in grossi caratteri sul muro: malgrado
l'oscurità nascente, Dolores non poteva ingannarsi.
V'era ancora poca gente; alcuni monaci vuotavano, chiacchierando, il loro
bicchiere di vino pajarete, e ad un estremo della tavola un uomo ed una
donna, molto malvestiti, mangiavano un pezzo di pane nero con alcune cipolle
crude; avevano dinanzi ad essi due bicchieri di stagno ed una misura di vino
del più ordinario.
Le candelette accese contro il muro gettavano il loro dubbio chiarore
nell'oscurità
della sala.
La calma che vi regnava, rassicurò alquanto la figlia del governatore.
Esitò tuttavia alcuni minuti, perché non vedeva la Graziosa, e non sapeva a
chi dirigersi; ma essa comparve bentosto all'ingrasso della cucina. Allora
Dolores, armandosi di coraggio, spinse la porta, e si avanzò verso la
giovine ostessa.
Quando le fu vicina, allontanò i lembi della sua mantiglia, e la graziosa la
riconobbe bentosto. Ma Dolores aveva pure, dal suo lato, riconosciuto la
fanciulla che aveva servito di messaggera nell'orribile complotto di cui era
vittima, e indietreggiò con un moto d'orrore.
La Graziosa la guardò allora senza parlare, con aria supplichevole, e, con
presenza di spirito tutta sua propria, le prese vivamente la mano, e finse
d'abbracciarla.
"Oh! sei tu mia buona Anna!" prese a dire con tuono scherzoso; "chi avrebbe
detto che io avessi la felicità di vedere oggi questa cara cugina! Vieni
dunque," aggiunse, trascinando Dolores nella stretta ed oscura stanza dove
cuoceva il pasticcio; "Vieni, che parleremo della mia buona zia e dei tuoi
fratelli, mia cara Annina. Quanto son contenta di vederti!..."
Durante questo flusso di parole la Graziosa aveva sottratto Dolores agli
sguardi delle persone della taverna, e Dolores che poteva reggersi appena,
tanto era commossa, si assise sopra una seggiolaccia di paglia che si
trovava in un canto.
"Rassicuratevi, signora," le disse piano la sorella di Gioachino, mettendosi
quasi in ginocchio, "rassicuratevi, e non temete niente: io darò la mia vita
per salvarvi. Ma," aggiunse, vedendo che Dolores riprendeva un poco di
confidenza, "fingete di ciarlare con me come se foste mia cugina; bisogna
ingannare gli spioni."
In quel momento un monaco domandò una boccia di vino; la Graziosa, vispa e
lesta, si affrettò a servirlo.
"Povera cugina," disse ad una donna che cenava all'estremo di una tavola,
"quanto è gentile d'essere venuta a vedermi!" Ma la donna a cui la Graziosa
indirizzava quelle parole era la sola a cui Dolores non fosse sconosciuta,
quella donna era la Colubrina, e nel momento in cui la figlia del
governatore era entrata nella taverna, la sirena l'aveva riconosciuta.
Manofina, che tale era l'uomo che cenava presso di lei, aveva minor memoria;
le donne sole posseggono quella perspicacia di percezione rapida come il
pensiero.
La sirena sorrise dolcemente, ma senza dir nulla. Alcuni istanti dopo,
Manofina volle ritirarsi, la Colubrina si avvicinò allora all'ostessa, che
si era avanzata sul davanti della sua porta per vedere se il fratello
tornava.
"Graziosa," le disse ella, "abbi cura della tua cugina; e se avesse bisogno
di me o di Manofina, tu sai dove trovarci."
La Graziosa guardò la sirena meravigliata. "Io conosco la tua cugina,"
aggiunse a voce bassa la giovane zingara, appoggiando sulla parola cugina.
"Colubrina," le rispose la Graziosa, "guarda come parli."
"Andiamo," disse la zingara con un aggraziato moto delle spalle, "di che hai
paura? una protetta dall'Apostolo! io l'amo quanto te...rammentati soltanto
ciò che ti ho detto; se hai bisogno di noi; vieni a cercarci. Addio." Il
bravo e la sua compagna si allontanarono.
"Fanne dunque veder la tua cugina, Graziosa!" disse un monaco panciuto,
mezzo ubriaco; "è bella quanto te?"
"Oh! povera fanciulla! lasciatela tranquilla," rispose la Graziosa, "essa è
timida come pecorella."
"Ma ciò non impedisce d'esser vezzosa."
"La vedrete quando avrà dormito," disse la Graziosa, accomodando i suoi
vasi; " essa ha fatto molte leghe a piedi, ed è stanchissima."
L'arrivo di una numerosa schiera d'operai, i quali venivano a cenare, pose
fine a quel colloquio. Il monaco continuò a bere. La Graziosa, dopo aver
servito tutti i suoi ricorrenti con una vivacità ed una lestezza
rimarchevole, profittò dell'occupazione generale che succede sempre al
cominciamento di un pasto, e dal rumore che facevano, mangiando, tutte
quelle mascelle affamate, per parlare a voce bassa con la figlia del
governatore.
"Graziosa," le domandò Dolores, che un poco aveva dimesso della sua prima
diffidenza, "conosci il monaco Josè?"
"Gesù! se lo conosco!" ella disse; "è un santo, signora... quantunque porti
l'abito dell'Inquisizione," aggiunse molto piano. "E' venuto ieri da me,"
proseguì l'ostessa, "e mi ha avvisata che se voi lo cercaste bisognerebbe
andarlo a trovare."
"Ah!" disse Dolores, respirando più liberamente, "ei non m'ha dunque
ingannata!"
"Ed a me," disse la Graziosa, quasi piangendo, "avete almeno perdonato?"
"Sì," disse Dolores, "io ti perdono, quantunque tu mi abbia fatto molto
male."
"Oh! io non sapeva quel che faceva; obbediva e non altro; se conosceste
quello che bisogna fare per conservare la vita!"
"Povera fanciulla!" va, ti chiamano, non occuparti di me; servi i tuoi
ricorrenti, affinché non s'avveggano di nulla."
La Graziosa ritornò nella sala, e servì a ciascuno quello che domandava,
poscia tornò presso Dolores. La figlia del governatore era eccessivamente
pallida; non aveva preso nulla in tutto il giorno.
"Dammi qualche cosa," disse all'ostessa; "io muoio di fame."
"Gesù," disse la Graziosa, "perché non dirlo prima, signora? tutto ciò che
io ho qui è a vostra disposizione."
Nell'istesso tempo le servì una tazza di cioccolata, che teneva sempre
pronta, in caso che un monaco, volendo rinfrescarsi nel passare, venisse a
domandarla.
Dolore aveva appena terminato quella leggera refezione, che un rumore
insolito si fece udire nella sala: essa mise fuori un poco la testa.
Tutti si erano alzati con un movimento spontaneo di rispettosa deferenza. Il
favorito dell'inquisitore era entrato nella taverna. I Francescani stessi
non temevano di dare al giovane Domenicano quella pubblica testimonianza di
sommissione e di rispetto.
Josè passò, fiero e superbo, nel mezzo di quelle persone inchinate, e il suo
labbro inferiore si contrasse sdegnosamente; la sua figura esprimeva il più
profondo disprezzo.
Ei camminò diritto verso la cucina. Dolores alzo verso lui il suo bel viso,
esprimente tristezza ed angoscia.
"Gia qui?" disse Josè riconoscendola.
"Gia?" rispose con dolcezza, "questa parola, padre mio, somiglia ad un
rimprovero. Vi pentireste della protezione che mi avete accordata?"
"No, certamente, povera fanciulla," disse il fraticello; "ciò che ho
promesso lo manterrò volentieri; ma non vi stupite della mia sorpresa; non
mi avete detto ieri che avevate un asilo?"
"Io lo credeva, padre mio; ma sono maledetta come Caino: colui che io
cercava era partito, morto forse; ho passato la notte fra i cespugli, e
questa sera mi sono con gran fatica procurato questi umili abiti per non
essere riconosciuta."
"Ed avete agito prudentemente, figlia mia; piucché mai voi siete esposta, ma
io vi provvederò, e niuno, lo spero," aggiunse sorridendo con amarezza,
"niuno sospetterà che il Domenicano Josè abbia dato asilo ad una donna
perseguitata dall'Inquisizione."
"Padre mio," disse Dolores alquanto inquieta, poiché le accadevano da
qualche tempo cose sì straordinarie, che le era ben permesso di dubitarne;
"Padre mio, dove volete dunque condurmi?"
"Diffideresti di me, Dolores?" le domandò Josè fissando sovr'essa il suo
sguardo ardente e pieno di franchezza.
"Oh!, perdonatemi," disse ella giungendo le mani, "ma ciascun passo che fo
nella vita, mi conduce ad un abisso, e tuttavia!. oh! io vi credo, io vi
credo!" esclamò essa; "se voleste tradirmi, non mi guardereste così."
"Povera innocente fanciulla! non hai tu altra garanzia della mia buonafede,
che la franchezza del mio sguardo? sai tu che io non sono di coloro che
nascondono un cuore di tigre sotto i lineamenti di un angiolo? non hai
niente di più, neppure un presentimenti secreto, il quale ti dica che la tua
causa è la mia, e che io ti difenderò come se tu fossi mia propria sorella,
e come se il medesimo seno ci avesse portati?"
"Fate di me ciò che volete," disse la figlia del governatore, mettendosi
quasi in ginocchi di quell'uomo singolare.
Due lacrime amare, corrosive, di quelle lacrime lungo tempo contenute, le
quali spuntano una volta o l'altra, e suo malgrado, dal cuore più energico,
scesero lentamente dalle lunghe palpebre di Josè sulle sue guance pallide ed
alquanto macilente.
"Voi piangete, Padre mio!" disse la fanciulla, intenerita: "oh! voi pure non
avreste dovuto nascere in questo secolo di ferro."
"Iddio," rispose Josè, "ci getta quaggiù quando vuole e per ciò che vuole,
per perseguitare o per soffrire; e di colui che soffre fa talvolta lo
strumento della sua eterna vendetta. Ecco forse perché tu ed io viviamo in
questo secolo, Dolores."
"Mio Dio!" disse ella, "la vostra tristezza mi spaventa; e pertanto io ho
fede in voi, e verrò dovunque vorrete condurmi.e poi," aggiunse con un po'
di esitazione, "avrei un'altra cosa da domandarvi."
"Parla," disse Josè, che quasi indovinava il suo pensiero.
"Io era la fidanzata a don Estevan de Vargas." "Lo so," rispose Josè,
soffocando un doloroso sospiro, "sii tranquilla; don Estevan è in
sicurezza."
"Voi l'avete salvato?" esclamò essa con gioia.
"No, non sono io che l'ha salvato, è la giustizia eterna; Dio è il padrone
che comanda, io non sono che la mano che obbedisce."
"Oh! Padre mio" siate benedetto per avermi conservato il mio Estevan."
Tutto questo si diceva a bassa voce nella cucina della taverna; la Graziosa
andava e veniva, distribuendo volta a volta ai suoi commensali vivande o
vino, pezzi di tonno fritto nell'olio, sardelle fresche e pane che
sorpassava in bianchezza quello del resto della Spagna; e tale era il
rispetto per la santa Inquisizione in generale e per gl'inquisitori in
particolare, che niuno pensò a trovare inconveniente quella lunga
conversazione del fraticello con la cugina della Graziosa.
In quel momento Gioachino entrò nella taverna. Josè lo prese a parte.
"Gioachino," gli disse, "mentre tua sorella è occupata, seguimi con questa
fanciulla fin all'uscita della città."
"Si fatta la volontà di Vostra Beatitudine," rispose Gioachino,
inchinandosi; "ma volete traversare tutti e due la sala, che è piena di
gente?"
"Tu ed io la traverseremo soli," rispose Josè; "la fanciulla passerà dalla
porticina di dietro." V'era, infatti, in quella specie di cucina una porta
che comunicava con l'altra salettina bassa, dove dormiva la guardia, e che
si apriva in un angiporto.
Il Domenicano uscì dalla taverna, sempre accompagnato dai saluti rispettosi
della nobile assemblea. Gioachino lo raggiunse nella strada alcuni minuti
dopo.
Fecero insieme il giro della casa, e rientrarono per il vicolo. Dolores era
pronta a partire. Disse addio alla Graziosa, e seguì Josè, che serviva loro
di guida, perché Gioachino ignorava in qual luogo li conducesse.
"Voi, almeno, non avete paura?" disse Josè, stringendo la mano tremante di
Dolores Argoso.
"Vedete," disse appoggiandosi al suo braccio con nobile confidenza. uscirono
tutti e tre dalla taverna, e nessuno si avvide del loro passaggio.
XV. La badessa delle Carmelitane
Mentre accadeva nella taverna della buona ventura questa scena di mediocre
importanza, ma necessaria allo sviluppo della nostra istoria, un incidente
di altro genere aveva luogo nell'abbazia delle Carmelitane.
La badessa, uscita da una casa quasi principesca, quella dei duchi di
Lerma[9], ed eletta perciò a tal carica, malgrado la sua giovinezza,
signoreggiava in quel momento in mezzo ad alcune sue favorite; signoreggiava
è la parola più acconcia, perché quest'umile figlia di san Francesco
occupava una larga poltrona di velluto, innalzata sopra un soglio di alcuni
scalini, e sormontata da un baldacchino con frange d'oro.
Vicino ad essa era il pastorale, insegna della sua dignità. Dalla sua
cintura pendeva sulla sottana di stoffa bruna un lungo rosario di filograno
e di smeraldi, del quale ciascun Pater era rappresentato da una perla di
oriente grossa come una piccola nocciuola; finalmente nel suo petto brillava
una gran croce d'oro cesellata, e ciascun moto della sua mano bianca e
delicata faceva scintillare l'enorme gemma dell'anello abbaziale, formata da
un solo diamante della più bell'acqua.: un diamante senza prezzo, tolto
dalle miniere di Gloconda o di Visapour.
La badessa aveva circa ventiquattro anni, era donna di statura
mediocrissima, che pareva grande, tanto superbamente portava le spalle,
tanto la sua bella testa si staccava diritta e ferma sul più grazioso collo
del mondo. la sua carnagione, di un pallore roseo, più bianca di quella che
ordinariamente è la carnagione delle Andalusiane, era divenuta più candida
ancora all'ombra del chiostro, ed i suoi occhi, di un turchino scuro,
brillavano di uno splendore metallico sotto due lunghi sopraccigli neri come
l'ebano. Tuttavolta, la fisionomia della badessa non aveva altro tipo
distintivo che un orgoglio di razza ed una gran disposizione alla
sensualità: tendenza visibilmente indicata da due labbra rosse e voluttuose,
contornate da una leggiera lanugine, quasi tanto nera quanto quella dei
sopraccigli, di un'estrema finezza.
ma la passione dominante della badessa era l'orgoglio; essa era tenera
soprattutto delle prerogative del suo grado; il suo affetto era tutto
intiero per coloro che sapevano meglio lusingare la sua vanità
aristocratica; voleva esser regina anco nel chiostro.
Attorno a lei, sopra seggiole bassissima, le sue favorite chiacchieravano,
occupandosi dei lavori di ago, ricamimagici che non potevano uscire che
dalle mani di una religiosa. Alcune, per maggiore umiltà, eransi assise su
gli ultimi scalini del trono, quasi sotto i piedi della badessa; era una
muta adulazione molto accorta; il santo gregge conosceva il debole della sua
superiora.
Un grande avvenimento occupava in quell'istante la religiosa oziosaggine di
quelle sante figliuole: era la di sparizione di Dolores.
"Chiara," diceva la badessa ad una giovane religiosa assisa vicino a lei,
"comprendete voi perché quella fanciulla abbia abbandonato il convento, dove
io la trattava come una sorella?"
"No, in verità, Madre," rispose la Carmelitana, "ammenoché non fosse stata
rinchiusa qui per sottrarla ad un amore mondano, al quale sarà ritornata."
"Era di una modestia esemplare," disse la badessa; "e, malgrado i suoi modi
alquanto altieri e riservati, aveva un carattere adorabile. Credeva
veramente di poterla affezionare al nostro umile gregge, e questa speranza
era tanto meglio fondata, in quanto che mi era stata condotta da un santo,
il monaco più puro della Spagna."
"Qual danno che sia andata a perdersi nel mondo!" disse una novizia, il cui
occhio scintillante era lungi dall'esprimere una calma perfetta dei sensi e
dell'anima; "ove sarà più felice che fra noi?"
"Figlia mia," rispose Francesca di Lerma, "benedite Iddio, che, strappandovi
al medesimo pericolo, vi permette di passar qui pacificamente la vostra
vita."
La giovine reclusa soffocò un sospiro, sforzandosi di dare al suo volto
l'espressione
del contento. Però avrebbe preferito alle sante delizie del chiostro
l'indipendenza
e la lieta libertà della vita mondana.
"Convenite, Madre mia," proseguì essa, spiegando sulle ginocchia una larga
striscia di stoffa bianca, seminata di fiori d'oro di una delicatezza
infinita, che terminava di ricamare, "convenite che questo è un bel
paliotto, e che nessun convento di Siviglia potrà vantarsi di averne uno
uguale."
"Ammirabile, invero!" rispose la badessa; "ornerà degnamente la nostra
cappella il giorno della vostra professione, figlia mia. Ma che avete là,
Caterina?" proseguì indirizzandosi ad una monaca giovanissima che sfogliava
sotto il suo velo un volume grossolanamente stampato, e adorno di incisioni
più grossolane ancora del testo. La monca arrossì leggermente, e nascose il
volume nella sua tasca.
"Mostratemi ciò che avete," disse severamente la badessa.
"Datele, via, quel libro, sorella!" dissero le altre, la curiosità della
quali era vivamente eccitata. Caterina era la prediletta della badessa a
cagione del suo carattere amabile, ma specialmente della grande fortuna, e
dell'alta posizione della sua famiglia: Caterina porse un libro con aria
dispiacente, e le sue compagne poterono leggere sulla coperta queste parole,
stampate a grossi caratteri: La Santa Bibbia. Era una bibbia protestante,
tradotta in spagnolo e stampata in Olanda.
"E' un libro di devozione," disse Chiara; "valeva la pena di metterci tanto
mistero?"
"Sì, ma è una bibbia luterana," disse la badessa, meno ignorante e curiosa
quanto le altre; "donde l'avete avuta, Caterina?"
"Da un fratello di mia Madre, signora; ei l'aveva recata a Fiandra, dove
comandava un reggimento. Mio zio era molto partitane della religione
riformata; perciò quando mia madre insisté per farmi monaca, mio zio, che vi
si era lungamente opposto, mi diede questo libro dicendomi: -Nipote mia, tu
non resterai sempre rinchiusa; quando la riforma del gran Lutero sarà
penetrata in Spagna, le monache saranno libere e potranno maritarsi come
hanno fatto in Alemagna."
"Oh madre! qual sacrilegio!" esclamarono le recluse, che ascoltavano con
incredibile avidità.
"Silenzio, Caterina!" disse Francesca, "ciò è imprudente a dirsi, figlia
mia."
"E' molto lungi di qua l'Alemagna?" domandò l'ignorante Chiara.
"Oh! certamente," rispose Caterina; "e noi saremo morte quando Lutero
verrà."
"Taci, taci!" gridò l'impetuosa Francesca, il cuore della quale palpitava
violentemente al solo pensiero della libertà, tanto era ardente e vivace
quella donna, sì poco fatta per l'abnegazione e l'indolenza claustrale, che
aveva cercato un alimento alla sua incredibile energia nell'esercizio del
dispotismo monastico.
"Oh!" pensò in sé stessa," la libertà per noi pure!. ma noi saremo morte
innanzi che giunga," mormorò piano, ripetendo le parole di Caterina.
"Nostra Madre è pensosa," disse Chiara a voce bassa.
Un gran colpo di campanello rimbombò alle orecchie delle recluse.
"Chiara," disse la badessa, subitamente richiamata a sé stessa, "Vedete
dunque cos'è questo; io non attendo visite a quest'ora."
"Cosa può esser ciò?" mormorò la truppa oziosa, per cui il più leggiero
incidente era una grave occupazione, tanto quella esistenza claustrale si
passa in ciance futili, in strepiti mistici, in vane esaltazioni; tanto vi
si spreca il tempo e la vita.
Chiara prese il piatto nelle mani della conversa, e, malgrado
gli sforzi delle altre monache, che tutte insieme avevano allungato il
braccio per afferrare il fortunato piatto, Chiara, più grande delle altre
l'alzò
al di sopra della sua testa; giunta appié al trono, salì leggermente i
gradini fino all'ultimo, e là, inginocchiandosi davanti alla badessa, le
presentò il piatto[10]. La badessa prese la lettera, ruppe il sigillo di
cera verde, e dopo aver letto le prime linee, si alzò in piedi dalla sua
seggiola.
"Sorelle," disse, "andiamo incontro a monsignore il grande inquisitore
Arbues, che ne fa l'onore di visitarci."
Ad un cenno della badessa la conversa uscì. Allora col pastorale alla mano
Francesca di Lerma andò innanzi e, seguita dalle sue elette, s'avanzò fino
alla porta esteriore del convento per ricevere Sua Eminenza.
Essa non s'era degnata di far avvertire il resto del gregge. In un governo
dispotico il re ed i suoi favoriti formano lo Stato.
Giunta alla porta del chiostro, Francesca di Lerma la fece aprire a due
battenti. Nello stesso tempo monsignor Arbues discese dalla sua carrozza;
era solo (non essendosi fatto accompagnare che dai suoi servi). Josè aveva
finto di esser malato per dispensarsi da quella visita.
Il lettore sa dove era andato.
L'inquisitore si avanzò verso le monache, e quando ebbe messo il piede sulla
soglia, la badessa s'inginocchiò dinanzi a lui per ricevere la sua
benedizione. Tutte le monche la imitarono, poscia Francesca di Lerma riprese
il cammino della gran sala, che, non ha guari, occupava, e facendo avanzare
due larghe poltrone a frange d'oro, fece assidere monsignore Arbues, e si
assise ella stessa di faccia a lui. Era costume della badessa di conservar
così almeno l'eguaglianza del grado di faccia al grande inquisitore. Pietro
Arbues, puntigliosissimo in fatto d'etichetta, si contentava di sorridere a
quella sottigliezza; avrebbe sofferto dalla badessa delle Carmelitane ben
altre usurpazioni ancora sui suoi diritti e prerogative, e fu tempo in cui
serebbesi volentieri assiso sull'ultimo gradino di quel bel trono dorato, sì
ben tenuto dalla vezzosa Francesca di Lerma. Ma quel giorno Pietro Arbues
era cupo e severo, e col suo occhio altiero sogguardò, con aria di
scontento, quell'assemblea femminina. La badessa comprese che accadeva
qualche cosa di straordinario.
"Sorella," disse finalmente l'inquisitore, "io ho da parlarvi da sola; fate,
vi prego, ritirare le suore che sono qui."
La badessa fece un cenno, e la truppa velata disparve come una
nube d'uccelli. Pietro Arbues andò ad assicurarsi da sé medesimo se le porte
erano ben chiuse, poscia tornò ad assidersi preso la badessa.
"Signora," disse con accento freddo, "l'ultima volta che io ho visitato
questa comunità vi ho dimandato se non avevate altre monache o novizie ch'io
non avessi ancor veduto; m'avete risposto di no, io credo."
"E ciò era vero, monsignore; non v'era qui alcuna monaca che non fosse
conosciuta da Vostra Eminenza.."
"No," proseguì Pietro Arbues; "ma vi era un donna che mi avete nascosta."
"Io non ve l'ho nascosta, monsignore," rispose Francesca di Lerma; "essa era
qui quando ci avete fatto l'onore di visitarci, ecco tutto; e siccome non
era né monaca né novizia, io non ho creduto parlarne a Vostra Eminenza."
"E se fosse precisamente questa donna che io cercassi?"
"Ecco una cosa di cui io non avrei mai sospettato," disse la badessa con un
poco d'ironia.
"Fine ai sarcasmi, signora," disse l'inquisitore con asprezza; aveva le
passioni troppo violente per contenersi lungo tempo, e giungere al suo scopo
con destrezza. "Questa donna è qui ed io voglio vederla."
"Bisognava dirmi ciò più presto, monsignore; questa donna, o meglio questa
ragazza, è partita senza che io possa comprendere perché se ne sia andata,
perciocché ho avuto per essa ogni sorta di riguardi."
"Partita!" gridò l'inquisitore stupefatto, "partita!.oh! voi m'ingannate,
signora. Dolores Argoso è qui, e voi me la mostrerete subito, intendete?"
"Dolores Argoso?" riprese Francesca; "non è questo il nome della fanciulla
che era presso di me, monsignore; essa si chiamava semplicemente Maria; era
un'orfana affidatami da un santo predicatore, Giovanni d'Avila,
soprannominato per tutto l'Apostolo dell'Andalusia."
"Giovanni d'Avila!" disse l'inquisitore con voce amara; "io non mi stupisco
più se tutto ciò torna a danno contro di me, Giovanni d'Avila appartiene ai
Carmelitani Scalzi, tutti questi mendicanti di san Francesco sono nostri
nemici."
"Cosa vi ha fatto Giovanni d'Avila, monsignore?" disse Francesca, che per un
malignità femminile si compiaceva di irritare la collera dell'inquisitore.
"Che cosa mi ha fatto, signora!" voi domandate ciò che fanno a me, grande
inquisitore della provincia, tutti questi monaci predicatori, i quali a
danno di Roma, simulano di seguire ed insegnare il Vangelo meglio di noi?
questi umili orgogliosi, che fanno al popolo una religione sì larga, che la
santissima Inquisizione lor sembra una tirannia, il nostro zelo una
crudeltà?"
"Eh! che v'importa, monsignore," disse la badessa; "essi hanno la parola,
voi avete il potere; essi predicano nel deserto; credetemi, non v'inquietate
tanto della propagazione della dottrina."
"Ma questa donna, questa ragazza," riprese il Domenicano, "fatela dunque
venire, signora! io vi dico che essa è qui, e che io voglio vederla."
"Monsignore," replicò la badessa con un poco di dispetto, "ho detto a Vostra
Eminenza che questa fanciulla era disparsa: Vostra Eminenza mi farà l'onore
di credermi sulla parola?"
"Francesca!" gridò l'inquisitore, fissando sulla badessa uno sguardo
irritato.
"Pietro Arbues!" riprese ben tosto Francesca di Lerma, il cui viso si accese
ad un tratto di collera e di gelosia, "hai tu dunque pensato che io dovessi
essere la guardiana delle tue innamorate? questa ragazza è partita, che
t'importa?
falla cercare da' tuoi birri, da' tuoi famigliari! manchi dunque di spie in
Siviglia da non trovar una donna che ti fugge?"
"Dolores è qui, ed io voglio vederla!" gridò Pietro Arbues con voce tonante.
"Dolores Argoso non è qui," rispose la badessa con rabbia fredda e
concentrata; "e se vi fosse, io non ve la consegnerei, intendete
monsignore?"
"Per Cristo! avete la temerarietà, signora, di scherzare con l'Inquisizione?
Sai tu quello che io posso, e quello che io sono, Francesca di Lerma? lo sai
tu?"
"Io so che voi siete un prete abominevole," gridò Francesca esasperata; "un
monaco impudico, il quale non cerca che soddisfare le sue passioni brutali a
qualsiasi prezzo."
"Olà! Francesca di Lerma, santa badessa delle Carmelitane, che direbbe a voi
la Spagna se conoscesse la vostra dissolutezza?"
"Oh! è vero," ella disse con un gesto di spavento, "è vero, io sono una
miserabile che nasconde il vizio sotto il suo abito, e che fra le mura del
chiostro cova senza timore le passioni divoratrici che Dio le ha dato.ma chi
dunque ha depravato l'anima mia? chi mi ha detto, quando tremante ed
umiliata, io mi accusava umilmente ai tuoi piedi del ricalcitrar della
carne: -Dio permette che si soddisfacciano i bisogni dei sensi, purché sia
con me?[11]Chi m'ha detto questo, Pietro Arbues? chi ha passato sui miei
rimorsi la sua scellerata ed ingannevole morale per appianarli, come la
falce al livella l'erba dei campi? chi ha acceso nel mio seno quelle
passioni ardenti che nel tempo della mia innocenza non si rivelavano a me,
che quai lampi subitamente repressi dalla mia coscienza? Tu, sempre tu, le
inclinazioni sfrenate hanno alimentato le mie; tu, che io ho avuto la
debolezza d'amare!.."
Durante questo energico discorso della badessa delle Carmelitane,
l'inquisitore
vide sopra una seggiola la bibbia protestante che Caterina aveva dimenticato
di portar via. Egli lesse rapidamente il titolo impresso sulla coperta: a
tal vista un lampo sinistro refulse nei suoi occhi, e, stimolato da un
pensiero infernale, prese il libro e lo nascose sotto la sua tonaca. Poscia,
alzando gli occhi su Francesca, troppo esaltata per essersi avveduta di
questo stratagemma, Pietro Arbues cominciò a considerare con aria singolare
di concupiscenza e di ammirazione quella donna ardente ed appassionata, che
la collera rendeva più bella ancora. Un vivo rossore animava la carnagione
bianca e pura di Francesca, ed i suoi occhi scintillavano di una luce sì
viva, che sarebbesi detto uscirne de' lampi.
La collera dell'inquisitore si calmò un momento a quest'abbagliante
spettacolo. Mai Francesca di Lerma non gli era sembrata sì bella. Il viso
austero di Dolores, la cui espressione casta e severa allontanava i desideri
in luogo di destarli, non poteva lottare in quel momento con la bellezza
incomparabile della badessa delle Carmelitane. Per un uomo carnale il
confronto tornava a tutto vantaggio di Francesca; e poi Dolores era assente.
Gli uomini che vivono per i sensi non hanno gli occhi dell'anima, il
presente ha tutto l'impero di essi, e quello li domina che fa vibrare le
fibre materiali del loro essere.
"Oh! quanto sei bella, Francesca!" esclamò Pietro Arbues, che la contemplava
da qualche istante con muta ammirazione. Quella passione sfrenata conveniva
alla sua natura selvaggia, ed il miscuglio di rimorsi che vi si lasciava
intravedere, era una pungente attrattiva in più.
"Bella peccatrice!" continuò egli prendendo fra le sue la candida mano della
monaca, che la collera aveva reso fredda come il marmo.
"Pietro," disse la monaca, cadendo in ginocchi pallida e sorpresa da una
subitanea reazione; "Pietro, io ho paura.paura dell'inferno!."
"Pazza," disse il prete, "si può aver paura dell'inferno quand'uno è in
cielo!"
Una nube passò sugli occhi della badessa smarrita.
Pietro aveva obliato Dolores.
XVI. La melopia[12].
Dopo che ebbe visitato con Estevan i villaggi più poveri dei dintorni di
Siviglia, l'Apostolo si risolse di limitare là il suo viaggio. Era inquieto
per Dolores, e la festa della Pentecoste era vicina, epoca in cui si
celebrava d'ordinario un atto-di-fede; temeva che fosse giunto il momento in
cui bisognerebbe, non salvare il disgraziato governatore di Siviglia,
(Giovanni d'Avila non osava sperarlo), ma tentarlo almeno, e consolare la
sventurata sua figlia se i suoi sforzi riuscissero infruttuosi.
Estevan divideva tutti i timori dell'Apostolo, ed i pericoli che li
attendevano a Siviglia erano una debole considerazione per quei due uomini
coraggiosi. Non temevano di perdere la loro libertà, che in quanto era utile
alla salvezza degli altri.
Si avvicinavano dunque alla città moresca, a piedi tutti e due, come i
profeti della giudea, ingannando le loro inquietudini e la lunghezza del
cammino in forza di considerazioni gravi e religiose, animandosi l'un
l'altro
a seguire coraggiosamente il loro pellegrinaggio terrestre. La foga di
Estevan piegava sotto la dolce autorità di Giovanni d'Avila; il giovane
apprendeva da lui a lottare con pazienza e con rassegnazione.
Erano circa a sei ore della sera.
Immensa popolazione circolava per le strade; era l'ora in cui gli
innumerevoli monasteri di Siviglia distribuivano la melopia ai mendici ed ai
vagabondi della città. Dopo che i monaci avevano tolto tutto a quei
disgraziati, era il meno che potessero dar loro da mangiare.
Estevan e l'Apostolo si trovavano in quel momento in faccia a un convento
dei monaci della Mercede[13].
La folla era grande nella strada, poiché non mancavano mendici in Siviglia,
e nel suo ardore ad esser servito per primo, ciascuno cercava di aprirsi un
passaggio a spese del suo vicino, di maniera che quella folla compatta
chiudeva intieramente il passaggio.
"Fermiamoci un istante," disse Giovanni d'Avila; "aspettiamo che quei poveri
affamati siano pasciuti; continueremo poi la nostra strada."
Si ritirarono di alcuni passi; e andarono rasente al muro per veder tutto
senza disturbare alcuno. A poco a poco quell'agglomerato d'uomini divenne
più compatto; si serravano gli uni contro gli altri parlando ad alta voce, e
in fretta: non si udiva che un rumore sordo e confuso di voci discordi, fra
cui il tuono che dominava maggiormente era quello di una collera impaziente;
sarebbesi detti altrettanti cani ringhiosi che aspettassero il loro pasto.
Tutto ad un tratto quello spiacevole mormorio si cangiò in mormorazioni di
giubilo vive e prolungate: quella massa d'uomini parve non formare
altrimenti che un corpo immenso con centinaia di teste dirette verso il
medesimo abbietto da una sola volontà.
La porta del convento erasi aperta.
Due fratelli laici, giovani e robusti, portavano su di un grosso bastone
passato nei due anelli un enorme paiolo di rame, ove bolliva ancora la
diletta melopia. Allora avresti veduto tutte quelle braccia e tutte quelle
mani agitarsi convulsamente, alzando in aria la scodella di legno destinata
a ricevere la profenda. Grida rauche, urli feroci accolsero l'apparizione di
quella vivanda: sarebbesi detto che tutti quei disgraziati si gettassero
sopra insieme per divorarla; ma in quell'istante comparve un terzo frate
laico. Questi era armato di un enorme cucchiaio da minestra, e vestito di
una tonaca sì sporca, che non se ne poteva più distinguere né la stoffa né
il colore.
"Ai vostri posti!" gridò con voce tonante.
Bentosto ciascuno si pose in fila mormorando fra i denti; sarebbesi detto il
grugnire di un cane a cui sia stato tolto un osso.
"Ve n'è per tutti, state cheti," gridò nuovamente il frate dispensatore.
Quest'asserzione fece tacere, come per in canto, tutte quelle voci
mormoranti. La distribuzione cominciò. E siccome tutte le scodelle erano
della stessa grandezza, niuno poteva lamentarsi, v'era una imparzialità
completa nella distribuzione della melopia, corruzione di mesclopia
(mescolanza). Ed invero era la mescolanza più immonda, il rifiuto della
tavola dei monaci, dei residui rosi e masticati, bolliti in acqua con un
poco d'olio o dei pezzi di lardo. Bisognava essere cane o gitano per
toccarla.
Ma la fame, la fame!.e tutte quelle persone avevano fame.
Per ciò era un piacere vederle mangiare la loro porzione senza maggiore
disgusto che noi non abbiamo ad inghiottire un'eccellente minestra; ma a chi
sapeva il fondo delle cose, faceva pure pietà il vedere quel povero popolo
di Spagna ridotto di tal guisa dalla più degradante di tutte le miserie.
"Quale strano miscuglio!" esclamò ad un tratto Estevan, che cercava invano
indovinare di che si componesse quel brodetto di tutti i colori che non
aveva alcuna forma distinta, e che esalava un odore nauseabondo di grasso
bruciato e di olio rancido. "Sì strano infatti," rispose Giovanni d'Avila
con tristezza, "se sapeste di che si compone!"
"Di che dunque, Padre mio?" lo sapete voi?"
"Quando i monaci hanno pranzato," proseguì l'Apostolo, "essi gettano a quel
povero popolo gli ossi che non vogliono, come si getterebbero ai cani. I
fratelli laici ammassano in quel paiolo che vedete là, tutto ciò che la
sensualità dei monaci fa loro rigettare al margine del loro piatto, gli ossi
mezzo rosicati, le teste dei pesci, le zampe dei volatili, gli asparagi, di
cui non fanno che magiare la punta, tutto ciò, in una parola, che vien da
loro rifiutato. Fra questi avanzi si trova sempre qualche cosa da masticare;
poi si taglia del pane in quel paiuolo, vi si versa dell'acqua ed un poco
d'olio;
tutto ciò bollito a fuoco per un quarto d'ora, si chiama la melopia, la
quale fa vivere un quarto almeno della popolazione della Spagna.
"Quale indegnità!" esclamò Estevan.
"Ciò non è tutto," continuò Giovanni d'Avila, "i monaci non si contentano di
governare la miseria dei poveri, perché i poveri non han più nulla da dar
loro, e questo pasto immondo, ch'essi gettano loro ogni giorno, non è che
una sembianza di restituzione per tutti i beni che han loro derubato; sono i
ricchi che si possono governare con vantaggio: per costoro i monaci hanno
inventato la melopia interna."
"Che cos'è questa?" domandò Estevan.
"Figlio mio, quando un ricco è malato fa chiamare il suo medico, ma più
sovente egli consulta eziandio il suo confessore. -Io soffro, dice il
malato. -Fate un voto, risponde il confessore. -Questo voto consiste, per
ordinario, a vivere di elemosine durante un certo tempo. Ebbene in tutti i
conventi di Spagna v'ha una tavola sanamente ed abbondantemente servita,
alla quale vengono a mangiare gratis tutti coloro che han fatto voto alla
melopia. Una dieta sana e regolata produce d'ordinario felici resultamenti;
la sanità del ricco migliora, e nel terminare il suo voto lascia una larga
ricompensa al convento, benedicendo Dio che si è degnato di guarirlo. Ecco
come s'impiega la religione, figlio mio[14], ecco come questi farisei
vendono la grazia di Dio, la quale non si ottiene che per la preghiera, la
purità del cuore o le lacrime del pentimento. ecco come falsano lo spirito
di un popolo generoso, entusiasta, amante del meraviglioso, che cerca per
tutto miracoli, che gli si fanno vedere per mezzo di grossolani sotterfugi;
come se la creazione intiera non fosse un eterno miracolo! come se la mano
invisibile, che fa tutto muovere, avesse bisogno di mezzi umani per compiere
la sua suprema volontà!"
Mentre l'Apostolo terminava queste parole, arrivò un mendico, che, armato
della sua larga scodella, veniva a prendere la sua parte del pranzo comune.
"E' finita, non ve n'è di più," gli disse un giovane che inghiottiva la sua
porzione con una voracità indegna d'un Andalusiano[15].
"Tanto peggio per la melopia," rispose fieramente il vagabondo, guardando
l'assemblea
con uno sdegno superbo. E si mise a cantare come se avesse fatto il miglior
pasto del mondo. "Pover'uomo!" disse Estevan, "ei dunque non mangia questa
sera? bisogna convenire che quel povero è molto infelice."
"Non tanto quanto potreste crederlo; l'Andalusiano è poeta per essenza, ma
tardo, indolente e contemplativo, come in tutti gli esseri in cui domina la
immaginazione. Per lui i bisogni del corpo son pochi, la materia è
subordinata allo spirito; così, in mancanza di alimento alle facoltà della
sua intelligenza, si immerge in una immensa oziosaggine, o si abbandona ad
un vagabondaggio inaudito, secondo le alternative di ardore o di apatia che
succedono d'ordinario nelle ricche organizzazioni. Aggiunge a questo un
immenso orgoglio, nato dalla coscienza che ha del suo proprio merito; i
cattivi trattamenti non lo domano, questi non fanno che sottomettere la
materia. Tali persone attendono il regno dello spirito, il solo che possa
sviluppare i loro buoni istinti e le loro virtù naturali."
"Qual danno," disse Estevan, "qual danno di lasciare abbrutire queste vive
immaginazioni di tal guisa, queste anime esaltate e generose, se fossero
dirette verso il bene!"
"Senza dubbio, figlio mio; è questo un delitto di lesa maestà divina, è un
misconoscere la grandezza di Dio in esseri formati alla sua immagine;
abbrutire, avvilire il popolo, è rovinare una nazione dalle fondamenta; è
preparare sordamente la mina che un giorno finalmente scoppia in rivoluzioni
ed in guerre civili.
"Padre mio," disse ad un tratto Estevan, guardando con ammirazione la bella
figura dell'Apostolo, raggiante di tristezza, di santa collera e di amore
per l'umanità; "Padre mio, perché dunque vi siete fatto monaco?"
"Per lottare," rispose Giovanni d'Avila, "per conoscere a fondo la piaga
nascosta che divora la Spagna, e portare la mia pietra al nuovo edifizio che
deve elevarsi un giorno sulle rovine del fanatismo e della persecuzione[16].
"Ma i tempi non sono arrivati," esclamò con dolore, "e troppe nubi
nascondono ancora il sole della libertà, perché possa rischiarare la
Spagna.non importa," proseguì con entusiasmo; "la rigenerazione di un popolo
è l'opera lente dei secoli: l'uom non raccoglie sempre i frutti dell'albero
che ha piantato. Guai a colui che non semina che per sé, e spera la sua
ricompensa quaggiù!".
"Padre mio, disse il giovane, "voi non somigliate alla maggior parte dei
riformatori, i quali di ordinario, lavorano per sé e per la gloria, senza
pensare seriamente alla felicità di coloro che vengono a rigenerare."
"Figlio mio, quello solo è degno d'esser chiamato riformatore, il quale fa
astrazione da sé medesimo, ed apporta felicità agli uomini a spese pure
della sua propria felicità, e, se abbisogna, a costo della sua vita. Io non
conosco che un riformatore degno di questo nome, questi si chiama Cristo.
Noi tutti che lavoriamo a propagare questa sua sacra dottrina o a
ristabilirla quando è stata falsata, non siamo che suoi mandatari."
Il popolo aveva finito il suo pasto. A poco a poco la via era divenuta
libera. Giovanni d'Avila proseguì il suo cammino con Estevan.
Mentre si avvicinavano ad un gruppo di mendici, occupati ad improvvisare
delle strofe[17] dopo aver vuotata la scodella, Giovanni d'Avila si sentì
fermare per la manica del suo vestito, e, volgendosi, riconobbe la sirena.
"Perdoni, Vostra Beatitudine," disse la giovane; "ma io sono stata presso di
lei, e non ho trovato nessuno."
"Che c'è dunque?" domandò Estevan, comprendendo che si trattava di Dolores.
"Sappia, Vostra Reverenza," proseguì la Colubrina, indirizzandosi sempre
all'Apostolo,
"che la giovane signora che ella ha preso sotto la sua protezione, è venuta
alcuni giorni sono, alla taverna della Graziosa."
"Come mai!" gridò l'Apostolo, "Dolores avrebbe lasciato il convento delle
Carmelitane?"
"Non lo so," disse la sirena, "ma fatto sta che l'ho veduta co' miei occhi
entrare nella taverna."
"Ne sei sicura?" domandò Estevan con inquietudine.
"Come della mia morte, signore, io l'ho perfettamente riconosciuta,
quantunque fosse vestita come una donna del volgo, ed il suo viso fosse
pallidissimo."
"Oh Dio mio! qual nuova sventura l'ha colpita?" "Corriamo, Padre mio!" gridò
Estevan.
"Imprudente!" disse l'Apostolo, "non sapete voi che la taverna è il luogo
ove i famigliari dell'Inquisizione si danno appuntamento? andrò solo o
meglio, ci manderemo prima questa giovane."
"Colubrina," disse, volgendosi verso la sirena, "va subito da Gioachino, e
torna a dirmi ciò che è accaduto alla signora Dolores."
"Dove troverò Vostra Beatitudine?"
"A casa mia," rispose Giovanni d'Avila; "va, figlia mia, e Dio ti
accompagni. La sirena partì come fulmine. Estevan e Giovanni d'Avila
affrettarono il passo per giungere più presto a casa di quest'ultimo.
XVII. La cavalcata.
Presso la gran piazza di Siviglia, in una via appartata che scorre lungo uno
dei lati della cattedrale, si vedeva una casetta bassa, le cui mura di
mattoni rossi e certi ornamenti di architettura attestavano che era stata
fabbricata nelo stesso tempo che l'Alhambra[18].
Si entrava in questa casa per una porta centinata, stretta e bassa, e niuna
apertura apparente le dava luce sulla strada. Tuttavia, alcuni piedi al di
sopra della porta era praticata un'apertura quadrata assai larga, per
potervi passare la testa, e che si chiudeva internamente per mezzo di una
massa di mattoni riuniti della stessa dimensione dell'apertura, la quale
veniva chiusa sì perfettamente, che nessuno avrebbe sospettato nel muro
questa apertura, che si chiudeva come una tomba.
La casa non aveva che un sol piano, un terrazzo in cui non si vedeva mai
nessuno, e al di dietro un giardinetto chiuso da mura sì alte, che dalle
case vicine lo sguardo non potesse penetrarvi. Quel giardino, o meglio quel
pozzo, poiché ne aveva la forma, era pieno di verdura e di fiori che
crescevano malgrado l'assenza del sole, tanto l'aria è calda e la terra
feconda nell'Andalusia. Si diceva che quella casa fosse appartenuta, al
tempo dei Mori, ad un Santone. Nell'epoca in cui accadevano gli avvenimenti
da noi narrati, era abitata da una donna già attempata, molto religiosa,
molto assidua alla chiesa, ma che non riceveva nessuno, fuorché un giovane
prete Domenicano, che si supponeva essere il suo confessore.
Dapprima aveva destato meraviglia una vita così solitaria; ma siccome quella
donna era in regola in faccia all'Inquisizione, si era terminato con
attribuire il suo carattere solitario ad una devozione eccessiva, e niuno
s'avvisava
di biasimarla. Non si sapeva da qual paese fosse venuta; abitava la casa del
Santone già da alcuni anni. Tuttavia si giudicava dal suo vestire e dalle
sue maniere che fosse Spagnuola puro sangue.
Era mezzogiorno.
In una salettina, che dava sul giardino, due donne parlavano fra loro,
occupandosi d'opere d'ago. Una di esse, che aveva più di cinquant'anni, era
dotata di una fisionomia dolce e grave, esprimente profonda tristezza; un
segreto doloroso sembrava gravare su quella fronte pallida, tutta coperta di
bianche capelli; una lotta lunga e crudele aveva solcato quel viso che
poteva essere stato sì bello e curvato leggermente quell'alto personale.
Questa donna si chiamava Giovanna, ed era la padrona di casa. L'altra, nel
fiore della prima giovinezza, pareva trista ed abbattuta quanto essa; era
Dolores.
Tale era l'asilo in cui Josè l'aveva nascosta. Giovanna era la nutrice del
giovane Domenicano.
"Non ho veduto mio figlio ieri," disse ad un tratto la vecchia: "sarebbe
forse malato il mio povero Josè?"
"Verrà oggi senza dubbio," replicò la figlia del governatore; "non m'ha
promesso di recarmi notizie dell'Apostolo?"
"E lo farà, siate tranquilla," disse Giovanna; "il mio Josè ha un cuore
angelico; ei non ha fatto mai che del bene."
Così dicendo, Giovanna asciugò due lagrime che scorrevano sulle sue guance
rugose.
"Andiamo, figlia mia," proseguì smettendo il suo lavoro, e posando sulla sua
seggiola; "è tempo di pranzare; lasciate dunque il vostro drappo, e ponetevi
a tavola."
"Non ho fame," disse modestamente Dolores.
"Ma bisogna mangiare per vivere.per avere la forza di vivere," proseguì
amaramente la vecchia. Nel medesimo tempo disponeva sopra una tavola angusta
alcune vivande semplici ma abbondevoli, riso in minestra, agnello arrostito
e frutta. Dolores si alzò lentamente, e andò ad assidersi davanti la tavola
piuttosto per ubbidienza, che per bisogno.
Faceva caldo, tutto in quel momento era silenzioso attorno alla casa, ed in
quel ritiro, sì ben chiuso, uno si sarebbe potuto credere lungi dalla città.
Tutto ad un tratto il suono di una banda strepitosa rimbombò da lontano.
Dolores trasalì sulla sua seggiola, e mandò lungi da sé le vivande che le
venivano apprestate.
"Che avete??" domandò Giovanna con premura; "che avete, figlia mia?"
"Ascoltate!" disse Dolores Spaventata, fissando i suoi occhi vaganti ed
esterrefatti sul viso di Giovanna; ascoltate, madre mia, non udite?."
La banda rimbombò di nuovo più rumorosa e più animata, perché si avvicinava,
ed a quel rumore si mescolava uno scalpitio di cavalli.
"Ebbene!" disse Giovanna fingendo di non comprendere; "che v'importa di
questo rumore, figlia mia?"
"Questo rumore, madre mia, è quello che annuncia la marcia trionfale
dell'Inquisizione,
non comprendete, il re dei carnefici[19] passeggia nelle strade annunziando
alla città che la sua mano non è rimasta inattiva, e che ha fatto la sua
messe di vittime per il prossimo atto-di-fede; non udite, madre mia?."
"Credo che v'inganniate," disse Giovanna tremando.
"Oh! No, non m'inganno, ascoltate,"
La cavalcata era giunta sulla gran piazza, ed il rumore degli strumenti, più
sonoro e più distinto, arrivava ora ai loro orecchi.
"Venite, venite!" gridò Dolores, trascinando la vecchia e forzandola a
seguirla al primo piano della casa; "venite a vedere, madre mia!"
E giunta nella camera che dava sulla strada, e dalla quale potevasi vedere
una parte della gran piazza, Dolores tolse prestamente la pietra che
chiudeva l'apertura praticata nel muro.
"Che fate? Gran Dio!" esclamò la vecchia.
"Non temete, madre mia, niuno se ne avvedrà; essi hanno troppo da fare a
guardare il corteo dell'inquisitore."
Giovanna allora, trasportata essa pure della curiosità, guardò attraverso
l'apertura.
La piazza era piena di gente.
Il grande inquisitore Pietro Arbues, coperto da una lunga veste violetta, e
montato sopra un cavallo bianco della razza più pura, che camminava pomposo
sotto il suo cavaliere, si avanzava seguito dal suo corteo. La bella figura
dell'inquisitore, fiera, superba ed espressiva, il suo aspetto personale,
che sdegnava di curvare, imponevano al popolo, quanto la sua dignità.
Pietro Arbues era apertamente e francamente despota a forza d'audacia,
poiché non vi era al mondo anima più perfida della sua, quando le passioni
l'esigevano.
Ma nella vita ordinaria disprezzava troppo gli uomini, stimatasi troppo
superiore per discendere fino all'ipocrisia.
Facevano seguito a Pietro Arbues[20] gli altri inquisitori a cavallo come
lui, ma vestiti di nero. Una truppa di guardie del corpo scortava quella
cavalcata.
Il popolo s'inchinava e s'inginocchiava sul passaggio del santo corteo: i
volti divenivano pallidi, ed un silenzio di morte regnava in quella folla
inginocchiata.
Giunto nel mezzo della piazza il grande inquisitore si fermò. Poscia con
voce sonora, che crecava di render pia e convinta.
"Fratelli," disse, "fra un mese la santissima Inquisizione farà giustizia
degli eretici che disonorano la divina religione del Nostro Signore. Un
grande atto-di-fede avrà luogo per celebrare i successi del nostro gran re
Carlo V. in Fiandra, ed il suo zelo contro l'eresia. Pregate, fratelli,
perché Dio ci sveli tutti gli eretici, anche coloro che non lo sono nel
fondo del cuore, e denunziate voi stessi quelli che conoscete se volete
meritare le indulgenze promesse a questo effetto da Sua Santità il papa."
"Oh mio Dio!" gridò Dolores. "che diverrà di mio padre?"
Il popolo non rispose al proclama dell'inquisitore, che con grandi segni di
croce.
La banda suonò di nuovo.
"Padre mio!" ripeté la figlia del governatore, agitandosi nella camera come
un'insensata.
"Calmatevi," disse Giovanna, "tra poco verrà Josè, non temete nulla."
Dolores tornò alla finestra. Il corteo lasciava la piazza, e si avvicinava
alla casa.
"Toglietevi dunque di là!" disse Giovanna spaventata; ora passeranno di qua,
e vi vedranno. Dolores, Dolores, ascoltatemi!"
Ma Dolores non l'ascoltava. Con gli occhi invisibilmente attaccati
sull'inquisitore,
sembrava che volesse leggere sul viso di lui la sorte di suo padre e la sua.
Il corteo era quasi sotto la casa.
Dolores aveva sempre il viso volto verso la strada. La camera era molto
oscura. Tuttavia nella penombra in cui si trovava il profilo delicato della
giovane si disegnava vagamente sul muro dell'apertura. Nel passare, Pietro
Arbues alzò la testa; ma in quel momento Giovanna, prendendo Dolores per la
vita, riuscì ad allontanarla dalla finestra. L'inquisitore trasalì sul suo
cavallo; fissò di nuovo i suoi sguardi sull'apertura in cui quell'incerto
sembiante gli era comparso, ma più pronta del lampo Giovanna aveva riposta
la pietra. Invece dell'apparizione che lo aveva colpito, Pietro Arbues non
vide più che un muro uniforme, una casa senza finestre. Ei si credette in
balia di un sogno, e volgendosi verso un famigliare ch'era ad alcuni passi
dietro di lui.
"Sai tu," gli disse; "a che appartenga quella casa?"
I famigliari sapevano tutto.
"Eminenza, è la casa di una povera vedova, a cui don Josè fa l'elemosina."
"Son pazzo," pensò l'inquisitore "ma io vedo questa donna per tutto."
Il corteo proseguì il suo cammino.
Giovanna depose sopra un seggiola Dolores svenuta. Il suono della musica si
perdeva allontanandosi. Dolores era sempre priva di sentimento.
Inginocchiata davanti ad essa, Giovanna le strofinava vivamente le mani, e
le bagnava il viso con acqua fresca.
Sola e non osando chiamare nessuno, essa principiava a concepire delle
inquietudini, quando la porta esteriore della casa si aprì con un rumore
leggero, qualcuno montava la scala con passo rapido.
"Sia benedetto Iddio," gridò Giovanna, "questo non può essere che Josè."
Infatti era Josè; nel momento in cui entrava nella camera Dolores aprì gli
occhi, mandando un lungo sospiro.
"Che è accaduto, nutrice?" domandò Josè.
"Padre mio! Padre mio!" gridò Dolores, vedendo il giovane Domenicano; "don
Josè! vedete bene che vogliono uccidere mio padre!"
"Rassicuratevi, Dolores, " disse Josè con dolcezza, "chi vi dice che si
voglia uccidere vostro padre?"
"Non ho udito testé quelle grida di morte? Non si è proclamato un prossimo
atto-di-fede!"
"Che prova ciò?" replicò il giovane Domenicano. "Se vostro padre fosse
designato per farne parte, non son qua io per vegliare?"
"Oh! Voi m'ingannate, don Josè, la vostra pietà crudele v'impegna a
nascondermi la verità. Non so forse che l'inquisitore ha sete del sangue di
mio padre, e che lo farà morire!"
"Calmatevi ed ascoltatemi," disse Josè, avvicinandosi alla fanciulla.
"No, io non vi credo!" gridò con esaltazione crescente; "non portate voi
pure l'assisa dell'Inquisizione? Ebbene! Lasciatemi, io non ho bisogno di
voi per salvare mio padre; anderò a gettarmi ai piedi di monsignore Arbues;
abbraccerò le sue ginocchia; pregherò e piangerò tanto, che se la sua anima
non è dura come uno scoglio, si lascerà intenerire, e mi renderà mio padre."
"Povera insensata!" disse Josè con voce amara, guardando Giovanna che
piangeva; "gli inquisitori han forse un'anima? Sanno essi ciò che vuol dire
avere un padre, una madre, un'amante, una sorella? Qual mai affetto ha fatto
scuotere le loro viscere di marmo? Conoscono essi adunque altre sensazioni,
che desiderii lascivi, feroci e spietati; delirii mostruosi di una lussuria
sfrenata, sete di sangue, spettacoli d'agonia?"
"Anderò! Anderò!" ripeteva Dolores, più infiammata ancora a quella pittura
terribile, ma palpitante di verità.
Nello stesso tempo si alzò sostenuta dall'esaltazione e respingendo Giovanna
che cercava di calmarla stringendola dolcemente fra le braccia.
"Lasciatemi," ella disse, "voi siete tutti collegati per ingannarmi; voi mi
avete rinchiusa qui come in una prigione, perché il rumore degli avvenimenti
non potesse arrivare fino a me; ma Iddio ha sventato i vostri progetti, ed
io ho saputo ciò che volevate nascondermi. Lasciatemi dunque, lasciatemi
libera, con qual diritto mi tenete qui prigioniera?" esclamò gettando sul
giovane Domenicano uno sguardo fiero e di corruccio.
Josè si tacque; egli era commosso e pallidissimo. Giovanna lo guardò con
aria che voleva dire: questa povera fanciulla diviene pazza.
"E' più felice di me!" disse piano Josè.
Giovanna, lasciando allora Dolores, andò ad assidersi all'altro estremo
della camera.
La fanciulla, vedendosi libera, si fermò, e si mise a considerare Josè, il
cui viso pallido e bello faceva fremere di pietà.
Giovanna piangeva, que' due esseri sofferenti somigliavano più a vittime,
che a carnefici. L'occhio di Dolores perdette tutto il suo splendore; si
gettò, stanca, sopra una seggiola: quel grande accesso di collera era
terminato. Josè allora le si avvicinò.
"Perdonatemi," ella disse; stendendogli la mano; "io sono stata ingiusta; il
dolore toglie la ragione; perdonatemi, don Josè, ma ve lo dichiaro ora con
calma, la mia risoluzione è irrevocabile: voglio andare a gettarmi a' piedi
del grande inquisitore, io lo debbo; debbo tentar tutto per salvare mio
padre, e non si dirà mai che sono stata vile."
"Voi non lo farete, Dolores!" escalmò con forza il giovane Domenicano.
"Oh!" disse Giovanna, "abbiate pietà di voi stessa."
"Io non temo nulla," rispose la giovinetta con nobiltà: "ho forse paura
della morte io?"
"Ma voi avrete paura dell'infamia!" gridò energicamente Josè; "non conoscete
dunque l'inquisitore di Siviglia?"
"Oh! È vero," rispose spaventata, "io non aveva pensato a questo."
"Ebbene," continuò Josè, "seguite dunque i miei consigli; seguiteli, Dolores
o, per l'anima mia, siete perduta!. lasciate agire i vostri amici, basta una
vittima; vi perdereste senza frutto, e questo sacrificio non servirebbe a
nulla per colui che volete salvare."
"Oh! Se almeno sapessi dov'è Estevan!" disse la figlia del governatore con
una disperazione ineffabile.
"Lo saprò io, ve lo prometto. Estevan è, come me, occupato di voi sola:
siate dunque tranquilla, e contate sopra di noi: Voi siete qui in
sicurezza," aggiunse, "non vi provate ad uscire; è il solo luogo di
Siviglia in cui l'Inquisizione non verrà a cercarvi."
Malgrado le consolazioni di Josè, Dolores restò immersa in un profondo
abbattimento.
"Tornerò bentosto," le disse, lasciandola, il giovane Domenicano. Giovanna
l'accompagnò
fino alla porta esterna.
"Mia buona Giovanna," disse Josè, "invigila bene su questa fanciulla, guarda
che non esca giammai.abbastanza vi sono vittime come questa," proseguì con
amarezza.
"O mio nobile figlio!" disse la nutrice, serrandolo con forza contro il suo
petto, "che Dio benedica il vostro coraggio!"
"Ti sembra adunque che io sia indebolito?" replicò vivamente il monaco.
Giovanna non rispose, ma essa volse la testa per nascondere le lacrime.
"Non temer di nulla, "gridò Josè, stringendole la mano con energia, "non
temer di nulla, Giovanna, io arriverò al mio scopo!."
XVIII. La collera del popolo.
Era già notte.
Lasciando Dolores, Josè si diresse verso il palazzo dell'inquisitore.
Bisognava, per arrivarvi, attraversare la strada in cui dimorava il
governatore di Siviglia. Avvicinandosi a questa, Josè fu sorpreso di vedere,
a quell'ora, un grande radunamento di popolo assediare gl'ingressi del
palazzo del governatore.
Un rumore vago d'imprecazioni e di minacce, proferite da voce rauca, sorda e
terribile, correva come soffio di tempesta fra quei gruppi irritati.
Sarebbesi detto il sibilar del vento in una foresta di quercie.
Non grida acute, non quei rumori varii e discordanti, che in Francia
scoppiano nelle sommosse ed esalano subito la collera di un popolo, che si
evapora in tal modo presto come fumo.
Il popolo di Spagna, sì oppresso, sì paziente, sì tranquillo, faceva udire
sotto la torsione più forte il rumore del ramo che si vuol rompere, e che
resiste. E di più, non era per sé stesso che quel popolo reclamava in quel
momento i diritti dell'umanità e della giustizia: egli sapeva soffrire e
morire senza lagnarsi; protestava contro un atto iniquo dell'Inquisizione.
Aveva nel cuore il sentimento del giusto e dell'ingiusta, e se ha tollerato
per tanto tempo il giogo del dispotismo, è che al di sopra del potere umano,
che lo perseguitava,gli si mostrava un potere più grande, quello di Dio, e
questo popolo, che non sapeva di Dio se non quel tanto che gli avevano
insegnato i suoi persecutori, adorava quell'essere sovrano tale quale gli
veniva mostrato, e sottomettevasi senza mormorazione, a coloro che
riguardava come suoi ministri.
Non era l'intelligenza che mancava agli Spagnoli, era la luce, e la luce non
si lasciava giungere fino ad essi: ecco perché la Spagna si è dibattuta per
tanto tempo nei lacci inestricabili dell'ignoranza e dei pregiudizi.
Tuttavia, malgrado le più grandi persecuzioni, lo spirito di investigazione,
che tende incessantemente verso la verità, si è sempre agitato nell'anima
retta ed intelligente degli Spagnuoli; e in mezzo alle torture stesse
dell'Inquisizione
e del dispotismo dei re, ha mandato talvolta scintille brillanti, che di
tempo in tempo hanno rischiarato la Spagna di luce fuggitiva: emanazioni
divine, frammenti del grande insieme, che si manifestano alla terra sotto
forme e nomi umani, come vigili sentinelle appostate nella vita delle
nazioni da colui che governa il mondo, per impedire ad un gran popolo di
perire ed inabissarsi nelle tenebre dell'ignoranza.
Una quantità di uomini e donne esaltate si avanzavano verso il palazzo del
governatore di Siviglia, illuminato da una sola lampada.
La notte era oscura.
Quella massa vivente si avanzava in modo lento, quindi era brutalmente
respinta sopra sé medesima da un'altra folla che veniva dal lato opposto;
sarebbesi detto le ondulazioni dei marosi. Andavano verso il palazzo del
nuovo governatore. Il popolo di Siviglia, stanco dell'amministrazione iniqua
di Enrico, aveva finalmente concepito il desiderio di vendicarsi. Questa
collera del popolo, sorda; contenuta, ma perseverante, implacabile, era
spaventevole a vedersi.
La sommossa era stata sì subitanea; sì poco rumorosa, che non vi era stato
tempo di opporle la forza armata; avanzatasi verso il palazzo del
governatore come quelle trombe invisibili che cadono sulla terra con la
rapidità del pensiero.
Tuttavolta alcune guardie accorrevano da diversi lati, e qua e là dei cupi
garduni guardavano la sommossa senza prendervi parte, pronti a vendere i
loro soccorsi al maggiore offerente.
"Donde viene questo assembramento?" domandò Josè ad un familiare del
palazzo, che accorreva in tutta fretta, mandato da Sua Eminenza per
assicurarsi del fatto.
"Reverenza, non è altro che una vecchia ebrea che è stata arrestata."
"Reverenza," gridò una coraggiosa donna del volgo, che aveva udita la
risposta del famigliare, "quest'ebrea era buona cattolica quanto voi e me;
ma aveva un servitore infedele, che ha scacciato ignominiosamente ed egli
l'ha
denunziata come eretica giudaizzante[21]."
"Come chiamate voi questa donna?" domandò Josè.
"Maria di Borgogna, Reverenza; ha più di ottant'anni, ed è una santa che
dava tutto il suo bene ai poveri. Noi la chiamavamo nostra madre; ecco
perché, quando si è saputo ch'era nelle prigioni del Sant'Uffizio, ci siamo
tutti portati al palazzo del governatore; perché è lui che l'ha fatta
arrestare."
Il famigliare stava per dare ordini contro la donna del volgo; Josè gli fe'
cenno di ritirarsi: non era il momento di usare violenza. Il famigliare si
diresse da un altro lato, procurando di passare fra quella densa folla, che
gli opponeva un ostacolo quasi insormontabile; ma si propose di non
dimenticare il volto della donna imprudente che si era espressa con tanta
temerarietà.
"Io vi consigli," disse a bassa voce Josè a quella coraggiosa Andalusiana,
"di lasciare Siviglia al più presto possibile, le parole di poco fa
potrebbero costarvi caro."
"Lo credo," disse guardano il giovane Domenicano, e sorridendo amaramente;
"siete inquisitore voi pure!"
"Io sono indulgente, e amo questo popolo che soffre," disse Josè, "va, o
povera donna, e non temere di me."
La folla si faceva più furiosa e più densa davanti al palazzo del
governatore. Alcuni, armati di leve di ferro, cercavano di scuotere la porta
accuratamente barricata, mentre gli altri, alzando in aria i loro terribili
coltelli d'Albacete si preparavano ad una mortale difesa. Le ragazze stesse,
stringendo con la mano dritta il loro pugnale affilato, si gettavano avanti,
furiose ed animate da un sentimento d'indignazione, impossibile a
dipingersi.
Era bello e terribile il vedere tutte quelle cere brune, i cui occhi
scintillanti gittavano per tutto quasi orribili lampi, e quelle labbra
animate, che, a ciascuna parola di collera aprendosi per metà, lasciavano
vedere denti bianchi e splendidi come quelli della tigre.
Il carattere africano si era ridestato. Il sangue ardente dei Berberi del
deserto, non ancora intiepidito, attraverso otto secoli di generazione nelle
vene degli Andalusiani, bolliva ancora come lava.
L'odio, l'odio profondo, amaro, divoratore, li spingeva invincibilmente alla
rivolta. Avevano detto finalmente : Basta! e si scagliavano da disperati
contro quel governatore iniquo che il capriccio del grande inquisitore aveva
imposto alla città. Quell'uomo uscito dal volgo, che schiacciava ed
opprimeva il volgo.
Enrico, nascosto nel suo palazzo, d'onde non ardiva uscire; Enrico, così
vile al momento del periglio, come crudele nella prosperità, attendeva
tremando, un soccorso che non veniva.
Ciascun colpo di leva, che scuoteva la porta del palazzo, rimbombava come
suono di morte nel cuore di quel miserabile.
Inginocchiato nella sua camera, davanti un'immagine della Madre del
Salvatore, quell'ammirabile statuetta ch'aveva ornato il verginale oratorio
di Dolores, l'antico famigliare dell'Inquisizione, il confidente di Pietro
Arbues, mormorava, tremando, parole non intelligibili, vano e simulato
formulario di tutti coloro che adorano Dio solamente con le labbra. Enrico
si batteva il petto, accusandosi di peccati puerili, senza pensare in quel
momento supremo e terribile di domandare a Dio di assolverlo dei suoi
delitti.
Come i pagani di un giorno, Enrico in un accesso di fervore inspirato dal
timore della morte, promise alla Madre del Salvatore cento vittime di più
per anno agli atti-di-fede- della Inquisizione; fu l'unica espressione del
suo pentimento.
La porta del palazzo, massa pesante di legno, seminata di chiodi di ferro,
cedeva sotto i colpi raddoppiati di mille braccia robuste ed accanite; e
siccome non v'era stato il tempo di suonare la campana d'allarme per
avvertire le truppe, erano seicento uomini del popolo arditi e determinati
contro cinquanta famigliari o birri accorsi qua e là gli uni in seguito agli
altri.
Ben presto ai colpi sonori e ripetuti diretti contro la porta, successe uno
scricchiolio di legno e di ferro: la porta aveva ceduto, ed abbandonando i
cardini che la sostenevano, cadde contro il pavimento con un rumore
spaventevole.
In quell'istante un cupo silenzio successe, come per incanto, al grido di
trionfo mandato dal popolo al vedere la porta abbattuta. Quegli uomini, non
ha guari sì accaniti, restarono immobili davanti a quella barriera spezzata;
niuno osò varcare la soglia del palazzo del governatore.
Donde veniva quel miracolo sì agevolmente operato?
E' che ad una delle estremità della via dove cominciava l'adunamento,
Giovanni d'Avila era subitamente comparso.
"Che fate?" gridò con voce grave e tuonante, avvezza a rimbombare nelle
basiliche; "dove andate, insensati?.fermatevi!."
Quella parola era corsa di bocca in bocca; ed al nome dell'Apostolo il
furore di quel popolo, cedendo come un vento d'oragano alla voce
dell'Eterno,
erasi cambiato in adorazione. Il popolo si era ricordato che Giovanni
d'Avila
gli aveva raccomandato la pazienza, e promesso il cielo in ricambio.
Quel nobile e valente popolo di Spagna non si ribellava per turbolenza, per
inquieto desiderio, per vana bravata, no; era tranquillo e grave; la
pazienza e la mansuetudine aveva sede in quelle anime coraggiose. Quel
popolo aveva avuto per un momento la collera di un leone che vien torturato,
e si era rivoltato, ruggendo, contro la mano che non cessava di martoriarlo;
ma alla prima parola di dolcezza era ritornato alla sua grande e magnifica
obbedienza, l'obbedienza dell'essere forte che compie un dovere. La Sapgna è
stata sempre eminentemente cristiana. E se non le si fosse imposto il
fanatismo a forza di rigori e di persecuzioni, sarebbe stata forse la
nazione della terra la quale avrebbe più religiosamente conservato lo
spirito sacro del Vangelo.
Per poco che siansi studiati gli Spagnuoli, ciò è facile a comprendersi; la
base del carattere spagnuolo è una semplicità piena di grandezza. Ora, che
di più semplice e di più grande ad un tempo del Vangelo?
Giovanni d'Avila s'avanzò senza sforzi nel mezzo di quella folla, poco prima
impenetrabile; tutti si scostarono al suo avvicinarsi.
"Figli miei," disse loro, "perché vi rivoltate? Qual bene ve ne verrà?"
"Padre," disse uno di essi, "è stata arrestata Maria di Borgogna, che
nutriva i nostri figliuoletti ."
"Dio ve la renderà," rispose il santo; "forse rivoltandovi sperate di
salvarla?"
Nello stesso tempo un uomo armato d'enorme mazza di ferro, si avanzò davanti
all'Apostolo. Quest'uomo sembrava essere uno di capi della rivolta:
Giovanni d'Avila riconobbe Manofina.
"Che fai tu qui?" domandò il sant'uomo con dolcezza.
"Voleva vendicare una vittima," rispose il bravo senza sconcertarsi; "noi
veniamo ad uccidere questo miserabile Enrico, che ci è stato dato per
governatore.
"Non bisogna uccider nessuno," disse Giovanni d'Avila.
"Per costui non vi sarebbe stato un gran male," rispose il bravo: "un
briccone di questa specie.ma poiché Vostra Beatitudine non lo vuole."
"E' Iddio che non lo vuole, figli miei; ritiratevi, e lasciate a Dio la cura
di vendicarvi."
Quegli uomini, poco fa sì feroci, erano tornati docili come agnelli.
Mentre si allontanavano in silenzio, senza fare più alcuna manifestazione
ostile, alcuni birri si avvicinarono pr arrestare alcuno di essi.
"Che fate?" gridò il sant'uomo; "volete dunque punire il leone perché è
stato generoso? Ritiratevi, voi non avete bisogno d'armi, tutti sono
tranquilli, non lo vedete?"
Gli emissari dell'inquisizione, cedendo loro malgrado, all'influenza di
quell'uomo straordinario, provarono un istante di esitazione.
In quel momento Josè, uscendo dalla folla, fece cenno agli emissari; a
quell'ordine
muto si allontanarono come ombre.
Malgrado la sua immensa carità, Giovanni d'Avila gettò uno sguardo di
scontento e di diffidenza sul favorito dell'inquisitore. In quell'epoca i
Domenicani ed i Francescani non avevano ancora fatto alleanza[22].
Erano, in generale, crudelmente nemici; Giovanni d'Avila, ad onta della sua
santità, non si difese forse da un sentimento involontario di avversione e
di repugnanza alla vista del giovane Domenicano. Ma Josè si avvicinò a lui
con aria confidente e tranquilla:
"Padre mio," gli disse, "quella che voi cercate è in sicurezza."
Giovanni d'Avila trasalì; credeva che Dolores fosse stata arrestata
dall'Inquisizione.
"Padre mio," ripeté Josè, guardandolo con dolcezza, "non vedete sul mio viso
ch'io vi dico la verità?"
"Rendetemi dunque quella povera fanciulla." Disse Giovanni d'Avila; "Estevan
ed io l'abbiamo pianta abbastanza."
La sirena non aveva potuto dir nulla, la Graziosa aveva ricusato di dire ciò
che era stato di Dolores.
"Domani a mezzanotte," riprese Josè, "io vi aspetterò sulla spianata vicino
alla fontana."
Josè disparve; ma ad alcuni passi di distanza si rivolse per considerare la
bella statura di Estevan ed il suo nobile profilo, che si staccava
nettamente nel chiaroscuro di una notte d'estate. A tal vista un sospiro
profondo sollevò il petto del giovane Domenicano, e due lacrime ardenti
scesero da'suoi occhi.
Giovanni d'Avila non parlò ad Estevan di quello incontro; voleva andar solo
a quell'appuntamento, dove forse temeva un inganno.
Anco quella notte Enrico dormì tranquillo.
XIX. L'amuleto del grande inquisitore Torrequemada.
Entrando nel palazzo inquisitoriale, Josè si recò presso il grande
inquisitore. Pietro Arbues era solo nella sua camera, ma al di fuori eransi
raddoppiate le guardie, perché quel rumore di sommossa sì rapidamente
acquietato, il cui rimbombo era appena giunto fino a lui, l'aveva talmente
spaventato, che gli sembrava a ciascun istante veder la porta del suo
appartamento forzata dagli assassini. Egli aveva la viltà della iena, che
fugge la luce, e non si pasce che di cadaveri.
Assiso davanti ad una piccola tavola d'ebano, incrostata di madreperla,
opera preziosa del principio del risorgimento, Pietro Arbues, con la testa
appoggiata nelle sue mani, considerava con profonda attenzione una strana
gemma incastonata nell'oro cesellato.
Era un dente di liocorno che aveva appartenuto a Tommaso di Torrequemada, il
fondatore dell'Inquisizione moderna in Ispagna, quel monaco feroce, la cui
crudeltà sorpassò talmente tutti i limiti che lo stesso papa Alessandro
Borgia ne fu spaventato. Quella reliquia, caduta, non si sa come nelle mani
di Pietro Arbues, aveva, si dice, la facoltà di fare scoprire e di
neutralizzare i veleni[23].
Pietro Arbues aveva talmente imitato Torrequemada nelle sue barbarie, che
l'imitava
pure nella sua superstiziosa prudenza: quel dente di liocorno non lasciava
mai la sua camera.
All'avvicinarsi di Josè, l'inquisitore alzò la testa. "Ebbene, Josè, quali
notizie?"
"tutto è tranquillo, monsignore; i vostri birri han fatto meraviglie, ed i
rivoltosi sono stati bentosto dispersi."
"Sia lodato Iddio!" gridò l'inquisitore. "e quel povero Enrico non ha
sofferto alcun male?"
"Alcuno, monsignore; non hanno fatto che rompere la porta del suo palazzo;
Enrico è in questo momento sicuro quanto può esserlo Vostra Eminenza."
"Non han dunque avuta intenzione di dirigersi verso il palazzo
inquisitoriale?"
"No, monsignore; chi oserebbe assalire il grande inquisitore di Siviglia?"
"Io non rischio nulla, non è vero Josè? non oserebbero assalirmi. - Forse,"
proseguì Pietro Arbues, "ho fatto male ad innalzare Enrico nel posto
difficile di governatore? Quest'uomo manca di forza e di risoluzione?"
"Non tanto quanto Vostra Eminenza può crederlo."
"Ma è uomo da nulla, ignorante, ordinario."
"Che importa, monsignore, vi è affezionato; e credetemi, la toga di
governatore sta bene sulle sue spalle quanto su quelle d'un altro."
"Il popolo piange Manuel Argoso," disse Pietro Arbues. "quest'uomo aveva
una tolleranza colpevole per gli eretici ed i cristiani tiepidi; perciò
tutti l'amavano."
"Ecco perché si rivoltano contro Enrico, monsignore, non vi è che un mezzo
di rimediare a questo: è di raddoppiare il rigore."
"Sì, bisogna che queste sommosse finiscano; bisogna che l'Inquisizione di
Spagna stenda il suo dominio sul mondo, e s'innalzi anco al di sopra della
potenza dei papi. Bisogna che la lebbra dell'eresia disparisca per sempre
dalla superficie del globo."
"E che il globo intiero appartenga all'Inquisizione," aggiunse Josè, tra il
serio e lo scherzoso.
"Bisogna," proseguì l'inquisitore, "che le ceneri degli eretici fecondino la
terra, e ce la rendano piena di delizie. I beni di questo mondo, come quelli
del cielo, appartengono di diritto ai veri cattolici; essi soli sono degni
di goderne; e non vi perverranno che a forza di perseveranza e di rigori
salutari."
"Monsignore, più l'Inquisizione immolerà eretici o malvagi cattolici, più
diverrà forte e potente."
"Senza dubbio," disse l'inquisitore con un riso feroce, "vi ho provveduto,
Josè; noi avremo quasi centodiciotto condannati al prossimo atto-di-fede."
"Cinquanta più che nell'ultimo, monsignore."
"Che farete del vecchio governatore di Siviglia?" proseguì Josè
negligentemente.
"Lo tratterò come merita, questo eretico luterano," gridò l'inquisitore,
esasperato dalla memoria dei suoi vani tentativi contro Dolores.
Josè, come si vede, lusingava abilmente le passioni di Pietro Arbues; si
vede pure che l'Inquisizione non era, come si è voluto sostenere, mossa
solamente da un'ardente fanatismo.
La sua crudeltà indicibile, implacabile come la fatalità, non era certamente
il resultato di uno zelo eccessivo, cieco, per la gloria del cattolicismo:
Aveva veramente un altro veicolo. L'interesse della religione non veniva che
in seconda linea, o piuttosto la religione stessa serviva di maschera e di
pretesto all'ambizione sfrenata, alla sete di ricchezze degl'inquisitori.
Non si può credere al fanatismo assoluto, alla fede cieca, che presso
gl'insensati
o le intelligenze ottuse; gl'inquisitori non erano certamente né pazzi né
stupidi: volevano dominare, ecco tutto; volevano regnare, e nella loro
astuta politica avevano compreso che la sola corona che non si romperà
giammai è la corona di spine dell'Uomo-Dio; ecco perché ne avevan fatto
scudo al loro regnar dispotico, perché si erano fatti un'egida del divino
nome di Cristo, rendendolo correo delle loro iniquità.
"E' tempo," proseguì Pietro Arbues, "di raccogliere l'eredità che ci ha
lasciato il nostro santo fondatore Torrequemada."
In quel momento l'inquisitore si avvide che Josè, come fanciullo, scherzava
col dente di liocorno che era sulla tavola.
"Guardati dal toccarlo, figlio mio," disse Pietro Arbues, togliendoglielo
dolcemente dalle mani, "è una preziosa reliquia che non dobbiamo profanare:
è dessa che ha costantemente protetto la vita, del beato Torrequemada, e che
ora protegge la mia.
"Come mai questo gioiello è caduto nelle vostre mani, monsignore?"
"Per eredità; io discendo per linea materna, quantunque indiretta, dalla
medesima famiglia del primo grande inquisitore di Castiglia."
Josè si tacque, e si affrettò a rimettere il dente di liocorno al posto da
cui avealo tolto. Lo scetticismo del monachetto non escludeva una leggera
superstizione; aveva ancor troppo l'ardente immaginazione dei Mori per non
credere alla virtù di un amuleto.
"Josè," riprese l'inquisitore, "poiché ora tutto è tranquillo in Siviglia,
sono d'avviso che facciamo insieme una refezioncella per gustare un
eccellente vino di Lacryma-Christi che mi è stato mandato dal nunzio del
papa."
"Non ho fame," rispose Josè con noncuranza.
"Non importa, figlio mio, questo vino delizioso risveglierà il tuo appetito.
Suona dunque e chiedi che ci servano."
Josè non ebbe il tempo di eseguire gli ordini dell'inquisitore che un
famigliare entrò premurosamente, e rimise una lettera a Sua Eminenza.
"Donde viene?" domandò Pietro Arbues.
"E' il governatore di Siviglia che la invia," rispose il famigliare.
Pietro Arbues ruppe il sigillo di quella lettera e la lesse rapidamente.
"Monsignore," gli scriveva Enrico, "la badessa delle Carmelitane è
fortemente e gravemente malata, ed ha fatto domandare un Francescano per
confessarla. Ho creduto mio dovere prevenirne Vostra Eminenza. Il monaco
dovrebbe recarsi questa sera stessa al convento, poiché sembra che il caso
sia urgente.Ecco tutto ciò che ho potuto sapere. La mia lettera, scritta da
due ore, non ha potuto essere mandata più presto a Vostra Eminenza, a
cagione della sommossa che ha turbato la città e minacciato la mia vita."
"povero Enrico!" gridò l'inquisitore, il cui viso aveva, durante quella
lettura, espresso la più violenta collera, "qual zolo per il mio servizio!"
"Vedete monsignore," disse Josè, senza sapere di che si trattasse.
"Per Cristo!" proseguì Arbues, "questa donna è ardita. Far domandare un
miserabile Francescano quando io sono il suo confessore; doveva aver ricorso
ad altri fuor che a me? Si, comprendo," mormorò egli a voce bassa, "costei
ha paura della morte, e forse!.oh! ma vi è tempo ancora.questa pazza
potrebbe compromettermi, bisogna che io la veda subito. Olà!" disse
chiamando i suoi famigliari:; "si appresti la mia lettiga, ho bisogno di
uscire."
Poscia, volgendosi verso Josè, che cercava invano d'indovinare ciò che
accadeva nell'animo di Pietro Arbues, "Josè," disse, "un affare importante
mi chiama altrove. La badessa delle Carmelitane muore, e reclama da me i
soccorsi della religione, ti lascio, addio."
Pietro Arbues si slanciò fuori della sua camera, discese rapidamente la
scala di marmo del suo palazzo, salì nella lettiga ed uscì. Arrivando alla
porta del convento, un frate Francescano varcava la soglia, e si avanzava
verso l'inquisitore.
Quando furono in faccia l'uno dell'altro, Pietro Arbues gittò uno sguardo
rapido sul viso del frate; malgrado l'oscurità si riconobbero. Pietro Arbues
guardò fisso il monaco.
"che siete venuto a far qui?" gli domandò con accento severo.
"A salvare un'anima," rispose il Francescano.
Quel monaco era Giovanni d'Avila.
L'inquisitore gli gettò uno sguardo pieno d'odio, varò rapidamente la porta
del chiostro.
Quando giunse al capezzale della badessa, Francesca di Lerma, rassicurata
dalle dolci parole dell'Apostolo, sembrava gustare un istante di calma. Essa
non era seriamente malata; ma quella donna spassionata e robusta, attaccata
ad un tratto da un male che abbatteva le sue forze, aveva avuto paura della
morte ed orrore della sua vita depravata.
Non potendo confidarsi al complice delle sua colpe, del quale temeva la
violenza, aveva fatto chiamare Giovanni d'Avila, la cui santità le inspirava
una confidenza senza limiti; ed in una confessione sincera l'infelice donna
avea versato in seno a quell'Apostolo della verità i rimorsi che divoravano
l'anima sua.
Oh! Come l'uomo di Dio dovette versar lacrime di sangue sulla Chiesa di
Cristo, indegnamente profanata, a quelle confessioni di un'anima tremante e
lacerata, che sfuggivano dalle labbra dell'altera badessa delle Carmelitane!
La malattia aveva abbattuto quel carattere indomabile, ed il rimorso, sola
virtù che rimane a coloro che hanno molto peccato, il rimorso l'avea
ricondotta al pentimento. Malgrado le perfide insinuazioni e le menzogne che
Pietro Arbues aveva impiegato per persuaderla che non faceva alcun male,
Francesca non era stata mai rassicurata, ed aveva certamente peccato in
cognizione di causa.
"Signora," disse l'inquisitore quando fu rimasto solo con la malata, "perché
avete domandato un altro confessore fuori di me?"
A quella voce ben cognita, Francesca di Lerma si volse prontamente e con un
lungo sguardo percorrendo l'inquisitore dai piedi alla testa, fe' con le
labbra, senza rispondere, un segno di disprezzo e d'ironia.
"Non sapevate, sorella," continuò Pietro Arbues, con voce dolce, "che io ho
il potere di assolvervi?"
"avanti di assolvere gli altri," rispose lentamente Francesca di Lerma,
"coprite la vostra testa di cenere, monsignore; abbassate il vostro orgoglio
nella polvere, e pregate in ginocchio sulla nuda terra, perché Iddio vi
perdoni i vostri delitti. Con qual diritto parlate di assolvere gli altri,
voi che avete tanto peccato?"
"Povera anima perduta," riprese l'inquisitore, "vi possono esser limiti ai
nostri diritti ed ai nostri poteri spirituali? Non siamo noi gli unti del
Signore? E vi ha forse qualche cosa nel mondo che possa cancellare il nostro
sacro carattere?[24] Non aveva io dunque più il diritto di sciogliere le
anime dai lacci del peccato? Il prete, per indegno che sia," proseguì con
finta umiltà, "non è meno il rappresentante di Gesù Cristo, e voi non avete
compromesso gli interessi della Chiesa confessandovi ad un monaco scelto fra
i Francescani, che sono i nostri più mortali nemici?"
"Questo monaco è un santo, monsignore: ei m'ha consolata e riconciliata con
Dio. Lasciatemi dunque morire in pace, e non v'inquitate più dell'anima
mia."
Quindi, rivolgendosi dall'altro lato, Francesca cuoprì la sua testa col suo
panno, come se avesse voluto mettere fra se e l'inquisitore il sudario della
tomba.
Pietro Arbues vide bene che quell'anima era sinceramente ritornata aDio, e
che il suo impero sopra di essa era finito. Ma da abile inquisitore,
gettando sulla sua collera un manto di dolcezza e di umiltà, si ritirò senza
violenza, senza far vedere per nulla il suo scontento; e siccome giudicò che
la malattia di Francesca non fosse mortale, si propose d'impedire che
potesse rivedere Giovanni d'Avila.
La conversione di Francesca era divenuta per esso un terribile giudizio.
XX. L'appuntamento.
L'ora dell'appuntamento dato da Josè a Giovanni d'Avila si avvicinava.
Estevan aveva cenato con l'Apostolo, e suo malgrado, quest'ultimo non aveva
potuto dissimulare una penosa preoccupazione insolita della sua fisionomia
serena, quantunque abitualmente meditativa.
Già inquieto sulla sorte di colei che amava, Estevan temè che Giovanni
d'Avila
gli nascondesse dolorosi secreti. Tuttavia non osò interrogarlo, forse in
conseguenza di quella umana debolezza che ci fa ad un tempo desiderare di
sapere e temere di conoscere una sventura.
Giovanni d'Avila serbava, suo malgrado, un insolito silenzio. Estevan
seguitava con occhio inquieto i minimi moti della sua fisionomia.
"Padre mio," si azzardò a dire finalmente, "non avete dunque saputo nulla
dell'infelice governatore di Siviglia? Il suo processo non è ancora
incominciato, e non potremo far nulla per salvarlo?"
"No," disse Giovanni d'Avila, "il processo di Manuel Argoso non è
cominciato, e quando sarà tempo, non sapete che io v'avvertirò? Fino a quel
momento statevi nell'oscurità e nel ritiro. Ignorate qual pericolo vi
sarebbe per voi a sfidare l'Inquisizione?"
"Io la sfiderò, quando sarà necessario," rispose Estevan con voce
tranquilla.
"Ebbene! Dunque serbate il vostro coraggio per il giorno della lotta; voi ne
avrete bisogno."
Nello stesso tempo Giovanni d'Avila, vedendo che la povere della clepsidra
posta sulla tavola era quasi intieramente esaurita, uscì senza dire parola,
come era solito fare. Ma quantunque in quel giorno nulla fosse avvenuto di
straordinario, Estevan, inquieto e tormentato,lasciò l'apostolo allontanarsi
d'alcuni passi, quindi uscì a sua volta, chiuse la porta della casa, e col
favore dell'oscurità seguì Giovanni d'Avila in distanza per non esser
veduto.
Arrivato presso la fontana che è in facciata alla cattedrale, Giovanni
d'Avila
si fermò. José l'attendeva.
Assiso sul margine della fontana, col viso appoggiato sopra una delle sue
mani bianche ed affilate, li giovane Domenicano aveva una grazia indicibile
in quella positura melanconica. Solo, nel mezzo di quella vasta spianata,
ombreggiata da molti aranci, al rumore dell'acqua che cadeva mormorando in
un gran bacino di marmo, Josè erasi un momento abbandonato all'estasi di un
sogno misterioso e profondo. Era per lui senza dubbio uno di que' momenti in
cui gli accidenti della vita, vani sogni che già appartengono al passato,
compariscono in gruppo dinanzi a noi come una realtà vivente; ovvero,
spiegandosi l'uno dopo l'altro vaghi e confusi, passano sotto i nostri occhi
come una fantasmagoria, e ridenti o terribili, ci fanno volger la testa con
disgusto, tanto offrono di vuoto all'anima insaziabile dell'uomo. Qual è
allora fra noi colui che vorrebbe a costo delle medesime prove ricominciar
la sua vita?
Giovanni d'Avila aveva fatto pochissimo rumore avvicinandosi alla fontana;
tuttavia Josè l'udì, ed alzandosi dalla pietra in cui era assiso, andò
incontro all'Apostolo.
Alcuni passi distante da essi, Estevan, nascosto fra gli aranci che
circondavano la fontana, aveva potuto avvicinarsi senza essere inteso. Qual
fu la sua sorpresa vedendo Giovanni d'Avila parlare con un Domenicano!
"Padre mio," disse Josè, inchinandosi davanti all'Apostolo
dell'Andalusia,"io
avrei voluto risparmiarvi questo cammino, ma non poteva venir presso di voi
senza divenir sospetto..all'Inquisizione," soggiunse abbassando la voce,
"ciò che vi avrebbe nuociuto impedendomi di servirvi."
Josè parlava con tanto candore, v'era tanta nobiltà ed entusiasmo nella sua
voce, e sulla sua bella fronte pallida, giovane e mesta, la quale brillava
come un marmo scolpito alla luce argentina della luna, che Giovanni d'Avila,
il quale aveva egli pure tutto il candore degli uomini di genio, perdé quasi
tutta la diffidenza che gli inspirava un abito di Domenicano.
Fra quelle due anime elette la scintilla magnetica era scoppiata.
"Ebbene, Dolores?" disse vivamente l'Apostolo. Al nome di Dolores un lieve
rumore fece muovere le foglie degli aranci, come se il vento le avesse
agitate.
"Oserete seguirmi?" domandò il giovane Domenicano con voce dolce.
"Perché non l'oserò io?" rispose Giovanni d'Avila, il cui coraggio era
inaccessibile al timore; "io vi seguo," soggiunse con voce sicura;
"conducetemi, fratello mio."
"No, vostro figlio, Padre mio," disse Josè, volgendosi con atto pieno di
trasporto e di grazia, e congiungendo le sue mani davanti all'Apostolo;
"vostro figlio, che avrà bisogno delle vostre preghiere."
Giovanni d'Avila si sentì commosso, poiché Josè gli inspirava un sentimento
indefinibile; egli esercitava sopra di lui pure quel fascino irresistibile
degli esseri belli, nobili ed entusiasti.
"seguitemi, Padre mio," riprese il giovane Domenicano, allontanandosi, "non
dobbiamo andare molto lungi.
Infatti dopo alcuni minuti essi erano davanti alla porta della casa moresca
in cui abitava Giovanna. Josè levò allora una chiave dalla sua tasca, aprì
quella porta, ed entrò per primo; ma quando Giovanni d'Avila stava per
varcarne la soglia, Estevan, che non era stato veduto, si avanzò vivamente
presso di lui, e gli disse con voce quasi supplichevole:
"Padre mio, se vi sono pericoli da correre, lasciatemi dividerli, e
lasciatemi pure rivederla, poiché è vero che essa ci è resa."
"Almeno lo spero," disse Giovanni d'avila, "vi voleva risparmiare forse un
inganno; ma poiché sapete tutto, venite."
Nello stesso tempo, volgendosi a Josè, che aspettava al di dentro, che aveva
un po' avanzato la testa per vedere quale ostacolo arrestava Giovanni
d'Avila.
"Io non entrerò senza mio figlio Estevan," disse l'Apostolo.
"Estevan! E sì, entri, padre mio, e la rivegga." Quando furono entrati Josè
richiuse diligentemente la porta.
Dolores e Giovanna aspettavano nella sala terrena. Dolores, prevenuta da
Josè, corse incontro al suo liberatore, ma quando vide Estevan, che non
attendeva, un pallore profondo cuoprì il suo viso, e cadde abbattuta sul
divano d'onde si era alzata: una sì grande emozione l'aveva oppressa!
"Dolores," disse Giovanni d'Avila, avvicinandosi alla fanciulla, "bisogna
essere forti nella gioia come nel dolore; in questi tempi malvagi colui che
si lascia curvare da tutti i contrari eventi è bentosto abbattuto e
schiacciato."
Alla dolce vista dell'Apostolo, Dolores ritornò in sé, e mirando Josè, lo
ringraziò con lo sguardo.
Josè volse la testa per nascondere una lacrima che, suo malgrado, era
spuntata dai suoi occhi.
Ma dopo questa prima emozione accordata al più vivo sentimento dell'anima,
Dolores ebbe vergogna di non aver, come sempre, dato il primo pensiero al
disgraziato suo padre, e guardando Josè con inquietudine:
"Don Josè," gli disse, "quando s'instituisce il processo di mio padre?"
"Dopodomani, vi dico," rispose Josè; "lo so dal grande inquisitore, che non
ha segreti per me."
"Ebbene!" gridò Dolores con angoscia, "che bisogna fare per salvare mio
padre? Non abbiamo ancora fatto nulla per questo."
"Perché non vi era niente da fare," rispose il Domenicano.
"Ed ora?" domandò la fanciulla.
"Ora occupiamoci di cercargli dei testimoni; è il solo mezzo di salvarlo."
Dolores non rispose, ma rifletté un istante in sé medesima e sembrò prendere
una risoluzione; poscia, indirizzandosi a Giovanni d'Avila:
"Padre mio," ella disse, "voi gli servirete da testimone, non è vero?"
"Senza dubbio, "rispose Giovanni d'Avila; non vi affliggete per questo,
siate tranquilla quanto lo potete, ciascuno di noi ha bisogno di tutto il
suo coraggio. Lasciate dunque agire i vostri amici con tutta libertà, senza
affliggerli con i vostri dispiaceri."
In quel momento, mentre Dolores prestava tutta la sua attenzione alle parole
dell'Apostolo, Josè entrò nel giardino come per considerare alcuni fiori, e
fece un lieve cenno ad Estevan, che lo seguì senza affettazione. Quando
furono assai lungi per non poter essere intesi:
"Don Estevan," disse Josè, "noi non salveremo mai il governatore con la
testimonianza; cerchiamo dunque un mezzo più efficace."
"Io non ne conosco altri," rispose gravemente il giovane filosofo, troppo
prudente per dichiarare il suo intimo pensiero ad un uomo che non conosceva.
"Tuttavia," replicò vivamente il Domenicano, "se questo mezzo fallisse, che
fare?"
"Spero nella giustizia di Dio," rispose Estevan. Josè sorrise amaramente, e
prendendo la mano del giovane Vargas, gliela strinse vivamente nella sua:
"Don Estevan," egli disse, "voi diffidate di me; che ho fatto per meritare
questa ingiustizia? Ho incontrato un giorno sul cammino la vostra fidanzata,
che accorreva smarrita al palazzo dell'inquisitore per domandare la grazia
di suo padre; che posso fare di più perché voi abbiate fede in me? Perché
diffidate?"
"Voi siete un Domenicano," rispose Estevan con franchezza.
"Io ne porto l'abito," rispose Josè.
"Convengo," disse Estevan, "che tutto in voi inspira la confidenza; dalla
vostra fisionomia traspare verità; ma è mia la colpa se oggidì in Spagna
bisogna diffidare anco dei suoi più cari amici?"
"Giovanni d'Avila ha avuta confidenza con me," rispose semplicemente Josè,
"l'avrò io pure," disse Estevan, tendendogli la mano.
"Ebbene, provatemelo, don Estevan; rispondetemi con franchezza: se non
possiamo riuscire a salvare il governatore con la testimonianza, qual mezzo
volete voi impiegare?"
"Non lo so," rispose Estevan con esitazione. Josè comprese che egli aveva
un'intenzione
occulta.
"Sollevare il popolo, portar via il governatore, durante
l'atto-di-fede.colpire
il grande inquisitore," disse vivamente il Domenicano.
Estevan lo guardò con aria di diffidenza.
Josè comprese che aveva indovinato il segreto pensiero del giovane Vargas.
"Questo mezzo non sarebbe buono che in un caso intieramente disperato,"
rispose Estevan; ma la sua fisionomia smentiva la prudenza delle sue parole.
Josè l'aveva indovinato.
Il fraticello non insisté maggiormente; ma, riconducendo Estevan presso la
sua fidanzata, gli disse con accento tenero e pieno di candore:
"Don Estevan, checché accada contate sopra di me per la vita e per la
morte."
"La prova verrà," disse mestamente Estevan.
"Oh Estevan! Voi non avete un alleato più fedele di me, e in questa lotta io
lascerò forse la vita.allora crederete," riprese l'altro con dolcezza.
Estevan era giovane; e si commosse, e forse era per dichiarare a quell'uomo
singolare, che lo faceva stupire ed affascinare ad un tempo, tutto il suo
pensiero.; ma mentre rientravano nella sala terrena fu battuto vivamente
alla porta della strada.
"Siam traditi!" pensò Estevan.
Giovanni d'Avila guardò Josè come per leggergli sul viso; ma né il
Domenicano, né Dolores mostrarono la minima sorpresa.
Giovanna andò ad aprire.
Era Gioachino, che veniva tutte le sere alla stessa ora a prendere gli
ordini di Josè, e a rendergli conto di quelli che aveva ricevuto la sera
innanzi. Alla vista di quel volto amico, tutti i timori si calmarono.
"Che c'è di nuovo, mio bravo Gioachino?" domandò il giovane Domenicano.
"Reverenza," rispose la guardia esitando, "Il governatore di Siviglia."
"Comparirà fra due giorni davanti al tribunale," disse Josè, "lo so; e poi?"
"Io sarò di guardia alla porta del suo carcere," disse Gioachino.
"Oh!" esclamò Dolores con ansietà, "voi dunque potreste?."
"Io non sarò solo," rispose Gioachino, comprendendo il suo pensiero.
"Ebbene," pensò Dolores, "poiché nessuno può nulla per lui, io sola debbo
salvarlo."
Giovanni d'Avila si alzò per uscire.
"Dolores," disse Estevan a voce bassa, "io morrò o salverò vostro padre."
"Siate benedetto, Estevan!" ella rispose.
"Figlia mia," disse a sua volta Giovanni d'Avila, "siate prudente, contate
sui vostri amici, e non uscite sotto alcun pretesto."
Dolores abbassò la testa senza rispondere, poiché non voleva né mentire, né
prometter nulla. I suoi occhi non si staccarono da quelli d'Estevan, che
quando la porta di strada fu chiusa dietro di lui.
Estevan, Josè e l'apostolo si allontanarono insieme. Josè gli accompagnò
fino al ponte di Triana; là si separò da essi.
Gioachino li aveva seguiti a qualche distanza. Josè si volse e si avvicinò
alla guardia.
"Gioachino," gli disse, "sorveglia con cura tutti i passi di don Estevan de
Vargas, e quali essi siano, vieni ad avvertirmi all'istante."
"Reverenza." rispose Gioachino, esitando, "è per suo bene senza dubbio che
volete così? Un amico dell'Apostolo."
"Sii tranquillo, mio povero Gioachino; ho mai fatto male ad alcuno, di'?"
"Oh! Voi siete buono come gli angeli del cielo," rispose la guardia, "io
farò tutto quello che vorrà Vostra Reverenza."
XXI. Il viaggio.
Sorgea il sole; i suoi primi raggi, d'un giallo pallidi misto a color rosa,
macchiavano di riflessi cangianti la nebbia leggiera che cuopriva ancora le
cime della Sierra-Morena; sarebbesi dette migliaia di pagliucole brillanti,
gittate sopra un velo bianco.
Due viaggiatori seguivano lentamente un cammino arido, tagliato nel fianco
delle montagne, talvolta sì stretto che appena sembrava possibile che un
camoscio potesse posarvi i piedi, ed il più spesso sovrapposto a
spaventevoli precipizi, la cui profondità destava le vertigini. Qua e là
alcuni pini torti maritavano la loro trista verdura al color granitico delle
rupi; ovvero, per un bizzarro contrasto un rosaio selvaggio si innalzava,
tutto coperto di rose fiorite, sull'arduo pendio dei precipizii, dei quali
l'occhio
non osava misurare la vertiginosa profondità. I viaggiatori erano in quel
momento pervenuti ad una delle più alte cime della Sierra-Morena. Si volsero
allora dal lato d'oriente, ed il sole rischiarò in pieno il loro volto.
Il più attempato dei due non aveva più di trent'anni, ma la sua fronte era
sì grave, si piena di quella dolce austerità che brillò sul viso
dell'Uomo-Dio,
che sarebbesi potuto, a primo aspetto, crederlo già arrivato alla piena
maturità dell'età sua.
Guardandolo con attenzione si vedeva che solo le vigilie laboriose, la
rinunzia alle cose terrene, e l'abitudine alla meditazione, avevano marcate
di un sigillo particolare di profondità e di saggezza la fisionomia di
quell'uomo,
che portava l'umile abito di Francescano.
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