RIFORMA PROTESTANTE
Le cause storico-sociali
1) Critica dell'enorme ricchezza e dei privilegi della Chiesa romana.
Decadenza morale della Chiesa (nepotismo: cariche
politico-religiose-diplomatiche offerte ai parenti di
papi-vescovi-cardinali; lusso della curia romana; corruzione del clero, che
si è lasciato influenzare dallo stile di vita borghese, emergente in tutta
Europa, mondanità...). La sede pontificia era disputata da grandi famiglie
italiane (Medici, Farnese, Della Rovere). In sintesi, da un lato il clero
cattolico italiano appariva molto borghese, dall'altro persisteva un uso
feudale del potere politico da parte del papato.
2) Risveglio delle nazionalità (Francia, Germania, Inghilterra, Olanda,
ecc.) contro il Sacro romano impero rappresentato da Carlo V con
Spagna-Austria-Ungheria-Paesi Bassi, e contro l'universalismo medievale
cattolico del papato. In Germania è soprattutto la grande feudalità che
combatte l'impero, negli altri Stati è soprattutto la borghesia, che
appoggia la monarchia nazionale.
3) Esigenze emancipative di vari strati sociali: piccoli nobili in decadenza
contro la grande feudalità (soprattutto in Germania, dove la piccola nobiltà
non è riuscita, come in Italia, a istituire i Comuni insieme alla
borghesia); servi della gleba contro la grande feudalità (soprattutto in
Germania); borghesia contro i grandi feudatari (ovunque, ma in Inghilterra
la riforma anglicana si farà sulla base di un compromesso fra queste due
classi).
La riforma protestante, per gli effetti di lunga durata che ha provocato, è
stato l'avvenimento più importante, a livello europeo, della prima metà del
'500. Essa rappresenta non lo sbocco inevitabile della crisi religiosa dei
secoli precedenti, iniziata praticamente in concomitanza con la rivoluzione
comunale e mercantile, con la riscoperta dell'aristotelismo, con il
progressivo distacco dalle tradizioni bizantine-ortodosse, con la nascita
del potere temporale del papato (appoggiato dai carolingi e da altri regni
barbarici), ma rappresenta lo sbocco che a detta crisi vollero dare i ceti
borghesi, nella convinzione che non esistessero altre alternative (nei
secoli precedenti la crisi della chiesa fu affrontata dai movimenti
ereticali pauperistici, per la maggioranza dei quali la riforma della chiesa
non necessariamente avrebbe dovuto portare a uno sbocco individualistico di
tipo borghese).
La riforma provocò la spaccatura del mondo cattolico, la frantumazione
definitiva del concetto di "sacro romano impero" e l'avvio del processo di
formazione delle nazionalità: gran parte dei popoli di lingua anglo-sassone
si separano dalla chiesa romana. Solo a separazione avvenuta, la chiesa
romana intraprese, con il Concilio di Trento (1545-63) la sua riforma
interna (la controriforma), basata sul rafforzamento dell'autorità
pontificia, sull'Inquisizione, sull'Indice dei libri proibiti, sulla
creazione di nuovi ordini religiosi (gesuiti, cappuccini, barnabiti,
somaschi, scolopi...), su una notevole solidità dogmatica e disciplinare.
Formalmente gli storici fanno risalire la crisi della chiesa romana al
periodo della "cattività avignonese" (1305-77), in cui si verificò il
trasferimento della sede pontificia ad Avignone (Francia meridionale), dopo
il crollo della teocrazia papale: il che determinerà la soggezione del
papato alla politica francese. Questa in realtà fu una disfatta di tipo
meramente politico: gli aspetti di crisi sociale e culturale sono di molto
anteriori.
La crisi politico-istituzionale si accentuò con i due "scismi d'occidente",
dopo il ritorno del papato a Roma. Durante il primo scisma (1378-1417), il
Collegio dei cardinali, in maggioranza francesi, non era intenzionato ad
accettare la politica di autonomia del papato nei confronti della Francia.
Per questa ragione i cardinali elessero un antipapa, il quale però, dopo
essere stato sconfitto col suo esercito, mentre marciava su Roma per
sbarazzarsi del rivale, decise di fissare la sua sede ad Avignone.
Molti cardinali, in un Concilio di Pisa (1409), decisero di deporre i due
papi e di eleggerne un terzo, che però gli altri due non riconobbero. Allora
l'imperatore Sigismondo convocò un Concilio ecumenico a Costanza
(1414-1418), riuscendo a far deporre i tre papi e a farne eleggere uno
nuovo, riconosciuto da tutti. Il concilio decise anche di condannare le
eresie di Wyclef (Inghilterra) e di Huss (il riformatore boemo che, insieme
al discepolo Girolamo da Praga, finì sul rogo nel 1415), riservandosi di
trattare in un prossimo concilio il problema della riforma della chiesa.
Infine adottò il principio della superiorità del Concilio sul papato
(Sigismondo, al fine di neutralizzare la prevalenza dei vescovi italiani,
impose ai prelati l'obbligo di esprimere il voto per nationes e per tale
ragione con esso gli storici indicano la nascita ufficiale del concetto di
"nazionalità"). Uno dei precedenti fondamentali della Riforma protestante fu
anche la formazione del Movimento Conciliare, che rivendicava la
subordinazione del papato al concilio (reformatio in capite et in membris).
Questo principio però non piacque ai prelati della curia romana, i quali
proclamarono al Concilio di Firenze la superiorità del papato sul concilio.
Per dieci anni (1439-49) il Concilio di Basilea rifiutò di riconoscere il
papa di Roma ed elesse un antipapa, ma i poteri di questo Concilio (che durò
dal 1431 al 144) furono progressivamente svuotati dal papato in tre modi:
1. trasferendo la sede del concilio prima a Ferrara (1438), poi a Firenze
(1439);
2. realizzando l'unione a Firenze (1439) con la chiesa bizantina, minacciata
dai turchi. Questa unione (durata meno di 20 anni) non solo illuse i
bizantini che il papato avrebbe concesso un aiuto militare contro i turchi,
ma svuotò anche di energia il movimento conciliarista radicale rimasto a
Costanza (tant'è che il papa che quel Concilio aveva eletto, si dimise);
3. facendo molte concessioni ai vari Stati europei emergenti (politica
concordataria).
Dopo lo scacco del concilio di Basilea, praticamente sino al 1517 il papato
tornò ad essere il vero sovrano della cristianità. Il movimento riformatore
sperò che il concilio del Laterano (1512-1517) avrebbe recepito alcune delle
istanze riformatrici. Invece ciò non avvenne. Il tentativo di riforma per
mezzo di concili generali rappresentò l'ultima possibilità offerta alla
chiesa cattolica di ristrutturarsi su base episcopale, "parlamentare",
"federalistica". Il 16 marzo si chiuse il concilio e il 31 ottobre Lutero
pubblicherà le sue 95 tesi. Il movimento conciliare si era convinto che la
riforma avrebbe potuto aver luogo solo per vie non legali.
Conseguenze
La riforma in Germania assunse tra il popolo l'aspetto di una ribellione
delle classi oppresse contro quelle privilegiate. La rivolta dei contadini
(1524-25), capeggiata da Tommaso Münzer, fu enorme, ma venne repressa dai
grandi principi feudatari con l'appoggio dello stesso Lutero. Stessa
sconfitta la subirono i piccoli nobili ribellatisi ai grandi feudatari.
L'impero di Carlo V, d'accordo col papato, si oppose alla riforma, ma senza
successo. Le ostilità fra impero e principi tedeschi si conclusero con la
Pace di Augusta (1555) che affermò il principio di "tolleranza religiosa",
seppur entro i limiti del "cuius regio eius religio" (cioè la religione dei
sudditi di una nazione deve essere quella del loro re).
I beni ecclesiastici secolarizzati (confiscati) dai principi o dai re non
furono più restituiti alla chiesa romana.
La Riforma indebolì senza dubbio l'impero e l'universalismo medievale, ma
non favorì in Germania la monarchia nazionale (come invece in Inghilterra e
Olanda). Furono piuttosto i principi feudali a trarne i maggiori vantaggi.
I punti fondamentali della rottura
I) Giustificazione per fede: la salvezza si ottiene direttamente dalla
grazia divina e non attraverso le opere guidate dalla Chiesa; quello che
conta è solo l'atteggiamento di coscienza. Non ci si salva per i propri
meriti. Il peccato originale rende l'uomo incapace di bene. Solo Dio può
salvare. Di questa salvezza l'uomo non può essere certo finché non muore. In
attesa di saperlo deve avere la fede. Conseguenza pratica: forte
individualismo, rifiuto dei sacramenti, del concetto di "opere buone",
separazione del civile dal religioso (cioè dello Stato dalla Chiesa).
II) Libero esame delle Scritture: contro l'interpretazione ufficiale,
dogmatica, canonica, della Chiesa. Conseguenza pratica: forte
intellettualismo, nascita di molte comunità e sètte nell'ambito delle
confessioni protestanti, rifiuto quasi totale della tradizione ecclesiastica
cattolica, subordinazione dei sacramenti/riti/culto all'interpretazione
della Bibbia.
III) Sacerdozio universale dei credenti: contro le divisioni gerarchiche fra
clero e laici. Conseguenza pratica: fine della struttura tradizionale della
Chiesa, fine del monachesimo, sviluppo delle piccole comunità religiose.
LA QUESTIONE DELLE INDULGENZE
La Riforma protestante è nata con la questione delle indulgenze. Nel 1517
papa Leone X, volendo ricostruire la basilica di S. Pietro a Roma, e non
disponendo dei mezzi necessari, aveva bandìto in tutto il mondo una speciale
indulgenza per coloro che avessero fatto un'offerta in denaro. L'indulgenza
(già usata nel corso delle crociate) era una sorta di condono delle pene che
il credente avrebbe dovuto scontare nel Purgatorio, che il papa concedeva a
quei fedeli, sinceramente pentiti, disposti a compiere particolari penitenze
(pellegrinaggi, elemosine, opere meritorie...). Lo "sconto" offerto da
questi certificati d'indulgenza era proporzionato all'importo del denaro.
Come sono nate le indulgenze e che cosa sono?
Secondo la chiesa cattolica il peccato è costituito dalla "colpa" e dalla
"pena". La colpa si cancella con il sacramento della penitenza, la pena è
necessaria per soddisfare la giustizia divina offesa dal peccato. Quindi,
oltre al pentimento, occorrono anche delle "prove" che attestino l'effettivo
pentimento (ad es. al ladro si chiedeva di restituire la refurtiva o di
donare una somma equivalente in beneficenza, oppure, se non disponeva di
nulla, gli si imponeva un pellegrinaggio in luoghi santi o una scomunica
temporanea).
Le indulgenze erano una specie di "decreti di amnistia" scritti dal Papa,
sulla base del cosiddetto "tesoro dei meriti" di Cristo e Maria, i quali
avrebbero dato agli uomini più di quanto non occorresse per la loro salvezza
(ma in questo "tesoro" sono inclusi anche i santi e i fedeli più devoti del
paradiso, la cui grandezza superava, secondo la chiesa, le pene che
meritavano per i loro peccati).
In virtù di questo "surplus" di meriti, la chiesa si sentiva in diritto di
diminuire o addirittura di cancellare la pena del peccatore (in vita o nel
Purgatorio). Chi, pagando una certa somma, riusciva ad entrare in possesso
del documento scritto (i vivi direttamente, i morti tramite i parenti ancora
in vita), poteva ottenere uno "sconto" sulla pena (per i vivi anche sulle
pene future), a prescindere naturalmente dalla fede personale di chi lo
acquistava o di chi ne beneficiava. In tal modo i benestanti potevano
facilmente mettersi la coscienza a posto.
Il commercio delle indulgenze era assai diffuso in tutta Europa occidentale.
Nel 1517 papa Leone X promulgò un'indulgenza plenaria, cioè un riscatto
della totalità delle pene per tutti coloro che invece di recarsi in
pellegrinaggio a Roma, avessero versato un obolo per la costruzione della
basilica di s. Pietro. Interpretando questa iniziativa come un ennesimo
abuso della chiesa romana, Lutero protestò, dando così inizio alla Riforma
protestante.
Quali problemi poteva suscitare questa prassi?
L'eventualità che il penitente potesse credersi pienamente giustificato
davanti a Dio solo per aver fatto degli atti di penitenza (il cristianesimo
infatti afferma che la salvezza è "dono di Dio" e che l'unico "merito" del
credente sta nell'accettare questo dono).
Abusi e speculazioni a non finire. La chiesa di Roma incamerava ingenti
quantitativi di denaro, i mediatori che distribuivano le indulgenze
esigevano una parte degli "utili". Le tariffe erano proporzionali alla
richiesta del beneficio. Chi rifiutava questa consuetudine veniva
considerato un "cattivo" credente (perché presuntuoso, avaro, o quasi un
eretico...).
Che cosa affermò Lutero?
Come prima conseguenza di questa protesta contro le indulgenze, Lutero
arrivò ad affermare che le opere, le azioni, i meriti personali non sono
sufficienti per salvarsi: la mancanza di fede in Dio, o di coscienza
personale del proprio limite, non può essere sostituita dall'attivismo con
cui si vuole dimostrare a tutti i costi d'essere santi, buoni e perfetti.
Ecco perché -dice Lutero- le indulgenze, così come i pellegrinaggi, i
digiuni, i voti di santità povertà obbedienza, non servono a giustificare.
Per salvarsi occorrono due cose: la volontà di Dio e la fede dell'uomo.
L'uomo si giustifica per fede e per grazia. Può fare delle "buone azioni",
ma a titolo personale e non perché obbligato da qualche legge o
consuetudine.
La seconda conseguenza del ragionamento di Lutero è che se le opere non
servono a niente in quanto basta la fede nella grazia di Dio, allora per
conoscere questa grazia è sufficiente leggersi la Bibbia (da lui tutta
tradotta in tedesco). I sacramenti, la tradizione della chiesa, il magistero
non hanno un valore salvifico, ma solo simbolico (i sacramenti), orientativo
(la tradizione), pratico (il magistero). Non c'è nulla che possa avere un
potere vincolante per la coscienza del credente. Il credente è solo davanti
a Dio, incerto sul suo destino. Se si salverà è perché era predestinato.
Le 95 tesi di Martin Lutero
Le 95 tesi di Lutero riguardano la vendita delle indulgenze e i poteri del
papa. La vendita delle indulgenze, praticata dalla Chiesa di Roma per
finanziare la costruzione della Basilica di S. Pietro, si basava sul
presupposto che il Papa potesse disporre del tesoro costituito dai meriti di
Gesù e dei santi e venderlo, sotto forma di indulgenze, ai peccatori
desiderosi di purificarsi. Lutero, nelle sue tesi, precisa che il Papa non
può rimettere alcuna pena, se non quelle da lui stesso imposte.
Per amore e zelo di far risplendere la verità quanto qui sotto scritto sarà
discusso a Wittemberg sotto la presidenza di Martin Lutero. Perciò egli
prega che coloro i quali non possono essere presenti a discutere con noi
verbalmente, lo facciano per iscritto.
Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo. Amen.
1. Il Signore e maestro nostro Gesù Cristo dicendo: "Fate penitenza ecc."
volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza
2. Questa parola non può intendersi nel senso di penitenza sacramentale
(cioè confessione e soddisfazione, che si celebra per il ministero dei
sacerdoti).
3. Non intende però solo la penitenza interiore, anzi quella interiore è
nulla se non produce esteriormente varie mortificazioni della carne.
4. Rimane cioè l'espiazione sin che rimane l'odio di sé (che è la vera
penitenza interiore), cioè sino all'ingresso nel regno dei cieli.
5. Il papa non vuole né può rimettere alcuna pena fuorché quelle che ha
imposte per volonta propria o dei canoni.
6. Il papa non può rimettere alcuna colpa se non dichiarando e approvando
che è stata rimessa da Dio o rimettendo nei casi a lui riservati, fuori dei
quali la colpa rimarrebbe certamente.
7. Sicuramente Dio non rimette la colpa a nessuno, senza sottometterlo
contemporaneamente al sacerdote suo vicario, completamente umiliato.
8. I canoni penitenziali sono imposti solo ai vivi, e nulla si deve imporre
in base ad essi ai moribondi.
9. Lo Spirito Santo dunque, nel papa, ci benefica eccettuando sempre nei
suoi decreti i casi di morte e di necessità.
1O. Agiscono male e con ignoranza quei sacerdoti, i quali riservano
penitenze canoniche per il purgatorio ai moribondi.
11. Tali zizzanie del mutare una pena canonica in una pena del Purgatorio
certo appaiono seminate mentre i vescovi dormivano.
12. Una volta le pene canoniche erano imposte non dopo, ma prima
dell'assoluzione, come prova della vera contrizione.
13. I morituri soddisfano ogni cosa con la morte, e sono già morti alla
legge dei canoni, essendone sollevati per diritto.
14. La integrità o carità perfetta del morente, porta necessariamente con sé
un gran timore, tanto maggiore quanto essa è minore.
15. Questo timore e orrore basta da solo, per tacere d'altro, a costituire
la pena del purgatorio, poiché è prossimo all'orrore della disperazione.
16. L'inferno, il purgatorio ed il cielo sembrano distinguersi tra loro come
la disperazione, la quasi disperazione e la sicurezza.
17. Sembra necessario che nelle anime del purgatorio di tanto diminuisca
l'orrore di quanto aumenti la carità.
18. Né appare approvato sulla base della ragione e delle scritture, che
queste anime siano fuori della capacità di meritare o dell'accrescimento
della carità.
19. Né appare provato che esse siano certe e sicure della loro beatitudine,
almeno tutte, sebbene noi ne siamo certissimi.
20. Dunque il papa con la remissione plenaria di tutte le pene non intende
semplicemente di tutte, ma solo di quelle imposte da lui.
21. Sbagliano pertanto quei predicatori d'indulgenze, i quali dicono che per
le indulgenze papali l'uomo è sciolto e salvato da ogni pena.
22. Il papa, anzi, non rimette alle anime in purgatorio nessuna pena che
avrebbero dovuto subire in questa vita secondo i canoni.
23. Se mai può essere concessa ad alcuno la completa remissione di tutte le
pene, è certo che essa può esser data solo ai perfettissimi, cioè a
pochissimi.
24. È perciò inevitabile che la maggior parte del popolo sia ingannata da
tale indiscriminata e pomposa promessa di liberazione dalla pena.
25. La stessa potestà che il papa ha in genere sul purgatorio, l'ha ogni
vescovo e curato in particolare nella propria diocesi o parrocchia.
26. Il papa fa benissimo quando concede alle anime la remissione non per il
potere delle chiavi (che non ha) ma a modo di suffragio
27. Predicano da uomini, coloro che dicono che subito, come il soldino ha
tintinnato nella cassa, l'anima se ne vola via.
28. Certo è che al tintinnio della moneta nella cesta possono aumentare la
petulanza e l'avarizia: invece il suffragio della chiesa è in potere di Dio
solo.
29. Chi sa se tutte le anime del purgatorio desiderano essere liberate, come
si narra di S. Severino e di S. Pasquale?.
30. Nessuno è certo della sincerità della propria contrizione, tanto meno
del conseguimento della remissione plenaria.
31. Tanto è raro il vero penitente, altrettanto è raro chi acquista
veramente le indulgenze, cioè rarissimo.
32. Saranno dannati in eterno con i loro maestri coloro che credono di
essere sicuri della loro salute sulla base delle lettere di indulgenza.
33. Specialmente sono da evitare coloro che dicono che tali perdoni del papa
sono quel dono inestimabile di Dio mediante il quale l'uomo è riconciliato
con Dio.
34. Infatti tali grazie ottenute mediante le indulgenze riguardano solo le
pene della soddisfazione sacramentale stabilite dall'uomo.
35. Non predicano cristianamente quelli che insegnano che non è necessaria
la contrizione per chi riscatta le anime o acquista lettere confessionali.
36. Qualsiasi cristiano veramente compiuto ottiene la remissione plenaria
della pena e della colpa che gli è dovuta anche senza lettere di indulgenza.
37. Qualunque vero cristano, sia vivo che morto, ha la parte datagli da Dio
a tutti i beni di Cristo e della Chiesa, anche senza lettere di indulgenza.
38. Tuttavia la remissione e la partecipazione del papa non deve essere
disprezzata in nessun modo perché, come ho detto [v. tesi n°6], è la
dichiarazione della remissione divina.
39. È straordinariamente difficile anche per i teologi più saggi esaltare
davanti al popolo ad un tempo a prodigalità delle indulgenze e la verità
della contrizione.
40. La vera contrizione cerca ed ama le pene, la larghezza delle indulgenze
produce rilassamento e fa odiare le pene o almeno ne dà occasione.
41. I perdoni apostolici devono essere predicati con prudenza, perché il
popolo non intenda erroneamente che essi sono preferibili a tutte le altre
buone opere di carità.
42. Bisogna insegnare ai cristiani che non è intenzione del papa equiparare
in alcun modo l'acquisto delle indulgenze con le opere di misericordia.
43. Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare a un povero o fare un
prestito a un bisognoso che non acquistare indulgenze.
44. Poiché la carità cresce con le opere di carità e fa l'uomo migliore,
mentre con le indulgenze non diventa migliore ma solo più libero dalla pena.
45. Occorre insegnare ai cristiani che chi vede un bisognoso e trascurandolo
dà per le indulgenze si merita non l'indulgenza del papa ma l'indignazione
di Dio.
46. Si deve insegnare ai cristiani che se non abbondano i beni superflui,
debbono tenere il necessario per la loro casa e non spenderlo per le
indulgenze.
47. Si deve insegnare ai cristiani che l'acquisto delle indulgenze è libero
e non di precetto.
48. Si deve insegnare ai cristiani che il papa come ha maggior bisogno così
desidera maggiormente per sé, nel concedere le indulgenze, devote orazioni
piuttosto che monete sonanti.
49. Si deve insegnare ai cristiani che i perdoni del papa sono utili se essi
non vi confidano, ma diventano molto nocivi, se per causa loro si perde il
timor di Dio.
50. Si deve insegnare ai cristiani che se il papa conoscesse le esazioni dei
predicatori di indulgenze, preferirebbe che la basilica di S. Pietro andasse
in cenere piuttosto che essere edificata sulla pelle, la carne e le ossa
delle sue pecorelle.
51. Si deve insegnare ai cristiani che il papa, come deve, vorrebbe, anche a
costo di vendere - se fosse necessario - la basilica di 5. Pietro, dare dei
propri soldi a molti di quelli ai quali alcuni predicatori di indulgenze
estorcono denaro.
52. È vana la fiducia nella salvezza mediante le lettere di indulgenza.
anche se un commissario e perfino lo stesso papa impegnasse per esse la
propria anima.
53. Nemici di Cristo e del papa sono coloro i quali perché si predichino le
indulgenze fanno tacere completamente la parola di Dio in tutte le altre
chiese.
54. Si fa ingiuria alla parola di Dio quando in una stessa predica si dedica
un tempo eguale o maggiore all'indulgenza che ad essa.
55. È sicuramente desiderio del papa che se si celebra l'indulgenza, che è
cosa minima, con una sola campana, una sola processione, una sola cerimonia,
il vangelo, che è la cosa più grande, sia predicato con cento campane, cento
processioni, cento cerimonie.
56. I tesori della Chiesa, dai quali il papa attinge le indulgenze, non sono
sufficientemente ricordati nè conosciuti presso il popolo cristiano.
57. Certo è evidente che non sono beni temporali, che molti predicatori non
li profonderebbero tanto facilmente ma piuttosto li raccoglierebbero.
58. Nè sono i meriti di Cristo e dei santi, perché quesi operano sempre,
indipendentemente dal papa, la grazia dell'uomo interiore, la croce, la
morte e l'inferno dell'uomo esteriore.
59. S. Lorenzo chiamò tesoro delta Chiesa i poveri, ma egli usava il
linguaggio del suo tempo.
60. Senza temerarietà diciamo che questo tesoro è costituito dalle chiavi
della Chiesa donate per merito di Cristo.
61. È chiaro infatti che per la remissione delle pene e dei casi basta la
sola potestà del papa.
62. Vero tesoro della Chiesa di Cristo è il sacrosanto Vangelo, gloria e
grazia di Dio.
63. Ma questo tesoro è a ragione odiosissimo perché dei primi fa gli ultimi.
64. Ma il tesoro delle indulgenze è a ragione gratissimo perché degli ultimi
fa i primi.
65. Dunque i tesori evangelici sono reti con le qualiun tempo si pescavano
uomini ricchi.
66. Ora i tesori delle indulgenze sono reti con le quali si pescano le
ricchezze degli uomini.
67. Le indulgenze che i predicatori proclamano grazie grandissime, si
capisce che sono veramente tali quanto al guadagno che promuovono.
68. Sono in realtà le minime paragonate alla grazia di Dio e alla pietà
della croce.
69. I vescovi e i parroci sono tenuti a ricevere con ogni riverenza i
commissari dei perdoni apostolici.
70. Ma più sono tenuti a vigilare con gli occhi e le orecchie che essi non
predichino, invece del mandato avuto dal papa, le loro fantasie.
71. Chi parla contro la verità dei perdoni apostolici sia anatema e
maledetto.
72. Chi invece si oppone alla cupidigia e alla licenza del parlare del
predicatore di indulgenze, sia benedetto.
73. Come il papa giustamente fulmina coloro che operano qualsiasi
macchinazione a danno della vendita delle indulgenze.
74. Cosi molto più gravemente intende fulminare quelli che col pretesto
delle indulgenze operano a danno della santa carità e verità.
75. Ritenere che le indulgenze papali siano tanto potenti da poter assolvere
un uomo, anche se questi, per un caso impossibile, avesse violato la madre
di Dio, è essere pazzii.
76. Al contrario diciamo che i perdoni papali non possono cancellare neppure
il minimo peccato veniale, quanto alla colpa.
77. Dire che neanche S. Pietro se pure fosse papa, potrebbe dare grazie
maggiori, è bestemmia contro S. Pietro e il papa.
78. Diciamo invece che questo e qualsiasi papa ne ha di maggiori, cioè
l'evangelo, le virtù, i doni di guarigione, ecc. secondo I Corinti 12 [1COR,
12].
79. Dire che la croce eretta solennemente con le armi papali equivale la
croce di Cristo, è blasfemo.
80. I vescovi i parroci e i teologi che consentono che tali discorsi siano
tenuti al popolo ne renderanno conto.
81. Questa scandalosa predicazione delle indulgenze la si che non sia facile
neppure ad uomini dotti difendere la riverenza dovuta al papa dalle calunnie
e dalle sottili obiezioni dei laici.
82. Cioè: perché il papa non vuota il purgatorio a motivo della santissima
carità e della somma necessità delle anime, che è la ragione più giusta di
tutte, quando libera un numero infinite di anime in forza del funestissimo
denaro dato per la costruzione della basilica, che è una ragione
debolissima?
83. Parimenti: perché continuano le esequie e gli anniversari dei defunti e
invece il papa non restituisce ma anzi permette di ricevere lasciti
istituiti per loro, mentre è già un'ingiustizia pregare per dei redenti?
84. Parimenti: che è questa nuova di Dio e del papa, per cui si concede ad
un uomo empio e peccatore di redimere in forza del danaro un'anima pia e
amica di Dio e tuttavia non la si redime per gratuita carità in base alla
necessità di tale anima pia e diletta?
85. Ancora: perché canoni penitenziali per se stessi e per il disuso già da
tempo morti e abrogati, tuttavia a motivo della concessione delle indulgenze
sono riscattati ancora col denaro come se avessero ancora vigore?
86. Ancora: perché il papa le cui ricchezze oggi sono più opulente di quelle
degli opulentissimi Crassi, non costruisce una sola basilica di S. Pietro
con i propri soldi invece che con quelli dei poveri fedeli?
87. Ancora: cosa rimette o partecipa il papa a coloro che con la contrizione
perfetta hanno diritto alla piena remissione e partecipazione?
88. Ancora: quale maggior bene si recherebbe alla Chiesa, se il papa, come
fa ogni tanto, così cento volte ogni giorno attribuisse queste remissioni e
partecipazioni a ciascun fedele?
89. Dato che il papa con le indulgenze cerca la salvezza delle anime
piuttosto che il danam perché sospende le lettere e le indulgenze già
concesse, quando sono ancora efficaci?
90. Soffocare queste sottili argomentazioni dei laici con la sola autorità e
non scioglierle con opportune ragioni significa esporre la chiesa e il papa
alle beffe dei nemici e rendere infelici i cristiani.
91. Se dunque le indulgenze fossero predicate secondo lo spirito e
l'intenzione del papa, tutte quelle difficoltà sarebbero facilmente
dissipate, anzi non esisterebbero.
92. Addio dunque a tutti quei profeti, i quali dicono al popolo cristiano
«Pace. pace», mentre non v'è pace.
93. Valenti tutti quei profeti, i quali dicono al popolo cristiano «Croce,
croce», mentre non v'è croce.
94. Bisogna esortare i cristiani perché si sforzino di seguire il loro capo
Cristo attraverso le pene, le mortificazioni e gli inferni.
95. E così confidino di entrare in cielo piuttosto attraverso molte
tribolazioni che per la sicurezza della pace.
I. LUTERO E LA SCOLASTICA (A) (B)
1) La cultura tardo-scolastica del Medioevo e la riforma luterana
Per comprendere il pensiero di Lutero è necessario conoscere il contesto
storico e culturale da cui esso nasce, essendo tale pensiero interpretabile
come una reazione ad alcune componenti di fondo della religiosità
tardomedievale.(1)
La dottrina luterana infatti, con i suoi concetti di grazia fede e
giustizia, si poneva in netta antitesi rispetto a quelle idee del suo tempo
che consideravano l'uomo come l'artefice della propria salvezza, attraverso
il libero arbitrio e le pratiche espiatorie prescritte dall'istituzione
ecclesiastica.
Questi due tipi di religiosità si possono definire come antitetici, dal
momento che l'uno si caratterizzava come umanistico e mondano (poiché poneva
nell'uomo l'iniziativa della salvezza) mentre il secondo, mettendo l'accento
sulla potenza divina e sull'incapacità dell'uomo di ottenere da solo la
salvezza, si caratterizzava come assolutamente teocentrico.
Come sottolinea James Atkinson (2), l'esigenza di rivalutare il mistero
divino e la sua potenza assoluta, contro l'eccessiva fiducia nell'uomo e
nella sua libertà d'azione (che caratterizzava da sempre la cultura
scolastica) fu alla base della riforma della dottrina cristiana operata da
Lutero.
La 'teologia della croce', che stabilisce che l'uomo si può salvare solo
attraverso la misericordia divina, fu essenzialmente una rivalutazione di
quei temi 'mistici' che avevano caratterizzato l'inizio della cultura
cristiana e che col tempo avevano gradualmente perduto il proprio spessore
nell'ambito della sensibilità medievale. Lutero (ed il successivo sviluppo
della teologia riformata) liberò con la propria dottrina quelle idee e
quegli atteggiamenti religiosi che da tempo la chiesa cattolica, ormai
mondanizzata, tendeva a reprimere o quantomeno ad ignorare.
Si contrapposero allora due differenti concezioni della religione: la prima
incentrata sull'autorità della chiesa (come istituzione mondana) quale
mediatrice tra la dimensione umana e quella divina, e sul libero arbitrio
(capace di libere azioni e espiazioni), fiduciosa insomma riguardo alla
forza umana di fronte a Dio; la seconda che al contrario affermava
l'esigenza di un rapporto diretto tra Dio ed uomo e che si impegnava a
ribadire sia la debolezza umana sia l'assoluta potenza di Dio (ovvero del
mistero della sua volontà e sapienza).
Ma quella tra attività e passività umana non è la sola differenza tra i due
orientamenti religiosi.
Anche il concetto di fede cambia radicalmente. Per la cultura tardomedievale
infatti la fede è una fiducia incrollabile (poiché basata su un
atteggiamento della volontà, libera dalla ragione umana) non tanto nella
Sacra scrittura quanto nell'istituzione ecclesiastica, che di essa raccoglie
il messaggio e che lo rappresenta di fronte ai fedeli. Si ha perciò una
cieca fiducia (per altro motivata razionalmente da motivi di credibilità
quali i miracoli della tradizione o la potenza storica della chiesa) nei
confronti di un istituto terreno specifico.
Questa componente mondana fu alla base della ribellione spirituale di
Lutero. In opposizione a quest'idea di fede (che implicava per il popolo
tedesco una sottomissione economica e politica, oltre che religiosa) egli
sviluppa un nuovo - e per certi versi antico - concetto di fede, intesa come
certezza interiore e purezza di intenti e di coscienza.
Da una visione autoritaria che fa della fede una fede nell'autorità, Lutero
sviluppò una fede libera, ispirata alla Scrittura ma non sottomessa
dogmaticamente neppure ad essa, come spiega nel saggio Sulla Libertà del
cristiano.(3)
Mi pare quindi si possa affermare che la visione luterana si contrappose
alla concezione religiosa quale era sostenuta dalla chiesa cattolica romana,
essenzialmente su due punti: l'impostazione 'umanistica' (nel senso di una
fiducia nell'efficacia della volontà umana) e l'idea esteriore di fede della
prima, contro il teocentrismo e la certezza di fede del protestantesimo.
Questa nuova visione della religiosità si distaccava inoltre dalla
precedente anche riguardo al ruolo sociale della Chiesa come istituzione: è
innegabile infatti che la Chiesa cattolica, oltre che più 'oppressiva',
risultasse anche più protettiva nei confronti dei fedeli; mentre la
conseguenza che il pensiero teologico di Lutero (attraverso la propria
impronta interioristica ed individualistica) ebbe sul mondo sociale e
culturale tedesco, fu essenzialmente quella di favorire lo sviluppo di una
mentalità più libera, che lasciava un maggiore spazio all'iniziativa dei
singoli individui (con le conseguenze sociali - a volte disastrose - che
tutti conoscono: per esempio le insurrezioni del 1525).
Note
1 Il termine 'religiosità tardomedievale' viene utilizzato in questo
paragrafo in riferimento ad una concezione delle pratiche religiose di
natura devozionale (attestata da moltissimi documenti del periodo, per
esempio dalle 95 tesi di Martin Lutero) diffusasi, a livello popolare, anche
a causa dell'influenza esercitata sulle masse dalle correnti del pensiero
scolastico. (I filosofi e i teologi appartenenti a quelle correnti, oltre a
svolgere le attività connesse con il magistero, avevano assunto in seno alla
Chiesa stessa un compito di definizione dottrinale, e un ruolo di guida, sia
teorica che pratica, nei confronti delle stesse masse dei fedeli.)
Con questa locuzione, quindi, intendo riferirmi ad una serie di
atteggiamenti e di convinzioni, già profondamente radicati nel XV secolo,
riassumibili - come si mostrerà meglio più avanti - in due idee: a) quella
dell'esistenza del libero arbitrio umano; b) e quella della capacità di
ottenere, attraverso le opere o i meriti, la grazia divina.
2 Cfr. James Atkinson, Lutero, la parola scatenata, Torino, Claudiana 1983,
p.94 ss.; dove si legge ad esempio: "Quando un uomo ha visto l'enormità del
suo peccato, la risposta è quella dell'ubbidienza e della resa a Dio che è
grazia e misericordia personificate. (...) La fede non è mai in alcun senso,
una conquista o uno sforzo umano, un tentativo di mettere qualcosa di umano
nel contratto con Dio, per esempio buone opere e sforzi."
3 Per capire il valore della libertà nella visione di Lutero, può essere
utile rileggere alcuni passi iniziali dello scritto Sulla libertà del
cristiano (M. Lutero, Scritti politici, Torino, U.T.E.T. 1949), nei quali
egli scrive: "(...) Affinché possiamo comprendere fino in fondo che cosa sia
un cristiano e in che cosa consista la libertà che Cristo ha acquistato per
lui e ha a lui donata - della qual cosa S. Paolo molto scrisse - voglio
proporre due proposizioni: Un cristiano è libero signore su tutte le cose e
non è soggetto a persona alcuna. - Un cristiano è servo in tutte le cose ed
è soggetto ad ognuno" (p.367). In tali passi emerge il valore della libertà
per il cristiano, il quale è signore su tutto in quanto spirito e soggetto a
tutto in quanto carne.
Questo significa che la componente spirituale, che Dio ha posto nel
cristiano, lo rende libero di fronte a tutto e contemporaneamente lo
congiunge spiritualmente (e, si badi, in senso non dogmatico) con la S.
Scrittura - come attesta, ad esempio, ciò che Lutero scrive poco dopo:
"(...) L'anima non ha altra cosa né in cielo né in terra nella quale vivere
pia e libera ed essere cristiana, oltre al santo Evangelo, la parola
predicata da Gesù" (ivi, p.368).
2) Idea di patto
Lutero non è abitualmente considerato un 'teologo del patto', "la sua
teologia infatti non è un sistema nel quale l'idea di patto costituisca un
elemento dominante che mette in ombra tutto il resto".(4)
Tuttavia si può dimostrare come la riflessione su quest'idea sia stata, per
il giovane Lutero, uno stimolo efficace per lo sviluppo della propria
teologia dell'humilitas.
La presenza di tale idea all'interno della sua visione trovava la sua
origine essenzialmente nei teologi del Medioevo - e soprattutto in quelli
del tardo Medioevo -; già da molto tempo, infatti, essi si occupavano di
questo aspetto del rapporto tra Dio ed uomo.(5)
E' allora necessario, per comprendere la visione di Lutero, risalire alle
origini e agli sviluppi di questo concetto teologico.
L'idea di patto, che si sviluppò a partire dall'inizio del Medioevo, fu, in
gran parte, il risultato della doppia lotta sostenuta da Agostino contro i
Donatisti e i Pelagiani.(6)
Contro i primi, che sostenevano la non efficacia dei sacramenti se impartiti
da un sacerdote indegno, Agostino sviluppò la concezione secondo cui Dio non
lascia rovinare la sua opera da strumenti peccaminosi.
Sulla scia di tale concezione soprattutto gli esponenti della scuola
francescana, da Bonaventura a Duns Scoto, e da Ockham fino a Gabriel Biel,
affermarono con sempre crescente insistenza l'idea che i sacramenti
dovessero la propria efficacia al patto di Dio con la Chiesa.
Secondo una tale visione, infatti, i sacramenti agiscono come remissione dei
peccati solo in quanto si basano su un patto.
E' quella che si può definire l''idea oggettiva di patto', poichè secondo
una tale idea esso non è stato stipulato tra Dio e l'uomo, ma tra Dio e la
sua Chiesa (ossia con l'istituzione permanente). Ciò implica quindi che un
tale patto non possa più essere interrotto dopo esser stato stipulato, e che
non abbia un valore condizionale - in quanto non dipende dalle scelte degli
individui -, ma obbiettivo e stabile. (Questa concezione rimanda all'idea,
di cui si parlerà più avanti, che venne formulata anni dopo da Lutero).
Nella controversia con i Pelagiani, ossia con i sostenitori dell'efficacia
del libero arbitrio in materia di salvezza, S. Agostino affermò invece la
necessità radicale della grazia. E fu a partire da una tale dottrina
agostiniana, che si sviluppò successivamente (attraverso alcune modifiche
posteriori, legate soprattutto ad esigenze pratiche nella cura delle anime)
l'idea soggettiva del patto.
Heiko A. Oberman sostiene che "il risultato di un tale processo [di
trasformazione delle tesi agostiniane antipelagiane] fu la formulazione
dell'assioma: facientibus quod in se est, Deus non denegat gratiam,
sviluppatosi nella prima età scolastica, e sostenuto all'unanimità da tutti
i teologi della scuola francescana - Alessandro di Hales, Bonaventura, Duns
Scoto, Ockham e Gabriel Biel - nonché dal giovane Tommaso".(7)
Secondo tale visione, che riprende la distinzione scolastica tra la potentia
absoluta e la potentia ordinata (8) in Dio, "Dio (...) si è impegnato col
suo patto prima dell'inizio dei tempi a concedere la grazia a coloro che si
adoperano secondo le proprie forze e a ricompensare adeguatamente le opere
realizzate con il concorso della grazia".(9)
Ne deriva che la grazia, ovvero la salvezza, è donata da Dio in modo
necessario: tuttavia non per una necessità assoluta (cioè costrittiva per
Dio), ma solo per una necessitas immutabilitatis, in base alla quale Dio
resta fedele a sé: cioè al suo patto.
Quest'idea sfugge all'accusa di pelagianesimo, dal momento che il concorso
della libertà e della volontà umane è minimo. L'esempio che si può portare
per illustrare tale apporto, è quello di un uomo che, caduto in un fosso,
viene tirato fuori da un robusto salvatore, ma che coi suoi sforzi anziché
agevolare il suo salvataggio finisce per ostacolarlo. Seppure l'uomo faccia
dei seri tentativi per uscire dal peccato - tentativi che inducono Dio a
salvarlo - egli non dà alcun apporto oggettivo alla 'concreta' azione divina
che lo porta alla salvezza.
Nonostante tali considerazioni però, questa visione era comunque marcata da
un forte risalto dato alla libera volontà umana e alle opere, e supponeva
quindi che il patto tra Dio e il singolo uomo potesse essere interrotto,
ovviamente nel caso che quest'ultimo mancasse al proprio impegno di facere
quod in se est.
Esso richiedeva, contrariamente al patto oggettivo, una collaborazione
attiva da parte dell'uomo e senza questa collaborazione veniva interrotto.
In ogni caso, le due idee di patto proprie della teologia medievale
costituivano fondamentalmente un'unità, in quanto nei loro aspetti oggettivi
e in quelli soggettivi derivavano da una fonte comune: S. Agostino.
Riassumendo, come i sacramenti procurano la grazia oggettiva, le opere
meritorie viceversa procurano quella soggettiva, entrambe per un patto di
Dio: con la Chiesa e con i fedeli.
Secondo Oberman, Lutero si accostò a queste teorie soprattutto attraverso la
lettura della Canonis Misse Expositio di Gabriel Biel (10), dove trovò delle
interpretazioni del testo biblico che ne riconducevano il significato
all'idea di patto.
A prima vista, Lutero confutò tali idee. Contro l'idea soggettiva infatti
egli ribatteva, già nella sua prima lezione sui Salmi, mostrando come in
questi ultimi si affermasse che "più nessuno è saggio o cerca Dio", ed
concludendone che si dovesse escludere la validità della teoria del facere
quod in se est.(11)
Contro l'idea oggettiva invece, egli rimarcava la differenza tra la Parola
divina, espressa nei Sacramenti, ed il resto della creazione. (La creazione
infatti aveva secondo lui valore in se stessa, in quanto dono fatto da Dio
all'uomo; mentre la Promessa, per avere valore, richiedeva la fede da parte
degli uomini.)
Tali affermazioni, che senza dubbio negavano la visione medievale e
scolastica del pactum, nascondevano però un'affinità con quella visione -
affinità che risalta attraverso un'analisi più approfondita della teologia
di Lutero.
Lutero mise chiaramente in evidenza (tra i pochi nel proprio tempo) la
distinzione sussistente tra l'Antico e il Nuovo patto, tra l'antica e la
nuova legge.(12) Con tale distinzione inoltre, egli si distanziò dal
Medioevo ed anche in parte dalla successiva teologia riformata.(13)
L'antico patto (quello contenuto nel Vecchio Testamento) era un patto
bilaterale, in quanto basato sulle opere o sui meriti: e come tale esso
poteva essere sciolto nel caso che l'individuo non tenesse fede all'impegno
preso.
Il nuovo patto invece, espresso nel Vangelo o nel Nuovo Testamento, era
secondo Lutero un patto unilaterale, perché poggiava sulla sola misericordia
di Dio - anziché sulle opere umane. Per tale ragione esso non poteva venire
interrotto a causa dei peccati degli uomini, i quali tuttavia restano tali e
come tali venivano puniti.
La legge espressa nel Nuovo Testamento non era allora una legge formulata da
Dio per i credenti, ma per Dio stesso. Data la validità assoluta e non
condizionale di essa, Lutero con tale formulazione del pactum si
riallacciava all'idea oggettiva propria della teologia medievale.
Se quest'ultima infatti sosteneva che Dio si era impegnato a concedere la
grazia agli uomini attraverso i sacramenti impartiti dalla Chiesa, d'altra
parte il patto unilaterale (o monopleurico) di Lutero consisteva nella
decisione di Dio di salvare i cristiani solo attraverso la propria
misericordia: ovvero secondo un criterio che non dipendeva dalle opere
umane.
In entrambi i casi, la salvezza dipendeva dunque non dalla libera e mutevole
azione dell'uomo, ma dalla stabile volontà divina: ossia dalla necessitas
immutabilitatis.
Bisogna però notare come la teoria del patto di Lutero riprendesse anche
l'aspetto condizionale (o soggettivo) della precedente visione medievale.
Difatti, anche se i cristiani non venivano salvati per le proprie azioni o
per i propri meriti, l'idea soggettiva e quella oggettiva venivano comunque
ricollegate tra loro in una nuova unità attraverso l'introduzione di una
variante fondamentale, secondo la quale il patto determinava la
giustificazione e la salvezza: ma richiedeva al tempo stesso la fede in
Cristo.
In base a quest'analisi dell'evoluzione dell'idea di patto dal Medioevo fino
alla teologia di Lutero, si può quindi affermare che all'interno di
quest'ultima le due idee (soggettiva ed oggettiva) del testamentum, ovvero
del pactum, venissero ricollegate in una terza idea, nella quale si dava
risalto alla fede.
Il patto monopleurico di cui parla Lutero infatti, era essenzialmente una
promessa fatta da Dio agli uomini, che non implicava come tale nessuna
condizione da soddisfare oltre alla fede, che quindi diventava l'unica
'condizione' necessaria per la salvezza.
Il ruolo delle opere umane in questa visione passava in secondo piano, dal
momento che esse perdevano il proprio ruolo salvifico di fronte a Dio. Per
tale ragione inoltre il patto monopleurico si poteva anche definire - come
ho già fatto sopra - come una promessa fatta da Dio agli uomini.
D'altra parte bisogna sottolineare come, in quella concezione, l'aspetto
condizionale riemergesse attraverso l'idea secondo cui tale patto esigeva la
fede nella promessa: ossia la fede in Cristo, e che quest'ultima
presupponeva, per poter sussistere, quell'atteggiamento interiore che è
possibile qualificare come humilitas.
Che cosa si intenda poi con questo termine, lo si comprenderà meglio
attraverso gli sviluppi di questo discorso sul patto.
Note
4 H. A. Oberman, La riforma protestante: da Lutero a Calvino, Bari, Laterza
1986, cap. IV, par. 3, p.100.
5 Cfr. H. A. Oberman, La riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par.3,
p.101: "Non si tratta naturalmente [parla dell'idea di patto di Lutero] di
uno sviluppo ex nihilo; anche i teologi del Medioevo, in specie del tardo
Medioevo, si occupano del patto di Dio con l'uomo."
6 Ibidem: "In rapporto al duplice aspetto con cui Agostino nel suo contrasto
con i Donatisti e i Pelagiani affronta il problema della salvezza cristiana,
si sviluppa nell'età successiva un'idea di patto tanto oggettiva quanto
soggettiva".
7 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., cap. IV, par. 3, p.102.
8 Riguardo ai legami che l'opera di Lutero intrattiene coi dibattiti e i
problemi della tarda scolastica sul tema della potentia Dei, e in
particolare con la distinzione tra potenza ordinata e la potenza assoluta,
si veda H. A. Oberman (La riforma protestante, ed. cit., cap. III, par.2,
p.58), dove scrive che Lutero riprende il concetto, tipico della filosofia
nominalista, della potentia ordinata di Dio, a cui tuttavia conferisce "al
posto del suo originario significato gnoseologico, un'accentuazione
soterologica." Infatti, in Lutero, tale concetto non indica "innanzitutto
l'ordine stabilito dalla imperscrutabile e libera volontà di Dio (...), ma è
in modo inequivocabile l'ordine della redenzione in Gesù Cristo che Dio
nella sua misericordia ha istituito come rifugio per il peccatore
minacciato."
9 H. A. Oberman, op. cit., cap. IV, par. 3, p.102.
10 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., cap. IV, par.3, p.105, n.81: "Glosse di
Lutero al Collectorium (...) di Gabriel Biel e alla sua Sacri canonis misse
expositio (...)".
11 Lutero infatti, nel periodo in cui si dedica alla prima lezione sui Salmi
e studia il commento alla messa di Biel (il quale sostiene che passi come
quello di Luca 11,9 "cercate e troverete", convalidino la sua teoria del
patto) obbietta che tali passi non possono alludere al facere quod in se
est, osservando: "Come se quelle parole possano significare che senza la
grazia è in nostro potere cercare e convertirci, laddove il Salmo 13[2] dice
che più nessuno è saggio e cerca Dio." (cfr. H. A. Oberman, op. cit., cap.
IV, paragrafo 3, p. 105).
12 La distinzione tra Antico e Nuovo Patto è formulata molto chiaramente
all'interno del Servo Arbitrio, Torino, Claudiana 1993, p. 240, dove Lutero
scrive: "Il Nuovo Testamento è costituito essenzialmente di promesse ed
esortazioni, così come l'Antico Testamento è costituito essenzialmente di
leggi e minacce. Nel Nuovo Testamento viene predicato infatti l'Evangelo, il
quale non è altro che la parola attraverso cui sono offerti lo Spirito e la
grazia per la remissione dei peccati (...) e questo del tutto gratuitamente
e per la sola misericordia del Padre (...). Quanto poco la Diatriba
comprenda tutto ciò, lo mostra bene il fatto che non sa distinguere tra
l'Antico e il Nuovo Testamento; in entrambi infatti non vede quasi altro che
leggi e comandamenti (...)".
Da tale passo emerge chiaramente come l'Antico Testamento si basasse secondo
Lutero sul un patto bilaterale; e come il Nuovo Testamento al contrario
fosse basato su una promessa: ossia su un patto unilaterale.
13 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par. 3, p. 107: "A
mio avviso, Lutero si allontana dalla tradizione interpretativa
preesistente - e al tempo stesso dalla futura teologia riformata - nella
distinzione introdotta tra antico e nuovo, cioè tra legge antica e nuova.
(...)"
3) L'humilitas contro la superbia. Un confronto teologico
La nuova idea di patto era caratterizzata, come si è visto, dall'assenza di
una condizione posta per la salvezza. In questo senso essa non dipendeva in
alcun modo dal merito dell'uomo, e si allontanava così dalla concezione
antica propria del periodo medioevale.
Tuttavia, come si è detto, anche l'adesione a questo nuovo patto comportava
il soddisfacimento di una condizione. Esso richiedeva infatti che
l'individuo credesse nella promessa divina, ossia che avesse fede in essa
(sebbene ciò avvenisse in modo molto diverso da prima, poiché non dipendeva
più dalla libera scelta umana, ma dalla volontà predestinante di Dio).
E' appunto all'interno del processo interiore che culmina nell'acquisizione
della fede, che si colloca il tema esistenziale dell'humilitas: è a partire
da questo processo, quindi, che se ne può comprendere il significato.
L'umiltà è, in questa concezione, la condizione fondante per la fede stessa,
in quanto comporta il riconoscimento del proprio stato intrascendibile di
peccato, e perciò, in un secondo momento, del proprio bisogno di ricevere un
aiuto dall'esterno.
L'humilitas è insomma la condizione fondante del nostro volgerci extra nos:
ossia verso la trascendenza divina (14), ed è perciò il presupposto stesso
della certezza di fede.
In quest'ottica, quindi, l'umiltà non è più la condizione preparatoria della
grazia, ma al contrario è lo stato costante dell'uomo nella fede. L'uomo non
può infatti aver fede in Dio se non nella consapevolezza della propria
colpevolezza o finitudine; mentre senza quest'ultima, anche l'aspirazione
alla salvezza divina non potrebbe che venir meno.
L'humilitas è perciò, in quanto riconoscimento della propria condizione di
peccato, indispensabile al mantenimento della fede, e non vive solo come
virtus preparatoria (secondo la lezione cattolica) all'ottenimento di essa.
La teologia di Lutero pone allora il concetto del riconoscimento della
propria colpevolezza al centro stesso della condizione umana - mentre la
precedente visione soggettiva del patto attribuiva ad esso un significato
soltanto preparatorio in vista della salvezza.
Per Lutero, la salvezza individuale era ottenuta (paradossalmente) solo
attraverso il disperare di essa, come riassume efficacemente la formula:
simul iustus et peccator.
L'idea che il peccato e la grazia divina procedessero paralleli (dal momento
che la consapevolezza dell'individuo riguardo alla propria reale condizione
terrena era ciò che permetteva l'ingresso in essa della trascendenza,
attraverso la fede nella promessa divina) contraddistingueva in modo
essenziale la teologia luterana rispetto a quella cattolica e romana del suo
tempo. Secondo quest'ultima, infatti, la fede e la salvezza erano momenti
successivi all'umiltà, poiché implicavano, attraverso le buone opere e i
meriti, il superamento (per quanto parziale) di quella condizione che aveva
precedentemente suscitato l'umiltà stessa: ossia dello stato di peccato.
Alla luce di questa contrapposizione, si distinguevano secondo Lutero una
teologia dell'humilitas, e una teologia della gloria.
Mentre la prima implicava l'abbandono della presunzione umana circa la
salvezza, e quindi anche una fiducia incondizionata nella giustizia del
Creatore e nella volontà divina; la seconda invece, tacciata di
pelagianesimo dal riformatore (nonostante cercasse, come si è visto, di
minimizzare il più possibile l'efficacia dell'intervento umano),
presupponeva la capacità da parte dell'uomo di influenzare le scelte divine
e poneva di conseguenza quest'ultimo implicitamente su di un piano paritario
rispetto a Dio.
La sottolineatura della problematica dell'extra nos e del gemitus, chiarisce
dunque la natura del rapporto che Lutero pone fra Dio e l'uomo: rapporto
segnato dall'assenza totale di Dio nella dimensione umana e terrena, e
tuttavia anche dal bisogno imprescindibile di tale presenza - bisogno
soddisfatto solo in parte dal patto e dalla promessa di Dio (cioè dalla fede
dei credenti nella rivelazione) nella dimensione umana.(15)
Dal momento poi che la fede nel Dio rivelato è l'unica possibilità di una
tale presenza nell'esistenza terrena dell'uomo, diviene fondamentale la
figura del Cristo o del Figlio incarnato. La fede in quest'ultimo infatti
(con la centralità che viene ad assumere nel discorso religioso) finisce per
porre in secondo piano la stessa ricerca del Padre, dal momento che come
scrive Lutero (fissando la distinzione tra Deus nudus e Deus revelatus) nel
Servo Arbitrio: "una cosa è discutere del Dio o della volontà divina che ci
è stata predicata, rivelata e offerta [Cristo] per essere oggetto di culto;
un'altra è invece discutere del Dio che non ci è stato predicato, rivelato e
offerto [Dio increato] per essere oggetto di culto. In che misura infatti
Dio vuole rimanere nascosto e a noi sconosciuto, è cosa che non ci riguarda
affatto."(16)
L'humiltas rimandava perciò alla fede. E questa a sua volta rimandava alla
promessa della rivelazione come a una 'zattera di salvataggio' nel mare del
peccato, rendendo così centrale la figura del Cristo.
Ciò avveniva in contrasto con l'impostazione cattolica, secondo la quale il
Cristo Redentore si poneva di fronte ai fedeli tanto come un esempio di
umiltà, quanto come un primo mezzo di purificazione o di liberazione dal
proprio peccato: ovvero come 'garanzia' del futuro ricongiungimento al Padre
celeste.
Al contrario invece, in Lutero, il concetto dell'humilitas implicava la
consapevole rinuncia al Padre, e la sofferta rassegnazione alla propria
condizione di peccato.
Esso escludeva perciò che si potesse avere già in questa vita la certezza di
un futuro ricongiungimento con il Dio trascendente, ed escludeva quindi il
superamento dell'umana situazione di bisogno, fede e attesa. L'uomo non può,
in altri termini, riconciliarsi per essa con Dio già in questa vita, ma deve
piuttosto vivere nell'attesa e nella speranza di tale riconciliazione: e in
ciò consiste appunto la sua umiltà.
L'humilitas dunque (in quanto prepara la fede nella promessa fatta da Dio
all'uomo attraverso il figlio unigenito) è, nella teologia riformata di
Lutero, il solo e l'unico presupposto per la salvezza oltreterrena, e come
tale esclude la validità di qualsiasi mezzo a lei estrinseco in vista della
salvezza stessa.
Questo concetto emerge chiaramente, ad esempio, dal passo seguente, tratto
dalla Cattività babilonese della Chiesa di Roma: "Questa promessa [di Dio]
vale infinitamente di più di tutta la pompa di opere, cerimonie e rituali e
di tutto ciò che è stato introdotto nel sacramento per umana volontà. Nella
promessa di Dio sta ogni altra possibilità di salvezza (...), se non si
crede in essa, non si raggiunge la salvezza, poiché non si crede alla verità
divina che la promette."(17)
Emergono allora due idee del rapporto con la trascendenza: la più antica che
vede nel Cristo il mediatore, ovvero un 'mezzo' dato agli uomini per
superare lo stato di separazione dal Dio trascendente già nella dimensione
terrena; la seconda invece che pone l'uomo nell'attesa e nella speranza di
questo superamento, senza altra garanzia oltre alla fede stessa riguardo ad
esso.
Vivere nella fede significava per Lutero esser privi di altre garanzie,
oltre alla fede nella promessa, riguardo alla propria salvezza futura.
In questo modo il discorso sull'humilitas cristiana riportava la
problematica religiosa all'interno della sola coscienza interiore,
escludendo ogni mediazione esterna al rapporto fra Dio ed uomo, e facendo
inoltre implicitamente della fede il momento più alto della stessa vita
interiore dell'uomo.
Il rapporto con l'Assoluto passava soltanto attraverso la fede in Cristo,
cioè nella promessa di Dio, e rimaneva esclusivamente nel chiuso
dell'interiorità umana, senza richiedere mediazioni estrinseche a questo
rapporto.
La fede in Dio - in altri termini - era secondo Lutero fede in Cristo, non
fede in Dio attraverso Cristo: il che significava che attraverso Cristo non
si giungeva a Dio, e che giungendo al Figlio incarnato era terminato per
l'uomo l''itinerario' terreno verso Dio.
Il rapporto dell'uomo con Cristo diventava così una realtà pressoché
definitiva, che escludeva ogni elemento estraneo a sé, e si collocava solo
ed unicamente all'interno della coscienza del credente.
Per tale ragione la fede veniva intesa da Lutero non come il mezzo che era
stato dato all'uomo per ottenere la vita eterna, ma piuttosto come una prima
forma terrena di salvezza: totalmente interiore e sorretta dall'humilitas.
Tuttavia le implicazioni logiche e teologiche di questo concetto nel sistema
di Lutero, sono molto ampie e vanno perciò analizzate in modo più
dettagliato, come si cercherà di fare qui di seguito.
Note
14 Cfr. H. A. Oberman, Riforma Protestante, ed. cit., cap.IV, par.2, p.99:
"L'humilitas così definita, che si riscontra già nel nucleo più antico della
prima lezione sui Salmi, non è però solo una forma psicologicamente affinata
della cosiddetta 'virtù monastica medievale'; il concetto di humilitas è
piuttosto gravato dello stesso carico dell'espressione extra nos."
La certezza della propria insufficienza, e quindi del bisogno di ricevere un
aiuto dall'esterno di sé (extra nos) è dunque il vero significato
dell'humilitas in Lutero.
15 Non bisogna tuttavia trascurare il fatto che quest'impostazione, propria
della teologia luterana, che si può definire 'anti-platonica' (nel senso di
porre una distanza pressoché assoluta tra la dimensione umana e quella
divina), si ponga come antitetica rispetto a gran parte della filosofia del
XIV e XV secolo: quella ad esempio di Pico o di Ficino. Sul rapporto tra
Lutero e gli esponenti della corrente umanistica e platonica, si veda il
secondo capitolo (dove tratta dell'idea di giustizia prima della
formulazione datane da Lutero.)
16 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p. 226.
17 Martin Lutero, Opere politiche, Torino, U.T.E.T. 1949, p. 277.
I. LUTERO E LA SCOLASTICA (B) (A)
a) Humilitas cristiana
L'idea di patto unilaterale avanzata da Lutero (definibile, si è visto,
anche come un patto monopleurico) non comportava più, come si è detto,
alcuna opera né alcun merito da parte dell'uomo, ed era quindi libera da
qualsiasi condizione necessitante nella scelta di coloro a cui doveva essere
impartita la salvezza.
Il patto era per questo non tanto una legge data da Dio agli uomini, quanto
piuttosto una decisione che il Creatore aveva preso con se stesso.
Unica condizione posta per la salvezza dell'uomo era la fede, ovvero
l'adesione al patto divino. Essa implicava che si credesse nel patto o nella
promessa fatta da Dio.
A questo proposito, Lutero citava i passi biblici in cui veniva messo in
risalto il valore della fede per la salvezza - oltre alla semplice
affermazione secondo cui, se Dio fa una promessa, "non ci si accosta ad essa
né con le opere, né con le proprie forze, né per merito alcuno, ma per mezzo
della sola fede"(1): la fede era quindi, come tale, fede nella promessa
divina.
Attraverso l'analisi del processo che sfocia nella fede si può dunque
comprendere appieno il significato dell'humilitas nella teologia di Lutero,
all'interno della quale tale concetto ha un ruolo preponderante.
Il significato dell'umiltà nel contesto della fede risiedeva nel fatto che,
attraverso essa, l'uomo prendeva atto della propria condizione di
limitatezza, e perciò anche del bisogno del soccorso divino.
L'humilitas comportava il riconoscimento del proprio stato intrascendibile
di peccato, e poneva così le basi per quel volgersi extra nos che era alla
base dell'incontro con Cristo (incontro nel quale consisteva appunto il
volgersi dell'uomo verso la trascendenza divina).
Scriveva ancora Lutero, nel suo ultimo appunto a mano: "Siamo mendicanti.
Questa è la verità."(2), intendendo in questo modo sottolineare
l'inadeguatezza degli uomini davanti a Dio, e con ciò porre in cattiva luce
i molteplici sforzi e tentativi fatti da questi, per interpretare il divino.
Nella sua concezione, infatti, la natura di Dio era tale che maggiore era la
presunzione di comprenderla e minore era l'effettiva capacità di farlo.
Seguendo la lezione dei Salmi, in cui è scritto: Deus superbis resistit,
humilibus autem dat gratiam, egli affermava dunque la necessità dell'umiltà
di fronte a Dio, facendone il principio più profondo (come si vedrà) della
propria teologia.
La sua opera infatti è interpretabile sin dagli inizi, con i Commenti ai
Salmi e con le 95 tesi, come una predica in favore dell'umiltà dell'uomo
coram Deo: in quanto essa è la condizione stessa della presenza della fede
nell'uomo.
Nelle 95 tesi per esempio, a proposito dell'umiltà cristiana, Lutero
scriveva: "1) Il signore Gesù dicendo: 'Fate penitenza' [Mt 4,17] volle che
tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza": mostrando così la centralità
del valore della penitenza, o dell'umiltà, nella propria teologia.
E più avanti, nel punto 62, scriveva: "Vero tesoro della chiesa è il
sacrosanto Vangelo della gloria e della grazia di Dio", e nel 63: "Ma questo
tesoro è a ragione [leggi: per la ragione umana] odiosissimo perché dei
primi fa gli ultimi": mostrando così con molta chiarezza la natura
paradossale della fede, la quale - rovesciando i valori mondani - comportava
il rifiuto consapevole della legge della sopraffazione del più debole, e
della condizione naturale di peccato.
Già nelle 95 tesi del 1517, dunque, il discorso di Lutero (sebbene egli non
fosse ancora giunto alla propria maturità teologica, e dipendesse quindi in
molti aspetti del suo pensiero dalla teologia cattolica) voleva colpire e
sradicare, attraverso la lotta contro la pratica delle indulgenze, la
tendenza molto diffusa a sottovalutare gli aspetti spirituali e penitenziali
della religiosità cristiana, mirando così a riaffermare il valore della
contrizione o dell'humilitas.(3)
Ma il tema della condizione corrotta dell'uomo era presente già nella
tradizione medievale, nella quale veniva espresso metaforicamente da termini
come cloaca, stercus, latrina, contrapposti di solito a termini designanti
l'evoluzione spirituale dell'uomo (attraverso cui questi si allontanava
dallo stato di corruzione, e si elevava verso Dio).
Lutero riprendeva questi termini, ma conferiva loro un significato molto
differente da quello che ricoprivano nella tradizione teologica medievale.
Se infatti in tale tradizione essi indicavano ciò da cui l'uomo desiderava e
doveva (attraverso la fede e le opere) tentare di allontanarsi - nella
concezione di Lutero, al contrario, essi designavano la condizione a cui
l'uomo non poteva sfuggire, e alla quale era ancorata la sua esistenza.
Da un significato interamente negativo, quindi, tali termini acquistavano
per lui un significato parzialmente positivo, dal momento che, indicando
all'uomo la sua reale condizione, essi preparavano contemporaneamente il
processo di rigenerazione attraverso la fede.
Scrive a riguardo Lutero nel Servo arbitrio: "Queste dottrine [sulla fede]
sono dunque divulgate a favore degli eletti, affinché, così umiliati e
ridotti a nulla, essi siano salvati. Tutti gli altri [leggi: la Chiesa
romana] si oppongono a questa umiliazione, anzi condannano che venga
insegnata questa mancanza di speranza in se stessi, vogliono che sia
lasciato loro qualcosa, anche se poco, che possano compiere da soli".(4)
E' chiaro da questo passo come l'humilitas non venisse da lui intesa come la
condizione preparatoria in vista della grazia, ma al contrario - lo si è già
detto - come lo stato costante dell'uomo nella fede.
L'uomo non avrebbe infatti potuto avere fede in Dio senza la consapevolezza
della propria finitudine, cessata la quale anche l'aspirazione alla salvezza
(e perciò la salvezza stessa) sarebbe inevitabilmente venire a mancargli.
Dunque, se nell'antropologia scolastica la cloaca, "fungendo da contraltare
del fondo dell'anima, era il luogo in cui si annidavano il diavolo e il
peccato, per Lutero essa diventa invece il luogo dell'avvento di Cristo".(5)
b) L'idea centrale della teologia luterana: simul iustus et peccator
Questa concezione, che faceva del riconoscimento del proprio stato di
peccato un momento positivo nel cammino verso la salvezza, si può
comprendere tuttavia solo alla luce del pensiero (proprio di Lutero) del
duplex peccatum.
Secondo un tale pensiero chi, volendo giudicare se stesso, affermava di
essere senza colpa, raddoppiava la sua colpa. Ed è per questo che l'azione
salvifica di Dio iniziava col ricondurre il peccatore in stercus, e col
mostrarne così l'umiliazione.
Per Lutero dunque la salvezza era ottenuta proprio dal disperare nella
propria salvezza, e l'aspirazione verso Dio e verso la santità si ancorava
sempre alla consapevolezza dello stato di peccato. Non a caso il principio
riconosciuto della teologia luterana si può indicare, come si è già detto,
con la formula: simul iustus et peccator.
L'idea che il peccato e la salvezza nell'uomo procedessero paralleli era,
infatti, ciò che separava la teologia protestante da quella cattolica:
quantomeno di quel periodo. Sostenendo che non fosse l'uomo a dover agire in
direzione della salvezza, ma che suo compito fosse piuttosto di prendere
atto del proprio stato di corruzione, il riformatore finiva per
ricongiungere - differenziandosi quindi dalla teologia cattolica - i due
temi della salvezza e della dannazione, che precedentemente erano stati
considerati antitetici.
Tra le tantissime affermazioni fatte da Lutero a proposito di quest'idea,
data la centralità di essa nel suo sistema, possiamo ad esempio citare un
discorso a tavola del 1531, riportato dai suoi studenti, in cui si legge:
"la più grande tentazione di Satana è quando dice: 'Dio odia il peccatore
(...)'. Bisogna semplicemente negare la premessa maggiore: che è un fatto
che Dio odi i peccatori. (...) se Dio odiasse i peccatori non avrebbe
mandato suo Figlio per loro. Odia soltanto quelli che non vogliono essere
giustificati, coloro cioè che non vogliono essere peccatori [leggi: i
superbi]. (...) Ed ogni cristiano rifletterà che senza le tentazioni, non
può conoscere Cristo." O ancora: "Dunque quando vediamo i nostri peccati,
non abbiamo ragione di temere, bensì ne hanno quelli che non li vedono;
quelli sì che hanno ragione di temere".(6)
La spiritualità di Lutero quindi, ruotava in modo essenziale - come si può
capire da questi passi - attorno all'idea della compresenza o della
simultaneità nell'uomo del bene e del male. E ciò dal momento che - come si
è precedentemente dimostrato - il fondamento filosofico della sua teologia
sosteneva che solo il riconoscimento da parte del soggetto della propria
limitatezza, e quindi della propria assoluta distanza da Dio, solo una
posizione così radicale avrebbe posto realmente il presupposto dell'incontro
del fedele con Dio (ovviamente nei limiti delle possibilità umane, cioè
attraverso la fede).
L'impostazione appena descritta si poneva in netta antitesi rispetto alla
tendenza del cattolicesimo dell'epoca, che affermava invece il ruolo
soltanto preparatorio dell'humilitas per il conseguimento della salvezza.
L'umiltà, in tale visione, fungeva infatti da stimolo per il soggetto,
affinché egli ponesse in atto tutti gli sforzi possibili alla sua natura al
fine di superare (attraverso le opere) la condizione di peccato in cui si
trovava. E anche se, alla fine, il superamento vero e proprio era dovuto
alla magnanimità di Dio, che concedeva attraverso la grazia la liberazione
dal peso del peccato (secondo la famosa teoria del patto sostenuta, tra gli
altri, da Gabriel Biel (7)), tale liberazione dipendeva comunque in primo
luogo dagli sforzi liberamente sostenuti dal soggetto: cioè dai suoi meriti
personali .
Mentre dunque la teologia luterana poneva una assoluta distanza tra Dio ed
uomo, quella cattolica viceversa vedeva nella buona volontà (ossia in quella
che essa definiva 'umiltà') lo strumento attraverso cui l'uomo poteva
riconquistare liberamente la fiducia e l'amore di Dio.
La contrapposizione tra una visione rigidamente teocentrica, che faceva di
Dio implicitamente l'autore di ogni cosa (compresa la salvezza umana), si
scontrava così con una visione 'umanistica', i cui sostenitori - come diceva
Lutero - desideravano che all'uomo fosse concessa una naturale attitudine
verso il bene e la salvezza (8).
Da questo punto di vista si può affermare che la concezione del duplex
peccatum fu la manifestazione di un rinato fervore religioso, ossia di una
fede profonda nella bontà del Creatore.
c) Le due teologie
Ma le differenti impostazioni che abbiamo appena descritto, si ponevano alla
base anche di un'altra contrapposizione: quella tra teologia della gloria e
teologia dell'humilitas. La prima si inverava nella tradizione cattolica
scolastica, l'altra invece nella visione evangelica di Lutero.
L'origine di questa dicotomia stava secondo quest'ultimo nel fatto che,
mentre la prima teologia "scorgeva nell'universo ordinato alla gloria di Dio
un segno efficace della gloriosa partecipazione umana a quel disegno
ideale"(9); l'altra viceversa non si richiamava all'idea di una
partecipazione attiva da parte dell'uomo al disegno divino, ma si fondava
piuttosto sul presupposto di una sottomissione totale, da parte
dell'individuo, alla volontà di Dio.
Questo secondo tipo di teologia infatti, negava all'uomo qualsiasi capacità
di penetrare (anche cognitivamente) il mistero della maestà divina, ponendo
in primo piano le componenti affettive ed alogiche della fede - in contrasto
con l'impostazione razionalistica scolastica.
L'importanza di questo tema per il riformatore, risalta chiaramente
attraverso la considerazione del fatto che la lotta contro la teologia della
gloria rimase costante (a partire già dagli scritti giovanili) nel corso di
tutta la sua vita.(10)
A proposito della falsa teologia scolastica, si legge nella Cattività
babilonese, laddove viene trattato il tema dell'eucaristia: "segui i
ragionamenti del nostro abilissimo dialettico, per il quale il comandamento
di Cristo e l'arbitrio della Chiesa sono la stessa cosa (...); costui
dimostra così in modo geniale come ai laici si debba concedere la comunione
sotto una specie per precetto di Cristo: cioè per decisione della
Chiesa".(11)
Risulta allora chiaro, come Lutero considerasse fuorvianti tutti gli
atteggiamenti speculativi e raziocinanti in materia religiosa. Anziché
fornire una vera comprensione della Scrittura, l'impiego della ragione umana
ne deformava il messaggio profondo, portando inoltre gli interessi
dell'istituto ecclesiastico a 'coincidere' con il messaggio biblico.
La ragione dunque, che era stata il 'cavallo di battaglia' della cultura
scolastica (all'inizio - come si sa - solo ad integrazione della fede, e
successivamente anche come suo sostegno) viene bollata da Lutero, in materia
di religione, come empia e come frutto della superbia umana.
Scriveva difatti poco più avanti, sempre nella Cattività babilonese, che
Alveld (il teologo contro il quale stava sostenendo la disputa) "è un
teologo seguace di Anassagora, anzi di Aristotele, per il quale nomi e
parole tolti di posto e collocati altrove significano sempre la stessa cosa,
anzi: qualsiasi cosa !"(12)
In ambito teologico, dunque, la ragione (rappresentata in questo passo,
chiaramente, da Aristotele e da Anassagora) si contrapponeva all'umiltà -
così come l'umiltà, sempre in ambito di fede, veniva identificata con
l'opposto della ratio: ovvero col sentimento. E ciò dal momento che la
ragione offuscava la chiarezza del messaggio delle Scritture (13).
La teologia dell'humilitas allora, rimandava ad una conoscenza di Dio di
natura emozionale, basata essenzialmente su un'esperienza del tutto
personale e irripetibile, che spesso non escludeva passioni laceranti (14).
Veniva così messo nuovamente in primo piano, in ambito religioso, il valore
originario della spontaneità e della semplicità della fede (attraverso la
sua natura sentimentale); e veniva contemporaneamente superata una rigida
impostazione razionalistica, che tendeva ad avvicinare l'uomo a Dio anche su
di un piano conoscitivo (appunto con la theologia gloriae).
In questo senso, d'accordo con quanto sostiene Roland Bainton a proposito
delle intenzioni che muovevano Lutero, credo si possa dire che la teologia
del riformatore tentò di riportare alla luce l'originaria semplicità della
spiritualità cristiana: cioè di tornare a quella visione della fede che era
stata propria della Chiesa delle origini (15).
Emerge inoltre come, attraverso la valorizzazione dei temi del sentimento e
dell'interiorità nella fede cristiana, Lutero avesse posto l'accento sulla
passività dell'uomo di fronte a Dio, e come l'atteggiamento semi-pelagiano
(che per Lutero, vista la sua indole intransigente, equivaleva a pelagiano)
della chiesa cattolica fosse in realtà l'obbiettivo di fondo della critica
impietosa del riformatore.
d) "gemitus" ed "extra nos"
Il discorso di Lutero dunque si poneva, nei suoi aspetti più profondi, come
un tentativo di riaffermare l'idea della trascendenza assoluta di Dio.
Difatti il concetto che stava alla base di tutta la sua teologia, era che
nell'esistenza terrena dell'uomo vi fosse da una parte un assoluto bisogno
della presenza divina, e dall'altra una profonda mancanza di essa (data la
condizione di peccato in cui l'uomo si trovava a vivere).
Rimaneva quindi, in quest'ottica, un vuoto incolmabile di cui solo alcuni,
cioè i credenti, si rendevano conto. Questa consapevolezza era per l'appunto
l'humilitas o il sentirsi in stercore, che produceva invariabilmente la
disperazione o il gemitus, ovvero il desiderio inappagato del divino.
E' interessante vedere come per Lutero questo gemito, cioè questo grido di
dolore dell'anima, fosse già una prima forma di conoscenza solo negativa di
Dio (si pensi alla tradizione della teologia negativa dell'Aeropagita, che
aveva influenzato Lutero).
Il concetto di gemitus, nella teologia di Lutero, era dunque molto vicino a
quello che già abbiamo visto analizzando l'humilitas: ovvero alla radicale
proclamazione della propria miseria, che preparava la ricerca della verità e
della giustizia fuori da noi stessi: il rivolgersi a ciò che è al di fuori
di noi (extra nos) per affidarsi a questo principio esterno.
Il gemitus tuttavia non indicava il nostro uscire da noi stessi attraverso
l'invocazione della trascendenza divina: quest'idea infatti non rimandava
tanto a quella di una fede conquistata attraverso la disperazione, quanto
piuttosto a quella di una fede ricevuta attraverso di essa.
In altri termini, l'atto di credere non era il prodotto di una nostra libera
intuizione (come per esempio: "se Dio non è in me, allora posso trovarlo
solo fuori da me stesso") bensì della stessa misericordia divina, che veniva
in nostro soccorso proprio e soltanto nel momento della più profonda
disperazione, quando cioè l'individuo aveva ormai perduto del tutto la
speranza nell'incontro con Dio ("In primo luogo, Dio ha di certo promesso la
sua grazia agli umili, cioè a coloro che si ritengono perduti e disperati [I
Pie. 5], l'uomo d'altra parte non può umiliarsi completamente finché non sa
che la sua salvezza è del tutto al di fuori delle sue forze (...), ma
dipende interamente dall'arbitrio, dalla decisione, dalla volontà, e
dall'opera di un altro, e precisamente di Dio soltanto. Questo perché, fin
quando è convinto di poter dare anche il più piccolo contributo alla propria
salvezza, l'uomo (...) non dispera interamente di se stesso; pertanto non si
umilia di fronte a Dio (...)"(16): passo da cui emerge come solo la
disperazione assoluta, ovvero il gemitus, induca Dio a donare la sua grazia
all'uomo).
Anche il termine gemitus (come quello di humilitas, di cloaca, e come altri
ancora) era in uso già da tempo presso i teologi occidentali. Lutero
tuttavia ne mutò il significato, in modo tale che esso si inserisse come una
parte della sua originale visione teologica.
Per formarsi un'idea della trasformazione che egli apportò a un tale
concetto, può essere utile (sulla base delle ricerche svolte da H. A.
Oberman, il quale porta l'esempio di un teologo di quegli anni: un certo
Schatzgeyer (17)) confrontare l'uso che di quello stesso termine facevano i
teologi cattolici, con quello che adottò invece il riformatore.
Secondo il giudizio di Oberman, il concetto di gemitus si ricollegava nella
concezione tradizionale ad un'altra idea della filosofia medievale: quella
di synderesis(17bs).
I teologi cattolici infatti sostenevano che la sinderesi, in quanto abito
incorrotto dell'anima, producesse appunto il gemitus: ovvero una
lamentazione dello stato di decadenza e di perdizione che era proprio
dell'anima: essi sostenevano che, a causa di tali gemiti, Dio decidesse
d'intercedere in favore degli uomini (soltanto di coloro, però, che prima si
fossero volti liberamente e volontariamente ad ascoltare i 'gemiti
inenarrabili' prodotti dalla 'scintilla' della propria coscienza).
Questo concetto quindi, all'interno della teologia cattolica, era connesso
all'idea che nella natura umana fossero presenti sia una certa libertà
d'arbitrio, sia qualcosa di assolutamente incorrotto (una 'scintilla',
ovvero una retta volontà). Tale era, appunto, la concezione ottimistica
della fede contro la quale si scagliava Lutero.
La posizione di quest'ultimo, difatti, non vedeva tanto nel gemitus
un'espressione a livello emozionale della synderesis, ma piuttosto il segno
della debolezza dell'essere dell'uomo, e quindi quello della sua dipendenza
da Dio.
Il gemito non era, in tale visione, la base per un possibile sforzo della
parte incorrotta dell'anima umana per raggiungere Dio, bensì una
lamentazione dello stato di decadimento terreno che era proprio dell'anima
come tale.
Il concetto di gemitus non aveva perciò, secondo Lutero, un valore positivo,
né era di per sé l'inizio di una purgatio libera e volontaria dell'uomo
peccatore: esso era visto al contrario come un ricadere di questi nella
propria reale condizione di peccato. Tale concetto non rinviava ad alcuna
idea di salvezza acquisita attraverso i meriti personali ma, all'opposto, a
quella di un soccorso che non poteva che provenire dall'esterno del soggetto
(ossia extra se).
Espressioni come gemitus, humilitas, extra nos rinviavano perciò, nel
pensiero e nella dottrina di Lutero, alla prima fase di quel processo
interno che portava l'uomo alla grazia e alla fiducia nel patto con Dio:
rinviavano cioè a quel momento preparatorio nel quale l'uomo avvertiva il
proprio stato di peccato e di lontananza da Dio (e da cui usciva attraverso
il dono della grazia e della fede).
Se dunque il rapporto che Lutero stabiliva fra Dio ed uomo era segnato
dall'assenza totale del primo nella dimensione umana (e anche però dal
bisogno imprescindibile di tale presenza), questo bisogno era tuttavia
soddisfatto in parte dalla presenza in essa del patto e della fede.
e) il ruolo di Cristo
Si è già visto come l'uomo non potesse in nessun modo conoscere il Dio
trascendente (in quanto esso era totalmente oscuro), ma solo il Dio che si
era fatto uomo: cioè incarnato e rivelato. Ciò avveniva appunto con la fede
in Cristo, ossia nel figlio rivelato del Vangelo.
Cristo era dunque il Dio conosciuto ai fedeli, e conosciuto non solo come
una presenza esterna all'io ma anche misticamente, in modo che "Cristo e
l'anima divengono un corpo solo, uniti nella buona come nella mala sorte e
in tutte le cose, e ciò che Cristo possiede diviene proprio anche dell'anima
credente, e ciò che l'anima possiede diviene proprio di Cristo". (18)
Si può parlare infatti in quest'ottica di un matrimonio tra l'individuo e
Cristo, cioè del superamento di una precedente separazione, in cui consiste
la fede dell'uomo.
La ricerca del Padre allora, che tormentava tanto l'uomo prima di ricevere
la fede, passava in questo momento successivo in secondo piano.
Cristo difatti rigenerava l'uomo e lo avvicinava (per quanto era possibile
in questa vita) al Padre celeste, di modo che: "Cristo ha tutte le
beatitudini ed i beni, ed essi divengono propri dell'anima", mentre "l'anima
ha tutti i vizi e i peccati su di sé, ed essi divengono propri di Cristo.
Principia in tal modo l'amoroso baratto e la lieta disputa".(19) Se Cristo
era presente, il peccato dell'uomo se ne andava, nel senso che veniva preso
sulle spalle di Cristo che se ne assumeva il peso.
La differenza di tale discorso, rispetto alla teologia cattolica, stava
quindi nel diverso rapporto fra l'uomo e Cristo: e quindi anche tra l'uomo e
Dio.
Per la Chiesa romana, il compito dell'individuo era quello di giungere a Dio
attraverso la Chiesa, che rappresentava il Cristo in terra. Per mezzo della
Chiesa e dei suoi precetti dottrinali (ovvero di quelle che Lutero chiamava
le buone opere: pellegrinaggi, messe, indulgenze, ecc.), l'individuo doveva
infatti guadagnare la grazia divina e la salvezza eterna. Questo discorso
però implicava che l'uomo potesse influenzare la scelta dello stesso Dio
trascendente, dal momento che quest'ultimo era il vero dispensatore della
grazia agli uomini. I meriti quindi erano ciò con cui il fedele superava
Cristo attraverso Cristo stesso, guadagnando così la certezza della grazia
divina.
Questa prospettiva si rovesciava in Lutero, secondo il quale non era data
assolutamente all'individuo, almeno in questa vita, una tale certezza del
ricongiungersi o del riposare (nella prossima) in Dio. Egli doveva fermarsi,
nel suo itinerario spirituale verso il Principio del tutto, alla sola
manifestazione terrena di questa realtà originaria: il fedele non poteva
quindi ottenere la certezza della salvezza eterna e della grazia divina, ma
solo sperare e credere di riceverla.
Non gli era dato, in altre parole, di possedere la certezza (per quanto
relativa essa dovesse essere considerata) d'aver ottenuto da Dio, attraverso
le opere, la gloria celeste. Egli poteva, di conseguenza, soltanto aver fede
nel patto o nella promessa divina: ovvero in Cristo (e non a caso il
riformatore citava spesso nei suoi scritti il versetto biblico: "Il giusto
vivrà della sua sola fede": S. Paolo, Ad Rom).
La fede dei cattolici stava a indicare 'le buone opere' (i rituali della
salvezza), che sempre di più, quantomeno nella visione corrente, tendevano a
dare la garanzia agli uomini della salvezza eterna; mentre la fede luterana,
con una radicale inversione di rotta, riportava l'idea del 'credere' ad un
significato più letterale.
Il credere consisteva per essa soltanto nella speranza che quest'unione con
Dio si sarebbe realizzata in futuro secondo la promessa - anche se, essendo
ovviamente Dio non menzognero, la promessa da lui fatta ai fedeli non
avrebbe potuto essere smentita dai fatti oltreterreni.
Rimaneva, tuttavia, il dato fondamentale che Cristo non veniva più inteso in
questa visione come un 'mezzo' per l'uomo onde risalire già in questa vita
fino al Padre, poiché il Figlio incarnato (ossia il Verbo rivelato) era
l'unica realtà di Dio con all'uomo era dato di confrontarsi nella condizione
carnale.
Tutto ciò veniva ribadito spesso dal riformatore nelle sue opere, e
soprattutto nel Servo Arbitrio (scritto in cui egli aveva trattato
approfonditamente il suo punto di vista teologico). In esso, ad esempio, si
legge: "Ora, noi dobbiamo guardare alla sua [di Dio] parola e lasciar
perdere la sua volontà imperscrutabile. (...) Ci basta sapere che esiste in
Dio una certa volontà imperscrutabile. Che cosa, perché e fin dove essa
voglia, questo non è per nulla lecito chiederlo (...); dobbiamo solamente
temerla e adorarla."(20)
Cristo era dunque, per Lutero, il segno (attraverso la fede) della presenza
di Dio nell'uomo: di una presenza, inoltre, che pur manifestandosi anche
esteriormente (attraverso le azioni) era prima di tutto interiore: era
infatti solo la fede interiore in Cristo a poter fondare la salvezza
individuale (come scriveva l'apostolo Paolo: "E' solo la fede del cuore che
ci fa giusti e pii", Ad Rom.)
Inoltre, se il rapporto del fedele col Cristo rivelato non era più un
rapporto 'strumentale', per il quale quest'ultimo era colui che dava la
garanzia già in questa vita della salvezza futura, l'unione mistica diveniva
in quest'ottica una prima forma terrena di salvezza (e ciononostante l'uomo
restava peccatore, destinato come tale alla punizione divina).
L'ultima osservazione che vorrei fare riguardo al tema della fede nella
teologia luterana, è il fatto che ogni elemento estraneo ad essa (ovvero al
matrimonio tra Cristo ed uomo) venisse rigidamente escluso da questo
rapporto.(21)
Questa unione mistica, perciò, escludeva per poter esistere qualsiasi
interferenza dall'esterno (intendo, chiaramente, le opere ed i meriti
ottenuti attraverso la devozione per Cristo), e si collocava quindi
totalmente all'interno della coscienza individuale.
La religione diveniva così un fatto puramente interiore e spirituale: un
rapporto con l'invisibile, come scriveva Wilhem Dilthey.
I meriti o le buone opere, infine, riapparivano come un prodotto della fede:
una manifestazione necessaria e inevitabile di essa fuori dell'uomo.
Note
1 M. Lutero, La cattività babilonese, in: Opere politiche, ed. cit., p.255:
si tratta della parte sulla messa, che continua subito dopo dicendo: "Dove
c'è la parola di Dio che promette è necessaria la fede dell'uomo che
accetta; è chiaro che la salvezza dell'anima dipende dalla fede con cui ci
si accosta alla parola di Dio, il quale, prescindendo da ogni nostro merito,
con misericordia del tutto gratuita e immeritata, ci viene incontro
offrendoci la parola della sua promessa".
2 WAT 5,318, 2sg.; n. 5677 (citato in: H. A. Oberman, op. cit., cap. IV,
par.1, p.88).
3 Giuseppe Alberigo, La riforma protestante (origini e cause), Brescia,
Queriniana 1977, p.47 ss.
4 Martin Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.
5 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par. 2, p.99.
6 M. Lutero, Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1969, trascrizioni di Veit
Dietrich, pp.34-35.
7 Cfr. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., cap. IV, par. 3, p.102.
8 Cfr. M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.
9 Francesca Cantù, Ich bin hindurich. Orientamenti e problemi della ricerca
contemporanea su Lutero, in: Storia e politica: rivista trimestrale, Milano,
A. Giuffrè 1962, AnnoXXII, fasc. IV, 1984.
10 A proposito del periodo in cui Lutero iniziò la sua lotta contro la
teologia romana, scrive Francesca Cantù (nel suo articolo Ich bin hindurch,
p.757) che, secondo alcuni studiosi, quello della teologia crucis, o
'antispeculativa', è il tema sotto il cui riflesso il riformatore avviò la
battaglia contro le indulgenze nelle 95 tesi.
Riguardo alle lezioni sui Salmi, invece, la stessa autrice scrive che molti
studiosi fanno risalire la scoperta teologica di Lutero del sola fide (e
quindi anche l'opposizione alla teologia romana e cattolica) agli anni dal
1513 al 1515: quelli delle lezioni sui Salmi, appunto.
Infine, sempre in merito all'inizio della lotta contro la teologia romana -
e più precisamente sulla presenza del valore dell'humilitas già nella prima
lezione sui Salmi -, rinvio al 1° punto del 3° paragrafo.
11 M. Lutero, Cattività babilonese, in: Opere politiche, ed. cit., p.230.
12 Ivi, p.232.
13 Il tema della contrapposizione tra la fede e la ragione - quali mezzi di
comprensione del testo sacro - è presente in tutte le opere di Lutero e in
special modo nel Servo Arbitrio, in cui esso gode di una centralità quasi
assoluta.
Ne sono esempi i seguenti passi: "(...) Pietro nel capitolo 1 della sua
seconda epistola dice: 'Abbiamo pure la parola profetica, più ferma, alla
quale fate bene a prestare attenzione, come a una lampada splendente nel
giorno più oscuro' [II Pie. 1,19]. Qui Pietro fa della Parola di Dio una
lampada splendente e di tutto il resto tenebre. E noi invece da questa
parola vogliamo produrre oscurità e tenebre? (Lutero scrive qui in
riferimento ad Erasmo)"; e in un altro punto dice: "Tutti gli articoli di
fede dei cristiani devono infatti essere non solo certi di una certezza
assoluta, ma anche fondati sui passi della Scrittura (che sono) così
evidenti e chiari da tappare la bocca a tutti gli avversari (...)" (Servo
arbitrio, ed. cit., p.163 e p.167)
Il motivo, infine, per il quale la Scrittura appare oscura all'uomo
naturale, sta nel fatto che il "libero arbitrio - o meglio il cuore umano -
è talmente oppresso [dal peccato] (...), che se l'uomo non viene ridestato
dallo Spirito Santo di Dio, con le sue sole forze non è in grado né di
vedere né di intendere ciò che gli sta davanti agli occhi [leggi: la
chiarezza delle Scritture]" (ivi, p.172).
14 Scrive F. Cantù, op. cit., pp.747-748, che non si può comprendere la
figura di Lutero "se non a partire dal grande, movimentato edificio della
sua teologia, dove per altro l'esaustività e la chiarezza della costruzione
sistematica, lo straordinario corredo concettuale non di rado cedono il
passo al tumulto dell'esperienza, al calore dei sentimenti, alla
passionalità del temperamento."
15 Cfr. R. Bainton, La riforma protestante, Einaudi, Torino 1958, pp. 26-33.
16 Martin Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.120.
17 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., cap. III, par. 4, pp.81 ss.
17bs Vi sono molteplici sfumature di significato nel termine synderesis,
anche se con esso in generale bisogna intendere quel che resta nell'uomo
attuale della natura che gli era propria prima del peccato: quindi
dell'impulso originario verso il bene.
Per definire il significato di questo termine, cfr. The Cambridge history of
later medieval philosophy (edited by N. Kretzman, A. Kenny, J. Pinborg;
Cambridge, Cambridge University Press 1982, pp.690-695), in cui si mostra la
somiglianza di significato con il termine latino conscientia: entrambi
infatti significano 'conoscere in comune con'. Tuttavia il termine
synderesis acquista un significato distinto, dal momento che conscientia
designa tra gli autori medievali la 'sinderesi' più il libero arbitrio. A
riprova di questa idea, vengono citati alcuni brani di Filippo il
Cancelliere in merito a questo problema. Egli sostiene che quod erat
syndereos erat immutabile et non dictabat nisi bonum; sed illum coniunctum
cum eo quod erat rationis dictabat peccatum. Sic ergo synderesis cum ratione
liberi arbitrii facit conscientiam rectam vel erroneam; et conscientia se
tenet ex partis rationis (...). La sinderesi guida dunque il libero arbitrio
e la ragione solo se questi le danno la possibilità di farlo, tuttavia essa
in se stessa non è mai in errore; e per tale ragione, essa viene definita
dall'autore anche come un 'mormorio' costante dell'anima in opposizione al
peccato (synderesis movet liberum arbitrium dictando bonum et cohibendo a
malo, et movet in bonum commune qod invenitur in isto bono aut illo). La
synderesis è allora la controparte dell'impulso dell'anima verso il peccato,
una piccola 'luce' che guida l'uomo verso Dio (ne non esset ex toto ratio ad
temporalia inclinata vel incurvata). In essa consiste la potenzialità
originaria dell'anima verso ciò che è buono.
18 M. Lutero, La libertà, in: Opere politiche, ed. cit., p. 373.
19 Ibidem.
20 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.227.
21 Non a caso Lutero parlava, in riferimento alla sua teologia, di theologia
crucis, per designare la centralità del Cristo in essa. Anche la formula:
Sola fide, solo Christo attesta la presenza di questa idea in Lutero. La
nozione di fides Christi, quindi, rimanda all'idea secondo cui Cristo vive e
opera nel credente sotto il segno della croce e lo rigenera totalmente.
|