II. IL TEMA DELLA PREDESTINAZIONE IN LUTERO
1) La rottura con Roma:
Il fine dell'azione di Lutero non fu tanto di riformare la vita della Chiesa
e del clero, quanto piuttosto di correggerne la dottrina. L'oggetto
principale dei suoi attacchi non furono perciò, quantomeno in primo luogo,
le 'deformazioni' (sia a livello pratico che religioso) del cattolicesimo
medievale, ma il cattolicesimo stesso, in quanto esso tradiva secondo lui il
vero messaggio evangelico.1
Il punto di maggiore attrito, sul piano dottrinale, tra la teologia di
Lutero e quella della Chiesa cattolica era legato, in ultima analisi, alla
diversa soluzione data dalle due parti al problema del libero arbitrio umano
(molto più a questo, in realtà, che non al discorso sull'interiorità della
fede, o all'idea che la salvezza potesse essere ricevuta solo per volontà di
Dio).
Se questo secondo ambito di concetti, infatti, non poteva più essere messo
in discussione da chiunque desiderasse definirsi cristiano (e ciò dal
momento che il dibattito di S. Agostino contro i seguaci di Pelagio aveva
estirpato la possibilità stessa di atteggiamenti autoredentori in seno
all'ortodossia cristiana), il primo punto invece - cioè quello riguardante
la gratuità della salvezza, ed il fatto che essa non dipendesse in nessun
modo dai meriti umani - nonostante fosse stato già ampiamente testimoniato
da autori come S. Paolo e S. Agostino, aveva subito nel corso del medioevo
una sorta di 'censura' ad opera dell'ortodossia cattolica (ovviamente per
ragioni pratico educative). 2
Quel che rimaneva quindi del discorso di Agostino sulla Grazia era
essenzialmente, nella teologia medievale (come si è ampiamente dimostrato
nel capitolo precedente) l'idea soggettiva di patto, la quale, richiamandosi
al concetto di libero arbitrio umano, implicava come logica conseguenza la
rimozione degli aspetti predestinanti del discorso agostiniano. Secondo tale
idea infatti, l'uomo poteva liberamente sollecitare l'opera della propria
redenzione da parte del Signore, anche se non era assolutamente in grado di
redimersi con le proprie forze.
Anche il fatto, forse, che un concetto tanto importante come quello della
predestinazione venisse passato sotto silenzio, riportò l'interesse del
riformatore su di esso, inducendolo così a riaffermarne la centralità.
E fu proprio questa riaffermazione, ciò che determinò la rottura vera e
propria tra la teologia di Lutero e la tradizione cattolica medievale.
Il dibattito sostenuto da Lutero contro Erasmo da Rotterdam, a proposito
della libertà dell'arbitrio umano (1524-1526), può quindi essere
considerato, nell'arco di tutta la sua carriera, come quello di maggiore
importanza. Esso infatti da una parte costituì un valido motivo per chiarire
le ragioni dottrinali della propria avversione contro la chiesa di Roma e,
contemporaneamente, gli fornì l'occasione di esporre le proprie idee in
merito alla predestinazione umana.
Il Servo arbitrio inoltre fu, tra gli scritti del riformatore, il solo che
questi considerasse, assieme al Catechismo, veramente degno di essere
ricordato dopo la propria morte 3: e ciò perché egli vi esponeva (già a
partire dal titolo) l'unico vero e irrimediabile motivo di frattura con la
teologia corrente: l'incapacità dell'uomo di 'entrare in contatto con Dio'
con le sue forze naturali, e il limite quindi del dominio della sua volontà
alla sola dimensione terrena.
1 Cfr. R. Bainton, La Riforma protestante, op. cit., p.37, dove si legge:
"Lutero in effetti fu assai meno eloquente, circa le infrazioni correnti, di
quanto non lo fosse il suo contemporaneo Sebastiano Brandt, il quale così si
lamentava: la barca di S. Pietro - è in preda al fortunale:/ahi, che la
navicella - non debba finir male. (...) Ma il grido di Lutero non fu una
rampogna contro la ciurma; bersaglio delle sue critiche era la navicella.
"Altri - diceva - hanno attaccato la vita, io attacco invece la dottrina"."
2 In merito a questo secondo aspetto dell'eredità di S. Agostino, si può
leggere un'affermazione di James Atkinson, il quale afferma che, nonostante
la Chiesa cattolica non avesse mai accettato integralmente la dottrina
agostiniana, "la grande acutezza e il profondo paolinismo di Agostino, resi
più efficaci da una potente percezione spirituale e da una profonda
esperienza religiosa, diedero praticamente la loro impronta alla teologia
occidentale." (J. Atkinson, op. cit., p.40)
3 Cfr. F. De Michelis Pintacuda, l'introduzione a Servo Arbitrio di M.
Lutero, ed. cit., p.7.
2) Il dibattito con Erasmo:
Quella tra Erasmo e Lutero fu, nella storia della cultura occidentale, una
disputa importante. Essa infatti affrontò il problema - che successivamente
si pose di nuovo più volte nella cultura moderna - della libertà dell'uomo.
Questo dibattito, tuttavia, ebbe la propria origine in fattori in gran parte
estrinseci alla volontà dei due contendenti. Il motivo che spinse l'umanista
a scrivere il suo De libero arbitrio nel 1524, non fu infatti tanto una
scelta personale, quanto piuttosto la forte sollecitazione subita ad opera
delle autorità ecclesiastiche.1
E' un fatto indubitabile che tra queste due figure, Erasmo e Lutero,
sussistessero delle profonde affinità di vedute: entrambi lottavano contro
la deformazione della dottrina cristiana, che inclinava verso una nuova
forma di 'idolatria' (in quanto era ormai incentrata in gran parte sul culto
dei santi e delle reliquie, anziché sul messaggio del Vangelo e di Cristo).
Entrambi poi denunciavano - seppure in modi differenti - gli interessi 'poco
spirituali' del clero, e valorizzavano gli aspetti interioristici della fede
cristiana, quali si trovavano espressi già negli scritti di molti dei Padri
e capostipiti della Chiesa. (E non è un caso che l'umanista affermasse, in
una lettera, di aver insegnato ciò che Lutero stesso insegnava, seppure "in
modo meno selvaggio, e con meno paradossi"2.)
Tuttavia proprio una somiglianza così marcata - quantomeno sui punti appena
citati - prestava il fianco all'accusa, rivolta ad Erasmo da parte di molti
cattolici, di appoggiare copertamente l'azione di riforma di Lutero.2bis
Inoltre la ritrosia dell'umanista a prendere delle posizioni nette in favore
di qualsiasi schieramento o fazione, non poteva non destare (soprattutto
dopo la svolta degli anni venti, ovvero col dilagare in Europa della Riforma
luterana) dei forti sospetti agli occhi di molti contemporanei: ragione per
cui egli veniva spesso tacciato di segreta complicità con l'avversario.
In una situazione tanto tesa perciò, anche Erasmo (pur così geloso della
propria intimità e indipendenza da ogni fazione politica) si trovò costretto
dalle circostanze ad esprimersi, come già avevano fatto in molti prima di
lui, contro Lutero, implicitamente col ricatto di venire altrimenti
estromesso dalla Chiesa cattolica.
Il tema che l'umanista scelse di trattare nel suo saggio contro Lutero, fu
lo stesso che alcuni anni prima gli era stata consigliato da Enrico VIII
d'Inghilterra: ovvero l'esistenza del libero arbitrio 3.
E' interessante poi ricordare come il riformatore stesso accogliesse con
gratitudine e con piacere la proposta di dibattito fattagli da Erasmo,
ringraziandolo per "essere andato subito al nocciolo della divergenza,
anziché perdere tempo in sciocchezze come papato, indulgenze e purgatorio."4
Il tema sollevato dall'umanista infatti, portava alla luce la vera e più
profonda ragione di discordia tra Lutero e i cattolici.
a) il Libero Arbitrio d'Erasmo:
La posizione assunta dall'umanista in merito al problema della libertà
dell'uomo nel determinare il proprio destino oltreterreno, se da una parte
ricalcava (come si cercherà di mostrare più avanti) la posizione presa in
generale dai teologi delle scholae, dall'altra però può esser vista come una
manifestazione della sorgente temperie culturale, critica e moderna.
Nonostante l'avversione spesso manifestata da Erasmo nei confronti della
filosofia medievale, la sua posizione su questo specifico problema si
potrebbe infatti facilmente accostare a quella degli scolastici.
Come tale Lutero la combatteva ("Hai frenato il mio spirito e la mia
irruenza, e mi hai reso fiacco ancora prima di iniziare. E questo per due
ragioni. Innanzi tutto per il tuo modo di scrivere, con costante e mirabile
venerazione, (...) sicché io non posso irritarmi nei tuoi confronti. In
secondo luogo per via del caso o di un destino avverso, per cui in una
questione tanto importante non dici nulla che non sia già stato detto; anzi,
dici ancor meno e attribuisci di più al libero arbitrio di quanto abbiano
fatto i sofisti [ossia gli scolastici]"5.)
Tuttavia, l'atteggiamento di fondo assunto dall'umanista di fronte a questo
problema, era per certi versi estremamente differente da quello di quei
teologi. Se infatti essi si ponevano di fronte a una tale questione con
reverenza e paura, Erasmo al contrario l'affrontava con una sorta di
sfrontata ironia. A differenza dei primi, molto propensi a evidenziarne le
implicazioni drammatiche per l'homo viator, Erasmo si mostrava decisamente
più incline a minimizzarne la portata.
Il suo scritto iniziava come segue: "Tra le non poche difficoltà che si
presentano quando ci si accosta ai testi sacri, forse nessuna è un labirinto
più inestricabile di quella che riguarda il libero arbitrio. E' una
questione che ha già messo alla prova l'acume degli antichi filosofi, e poi
dei teologi, sia del passato che odierni, ma con più fatica, mi pare, che
frutto."6
Sin dal principio, dunque, egli si preoccupava di manifestare verso il
problema trattato un certo scetticismo, basato essenzialmente sul carattere
aporetico di esso (ricalcando, in tal modo, la posizione assunta
dall'umanista Lorenzo Valla nel suo Dialogo sul libero arbitrio del 1439).
In linea con un tale atteggiamento, egli passava subito dopo ad esaminarne
le implicazioni di natura pratica: ed asseriva quindi la dannosità insita
nel porsi 'simili dilemmi'. Scriveva infatti: "Così vi sono errori che
creano meno problemi a nasconderli che a sradicarli. Paolo sa la differenza
tra il lecito e l'utile. Diciamo il vero: la verità non è giovevole a
qualsiasi persona, o in qualsiasi momento, o in qualsiasi modo."7
Il suo punto di vista ruotava attorno all'esigenza di fondare una 'morale
naturale' che favorisse la convivenza civile tra gli uomini. In quest'ottica
si inquadrava la risposta - di carattere tutto umanistico - data da Erasmo
all'interpretazione scritturale luterana, risposta incentrata sull'idea
della responsabilità individuale. ("E ancora, immaginiamo che sia vero,
secondo un determinato punto di vista, quel che Agostino scrisse in un suo
libro, cioè che Dio opera in noi le cose buone e cattive, e che sempre in
noi premia le sue opere buone e punisce quelle cattive: a quanti questa idea
spalancherebbe la strada per comportarsi da empi, se diffusa?"8)
La posizione d'Erasmo era fondata, dunque, più che su una convinzione di
carattere religioso e teoretico, essenzialmente su considerazioni pratiche
(e anche in questo, peraltro, egli si avvicinava alla posizione presa nel
suo dialogo dal Valla).
Un'altra sua profonda convinzione, come si è detto, era poi quella
dell'inutilità stessa del porsi tale questione, la cui soluzione avrebbe
dovuto, a suo avviso, essere rinviata (come molte altre, per altro) al
giorno del giudizio. Si legge infatti poco più avanti: "Preferirei infondere
la convinzione che la vita e l'intelligenza non vanno consumate in questo
tipo di labirinti, piuttosto che riuscire a confutare, o a confermare, una
sola asserzione di Lutero."9
A partire da queste premesse, estremamente deboli da un punto di vista
teorico (ma è necessario ricordare come Erasmo "non fosse un teologo
sistematico, e non avesse propensione a formulare i [propri] fundamenta in
articoli numerati"10), l'autore passava poi ad analizzare sia le motivazioni
a favore, che quelle a sfavore del libero arbitrio.
La sua indagine tuttavia non si fondava unicamente sull'analisi dei testi
biblici, ma al contrario teneva conto pure delle risposte che erano state
date a questo problema da varie eminenti personalità della cultura
occidentale. E ciò tuttavia non al fine di sostenere una tesi specifica,
attraverso una critica di tali posizioni, ma piuttosto per dimostrare la
natura ambigua e sfuggente (aporetica) del problema.
A questo proposito Erasmo usava, all'interno del proprio testo, la metafora
dell'antro Coricio, per simboleggiare quegli aspetti della Maestà divina
che, in quanto manifestazioni dell'assoluta trascendenza ed ineffabilità di
Dio, sfuggivano totalmente alla comprensione dell'uomo. Si legge infatti che
"negli scritti divini ci sono alcuni aspetti reconditi, nei quali Dio non
volle che noi ci addentrassimo troppo, e, se cerchiamo di approfondire,
volle che quanto più approfondiamo, tanto più ci immergiamo nella nebbia,
affinché riconosciamo anche in questo modo che la maestà della sapienza
divina è imperscrutabile e constatiamo la debolezza della mente umana. Come
avviene per la grotta Coricia, - lo racconta Pomponio Mela - la quale, al
principio, invoglia e attira per la sua gradevolezza, ma poi, chi entra più
in fondo viene preso da un sacro orrore, e la maestà del nume che lì abita
lo ricaccia indietro."11
E ancora, più avanti: "A questo proposito sento dire: A che serve un
interprete dove la Scrittura è tanto chiara? Ma se è tanto chiara, perché
uomini eccellenti vi brancolarono per tanti secoli (...) e in una cosa poi,
che è tanto importante?"12
L'atteggiamento di fondo assunto da Erasmo sin dall'inizio del suo saggio
era, quindi, fondamentalmente di scetticismo e di diffidenza verso
l'argomento stesso che si accingeva ad affrontare (un atteggiamento analogo,
in questo senso, a quello del precursore Lorenzo Valla, il quale nel proprio
scritto affrontava con titubanza la questione propostagli dal suo
interlocutore, in ragione della difficoltà nonché della fondamentale
insolubilità di essa.)
Tuttavia la posizione che l'umanista prendeva sul tema del libero arbitrio,
nonostante la sua profonda indecisione, ricalcava nelle sue linee di fondo
(come si intende dimostrare qui di seguito) quella comune alla maggior parte
dei teologi del Medioevo.
La sua trattazione iniziava col considerare le varie posizioni che erano
state prese dagli antichi e dai moderni su "quanta sia la forza del libero
arbitrio in noi dopo il peccato". Pur nella loro varietà, esse erano secondo
lui essenzialmente riconducibili a tre tipi: a) quella di chi "rifiutava gli
estremi della disperazione e della sicurezza, e voleva stimolare l'uomo alla
speranza e all'impegno" e che quindi "dava più peso al libero arbitrio"; b)
quella - del tutto opposta - di coloro che "sostenevano che tutte le opere,
per quanto buone moralmente, erano detestabili agli occhi di Dio, poiché non
provengono dalla fede e dalla carità verso Dio"13; c) ed infine una versione
intermedia, da lui approvata e sostenuta, che veniva esposta nella parte
rimanente dello scritto.
Mentre la prima posizione (attribuita a Pelagio e, in una versione
attenuata, a Scoto Eriugena) era secondo lui "eccessivamente orientata in
favore del libero arbitrio", la seconda invece (ricondotta a S. Agostino e a
S. Paolo) gli appariva troppo rigida.
Tuttavia per riconciliare quest'ultima col proprio punto di vista, Erasmo ne
dava la seguente spiegazione: "Sant'Agostino e i suoi seguaci, considerando
quanto dannoso sia per la vera religiosità che l'uomo confidi nelle proprie
forze, sono più inclini a dar peso alla grazia. Paolo la sottolinea
dappertutto. E perciò nega che l'uomo soggetto al peccato possa orientarsi a
correggere la sua vita, (...) a meno che non sia spinto per opera divina".14
In altri termini, Erasmo giustificava una tale visione predestinante con
l'idea che fosse finalizzata ad abbassare le pretese umane, incoraggiando
l'uomo a attribuire quanto più possibile il bene a Dio anziché a sé, ma
evitando comunque di deresponsabilizzarsi.
Teoricamente quindi, Erasmo asseriva che "la legge indica cosa Dio voglia,
fissa la pena se non obbedisci e il premio se obbedisci. Ma lascia la
facoltà di scegliere alla volontà (...), libera ed orientabile in entrambe
le direzioni." Il tutto veniva giustificato con l'osservazione che "se la
volontà non fosse stata libera, non sarebbe stata imputabile per il peccato,
poiché il peccato cessa di esistere se non sia stato volontario (...)".15
A proposito di questa visione, alcuni studiosi hanno osservato come Erasmo
propendesse "piuttosto a ridurre l'onnipotenza divina, che a indebolire
[anche lontanamente] le fondamenta religiose dell'etica cristiana."16
Tralasciando di descrivere le molteplici distinzioni che egli metteva in
atto per delineare una linea di continuità tra i due opposti piani della
grazia e della natura, nonché tra quelli di paganesimo e cristianesimo
(distinzioni come, ad esempio, quella tra grazia generale e particolare, o
tra grazia operante e preveniente16bis), possiamo concludere questa analisi
citando un'immagine particolarmente pregnante, adoperata da Erasmo per
descrivere la condizione umana.
Egli paragonava la ricerca, da parte dell'uomo, della Grazia divina, ai
tentativi fatti da un bambino per imparare a camminare, mentre il padre che
lo incoraggia e lo aiuta rappresenta il Padre celeste: "Il padre, che ha un
bambino ancora incapace di camminare, quando cade lo rialza, aiutando ogni
sforzo del piccolo, e gli presenta davanti un frutto: il piccolo si agita
per arrivare, ma ricadrebbe per la debolezza delle membra se il padre non
stendesse la mano per sostenerlo e non sorreggesse il suo muoversi. (...) Il
piccolo non poteva alzarsi se il padre non l'avesse sostenuto, non avrebbe
visto il frutto se il padre non glielo avesse mostrato, non poteva avanzare
se il padre non avesse aiutato costantemente i suoi passi, non poteva
toccare il frutto se il padre non gliel'avesse dato in mano. Che cosa qui
potrà mai attribuirsi al bambino? Eppure qualcosa ha fatto. Non ha però
motivo di vantarsi delle sue capacità, perché deve tutto al padre."17
La posizione dell'umanista quindi, era fondamentalmente sfavorevole alle
idee di Lutero, nonostante egli riconoscesse l'onestà e la buona fede
dell'uomo. Erasmo non avrebbe mai potuto accettare il radicalismo del
riformatore, che svalutava totalmente il ruolo della volontà umana nel
determinare il destino individuale, e quindi metteva in discussione la
stessa dignità umana.
Si legge infatti, poco più avanti: "Questa posizione [quella di Lutero] pare
attribuire apertamente a Dio crudeltà e ingiustizia, affermazione che
ripugna del tutto ad orecchi religiosi."18 La visione di un Dio totalmente
incomprensibile agli uomini nelle proprie scelte morali, non poteva essere
approvata da un uomo che aveva fatto della pace il valore fondamentale della
propria vita e il principio stesso della sua visione cosmica.
Anche se dunque, Erasmo e Lutero avevano "un campo di impegno comune, sul
quale si trovavano ad essere contrastati dagli stessi nemici, quello del
rinnovamento culturale e della purificazione dei costumi ecclesiastici"19,
essi erano tuttavia separati da un notevole divario quando si trattava di
intendere la natura del divino e del rapporto uomo-Dio.
b) il Servo arbitrio di Lutero:
L'importanza del testo che Lutero aveva scritto in risposta ad Erasmo
risiedeva nel fatto di contenere un'esposizione sia della sua concezione
teologica, sia dei veri motivi del suo rifiuto della teologia cattolica.
Il riformatore inoltre, nel ribattere alle affermazioni dell'umanista,
riteneva di rispondere anche alle principali critiche di tutti i suoi
avversari, poiché la teoria esposta da Erasmo rifletteva - quantomeno dal
punto di vista di Lutero - i punti salienti della visione comunemente
accettata tra i cattolici.
Ciò trova conferma in molti passi del testo, all'interno dei quali Erasmo
veniva associato a quelli che Lutero definiva sofisti: i filosofi e i
teologi della tradizione scolastica ("tu e tutti i sofisti fatevi avanti
(...), il fatto che per molti [ossia per voi, cattolici] una grande quantità
di punti rimangano oscuri accade (...) per la cecità o la debolezza
d'intelletto di quanti non compiono il minimo sforzo per vedere la più
chiara delle verità."20)
Oltre che una disputa tra Umanesimo e Riforma sul tema della dignità umana
(come viene spesso stigmatizzata), la diatriba tra i due autori può essere
quindi vista come lo scontro tra due punti di vista antitetici. Il nostro
teologo riteneva di difendere in essa il vero messaggio del Vangelo, contro
tutti i corruttori della sua purezza e al di là di ogni 'categoria
culturale' (teologi scolastici o umanisti).
La sua discussione verteva essenzialmente sui seguenti punti: la fede, la
chiarezza delle Scritture, e la forza del libero arbitrio dopo il peccato
originale - ovvero su quei punti problematici che sarebbero virtualmente
rimasti gli stessi, molto probabilmente, se al posto d'Erasmo vi fosse stato
un qualsiasi altro interlocutore cattolico.
I motivi che il riformatore contrastava nel suo saggio erano dunque quelli
tradizionalmente difesi della dottrina avversaria: la capacità umana di
influenzare il giudizio di Dio, la fede come propria della volontà umana
anche prima della vera grazia 20bis, ed infine l'oscurità di alcuni passi
della Scrittura (si ricordi che Lutero contestava le letture anagogiche,
morali, ecc. del Medioevo, in favore di una comprensione letterale del testo
sacro).
Lo scritto del riformatore seguiva passo a passo, confutandoli, i vari
sviluppi del Libero arbitrio d'Erasmo, portando alla luce contemporaneamente
la concezione teologica di Lutero.
Tralasciando (come del resto si è già fatto per l'opera d'Erasmo) l'analisi
dei moltissimi passi scritturali su cui si appuntava la discussione, si
intende qui riassumere ciò che emerge dallo scritto nel suo insieme.
La prima critica sollevata da Lutero riguardava l'atteggiamento scettico
assunto dal suo avversario nei confronti della Scrittura: non spettava al
cristiano, secondo il riformatore, sollevare dei dubbi, ma piuttosto fare
affermazioni nette.
Si legge difatti, nel paragrafo iniziale del primo capitolo (L'analisi della
prefazione d'Erasmo): "tu mi rimproveri (...) l'ostinazione nel fare
affermazioni [ pervicacia asserendi ]. In questo tuo libro dici di aver così
poco gusto per le affermazioni che più facilmente inclineresti a posizioni
scettiche ogniqualvolta ciò ti fosse concesso dall'inviolabile autorità
della sacra Scrittura e dai decreti della Chiesa. (...) E' questa la
disposizione d'animo che preferisci". Tuttavia, prosegue Lutero, "è indegno
di un cuore cristiano non essere attratto dalle affermazioni; un cristiano
deve al contrario compiacersene, altrimenti non è un vero cristiano."21
Il tema dell'affermare con sicurezza inoltre, rimandava ad una seconda idea,
estremamente forte all'interno della sua visione: l'evidenza dei passi
scritturali.
Si legge così, poco più avanti: "Quale cristiano terrà così poco conto dei
precetti della Scrittura e della Chiesa, da dire [come fa Erasmo]: 'sia che
capisca, sia che non capisca'? Ti sottometti e tuttavia non ti importa nulla
di capire o di non capire. Maledetto, al contrario, il cristiano che non sia
sicuro e non capisca ciò che gli è prescritto; del resto, come potrà credere
in ciò che non capisce?"22 Per il vero cristiano quindi, il testo Sacro
doveva, per Lutero, essere assolutamente chiaro e privo d'incertezze nel suo
contenuto, mentre tale non poteva essere per i falsi cristiani (ad esempio
per quelli che egli chiamava 'sofisti').
L'autore, insomma, teneva a ribadire come Dio rimanesse effettivamente
sconosciuto in se stesso, ma non ammetteva alcuna debolezza conoscitiva
riguardo alla Scrittura: come abbiamo già visto nel precedente capitolo, la
distinzione tra Dio rivelato e Dio oscuro era secondo Lutero fondamentale
(perciò egli scriveva nel Servo arbitrio: "Dio e la Scrittura sono due cose
distinte, proprio come (...) il Creatore e le Creature di Dio. Nessuno
dubita che in Dio ci siano molte cose nascoste, che noi ignoriamo. (...) Ma
che nella Scrittura ci siano certe cose nascoste e che non tutte siano
accessibili, è stato sicuramente diffuso dagli empi sofisti attraverso la
cui bocca tu parli."23)
Oltre che su quello della libertà e della predestinazione, dunque, vi era
tra i due autori, un profondo dissidio anche sul tema della chiarezza
interiore: l'atteggiamento titubante di Erasmo in materia di fede, si
scontrava infatti con l'ostentata sicurezza nel fare affermazioni di Lutero.
E se per il primo un eccesso di chiarezza avrebbe significato una mancanza
di considerazione per il mistero divino, per il secondo invece ciò che
costituiva una vera empietà era proprio l'indecisione dottrinale.
Il rapporto dell'uomo con la fede non era perciò, secondo quest'ultimo,
esprimibile attraverso l'immagine (usata da Erasmo) della caverna coricia,
come è detto esplicitamente in questo passo: "A nulla vale ciò che tu adduci
a proposito dell'antro coricio. Le cose non stanno così nelle Scritture.
Tutto quel che riguarda la somma maestà non si trova in qualche luogo
appartato; al contrario è presentato ed esposto nelle piazze stesse e in
pubblico. Cristo ci ha aperto la mente, affinché comprendiamo le
Scritture."24
Il punto di vista di Lutero insomma, si poneva, già dall'introduzione, come
antitetico rispetto a quello dell'umanista: anziché ad un pensatore scettico
e moderno, egli somigliava piuttosto (per la perentorietà delle proprie
affermazioni) ad un teologo medievale.
L'altro argomento trattato nel testo era, ovviamente, quello della libertà
umana. In quanto vero motivo della disputa, ne costituiva anche il tema
fondamentale. Non si potrebbe però comprenderlo correttamente senza aver
prima considerato gli argomenti precedenti: dal momento che essi ne sono,
per così dire, l''humus' o il presupposto concettuale.
La distinzione tra coloro che capiscono e coloro che non capiscono la sacra
Scrittura (nonostante la semplicità di essa), vive sull'idea che alcuni
individui - a differenza di altri - abbiano ricevuto il dono della fede. Una
tale distinzione era così netta, proprio in quanto non era contemplata
alcuna possibilità di una zona intermedia, come quella di coloro che si
sforzavano di avvicinarsi a Dio.
Se la fede era soltanto un dono divino dunque, per tutti coloro che ne erano
sprovvisti (e che non erano nemmeno sulla strada per trovarla) essa doveva
rimanere come un puro vocabolo privo di senso - o al quale, tutt'al più, era
possibile attribuire un significato puramente esteriore.
Perciò, se da una parte vi erano gli illuminati, dall'altra vi erano invece
gli accecati. Si legge difatti che "la chiarezza della Scrittura è duplice,
come è duplice anche l'oscurità: una esterna posta nel ministero della
Parola, l'altra collocata nella conoscenza del cuore. Se hai inteso parlare
della chiarezza interna, nessun uomo può scorgere neppure uno iota nelle
Scritture, se non possiede lo spirito di Dio; tutti [i non illuminati] hanno
il cuore oscurato, sicché, per quanto dicano (...) della Scrittura, in
realtà non ne comprendono o conoscono alcunché."25
Poiché tutto ciò avveniva, secondo il riformatore, per una decisione divina
presa ab aeterno: ovvero in un modo predestinante ("per il cristiano è prima
di ogni altra cosa necessario e salutare sapere che Dio non ha alcuna
conoscenza in forma contingente, ma che prevede, prestabilisce e compie ogni
cosa con immutabile eterna e infallibile volontà (...)"), ne derivava di
conseguenza che il libero arbitrio umano non potesse in alcun modo esistere
("(...) Il libero arbitrio è completamente abbattuto e distrutto da questo
fulmine"26).
Lo scritto di Lutero proseguiva poi col mostrare da una parte la coerenza
interna della Scrittura (e inoltre, contemporaneamente, anche avvalorando la
tesi dell'inesistenza del libero arbitrio), e dall'altra mettendo in
evidenza le contraddizioni insite nella posizione erasmiana.
Se lo stesso Erasmo infatti riconosceva la natura infinita di Dio e degli
attributi divini, non era capace però - per ragioni da lui non meglio
precisate - di trarne le dovute conseguenze. "Non sei tu, o mio Erasmo,
colui che ha affermato poco prima che Dio è infinitamente giusto e
misericordioso? Se questo è vero, non ne segue che sia anche immutabilmente
giusto e misericordioso? Come in eterno la sua natura non viene mutata in
alcun modo, così neppure la sua giustizia e misericordia. Ciò che è detto
riguardo alla giustizia e alla misericordia è necessario che venga detto
anche riguardo alla scienza, alla sapienza, alla bontà, alla volontà e a
tutti gli attributi divini."27
La contraddizione fondamentale che egli rimproverava all'umanista, era:
"predichi che debba essere insegnata la volontà immutabile di Dio, ma vieti
di conoscere la sua immutabile prescienza!"28
Il punto di vista d'Erasmo cadeva perciò non sulle premesse (dal momento che
anche la ragione naturale, secondo Lutero, era in grado di cogliere il
concetto dell'onnipotenza divina), ma piuttosto quando ne doveva trarre le
logiche ed inevitabili conseguenze.
Il riformatore metteva a nudo poi l'inconsistenza di tutta una serie di
distinzioni (non soltanto erasmiane)29 escogitate per riuscire in qualche
modo a mitigare e ad attenuare l'idea della potenza divina, onde far spazio
all'arbitrio umano.
La stessa posizione d'Erasmo, per la quale l'imputabilità della colpa
richiedeva la libertà d'azione, veniva brutalmente contraddetta: "a questo
punto la Diatriba obbietterà sottilmente: dicendo 'se vuoi salvare' [Eccli.
15,14-17], il passo dell'Ecclesiastico mostra che è insito nella volontà
dell'uomo osservare oppure non osservare i comandamenti. Quale significato
avrebbe altrimenti, dire a qualcuno che non possiede volontà: 'Se vuoi'?
(...) Rispondo: queste sono argomentazioni della ragione umana, la quale è
solita profondersi in simili prove di saggezza. Per cui ci tocca discutere
non già con il passo dell'Ecclesiastico, bensì con la ragione umana; è lei
infatti che interpreta la Scrittura di Dio in base alle proprie deduzioni
(...) e la conduce dove le pare. E noi lo faremo con fiducia e volentieri,
poiché sappiamo che dalla sua bocca non escono che idiozie e assurdità,
soprattutto quando comincia ad esibire la sua saggezza nelle cose divine."30
E' la ragione naturale, quindi, che sentendosi onnipotente non contempla
nemmeno la possibilità che possa esservi un'altra logica dei fatti.
Ma in realtà, ciò che si dovrebbe ascoltare è, secondo lui, il semplice
discorso scritturale. In tal caso ci accorgeremmo che una richiesta non
implica sempre la possibilità di una risposta adeguata: "Se, in primo luogo,
domando com'è possibile provare che ogniqualvolta si dica: 'Se vuoi , se
fai, se ascolti', ciò significhi o comporti l'esistenza di una volontà
libera, la ragione umana dirà: perché così sembra esigere la natura delle
parole e l'uso del linguaggio tra gli uomini. Essa pertanto misura le cose e
le parole divine in base all'uso e alle cose umane. Che cosa c'è di più
perverso, dato che le une sono celesti e le altre sono terrene? Così facendo
mostra la propria follia, dal momento che su Dio non ha che pensieri
umani."31
Il significato della legge, perciò, non poteva stare altro che nel mostrare
all'uomo la sua incapacità di operare bene: "Se ora Dio si comporta nei
nostri confronti come un padre con i suoi figli, per mostrare a noi ignari,
la nostra impotenza; oppure, come un medico onesto, ci fa conoscere la
nostra malattia; o ancora, ci insulta come suoi nemici che resistono
orgogliosamente al suo consiglio e, ponendoci dinanzi le sue leggi (con le
quali raggiunge questo fine nel modo migliore), ci dice: 'fa, ascolta,
osserva', oppure 'se ascolti, se vuoi, se fai' - bisognerà allora
concluderne che possiamo fare liberamente tutto questo, o, in caso opposto
[quello reale: l'impotenza di fare], che Dio si prende gioco di noi a giusto
titolo, se siamo suoi fieri nemici [poiché non possiamo obbedire]? Perché
non trarne piuttosto la seguente deduzione: Dio ci tenta per condurci
attraverso la legge alla conoscenza della nostra impotenza, se siamo suoi
amici; oppure ci insulta e si prende gioco di noi, se siamo suoi nemici?"32
La legge quindi, non poteva in quest'ottica rendere l'uomo giusto e pio, ma
soltanto mostrargli la propria corruzione, come l'impossibilità di liberarsi
da essa: la funzione delle leggi era dunque portare l'uomo a disperare di
sé, avendo un valore di puro ammonimento. ("Noi, d'altro canto, ripetiamo
che questo passo dell'Ecclesiastico non difende affatto quanti sostengono il
libero arbitrio, bensì li combatte tutti. La deduzione: 'Se vuoi, allora
puoi' non è infatti ammissibile; questa espressione, come ogni altra simile,
deve invece intendersi quale ammonimento rivolto all'uomo circa la sua
impotenza, che egli, nella sua ignoranza e superbia, non sarebbe in grado né
di riconoscere né di sentire senza questi avvertimenti divini."33)
Ma, come abbiamo detto, oltre a dimostrare la linearità e la semplicità
delle Scritture (anche se per fare ciò, era necessario prima di tutto far
piazza pulita delle molteplici aggiunte che la ragione naturale vi
apportava), Lutero dimostrava come la posizione erasmiana fosse in profonda
contraddizione pure con se stessa.
Egli sosteneva infatti che il suo avversario, tentando di affermare
l'esistenza di un libero arbitrio 'debole' (ovvero bisognoso del soccorso
della Grazia divina), non si accorgeva di ricadere in una posizione
semplicemente pelagiana: "Ora, [Erasmo,] se neghi ai pelagiani il diritto di
dedurre che l'uomo è in grado di osservare i comandamenti, essi a loro
volta - molto più correttamente - ti negheranno la validità della deduzione
che l'uomo sia capace di impegno e di sforzo [questa era, appunto, la
posizione di compromesso assunta da Erasmo]. Se poi contesti loro il libero
arbitrio nella sua validità, essi ti contesteranno allora la piccola parte
che ne è rimasta; non puoi infatti attribuire a una sola parte ciò che hai
negato al tutto. Pertanto, qualunque cosa tu abbia detto contro i pelagiani,
i quali (...) attribuiscono tutto al libero arbitrio, noi a maggior ragione
la diremo contro questo impegno, così modesto, del tuo libero arbitrio."34
In conclusione, Lutero affermava che fossero possibili solo due
atteggiamenti, tra loro opposti: il primo, dettato dalla ratio naturale,
secondo il quale le leggi divine dovevano implicare da parte dell'uomo una
capacità d'osservanza totale (era la tesi dei pelagiani); l'altro invece,
che costituiva uno scandalo per la ragione, secondo il quale opere e meriti
non erano possibili.
Il fatto che l'Evangelo sostenesse in più punti ed esplicitamente questa
seconda tesi, non significava però che l'uomo naturale fosse in grado di
comprenderla.
Il fatto poi, che alcuni individui avessero elaborato delle posizioni
intermedie (come quella d'Erasmo, ad esempio) non significava che esse
fossero, in sostanza, differenti dalla prima.
Il riformatore giungeva a concludere in modo perentorio, che l'uomo era
sempre peccatore, e che non poteva fare altro che riconoscere come proprio
un tale stato di peccato - e anche questo solo per iniziativa divina.
Opponendosi all'idea della libertà dell'uomo coram Deo, egli allora si
opponeva non solo ad Erasmo, ma a tutta una lunga tradizione esegetica
(della quale quest'ultimo si poneva, anche se da umanista, come
continuatore) che l'aveva preceduto: quella appunto dei teologi scolastici.
1 Cfr. R. Bainton, Erasmo della cristianità, op. cit., p.155: "Se Erasmo
voleva restare nella Chiesa cattolica doveva restare scrivere contro Lutero
(...)".
2 Ivi, p.154.
2bis A proposito della personalità di Erasmo da Rotterdam, Stefan Zweig (nel
bellissimo libro che gli ha dedicato) sintetizza così il significato della
sua figura storica: "Missione e ragion di vita di Erasmo fu sintetizzare
armonicamente i contrasti con spirito di umanità. Era nato per conciliare,
ovvero, per dirla con Goethe che a lui fu simile nel rifuggire dagli
estremi, era una 'natura comunicativa'." (S. Zweig, Erasmo da Rotterdam,
Milano, Bompiani 2002).
3 Cfr. R. Bainton, Erasmo, op. cit., p.150.
4 Ivi, p.159.
5 M. Lutero, Servo arbitrio, op. cit., p.72.
6 Erasmo, Libero arbitrio, op. cit., p.3
7 Ivi, p.9.
8 Ivi, p.10.
9 Ivi, p.11.
10 R. Bainton, Erasmo, op. cit., p.159.
11 Erasmo, Libero arbitrio, ed. cit., p.6 (Si noti poi la contaminazione di
classico e cristiano, data dall'uso dell'immagine di Pomponio Mela, autore
latino del I d.C.)
12 Ivi, p.13.
13 Ivi, pp.22-23.
14 Ivi, p.23.
15 Ivi, p.21.
16 R. Bainton, Erasmo, ed. cit., p.123.
16bis Ma per qualche indicazione, cfr. infra, n.20bis, p.41.
17 Ivi, pp.75-76.
18 Ivi, p.77.
19 F. De Michelis Pintacuda: introduzione a Servo arbitrio, ed. cit., p.17.
20 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.85.
20bis Erasmo sosteneva infatti che fosse rimasta all'uomo una grazia
naturale, per quanto minima, da cui egli poteva ripartire per conquistare la
grazia speciale (originaria): "dato che grazia significa beneficio, si
potranno distinguere tre o, se preferisci, quattro grazie. La prima è quella
innata, che è stata corrotta ma non distrutta dal peccato, e che alcuni
chiamano anche influsso naturale. Questa è comune a tutti, anche a coloro
che persistono nel peccato: infatti, possono liberamente parlare (...)
aiutare un povero, leggere i libri sacri, ascoltare un sermone, ma tali
azioni - secondo l'opinione d'alcuni - non li portano affatto alla vita
eterna. Non mancano, tuttavia, altri i quali sostengono che (...) l'uomo
progredisce con le buone azioni di questo tipo fino ad essere preparato per
ricevere la grazia, e per sollecitare verso di sé la misericordia di Dio.
(...) Questa prima grazia, poiché è comune a tutti, non la si chiama grazia,
benché in realtà lo sia." Il passo continua poi con l'elenco delle altre
forma di grazia: particolare, od operante: riguardo ad essa egli diceva che
"Dio non fa mancare a nessuno questa seconda grazia" e che stava "alla
nostra decisione di associarle la nostra volontà [naturale]; ed infine
quella cooperante, che aiutava "a portare avanti quel che si era
intrapreso." (Erasmo, Libero arbitrio, ed. cit., pp.24-25).
21 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.77.
22 Ivi, p.81.
23 Ivi, p.84.
24 Ivi, p.85.
25 Ivi, p.86.
26 Ivi, p.95.
27 Ivi, p.95.
28 Ivi, p.96.
29 Lutero confuta anche la distinzione scolastica tra necessità condizionale
(necessitas consequentiae) e necessità assoluta (necessitas consequentis):
cfr. M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.97.
30 Ivi, p.203.
31 Ibidem.
32 Ivi, p.204.
33 Ivi, p.208.
34 Ivi, p.207.
3) Le origini dell'idea della predestinazione:
Nell'anno in cui scriveva il suo Servo arbitrio (1525), Lutero aveva ormai
da tempo consolidato il proprio concetto di predestinazione.
L'affermazione di tale concetto tuttavia, non essendo un'eredità degli
studi - fatti all'università o nel chiostro - dei vari autori medioevali
(quantomeno per il modo in cui essi venivano affrontati), aveva richiesto
prima un lungo periodo di incubazione attraverso la riflessione personale.
Sebbene non sia possibile per noi conoscere con certezza le tappe di una
tale ricerca, si può tentare di ricostruire i fattori che furono alla base
di essa.
In primo luogo, bisogna sottolineare l'azione di coloro che svilupparono
un'idea della giustizia divina analoga - o quantomeno simile - a quella di
Lutero: quindi, ovviamente, l'influenza di S. Paolo e di S. Agostino.
In secondo luogo, è necessario analizzare il rapporto tra Lutero e quei
pensatori che, attraverso il suo curriculum di studi, ebbero un peso
maggiore sulla sua formazione culturale (tra i quali, come noto,
preponderante fu l'influenza dell'occamista Gabriel Biel).
Si cercherà infine, di riassumere quelle che furono le motivazioni più
profonde del riformatore, nell'affermare la sua idea di servo arbitrio
dell'uomo.
a) il concetto agostiniano della giustizia:
a'- il contesto in cui avvenne lo studio di Agostino:
Lutero avvertiva una profonda affinità di vedute nei confronti di S. Paolo e
S. Agostino (come tra l'altro ci dimostra il fatto che, all'interno del suo
Servo arbitrio, il primo di questi due autori fosse quello più ampiamente
citato, seguito immediatamente dal secondo.)1
L'interesse del tutto particolare nutrito da Lutero era legato: sia alla
comunanza di vedute su temi come la predestinazione, il peccato radicale e
intrascendibile dell'uomo, la natura totalmente interiore della fede; sia ad
altri elementi più personali (come una marcata tendenza verso
l'introspezione) od esistenziali (quali il fatto di considerarsi tutti e tre
dei 'convertiti').2
Con Agostino poi, egli condivideva anche una concezione simile della storia:
questa infatti era vista da entrambi come un processo degenerativo, ovvero
come un avvicinamento graduale al momento della redenzione finale.3
Lo studio che egli fece di questi pensatori, non può però essere inteso
nella sua reale portata senza tenere conto del contesto in cui avvenne. Il
fatto, ad esempio, che il periodo di maggiore influenza di Agostino si
situasse proprio nella fase di formazione del suo pensiero definitivo -
ossia tra il 1513 (anno del primo ciclo di commenti ai Salmi; seguito dalla
fondamentale interpretazione della Lettera ai Romani di S. Paolo del
1515-16) e il 1525 - ci dimostra chiaramente il ruolo centrale che
quest'ultimo svolse nello sviluppo della sua fisionomia spirituale di
Lutero.4
Il primo avvicinamento a quest'autore avvenne quasi certamente durante il
periodo trascorso nell'Ordine degli Eremitani di S. Agostino (O.E.S.A.) -
dato il particolare obbligo di venerazione e di conoscenza qui professato
per il santo fondatore.5 Ma anche nel periodo successivo, quello
wittenberghense (iniziato nel 1509), Lutero si interessò molto ad Agostino.
In questa seconda fase, molto probabilmente fu determinante l'influenza
dello Staupitz (il vicario generale degli Agostiniani in Germania, con cui
Lutero ebbe un rapporto molto stretto) - anche se è un fatto certo che
entrarono in gioco anche fattori più personali, che ci rimandano alla stessa
scoperta dell'idea del sola gratia.
L'interesse per S. Agostino e per S. Paolo, in questo periodo, fu stimolato
in gran parte dal fatto che Lutero vedesse nei due autori una fonte di
chiarimento di alcune sue intuizioni personali in merito alla natura del
rapporto Dio-uomo, nonché un sostegno autorevole alla propria avversione
verso alcuni atteggiamenti (intellettualistici e volontaristici) della tarda
Scolastica.
La rivoluzione che il riformatore attuò, già a partire dai primi anni del
suo insegnamento universitario, consisté infatti essenzialmente in un
recupero originale del pensiero di Paolo e di Agostino - recupero concepito
soprattutto in funzione anti-scolastica.6
Per quanto riguarda in particolare S. Paolo (che Lutero interpretava sempre
sulla scorta del Padre della chiesa: da lui ritenuto suo interpres
fidelissimus 7), il rapporto che egli ebbe con i suoi scritti fu chiaramente
più stabile e meno soggetto a cambiamenti di quello che intrattenne con
l'altro pensatore. E' appurato difatti che la predilezione che Lutero nutrì
verso di lui - in quanto per primo aveva posto esplicitamente l'accento sul
tema della predestinazione - non venne mai alterata né messa in discussione
durante tutta la sua vita.
A testimonianza dell'interesse che Lutero nutrì verso queste figure della
cultura cristiana, e del significato che esse ebbero per lui, si può citare
questo passo (tratto da una lettera del 1516, scritta all'amico Johannes
Lang) in cui si legge: "In questa università la nostra teologia e
Sant'Agostino, per merito di Dio, conquistano sempre più spazio, senza
nessun contrasto. Aristotele, rivolto ormai a una prossima e irrimediabile
rovina, perde ogni giorno più terreno. Le lezioni sulle Sentenze,
inopinatamente diventano sempre più gravose: e non c'è più nessuno che possa
sperare di aver uditori se non professi questa teologia: cioè la Bibbia, o
Sant'Agostino, o qualche altro dottore della Chiesa."8
a"- l'idea di Agostino:
In un suo recente articolo 9, Alister E. Mc Grath sottolinea il divario che
divide la formulazione di S. Agostino del concetto di giustizia, dalle
concezioni diffusesi successivamente tra i teologi medievali (che pure ad
Agostino si richiamavano).
Mc Grath inoltre mostra come, in realtà, la prima patristica cristiana in
occidente avesse ripreso la concezione laica della giustizia propria della
cultura romana (la quale, nella formulazione datane da Cicerone, suonava:
iustitia est reddere unicuique quod suum est): il primo autore cristiano che
si era distaccato in modo radicale da una tale definizione, era stato per
l'appunto S. Agostino.
La differenza esistente tra il concetto ciceroniano o romano di giustizia e
quello sostenuto dal Padre della chiesa era radicale. Per Cicerone e per i
latini, infatti, il concetto della iustitia (che consisteva in un'equa
distribuzione dei premi e delle punizioni) aveva una natura essenzialmente
umana, e si collocava in un contesto civile. (Scrive infatti, nel suo
articolo, A. Mc Grath che "il punto fondamentale in queste definizioni
[ciceroniane] della giustizia era l'idea di dover dare ad ognuno ciò che gli
era dovuto", e più avanti che "l'interpretazione ciceroniana della iustitia
era prima di tutto secolare: essa doveva esser definita innanzitutto come
ciò che era stato deciso attraverso la legge [ius], che periodicamente
veniva stabilita in base al consenso giuridico [iuris consensus] - ovvero in
base a ciò che la stessa comunità civile decideva essere giusto"9bis).
Agostino invece esprimeva una concezione del tutto diversa, che rifletteva
la sua visione di un Cosmo gerarchicamente ordinato, e all'interno della
quale la giustizia umana non poteva che essere l'emanazione dello stesso
Principio divino, il quale la elargiva secondo una sua volontà libera ed
ineffabile.
Nella visione veramente agostiniana quindi, Dio distribuiva la grazia e la
salvezza eterne secondo un proprio criterio (trascendente), e perciò anche
in modo totalmente incomprensibile per l'uomo.
Egli poneva così la vera giustizia - da lui distinta dalla quella
strettamente civile - al di là delle possibilità umane: cosa peraltro in
linea con ciò che egli stesso affermava nel dibattito contro Pelagio.
La somiglianza tra quest'ultima idea di giustizia, nonché tra quella di S.
Paolo (espressa, ad esempio, nell'Epistola ai Romani), e la visione di
Lutero è evidente. Tutti e tre questi autori infatti - oltre ad intendere la
giustizia come un dono del tutto gratuito - basavano la propria idea sulla
convinzione della natura assolutamente corrotta della volontà dell'uomo (la
quale perciò rendeva necessario l'intervento divino).
Ciononostante, il percorso attraverso cui il riformatore arrivò alla propria
definizione della iustitia, fu molto più tortuoso di una semplice riscoperta
della definizione che abbiamo appena analizzato: esso non fu, in altri
termini, dovuto semplicemente ad una rilettura dei testi di Agostino e di
Paolo.
b) l'influenza di Gabriel Biel:
Ancora Mc Grath sottolinea infatti come, nel corso del Medioevo, l'idea
della presenza del libero arbitrio nell'uomo ritrovasse gradualmente parte
del vigore che aveva perso ad opera di S. Agostino.
Si è già mostrato, ad esempio, come la posizione che Erasmo assunse riguardo
a questo problema ricalcasse fondamentalmente quella, assai diffusa, secondo
cui Dio salvava solo "gli uomini di buona volontà": ovvero coloro che si
impegnavano attivamente nello sforzo di suscitarne la pietà e la
misericordia.
Un tale discorso, nel contesto in cui il riformatore si trovava a vivere,
era portato avanti dalla penna di Gabriel Biel, un filosofo occamista degli
ultimi anni del quattrocento. L'importanza particolare della sua teoria, per
la comprensione dell'agostinismo radicale di Lutero, consiste dunque nel
fatto che essa fu "il retroterra concettuale a partire dal quale, per
ammissione generale, poté sorgere il cambiamento di Lutero nella
formulazione dell'idea della giustificazione."10
Lo sforzo dottrinale compiuto dal Biel fu in gran parte quello di
ripristinare il contenuto delle varie dottrine occamiste, con particolare
attenzione per quelle teologiche.11 Egli si mantenne su quelle posizioni
'semipelagiane' che erano state sostenute dal filosofo inglese (il quale
asseriva che fosse necessaria la collaborazione della volontà umana con la
Grazia divina, per ottenere la salvezza), in aperta polemica con le tesi
sostenute negli stessi anni da altre correnti occamiste.
Biel sosteneva un'idea del rapporto Dio-uomo, secondo cui tra il Creatore e
le creature doveva esistere un patto finalizzato alla salvezza umana. Alla
volontà del Signore si attribuiva una natura retributiva (ovvero ragionevole
e comprensibile dalla mente dell'uomo), anche se ciò veniva di fatto a
dipendere da una libera decisione divina.
La sua era, quindi, un'ennesima soluzione di compromesso tra la definizione
antica (quella di Cicerone e di Aristotele) che poneva i contraenti del
patto su uno stesso piano, e individuava in esso la base stessa della
giustizia, ed un'altra (d'origine invece agostiniana) che la concepiva come
un possesso esclusivo di Dio.
Per mitigare l'ottimismo insito nella sua visione, Biel ricorreva
all'asserzione che l'uomo non potesse sapere se aveva fatto o meno quel che
era nelle sue possibilità (cioè il facere quod in se est), e che dovesse
aspettare per esserne certo di conoscere lo stesso giudizio divino (da cui
l'affermazione: difficilius est scire se habere illam dilectionem).12
Nonostante si possa dire che il preteso ottimismo di Biel (ed in generale
dei teologi dell'ultima Scolastica) fosse in gran parte il prodotto di una
distorsione operata dai riformatori religiosi, come ad esempio Lutero e
Melantone 13 (a causa della posizione polemica che questi ultimi assumevano
nei confronti della cultura scolastica), resta comunque il fatto che tali
teorie riflettessero uno spirito estremamente diverso rispetto a quelle del
riformatore tedesco.
Fu proprio la visione 'intermedia' sostenuta da Biel, infatti, a irritare
Lutero. Scrive Maria L. Picascia che, secondo Lutero, "lo sforzo operato da
Biel per contenere Occam entro l'alveo dell'equilibrio e della convergenza
fra poteri umani di salvezza e iniziative divine di Grazia, era uno sforzo
teologicamente compromissorio e debole."14 A partire da questa critica, il
riformatore elaborò una propria dottrina soterologica.
c) la salvezza secondo Lutero:
La convinzione fondamentale, che pose Lutero in un forte contrasto con il
suo maestro, fu quella della natura intrascendibile del peccato umano.15
A questo proposito, ad esempio, egli scriveva nel Servo arbitrio, parlando
della condizione dell'uomo prima e dopo Adamo: "Se il primo uomo, quando era
ancora assistito dallo Spirito, non poté volere con la sua volontà il bene
che gli era stato presentato - vale a dire l'obbedienza - dal momento che lo
spirito non glielo aveva accordato, che cosa mai potremmo compiere noi senza
lo Spirito e una volta perduto il Bene?"16
Questo del male radicale era, come s'è detto, un tema d'origine agostiniana
(anche se S. Agostino, ovviamente, lo affermava in un contesto culturale
molto diverso), ed era inoltre la base stessa della teologia luterana
dell'humilitas.
Proprio questa convinzione inoltre, era ciò che lo spingeva a rifiutare una
concezione di natura meramente distributiva della giustizia divina: egli, in
altre parole, riteneva che se Dio doveva avere delle ragioni obbiettive per
impartire la salvezza agli uomini, allora - dal momento che nessuno di loro
poteva, in verità, anche solo desiderare autonomamente di superare il
proprio stato di peccato - nessun uomo si sarebbe salvato.17
Chiaramente, una simile concezione della natura umana non poteva conciliarsi
con quella precedentemente descritta e improntata al criterio dell'equità
divina (ossia del: reddere unicuique quod suum est), dal momento che, per il
riformatore, all'uomo non era data in alcun modo la possibilità di redimersi
dallo stato di peccato, e quindi di soddisfare la condizione che sarebbe
stata necessaria per ottenere la salvezza. La sproporzione che egli
avvertiva tra le due opposte dimensioni: quella divina e quella umana, stava
perciò a fondamento del suo rifiuto della teoria, cattolica e medievale, del
patto tra Dio e uomo.
Il concetto che Lutero aveva così elaborato, si opponeva nettamente a quello
di Gabriel Biel. Quest'ultimo infatti, a giudizio del primo, propagandava
un'idea della giustizia divina di natura attiva e razionale (activa seu
formalis), ovvero semplicemente umana, poiché basata sul criterio
dell'equità.
Ma in termini teologici, la giustizia - data la natura trascendente di Dio -
non poteva venire intesa come lo sforzo umano per allontanarsi dal peccato,
bensì come un dono (ovvero una grazia) che veniva elargito dal Signore
all'uomo per lenire la sua condizione di partenza.
L'idea della necessità di un aiuto divino per poter superare - o meglio per
attenuare - la condizione umana iniziale di peccato, veniva ampiamente
richiamata nelle riflessioni personali del riformatore.
Ancora in gioventù, per esempio (1516), Lutero parlava della sua nausea di
fronte all'idea della iustitia come era intesa dai filosofi e dai giuristi:
Inde (ut de me loquar) vocabulum illud 'iustitia' tanta mihi est nausea
audire, ut non tam dolerem, si quis quis rapinam mihi faceret. Libentius
audissem eum misericordem quam iustum. ("Dunque, per parlare di me stesso,
quel vocabolo 'giustizia' mi dava una tale nausea nel sentirlo, che avrei
preferito piuttosto subire una rapina. Provavo maggior piacere nel sentire
dire che egli fosse misericordioso, piuttosto che giusto.")18
Molto chiara è poi la distinzione tra le due opposte forme di giustizia:
quella umana e quella divina, nel Lutero della maturità (le cui riflessioni
ci sono state tramandate dalle trascrizioni di amici e studenti, raccolte
nel volume dei suoi Discorsi conviviali).
Vi si legge infatti: "La scienza dei giuristi è una scienza del continuo e
del divisibile e consiste tutta nel mezzo divisibile, ossia in quello fisico
e non in quello matematico, e perciò è incerta e può resistere pochissimo a
Satana", e "appunto in quanto scienza del continuo e divisibile (...)
cogliere il giusto, ossia il punto matematico, è per essa impossibile". E
concludeva poi col dire che la teologia e la giurisprudenza erano "due cose
diverse, come il cielo e la terra; mentre una cosa sola è la giustizia,
poiché un solo uomo è Gesù Cristo e chi lo raggiunge è giusto."19
Per il Lutero ormai maturo, quindi, la Giustizia era qualcosa di
assolutamente distinto dal piano della ragione umana: come il cielo dalla
terra! Mentre infatti la ragione era attiva e formale, e portava perciò
inevitabilmente ad una giustizia che rifletteva la sua stessa natura
(iustitia activa seu formalis), la vera Giustizia doveva essere
esclusivamente ricevuta e passiva (iustitia passiva).
Né fu un caso poi, che proprio la convinzione del riformatore - radicata
profondamente nella sua conoscenza dei testi biblici - della profonda
corruzione del genere umano, in seguito alla caduta del primo uomo, lo
portasse fin da giovane ad avvertire una profonda avversione verso la
concezione di un Dio che non volesse trattare l'uomo attraverso il valore
del perdono.
Egli ricordava infatti, ormai maturo, di essere stato ossessionato da questo
problema: Quis enim potest eum [Deum] amare, qui secundum iusticiam cum
peccatoribus vult agere? 20: dal momento che l'uomo non poteva risollevarsi
dal peccato con le sue sole forze, la visione di un Dio giusto - vale a dire
giudice - non poteva che portarlo a disperare della sua salvezza - come di
quella di tutto il genere umano.
Il motivo per il quale, dunque, Lutero rifiutò la soluzione del problema
della salvezza proposta dal suo maestro Gabriel Biel, risiedé essenzialmente
nel dato che quest'ultima "negasse all'uomo qualsiasi cosa che potesse
risolversi in una sua giustificazione fin dalla base."21
Sulla base di una simile visione, egli - come molti altri riformatori dopo
di lui - rivalutò molti aspetti, e in particolar modo quelli predestinanti,
del pensiero di S. Agostino. Il pensiero di Lutero perciò, si può inquadrare
come il ritorno ad un agostinismo radicale (che si era per altro perso -
come mostra nel suo articolo il Mc Grath - già nei primi teologi scolastici
del Medioevo).
In quest'ottica perciò, non è fuori luogo parlare di un Lutero agostiniano,
laddove la sua più grande scoperta (a partire dalla quale appunto egli si
riavvicinò a molti temi dell'agostinismo) fu quella secondo cui "il concetto
della giustizia non corrispondeva necessariamente né alla iustitia hominum,
né alla iustitia Mosi."22
La rivoluzione del riformatore ruotò dunque principalmente, attorno al
rifiuto di ridurre la iustitia Dei ad un semplice meccanismo retributivo
(secondo il discorso dell'equitas divina, ossia del reddere unicuique quod
suum est), e sfociò di conseguenza nella rivalutazione di una visione
fideistica del rapporto dell'uomo con Dio.
4) Il significato della predestinazione nella teologia di Lutero:
Il ruolo dell'idea della predestinazione umana coram Deo, era quindi quello
di affermare la priorità assoluta del Creatore sulla sua Creatura.
Contro la visione cattolica che (lasciandogli la possibilità di influenzare
il giudizio divino) finiva per porre l'essere umano su un piano quasi
paritario rispetto a Dio, ed eliminava quindi la trascendenza radicale del
primo rispetto al secondo, il riformatore riaffermò sul piano dottrinale
l'assoluta preponderanza del Principio sulla sua stessa creazione.
L'idea, apparentemente illogica, di predestinazione (che suscitava nel suo
stesso sostenitore, almeno in certi momenti, un radicale rifiuto 23) aveva
in realtà, all'interno dell'economia del suo sistema, il senso di ribadire
quella che era l'unica vera convinzione dell'uomo Lutero: ovvero la presenza
avvolgente e onnipervasiva del Signore nelle vicende terrene.
1 In tale scritto S. Paolo viene citato 81 volte, S. Agostino invece 26.
2 cfr. Pani G. Introduzione a M. Lutero Commento alla lettera ai Romani,
Genova, Marietti 1992, p.XXXIII.
3 Ivi, p.XXXII.
4 Cfr. M. Bendiscioli, L'agostinismo dei riformatori protestanti, in: Revue
des études augustiniannes, Paris: Institut d'Etudes augustiniannes, 1955,
p.238, n.1.
5 Cfr. G. Pani, op. cit., p.XLVI.
6 Ivi, pp.XLVIII-IL.
7 Ibidem.
8 Cfr. G. Pani, op. cit., p.IL. - Per il rapporto con S. Paolo: cfr. A.
Agnoletto, Martin Lutero, Cuneo, Esperienze 1972, p. 87 ss: "Il paolinismo
di Lutero".
9 Per il seguente paragrafo: cfr. Alister E. Mc Grath, Mira et nova
diffinitio iustitiae: Luther and Scholastic Doctrines of Justification, in:
Archiv fur Reformationgeschichte: internationale Zeitschrifte zur
Erforschung der Reformation und ihrer Weltwiekungen, 1983, n. 74, paragrafo
II, pp. 46-56.
9bis Cfr. A. E. Mc Grath, op. cit., p.40 ("Fundamental to these definitions
of justice is the idea of giving someone his due"), e p.48 ("Cicero's
understanding of iustitia is primarly secular: iustitia may be defined as
what is determined by ius, which in turn is defined by the iuris consesus -
i.e. what the community itself decides to be just.").
10 A. Mc Grath, op. cit., p.52.
11 Cfr. H. A. Oberman, Maestri della riforma, Bologna 1982, cap. 2, pp.46 e
48.
12 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.54.
13 Cfr. l'articolo di Lawrence F. Murphy, Gabriel Biel and Ignorance as an
Effect of Original Sin in the Prologue to the Canonis missae expositio, in:
Archiv fur Reformationgeschichte, 1983, n.74 (parte I), e 1984, n.75 (parte
II), nel quale si mostra la riduzione (da parte dei riformatori, e nella
fattispecie di Melantone) della teologia di G. Biel ad una semplice teologia
'anti-luterana', attraverso un'interpretazione poco fedele del suo pensiero.
14 Maria L. Picascia, Un occamista quattrocentesco: Gabriel Biel, Firenze,
La nuova Italia 1979, p.49.
15 Il fatto che Lutero abbia combattuto le posizioni del suo maestro Gabriel
Biel, non significa tuttavia che queste fossero di per sé sintonizzate su
una frequenza pelagiana e volontaristica.
La teoria di Biel infatti, di stampo occamistico, puntava al recupero dello
spirito originario del maestro inglese, ed era perciò una "operazione di
recupero e di 'restauro' di Occam secondo quella linea d'equilibrio tra
merito e grazia" che altri occamisti invece (quali ad esempio Pietro
d'Ailly) tendevano su certi punti a rimettere in discussione (loro sì con
esiti pelagiani). Ciò non toglie tuttavia che la dottrina di Biel fosse
destinata a diventare "inevitabilmente il terreno di scontro di Lutero con
il testo di teologia a cui era stata affidata dalla schola la sua
formazione" (M. L. Picascia, op. cit., p.49.)
16 M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.208.
17 Inoltre, l'unico tentativo all'interno di quella concezione, di attenuare
la sicurezza della salvezza - attraverso, come s'è visto, il motivo del non
sapere se ne fossimo degni - lo induceva a disperare ancora di più riguardo
ad essa, data la sua aprioristica convinzione negativa a questo riguardo.
(Cfr. M. L. Picascia, op. cit., p.49.)
18 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.42.
19 M. Lutero, Discorsi a tavola, Torino, Einaudi 1969, p.55 ss.
20 Citato in A. Mc Grath, op. cit., p.42.
21 A. Mc Grath, op. cit., p.46; per esteso: "Any attempt to interpret
iustitia Dei using a paradigm of iustitia as virtus reddens unicuique quod
suum est can only lead to distress on the part of the sinner as he realises
how there is nothing within him which can result in his Justification on the
basis."
22 Ivi, p.42.
23 Cfr. M. Lutero, Servo arbitrio, ed. cit., p.288: "Pensare così di Dio è
sembrato ingiusto (...); per questo, nel corso dei secoli, molti uomini
eminenti ne sono rimasti scandalizzati. E chi non lo sarebbe? Io stesso più
di una volta ne sono stato scandalizzato fino al più profondo abisso della
disperazione".
III. LA MISTICA IN LUTERO
Uno dei fini dell'opera del riformatore fu (come si è dimostrato fin qui)
quello di riaffermare in un ambito teologico la centralità e la trascendenza
del Creatore rispetto alle sue creature, in contrasto con alcune tendenze e
alcune pratiche religiose molto diffuse nel proprio tempo.
Prova di questa intenzione sono le idee che abbiano analizzato sia nel primo
che nel secondo capitolo: quella secondo cui l'uomo può raggiungere la
propria salvezza solo attraverso il disperare di essa - ovvero attraverso
l'humilitas -, e l'altra per la quale la grazia viene impartita
esclusivamente in base ad una (libera) decisione divina.
Questi presupposti infatti, all'interno del sistema teologico di Lutero,
stavano a testimoniare la sproporzione esistente tra le due opposte
dimensioni: quella umana e quella divina.
Egli teneva inoltre a sottolineare come l'uomo, anche nella fede, rimanesse
sempre e fondamentalmente una creatura terrena; e come, per tale ragione,
non potesse ritenersi già al di fuori di quella condizione di peccato
(ereditata da Adamo), che era propria anche di ogni altro uomo. Questa idea
veniva espressa sinteticamente nella formula: simul iustus et peccator.
Già queste prime considerazioni illustrano chiaramente come la visione del
riformatore dovesse, per forza di cose, entrare in contrasto (almeno
indicativamente) con le pratiche della mistica, cioè dell'elevazione
dell'anima umana verso Dio: e soprattutto con l'esperienza più estrema di
questo processo, nella quale l'anima arrivava a conoscere direttamente lo
stesso Dio increato.
Il motivo più profondo del contrasto con tale tradizione, stava appunto nel
fatto che tali pratiche sopravvalutassero le possibilità umane naturali, in
quanto prospettavano - già in questa vita - la possibilità di una
riunificazione dell'anima umana con Dio, e quindi anche il raggiungimento di
uno stato di beatitudine terrena: cosa ovviamente inammissibile per il
riformatore.
Nonostante queste differenze tuttavia, sarebbe riduttivo affermare che il
rapporto del nostro con la precedente tradizione mistica fosse un rapporto
semplicemente negativo o di 'rifiuto'. Al contrario infatti egli ne fu
anche, sotto molti aspetti, positivamente influenzato.
Si pone perciò la necessità di approfondire, qui di seguito, la relazione
che egli intrattenne con tale tradizione.
1) Trasformazione della teologia mistica nel tardo Medioevo:
Nel periodo tardo medievale (che coincise con la nascita e con lo sviluppo
della filosofia occamista e della via moderna - in opposizione alla via
antiqua) la tendenza che caratterizzò la cultura, all'interno delle scuole e
delle università, fu sempre di più quella di restringere l'influenza di
quelli che Oberman ama definire 'aristocratici dello spirito', ovvero degli
autori mistici, sul curriculum di studio dei teologi.1
Questo fenomeno generale, che si può anche definire come un processo di
'democratizzazione della mistica' - e che caratterizzò più o meno tutta la
letteratura religiosa del tardo Medioevo - comportò, come conseguenza, il
fatto che ciò che si conservò e si tramandò nelle università di autori come
Bernardo di Chiaravalle o di Ugo di San Vittore, fu prevalentemente
l'aspetto più genericamente religioso del loro pensiero, anziché quello
veramente mistico.
Inoltre, sempre in questo stesso periodo, anche il movimento religioso e
culturale della Devotio moderna (che, come noto, conteneva ancora al suo
interno, nonostante la propria modernità, alcune componenti ascetiche e
claustrali di ascendenza medievale) fu certamente diffidente, se non ostile,
nei confronti delle pratiche della mistica vera e propria - quantomeno verso
quelle più estreme.2
Come scrive Heiko A. Oberman, riassumendo efficacemente la situazione
complessiva della cultura di quegli anni: "la via moderna e la Devotio
moderna furono entrambe interessate più fortemente alla theologia affectiva
che alla theologia speculativa, all'ascetica più che alla mistica, alla
contemplatio acquisita più che alla contemplatio infusa."3
Una tale descrizione ci mostra chiaramente la ragione per cui in quel
periodo, anche per uno studente di teologia come era Lutero, fosse
estremamente difficile riuscire a formarsi una solida preparazione in
materia di teologia mistica (cioè in quella disciplina che studiava in modo
approfondito, e classificava, le esperienze mistiche).4
E, inoltre, se è vero che rimaneva pur sempre un certo margine di influenza
per quelli che si possono chiamare gli 'aristocratici dello spirito' -
ovvero per i veri e propri autori mistici -, è tuttavia un fatto appurato
che la loro terminologia venisse, rispetto al passato, generalmente
"conformata alla descrizione della vita del normale cristiano" (e resa
quindi accessibile ad un pubblico più vasto, seppure in massima parte
estraneo alle vere e proprie pratiche dell'ascesi mistica).5
Si può allora dire in modo sommario che, nel contesto culturale in cui il
futuro riformatore si trovò a vivere, si stessero verificando due fenomeni
paralleli, ed in un certo grado anche complementari: da una parte vi era la
tendenza - della quale una tipica espressione fu per esempio la Devotio
moderna - a sviluppare la teologia in un senso affettivo; dall'altra invece
si era instaurato un processo di 'democratizzazione della mistica', che
comportava l'abbassamento di quella tradizione ad un livello molto più
accessibile alle persone comuni, ma che al tempo stesso ne snaturava i temi
originari.6
Entrambi i fenomeni - l'uno situato a un livello religioso e popolare 6bs,
l'altro a quello scolastico e universitario - furono accomunati dal fatto di
spostare la problematica originaria di questo tipo di esperienze da un grado
più alto verso un altro grado più accessibile e 'quotidiano'.
Anche nell'opera di Lutero si riscontra un forte abbassamento della tensione
che era stata originariamente presente nell'alta mistica, cioè nella vera e
propria 'via mystica'.
E' possibile quindi supporre che egli avesse subito, riguardo a questo
aspetto particolare7 del suo pensiero (seppure certamente in modo indiretto
e inconsapevole: cioè attraverso il proprio cursus studiorum), l'influenza
del contesto religioso e culturale in cui era avvenuta la sua formazione -
come attesta, del resto, anche il fatto che l'interpretazione che egli diede
di vari autori appartenuti alle correnti mistiche medievali, fosse
incentrata prevalentemente su temi genericamente religiosi o spirituali,
anziché che sui temi originari della loro speculazione.7bs
Un altro elemento che contribuì a rendere il rapporto del riformatore con
questa corrente molto complesso e articolato, fu il fatto che la sua
teologia (in quanto essenzialmente finalizzata ad una riforma generale della
dottrina cristiana) si contrapponesse decisamente alla tradizione mistica:
una tradizione alquanto 'elitaria'.
Per tale ragione il riformatore, nonostante attestasse per se stesso, al
pari di S. Paolo, l'esperienza del 'terzo cielo', non fondò mai la propria
autorità teologica su questo tipo di illuminazioni (come fecero invece
alcuni riformatori successivi), preferendo decisamente come sostegno per il
proprio messaggio la semplice testimonianza delle Scritture, da tutti
conosciute e del cui valore nessuno poteva dubitare. 8
1 Cfr. Heiko A. Oberman, La riforma protestante, ed. cit., cap. III,
p.59-62.
2 Cfr. R. Bainton, Erasmo della cristianità, ed. cit., p.8: "Gerardo Groote
di Deventer raggruppò attorno a sé seguaci dediti alla vita attiva e a
quella contemplativa. (...) L'accento [nella Devotio Moderna] poggiava sulla
pietà e sulla condotta. La pietà era caratterizzata da una commossa, lirica
devozione a Gesù, con costante sforzo di tenersi sui suoi passi, piuttosto
che di annegare la coscienza nell'abisso della deità."
3 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.60.
4 E in special modo nel contesto universitario tedesco, dal momento che
nelle università tedesche era particolarmente radicato un fenomeno di
alleanza politica tra la via moderna e la Devotio moderna, contro gli
esponenti della via antiqua. (Cfr. H. A. Oberman, I maestri della Riforma:
la formazione di un nuovo clima intellettuale in Europa, Bologna, il Mulino
1982, I: Turris eburnea: l'università come punto d'osservazione, p.18 ss.)
5 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60.
6 Ibidem, cfr. n.65: "Francis Vandenbroucke ritiene che quest'epoca sia
caratterizzata da 'le divorce entre theologiè et mystique'. E' vero che la
teologia affettiva, per lo più critica nei confronti dei dibattiti in
scholis, ebbe allora un impulso generale. (...) L'impulso della teologia
affettiva e quella che chiamo democratizzazione della mistica sono due facce
di una stessa medaglia."
6bs Sui caratteri della religiosità popolare del periodo tardo medioevale,
cfr. G. S. Tomlin, The Medieval Origins of Luther's theology of the Cross;
II: Luther and late medieval passion meditation, in: Archiv fur
Reformationgeschichte, 1998, n.89, pp.23-24.
7 Riguardo a questo tema, ma non ad altri: le idee del valore delle opere e
del libero arbitrio erano infatti molto vive proprio nella tradizione della
meditazione devota sulle ferite di Cristo, la quale pure aveva, in qualche
modo, contribuito alla formazione di Lutero, attirando la sua attenzione sul
problema della riflessione sul sacrificio di Cristo. (Cfr. G. S. Tomlin, The
Medieval Origins Of Luther's theology of the Cross, ed. cit., II: Luther and
late medieval passion meditation, p.23 ss.)
7bs Sulla lettura e sull'interpretazione data da Lutero dei mistici
medievali, cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.60, dove si
legge: "in riferimento a Tauler, proprio il fatto che per Lutero una
determinata predica di quel teologo sia interamente radicata nella teologia
mistica, ci fa capire come egli pensasse che [normalmente] non dovesse
essere così": cioè che Taulero non fosse per lui principalmente un autore
mistico. E più avanti (a p.62), a proposito dell'Anonimo: "Ad ogni modo la
sostanza che Lutero desume dalla Teologia Deutsch non è certo mistica (...).
Lutero considera questo scritto tipico di una 'teologia tedesca', ma non di
certo di una 'mistica tedesca'."
E, sempre di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero: un uomo tra Dio e il
diavolo, Bari, Laterza 1987, p.174, dove si legge: "Lutero si mostra
entusiasta di Johannes Tauler e della Deutsch Theologie [Teologia tedesca]
(...): ma egli non li ha letti come prototipi del misticismo, ma come esempi
di una teologia autentica, vissuta e vitale. Tauler è diventato per lui la
guida nella ricerca di un'esistenza animata dalla fede"; e più avanti
(p.179): "In Tauler e nella Deutsch Teologie Lutero ha trovato il linguaggio
e il modello per descrivere in modo tangibile questa situazione di doppia
esistenza [iustus et peccator]. L'anima, soggetta a gemere sotto i pesi e i
peccati della creatura, è rapita nell'esperienza della gioiosa unione con
Dio. Nel misticismo i gemiti e l'estasi indicano l'inizio e la fine del
cammino, dal doloroso distacco dal mondo alla gioiosa unione mistica. Per
Lutero 'i gemiti e l'estasi' sono i concetti, tradotti in esperienza, della
simultaneità di pace e dolore (...) - 'simul gemitus et raptus'." (Ma per
ulteriori approfondimenti, cfr. infra, p.88 ss).
8 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., pp.37-38.
2) La 'democratizzazione' della mistica in Lutero
Prima di affrontare il tema della trasformazione della teologia mistica
nell'opera del riformatore, è opportuno farsi un'idea generale di cosa fosse
la mistica di origine tomista nel periodo scolastico. Una possibile
schematizzazione delle tappe del processo che culmina nell'esperienza
mistica vera e propria, ce la può fornire Ephraem Haendrikx.1
Per descrivere la mistica cattolica, Haendrikx compila un elenco dei gradi
del percorso che conduce il credente fino alla visione beatifica. Essi sono
secondo lui essenzialmente tre: la preghiera, a cui fa seguito la
contemplazione acquisita, a cui fa seguito infine la contemplazione
travasata.
La dinamica del processo di risalita è strutturata in modo che, partendo da
un'iniziale fase ascetica basata su un processo discorsivo, si passi poi ad
un primo assaporamento della Verità, o ad una prima forma d'illuminazione
divina. Questa, chiamata accessus, comporta una conoscenza soltanto
sentimentale della natura divina, e corrisponde sotto alcuni aspetti alla
conoscenza di Cristo nella teologia di Lutero.
Mentre questa prima fase, chiamata anche grazia abituale, è accessibile a
tutti i credenti attraverso la meditazione e la preghiera, la fase
successiva invece è accessibile solo a pochi eletti. Quest'ultima, infatti,
è quella che si considera come la vera e propria via mystica, in quanto
comporta l'assorbimento dell'anima - totalmente recettiva e passiva - in
Dio.
Questo livello inoltre (definibile, secondo Oberman, come un'esperienza di
alta mistica) non dipende assolutamente più dall'uomo, ragione per cui viene
definito come un rapimento estatico (raptus). Esso si distingue dal
precedente tipo d'esperienza per il carattere puramente spirituale e
'teoretico' dell'illuminazione, che lo pone al di là di qualsiasi esperienza
semplicemente umana: ovvero carnale e emotiva.
Questo secondo livello possiede perciò un carattere speculativo, che lo
separa nettamente - anche da questo punto di vista - da quello precedente,
ovvero dall'accessus.
L'importanza di questa descrizione di Ephraem Haendrikx del percorso
ascetico tipico della teologia cattolica sta, ai fini della presente
ricerca, nel fatto che - con la sua distinzione tra accessus e raptus - può
essere utile per chi voglia comprendere il pensiero mistico-teologico di
Lutero.
Uuna tale schematizzazione difatti (pur avendo ovviamente un valore solo
orientativo riguardo alla vera mistica cattolica) pone comunque in luce i
principali aspetti della tradizione con cui il riformatore dovette
confrontarsi, e ci aiuta a chiarire quelli che furono per lui i punti di
dissidio con essa.
a) l'accessus e il raptus in Lutero
Se la mistica cattolica era divisa nei due gradi consecutivi dell'accessus e
del raptus, la trasformazione che Lutero apportò a tale tradizione fu da una
parte quella di ridurre a Cristo (ovvero all'accessus) il livello
dell'elevazione mistica, e dall'altra di dare anche a questo livello il
connotato del raptus, ovvero di un rapimento estatico dovuto esclusivamente
alla volontà e all'iniziativa divina.2
Questo cambiamento d'altronde, era imposto dalla sua stessa visione
teologica, se è vero che l'anima umana non poteva per essa raggiungere da
sola la salvezza, ma soltanto riceverla come dono gratuito dallo Spirito
divino (come si legge più volte nel Servo Arbitrio: "La Chiesa è retta dallo
Spirito di Dio; i santi (...) sono condotti dallo Spirito di Dio. Cristo
resta con la sua Chiesa fino alla fine del mondo"3.
Se quindi, con questa interpretazione, egli univa da una parte due gradi o
aspetti dell'ascesi che precedentemente rimanevano distinti, dall'altra
rendeva l'esperienza mistica accessibile a tutti i credenti, in quanto
limitata (nel grado di avvicinamento a Dio) al solo livello cristologico
dell'accessus: ovvero a quello più umile e carnale.
L'esperienza mistica dunque, non poteva più essere considerata, nella vita
religiosa dei cristiani, soltanto come un risvolto o una pratica particolare
(fondamentalmente distinta dalle altre), ma finiva al contrario per permeare
in modo essenziale tutta la loro vita 4.
Secondo Lutero, infatti, una simile condizione di elevazione dell'anima in
Cristo era ciò che separava i veri credenti dai non credenti, la vera Chiesa
dal mondo terreno - come si può capire facilmente da quanto egli scrive in
Sulla libertà del cristiano, dove si legge: "Non soltanto la fede concede
che l'anima divenga simile alla Parola divina e cioè ripiena d'ogni grazia,
libera e beata, ma riunisce l'anima a Cristo, così come una sposa al suo
sposo. Per codesta unione ne consegue, come dice Paolo, che Cristo e l'anima
diventano un corpo solo."5
b) la mistica affectiva
Lutero affermò, all'interno della sua teologia, l'importanza e la centralità
dell'esperienza affettiva, ossia dell'accessus (già presente, come si è
detto, nella tradizione cattolica) - in contrapposizione con l'esperienza
puramente teoretica o speculativa, cioè di 'alta mistica' (che per i
cattolici costituiva, come si è detto, il momento successivo all'accessus).
E affermò inoltre come il legame del credente col Cristo consistesse in un
'vincolo d'amore', e che, in quanto tale, esso non potesse passare né
attraverso la ragione, né di conseguenza attraverso la speculazione.
Ciò che egli rifiutò della precedente tradizione, non fu perciò l'idea del
rapimento estatico (raptus) dell'anima - assolutamente ricettiva e
passiva -, in quanto tale rapimento era sempre e comunque necessario per
l'esperienza mistica.
Né in realtà egli rifiutò - quantomeno in modo assoluto - la possibilità di
un superamento del livello terreno (cristologico) dell'ascesi: ovvero l'idea
che l'unione mistica potesse andare oltre lo stesso Cristo incarnato.
Ciò che egli negò con maggiore decisione, fu la possibilità di un'esperienza
mistico-ascetica meramente spirituale e razionale: quest'ultima infatti,
comportando l'assenza di qualsiasi componente umile od affettiva, veniva da
lui riportata nell'ottica di una concezione ottimistica o gloriosa del
rapporto dell'uomo con Dio.
In merito a questo problema, si può leggere un passo tratto dal commento del
1517 alla Lettera agli Ebrei di Paolo: Sic psalm. 17 [11]: "Ascendit et
volavit super pennas ventorum" id est contemplationes spirituum [gli spiriti
sono i Cherubini, non gli uomini]. Quod nomen satis indicat. "Cherubin" enim
interpraetantur "plenitudinem scientiae". Ideo et hic dicit "Cherubin
gloriae", subindicans, quod alia sit sapientia Christi gloriosi et alia
Christi crucifixi. Quia per hanc deprimitur caro, per illam elevatur
spiritus. Porro in contemplacione gloriae Christi maxime omnium necessaria
est prudentia spiritus, ne unius "faciem" secuti et alterius relinquentes in
diversum rapiamur errorem.6
Questo passo illustra, come si vede, la contrapposizione tra il Cristo
celeste e quello terreno e crocefisso - assieme a quella, complementare, tra
le due forme di conoscenza che se ne possono avere: I) quella gloriosa, dei
Cherubini e II) quella più propriamente umana, che è invece una conoscenza
umile.
Esso continua poi mettendo in guardia i lettori da un possibile errore di
valutazione della propria esperienza mistica (diversum rapiamur errorem),
dovuto alla sopravvalutazione di sé e, di conseguenza, alla sottovalutazione
della trascendenza di Dio.
L'autore dà ad intendere, infatti, che l'uomo molto difficilmente possa
giungere a sperimentare il solo aspetto glorioso di Cristo; e sottolinea
come, molto più spesso, sia lui invece ad ignorare deliberatamente gli
aspetti umili e affettivi dell'esperienza mistica (unius faciem secuti,
alterius relinquentes).
La vera mistica non è perciò (salvo, come si vedrà più avanti, rare
eccezioni) gloriosa, ma umile. E ciò è vero nella misura in cui essa rimane
pur sempre legata - nonostante l'elevazione verso Dio - agli aspetti carnali
e terreni della natura che la sperimenta.
In conclusione, quindi, si può notare come quest'ultimo aspetto -
consistente nella sottovalutazione dell'elemento di humilitas - fosse ciò
che poneva Lutero in un più profondo contrasto con la pratica della mistica
cattolica.
1 Ivi, pp. 40-41.
2 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.68, dove si legge: "La contrapposizione di
accessus e raptus non rappresenta l'ultima parola: mentre Lutero da una
parte respinge il raptus, dall'altra fornisce rilevanti indizi per cui
l'accessus assume alcuni tratti che caratterizzano il raptus. (...)"; e,
ancora di H. A. Oberman, cfr. Martin Lutero, ed. cit., p.174, dove si legge:
"Se si leggono gli scritti giovanili di Lutero, ci si aspetta ad ogni
momento l'esplicita adesione al misticismo. Il che peraltro avviene, ma in
forme e toni del tutto diversi, senza avere come fine l'ascesa verso Dio."
3 M. Lutero, Servo Arbitrio, ed. cit., p.155.
4 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.38: "Non è possibile
considerare questa trama mistica un singolo aspetto della teologia di Lutero
(...); si tratta piuttosto di una parte o di un elemento della sua
concezione del Vangelo che permea la sua interpretazione della fede e della
giustificazione, la sua ermeneutica, la sua ecclesiologia e pneumatologia."
5 M. Lutero, Scritti politici, ed. cit., p. 373.
6 H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.67, n.87.
3) Il gemitus e il raptus
La visione della mistica in Lutero era 'democratica' - dal momento che nella
sua teologia una tale esperienza era comune a tutti i credenti -, ed umile o
affettiva - cioè non speculativa, in quanto legata alla condizione terrena
propria dell'uomo.
La creatura decaduta e corrotta non poteva, secondo una tale visione,
entrare in contatto diretto con Dio (il Deus nudus), ma solo con la parte
che di esso gli si era rivelata (il Deus revelatus).
Già nel 1515-1516, Lutero scriveva nel suo commento a Rom: "se egli [Dio]
avesse agito in mezzo a noi, o lui direttamente o mediante degli angeli,
saremmo stati presi dal panico. L'opera di Dio sarebbe stata impedita dallo
sbigottimento. (...) Nemmeno Mosè riuscì a sopportare un tale spavento: la
parola non si era ancora incarnata. (...) Ora invece essa è diventata piena
di dolcezza e fatta di carne, e si consegna a noi attraverso la carne."1
Il principio dell'humilitas si dimostra così di nuovo (come già nei
precedenti capitoli), di una importanza fondamentale all'interno del
pensiero del riformatore, dal momento che informa di sé anche quest'altro
aspetto della sua visione teologica.
L'elevazione mistica dell'anima umana presuppone infatti, prima di tutto, la
consapevolezza del proprio reale stato terreno, e la rassegnazione ad esso.
In questo modo, al binomio di peccato e giustizia (iustus et peccator) si
affianca qui anche quello complementare di gemitus e di raptus: è necessario
infatti per il credente essere cosciente della propria condizione di
peccato, per essere elevato per quanto possibile ad uno stato di beatitudine
terrena.2
Come si è accennato precedentemente, anche nella teologia cattolica il tema
dell'humilitas svolgeva un ruolo positivo, giacché guidava il soggetto nella
direzione della meditazione e della preghiera, preparando in tal modo anche
lo stadio successivo: quello della contemplatio acquisita (ossia il primo
livello dell'ascesi mistica). In ogni caso tuttavia una tale attitudine era
considerata, in sostanza, solo come uno stadio iniziale e preparatorio in
vista dell'ascesi mistica vera e propria, piuttosto che come un elemento
stabile di essa.3
Vi era, tuttavia, anche un altro punto che allontanava - e forse ancora più
radicalmente - queste due differenti concezioni dell'esperienza mistica:
ovvero la considerazione della condizione dell'uomo nell'elevazione in
Cristo.
Secondo una visione comune a molti autori cronologicamente vicini o
contemporanei a Lutero, infatti, Cristo rappresentava essenzialmente il
mezzo (o meglio l'ostium, ossia la porta) che Dio aveva fornito all'uomo
affinché egli potesse allontanarsi dalla condizione di peccato e di degrado
nella quale era costretto a vivere, e accedere quindi ad una condizione più
felice 4: attraverso Cristo, in altre parole, ogni individuo poteva evadere
dallo stato di dolore e di miseria dell'esistenza quotidiana.5
All'opposto, secondo la visione luterana, la stessa unio mystica con il
Cristo non procurava gioia al fedele, bensì sofferenza. Essa difatti portava
con sé un radicale cambiamento dell'orientamento dell'esistenza umana
naturale (oltre ovviamente al sentimento positivo della propria
rigenerazione interiore, che proveniva dalla fede).
Il segno di questa trasformazione interiore non era però il semplice impulso
verso la contemplazione mistica (che per il riformatore equivaleva ad un
tendere anzitempo alla beatitudo coelestis), ma piuttosto quello verso
l'emulazione del Cristo crocefisso attraverso la 'mortificazione della
carne'.
Si legge ad esempio nella Cattività babilonese della Chiesa, dove Martin
Lutero parla del vero sacramento della penitenza: "Quanti si sono convinti
di esser salvi e di aver dato a Dio soddisfazione per i propri peccati, solo
per aver biascicato quattro preghiere imposte dal prete, pur non pensando
minimamente di cambiar vita? (...) E perché dovrebbero pensar diversamente
se altro non si insegna loro che questo? Non si pensa a mortificare la
carne, non serve a niente l'esempio di Cristo, che assolvendo l'adultera
disse: 'Va, non peccare più', imponendole la pena di mortificare la carne."6
In altri termini, lo stretto legame tra l'humilitas (o il concetto affine di
gemitus) e la condizione del rapimento mistico dell'anima, implicava in
primo luogo che nell'uomo vi fosse la consapevolezza della propria
lontananza da Dio, e in secondo luogo vedeva in questa consapevolezza il
presupposto per la salvezza futura, oltre a quello per il congiungimento
mistico in questa vita con il Cristo crocefisso.
Ma se il rapporto con Dio era in una tale visione essenzialmente di
lontananza e di negazione, la vita del fedele non poteva più consistere - se
non in minima parte - in una attività meramente 'contemplativa' e passiva:
l'esistenza del cristiano trovava perciò proprio nel valore attivo del
sacrificio la sua peculiare caratteristica e il suo sbocco reale.
Oltre che una mistica 'popolare' ed affettiva, quindi, quella di Lutero si
potrebbe classificare anche come una mistica che pone al proprio centro il
valore dell'impegno e della sofferenza terrena: una mistica 'attiva'.
La dimensione della religiosità all'interno della teologia luterana, in
quanto presupponeva essenzialmente, da parte dell'uomo, la coscienza del
proprio intrascendibile stato di peccato (e quindi anche del suo restare
sempre e comunque 'ancorato alla terra'), portava il credente a rinunciare
del tutto - o quasi - all'aspirazione verso un'elevazione mistica e
metafisica della propria anima. Secondo Lutero, quindi, la vita di fede non
portava il credente a emarginarsi dal mondo, ma - al contrario - lo induceva
a 'radicarsi' in esso.
Il sacrificio ritornava, così, ad essere la componente fondamentale
nell'esistenza del cristiano: esso diveniva infatti il segno o l'immagine
esteriore della sua accettazione - seppure da cristiano, e non come uomo
privo di fede - della propria condizione terrena.
Si legge ad esempio, già nel primo scritto esplicitamente polemico nei
confronti dell'autorità romana, ovvero le 95 tesi, che "Gesù Cristo dicendo
'fate penitenza', volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza;
questa parola non può intendersi nel senso di penitenza sacramentale (cioè
confessione e soddisfazione, che si celebra per il ministero dei sacerdoti);
non si intende però solo la penitenza interiore, anzi quella interiore è
nulla se non produce varie mortificazioni della carne; perciò la pena dura
finché permane l'odio di sé (che è la vera penitenza interiore), cioè sino
all'ingresso in paradiso."
E più avanti, sempre nello stesso scritto, egli diceva: "La vera contrizione
cerca ed ama le pene [...] Si deve insegnare ai cristiani che è meglio dare
a un povero o fare un prestito a un bisognoso, che acquistare indulgenze
[...] la carità nasce con le opere di carità e fa l'uomo migliore; occorre
insegnare ai cristiani che chi vede un bisognoso e lo trascura per le
indulgenze, merita non l'indulgenza del papa ma l'indignazione di Dio."7
Con tali espressioni, il riformatore intendeva ribadire la centralità del
sacrificio e della conversione, posti in atto attraverso l'esercizio della
carità, per l'ottenimento della salvezza, e sottolineare come in essi si
dovesse vedere (in contrapposizione con la 'falsa sicurezza' delle
indulgenze) il vero segno dell'unione dell'anima a Cristo.
Inoltre, attraverso questa visione originale e innovativa della natura
dell'esperienza ascetica, Lutero conciliava la propria formazione personale
(incentrata in massima parte, come noto, sullo studio delle sacre Scritture)
con la conoscenza (legata invece essenzialmente al suo curriculum di studi
scolastico) della precedente tradizione mistica.
Se tale tradizione infatti prospettava la possibilità di un'assorbimento del
credente in Dio, il Vangelo al contrario poneva come tema principale
l'impegno e il sacrificio dell'uomo in vista della salvezza, rimanendo
quindi tendenzialmente (ove si eccettuino ovviamente alcuni - peraltro
piuttosto rari - episodi, come ad esempio quello di Paolo) estraneo all'idea
della riunificazione mistica dell'uomo a Dio.8
L'idea della necessità della sofferenza per l'ottenimento della grazia,
infatti, tendeva secondo Lutero ad essere sostituita tra i suoi
contemporanei dalla convinzione che bastassero, per ottenere la salvezza, le
pratiche espiatorie prescritte dal clero, e assieme ad esse magari (e a loro
integrazione) quelle mistico ascetiche.
Egli, non condividendo questa impostazione, reagì perciò da una parte
rendendo la mistica, all'interno della sua visione, qualcosa di ancora più
essenziale per la spiritualità e per la fede cristiana, e tuttavia
dall'altra interpretandola in un senso tendenzialmente pratico attivistico
(anziché in quello, più tradizionale, estatico contemplativo).
1 M. Lutero, Lezioni sulla lettera ai Romani, Genova, Marietti 1992, scolio
n.229, p.158.
2 Cfr. H. A. Oberman, Riforma protestante, ed. cit., p.86-87, dove si legge:
"Excessus e raptus da una parte, gemitus dall'altra sono stati reclutati per
illuminare la vita christiana. (...) La dimensione del gemitus scaccia i
pericoli provenienti dalla theologia gloriae del raptus mistico. E le
dimensioni excessus e raptus neutralizzano gli elementi sinergistici
presenti nel tradizionale collegamento scolastico di synderesis e gemitus."
(Su questo collegamento, cfr. infra, pp.29-30).
3 Nella visione pienamente medievale e monastica, infatti, l'umiltà veniva
intesa come una preparazione alla fede, un'opera libera e volontaria in
vista della grazia divina. Essa perciò, in tale visione, era ricollegabile
al discorso sulla preghiera e sulla meditazione, che preparavano - come si
diceva - l'incontro affettivo, ossia l'accessus, con il Cristo (cfr. infra,
pp.67-68).
4 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66, n.81: Ipse Domine Iesus ait: 'Ego sum
ostium, per me si quis introirit salvabitur' (citazione da Schatzgeyer). Più
avanti, sempre Schatzgeyer, dice: Et alibi inquit discipulis: 'oportuit pati
Christum et ita intrare in gloriam suam', ed infine: Converte ergo, o anima,
quae ascensiones paras, converte sensus cordis tui in pulcherrimum,
sonorosissimum, suavissimum, redolentissimum et amorosissimum obiectum,
Iesum, vidilicet, Christum, verbum increatum, incarnatum et inspiratum.
Contemplare eius pulchritudinem, quia splendor est patris et figura figura
substatntiae eius.
5 Cfr. H. A. Oberman, op. cit., p.66 ss, dove si legge: "In un trattato di
Schatzgeyer, che è cronologicamente vicino a Lutero (1501) e respira quel
clima di spiritualità monastica che suscitò più tardi la collera del
riformatore, Cristo non è affatto sminuito in nessun modo. Schatzgeyer
sottolinea che 'esiste un solo cammino verso il cielo: attraverso la croce
di Cristo'. Ciò desta l'amore e conduce al meraviglioso abbraccio di Cristo.
Il vero cristiano si volge dall'amarezza di questa valle di lacrime alla
luminosa bellezza di Cristo." (Si capisce quindi che l'unione col Cristo
venisse intesa dall'autore più come un'esperienza 'gioiosa', che
penitenziale).
6 Martin Lutero, Scritti politici, Torino, U.T.E.T. 1949, p.311.
7 Giuseppe Alberigo, La riforma protestante (origini e cause), Brescia,
Queriniana 1977.
8 Cfr. Giuseppe Faggin, Meister Eckhart e la mistica tedesca protestante,
Milano, Fratelli Bocca 1946, p.5 ss: "Se il cristianesimo avesse un
presupposto filosoficamente enunciabile, questo sarebbe dato
dall'affermazione di una iniziale contrapposizione dell'anima a Dio: o, per
adoperare un termine di portata filosofica, di una trascendenza assoluta.
(...) Perciò, se esperienza mistica vuol dire unificazione di Dio e
dell'anima (...) che elimini qualsiasi effettiva distinzione metafisica tra
Dio e l'anima, il Cristianesimo non si può qualificare come fenomeno
mistico." Riguardo all'opposizione che sussiste tra esistenza attiva ed
esistenza contemplativa, il Faggin scrive: "L'antinomia tra vita attiva e
vita contemplativa è nel Vangelo soltanto apparente e sta ad indicare, nei
suoi due elementi realmente esistenti, i due aspetti concomitanti della vita
spirituale: l'abbandono fiducioso in una verità rivelata e l'imprescindibile
necessità dell'azione." Nelle Scritture quindi non c'è, secondo il giudizio
dell'autore, uno spazio eccessivo per la vita puramente contemplativa.
4) L'alta mistica nella teologia di Lutero
Nonostante la forte diffidenza del riformatore nei confronti di ogni forma
di contemplazione o di 'esperienza estatica', non si può comunque affermare
che egli negasse del tutto la possibilità di sperimentare anche forme più
alte di ascesi oltre a quella meramente cristologica.
E tuttavia questo secondo tipo di esperienze era ammesso, all'interno del
suo sistema, soltanto come 'caso limite'.
Una conferma della validità generale dell'impostazione cristologica della
sua teologia mistica, ce la fornisce per esempio il paragrafo conclusivo del
Tessaradecas consolatoria pro laborantibus et oneratis (ovvero le
Quattordici consolazioni per gli afflitti e gli onerati), un'opera
consolatoria del 1520 dedicata all'elettore Federico di Sassonia, in cui
venivano elencati i sette mali ed i sette beni insiti nella condizione
umana.
Nell'ultimo capitolo, che trattava del bene supremo, Lutero iniziava subito
con il dire: "Nulla posso dire riguardo ai beni eterni e celesti, dei quali
si gloriano i Beati attraverso la visione chiara di Dio, ma quantomeno posso
parlare di quelli che ci sono concessi attraverso la fede [ovvero: quelli
che si possono conoscere attraverso di essa] e delle cose che ci sono
comprensibili attraverso la ragione. Così questo settimo spettro è Gesù
Cristo che risorge in gloria dai morti (...)"1.
Il passo, che continuava poi con l'elenco dei beni sommi che la ragione e la
fede preannunciano essere propri dei beati (ovviamente solo per merito del
sacrificio di Gesù Cristo, come egli scriveva subito dopo: qua re
resurrectio eius mea est, et omnia, quae per resurrectionem operatus est),
ci dimostra chiaramente come secondo Lutero il credente non potesse accedere
ad una visione chiara, ossia 'priva di veli', della natura divina già in
questa vita, né dei beni e delle gioie connessi a tale visione.
Questo brano ci riporta perciò all'idea, che come si sa ha un valore
preponderante nella teologia mistica luterana, secondo la quale "essere
rapiti non significa però comparire davanti a Dio nella fede"2.
La ragione per cui non si può parlare - nonostante questo orientamento
generale - di un vero e proprio rifiuto da parte di Lutero delle esperienze
di 'alta mistica', risiedeva innanzi tutto nella sua convinzione di non
poter limitare le scelte divine: ovvero, in questo ambito specifico,
nell'idea che non fosse lecito escludere (quantomeno in modo assoluto) che
Dio decidesse di elevare alcuni uomini fino alla contemplazione della
propria natura increata.
Ma questa considerazione comportava, inoltre, che la forte diffidenza del
riformatore nei confronti delle pratiche che rientravano nella categoria
dell'alta mistica, fosse da attribuire in realtà molto di più al modo in cui
esse venivano intese e messe in atto dai suoi contemporanei, che non a
quelle pratiche come tali.
In sostanza infatti, l'elemento che spingeva Lutero a dubitare - almeno
nella maggior parte dei casi - della validità di questo tipo di esperienze,
stava nella loro pretesa di giungere troppo rapidamente alla conoscenza
della natura trascendente di Dio, intendendo quindi l'unione col Cristo
incarnato solo come un momento di passaggio (quando non, addirittura, come
qualcosa che si potesse anche saltare) per accedere al livello più alto
della contemplazione.
In altre parole, l'elemento di separazione tra queste due visioni risiedeva
nella tendenza di molti mistici cattolici (come ad esempio Schwenckfeld) a
vedere il momento cristologico come un 'per mezzo di Cristo', anziché come
un 'in Cristo': cioè a considerarlo non come una meta, ma soltanto come un
punto di passaggio.3
A questo proposito, ad esempio, egli scriveva già nel 1516 - cioè prima
ancora di iniziare la vera e propria battaglia per la riforma della dottrina
cattolica - nel commento a Rom (5,2): "Chi è saggio, non apprezza tanto la
luce [la fede] da non avere bisogno del sole [Cristo], ma desidera avere
insieme e il sole e la luce. Questi dunque, che accedono a Dio mediante la
fede e non anche mediante Cristo, in realtà se ne allontanano".
E ancora più avanti: "Infatti di tutte le opere della fede la ragione è
questa, diventare degni che il Cristo, con la sua giustizia, ci dia rifugio
e protezione. 'Giustificati dunque dalla fede' e con i peccati rimessi
'abbiamo l'accesso a Dio e la pace', ma 'mediante Gesù Cristo Signore
nostro'. [...] La parola incarnata è infatti necessaria innanzitutto per la
purezza del nostro cuore: la quale, una volta realizzata, permette di essere
rapiti misticamente per mezzo della stessa Parola increata."4
Ciò che, in realtà, allontanava la visione della mistica propria del
riformatore da quella cattolica (in special modo dagli autori a lui
contemporanei, o da quelli immediatamente precedenti)5 non era tanto l'idea
di una possibile unione dell'uomo col Verbo increato, bensì soprattutto la
tendenza - molto diffusa anche tra i più importanti autori mistici, come ad
esempio Jean Gerson 6 - a sottovalutare il ruolo della rivelazione e del
Figlio incarnato nell'ascesi di fede.
L'elemento che poneva una maggiore distanza tra queste due visioni era,
quindi, l'inclinazione dei suoi avversari verso la svalutazione degli
aspetti penitenziali, in favore di quelli estatico-contemplativi
dell'esperienza mistica.
Non a caso infatti, nella conclusione del passo sopra citato, Lutero
scriveva: "Quello che viene chiamato rapimento [raptus] non è [da intendersi
però come un] accesso a Dio": sottolineando così la profonda distanza che
correva tra l'alta mistica e l'esperienza più comune, che sempre la
precedeva, dell'essere rapiti in Cristo (ovvero del raptus).7
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