Home | Storia | Arte e letteratura | Foto | Ceramica | Moda | Info | Mappa
STORIA E LEGGENDA
HOTELS E RISTORANTI
ARTE E LETTERATURA
FOTO
CERAMICA
MODA

STORIA DEGLI ETRUSCHI - ANTICHI POPOLI ITALIANI

STORIA ED ORIGINE DEGLI ETRUSCHI

ETRUSCHI
LE FONTI
Riportiamo brevemente un profilo degli studiosi antichi che ci hanno
tramandato la storia del popolo etrusco. Ricordiamo che la cultura etrusca
ebbe un forte "scontro" con quella romana. A tale proposito si tenga
presente che alcuni storici si sono schierati apertamente a favore della
cultura romana (cioè quella vincitrice), altri contro. Per tale ragione, le
notizie storiche sugli Etruschi che ci sono pervenute nel corso dei secoli
sono state in alcuni casi trionfalistice e leggendarie, in altri scarne e
deludenti.

Dionisio di Alicarnasso

Retore e storico greco vissuto fra il 60 a. C. e la fine del I sec. a. C.,
soggiornò per molti anni a Roma, dove tenne una scuola. Oltre ad opere di
retorica, scrisse un'importante opera storica: Antichità romane, composta in
20 libri, dei quali possediamo i primi 10, mentre il libro XI ci è giunto
lacunoso. Il lavoro arrivava fino all'inizio della prima guerra punica,
partendo dalle fasi più antiche della preistoria e della storia romana.

Diodoro Siculo

Vissuto tra il I sec. a. C. ed il I d.C., lo storico Diodoro Siculo, il cui
nome significa "dono di Dio", nacque ad Agira e visse a Roma in età Cesarea
ed Augustea. Considerato dai greci "padre della storia" insieme ad Erodoto,
Diodoro volle e seppe esprimere la sua cultura di lingua greca tanto da
essere spesso chiamato "storico greco". Viaggiò molto per i tre continenti
conosciuti per approfondire i suoi studi. Tornato a Roma, utilizzò le sue
nuove conoscenze per scrivere una colossale storia universale, dal titolo
"Biblioteca" in quaranta volumi, dei quali restano soltanto quindici volumi.
La sua opera, tradotta in diverse lingue, tratta dalla tecnica egizia della
mummificazione alla scienza urbanistica mesopotamica, dal periodo precedente
la guerra di Troia alle conquiste di Giulio Cesare in Gallia. Alla sua fonte
hanno attinto Marco Polo, che lo cita ne "Il Milione", Salzano, Holm e Di
Berenger. Innegabili sono i meriti della sua opera che ci ha tramandato
avvenimenti mai raccontati e che altrimenti sarebbero andati perduti. Plinio
il Vecchio lodò il contenuto della sua opera scrivendo pure che Diodoro non
favoleggiò, ma trasse i fatti reali dalla somma delle tradizioni locali e,
dove non era possibile per assenza di documenti, da accurate deduzioni.

Dione Cassio

Dione Cassio, ovvero Dio Cassius Cocceianus (ca. 150-235), storico e
politico romano, nato a Nicea, in Bitinia; suo nonno materno fu il filosofo
stoico Dione Crisostomo (ca. 40-112). Dione Cassio ebbe incarichi
amministrativi a Roma sotto gli imperatori Commodo, Pertinace, Settimio
Severo e Alessandro Severo; fu due volte console (220 e 229). Dione è meglio
conosciuto come l'autore di una storia di Roma in 80 libri scritta in greco.
Ne restano interi solo 18, ma frammenti di alcuni degli altri libri e
successive epitomi di altri scrittori sono arrivate sino a noi. Le opere di
Dione sono tutte di primaria importanza per la storia degli ultimi anni
della repubblica romana ed i primi anni del'impero.

Eforo

Storico greco nato a Cuma eolica all'inizio del IV sec. a. C. La sua opera
principale fu una storia universale della Grecia in 29 libri, il trentesimo
venne aggiunto dal figlio. La narrazione partiva dal mitico ritorno degli
Eraclidi nel Peloponneso sino all'assedio di Perinto ad opera di Filippo II
(341/340 a. C.). Il suo lavoro costituì una fonte importante per Diodoro
Siculo e Strabone, venendo utilizzata, inoltre, da Polieno, Pompeo Trogo e
Plutarco.

Erotodo

Storico greco nato ad Alicarnasso, forse intorno al 484 a. C., e morto non
prima del 430 a. C., non si sa se a Thurii, come riporta la breve biografia
della Suda, o ad Atene, dove potrebbe essere ritornato a conclusione dei
suoi viaggi nella Grecia continentale, in Egitto, Fenicia, Mesopotamia, in
Magna Grecia L'opera di Erodoto ci è giunta con il titolo di Historìai
(Storie), desunto dalle prime parole del proemio. Fu probabilmente il
filologo Aristarco di Samotracia a dividerla in nove libri, a ciascuno dei
quali, successivamente, venne dato il nome di una musa. Vi è esposta la
storia di Lidi, Persiani, Egiziani, Babilonesi e Sciti. Gli avvenimenti del
racconto principale riguardano gli ottanta anni di storia che vanno
dall'ascesa al trono di Creso e Ciro (560-559 a. C.) alla battaglia di
Micale e all'occupazione di Sesto (479 a. C.). La composizione dell'opera
risulta piuttosto complessa soprattutto per le numerose digressioni che
partendo dal racconto principale arrivano ad occupare più capitoli se non un
intero libro.

Floro L. Anneo (o Giulio)

(secc. I-II d.C.) Originario dell'Africa, a somiglianza degli oratori greci
della "seconda sofistica", ebbe un'attività di conferenziere itinerante
nelle province. Uno dei temi da lui affrontato era la questione se "Virgilio
era oratore o poeta", problema sul quale ci è stato conservato uno
svolgimento redatto in forma di dialogo.
Finì per stabilire a Roma la sua dimora, durante l'impero di Adriano, e
nella città compose i suoi 2 libri "sulle guerre romane" (specificamente, il
I relativo alle guerre esterne, il II alle guerre civili del I sec. a.C.),
comprende 7 secoli di storia militare romana, dalla fondazione dell'Urbe ad
Augusto. Sotto la vernice del presunto storico, traspare però
l'atteggiamento del rètore: Floro elogia più che raccontare. Questo
conferenziere, sempre in cerca di brillanti amplificazioni, immagina di
paragonare la vita del popolo romano a quella di un essere umano le cui
differenti età si caratterizzano per una crescita, una maturità e una
decadenza, salvo poi concludere, per trarsi d'impaccio, che la dinastia
antonina aveva restituito a Roma la sua giovinezza. Quest'opera "puerile"
(anche nella struttura molto semplice del suo latino) ci è stata conservata
sotto il titolo, davvero improprio, di "Epitoma de Tito Livio" ("Compendio
di Tito Livio").

Livio Tito

Scarse le notizie della sua vita. Di lui non si conosce il cognome. Si sa
che nacque a Padova nel 59 a.C. Presto si trasferì a Roma, dove entrò nelle
grazie dell'imperatore Augusto, che gli affidò, a quanto pare, l'educazione
culturale del nipote adottivo Claudio, futuro imperatore. Ebbe una figlia ed
un figlio, Tito, divenuto poi famoso geografo. Di idee conservatrici,
improntò la sua vita e la sua opera ad equilibrio morale e religioso e
spirito patriottico. Il suo essere un convinto pompeiano, e quindi critico
nei confronti di Cesare, non gli impedì di comprendere lo spirito nuovo dei
tempi, di ammirare l'opera riformatrice imperiale e di celebrare la pace
augustea e la figura stessa dell'imperatore. Morì a Padova nel 17 d.C.

Pochi frammenti ci sono pervenuti dei suoi scritti filosofici e retorici,
che noi conosciamo soprattutto tramite le testimonianze di successivi autori
come Quintiliano e Seneca. Ma il suo capolavoro è rappresentato dalle
Storie. Iniziato tra il 27 ed il 25 a.C., occupò tutta la sua vita.
Originariamente il titolo doveva essere Ab Urbe condita libri e comprende in
142 libri annalisticamente, anno per anno o per gruppi di anni, la storia di
Roma dalle origini sino al 9 a.C., anno della morte di Druso Maggiore
(figliastro di Augusto), il governatore delle Gallie che combatté contro le
popolazioni germaniche. E' probabile che l'opera dovesse comprendere, nel
disegno originario, 150 libri e concludersi con la morte di Augusto (14
d.C.). L'autore la pubblicò, man mano che procedeva nella composizione, per
sezioni staccate, raggruppandole in decadi (10 libri) o pentadi (5 libri),
corrispondenti per lo più a determinati cicli di fatti storici. Dei 142
libri ne avanzano solo 35 : le decadi 1a, 3a, 4a e i primi cinque libri,
lacunosi, della 5a. Degli altri 107 rimangono alcuni frammenti ed i
riassunti che vennero fatti di tutta l'opera, forse ad uso scolastico, ad
eccezione dei libri 136 e 137.


Macrobio Ambrogio Teodosio


Ambrogio Macrobio Teodosio visse nel V secolo. Egli si rivela africano da
certe particolarità linguistiche e probabilmente fu il Macrobio proconsole
in Africa nel 410. Il più e il meglio della sua erudizione è raccolto nei
sette libri dei Saturnalia, una specie di enciclopedia del sapere
filosofico, centrata sulla figura di Virgilio; inoltre aveva scritto prima
due libri di Commentarii al Somnium Scipionis ciceroniano. L'una e l'altra
opera sono dedicate al figlio Eustachio.

Plinio il Vecchio

Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il Vecchio, nacque a Como nel 23 d. C., fu
il più grande naturalista romano. Morì durante l'eruzione del Vesuvio nel 79
d. C. a Stabia. La sua fama è legata all'opera monumentale Naturalis
Historia in 37 libri, tutti pervenuti fino a noi. Si tratta di una vera e
propria enciclopedia in cui Plinio si propose di compendiare l'intero
scibile umano: cosmologia e geografia fisica; geografia ed etnologia;
antropologia e fisiologia; zoologia; botanica; botanica in relazione al suo
impiego in medicina; zoologia in relazione all'impiego in medicina;
metallurgia e mineralogia, con ampie digressioni sulla storia dell'arte.

Properzio Sesto

(Assisi? 50 ca a.C. - Roma, dopo il 15 a.C.) Nacque da agiata famiglia di
rango equestre che però, dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte
dei suoi averi. Morto il padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu
avviato alla carriera forense. Ma Properzio rivelò precoce attitudine per la
poesia: già al 28 a.C. risale la pubblicazione del suo I libro di elegie, il
cosiddetto "monobiblos" ("libro unico"), intitolato dal nome della donna
amata (Cynthia), secondo la tradizione dei poeti alessandrini. Il successo
che gli arrise spinse Mecenate ad ammetterlo nel suo celebre "circolo". Qui,
Properzio conobbe i più importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio,
al quale era solito recitare i propri "roventi" ("ignes") versi. Difficili,
invece, i rapporti con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi
ideali poetici. Tibullo e Properzio sembrano poi ignorarsi del tutto
(gelosia reciproca?).
Uno dei primi amori cantati dal poeta fu la giovane schiava Licinna, ma
forse l'unico avvenimento davvero importante nella sua vita fu l'incontro
con Cinzia. Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio:
il nome Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo,
sul monte Cinto (si ricordi, a proposito, anche la Delia di Tibullo).
Cinzia, una fascinosissima donna, forse più grande di Properzio, dagli occhi
neri e dai capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza,
della poesia, ma anche di facili avventure d'amore (e dunque
costituzionalmente infedele), dominò incontrastata nell'animo del poeta,
nonostante il tormento continuato di un rapporto reso difficile dalla stessa
eccessiva intensità della passione. Si amarono, talora "nevroticamente", per
quasi cinque anni. Cinzia morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua
scomparsa, la presenza e il desiderio di lei si fecero ancora più acuti
nella mente del poeta. Dunque, una vera e definitiva "rottura" nel rapporto
non ci fu mai: nonostante le due ultime elegie del III libro, quelle che
vorrebbero segnare il "discidium", la separazione definitiva; nonostante la
stessa morte di lei.


Silio Italico Tiberio Cazio Asconio
(Padova?, 25 ca - Campania 101 d.C.) Senatore, cortigiano di Nerone, console
nel 68, noto durante i periodi più cupi della tirannide come delatore. Sotto
Vespasiano, fu proconsole d'Asia. Coltivò la poesia nella vecchiaia,
ritiratosi a vita privata. Colpito da un male incurabile, si lasciò morire
di fame.

Stabone

La data di nascita di Strabone, con buona probabilità, può essere stabilita
nel 64/63 a.C., nella provincia romana di Amaseia, nel Ponto. Originario di
una nobile famiglia, anticamente legata al re Mitridate, Strabone ebbe a
disposizione un patrimonio notevole che gli diede la possibilità di ricevere
un'ampia istruzione e di dedicarsi, per tutta la vita, ai viaggi e agli
studi. La maggior parte delle notizie biografiche si desumono dalla stessa
Geografia. Al 44 a.C., anno della morte di Cesare, risale il suo primo
soggiorno a Roma (XII 6,2), dove fu allievo del celebre Tirannione, a sua
volta originario del Ponto. Personalità di spicco nella vita culturale
romana di quegli anni - tra l'altro fu il maestro dei figli di Cicerone -
Tirannione era un grammatico di formazione peripatetica e, in particolare,
esperto di 'Geografia', come ricorda lo stesso Cicerone (Lettere ad Attico,
II 6). A Roma, Strabone poté ricevere un'ampia istruzione filosofica
caratterizzata dall'eclettismo: oltre a Senarco di Seleucia, un altro
filosofo peripatetico, frequentò anche lo stoico Posidonio di Apamea,
vissuto tra il 135 e il 51 a.C., i cui scritti, amplissimi per numero e
argomenti trattati, e oggi perduti, possono essere considerati come
importante fonte di numerosi autori greci e latini, da Cicerone a Seneca, da
Galeno ad Ateneo, Diogene Laerzio, fino a Simplicio e Stobeo, oltre allo
stesso Strabone.
Tra il 35 a.C. e il 7 d.C., sono documentati sempre nella Geografia,
ulteriori soggiorni a Roma, e altri viaggi nelle provincie e le città del
nascente impero romano. Talora Strabone accompagò anche personalità di rango
della classe dirigente romana: in ogni caso non sembra che abbia mai
compiuto viaggi con la finalità di raccogliere notizie 'autottiche' da
inserire nella propria opera, compilata, essenzialmente, attraverso la
consultazione di fonti scritte; né d'altro canto ricoprì mai direttamente
ruoli di rilievo all'interno dell'amministrazione romana. In breve, nella
biografia di Strabone non si ricordano episodi di grande rilievo, né
particolari esperienze: fu una vita da 'studioso', alquanto appartata
rispetto ai tumultuosi anni che videro la trasformazione della 'repubblica'
romana nell'assetto imperiale augusteo. Incerta la data di composizione
della Geografia. Sicuramente l'opera fa seguito ai Commentari Storici in 47
libri oggi perduti - ne restano solo frammenti di tradizione indiretta - che
proseguivano il corso della narrazione di Polibio, incentrata sul periodo
264-200 a.C. Vari riferimenti e dati interni, in ogni caso, come per es.
alcuni cenni all'impero di Tiberio (14-37 d.C.) e ad eventi riconducibili al
21 o al 23 d.C. (cfr. XVII 3,7.9.25), inducono a ipotizzare il periodo
compreso tra il 17 e il 23 d.C. per la redazione dell'opera, dunque verso la
fine della lunga vita di Strabone, probabilmente pubblicata solo dopo la sua
morte, avvenuta intorno al 24 d.C.

Svetonio Gaio Tranquillo

(Algeria o Roma, 70 d.C.? - 140? ca d.C.) Della sua vita possediamo poche
notizie, desumibili soprattutto dalle sue stesse opere e da Plinio, che in
una lettera a Traiano ne sottolinea la rettitudine e l'erudizione. Nato da
una ricca famiglia dell'ordine equestre, Svetonio rifiutò tuttavia la
carriera di amministratore o di soldato riservata in genere a quelli del suo
rango. Uomo dedito agli studi, intimo amico di Plinio il Giovane (il quale
lo introdusse nelle simpatie di Traiano, facendogli anche conferire lo ius
trium liberiorum, una sorta di sussidio familiare che in casi eccezionali
veniva concesso anche a scapoli benemeriti), nonché avviato alla carriera
retorica e forense, lo storico consacrò tuttavia tutta la sua vita a
ricerche erudite che, per certi aspetti, richiamano quelle di Varrone: ma la
sua attività - come vedremo - si limitò quasi interamente al genere
biografico.
Grazie all'amicizia del prefetto del pretorio Setticio Claro (anch'egli
amico di Plinio, sopravvissuto a quest'ultimo, e che avrebbe continuato
comunque a proteggere il nostro autore), intorno al 120 Svetonio riuscì
ancora a diventare segretario "ad epistulas" (incaricato cioè della
corrispondenza) nei servizi dell'imperatore Adriano. A quest'alto incarico
egli poté essere chiamato dopo aver dato buona prova delle sue qualità di
funzionario amministrativo, prima come sovrintendente di tutte le
biblioteche pubbliche di Roma, poi come "a studiis" (quasi un nostro
ministro della cultura e dell'istruzione). Tutte queste mansioni, e in
special modo l'ultima in ordine di tempo (quella di segretario), gli
permisero di accedere liberamente agli archivi del Palatino, per cui le sue
informazioni ci hanno permesso di ricostruire e di conservare documenti che,
senza di lui, sarebbero andati completamente perduti. Nessun altro storico,
infatti, poteva averne conoscenza.
Dopo il rovescio politico del suo protettore, tuttavia, anche l'incarico di
Svetonio presso la corte non durò molto a lungo. Nel 122, Adriano lo
allontanò con un pretesto, perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui
fra gli altri, avevano instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente
dell'imperatrice Sabina. Svetonio, così, trascorse gli ultimi anni della sua
vita immerso negli studi ed attendendo alla pubblicazione delle sue vaste e
numerose opere.

Tacito Publio (o Gaio?) Cornelio
(55 d.C.? ca - 120 ca) Origini nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati
biografici di T. (a partire già dai suoi "tria nomina"): nacque
probabilmente nella Gallia Narbonese (ma forse a Terni, o addirittura nella
stessa Roma), da una famiglia ricca e molto influente, di rango equestre.
Studiò a Roma (frequentò probabilmente anche la scuola di Quintiliano),
acquistò ben presto fama come oratore (dovette essere anche un valentissimo
avvocato), e nel 78 sposò la figlia di Gneo Giulio Agricola, statista e
comandante militare.
Iniziò la carriera politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e
Domiziano; ma, come Giovenale, poté iniziare la carriera letteraria solo
dopo la morte dell'ultimo, terribile, esponente flavio (96 d.C.), sotto il
cui principato anche il nostro autore, come altri intellettuali del resto,
non dovette vivere momenti certo tranquilli. Questore poi nell'81-82 e
pretore nell'88, T. fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per
un incarico in Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche
se in veste di supplente) e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo,
il console morto durante l'anno in carica. Abbandonò poi decisamente
oratoria e politica (ebbe solo un governatorato nella provincia d'Asia, nel
112-113), per dedicarsi totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico,
nella vita e negli studi, di Plinio il Giovane.

Tiberio Claudio Druso Nerone

(Imperatore di Roma) Tiberio Claudio Druso Nerone era figlio di Antonia -
figlia a sua volta del generale Marcantonio - nipote in linea paterna di
Livia Drusilla - moglie di Augusto - and fratello di Germanico. Sposò prima
Valeria Messalina poi sua nipote Agrippina, madre di Nerone. Nel 41 d.C,
dopo la morte di Caligola, diventò imperatore per caso, e di mostrò uno dei
migliori Cesari di Roma.
Fu uno degli ultimi profondi conoscitori della lingua etrusca e scrisse una
monumentale storia di questo popolo - completa di grammatica (Tyrrenica) -
che è andata completamente perduta. Ordinò di costruire il Porto di Ostia e
cominciò il prosciugamento del lago di Fucino, opera che verrà portata a
compimento soltanto nel nostro secolo. Nel 43 d.C. conquistò la Britannia.
La sua ultima moglie, Agrippina, lo uccise nel 54 d.C, con una porzione di
funghi avvelenati per mettere sul trono il figlio Nerone.

Tucidide

Storico nato ad Atene verso il 460 a.C. Molto poco si conosce della sua vita
e le scarse notizie sono per lo più deducibili dalle sue opere e da
biografie molto tarde. Fu stratega nel 424/3 a.C. e, al comando di una
flotta di sette navi, accorse in aiuto di Anfipoli minacciata dai Persiani.
L'insuccesso di questa spedizione costò a Tucidide un lungo esilio durato
venti anni che egli trascorse probabilmente nel Peloponneso e in Tracia.
Durante l'esilio cominciò a scrivere la Storia della guerra del Peloponneso
in otto libri, che poté condurre solo fino al 411 a.C. Tucidide morì verso
il 400 a.C. probabilmente di morte violenta.

Valerio Massimo

(I secolo d.C. - Età di Tiberio) Non sappiamo quando e dove sia nato questo
retore, che era cliente del console del 14 d.C., Sesto Pompeo, e che Valerio
seguì nel 27 quando Sesto fu nominato proconsole in Asia. Nel 32, dopo la
caduta del prefetto di Tiberio, Seiano, completò la sua opera, dedicandola
al principe. Valerio Massimo è autore di una raccolta di aneddoti storici,
Factorum et dictorum memorabilium libri, in 9 libri. L'opera è una raccolta
di exempla storici, diretta alle scuole, divisa per argomenti, al cui
interno si ha una sotto-divisione in exempla stranieri e (quantitativamente
di più) romani, che sono attinti non tanto ai grandi storici greci, quanto a
Cicerone, Sallustio e Livio. I temi sono disparati:
I. Religione; II. Rispetto delle istituzioni; III. Coraggio, forza,
pazienza; IV. Misericordia, sobrietà, amore coniugale, amicizia; V.
Clemenza, riconoscenza, amore filiale; VI. Castità, giustizia; VII. Fortuna;
VIII. Processi e otium; IX. Vizi.
Secondo quello che l'autore afferma nella prefazione, si tratta di un
manuale diretto a chi vuole citare gesta o sentenze riguardanti un
determinato argomento: è dunque un manuale ad uso dei retori e dei
declamatori delle scuole, costruito con uno stile ampolloso e pretenzioso.
Tuttavia Valerio nasconde questa vacuità retorica sotto il pretesto etico
dell'esaltazione della virtù, che ovviamente si rivela in Tiberio e ha il
suo contrario in Seiano, insigne esempio di ingratitudine punita. Ragion per
cui Valerio non può essere definito uno storico, quanto un retore che
testimonia il progressivo sbriciolamento della storiografia in aneddotica e
pettegolezzo, senza più la necessaria comprensione delle causalità degli
eventi. Per il suo carattere moraleggiante, l'opera ebbe molta fortuna nel
Medioevo, circolando anche in due riassunti, quello di Giulio Paride e uno
(mutilo) di Nepoziano, ambedue del IV-V secolo d.C.

Varrone Marco Terenzio

(Reate, oggi Rieti, in Sabina, nel 116 - 27 a.C.) Autore longevo. L'elemento
più significativo della vita di Varrone è sicuramente la sua longevità, che
lo mette in condizione di assistere agli eventi che vanno dal comparire di
Mario sulla scena politica all'ascesa di Augusto. Fra tradizione e
modernità. Studiò a Roma e ad Atene. Difensore della tradizione (secondo,
potremmo dire, quasi il dettato genetico della sua origine sabina), si
schierò dalla parte di Pompeo, ricoprendo la carica di tribuno della plebe
e, in seguito, quella di pretore, senza peraltro proseguire e concludere il
suo "cursus honorum". Cesare gli perdonò e gli affidò addirittura la
biblioteca pubblica che intendeva instaurare in Roma: la scelta proprio di
Varrone potrebbe spiegare la valenza politica del progetto cesariano: il
mondo nuovo che dittatore sta realizzando si preoccupa di mantenere la
memoria del passato per trasmetterla ai posteri. Pare, infine, che Varrone
sia stato anche consigliere di Augusto per le questioni religiose.

Vitruvio Pollione

(sec. I a.C.) Identificato con l'ufficiale cesariano Mamurra, architetto,
scrisse il "De architectura" (25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato
ad Augusto e riconducibile alla sua politica d'abbellimento architettonico
di Roma.
L'opera, in parte compilatoria e in parte originale (7 libri di
architettura, 1 di idraulica e 2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo e
per il suo contenuto (ricco di elementi di varia natura, tratti da
discipline disparate: aritmetica, geometria, disegno, musica, prosodia,
astronomia, ottica, medicina, giurisprudenza, storia, filosofia), è un
unicum nel suo genere. L'architettura è vista, in senso aristotelico, come
"mimesis" dell'ordine provvidenziale della natura: perciò si richiede all'
architetto una cultura ricca e varia, enciclopedica (quasi quella dell'
oratore ciceroniano), che faccia perno sulla filosofia.
Etruscologia

La rassegna retrospettiva che qui s'intende presentare per grandi linee
richiama i dati essenziali relativi agli avvenimenti, alle persone e alle
opere che costituiscono la trama del graduale recupero delle conoscenze
sull'Etruria antica e dell'approccio moderno alla sua comprensione. A tal
proposito non sembra difficile individuare e distinguere: 1) una
«preistoria» erudita che va fino al Settecento, 2) un periodo di estese e
positive acquisizioni scientifiche che abbraccia gran parte dell'Ottocento e
infine 3) uno stadio di più estesa ricerca e di più compiuta elaborazione
storico-critica soprattutto nel corso del nostro secolo.
Anche se la memoria degli antichi Tusci era riaffiorata talvolta non senza
qualche punta di orgoglio nelle cronache toscane del tardo medioevo e nella
letteratura umanistica, fu senza dubbio il generale risveglio d'interesse
per i monumenti antichi e per le scoperte di antichità che portò la cultura
del Rinascimento ad un primo incontro con le testimonianze del mondo etrusco
in quanto fenomeno più o meno chiaramente distinguibile, e progressivamente
distinto, nell'ambito della risorgente classicità. Rinvenimenti sporadici di
tombe e di iscrizioni osservati con crescente curiosità alimentarono tra gli
ultimi decenni del XV e i primi del XVI secolo gli scritti pieni di
ricostruzioni fantastiche di Annio da Viterbo e le opere di altri eruditi
come Sigismondo Tizio a Siena. Da Leon Battista Alberti a Giorgio Vasari si
avviò una iniziale teorizzazione dell'architettura e dell'arte figurativa
etrusca (particolarmente importante, a metà del Cinquecento, fu la scoperta
della Chimera d' Arezzo).
Il richiamo dell'Etruria antica si spostò nel corso del XVI secolo dalla
Tuscia papale alla Toscana, e in Toscana trovò il suo ambiente più propizio
non soltanto a livello di interessi culturali, ma anche per una certa
rispondenza al programma politico del principato mediceo, culminando poi nel
Settecento in quel vivacissimo movimento di ricerche (scavi a Volterra,
Cortona, ecc.) e di studi antiquari che prese il nome di etruscheria.
L'entusiasmo dei dotti locali portati a sopravalutare le antiche glorie
della loro patria toscana contribuì a diffondere la conoscenza dei monumenti
etruschi e a favorire la esaltazione, sovente esagerata, degli Etruschi fra
gli altri popoli del mondo antico.
Come il XVI era stato il secolo della riscoperta di Roma e il XIX sarà il
secolo della scoperta della Grecia, così il XVIII può considerarsi
senz'altro il secolo della scoperta dell'Etruria. È pur vero che il primo
tentativo di sintesi sulle conoscenze lasciate dal mondo antico
relativamente all'Etruria risale all'opera De Etruria regali dello scozzese
Th. Dempster, scritta fra il 1616 e il 1619; ma è anche vero che questa fu
pubblicata e valorizzata soltanto nella prima metà del Settecento e che ad
essa fecero eco le opere di F. Buonarroti, di O. H. Passeri, di S. Maffei,
di A. F. Oori, di M. Guarnacci. Sin dal 1726 era stata fondata l'Accademia
Etrusca di Cortona, che divenne il centro principale di questa attività
erudita, riflessa anche nei volumi delle sue Dissertazioni, pubblicati fra
il 1735 e il 1795. Fuori d'Italia va ricordata l'opera del grande antiquario
francese A. C. Ph. De Caylus. Più che per il valore delle congetture e delle
conclusioni, sovente arbitrarie e fantastiche, e per la natura del
procedimento critico, la etruscheria settecentesca va giudicata
positivamente per la passione e per la diligenza delle ricerche e della
raccolta del materiale archeologico e dei monumenti, che talvolta conserva
tuttora un certo valore.



L'attività etruscologica del Settecento culmina nella pubblicazione del
Saggio di lingua etrusca e di altre d'Italia di L. Lanzi: una piccola
«summa» delle cognizioni sull'Etruria, non soltanto nel campo della
epigrafia e della lingua, ma anche in quello della storia, dell'archeologia
e della storia dell'arte. Il Lanzi appare già alla soglia di una fase di
cognizioni più vaste e di metodo più sicuro, come è provato da molte sue
affermazioni nel campo epigrafico-linguistico e dalla reazione alle
esagerazioni dell'etruscheria, per esempio nella giusta attribuzione alla
Grecia dei vasi dipinti fino allora detti etruschi, e più generalmente nel
concetto di una preminente influenza greca sullo sviluppo dell'arte etrusca,
della quale è tracciata una prima embrionale ma apprezzabile
periodizzazione; nel solco del Lanzi si svilupperà l'attività degli
epigrafisti italiani dell'Ottocento come O. H. Vermiglioli. F. Orioli. M. A.
Migliarini e lo stesso A. Fabretti. Possiamo in sostanza affermare che
quello studioso sia stato per molti aspetti, e soprattutto per la
convergente molteplicità dei suoi interessi, il vero fondatore
dell'etruscologia moderna.
Occorre invece tener presente che una certa sopravvivenza delle idee
settecentesche, non solo per quel che riguarda l'Etruria, ma anche nel senso
dell'esaltazione degli antichi popoli italici con più o meno accentuate
sfumature antiromane (Maffei, Guarnacci, O. Lami, C. O. M. Denina e altri),
si manifesterà ancora negli scritti di archeologi, storici e saggisti della
prima metà del secolo XIX, trasferendosi dall'illuminismo allo spirito
romantico e perfino venandosi di spunti nazionalistici nel quadro del
movimento del Risorgimento italiano. L'espressione più significativa di
queste correnti è rappresentata dall'opera di O. Micali, che, a torto
sottovalutata, emerge per acutezza di osservazioni, capacità di sintesi e
apertura ai nuovi orientamenti delle scienze storiche. Si andavano ormai del
resto universalmente diffondendo i riflessi di un rapido e straordinario
progresso delle scoperte e degli studi.
Il nuovo secolo si era iniziato infatti con una intensissima esplorazione
soprattutto delle necropoli dell'Etruria meridionale e con una serie di
scoperte di valore decisivo a Tarquinia, a Vulci, a Cerveteri, a Perugia, a
Chiusi e in altre località. Alla iniziale attività formativa di collezioni a
Cortona e a Volterra, che aveva caratterizzato il Settecento si contrappone
ora lo sviluppo delle raccolte di materiali etruschi nel Museo granducale di
Firenze, nel Museo Etrusco Gregoriano a Roma, nel Museo etrusco-romano di
Perugia; mentre, come risultato immediato degli scavi, si formano le ingenti
collezioni private di Luciano Bonaparte, principe di Canino, e del banchiere
O. P. Campana, destinate ad emigrare in gran parte fuori d'Italia e a
costituire i nuclei delle collezioni etrusche del Museo del Louvre a Parigi,
del Museo Britannico a Londra e di molti altri grandi musei europei.
Nel frattempo, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX, si era determinato
quel grandioso processo di rinnovamento degli studi sulle antichità
classiche in generale che, iniziato da J. J. Winckel-Mann e continuato da E.
Q. Visconti, C. Fea, L. Canina, E. Gerhard, K. Q. Moller, accoglieva nuovi
impulsi dal contatto diretto del mondo occidentale con i monumenti originali
della Grecia e non di rado investiva direttamente, per l'interesse personale
di alcuni dei suoi protagonisti, anche il mondo etrusco. Nello stesso
periodo la linguistica generale comparata usciva con F. Schlegel e F. Bopp
dalle nebbie dell'erudizione prescientifica e si concretava nella
definizione e nella dimostrazione dell'unità linguistica indoeuropea.
In seguito a questi avvenimenti e nell'ambito di questi generali sviluppi
degli studi la conoscenza delle antichità etrusche passa decisamente dalla
fase settecentesca a quella ottocentesca del metodo storico, archeologico e
filologico. Un primo fattore essenziale di progresso è costituito dalla
fondazione dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica, nato a Roma nel
1829 per iniziativa del Oerhard e di un gruppo di studiosi e di amatori
nordici, i cosiddetti «Iperborei»: per diversi decenni le ricerche e le
scoperte d'Etruria saranno illustrate nel Bullettino, negli Annali e nei
Monumenti dell'Instituto. Lo studio della topografia e dei monumenti si
afferma attraverso una serie di indagini e di pubblicazioni di viaggiatori,
di archeologi e di architetti, come W. Gell, il Canina (Antica Etruria
marittima, 1846- 1851), O. Dennis (The Cities and Cemeteries of Etruria,
London, 1848, con successive edizioni fino al 1883). Particolarmente famoso
è stato, per la diffusione delle cognizioni sull'Etruria nel mondo della
cultura in generale, il libro del Dennis.
Si continuano intanto a pubblicare raccolte sistematiche di monumenti, opere
d'arte ed oggetti di scavo e cataloghi come quello del Museo Etrusco
Gregoriano. Ma si iniziano anche raccolte specializzate per singole classi
di oggetti, veri e propri «corpora»: di vasi specchi, poi urne. Non mancano
relazioni di scavi talvolta anche accurati, nella misura in cui le
operazioni di ricerca sul terreno ancora spesso concepite e condotte come
recupero selettivo di materiali, se non addirittura come rapina, tendono a
finalità più decisamente conoscitive sotto il controllo degli studiosi. L
'interesse per le opere figurate va perdendo il carattere di curiosità
soprattutto rivolta alle speculazioni mitologiche, care agli eruditi del
Settecento; ma resta ancora prevalentemente confinato nello studio dei
soggetti e alla derivazione e al confronto delle immagini, cioè
all'iconografia. Il confronto con l'arte greca porta di regola ad un
giudizio negativo nei riguardi della produzione etrusca considerata in gran
parte un artigianato d'imitazione: tale posizione sarà teorizzata in modo
esplicito nel primo tentativo di sintesi sull'arte degli antichi Etruschi
che appare soltanto verso la fine del secolo con l'opera di Martha, L 'art
etrusque (Paris, 1889).
Il periodo del quale ci occupiamo è particolarmente fecondo nel campo degli
studi epigrafici. L'attività degli studiosi italiani, epigoni del Lanzi, ai
quali abbiamo già fatto cenno, culmina nella pubblicazione del monumentale
Corpus lnscriptionum ltalicarum, con un Glossarium ltalicum, del Fabretti
(1867). Nell'ultimo trentennio del secolo gli studi sulla lingua etrusca
prendono un deciso orientamento critico. Si distinguono in essi, tra gli
altri, W. Corssen, W. Deecke, C. Pauli, S. Bugge, O. Herbig, E. Lattes: le
questioni dominanti sono quelle dei metodi di interpretazione e della
appartenenza o meno dell'etrusco al gruppo delle lingue indoeuropee.


In questo stesso momento s'imposta anche il problema dell' origine degli
Etruschi, non più soltanto sulla base delle fonti letterarie antiche e delle
congetture linguistiche, ma anche in rapporto alle nuove scoperte sulle fasi
primitive della civiltà dell'Eruria e dell'Emilia (nel 1856 venivano in luce
le prime tombe a cremazione di Villanova presso Bologna) e agli sviluppi
generali delle conoscenze sulla preistoria italiana: partecipano a queste
ricerche e a questi dibattiti, tra gli altri, W. Helbig, I. Undset, L.
Pigorini, E. Brizio. Occorre infine ricordare un'opera complessiva che ebbe,
ed ha tuttora. fondamentale importanza come quadro di cognizioni complessive
essenzialmente fondate sulla raccolta, la rielaborazione e l'interpretazione
dei dati della tradizione greco-romana sul mondo etrusco: cioè il libro di
K. Q. Moller, Die Etrusker (1828).
Il terzo e più avanzato periodo della storia degli studi etruscologici ha
come premessa l'intensificarsi di ricerche archeologiche sistematiche e
controllate che si manifesta già a partire dagli ultimi decenni del XIX
secolo soprattutto per l'intervento di organi responsabili ufficiali dopo
l'unità italiana. Si scava nelle necropoli di Tarquinia, di Vetulonia, di
Narce, di Bologna; si arricchiscono e si consolidano le conoscenze sulle
fasi più antiche dell'Etruria, cioè il villanoviano, che appare ora diffuso,
oltre che in Emilia, anche nei territori etruschi tirrenici, e
l'orientalizzante; si rivela il singolare abitato a pianta regolare di
Marzabotto; si esplorano i resti dei templii di Marzabotto, di Falerii, di
Orvieto con le loro decorazioni architettoniche. Via via nel corso del
secolo attuale fino agli ultimi decenni si intraprenderanno nuove regolari
indagini nei centri maggiori, a Caere, Veio, Tarquinia, Populonia, Roselle,
e altrove; infine nelle località litoranee e portuali di Spina sull'
Adriatico e di Pyrgi e Graviscae sul Tirreno, e in centri minori arcaici
dell'interno come Acquarossa presso Ferento nel Viterbese e Poggio Civitate
presso Murlo in provincia di Siena, per non citare che le imprese più
significative, in parte ancora in corso: ovunque con risultati che hanno
profondamente cambiato, se non addirittura rivoluzionato, il quadro delle
nozioni ottocentesche sulla civiltà etrusca. Naturalmente anche in questo
settore, come generalmente nell'archeologia moderna operante sul terreno,
gli scavi sono condotti con sempre maggiore scrupolo di controlli
scientifici tali da offrire il maggior numero possibile di osservazioni e di
dati, dai rilevamenti stratigrafici ai più avanzati e raffinati metodi
tecnologici (fotografia aerea, prospezioni chimiche, fisiche,
elettromagnetiche del sottosuolo ecc.). Hanno concorso e concorrono a queste
attività, oltre gli uffici statali cioè le Soprintendenze archeologiche
dell'Etruria Meridionale, della Toscana, dell'Umbria, dell'Emilia, anche
istituti scientifici italiani e missioni straniere. Si aggiungano alle
scoperte nel territorio etrusco quelle non meno importanti, e
collateralmente rivelatrici, del Lazio, della Campania, dell'Umbria, del
Piceno, dell'ltalia settentrionale. L 'indagine non è chiusa in se stessa e
il mondo che viene in luce appare sempre più significativamente inquadrato
ed interpretabile nella visione dello sviluppo della civiltà antica in
generale, così per quanto riguarda l'ltalia come per i suoi rapporti con le
aree circostanti, con la Grecia e con l'Oriente.
Nascono ora, anche come conseguenza dei nuovi scavi, i grandi musei pubblici
italiani con prevalente impronta di collezioni etruscologiche, a Firenze, a
Roma (il Museo Nazionale di Villa Giulia), a Tarquinia, a Chiusi, a Perugia,
a Bologna, poi a Ferrara (Museo di Spina), e le importanti raccolte locali
di Orvieto, Fiesole, Arezzo, Siena, Grosseto, Marzabotto, ecc.,
affiancandosi all'incremento di vecchi musei come il Gregoriano Etrusco del
Vaticano o il museo dell' Accademia Etrusca di Cortona; mentre specialmente
tra la fine del secolo passato e il principio del nostro secolo si sono
considerevolmente arricchiti di materiali etruschi i musei stranieri
d'Europa e d' America.
È proseguita intanto la pubblicazione di repertori generali o di singole
classi di monumenti: per il materiale della fase più antica della civiltà
etrusca la raccolta di tavole a disegno de La civilisation primitive en
Italie (1896-1904) di O. Montelius; per la pittura i fascicoli dei Monumenti
della pittura antica in Italia riguardanti le tombe etrusche di Tarquinia e
di Chiusi (dal 1937); per le terrecotte architettoniche la raccolta di A.
Andren, Architectural Terracottasfrom Etrusco-ltalic Temples (1939-1940);
per i sarcofagi il «corpus» di R. Herbig, Die Ungeretruskischen
Steinsarkophage (1952); per la ceramica dipinta l'opera di D. Beazley,
Etruscan Vase-Painting (1947). Parallelamente allo sviluppo delle
esplorazioni la descrizione dei luoghi e la considerazione topografica delle
città e del territorio, nel solco già aperto dal Canina e dal Dennis,
vengono assumendo in questo periodo caratteri più decisamente critici:
possiamo citare in proposito la parte dedicata all'Etruria nella ltalische
Landeskunde (1883-1902) di H. Nissen e, più specificamente ed estesamente,
la Topografia storica dell'Etruria in quattro volumi (1915-1920) di A.
Solari. Ma caratteristica soprattutto è la tendenza ad affrontare
monograficamente lo studio di singoli centri considerati in tutti i loro
diversi aspetti archeologici e storici: ciò che è stato fatto per Bologna
(A. Orenier, P. Ducati), Chiusi (R. Bianchi Bandinelli), Cortona (A. Neppi
Modona), Populonia (A. Minto), Sovana (Bianchi Bandinelli), Vulci (F.
Messerschmidt), Tarquinia (M. Pallottino), Capua (Heurgon), e così via.
Molte delle opere generali sugli Etruschi pubblicate negli ultimi decenni
danno del resto largo spazio alla trattazione descrittiva delle città
etrusche.
 All'indagine topografica si ricollegano i problemi di storia
dell'architettura, con particolare riguardo alle origini, alle
caratteristiche e allo sviluppo del tempio etrusco e della sua decorazione,
e sia pure in misura minore agli edifici civili e alla casa; nonchè gli
studi di urbanistica greca e italica che hanno investito largamente anche il
mondo etrusco (F. Castagnoli, O. A. Mansuelli, R. Martin). L'approfondimento
critico dei fenomeni dell'arte figurativa trova a sua volta un duplice
incentivo da un lato nelle nuove scoperte, specialmente quella dell' Apollo
di Veio avvenuta nel 1916; da un altro lato nelle generali tendenze
«esterne» della critica contemporanea verso il superamento del classicismo e
dell'accademismo e verso la comprensione e rivalutazione delle culture
artistiche estranee alla classicità, incluse quelle provinciali e
tardo-antiche (A. Riegl): donde partì una più o meno esplosiva affermazione
dell'originalità e della positività dell' «arte etrusca» o dell' «arte
italica» rispetto all'arte greca; ciò che è stato poi in parte
ridimensionato o riportato sul piano di più rigorose valutazioni storiche.
Non può trascurarsi la segnalazione di grosse raccolte illustrative
generali, tuttora utili anche se ormai prive di aggiornamento, come la
Storia dell'arte etrusca di Ducati (1927).
I progressi dei rinvenimenti e degli studi nel campo della preistoria e
della protostoria dell'Etruria e dell'ltalia in genere hanno portato
soprattutto, nel corso del secolo attuale, a basilari tentativi di
sistemazione cronologica, sia in senso relativo come individuazione di
successione delle fasi culturali dell'età del bronzo e dell'età del ferro,
sia in senso assoluto come ricerca di date sulla base dei confronti con
materiali d'importazione o d'imitazione di oggetti delle più o meno bene
inquadrate civiltà del Mediterraneo orientale, da ultimo anche con l'ausilio
dei nuovi metodi scientifici di datazione, segnatamente dei computi con il
radiocarbonio (da O. Montelius, O. Karo, A N. Aberg, A . Akerstrom, O. Von
Merhart, H. Moller-Karpe, R. Peroni, oltre chi scrive e molti altri).
Ovviamente le novità archeologiche continuamente insorgenti non solo in
Etruria, ma anche nel resto dell'area italiana e in tutto il Mediterraneo
hanno concorso a dare più precisi connotati e termini via via meno rigidi
alla polemica sulle origini etrusche iniziata nell'Ottocento ed ora
affrontata in specifiche opere monografiche (L. Pareti, F. Schachermeyr,
Ducati, Pallottino, F. Altheim, H. Hencken).
Il compito degli storici, oltre che sul problema delle origini, sembra
concentrarsi con accresciuta attenzione su quello delle istituzioni
politiche, amministrative e religiose delle città etrusche, anche in
rapporto con gli analoghi fatti e sviluppi di Roma e del mondo italico. Non
sono mancate indagini sulle forme della vita, sui costumi, sull'economia e
sull'organizzazione sociale, quale emerge anche dall'analisi
dell'abbondantissimo materiale onomastico offerto dalle iscrizioni
funerarie. Si aggiungano vecchi e nuovi interessi portati specificamente sul
tema della religione, della divinazione, dei culti. Infine gli studi
epigrafici e linguistici hanno trovato nuovo alimento nella individuazione e
nella scoperta di testi di fondamentale importanza (alla fine del XIX secolo
il manoscritto su tela di Zagabria e la tegola di Capua, i più lunghi tra
quelli finora conosciuti; recentemente le lamine d'oro di Pyrgi con una
«bilingue» etrusco-fenicia) e nel generale incessante incremento del
materiale, la cui pubblicazione sistematica, in sostituzione delle
precedenti raccolte. Per tutto il corso del nostro secolo si sono
moltiplicate, con risultati rilevantissimi e talvolta determinanti, le
indagini epigrafiche, interpretative, grammaticali, ad opera di una lunga
schiera di studiosi.
Un momento di particolare importanza per l'etruscologia fu quello degli anni
tra il 1920 e il 1930 quando, anche a seguito delle scoperte archeologiche
cui si è fatto cenno, segnatamente di Veio, si accese improvvisamente nel
mondo degli studi e della cultura un vivacissimo interesse per l'arte e per
la civiltà dell'Etruria antica e, ciò che più conta, si manifestò una
simultaneità e convergenza senza precedenti nell'affrontare e discutere i
problemi più scottanti, non soltanto dell'arte, ma anche dell'origine, della
lingua, della religione e della società etrusca. Firenze diventa il centro
principale di questo movimento al quale partecipano studiosi italiani e
stranieri; si susseguono un Convegno Nazionale (1926) e il I Congresso
Internazionale Etrusco (1928); nasce il Comitato Permanente per l'Etruria
(1927) e poco dopo (1932) sarà fondato l'Istituto di Studi Etruschi ed
Italici, massimo organo promotore e coordinatore degli studi etruscologici
anche a livello internazionale; dal 1927 si pubblica la serie dei volumi
annuali della rivista Studi Etruschi.
La suggestione del mondo etrusco non manca di riflettersi negli stessi anni
sulla cultura e sulla letteratura europea. Successivamente, e soprattutto
dopo la seconda guerra mondiale, le prospettive di attività, di cooperazione
e di organizzazione del lavoro così clamorosamente aperte hanno avuto
ulteriori verifiche ed ampliamenti con un ritmo che si è accelerato negli
ultimi tempi: oltre l'intensificarsi dei contributi individuali, vi hanno
concorso gli incontri scientifici, specialmente i convegni periodici
promossi dall'Istituto di studi Etruschi ed Italici; le rassegne
documentarie a partire dalla grande mostra «Arte e civiltà degli Etruschi»
presentata in varie città d'Europa nel 1955 e 1956; gli scavi con risultati
spesso imprevisti, le analisi tecnologiche e i restauri di vecchi e nuovi
materiali; lo sviluppo di insegnamenti specifici di etruscologia nelle
Università italiane; le iniziative fiorite, oltre che a Firenze, a Roma
intorno alla cattedra etruscologica dell' Ateneo romano, al Centro di studio
del Consiglio Nazionale delle Ricerche per l'archeologia etrusco-italica e
ad altre istituzioni italiane e straniere; infine il formarsi di tradizioni
di studi etruscologici anche all'estero, specialmente in Francia, in Belgio,
in Olanda, in Germania, in Svezia.
Alla informazione e alla divulgazione concorre il diffondersi di opere
generali sulla civiltà degli Etruschi, che, dopo il pressochè unico esempio
ottocentesco del citato Moller e Deecke, accompagna il risveglio degli studi
etruscologici con i libri del Ducati (L'Etruria antica, 1927), di B. Nogara
(Gli Etruschi e la loro civiltà, 1933), di M. Renaro (lnitiation à
l'etruscologie, 1941) e la prima edizione del presente volume (1942), cui
seguiranno pubblicazioni di sintesi e d'impostazione sempre più numerose
soprattutto negli ultimi anni (tra le più note quelle di R. Bloch, O. W. Von
Vacano, L. Banti, E. Richaroson, H. H. Scullaro), nonchè miscellanee
(Historia, VI, 1957: Tyrrhenica, 1957; Etudes etrusco-italiques, 1963).
Questa letteratura rispecchia panoramicamente non soltanto il progresso
delle conoscenze, ma anche l'aprirsi di nuove prospettive di metodo e
d'interpretazione storica, delle quali si dirà più avanti.
Introduzione
Il fondatore della questione etrusca è Dionisio D'Alicarnasso, storico greco
di età augustea, che dedica cinque capitoli (26-30) del primo libro delle
sue Antichità romane all'esame di questo argomento, confutando - con i mezzi
critici a sua disposizione - le teorie che identificavano gli Etruschi con i
Pelasgi o i Lidi e dichiarandosi favorevole all'ipotesi che fossero un
popolo «non venuto di fuori ma autoctono», il cui nome indigeno sarebbe
stato Rasenna. Scrive lo storico: Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la
regione, le loro città furono occupate dai popoli che vivevano nelle
immediate vicinanze, ma principalmente dai tirreni, che si impadronirono
della maggior parte di esse, e delle migliori.Sono convinto che i pelasgi
fossero un popolo diverso dai tirreni. E non credo nemmeno che i tirreni
fossero coloni lidii, poiché non parlano la lingua dei primi..Perciò sono
probabilmente più vicini al vero coloro che affermano che la nazione etrusca
non proviene da nessun luogo, ma che è invece originaria del paese.(Dionisio
di Alicarnasso (Antichità Romane) I sec. a.C.)

Prima di lui le opinioni sulle origini etrusche non avevano avuto, a quanto
sembra, carattere di meditata discussione; ma, come la maggior parte delle
notizie antiche sulle origini di popoli e città del mondo greco ed italico,
erano ai confini tra la storia e il mito, giovandosi al più - nel senso di
una giustificazione critica - di accostamenti etimologici ed onomastici.
Come le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani attraverso
le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi, si era
parlato di una provenienza orientale, dalla Lidia in Asia Minore, attraverso
una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di Lidia,
nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o di una
loro identificazione con il misterioso popolo nomade dei Pelasgi (Ellanico
di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di Tirreno
con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di Imbro
(Anticlide in Strabone, V, 2, 4); si aggiungano minori varianti o
rielaborazioni di questi racconti su cui non vale la pena di soffermarci.
Scrive Erotodo: Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta la Lidia
sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni vissero in
questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre più. Allora
il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte sarebbe
rimasto, l'altro avrebbe cercato fortuna altrove. Alla testa dei partenti
pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste e aver
visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono varie
città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un altro,
tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso nome
si chiamarono tirreni. (Erodoto (Storie I, 94) V sec. a.C.)

L'origine lidia degli Etruschi entrò senza difficoltà tra i luoghi comuni
della letteratura classica: Virgilio dice indifferentemente Lidi per
Etruschi. Ne mancava, a detta dello stesso Dionisio d' Alicarnasso, chi
sospettasse una loro origine indigena d'Italia. Ma soltanto Dionisio
raccolse le diverse opinioni, le discusse e cercò di dimostrare la propria -
cioè quella dell'autoctonia - sulla base dell'estrema antichità del popolo
etrusco e del suo isolamento culturale e linguistico tra le varie genti a
lui note.
In epoca moderna il problema è stato ripreso dapprima soltanto sulla base
dei testi classici, più tardi anche con il concorso dei dati archeologici e
linguistici. La prima fase della discussione fu condotta, tra l'inizio del
XVIII e la prima metà del XIX secolo, da N. Freret , B.G. Niebuhr e K.O.
Moller, i quali, richiamandosi alla posizione «critica» di Dionisio d'
Alicarnasso, si pronunciarono, sia pure con diversa accentuazione, contro la
tradizione erodotea della provenienza degli Etruschi dall'Asia Minore (si
arrivò perfino ad accostare il nome Rasenna con quello dei Raeti delle Alpi)
. Di fatto noi riconosciamo l'esistenza di una civiltà etrusca -etnicamente
definita dalle iscrizioni in lingua etrusca che cominciano ad apparire nel
VII secolo a.C. e durano fino al principio dell'età imperiale romana -
diffusa nell'Etruria propria (Lazio settentrionale e Toscana), in Campania e
nella parte orientale della valle del Po. La fase più antica di questa
civiltà storica (e sicuramente etrusca), caratterizzata da un intenso
afflusso di elementi orientali e detta perciò orientalezzante, si riattacca
immediatamente alla cultura del ferro villanoviana.
 Dal punto di vista del rito funebre si osserva in Etruria un predominio
esclusivo dell'inumazione di età preistorica (con le culture eneolitica e
del bronzo); poi l'apparire della incinerazione con i sepolcreti
«protovillanoviani» ed una sua netta prevalenza nel villanoviano più antico;
un riaffermarsi dell'inumazione nell'Etruria meridionale e marittima durante
il villanoviano evoluto e l'orientalizzante; infine un uso promiscuo dei due
riti - con prevalenza dell'inumazione nel sud, dell'incinerazione nel nord -
per tutta la successiva durata della civiltà etrusca. Giova ricordare che
anche in Roma repubblicana i due riti funebri erano paralleli e legati a
tradizioni familiari (ma alla forte prevalenza dell'incinerazione sul finire
della repubblica e nel primo secolo dell'Impero succederà il generalizzarsi
dell'inumazione a partire dal II secolo d.C., senza che ciò corrisponda a
trasformazioni di carattere etnico).
Sulla base dei dati offerti dalle tradizioni letterarie, dai confronti
linguistici e dall'interpretazione dei fatti archeologici sono state
formulate, dall'ultimo secolo, varie teorie relative alle origini del popolo
etrusco. Esse possono tuttavia riportarsi sostanzialmente a tre sistemi, di
cui uno riprende e sviluppa la tesi tradizionale antica della provenienza
degli Etruschi dall'oriente, l'altro continua la scuola di Niebuhr e del
Moller nel senso di una provenienza da settentrione, il terzo infine -più
recente - tenta di aderire in modo meno generico all'opinione di Dionisio
d'Alicarnasso sull'autoctonia degli Etruschi, ricercando le loro origini
etniche nel substrato antichissimo delle popolazioni preistoriche d'Italia,
anteriori alla diffusione delle lingue indoeuropee. Di queste tre tesi la
più nota ed universalmente accettata è quella dell'origine orientale. Essa è
stata particolarmente cara agli archeologi, italiani e stranieri, che in
densa schiera hanno dedicato i loro appassionati studi alle antichità
dell'Italia protostorica. Ad essi apparve soprattutto perspicua la
coincidenza tra le notizie delle fonti e il fenomeno culturale
orientalizzante, manifestatosi a partire dalle coste tirreniche tra l'VIII e
il VI secolo a.C., come un improvviso avvento di progresso esotico in
contrasto con le forme apparentemente arretrate della precedente cultura
villanoviana; si sottolineò anche il capovolgimento del rito funebre
dall'incinerazione all'inumazione.
Edoardo Brizio (nel 1885) fu il primo ad impostare scientificamente questa
tesi, identificando gli invasori etruschi con i portatori della civiltà
orientalizzante (poi ellenizzante) in Toscana e in Emilia, e identificando
gli Umbri della tradizione erodotea - intesi come ltalici indoeuropei - nei
preesistenti incineratori villanoviani.  Dopo di lui sono stati tenaci
assertori dello stesso punto di vista, tra gli altri, A. Piganiol, R. Bloch.
La tesi orientale ha trovato e trova larghissimo credito non soltanto fra
gli etruscologi, ma anche in generale fra i classicisti e studiosi delle
civiltà antiche non strettamente specializzati negli studi etruscologici,
attratti dall'autorità della tradizione, dalla facile spiegazione di alcune
caratteristiche «orientali» della civiltà etrusca, dalle notevoli
concordanze onomastiche tra l'etrusco e le lingue dell' Asia Minore
(rilevate da O. Herbigs) e dall'ancor più evidente rapporto linguistico
dell'etrusco con l'idioma preellenico di Lemno. Tuttavia non sono mancate
varianti ed attenuazioni della classica impostazione del Brizio,
specialmente in conseguenza di una più approfondita considerazione delle
fonti antiche e dei dati archeologici: così vi fu chi suppose un arrivo
degli Etruschi dal mare, ma attraverso l'Adriatico e non il Tirreno, sulla
scia della tradizione dei Pelasgi (E. Pottier); chi immaginò un'invasione in
più ondate, a partire dal 1000 a.C..
Ancora più di recente, l'origine stessa delle culture del ferro dette
«tirreno-arcaiche» sia con inumazione sia con cremazione (praticamente il
villanoviano) è stata attribuita ad un'ondata egea, entro la quale si
collocherebbe l'avvento degli antenati degli Etruschi storici da Lemno e da
Imbro; o addirittura si è fatta risalire l'immigrazione dei Tirreno-Pelasgi
in Italia alla tarda età del bronzo. Queste connessioni preistoriche e
protostoriche con l'oriente sarebbero confermate dalla più volte proposta
identificazione dei Tyrsenoi con i Trs. nominati dai geroglifici egiziani:
vale a dire con uno dei «popoli del mare» che tentarono l'invasione
dell'Egitto sotto i faraoni Merneptah e Ramses III (tra il 1230 e il 1170
a.C.).
Infine, di fronte all'affermarsi del concetto di una formazione storica
degli Etruschi da più elementi (come si dirà più avanti), l'apporto
orientale è stato ultimamente riproposto in forma più cauta e limitata, come
un fattore di sollecitazione dovuto all'avvento di nuclei di navigatori
asiatici od egei, simili ai Normanni del medioevo, ma pur sempre
determinante in quanto esso avrebbe imposto la lingua etrusca in Italia. Su
questa linea di ipotesi si muovono le idee di H. Hencken circa successive
penetrazioni all'inizio del villanoviano e dell'orientalizzante, come
l'attuale tendenza a collocare le connessioni orientali in età più remota,
cioè nella fase micenea o immediatamente postmicenea secondo la tesi del
Berard. La teoria dell'origine da settentrione ebbe però il suo principale
fondamento critico nelle scoperte e nelle ipotesi archeologiche del secolo
scorso, con particolare riguardo alla ricostruzione pigoriniana, che già
conosciamo, sulla discesa degli incineratori delle terremare verso l'Italia
peninsulare. Tra questi sarebbero stati non soltanto gli Italici, ma anche
gli Etruschi, tanto più che diversi linguisti ritenevano che l'etrusco fosse
una lingua indoeuropea e italica.
 La teoria settentrionale sedusse alcuni archeologi - che però passarono poi
alla tesi della provenienza orientale - ma fu soprattutto sostenuta da
studiosi di storia antica. Tuttavia, dovendosi riconoscere una profonda
differenza etnica e linguistica fra Etruschi ed Italici, O. De Sanctis
giunse a rovesciare la teoria pigoriniana identificando gli Etruschi con i
crematori discesi dal nord e gl'Italici con le genti eneolitiche già
stanziate nella penisola. L. Pareti ha voluto riconoscere una più antica
ondata indoeuropea (quella dei «Protolatini») negli eneolitici; un'ondata
indoeuropea più recente (quella degli Italici orientali) nei crematori
«proto- villanoviani»; e infine il nucleo etnico del popolo etrusco nei
possessori della cultura villanoviana, derivata dalle terremare e dalle
palafitte dell'Italia settentrionale. Alla teoria della provenienza
settentrionale si ricollega, in sede linguistica, la ipotesi di P.
Kretschmer sulla pertinenza degli Etruschi ad un gruppo etnico-linguistico
«retotirrenico» o «reto-pelasgico» disceso dall'area balcanico-danubiana
verso la Grecia e verso l'Italia.

La terza tesi, o dell'autoctonia  fu quindi elaborata nel campo archeologico
da U. Antonielli, ma soprattutto sviluppata dalla scuola dei linguisti
italiani tra cui O. Devoto, il quale ultimo ne dette una formulazione
organica già nella prima edizione del suo libro Gli antichi ltalici (1931).
Considerati i legami intercorrenti tra l'etrusco e le lingue preindoeuropee
del Mediterraneo, il popolo etrusco non sarebbe giunto in Italia dopo gli
Indoeuropei, ma rappresenterebbe invece un relitto delle più antiche
popolazioni preindoeuropee, una specie di «isola» etnica, così come i Baschi
dell'area dei Pirenei rappresentano tuttora l'avanzo di primitive
popolazioni ispaniche rispetto alle attuali nazioni neolatine che li
circondano. La toponomastica sembra dimostrare infatti, come abbiamo visto
nel precedente capitolo, l'esistenza nella penisola di uno strato
linguistico più antico dei dialetti italici e piuttosto affine all'etrusco
stesso e agli idiomi dell'Egeo preellenico e dell' Asia Minore. Gli Etruschi
sarebbero un concentrarsi verso occidente - sotto la spinta degli invasori
ltalici - di elementi etnici appartenenti a questo strato: naturalmente con
notevoli commistioni ed influssi linguistici indoeuropei. Dal punto di vista
archeologico, cioè culturale, lo strato etnico più antico sarebbe da
riconoscere negli inumatori di età neoeneolitica e dell'età del bronzo ai
quali si sarebbero sovrapposti gli ltalici o Protoitalici incineratori
(rappresentati in Etruria dalla cultura villanoviana), dando luogo alla
nazione etrusca storica come un riaffermarsi degli elementi originari della
stirpe sotto gl'impulsi culturali provenienti dall' oriente. Questa tesi,
sia pure con formulazione diversa nei particolari, fu cara anche a
paletnologi «occidentalisti».





Analisi della teoria della provenienza orientale

Le teorie sin qui esposte tentano di spiegare ciascuna a suo modo i dati
della tradizione, delle ricerche linguistiche, delle scoperte archeologiche,
per ricostruire lo svolgersi degli eventi che hanno portato all'insediamento
e allo sviluppo del popolo etrusco. Si tratta in realtà di ingegnose
combinazioni dei diversi elementi conosciuti; ma esse soddisfano soltanto
una parte delle esigenze che derivano da una piena valutazione critica di
tali elementi. Ciascuno dei tre sistemi e delle loro varianti lascia
qualcosa di inesplicato, urta contro fatti assodati: senza tuttavia che
questo torni a vantaggio delle altre ricostruzioni. Se ciò non fosse, la
discussione sarebbe stata da lungo tempo superata con un accordo di massima
tra gli studiosi, e la polemica tradizionale non sarebbe giunta ad un punto
morto.
 Consideriamo in primo luogo criticamente la tesi orientale. Essa riposa
sopra una presunta concordanza tra dati della tradizione - per quanto essi
convergono sulla provenienza degli Etruschi dall'oriente egeo-anatolico,
siano stati essi Lidi o Pelasgi o abitanti di Lemno - e dati archeologici,
cioè la constatazione di una fase culturale orientalizzante nell'Italia
centrale. Si aggiungano sul piano linguistico, come già detto, la forti
somiglianze tra l'etrusco e il lemnio, nonchè le supposte connessioni
dell'etrusco con idiomi dell'Asia Minore e perfino del Caucaso. Ma innanzi
tutto quale è il valore effettivo di ciascuno di questi elementi posti a
confronto, preso isolatamente? Sulle tradizioni relative a migrazioni e a
parentele etniche derivate dai poeti e dai logografi greci la critica
moderna è generalmente scettica o almeno estremamente prudente. Ciò vale in
primo luogo per i Pelasgi, popolo leggendario che i Greci ritenevano
originario della Tessaglia ed emigrato in età eroica per via di mare in
varie regioni dell'Egeo e perfino dell'ltalia, sulla base di concordanze
formali tra nomi di località tessale e località esistenti nei paesi che si
ritennero meta delle loro migrazioni. Così furono dette pelasgiche tutte le
zone nelle quali appariva il nome di città Laris(s)a (dalla Larissa di
Tessaglia) e cioè l'Attica, l'Argolide, l'Acaia, Creta, Lesbo, la Troade,
l'Eolide, l'Italia meridionale. Lo stesso si dica per i nomi affini a quello
della città di Gyrton nella Tessaglia, come Gortyna in Macedonia, in Arcadia
e in Creta, Kyrton in Beozia, Crotone nell'ltalia meridionale, Cortona in
Etruria. Va però tenuto presente che in età storica si consideravano di
origine pelasgica popolazioni non greche effettivamente esistenti al margine
del mondo greco, quasi avanzi di quella antica emigrazione, come gli
abitatori delle isole di Lemno e di 1mbro e dell'Ellesponto nell'Egeo
settentrionale; e ciò fu immaginato probabilmente - in direzione opposta,
cioè in occidente - anche per gli Etruschi fin dai primi contatti dei
navigatori greci con l'Etruria, dato che proprio alcuni centri etruschi
costieri più aperti ad una intensa frequentazione ellenica e perciò meglio
conosciuti, come Caere (detta dai Greci Agylla, con i porti di Alsio, Pyrgi,
ecc.) e sull'Adriatico Spina, si consideravano originarie fondazioni dei
Pelasgi. È senza dubbio a questo filone di tradizioni che s'ispira l'ipotesi
erudita di un'identificazione dei Tirreni d'ltalia, cioè degli Etruschi, con
i Pelasgi, attribuita da Dionisio d'Alicarnasso allo storico Ellanico, del
tutto indipendente dalla versione di Erodoto sull'origine lidia e
palesemente contrastante con le opinioni degli autori antichi posterodotei
che parlano sì di un'occupazione pelasgica dell'Etruria, ma anteriore e
comunque distinta da quella dei Tirreni. Quanto al famoso racconto di
Erodoto sull'immigrazione dei Tirreni dalla Lidia (o meglio dei Lidi
chiamati poi Tirreni dal loro eponimo Tirreno), prescindendo dalla fortuna
che esso ebbe nell'antichità, difficilmente sfuggiremmo oggi - dopo le
argomentazioni critiche del Pareti - all'impressione che si tratti, così
come è formulato, di un'invenzione dei logografi ionici nella fase di più
stretti rapporti commerciali e culturali del mondo greco-orientale con
l'Etruria e di probabili presenze di navigatori etruschi nell'Egeo, di cui
si dirà più avanti, cioè essenzialmente nel VI secolo.
È possibile che questa storia abbia avuto spunti ispiratori concreti,
oltreche in talune apparenti somiglianze tra l'Etruria e il mondo anatolico,
anche in accostamenti onomastici con la città lidia di Tyrrha o con il
popolo dei Torebi e nella stessa esistenza di Tirreni nell'Egeo, ricordati
dagli scrittori greci a partire dal V secolo, ma spesso confusi con i
Pelasgi (cosicchè non è neppure esclusa l'ipotesi che si tratti di un nome
diffuso secondariamente in sede di erudizione etnografica come conseguenza
dell'identificazione dei Pelasgi con i Tirreni d'Italia, i quali sarebbero
dunque i soli Tirreni conosciuti dalla tradizione greca più antica). Ancora
ai Pelasgi ci riporta la notizia di Anticlide che, per quanto tarda e
contaminata favolisticamente con la versione di Erodoto, presenta
un'interessante precisazione geografica in quanto parla di un'immigrazione
dalla sfera nord-egea delle isole di Lemno e Imbro conosciuta storicamente
dai Greci come «pelasgica» (e alla quale richiamano i rapporti linguistici
fra etrusco e lemnio).
In conclusione i dati delle fonti letterarie classiche, leggendari e
contraddittorii, non offrono alcuna prova a favore di una provenienza del
«popolo etrusco» dall'oriente; tuttavia non escludono possibili echi di
singole più o meno remote connessioni del mondo etrusco con l'area egea.
 Passando a considerare l'aspetto archeologico del problema, va notato
subito che il fenomeno del manifestarsi della civiltà orientalizzante in
Etruria non è tale da giustificare l'ipotesi di un popolo straniero che
approdi recando le sue strutture e le sue forme di vita, come invece è
evidentissimo in Sicilia e nell'Italia meridionale all'arrivo dei coloni
greci. Durante la fase del villanoviano evoluto cominciano ad avvenire
trasformazioni notevoli che preludono allo splendore della successiva fase
orientalizzante: si diffonde il rito funebre dell'inumazione, appaiono le
prime tombe a camera, l'uso del ferro si generalizza, aumentala frequenza
degli oggetti di bronzo decorato e dei metalli preziosi (oro, argento), e
nello stesso tempo s'incontrano sempre più numerosi oggetti e motivi
d'importazione straniera (scarabei e amuleti di tipo egizio, ceramica
dipinta d'imitazione greca). II passaggio alla civiltà orientalizzante non è
dunque radicale ed istantaneo. Molti degli aspetti di questa civiltà, come
le stesse grandi tombe architettoniche o di imitazione architettonica, la
ceramica d'impasto e di bucchero, arredi, gioielli, ecc., rientrano in pieno
nello sviluppo della cultura indigena, sia pure sollecitata da influenze
esterne, orientali e greche, e soprattutto eccitata dal rigoglio economico.
Singoli oggetti importati e motivi provengono dall'Egitto, dalla Siria, da
Cipro, da Rodi e in genere dalla Grecia; altri hanno la loro patria
d'origine anche più lontano, in Mesopotamia o in Armenia (Urartu).
 Caratteristico è il genere di decorazione che mescola motivi egiziani,
mesopotamici, siriaci, egeo-asianici, talvolta in composizioni ibride, o
sviluppa i repertori di fregi con animali reali e fantastici, presenti negli
oggetti di lusso di origine fenicio-cipriota, ma rielaborati e diffusi in
parte notevole dai Greci stessi soprattutto nel corso del VII secolo a.C..
In sostanza l'impressione che si prova di fronte alle tombe etrusche
orientalizzanti e ai loro sontuosi corredi è che l'ossatura, le forme
essenziali della civiltà affondino le loro radici nelle tradizioni locali;
mentre lo spirito e le caratteristiche degli elementi decorativi, esterni,
acquisiti, si riportino alla «moda» orientale. E quando appunto si voglia
prescindere da questo carattere composito - indigeno ed esotico - della
civiltà orientalizzante di Etruria' e ci si voglia limitare all'esame dei
soli elementi importati; allora appare chiaro che essi non sono presenti
soltanto in Etruria, ma appaiono più o meno con gli stessi aspetti in altri
paesi mediterranei nello stesso periodo, a cominciare dalla Grecia stessa,
là dove certo non si suppone un'immigrazione asianica.
 Allo stile orientalizzante succederà in Etruria un preponderante influsso
di elementi culturali ed artistici propriamente greci, dapprima
peloponnesiaci e ionici e poi attici, nel corso del VI e del V secolo a.C.
Ad essi è dovuta una ben più decisiva trasformazione della vecchia cultura
indigena in nuove forme di vita, anche nel campo più intimo della religione
e delle costumanze: basti pensare alle divinità e ai miti ellenici penetrati
in Etruria. Nessuno naturalmente oserebbe immaginare l'assurdo storico di
una colonizzazione etnica greca dell'Etruria nel VI secolo (anche se abbiamo
prove convincenti dell'esistenza di nuclei di commercianti greci nei porti
etruschi). Non si comprende dunque la necessità di attribuire la civiltà
orientalizzante ad un'invasione di stranieri, piuttosto che a un
rinnovamento di civiltà. Anche per quel che concerne il rito funebre non
esiste alcun brusco trapasso dalla cremazione del villanoviano
all'inumazione dell'orientalizzante.
 Già il villanoviano più antico dell'Etruria meridionale mostra tombe a
fossa commiste con tombe a pozzo di cremati. L'affermazione dell'inumazione
è progressiva nella fase del villanoviano evoluto. Questo processo è del
resto comune nel corso dell'VIII secolo non soltanto in Etruria, ma anche
nel Lazio, dove non si suppone nessuna immigrazione. Inoltre esso appare
limitato all'Etruria del sud, perche l'Etruria interna (per esempio Chiusi)
non abbandonerà il costume dell'incinerazione prevalente ne durante
l'orientalizzante ne per tutta la successiva durata della civiltà etrusca.
Nella stessa Etruria meridionale si avrà una parziale ripresa della
cremazione nel VI secolo. Un'incidenza di fatti etnici è inimmaginabile, se
si intende come sostituzione di un popolo ad un altro.
Riconsideriamo ora questi diversi elementi nei loro reciproci rapporti
geografici ecronologici per verificare se sia sostenibile la tesi
orientalistica nella sua formulazione tradizionale e più diffusa - tuttora
sostenuta da alcuni studiosi e ripetuta in sede di pubblicazioni non
specialistiche - dell'arrivo degli Etruschi in Italia come portatori della
civiltà orientalizzante. Ma quale civiltà orientalizzante? Noi sappiamo
benissimo che le importazioni orientali e più generalmente il formarsi del
gusto orientalizzante in Etruria tra la fine dell'VIII e il principio del VI
secolo ci riconducono a centri di produzione e d'ispirazione estremamente
diversi e dispersi del Vicino Oriente e del Mediterraneo orientale, con una
prevalenza, se mai, dell'area siro-cipriota, e poi greco-orientale.
È dunque piuttosto alla navigazione fenicia e greca, interessante con
analoghi risultati anche altri territori del bacino mediterraneo, che sarà
da attribuire l'apporto culturale orientalizzante. Questo quadro appare
chiaramente inconciliabile con l'idea della immigrazione o della
colonizzazione di un popolo straniero che rechi con se il proprio bagaglio
di civiltà partendo da un punto ben definito del mondo orientale, cioè,
stando alle fonti, dalla Lidia o dall'Egeo settentrionale: tanto più che
proprio per questi territori manca ogni specifica analogia culturale con
l'Etruria in corrispondenza dell'età alla quale si è voluta riferire
l'immigrazione etrusca. Le scoperte di Lemno, delle località costiere della
Ionia e dell'Eolide asiatiche, di Sardi, dell'interno dell' Anatolia non
hanno offerto finora alcun elemento, se non piuttosto generico (per esempio
tumuli, tombe a camera, facciate rupestri, ecc.), di concordanza con i
monumenti e con la civiltà dell'Etruria per quel periodo che in Asia Minore
è denominato «frigio» (IX- VII secolo) ed a Lemno, impropriamente,
«tirrenico» (meglio dobbiamo dire «pelasgico», sulla base della tradizione
storica più antica ed autorevole).
 La ceramica geometrica frigia, quella lidia e la caratteristica ceramica
arcaica di Lemno non hanno assolutamente alcun rapporto con la produzione
vascolare indigena e greco-geometrica d'Italia. Qualche vaso di tipo lidio
si diffonde in occidente soltanto nel VI secolo, insieme con tanti altri
tipi greco-orientali. Così anche la ceramica grigia asiatica è esportata dai
coloni di Focea nel Mediterraneo occidentale, ma è rara in Italia, dove non
sembra aver alcun rapporto con l'origine del bucchero etrusco. La fibula
asianica, presente con estrema dovizia in tutta l'Anatolia, ha una
caratteristica forma con arco semicircolare rigido e ingrossamenti a perle o
in forma di elettrocalamita; sembrerebbe impossibile che essa non avesse
dovuto accompagnare le migrazioni di un popolo asianico. Ma è un fatto che
essa non ha avuto diffusione verso occidente neanche per via commerciale:
finora nell'Italia centrale se ne è trovato un solo esemplare sui Colli
Albani, e altri due provengono dalla necropoli di Pitecusa, cioè in ogni
caso fuori del territorio dell'Etruria!
 La recente scoperta di una tomba reale a Gordion, capitale della Frigia,
con grandi lebeti di bronzo con figure applicate simili a quelle delle tombe
orientalizzanti dell'Etruria edi Palestrina, offre un'altra testimonianza
della larga diffusione dell'arte bronzistica dell'Urartu sulle vie della
Grecia e dell'Italia, ma non è una prova di un rapporto diretto tra la
Frigia e l'Etruria. Viceversa le connessioni dei centri occidentali
dell'Asia Minore con l'Italia sono sempre più intense ed immediate nel VI
secolo, a causa delle navigazioni ioniche verso occidente e forse anche di
presenze etrusche nell'Egeo, culminando con le preponderanti influenze
greco-orientali sull'arte dell'Etruria arcaica. Ma questo fenomeno non ha
ovviamente nulla a che vedere con la questione delle origini.
 L'identificazione della civiltà orientalizzante con la supposta
immigrazione etrusca secondo le fonti antiche appare insostenibile anche per
elementari ragioni di carattere cronologico e storico. L 'inizio della
civiltà orientalizzante etrusca non è anteriore alla fine dell'VIII secolo,
cioè ad un momento in cui i coloni greci erano già più o meno saldamente
stanziati sulle coste della Sicilia e dell'Italia meridionale. Il racconto
di Erodoto sull'immigrazione dalla Lidia non può essere invece
arbitrariamente distratto dal suo sistema cronologico, che riporta i fatti
al regno di Ati sulla Lidia: cioè, secondo la cronologia tradizionale, poco
dopo la guerra di Troia, tra il XIII e il XII secolo a.C. Lo stesso discorso
vale anche per le migrazioni pelasgiche. Un avvenimento così notevole agli
albori dei tempi storici - ed in parallelismo e in concorrenza con la
colonizzazione greca - non sarebbe sfuggito ad altre fonti storiche e
soprattutto non sarebbe stato trasfigurato, come in Erodoto, in un episodio
leggendario di mezzo millennio più antico.
 Si consideri anzi che una fonte così autorevole come lo storico greco Eforo
(in Strabone, VI, 2, 2), parlando della fondazione di Nasso, la più antica
colonia calcidese della Sicilia, nell'VIII secolo, afferma che prima di
allora i Greci non si avventuravano nei mari occidentali per timore dei
Tirreni: ammette cioè implicitamente un'antica presenza e potenza degli
Etruschi in Italia prima dell'inizio della colonizzazione greca storica.
Proprio se si vuol dare giusto valore ai dati della tradizione quali
possibili echi di una lontana realtà storica occorrerà ricollocarli nel loro
proprio contesto cronologico che è quello dell' età eroica, cioè riportarli
in ogni caso ad avvenimenti corrispondenti alla tarda età del bronzo, che è
quanto dire alle fasi tardo-micenee e postmicenee degli ultimi secoli del II
millennio a.C.: si tratterebbe in ultima analisi di accogliere
l'impostazione critica del Berard, la sola metodologicamente accettabile. Ma
anche volendo supporre che i racconti di fonte classica contengano qualche
reminiscenza di presenze e di apporti orientali sulle coste tirreniche nella
tarda età del bronzo, dovremmo comunque sfrondarne le coloriture più ingenue
e semplicistiche troppo palesemente ispirate ai modelli delle colonizzazioni
storiche, e respingere l'idea di trasferimenti di popolazioni in massa.
 Dovremmo anche, più sottilmente, distinguere l'impostazione aneddoticamente
caratterizzata, e perciò fittizia, del racconto di Erodoto sulla provenienza
dei Tirreni dalla Lidia - oltre tutto basata sull'ambiguità del concetto e
del nome di Tirreni - dai più vaghi ma più diffusi, e presumibilmente più
antichi, richiami alle navigazioni dei Pelasgi. In questo senso potrebbe
anche ammettersi una certa corrispondenza fra dati della tradizione e dati
linguistici, sia nella prospettiva geografica (pelasgità di Lemno,
provenienza degli Etruschi da Lemno secondo Anticlide, affinità fra illemnio
e l'etrusco), sia nella prospettiva cronologica (antichità del rapporto così
nel quadro delle tradizioni come nell'evidenza linguistica). Manca invece
una qualsiasi spia archeologica, anche se la possibilità che navigazioni
egee abbiano raggiunto il Tirreno nel tardo bronzo ci è suggerita da più o
meno sporadici trovamenti di ceramica di tipo miceneo, come già sappiamo.




Analisi della teoria della provenienza settentrionale e dell'autoctonia

Passiamo ora all'esame delle tesi «occidentalistiche», a cominciare da
quella della provenienza degli Etruschi da settentrione. Il vecchio
raffronto tra il nome dei Rasenna e quello dei Reti è puerile: le iscrizioni
rinvenute nel Trentino e nell' Alto Adige sono assai tarde (posteriori al V
secolo a.C.) e, se anche mostrano antichissimi legami o recenti rapporti con
l'etrusco, nulla provano ai fini di una supposta originaria immigrazione
degli Etruschi, come popolo già formato, dalla regione alpina. Dal punto di
vista archeologico la critica già fatta ai punti di vista del Pigorini e
dello Helbig in firma sostanzialmente l'ipotesi di una discesa di popoli dal
settentrione dell'ltalia verso il centro della penisola. L'etruschicità
della pianura padana è una ben definita conquista dal sud, come dicono anche
le fonti storiche: in questo si può andare d'accordo con il Brizio e con il
Ducati, pur facendo ogni riserva sulla cronologia ed escludendo che gli
abitatori di Bologna villanoviana siano da identificare con quegli Umbri
italici la cui apparizione sul versante orientale dell'Appennino è ancora
più recente.
 La linguistica ha ormai da tempo superato la vecchia concezione delle
affinità genetiche tra etrusco e lingueitaliche: cosicche anche da questo
punto di vista la tesi pigoriniana di, una discesa unica di Etruschi edi
ltalici ha perduto ogni consistenza. Di qui la teoria del De Sanctis
tendente a riconoscere gli Etruschi nei crematori e gl'ltalici negli
inumatori del vecchio ceppo eneolitico (meglio noi diremmo ora, nelle genti
di tradizione appenninica). Sul piano di una grossolana identificazione dei
fatti archeologici con quelli etnico-linguistici queste equazioni sarebbero
le sole idonee a spiegare la già constatata corrispondenza delle aree
dell'inumazione e della cremazione rispettivamente con le aree indoeuropea e
non indoeuropea d'ltalia. Ma è evidente, specialmente oggi alla luce delle
più recenti scoperte, che non si può parlare in blocco di «crematori» come
rappresentanti di un'unica e precostituita realtà etnico-linguistica; che il
villanoviano non è una cultura introdotta già formata da qualche area
esterna a quella del suo sviluppo, ne presenta forme più antiche a nord
dell' Appennino, ma anzi ha i suoi precedenti immediati piuttosto nel
«protovillanoviano» peninsulare, e tra l'altro proprio nell'Etruria
tirrenica (dai Monti della Tolfa al Grossetano); che fasi arcaiche di
culture di crematori affini al «protovillanoviano», come il «protolaziale» e
il «protoveneto», appaiono all'inizio delle culture del ferro del Lazio e
del Veneto, spettanti a popoli storici di lingua indoeuropea ma di origine
diversa, cioè rispettivamente ai Latini e ai Veneti. Con ciò cade anche - o
si riduce nella sfera delle congetture indimostrabili - l'opinione del
Pareti che i «protovillanoviani» rappresentino originariamente una sola
stirpe, quella degli ltalici orientali (ipotesi tanto più inverosimile in
quanto in età storica gl'Italici orientali sono principalmente inumatori), e
che una successiva ipotetica ondata di «villanoviani» rappresenti la discesa
degli Etruschi. Si tratta, come si vede, di giuochi di pazienza senza alcun
fondamento di verosimiglianza critica. In nessun modo l'archeologia può
dimostrare un «arrivo» degli Etruschi dal nord.
 Altro argomento a svantaggio della tesi settentrionale è proprio il
rapporto della lingua etrusca con la lingua preellenica di Lemno. Per
spiegarlo occorrerebbe accettare la tesi del Kretschmer di un'immigrazione
parallela dal bacino danubiano, per via continentale, nell'Egeo
settentrionale e in Italia; ma resterebbero pur sempre da spiegare gli
elementi affini all'etrusco nella toponomastica «tirrenica» dell'Italia
peninsulare, che sono profondi e diffusi. Ciò non esclude tuttavia la
presenza in etrusco di elementi linguistici continentali, ricollegabili a
linguaggi nordico-occidentali del substrato preindoeuropeo (come il «ligure»
o il «retico») o addirittura a lingue indoeuropee. Ma questo prova, se mai,
una larga coincidenza e mescolanza locale di fattori di diversa origine,
attraverso una complessa sovrapposizione di aree linguistiche.
Anche la tesi dell'autoctonia, intesa in un senso assoluto e schematico,
presenta il fianco a fondate critiche. Il punto di vista dei linguisti
(Trombetti, Ribezzo, Devoto, ecc.), che riconosce nel fondo dell'etrusco il
relitto di una più vasta unità linguistica preindoeuropea, è teoricamente
ineccepibile, in quanto tiene conto delle affinità mediterranee della lingua
etrusca e della presenza del substrato «tirrenico», rivelato soprattutto
dalla toponomastica, in gran parte del territorio italiano. Viceversa la
ricostruzione specifica dei fatti in base ai dati archeologici, tentata
dall'Antonielli e dal Devoto, si dibatte contro gravi difficoltà. Essa
presuppone una netta contrapposizione etnica tra indigeni inumatori
dell'eneolitico e dell'età del bronzo, e «villanoviani» crematori discesi da
settentrione, identificando i primi con lo strato primitivo «tirrenico», i
secondi con gli invasori italici indoeuropei. Ancora una volta la
constatazione della corrispondenza pressoche esatta delle aree
d'incinerazione e di inumazione rispettivamente con l'area non indoeuropea e
con quella indoeuropea si oppone alla ricostruzione astratta degli
autoctonisti. Proprio l'Etruria, dove è tipica e densissima l'occupazione
degli incineratori, sarebbe il solo cantone dell'Italia in cui la lingua
primitiva avrebbe conservato i suoi caratteri sino alla pienezza dei tempi
storici; mentre invece le lingue italiche avrebbero trionfato nella parte
orientale della penisola, dove non si hanno tracce se non sporadiche ed
insignificanti del passaggio dei supposti incineratori italici!
 È chiaro che l'autoctonismo linguistico non può essere costretto entro
l'assurdità di questi schemi archeologici, nei quali appare ancora così
evidente l'impronta del vecchio preconcetto pigoriniano. Invano Devoto tentò
di ricondurre l'equazione incineratori = Italici al concetto di una corrente
«protoitalica» di cui però nulla chiaramente risulta nei fatti positivi
dell'etnografia storica italiana. In ogni caso un puro autoctonismo si
presenta a priori come una teoria antistorica: ed in concreto urta contro
l'evidenza di vicende culturali che denunciano influenze europee ed
orientali e contro i dati linguistici che dimostrano rapporti tra l'Etruria
e l'Egeo oltre che una profonda penetrazione di elementi indoeuropei nella
lingua etrusca.
I Villanoviani

Si denomina così la cultura dell'età del Ferro caratteristica del territorio
dell'Etruria, dell'Emilia centrale (area delimitata dai corsi del Panaro,
del Po e del Santerno), della Romagna orientale (bacino del Marecchia), a
Capua e a Pontecagnano. Così chiamata dalla scoperta del Gozzadini nel 1850
a Villanova di Castenaso (Bo) di un centinaio di tombe caratterizzate dalla
sepoltura in pozzetti:
-  rivestite da ciottoli (tomba a pozzetto);
-  limitata da lastre di pietra (tomba a cassetta);
- scavati nel tufo, all'interno di grandi ovuli (tombe a ziro) nei quali
veniva posto un ossuario dalla tipica forma biconica coperto da una ciotola
(femminile) o da un elmo (maschile) contenente le ceneri del defunto. Il
corredo era caratterizzato: elementi tipici maschili come i morsi di
cavallo, i rasoi lunati, spilloni, fibule serpeggianti e la spada o da
elementi tipici femminili come cinturoni, fibule ad arco rivestito o ad arco
ritorto, rocchetti e fusaiole. Pochi sono gli elmi e le spade e questo ha
fatto ipotizzare che per i guerrieri ci fosse un altro tipo di rito, ma è
molto più probabile che dato l'altissimo valore del metallo, le armi
restassero in eredità ai parenti del defunto, e solo in casi eccezionali
come quello di un "re" lo accompagnassero nell'ultimo viaggio.
Questa popolazione aveva senz'altro tutta una serie di riti religiosi che a
noi spesso sfuggono. La ricorrente presenza della "barca solare" ci
testimonia il culto solare. In un primo tempo queste tombe furono credute di
una popolazione non meglio identificata, ma col progredire degli scavi in
tutta l'Etruria queste emersero facendo chiaramente capire che queste tombe
sono da riferirsi agli antenati degli etruschi, che si imposero senz'altro
con la forza il proprio dominio dalla pianura Padana alla Campania, come è
testimoniato dalla distruzione dei villaggi della fase precedente e dal
sapersi opporre alla colonizzazione greca; manifestarono una forte identità
culturale testimoniata dalla presenza di oggetti identici nei corredi.
I villanoviani vivevano in capanne monofamiliari di forma rotonda ,
realizzate in legno e fango; ve ne erano anche rettangolari, di dimensioni
maggiori, destinate alle attività comuni e di allevamento; la loro forma ci
è documentata dalle urne a capanna (usate come cinerario in area
tosco-laziale), dalla forma degli ziri e dalla stele della casetta ora al
Museo di Bologna. Erano raggruppate in piccoli nuclei. I Villanoviani si
occupavano di agricoltura, non avendo ancora affinato la capacità di
sfruttare le miniere. La ceramica che è l'evidenza materiale che più spesso
incontriamo ci testimonia una certa specializzazione artigianale richiedendo
(dato il notevole spessore) temperature elevate di 7000°-8000°, era decorata
con motivi a meandro, a zig-zag, a fascia continua ecc.. L'arte villanoviana
è straordinaria, troviamo una ricerca continua di nuove forme, tutto può
essere rappresentato.

I Villanoviani in Emilia-Romagna

Con la fine del XII secolo vengono abbandonati i siti che avevano visto una
presenza della cultura terramaricola i motivi non sono stati ancora
sufficientemente chiariti. Abbiamo uno iato (vuoto) fino al IX secolo,
quando si insediarono i primi agglomerati villanoviani, in siti
apparentemente non coincidenti con quelli precedenti. In una vasta area ad
occidente del corso del fiume Panaro non si hanno tracce consistenti di
occupazione addirittura per il periodo dal XII al VII secolo a.C.. Questo
dato potrà senz'altro essere rivisto, quando si faranno altri scavi alla
ricerca delle tracce di questa fase. Ci devono essere state cause naturali
(alluvioni, irrigidimento climatico ecc) e delle cause storiche (invasioni
di altri popoli) che hanno spinto i terramaricoli a spostarsi: è tutto da
chiarire, forse ci riuscirà uno di voi quando un domani diventerà un valente
archeologo.
A Carpi, però, recenti scavi hanno messo in luce le tracce della presenza
villanoviana a Carpi S. Croce-Via Zappiano e a Budrione - Via Gusmea, anche
se sono da collocarsi cronologicamente in quella fase di "attardamento"
villanoviano caratteristica del villanoviano bolognese, cioè tra metà VII e
metà VI a.C. con una continuità fino al V testimoniata dalla presenza di
ceramica depurata etrusco-padana. A Bologna dal IX° secolo a.C. abbiamo una
moltitudine di dati che ci testimoniano una società poco differenziata dal
punto di vista sociale dedita all'agricoltura e all'allevamento e nel
Modenese: a Savignano, Castelfranco e Cognento. i villaggi erano perlopiù
arroccati su colline con le necropoli poste nelle zone più basse.
In Romagna Verucchio è il centro principale della Cultura Villanoviana,
posto su di un colle prospiciente il fiume Marecchia, fu al centro di
intensi traffici commerciali che dall'area Baltica (Via dell'ambra), dalla
penisola Illirica, dal centro Europa, dall'area Veneta qui arrivavano. Le
merci venivano poi smerciate verso il centro Italia. Per gli archeologi è un
osservatorio privilegiato per tutto il periodo storico, infatti la sabbia e
l'aria salmastra hanno permesso al legno e ad altri materiali come stoffe,
vimini e semi di conservarsi, unico caso in tutta l'Italia, stranamente in
questo contesto i metalli si sono molto consumati. E' stato trovato un
vestito di lino ornato di perline d'ambra e fermato con numerose fibule
(spille-bottoni) che serviva a dare l'identità fisica al defunto cremato.

I villanoviani nella Tuscia

Con l'età del Bronzo tardo si assiste all'aumentare progressivo della
popolazione: la crescita demografica in Etruria non porta all'aumento del
numero degli abitati ma alla nascita di abitati più estesi, più popolosi,
meglio organizzati.
Questa fase vede la nascita dei primi nuclei di quasi tutte le future città
dell'Etruria storica: è l'inizio dello sviluppo protourbano che si manifesta
con la formazione di grandi abitati, posti sempre su pianori difesi, ma di
superficie nettamente superiore rispetto ai villaggi protovillanoviani,
talvolta superiore ai 100 ettari. I siti più importanti di questa fase sono,
da Sud a Nord, Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci (Canino), Orvieto,
Vetulonia, Chiusi e Volterra. La maglia dei territori dei centri
villanoviani mostra come sia aumentata l'estensione del territorio posto
sotto il loro controllo politico, da poche decine a 1000-2000 chilometri
quadrati: questo processo, denominato sinecismo, denota un marcato aumento
della compattezza politica del popolo etrusco che, proprio in questa fase
iniziale dell'Età del Ferro, inizia a delinearsi come entità politica e
culturale autonoma e peculiare.
Lo sviluppo dei siti nel luogo delle future città etrusche avviene
precocemente nell'Etruria settentrionale: Populonia e Vetulonia sono gli
abitati che mostrano per primi il costituirsi delle grandi comunità, e già
nel X secolo a.C.. Molte comunità villanoviane sembrano sorgere su siti che
hanno già visto fasi dell'età del Bronzo, o almeno della fase finale, dal X
secolo a.C.. Bisogna ricordare che testimonianze della cultura villanoviana
sono state rinvenute non solo nel territorio dell'Etruria propriamente
detta, ma anche in Emilia Romagna, nelle Marche ed in Campania, sul litorale
salernitano: si è discusso molto se considerare le emanazioni extra-Etruria
come "colonie" etrusche o come semplici influenze culturali su popolazioni
locali. Fatto certo è la forte e quasi totale permeazione di elementi
villanoviani in queste zone.
 Con l'inizio dell'età del Ferro, nel IX secolo a.C., la popolazione si
concentra in gruppi anche di migliaia di individui in grandi centri: questi
sono situati al centro di territori molto vasti e sono formati da nuclei
abitati distinti che occupano pianori e colline adiacenti. All'interno delle
aree controllate da ciascun centro sono presenti degli abitati molto più
piccoli, posti talvolta nelle zone di confine con il territorio di altri
centri: è stato supposto il loro ruolo di centri satellite posti a controllo
del territorio. In quest'ultimo sono presenti risorse diverse come, ad
esempio, colture, pascoli, aree metallifere; spesso il centro egemone sorge
nei pressi di importanti assi viari, fluviali od in prossimità di approdi
costieri, da cui dista circa 4-5 km in media. Caso unico Populonia, in
Toscana, che sorge proprio sulla costa, grazie probabilmente al suo ruolo di
utilizzatrice del metallo dell'Isola d'Elba e, per questo, al controllo del
traffico marittimo da e per l'isola tirrenica. Riguardo alla presenza di
vari nuclei di abitato all'interno di un solo insediamento, si cita ad
esempio Veio, che ne mostra diversi (Campetti, Macchia Grande, Portonaccio,
Comunità, sullo stesso pianoro, e Piazza d'Armi, Isola Farnese, Monte
Campanile, Vaccareccia, su colline prospicenti); la distribuzione
frammentata dei vari nuclei d'abitato è delineata anche dalle diverse
necropoli (Valle la Fata, Quattro Fontanili, Casal del Fosso, Grotta
Gramiccia). La stessa situazione è mostrata dai nuclei abitativi di
Tarquinia (pianori della Civita, del Calvario, di Tarquinia moderna) e dalle
diverse necropoli (Poggio Selciatello, Poggio Selciatello di Sopra, Poggio
Selciatello di Sotto, Poggio dell'Impiccato, Arcatelle e "Le Rose").
 Per ricostruire la struttura interna degli abitati dell'età del Ferro ci si
può purtroppo attenere a pochi dati di rilievo, poiché sono pochi gli scavi
archeologici effettuati all'interno di aree abitate di questo periodo. A
Veio lo Stefani all'inizio del secolo ha messo in luce le tracce di capanne
circolari piccole (Veio-Piazza d'Armi) e ovali più grandi (Portonaccio e
Campetti). A Torre Valdaliga (Civitavecchia) e nell'abitato della Mattonara
(Civitavecchia) sono state rilevate strutture a pianta circolare, ovale e
rettangolare. Al villaggio del Gran Carro sul Lago di Bolsena appaiono anche
abitazioni su palafitta poste sulla riva lacustre, sopraelevate per un
probabile innalzamento del livello delle acque. L'insediamento villanoviano
meglio conosciuto è quello di Tarquinia-Monte Calvario: sono state rinvenute
le piante di 25 capanne a pianta ovale, rettangolare allungata e
quadrangolare. Queste abitazioni non differiscono molto da quelle dell'età
del Bronzo e si nota, all'interno degli abitati, tra le capanne, l'esistenza
di aree coltivate e destinate al ricovero degli animali.
 Dalle urne a capanna rinvenute in Etruria e nel Lazio antico è possibile
conoscere quale fosse la struttura in elevato di queste abitazioni. Si
tratta di capanne dal tetto a doppio spiovente o a quattro falde, con
struttura lignea ricoperta da frasche, talvolta coibentate ed
impermeabilizzate da argilla asciugata all'aria, frammista a paglia e, come
accade ancora oggi in molte civiltà capannicole asiatiche ed africane, ad
escrementi di bovini. Talvolta le abitazioni avevano, come a Luni sul
Mignone (Blera), il pavimento scavato nel banco roccioso, forse per
ricavarvi un ambiente sotterraneo atto alla conservazione delle derrate
alimentari; l'elevato, per far sì che non deperisse, essendo in materiale
vegetale, appoggiava su muretti di pietrame a secco anziché sul banco
stesso. Per evitare infiltrazioni d'acqua piovana all'interno delle capanne,
attorno al perimetro delle stesse venivano scavate una o più canalette di
scolo con cui, spesso, veniva accumulata in cisterne. Al centro delle
capanne, lontano dalle pareti, c'era il focolare, "cuore" dell'abitazione,
in genere mantenuto acceso dalle donne. I fumi uscivano da aperture apposite
sul tetto.
 I villaggi dell'età del Ferro, come del resto era avvenuto nell'età del
Bronzo, dovevano il proprio sostentamento principalmente all'agricoltura ed
all'allevamento; ma c'è ora un nuovo elemento a modificare la
stratificazione sociale: la specializzazione artigianale, soprattutto dei
metallurghi, che porta all'accumulo di ricchezza. Oltre a questo, il ceto
emergente, quello dei guerrieri, basa il proprio censo sul controllo delle
terre e delle loro risorse, raggiungendo posizioni di potere all'interno
della società villanoviana. Il processo di differenziazione sociale, che
come abbiamo visto sembra avere una fase embrionale nella tarda età del
Bronzo, è forse mostrato dall'eccezionale ricchezza di alcuni corredi
funerari: numerosi oggetti in bronzo, ferro, alcuni in oro, ambre, ceramiche
pregiate (soprattutto dopo la ripresa dei rapporti con il mondo egeo anche d
'importazione). "Simbolo" dell'appartenenza alla classe superiore sono le
armi, gli elmi (in terracotta o, assai più raramente, in bronzo) ed i morsi
per i cavalli: questo animale, introdotto nella media età del bronzo in area
tirrenica è un chiaro segno del rango superiore di alcuni defunti, segno
che, presto, verrà accompagnato dall'uso del carro a due ruote.
 Un altro indicatore sono forse le urne a capanna, che in ambito etrusco
sono sia maschili che femminili, forse pertinenti a persone che avevano
nella società dei ruoli particolari. Alcuni autori sostengono che sia forse
presto parlare dell'esistenza di una differenziazione sociale e notano una
relativa uniformità nei corredi funerari del periodo: sono però d'accordo
sull'esistenza di un processo di stratificazione sociale, preparatorio alla
società orientalizzante "dei principi" del VII secolo a.C.. Attorno alla
metà dell'VIII secolo a.C. si assiste al passaggio tra il villanoviano
tipico a quello evoluto: si inizia effettivamente a distinguere una netta
differenziazione dei corredi, negli oggetti che li compongono, in qualità e
quantità, nella struttura stessa delle tombe (ciste di pietra),
nell'apparire del rito dell'inumazione accanto a quello dell'incinerazione.
L'inumazione è prevalentemente in fosse scavate nel terreno.
Non ci sono nette diversità nei corredi delle tombe ad incinerazione ed in
quelle ad inumazione: si nota comunque un generalizzato aumento degli
oggetti costituenti il corredo, in particolare di quello degli inumati. La
presenza di oggetti importati da altre culture dell'Italia protostorica
denota la forte mobilità delle genti protoetrusche: sono accertati contatti
e scambi con i Sardi, con le aree transpadane (soprattutto con i
paleoveneti), con le genti dell'Italia meridionale (enotri): presto, sin
dall'inizio dell'VIII secolo a.C., iniziano ad apparire anche oggetti
provenienti dall'Egeo. Come già detto, il tema dei rapporti con genti
provenienti dal mondo greco, va ricordato poiché è proprio grazie
all'influenza culturale orientale che inizia quel processo di permeazione
degli elementi greci, definito ellenizzazione, che influenzerà moltissimo la
cultura etrusca per tutta la durata di questo popolo.
 Se alla fine dell'VIII secolo a.C. si assiste all' esplosione
orientalizzante in cui appare chiara la civiltà etrusca d'età storica con la
sua stratificazione sociale, la sua cultura, le sue forme politiche ed
economiche, lo si deve in buona parte anche all'influenza greca. Il rapporto
con i Greci si fa più intenso dopo la fondazione da parte di questi
dell'emporio di Pithekusa (Ischia) e della colonia di Cuma. Gli abitati
aumentano nettamente la propria popolazione e si estendono in nuclei
attigui, allargandosi su diversi pianori. Le abitazioni sono ancora in
capanne più o meno complesse: si prepara però la fase preurbana dell'età
Orientalizzante in cui iniziano ad apparire, all'interno degli abitati,
alcune unità abitative assai più articolate; anche qui, data la relativa
scarsità di dati, esse sono riconoscibili soprattutto dalla pianta complessa
delle tombe a camera orientalizzanti, arricchite da elementi architettonici
scolpiti, a ricordare struttura interna ed architettura domestica. Le
abitazioni presentano il tetto di frasche fino alla metà del VII secolo a.C.
e ciò può essere testimoniato dalla tomba "a capanna" di Cerveteri e dalla
camera laterale sinistra del Tumulo Cima di Barbarano Romano, in cui appare
sia il tetto semicircolare tipico delle capanne, che la struttura con
orditura lignea tipica dei tetti con tegole: il Tumulo Cima è databile
attorno al 650 a.C..
 Le prime aree pubbliche, più o meno monumentalizzate, non appaiono prima
della metà del VII secolo a.C.: esempi possono essere la cisterna di Veio,
un luogo di culto di Roselle e la monumentalizzazione dell'area della Civita
di Tarquinia. Secondo alcuni autori con l'istituzione di tali strutture
civiche si può considerare concluso il lungo processo di evoluzione urbana
iniziato embrionalmente nel IX secolo a.C.. I gruppi di aristocratici
apparsi nettamente nel Villanoviano evoluto sono alla base di
quell'esplosione culturale, economica e sociale che porterà alla fase
storica del popolo etrusco iniziata con il "periodo orientalizzante" (fine
VIII - fine VII secolo a.C.). Tra i siti principali della provincia di
Viterbo che hanno restituito testimonianze della cultura Villanoviana, cioè
della fase etrusca dell'età del Ferro, ricordiamo Vulci, Tarquinia, Bisenzio
(Capodimonte), Vetralla, Barbarano Romano, Civita Castellana, San Giovenale
e Luni sul Mignone (Blera): esse sono visibili nei Musei Archeologici di
Vulci (Castello della Badia), di Tarquinia (Palazzo Vitelleschi), Barbarano
Romano (Museo Civico), Bolsena (Castello Monaldeschi - Museo territoriale
del Lago di Bolsena), Civita Castellana (Forte del Sangallo).
La Storia
Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria interna
L'espansione e l'apogeo degli Etruschi in Italia
L'alleanza cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma
 L'Etruria "federata"
L'epilogo etrusco: i Galli e Roma




 Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria interna
In Tuscorum iure paene omnis Italia fuerat: quasi tutta l'Italia era stata
sotto il dominio degli Etruschi, dice Catone (Servio, ad Aen., XI, 567); e
Livio (I, 2; V, 33) insiste sulla potenza, sulla ricchezza, sulla fama degli
Etruschi in terra e in mare dalle Alpi allo stretto di Messina. I dati
archeologi ci ed epigrafici e le notizie di altre fonti storiche confermano
il valore di queste tradizioni, pur limitandone la genericità e consentendo
di chiarire con sufficiente approssimazione quali territori italiani furono
propriamente abitati e quali sottomessi dagli Etruschi o in qualche modo da
loro influenzati politicamente, economicamente o culturalmente.
Consideriamo anzitutto quella che siamo soliti denominare Etruria propria,
compresa tra il Mare Tirreno, il corso del Tevere e il bacino dell' Amo,
cioè l'Etruria storica costituente la Regione VII dell'Italia augustea. Ad
essa appartengono le dodici città (dodecapolis) che secondo il canone
tradizionale formavano la nazione etrusca. La tradizione antica ha
accreditato presso gli storici moderni l'idea che questo territorio fosse la
sede originaria della stirpe, dalla quale sarebbero partite le imprese
marittime e le conquiste terrestri (verso il Lazio e la Campania e verso le
zone transappenniniche). Ma su questa semplice affermazione occorrerà
comunque un più approfondito giudizio critico.
Già trattando delle origini etrusche si è fatto cenno alle ipotesi di una
progressiva «etruschizzazione» dell'Etruria storica che, secondo i
sostenitori della provenienza trasmarina dei Tirreni, sarebbe logicamente
avvenuta partendo dalle coste verso l'interno, con la sottomissione o
l'incorporazione di elementi indigeni italici (gli Umbri di Erodoto). A
riprova della esistenza di questo originario fondo italico e della
persistente eterogeneità etnica di aree comprese entro i confini geografici
dell'Etruria si addusse tra l'altro l'abbondante presenza di nomi personali
di origine italica nelle città etrusche, per esempio a Caere, ma non
soltanto a Caere (l'Etruria settentrionale è particolarmente ricca di tali
elementi soprattutto in tempi recenti); si è dato inoltre particolare valore
al fenomeno dei Falisci, di lingua originariamente latina, abitanti
nell'ansa orientale del Tevere, oltreche al ricordo dei Camertes Umbri
dell'Etruria interna e di Umbri Sarsinates per la zona di Perugia.
Ma il significato di queste constatazioni può rovesciarsi, considerando
l'eventualità (che è del resto controllabile in molti casi) di penetrazioni
storiche sabine e umbre in Etruria specialmente nelle zone di confine e di
processi di latinizzazione come a Caere dopo l'imporsi dell'egemonia romana
nel IV secolo a.C. Soltanto nel caso del territorio falisco riconosciamo
effettivamente la presenza originaria di una popolazione di lingua non
etrusca stabilita sulla riva destra del Tevere, in presumibile continuità
con l'area latina estesa a sud oltre il fiume; ed è significativo che in
questa zona, come nel Lazio, manca la tipica cultura del ferro villanoviana,
che invece è presente, vistosissima, nel non lontano centro di Veio. Il
territorio falisco subì certamente un'influenza politica e culturale etrusca
determinante, soprattutto in età arcaica, non diversamente da alcune parti
del Lazio inclusa la stessa Roma (la ricorrenza di iscrizioni etrusche
accanto a quelle falische è prova del bilinguismo delle classi dominanti);
ma poi prevalsero pressioni ed infiltrazioni di elementi italici sabini che
caratterizzarono fortemente il dialetto locale. In ogni caso possiamo
considerare assolutamente certo che fin dall'inizio dei tempi storici esiste
un mondo etrusco ben definito e riconoscibile la cui estensione coincide
sostanzialmente con quella della regione che fu chiamata dagli antichi
Etruria, cioè non solo la fascia costiera tirrenica ma anche tutto il
retroterra fino alla valle del Tevere e alle pendici dell' Appennino
Tosco-Emiliano. Lo dimostrano da un lato l'impronta unitaria della lingua
documentata dalla diffusione delle iscrizioni etrusche fin dal loro primo
apparire nel VII secolo; da un altro lato il carattere inconfondibile degli
aspetti culturali a partire dal villanoviano e per tutti i loro successivi
sviluppi, in piena coincidenza con l'univoca tradizione antica sulla
etruscità di questi territori e dei relativi centri. Ogni ipotesi circa
l'eventualità di preesistenti differenze e sovrapposizioni o commistioni
etniche andrà semmai respinta più lontano nella preistoria. Ogni progresso
dalle coste verso l'interno si spiega logicamente, non già con l'idea di una
penetrazione etnica, ma con le concrete ragioni storiche di una penetrazione
d'impulsi economici e culturali provenienti dai centri marittimi più
direttamente esposti a sollecitazioni esterne. Seppure con minore
concentrazione ed intensità gl'insediamenti interni partecipano in pieno e
vigorosamente allo sviluppo dell'Etruria arcaica.
Esistono, ben s'intende, condizioni ambientali diverse da quelle delle zone
litoranee. Mancano i fondamentali e primordiali presupposti di un accelerato
incremento basato sui contatti e sui commerci marittimi, oltreche sullo
sfruttamento delle miniere prevalentemente concentrate lungo la linea
costiera, e sulla potenzialità, di ambedue questi fattori combinati. Si
offrono in compenso estese, profonde e variate terre vallive e collinari
ricche (allora) di boschi o idonee al pascolo e specialmente
all'agricoltura, costituente la base principale dell'economia; mentre le
comunicazioni interne dovevano essere favorite dalla navigazione fluviale e
lacustre e si aprivano vie di contatti e di scambi, lungo ed oltre il corso
del Tevere e dell'Amo ed attraverso la dorsale appenninica, con le regioni
centrali della penisola e con il settentrione fino al versante adriatico. A
questa configurazione del paese con le sue risorse sembrano potersi in
qualche modo ricollegare i caratteri delle forme associative e delle
strutture socio-economiche e in ultima analisi i lineamenti della storia più
antica dell'Etruria interna.
Di fatto noi vediamo apparire molto diffuso un sistema di piccole
aggregazioni sparse nel territorio o più intensamente addensate in zone
presumibilmente favorevoli a coltivazioni granarie od ortofrutticole o a
vigneti (quando fu introdotta e si diffuse la vite) o al piccolo
allevamento: tipici gli esempi attorno al lago di Bolsena, lungo la valle
tiberina, nei territori di Chiusi, di Volterra, ecc.; si può parlare di
persistenze della tradizione dei villaggi preistorici, ma anche di fattori
economici e sociali che possono aver determinato lo sviluppo di insediamenti
rurali ed un incremento demografico decentrato. L 'emergere di ceti
dominanti, cui si deve ovviamente ogni impulso innovatore, poggia
soprattutto sul possesso terriero: ne cogliamo un riflesso nei grandi
sepolcri a tumulo con ricchi corredi funebri più o meno isolati nelle
campagne (presso Cortona, nel Chianti, nella valle dell' Amo), contemporanei
e simili a quelli che appaiono invece accorpati nelle grandi necropoli
urbane di Caere, di Tarquinia, di Vetulonia, di Populonia. C'è poi da
considerare la frequenza di centri di maggiore consistenza aventi carattere
di «borghi» generalmente in altura e muniti (in latino si sarebbero detti
oppida), per i quali si può pensare a comunità autonome in qualche modo
affini ai piccoli popu/i ricordati dalla tradizione per il Lazio
protostorico: ne conosciamo esempi rilevanti, anche per le loro
testimonianze archeologiche, soprattutto nell'Etruria meridionale e
centrale, come San Giovenale, San Giuliano, Blera, Norchia, Tuscania,
Acquarossa, Bisenzio, Castro, Poggiobuco, Pitigliano, Satumia, ecc. Alcuni
di questi abitati, come quelli molto simili del vicino territorio falisco,
ad esempio Narce, risalgono a nuclei dell'età del bronzo. Alla loro vitalità
arcaica sembra aver fatto seguito dopo il VI secolo una decadenza talvolta
fino alla sparizione (è il caso di Acquarossa presso Ferento) per il mutare
delle condizioni economiche e politiche determinato dalla crescita delle
grandi città, sia litoranee sia interne, da un più marcato imporsi del loro
dominio territoriale, da presumibili fenomeni di inurbamento, di
accentrazione fondiaria, di insicurezza delle campagne a seguito di eventi
bellici, minacce esterne, ecc.; ma alcuni dei vecchi centri di media
grandezza avranno all'opposto rilevanti sviluppi in età avanzata (Sutri,
Tuscania, Sovana).
Un caso particolare rivelato dagli scavi recenti è quello dello splendido
complesso architettonico-urbanistico di Poggio Civitate presso Murlo nel
territorio di Siena che dà l'impressione di una fondazione principesca,
santuario e forse anche residenza, fiorita fra il VII e VI secolo e poi
praticamente abbandonata, richiamando in certo senso a quel sistema di
dominii gentilizi che parrebbe altrimenti intravvedersi, soprattutto nel
nord, dai grandi sepolcri monumentali extraurbani. Ma l'Etruria interna ha
anch'essa le sue città, seppure meno numerose e addensate di quelle della
fascia litoranea. La nascita e lo sviluppo di alcune di esse, meno distanti
dal mare come Veio e a nord Volterra, o più arretrate come Volsinii
(Orvieto) e Chiusi, avvengono contemporaneamente ai processi formatori delle
città costiere e sostanzialmente con le stesse caratteristiche. Per altri
centri che avranno pari dignità in avanzata età storica come Perugia,
Cortona, Arezzo si può discutere, alla luce dei dati archeologici finora
conosciuti, se il vero e proprio accentramento urbano si sia attuato più
lentamente, per il perdurare di forti nuclei abitativi nei possedimenti
aristocratici delle campagne; ma anche se l'origine può essere stata diversa
queste città esistevano già certamente in età arcaica.
Ciò che appare soprattutto interessante è il fatto che le città dell'Etruria
interna si trovano disposte in qualche modo ad arco o a corona lungo una
fascia approssimativamente corrispondente ai confini geografici
dell'Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra del Tevere,
Veio, Falerii (seppure di origini falisce), Volsinii (nella zona di
confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei monti
confinanti con l'Umbria Cortona; lungo l'Arno Arezzo e Fiesole; ne si
escludono del tutto da questo sistema, benche meno periferiche, Chiusi e
Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi vie
fluviali. Ma non si può sfuggire all'impressione che nell'ubicazione delle
città si configuri anche una sorta di delimitazione protettiva che in certo
senso conferma l'idea di un'antica concezione unitaria del territorio
etrusco.
Per altro verso proprio la marginalità di questi centri deve aver offerto
possibilità di contatti e di scambi con le confinanti regioni esterne,
oltreche di aperture a fenomeni espansivi: quali s'intravvedono per Veio (e
per il territorio falisco) con il Lazio e la Sabina; per Volsinii e Perugia
con l'Umbria; per le città più settentrionali in genere con i paesi d'oltre
Appennino.

 Una vera e propria ricostruzione di eventi storici, di politica interna ed
esterna, nell'età più antica è impossibile come per l'Etruria costiera. È
immaginabile uno sviluppo parallelo e notevolmente differenziato dalle
singole zone per l'ampiezza del territorio e per la diversità delle
situazioni e delle gravitazioni come si è già accennato. Di primitive
monarchie, sorte dai ceti egemonici o come prevalente affermazione di
piccoli potentati locali, possediamo soltanto echi leggendari (e
naturalmente d'incerta autenticità e cronologia): così per Veio si
ricordavano un re Morrius o Mamorrius discendente di Halesus fondatore di
Palerii (Servio, ad Aen. VIII, 285) ed un re Propertius connesso con le
origini della città di Capena (Catone in Servio, ad Aen. VII, 697), ed
inoltre un re Velo Vel Vibe vissuto ai tempi di Amulio di Albalonga, cioè
riferibile all'VIII secolo a.C. secondo la cronologia tradizionale; più
concretamente le iscrizioni arcaiche ci danno nomi di stirpi gentilizie di
alto rango di cui una, i Tulumne, assurgerà al potere regio, se non prima,
nel V secolo. È difficile dire quali rapporti, di rivalità, di alleanza,
ecc., vi siano stati fra i centri dell'Etruria interna e tra questi e i
centri costieri: una immagine piuttosto attendibile di queste situazioni
nella prima metà del VI secolo potrebbe riflettersi nel fregio «storico»
dipinto della Tomba Francois di Vulci (posteriore di oltre due secoli agli
avvenimenti, ma fondato, come crediamo, su buone tradizioni), che mostra
figure e nomi di principi o capi di alcune città, come Laris Papathna di
Volsinii (Velznax) e Pesna Arcmsna forse di Sovana (Sveamax), collegati a
quanto sembra con Cneve Tarchunie, cioè un Tarquinio di Roma (Rumax), contro
condottieri e avventurieri provenienti da Vulci. Ancora più difficile è ipot
izzare se, o fino a che punto, già in età arcaica si siano venute
determinando quelle tradizioni o istituzioni di colleganza stabile,
religiosa e in parte politica, tra le «dodici città» dell'Etruria, che in
età più recente vedremo incentrata intorno al santuario del dio Voltumna, il
Fanum Voltumnae, a Volsinii o presso Volsinii, e che porterà al prestigio e
alla fama di questa città come «capitale dell'Etruria» Etruriae caput
(Valerio Massimo, IX, 1).
Ma il momento del grande sviluppo, socialmente rivoluzionario, di Volsinii,
sembra doversi collocare - alla luce delle testimonianze archeologiche ed
epigrafiche delle necropoli di Orvieto - piuttosto negli ultimi decenni del
Vl secolo come si avrà occasione di sottolineare più avanti, Certamente
invece molto antica, e straordinaria, è la fioritura economico-culturale, e
di conseguenza presumibilmente la potenza, di Chiusi, situata nel cuore
dell'Etruria centro-settentrionale, in una posizione eccezionalmente
favorevole di accessi e di transiti al centro di densissimi abitati, con
irradiazioni verso l'alta valle del Tevere e Perugia attraverso il Lago
Trasimeno e le vie terrestri, e da un altro lato verso il Senese (si pensi
al già ricordato «santuario-palazzo» di Murlo, dove si manifestano influenze
artistiche chiusine); cosicchè non deve far meraviglia che la tradizione
storica registri sul finire del VI secolo una espansione politico-militare
di Chiusi in piena area costiera tirrenica, con la spedizione del re
Porsenna contro Roma, spiegabile soltanto immaginando un'egemonia della
monarchia chiusina progressivamente acquisita già nei decenni precedenti su
gran parte dell'Etruria interna.




L'espansione e l'apogeo degli Etruschi in Italia

A questo punto, considerata l'Etruria propria, converrà affrontare il quadro
di quella più vasta «Etruria» che oltre i confini geografici del Tevere e
dell' Appennino fu creata dall'espansione non soltanto economica e politica,
ma anche in parte notevole stanziale e demografica degli Etruschi in altri
territori dell'ltalia antica. Espansione, va detto subito, che anche e
soprattutto alla luce delle scoperte e delle valutazioni critiche più
recenti deve ritenersi assai più precoce di quanto si credesse in passato,
diremmo addirittura contestuale al primo manifestarsi della civiltà etrusca,
comunque in atto già per diversi aspetti avvenuta all'inizio dei tempi
storici: se, come dobbiamo presumere ed abbiamo già fondatamente supposto,
la presenza del villanoviano a sud nel Salernitano e a nord in alcune zone
dell'Emilia e della Romagna significa presenza etrusca (o, se si preferisce
volendo giocare sui termini, protoetrusca).
Ma va anche detto subito e fermamente che non sembra lecito rinunciare al
concetto di espansione, cioè di stanziamenti secondari o conquiste, per
ipotizzare vaghe e confuse insorgenze etniche in luoghi lontani; e ciò per
due ragioni: 1) in primo luogo per il rispetto dovuto alla tradizione
storica antica che esplicitamente e concordemente parla di fondazioni o
colonizzazioni etrusche in Campania e nell'ltalia settentrionale; 2) inoltre
per la reale differenza che si percepisce, sulla base dei dati linguistici,
archeologici e storiografici, fra il territorio compat- tamente etrusco
dell'Etruria propria e le regioni esterne nelle quali convivono altre
stirpi, lingue e tradizioni e nelle quali l'etruschizzazione, anche se
intensa, appare comunque limitata nello spazio oltre che nel tempo. Ciò
premesso, sempre sul piano generale non può sfuggire alla nostra attenzione
il fatto che la espansione etrusca, lungi dal manifestarsi concentricamente
attorno all'area originaria, appare orientata secondo un lungo asse
longitudinale che scende a sud seguendo il versante tirrenico in direzione
della Campania e sale a nord attraverso l'Appennino Tosco-Emiliano verso la
pianura padana, lasciando praticamente intatto e non superato il confine
orientale del Tevere che separa l'Etruria dall'Umbria. La spiegazione
dell'appariscente fenomeno potrà ricercarsi, se non andiamo errati, proprio
nelle condizioni dei tempi remoti ai quali risalgono le prime spinte
espansive, in parte collegabili con le attività marittime, lungo il Tirreno,
in parte identificabili con fattori d'attrazione delle piaghe
transappenniniche, mentre meno favorevole doveva apparire una penetrazione
verso l'interno della penisola anche per la forte presenza e pressione di
quelle genti italiche che sono storicamente conosciute come Sabini e Umbri.

Verso il Sud

Il dominio etrusco in Campania, la cui storicità fu rivendicata da una
classica opera di J. Beloch contro precedenti scetticismi, è largamente
comprovato dalle fonti letterarie antiche, dai documenti epigrafici e dalle
testimonianze archeologiche. Gli scrittori greci e romani parlano della
fondazione di una dodecapoli (Strabone, V, 4,3) evidentemente sul modello di
quella dell'Etruria propria, e più specificamente dell'origine o
dell'occupazione etrusca di Capua, considerata la capitale, NoIa, Nocera,
Pompei e altri centri campanr. Le iscrizioni etrusche sono piuttosto
abbondanti, e tra queste primeggia la tegola di Capua, che è il più lungo
testo in lingua etrusca che possediamo dopo il manoscritto su tela della
Mummia di Zagabria. Il materiale archeologico e le opere figurate presentano
più o meno spiccate, a volte strettissime, analogie con gli aspetti e le
sequenze culturali dell'Etruria fino al V secolo. Occorrerà tuttavia, per
dare una più sicura e precisa dimensione storica a questo quadro generale,
cercare di definirne per quanto possibile i termini geografici e
cronologici.
Va comunque ricordato che la presenza degli Etruschi in Campania costituisce
soltanto uno dei fattori che concorrono a definire la fisionomia etnica,
politica e culturale, estremamente complessa, di questa regione la cui
funzione fu d'importanza primaria - e per certi aspetti ed in alcuni momenti
determinante - nella storia dell'ltalia antica. Gli altri fattori sono le
popolazioni indigene, variamente denominate Ausoni, Opici, Osci, Sanniti,
Campani; e la colonizzazione greca. La tradizione antica fu propensa a
schematizzare questa pluralità etnica nel senso di una successione di
invasioni ed occupazioni: ciò che in parte, ma solo in parte, corrisponde a
reali avvicendamenti storici. Più concreta appare invece la prospettiva
geografica, che delimita la presenza greca alla fascia costiera del golfo di
Napoli (fondazioni degli Eubei a Pithecusa, cioè lschia, e a Cuma, con
estensione a Partenope o Paleopoli, donde poi Napoli; forse Rodii; più tardi
Samii a Dicearchia cioè Pozzuoli; mentre altri attacchi coloniali greci
s'incontrano soltanto a sud del fiume Sele); colloca l'espansione etrusca
fra il golfo di Salerno e il retroterra campano, la «mesògaia», fino al
fiume Volturno; riconosce alle genti indigene il carattere di generale
sottofondo etnico e perduranti stanziamenti marginali specialmente a nord
del Volturno; ambienta i Sanniti sull'arco montano con processo verso la
pianura. È molto probabile che le origini dell'etruschizzazione della
Campania siano da collocare nel quadro delle più antiche attività marittime
degli Etruschi nel Tirreno, di cui si è già discorso. L'apparizione di un
tipo di cultura villanoviana a Pontecagnano presso Salerno nel IX secolo con
qualche riflesso verso l'interno (Valle del Tanagro), come elemento che ha
tutto l'aspetto di essere intrusivo rispetto alle dominanti manifestazioni
culturali locali di inumatori, e le successive sequenze in parte analoghe e
parallele a quelle dell'Etruria propria, includenti, ciò che è più
importante, la presenza di iscrizioni etrusche arcaiche nella stessa
Pontecagnano e nell'area della penisola sorrentina fino a Castellammaredi
Stabia e a Pompei, coincide piuttosto significativamente con le notizie
delle fonti antiche circa il possesso etrusco del litorale salernitano, cioè
del cosiddetto «agro picentino», fino alla foce del Sele e alla esistenza
della colonia etrusca di Marcina.
Il problema che si pone è quello del rapporto, cronologico e storico, tra
questi remoti insediamenti costieri e la più vasta area del dominio
territoriale etrusco interno tra il Volturno e la valle del Sarno, cioè la
vera e propria Campania etrusca avente come centro principale Capua e tutta
una serie di città caratterizzate dalla presenza di iscrizioni etrusche e di
materiali propri di una cultura materiale di tipo etrusco (benchè di regola
pertinenti ad una fase cronologica piuttosto avanzata, tra la fine del VI e
la prima metà del V secolo), come Suessula, Acerra, Nola, Pompei, Nocera:
queste due ultime costituenti in certo modo una cerniera con l' area
sorrentino-salernitana.
L'ipotesi di una netta priorità della colonizzazione costiera pel golfo di
Salerno sul dominio etrusco della mesògaia campana che ne sarebbe stata
quasi una tardiva conseguenza va attenuata o corretta nel senso di una
possibile e probabile pluralità di antiche vie di approccio dall'Etruria
propria alla Campania, e soprattutto del maturare di condizioni storiche
diverse attraverso l'età arcaica.
La stessa discussione sul problema dell'interpretazione dei dati
tradizionali circa la cronologia della fondazione etrusca di Capua appare di
secondaria importanza: i recenti scavi hanno confermato la progressiva
formazione di un grosso centro fra il IX e I'VIII secolo, con caratteri
indigeni ma con sensibili richiami alI' area culturale etrusca, falisca e
laziale, e con una progressiva affermazione di influenze etrusche
soprattutto nel VI secolo; prove sicure del carattere fondamentale etrusco
della città si avranno tuttavia soltanto per gli inizi del V secolo. Si può
presumere che alla primordiale colonizzazione, o protocolonizzazione, del
litorale salernitano abbiano fatto riscontro penetrazioni per via terrestre
(valle del Sacco e del Liri?) e per via di mare (foci del Liri e del
Volturno?) verso l'ubertosa e appetibile pianura della Terra di Lavoro; e
che la precoce e salda installazione coloniale greca nel golfo di Napoli
(già almeno dalla metà dell'VIII secolo), chiudendo questa privilegiata via
d'accesso portuosa, abbia favorito il consolidarsi di un dominio etrusco
interno, a sua volta serrato ad arco attorno alla fascia d'influenza di Cuma
e tendente a sfociare al mare più a sud alla foce del Sarno (Pompei) e nel
golfo di Salerno in congiunzione con i vecchi scali del territorio
picentino. Si disegnerebbero così, con una certa verosimiglianza, le grandi
linee interpretative della storia della etruschizzazione della Campania e
della sua dialettica di contrasto con la colonizzazione greca, ferma
restando anche l'esistenza del problema dei rapporti con le popolazioni
locali, che possiamo immaginare di coesistenza e di sovrapposizione nelle
zone di più intensa occupazione etrusca, e di vicinato, scambi e influenze
nelle zone marginali specialmente a nord del Volturno, come nel retroterra
picentino, ma anche già forse di minacciosa irrequietezza lungo l'arco
montano abitato dai Sanniti dal quale proverranno gl'impulsi e i movimenti
destinati a segnare nel futuro la sorte dell'Etruria campana e dell'intera
Campania.
Gli sviluppi di questa storia nel V secolo appartengono tuttavia ad una fase
cronologica più avanzata che sarà oggetto di trattazione successiva. La
presenza e la dominazione degli Etruschi in Campania coinvolgono
naturalmente il problema dell'espansione etrusca nell'area intermedia fra
l'Etruria e la Campania, cioè nel Lazio. Una fase di prevalenza etrusca
nella storia del Lazio è esplicitamente affermata dalla tradizione antica,
con particolare riguardo ai racconti relativi alla dinastia etrusca dei
Tarquini regnante in Roma tra la fine del VII e gli ultimi decenni del VI
secolo; confermata largamente dalle scoperte epigrafiche e in generale dalle
testimonianze archeologiche e artistiche; universalmente riconosciuta dagli
studiosi moderni. Ma va subito aggiunto che, rispetto alla Campania, esiste
una differenza sostanziale. Nonostante la maggiore vicinanza geografica,
anzi la contiguità territoriale con l'Etruria, che manca alla Campania, non
si può parlare per il Lazio di un dominio etrusco definito, unitario e
stabile, tanto meno di una colonizzazione demografica, quali sono
accertabili per la Campania come si è visto; si riconosceranno semmai
sovranità parziali, immigrazioni di capi, influenze istituzionali e
culturali, tali da giustificare l'impressione di una sorta di «protettorato»
che ha la sua ragione storica, evidentissima, nell'esigenza di assicurare
alle città etrusche, considerate singolarmente e nel loro insieme, il
controllo delle vie di transito terrestri e marittime (cioè di appoggio al
cabotaggio) verso la Campania. Ma il fondo della popolazione con la sua
lingua, le sue tradizioni e le sue strutture resta non etrusco, cioè latino:
ciò che senza dubbio dipende dal fatto che l'espansione etrusca a sud del
Tevere, quando avviene, trova un mondo di società protostoriche già da tempo
evolute, organizzate, sulla via dell'urbanizzazione e presumibilmente
coscienti di una loro identità «nazionale», quale è quello che ci si rivela
attraverso le scoperte archeologiche soprattutto recenti e recentissime, con
le sue fasi di cultura «protolaziale» o «albana» dei crematori della fine
dell'età del bronzo e del principio dell'età del ferro (X-IX secolo) e di
cultura dei fiorenti centri di inumatori dell'VIII-VII secolo tipicamente
esemplificata dalla grande necropoli di Decima.
La penetrazione degli Etruschi non sembra anteriore al VII secolo. Essa
appare preceduta da una serie di scambi tra i territori dell'una e
dell'altra sponda del Tevere, che tuttavia non alterano la sostanziale
diversità della loro fisionomia culturale: basti pensare che gli aspetti
caratteristici della civiltà villanoviana, che pure raggiungono le lontane
coste del Salernitano, sono ignoti al Lazio (come del resto al territorio
falisco pur situato sulla sponda etrusca). Viceversa è notevole la
diffusione nel villanoviano dell'urna cineraria in forma di capanna che ha
la sua origine e il suo epicentro nell'area laziale. I rapporti culturali
piuttosto stretti esistenti tra il Lazio e i territori di Capena e di
Falerii fra il IX e il VII secolo si giustificano con l'identità del fondo
etnico-linguistico.
Ma si può parlare anche di una più vasta rete di connessioni che include
Veio, il territorio capenate e falisco e Roma. D' altra parte su questa zona
medio-tiberina deve aver pesato, in questo stesso periodo, anche un altro
elemento di indubbia rilevanza storica, e cioè la pressione degl'italici
Sabini discesi dall'interno della penisola lungo la valle del Tevere fino a
raggiungere Roma e ad essere implicati nelle sue stesse origini. Una
concreta presenza etrusca nel Lazio è attestata dalle tombe principesche di
Palestrina, l'antica Praeneste (tombe Castellani, Bernardini, Barberini)
databili intorno al secondo quarto del VII secolo, caratterizzate da fasto
si corredi orientalizzanti per molti aspetti analoghi a quelli di Caere e
dalla presenza di un'iscrizione etrusca; inoltre dalla tomba a tumulo pure
orientalizzante scoperta a Lavinio, la città sacra costiera a sud di Roma,
sotto un più tardo sacrario ricordato dagli antichi come «tomba di Enea»;
nonche dai sepolcri e dai depositi votivi di Satricum includenti una
iscrizione etrusca della fine del VII secolo. Per quel che riguarda Roma la
tradizione antica colloca l'inizio della dinastia etrusca dei Tarquini negli
ultimi decenni del VII secolo, con la «chiamata al potere» di Tarquinio
Prisco in sostituzione del re sabino Anco Marcio; ne per quanto sappiamo
esistono indizi archeologici a favore di una presenza etrusca in Roma prima
di quel momento. Tutti questi dati esigono un tentativo d'interpretazione
storica. È possibile che la richiesta di sicurezza dei confini delle città
etrusche meridionali, Caere e Veio, e di aperture commerciali e politiche
verso il sud abbiano imposto, nel momento di massima fioritura della potenza
tirrenica, la creazione di punti di controllo e l'imposizione di signorie
etrusche nei centri locali, sia all'interno in direzione della cruciale via
della valle del Sacco (come è presumibile per Palestrina), sia lungo la
costa fino a quel territorio dei Rutuli (e poi dei Volsci) che Catone
ricordava sotto il dominio etrusco.
Il «ritardo» di Roma - pur divisa dall'Etruria solo da un guado, e dunque
naturalmente esposta per prima ad un ingresso degli Etruschi nel Lazio -
costituisce un problema la cui spiegazione potrà ricercarsi, oltre che nella
stessa grandezza e potenza autonoma di un centro in rapido sviluppo (tanto
che già nel VII secolo, stando alla tradizione, era stato in grado di
distruggere Albalonga, cioè di imporre il suo predominio sulle antichissime
comunità albane nel cuore del Lazio), anche e soprattutto nell'ostacolo
rappresentato dai Sabini allora presenti e presumibilmente predominanti a
livello di direzione politica in Roma stessa (contro i Sabini appunto si
manifesterà poi, sempre secondo la tradizione, la principale attività
militare di Tarquinio Prisco assurto al potere regio). Alla tradizione
annalistica raccolta dalla grande storiografia romana (specialmente Livio e
Dionisio D'Alicarnasso) circa gli eventi dinastici e socio-politici di Roma
dalla fine del VII e per tutto il VI secolo non possiamo più negare oggi,
sia pure con ogni riserva e prudenza critica, una sostanziale veridicità
storica. Combinata con altre versioni collaterali delle fonti antiche e
parzialmente confermata dai dati epigrafici e archeologi ci (cioè
topografico-monumentali e artistici), essa ci offre un quadro
sufficientemente perspicuo della presenza etrusca a Roma e nel Lazio.
Prescindendo dai particolari aneddotici e dall'autenticità individuale dei
personaggi - di cui tuttavia non è da diffidare a priori (si pensi ad
esempio alla spiccata verosimiglianza di una figura come quella della regina
Tanaquil, con il suo prenome femminile etrusco Thanachvil di larga
diffusione nella epigrafia arcaica, nata da nobile famiglia tarquiniese ed
esperta nell'interpretazione dei prodigi celesti secondo la scienza degli
Etruschi: Livio, I, 34) -, noi possiamo riconoscere l'esistenza di una fase
iniziale di affermazione e di consolidamento della sovranità etrusca in
Roma, e di etruschizzazione di Roma, collocabile tra gli ultimi decenni del
VII e i primi decenni del VI secolo e sia pure convenzionalmente definibile
come «età di Tarquinio Prisco». Dobbiamo ritenere che allora l'aggregato
romano abbia assunto il suo volto definitivo di città unitaria ed
organizzata, con una cinta difensiva, la creazione di uno spazio pubblico
(il foro) distinto dalle abitazioni private, l'attrezzatura dell'arce del
Campidoglio con l'inizio della costruzione del tempio di Giove Capitolino,
secondo esplicite notizie delle fonti letterarie; ed effettivamente le
scoperte archeologiche sembrano far risalire a questo periodo le prime
stabili costruzioni architettoniche civili e religiose con le loro
decorazioni di terracotta, soprattutto alla Regia (presumibile
santuario-dimora ufficiale dei re) e al Comizio, sopra tracce di tombe e
capanne più antiche.
Sul piano politico e sociale si presumeranno l'avvento e la supremazia di
una classe dirigente etrusca, che possiamo pensare installata di preferenza
con le proprie dimore ai piedi del Campidoglio tra la valle del Foro e il
guado tiberino, in quello che sarà il futuro Vicus Tuscus: ne abbiamo
testimonianze dalle iscrizioni etrusche, di cui due provenienti
dall'adiacente area sacra di S. Omobono (una specialmente, incisa su una
placchetta d'avorio in figura di leoncino, menziona un Araz Silqetenas
Spurianas di possibile origine tarquiniese come lo stesso re Tarquinio
secondo la tradizione); il carattere prevalentemente aristocratico della
struttura dei poteri della città al principio del VI secolo potrebbe trovare
una conferma indiretta anche nell'iscrizione dedicatoria latina del
cosiddetto vaso di Duenos, se duenos è termine generico indicante una
qualità sociale del donante (= bonus, cioè «nobile»). È importante notare
che le iscrizioni in lingua etrusca sembrano essere tutte di carattere
privato, mentre il testo del famoso cippo del Lapis Niger nel Foro Romano,
ormai con sicurezza databile in questo periodo e riferibile a prescrizioni
di cerimonie sacre del re nel Comizio, è scritto in latino e pertanto
documenta, nonostante la sovranità etrusca, l'uso del latino come lingua
ufficiale dello stato.
Gli eventi e i personaggi del regno di Servio Tullio succeduto a Tarquinio
Prisco, nei decenni centrali del VI secolo, ci appaiono in verità ricordati
dalla storiografia romana con particolari drammatici, in parte fiabeschi e
talvolta persino contraddittori (origini oscure, comunque non etrusche, del
protagonista; irregolarità formali della sua assunzione al potere; riforme e
popolarità, per cui pote essere più tardi esaltato come fondatore delle
libertà repubblicane e persino ispiratore della costituzione della
repubblica: esplicitamente Livio, I, 60; imparentamento e rivalità con la
famiglia dei Tarquini, di perdurante potenza, culminanti nella sanguinosa
«presa di potere» di Tarquinio il Superbo), tali da far pensare ad un
racconto in qualche modo sistematizzato che nasconda situazioni, avvenimenti
e processi istituzionali assai più complessi. Il riferimento dell'imperatore
Claudio, nel suo discorso al Senato registrato dalle Tavole di Lione (C.I.L.
XIII, 1668), a una tradizione etrusca che identificava Servio Tullio con
Mastarna compagno di gesta di Caelius Vibenna eponimo del Monte Celio apre
il discorso sulla fondata possibilità di inserire in questo periodo - che
potremmo anche qui definire convenzional-mente come «età serviana» - tutti
gli avvenimenti e personaggi connessi con il «ciclo» semileggendario delle
avventure dei fratelli Celio (o Cele) e Aulo Vibenna (nella forma etrusca
Caile e Avle Vipina) e di Mastarna o Maxtarna (etrusco Macstrna), citate in
numerosi e vari accenni delle fonti letterarie e raffigurate nelle pitture
della Tomba Francois di Vulci oltre che in qualche altrò monumento minore.
Si tratta di un' azione militare o di un complesso di azioni militari,
presumibilmente tendenti al formarsi di una grossa «signoria» nel cuore
dell'Etruria meridionale e su Roma stessa, condotta dal «nobile duce» Celio
Vibenna con il fratello Aulo, ambedue originari di Vulci (Festo, Arnobio), e
con il «fedelissimo compagno» (Claudio) Mastarna, oltre che con altri
camerati di varia estrazione, un Larth Ulthe, un Marce Camitlna e un Rasce
(l'«etrusco»?) forse di condizione servile (Tomba Francois).
È dubbio se questa sconvolgente iniziativa sia partita da un tentativo
ufficiale di affermazione egemonica della città di Vulci, che comunque più
tardi sembra essersene appropriata la gloria come provano le pitture della
Tomba Francois; in ogni caso s'incontrò l'opposizione di altre città tra cui
Volsinii e Roma, i cui capi coalizzati (Larth Papathna di Volsinii, Pesna
Arcmsna di Sovana? , Cneve Tarchunie di Roma), dopo aver catturato lo stesso
duce nemico Celio Vibenna - liberato dall'amico Mastarna -, furono a loro
volta sconfitti e a quanto sembra massacrati (Tomba Francois). Ne conseguì
la mano libera su Roma, con il presumibile abbattimento del potere dei
Tarquini che forse in origine avevano favorito l'azione dei Vibenna (Tacito,
Festo), l'installazione di questi ultimi al margine della città (sul
Celio?), infine con la morte di Celio il probabile passaggio del dominio di
Roma ad Aulo - il cui cranio trovato sul Campidoglio farebbe parte di una
storiella pseudoetimologica tendente a spiegare il nome Capitolium come
«caput Oli regis» - e quindi a Mastarna, cioè, secondo le fonti di Claudio,
a Servio Tullio.
L 'insieme di questi fatti potrebbe collocarsi tra la fine del regno di
Tarquinio Prisco e l'inizio del «regno» di Servio Tullio, diremmo attorno ai
tempi di passaggio dal primo al secondo venticinquennio del VI secolo
(Tacito, Ann.. IV, 65 accenna a Tarquinio Prisco, ma da storico prudente
avverte che per i rapporti con i Vibenna potrebbe essersi trattato anche di
«un qualsiasi altro re»: ed effettivamente nella Tomba Francois appare un
Cneve Tarchunie, un Gneo Tarquinio, del tutto ignoto alla tradizione
storiografica canonica).
La cronologia proposta, e diciamo pure la storicità dell'intera saga dei
Vibenna e di Mastarna, trova una luminosa concreta conferma archeologica
nella scoperta a Veio dell'iscrizione dedicatoria di un Avile Vipiiennas,
recante in forma arcaica l'identica formula onomastica di Aulo Vibenna e
databile nella prima metà del VI secolo. Abbiamo dunque ragioni per credere
che in questo periodo i legami fra Roma e l'Etruriasiano stati rafforzati
dalla presenza di elementi e di poteri diversi dalla dinastia dei Tarquini.
La questione diventa più complessa per quanto riguarda l'interpretazione
storica del personaggio Mastarna che, pur nel suo stretto vincolo con i
Vibenna, non ci appare necessariamente di origine etrusca: il suo nome
singolo ha tutta l'apparenza di un appellativo qualificante o di un titolo,
per di più chiaramente riferibile alla parola latina mogister con l'aggiunta
del suffisso aggettivale etrusco -no. Ciò ha indotto alcuni studiosi moderni
a supporre l'esistenza a Roma già in età regia della funzione del mogister
populi che all'inizio della repubblica avrebbe sostituito il potere del re
come magistratura suprema unica di dittatura ordinaria, collegata al
concetto di populus quale totalità dei cit- tadini, in un quadro tendente a
trasformare lo stato in una comunità egualitaria contro la supremazia delle
vecchie oligarchie gentilizie. Il «re» Servio Tullio, al quale la tradizione
attribuiva la riforma centuriata, potrebbe essere stato il promotore di
questo rinnovamento ed egli stesso esponente dell'affermazione delle nuove
classi sociali in qualità di mogister populi (donde l'identificazione con
Mastarna) in contrasto con l'ordine preesistente rappresentato dalla
dinastia dei Tarquini; la sua azione politica, dopo la parentesi della
reazione tirannica di Tarquinio il Superbo negli ultimi decenni del VI
secolo, sarebbe stata destinata a trionfare con l'inizio della repubblica.
Ma con questi avvenimenti siamo già in una fase avanzata di cui si tratterà
specificamente in una parte successiva di questo capitolo.

Verso il Nord

Passando a considerare l' opposta direttiva dell' espansione terrestre degli
Etruschi, cioè l' Italia settentrionale, dobbiamo dire che anche qui
esistono zone per le quali si può parlare, come per la Campania, di una
occupazione stanziale, cioè di un dominio di popolamento, che s'incentra
essenzialmente nell'attuale Emilia- Romagna a contatto con l'Etruria propria
attraverso i passi del crinale appenninico. Le fonti antiche alludono
insistentemente ad una colonizzazione e del pari alla fondazione di dodici
città, di riflesso delle dodici città dell'Etruria propria. Si aggiunga il
ricordo di un'azione colonizzatrice particolarmente antica, adombrata nella
leggenda che l'attribuiva principalmente a Tarconte, l'eroe delle origini
eponimo e fondatore di Tarquinia (versioni citate negli Scholia Vernonesia e
in Servio, ad Aen., X, 200, specialmente a proposito delle origini di
Mantova). Una derivazione ravvicinata dalle zone dell'Etruria settentrionale
interna si percepisce d'altra parte nelle tradizioni relative alla
fondazione di Felsina (Bologna) e di Mantova da parte di Ocnus (altrimenti
Aunus, forse da Aucnus) figlio o fratello di Aulestes, a sua volta fondatore
di Perugia. A parte la questione delle origini la presenza degli Etruschi a
nord dell' Appennino Tosco-Emiliano è larghissimamente testimoniata dagli
scrittori classici, storici e geografici, e confermata dall'archeologia con
estrema dovizia di dati incontestabili, inclusi i documenti epigrafici.
Si tratta ora di precisare, nei limiti del possibile, i tempi, i luoghi, i
caratteri e gli sviluppi di questa occupazione. Nella più diffusa tradizione
degli studi moderni la conquista etrusca dei territori della pianura padana,
cioè di quella che suol definirsi appunto «Etruria padana», avrebbe avuto
luogo con notevole ritardo rispetto alla nascita dell'Etruria propria, e
cioè non prima della fine del VI secolo, quando a Bologna, a Marzabotto e a
Spina - i centri archeologicamente più significativi dell'etruschismo
nordico - appaiono i primi segni di una civiltà d'inconfondibile impronta
etrusca e con iscrizioni etrusche.
Questa tesi fu proposta dai primi scavatori delle necropoli bolognesi e in
particolare sostenuta da E. Brizio in rapporto alla generale teoria della
provenienza degli Etruschi dall'oriente e della loro sovrapposizione agli
Umbri identificati con i «Villanoviani», tenuto conto del perdurare della
cultura villanoviana a Bologna fino all'inoltrato VI secolo e dell'apparente
distacco topografico fra i sepolcreti appartenenti a questa cultura e le
tombe di tipo «etrusco». Ma questa interpretazione è già stata oggetto in
passato di più o meno cauti dubbi, ed ora crediamo di poter affermare con
sufficiente fondatezza che l'apparizione, tutto sommato localmente
improvvisa, del villanoviano nel IX secolo debba considerarsi la
manifestazione esteriore di un iniziale passaggio di elementi etruschi dalla
Toscana oltre l'Appennino, e ciò non soltanto per le valutazioni
precedentemente espresse sul significato etnico della diffusione
villanoviana in generale, ma anche proprio per l'indizio, non da
sottovalutare, di quelle tradizioni che associavano in qualche modo la
colonizzazione padana con i tempi delle origini della nazione etrusca.
Che a Bologna in età villanoviana già si parlasse etrusco sembrerebbe del
resto dimostrato dalla recente individuazione di una iscrizione etrusca
incisa sopra un vaso della fase tardo-villanoviano di Arnoaldi, databile
intorno al 600 a.C., cioè assai prima della supposto «conquista etrusca»
della fine del VI secolo. Un altro motivo che collega ab antiquo il
villanoviano transappenninico alla grande matrice dell'Etruria tirrenica si
coglie nella sua stessa localizzazione geografica, che è rappresentata da
due zone limitate immediatamente aderenti all'Appennino: la prima in Emilia,
a Bologna e nei suoi immediati dintorni, in corrispondenza dello sbocco
delle valli dei fiumi Reno e Savena, cioè dei passi Piastre-Collina e Futa;
la seconda in Romagna, a Verucchio, San Marino ed altre località minori, in
corrispondenza e a guardia della valle del Marecchia con i suoi raccordi
montani all'alto bacino del Tevere e al Casentino. Esse hanno veramente
tutta l'apparenza di due "teste di ponte" dall'Etruria verso la pianura
padana e la costa adriatica. La cultura villanoviana di Verucchio si evolve
dal IX fino al VI secolo attraverso almeno tre fasi, di cui soprattutto la
seconda presenta singolari affinità con il villanoviano evoluto dell'Etruria
meridionale, mentre la terza fase, in cui pur resta dominante la cremazione,
appare già largamente imbevuta di elementi orientalizzanti; assai notevoli e
comprensibili in ogni caso sono i rapporti con le vicine culture
medio-adriatiche di Novilara e del Piceno.
Alla possibilità di una remota penetrazione etrusca lungo le coste del Mare
Adriatico si ricollega l'esistenza dell"'isola" villanoviana di Fermo nelle
Marche, in piena zona di cultura picena, con caratteristiche anche qui di
forti somiglianze con il villanoviano dell'Etruria meridionale; non sembra
incongruo citare in proposito il ricordo di una fondazione tirrenica, cioè
etrusca, del santuario di Hera a Cupra a non grande distanza da Fermo
(Strabone, V, 4, 2): è immaginabile una sia pur modesta attività marittima
sull' Adriatico analoga a quella coeva sul Tirreno? Per quel che riguarda il
villanoviano dell'Emilia è eviqente che esso ha attirato e attira in modo
preminente l'attenzione degli studiosi non soltanto per la priorità delle
scoperte risalenti a circa la metà del secolo scorso e per la ricchezza dei
materiali, ma anche e soprattutto per la possibilità di sistematiche
classificazioni topografi-che e cronologiche e per la continuità di vita
storica del suo maggiore centro, Bologna. L'area circostante in pianura,
entro limiti piuttosto ristretti segnati dai corsi del Panaro e del Santerno
e, a nord, del Reno presenta insediamenti di villaggi con tutto l'aspetto di
una specifica occupazione agricola (ne si può escludere che proprio la
disponibilità di queste estese terre coltivabili abbia primamente attratto
gli abitatori delle zone a sud dell'Appennino); ma l'occupazione si addensa
essenzialmente a Bologna che via via assumerà il carattere di un aggregato
protourbano. Ed è a Bologna che noi cogliamo le linee di uno sviluppo che va
dal IX al VI secolo, distinto in quattro fasi successive (più o meno
corrispondenti ai periodi già designati con i nomi delle località dei
sepolcreti: Savena-San Vitale, Benacci I, Benacci II, Arnoaldi), delle quali
le ultime appaiono progressivamente imbevute di elementi orientalizzanti,
pur nella tradizionale fedeltà al rito della cremazione, con l'apparizione
di stele funerarie scolpite e il sostituirsi ai vecchi cinerari biconici di
cinerari in forma di situle (secchie) con decorazione stampigliata.
È difficile dire quale impatto possano aver avuto le prime penetrazioni
etrusche a nord della catena appenninica con le popolazioni locali di là
dalle sfere, ripetiamo limitate, della presenza villanoviana. Di queste
altre popolazioni sappiamo del resto poco o nulla, anche dal punto di vista
della documentazione archeologica che per il resto dell'area
emiliano-romagnola e in generale per la Padania orientale risulta ancora
scarsamente conosciuta durante l'età del ferro, mal distinguibile dalle
sopravvivenze della tarda età del bronzo che fu comunque fiorente in queste
zone (notevole, anche se priva di significato storico dato il dislivello
cronologico, è la netta contrapposizione tra l'area delle terremare del
bronzo nell'Emilia occidentale e l'area di occupazione villanoviana dell'età
del ferro). Fa, bene inteso, eccezione il grosso e netto complesso di
manifestazioni della civiltà Paleoveneta a nord del Po e dell'Adige, con il
suo svolgimento parallelo a quello del villanoviano emiliano e la sua certa
connotazione etnica.
Un fenomeno protostorico ben definito che sembra fronteggiare a nord della
grande piana fluviale il fenomeno villanoviano esteso ai piedi
dell'Appennino, cioè già i Veneti di fronte agli Etruschi, e con influenze
culturali via via crescenti sull'area emiliana, sensibili soprattutto
nell'ultima fase bolognese di Arnoaldi. Sui fatti della Romagna, non rileno
incerti di quelli emiliani per i tempi più antichi, si potrà accennare
soltanto ad osservazioni sporadiche specialmente in zone montane, con
particolare riguardo alle tombe di guerrieri in circoli di pietra di San
Martino in Gattara nell'alta valle del Lamone, che per altro non sono
anteriori alla fine del VI secolo e che possono oggi attribuirsi con
certezza, più che a genti indigene (o peggio a supposti invasori gallici),
all'avanzata verso il nord di Italici umbri, dei quali si avrà occasione di
riparlare. In sostanza la espansione protostorica degli Etruschi verso la
pianura padana e la costa adriatica non deve aver trovato rilevanti ostacoli
in preesistenze probabilmente non dense e forse attardate; in ogni caso essa
deve esser rimasta contenuta ai margini dello spartiacque appenninico con
aspetti economici, sociali e culturali di sostanziale conservatorismo
rispetto all'Etruria propria (ciò che tuttavia non esclude un pro gresso,
accelerato tra il VII e il VI secolo, sia negli scambi con le aree esterne
tirrenica, veneta e medio-adriatica, sia negli aspetti interni delle forme
di vita e del lusso: specialmente a Verucchio, dove più che a Bologna
s'intravvede il formarsi di gerarchie economico-politiche e conseguenti
emergenze culturali).
Il solo indizio, sia pure discutibile e discusso, di una politica attiva
oltre i limiti dell'Emilia centrale e interessata alla difesa degli
equilibri dell'intera pianura padana parrebbe riconoscersi nella notizia di
Livio (V, 34) sulla battaglia combattuta, e perduta, dagli Etruschi nelle
vicinanze del Ticino contro i Galli discesi in Italia con Belloveso e
Segoveso ai tempi del re Tarquinio Prisco e della fondazione focea di
Marsiglia, cioè intorno al 600 a.C., se questa cronologia alta
dell'invasione celtica è accettabile come crediamo: saremmo comunque in un
periodo avanzato di Bologna villanoviana, corrispondente alla fase Arnoaldi,
e curiosamente proprio ai tempi nei quali si data la prima iscrizione
etrusca sopra ricordata. Ma la grande espansione etrusca nel nord, con la
sua massima estensione e con la pienezza e ricchezza delle sue più
caratteristiche espressioni, deve collocarsi effettivamente non prima degli
ultimi decenni del VI secolo, quale probabile conseguenza di avvenimenti
economici e politici di portata assai più vasta riguardanti non soltanto
l'Etruria, ma l'intera area italiana e i mari circostanti. È in questo
momento, e soprattutto a partire dagli inizi del V secolo, che l'incipiente
crisi della potenza marittima etrusca nel Tirreno può aver richiamato allo
sbocco adriatico; che lo sviluppo dei centri dell'Etruria interna (Volsinii,
Perugia, Chiusi, Volterra, Fiesole) può aver favorito un più pressante
interesse per gli aperti territori d'oltre Appennino e determinato nuove
ondate di migrazione verso il nord; che l'incremento dei traffici con
l'Europa centrale attraverso le Alpi ed in pari tempo la minacciosa
pressione dei Celti già dilaganti nella pianura padana possono aver reso
necessario un consolidamento ed un ampliamento della presenza etrusca
nell'ltalia settentrionale trasformandola in vero e proprio dominio. Di
fatto vediamo ora trasformarsi l'antico centro bolognese in città, l'etrusca
Felsina; nascere subitaneamente nella media valle del Reno, quale stazione
viaria, ma probabilmente anche come centro d'interesse minerario, Marzabotto
(cui si ritiene di attribuire il nome antico di Misa), con la sua esemplare
pianta regolare a strade incrociate di tipo ortogonale che gli dà una così
evidente impronta di "colonia"; fiorire sul mare alla foce di un antico ramo
del Po la grande città di Spina aperta ad ogni traffico e ad ogni presenza e
influenza dei Greci, e più a nord Adria condominio degli Etruschi e dei
Veneti (sui quali ormai si riversa il prestigio culturale etrusco).
Nell'antica area marittima romagnola è ricordato e in parte attestato il
possesso etrusco di Ravenna; il controllo degli Etruschi si estende anche
all'Emilia occidentale almeno fino all'Enza e forse oltre (certamente
contenuto dall'opposta avanzata celtica: priva di fondamento è l'etruscità e
comunque incerta l'ubicazione di Melpum già da molti ritenuto un avamposto
etrusco in Lombardia); sicuramente fu passato il Po verso le Alpi come
provano le tradizioni dell'origine etrusca di Mantova e taluni indizi
culturali ed epigrafici, con preminente attrazione verso la valle dell'
Adige quale canale di comunicazioni transalpine fra il territorio dei Veneti
e l'espansione dei Celti, donde la tradizione liviana dell'origine etrusca
dei Reti.
La civiltà etrusca nell'Italia settentrionale tra la fine del VI e
l'inoltrato IV secolo è rappresentata tipicamente a Bologna, come nei centri
coevi e archeologicamente emergenti di Marzabotto e di Spina, dalla fase
culturale tradizionale detta della Certosa (da uno dei più rappresentativi
sepolcreti bolognesi): la caratterizzano abbondanti arredi di tipo etrusco,
larghissime importazioni di ceramica greca attica, il diffondersi del rito
funebre dell'inumazione, le stele sepolcrali figurate (essenzialmente a
Bologna), le iscrizioni etrusche. Alcuni di questi elementi possono
suggerire qualche fondata ipotesi sulle correnti d'origine, dall'Etruria
propria, del popolamento e delle influenze culturali di questa grandiosa
"colonizzazione". Molti indizi archeologici, epigrafici e onomastici ci
riportano, con indubbia verosimiglianza storico-geografica, alle città
dell'Etruria settentrionale interna quali Chiusi, Volterra e Fiesole (si
pensi tra l'altro alla comune seppur differenziata produzione delle stele
nel volterrano, attorno a Fiesole e a Bologna); transiti diretti ed antichi
furono senza dubbio le medie valli appenniniche. Ma esistono anche tracce di
influenze provenienti dall'Etruria meridionale che potrebbero far sospettare
una direttiva risalente lungo la valle del Tevere, tramite Volsinii e
Perugia, fino a raggiungere la costa adriatica: ciò che da un lato ci
consente di richiamare la saga "perugina" di Aulestes e di Ocnus, da un
altro lato ci fa pensare alle remote affinità del villanoviano romagnolo e
di Fermo con il villanoviano sud-etrusco.
Quali che siano le provenienze e i fattori di alimentazione dell'etruscità
padano-adriatica, certo essa acquistò nel V secolo una sua individualità e
compattezza, attorno ai centri maggiori (dalla polarità interna di Felsina a
quella marittima di Spina), oltreche una sua straordinaria rilevanza
storica-economica, politica, culturale, tale da giustificare la tradizione
della dodecapoli nordica contrapposta alla dodecapoli tirrena. Ma dello
sviluppo e della sorte finale di queste città e di questo dominio si
tratterà in modo più specifico nel quadro della successive vicende del mondo
etrusco.
Non può tralasciarsi infine un cenno a quell'altra direttiva di espansione
etrusca verso il nord che è rappresentata dalla Liguria. Ci troviamo di
fronte a premesse e a situazioni storiche del tutto diverse, in cui
l'attività marittima deve aver avuto la sua parte di naturale rilevanza
rispetto a possibili conquiste o installazioni terrestri, con qualche
analogia (per altro vaga e diremmo embrionale) con i fenomeni dell'avanzata
e della presenza etrusca nel mezzogiorno. Il territorio compreso tra le foci
dell' Amo e la valle del Magra, cioè la Versilia e la Lunigiana, fu
certamente investito da una penetrazione etrusca già in età arcaica, anche
se prevalentemente abitato da popolazioni liguri e con una certa
fluttuazione nel tempo tra Etruschi e Liguri: lo attestano le fonti antiche
(seppure con ambiguità nella sua attribuzione alle due stirpi), alcune
testimonianze archeologiche ed epigrafiche, oltre che la finale attribuzione
di queste zone all'Etruria augustea; ma la stessa Pisa, pur nella importanza
della sua posizione geografica alla foce dell'Arno, non sembra essere mai
stata tra le maggiori città etrusche, collocandosi in una zona marginale del
territorio di Volterra e quasi di confine rispetto al resto dell'Etruria;
mentre Luni avrà anch'essa un suo autentico e grosso sviluppo urbano
soltanto alla fine della civiltà etrusca. Fra l'Etruria padana e le
penetrazioni etrusche in territorio ligure non sono pensabili coerenti
rapporti sia per l'interposta area montuosa tenuta da primitive e
notoriamente bellicose tribù locali, sia anche e soprattutto per l'avanzata
dei Celti. Una progressione terrestre verso occidente non sembra del resto
aver superato la Magra; mentre è probabile, e comprovata da iscrizioni
etrusche, una presenza commerciale etrusca, forse anche al limite di un
controllo "coloniale" ; nel centro portuale di Genova; più oltre le attività
marittime verso le coste provenzali debbono aver trovato un fermo nelle
istallazioni greche, effettivamente coloniali, di Monaco e di Nizza.





L'alleanza cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma

Le fonti storiche greche ci parlano per il VI secolo a.C. di accese rivalità
"internazionali" per il controllo delle rotte marittime, dandoci notizia di
vere e proprie battaglie navali tra Greci ed Etruschi. Così, ad esempio, nel
caso della battaglia combattuta l'anno 535 a.C. circa, nelle acque del Mare
Sardo, della quale ci informa Erodoto.
Si tratta di uno degli episodi più salienti di tutta la storia etrusca,
provocato dall'intrusione greca nel "mare di casa" degli Etruschi e, in
particolare, dalla fondazione, intorno al 565 a.C., della colonia di Alalie
(Aleria) sulla costa orientale della Corsica. Protagonisti di questa impresa
erano stati i profughi della città di Focea, nella Ionia asiatica, che per
sfuggire alla minaccia persiana si erano trasferiti a più riprese in
Occidente e, attorno al 600 a.C., si erano stabiliti alle foci del Rodano
fondandovi Massalie (Marsiglia). Gli scali marittimi e le stazioni
commerciali che i Massalioti avevano installato nel Golfo del Leone e sulle
coste del Mar Ligure misero così in crisi il commercio etrusco.
Quando l'ultima ondata di Focei provenienti dalla madre patria occupati dai
Persiani si stabilì in Corsica, gli etruschi furono costretti a reagire. A
muoversi fu Cere, la quale si alleò con Cartagine, anch'essa seriamente
danneggiata nei suoi interessi commerciali dall'intrusione focea. L'alleanza
condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi dei Focei
e altrettante di Etruschi e Cartaginesi.
Stando sempre a Erodoto, a vincere furono i Greci, ma la vittoria rimase
senza frutto "poiché - scrive lo storico - quaranta delle loro navi furono
distrutte e le restanti rese inservibili", sicché "essi tornarono ad Alalie,

presero a bordo i figli, le donne e quanto dei loro beni potevano
trasportare e, lasciata la Corsica, partirono verso Reggio".

Alcuni dei prigionieri focesi furono portati a Cere e lapidati. Coloro che
passavano sul luogo dell'eccidio, racconta ancora Erodoto, animali o uomini,
"diventavano rattrappiti, storpi o paralitici". Gli Etruschi mandarono
allora a interrogare l'oracolo di Delfi, il quale ordinò loro di celebrare
sacrifici e di tenere ogni anno giochi per placare le anime dei Focesi
massacrati.
Il successivo clamoroso episodio della lotta per il predominio del
Mediterraneo di verificò agli inizi del V secolo a.C. nel 480 a.C. quando i
Greci di Sicilia, accettando la supremazia dei Siracusani, affrontarono a
Imera i Cartaginesi sbarcati in forze nell'isola sotto la guida di Amilcare.
La sconfitta dei Cartaginesi fu un colpo anche per gli etruschi, benché non
avessero partecipato direttamente al conflitto. Qualche anno dopo, nel 474
a.C., essi dovettero affrontare Cuma, ribelle al loro predominio in
Campania, e il tiranno siracusano Gerone, da Cuma chiamato in soccorso.
Furono sconfitti in una memorabile battaglia navale presso Capo Miseno, che
segnò l'inizio del declino della loro potenza sul mare. I Greci cominciarono
ad assalire e saccheggiare le località etrusche della costa tirrenica,
creando così un calo delle attività produttive degli Etruschi, che non
potevano fare più affidamento sull'esportazione. Durante una spedizione
siracusana, vennero saccheggiate Vetulonia e Populonia.
Anche sull'Adriatico gli Etruschi avevano cercato di espandersi. Tappe
fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di stazione intermedia
in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina, sul mare. Spina
era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino al IV secolo
a.C., quando la presenza di questi sull'Adriatico cominciò ad essere
contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente, era da
questi mercati adriatici che transitava l'ambra, la resina giallastra
reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne, ma anche
uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire espansionistiche
spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e a sud della
penisola.
Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si affacciarono ai due
estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle tribù celtiche
penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud, l'incipiente
espansionismo di Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.C., riprese con
determinazione la guerra contro Veio. Nel 396 a.C. Veio venne conquistata e
distrutta, mentre il suo territorio fu incorporato nello Stato romano. Nello
stesso anno della caduta di Veio, le fonti storiche parlano di occupazione
da parte dei Galli della prima città dell'Etruria padana: una non meglio
precisata Melpum che alcuni pensano di localizzare nei pressi di Milano o
persino di identificare con essa.
Nell'Etruria meridionale, intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare
il IV secolo a.C. Da una parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere
che, sia pure pacificamente, finì col soccombere all'alleata Roma, alla
quale cedette il suo antico ruolo. Da un'altra parte, ci fu invece il
ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad una accorta politica di
sfruttamento delle risorse agricole del suo territorio, riuscì a superare la
crisi che l'aveva lungamente abbattuta e a rifiorire, con ricchezza e
potenza. Ma l'accresciuta potenza e la sua stessa posizione geografica,
portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo con Roma, che portò
alla guerra scoppiata nel 358 a.C. e che si concluse nel 351 a.C. senza
vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale. Intanto sul fronte
settentrionale finiva l'Etruria padana: nella seconda metà del IV secolo
infatti l'onda celtica travolse tutti i centri etruschi della regione,
compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai Galli.
Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro i
confini originari, peraltro già intaccati a sud dall'espansione romana. Nel
311 a.C. si riaccese la guerra contro Roma. Ancora una volta l'iniziativa
dovette essere degli Etruschi, ma protagoniste dello scontro furono ora le
città centro-settentrionali, con a capo Volsini affiancata da Vulci, Arezzo,
Cortona, Perugia e Tarquinia, svincolatasi dalla tregua appena scaduta. Nel
308 a.C. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e Perugia si
arresero accettando condizioni umilianti. L'anno 302 a.C. la guerra
etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, tornò a riaccendersi,
per protrarsi, con una serie pressoché ininterrotta di campagne annuali,
fino al 280 a.C.: i Romani quasi sempre all'attacco, gli Etruschi costretti
alla difensiva e a rinchiudersi spesso nelle loro città fortificate. Tra il
281 e il 280 a.C. si arresero per sempre Vulci e Volsini, mentre le città
settentrionali si affrettarono a rinnovare i precedenti trattati di pace.
Tutti infine dovettero sottoscrivere patti associativi o "federativi" (dal
latino foedus, trattato), in forza dei quali mantenevano una formale
indipendenza, con lo status giuridico di "alleate" (sociae), mentre, di
fatto, accettavano la supremazia di Roma, ponendosi nei confronti di questa
in rapporto di sudditanza.





 L'Etruria "federata"

La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso forzato nell'
alleanza con Roma segnò l'inizio dell'ultimo periodo della storia etrusca:
quello che viene definito dell'Etruria "federata". A fondamento del nuovo
ordine imposto all'Etruria stavano dunque i vincoli federali derivanti dai
trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole speciali e diverse,
particolarmente dure per le città che più direttamente si erano opposte a
Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di essa. Includenti
tra l'altro anche l'imposizione di tributi e il controllo sulla pubblica
amministrazione.
In generale, i trattati imponevano a tutte le città di rinunciare a
qualsiasi iniziativa politica autonoma; di riconoscere come propri gli amici
e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di fornire alla stessa Roma aiuti
ogniqualvolta essa ne facesse richiesta, specialmente in occasione di guerre
e con contributi di uomini e mezzi; di coordinare con gli interessi Romani
ogni loro attività, anche di natura produttiva e commerciale; di garantire
il mantenimento dei propri ordinamenti istituzionali fondati sul potere
delle oligarchie aristocratiche; di accettare (o di richiedere) l'intervento
di Roma in caso di gravi turbamenti sociali e di conflitti interni. L'
aspetto positivo del sistema federativo consisteva nel fatto che le singole
città continuavano a vivere la loro vita "locale", sostanzialmente libera e
autonoma, regolata e ordinata secondo i principi e le usanze della
tradizione nazionale, di mantenere le proprie leggi, la propria lingua e la
propria religione.
 La federazione fu messa a dura prova dall'invasione dell'Italia da parte di
Annibale. La seconda guerra punica (218 - 202 a.C.) toccò l'Etruria soltanto
marginalmente, durante la discesa dell'esercito cartaginese lungo la valle
tiberina, ma l'impressione suscitata dalla disfatta subita dai Romani al
Trasimeno, in territorio etrusco, fu tanto forte che nelle città etrusche si
risvegliò qualche desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di
simpatia nei confronti di Annibale e qualche seria agitazione che costrinse
i Romani a rafforzare i loro presidi. Poi comunque i patti vennero
rispettati e ogni città diede il suo contributo prezioso prima alla
resistenza e poi alla riscossa romana; in particolare quando, nel 205 a.C.,
furono forniti aiuti massicci a Scipione per l'allestimento della sua
spedizione africana. Tito Livio scrive in proposito che le città etrusche si
comportarono ognuna secondo le proprie possibilità e ne elenca
dettagliatamente i contributi: Cere dette frumento e viveri di vario genere;
Tarquinia tele di lino per le vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia
fornirono legname per la costruzione degli scafi e frumento; Volterra
frumento e pece per le calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò
grandi quantità di armi (3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000
giavellotti), strumenti e attrezzi da lavoro e 100.000 moggi (= antichi
recipienti) di grano e rifornimenti di ogni sorta da servire per quaranta
navi. Con il I secolo a.C., tra il 90 e l'89, Roma concesse agli Etruschi i
diritti di cittadinanza e nacquero così, tra l'80 e il 70 a.C., i municipi
Romani dell'Etruria. La realtà storica degli Etruschi venne infine
consacrata con una delle regioni in cui la stessa Italia venne suddivisa da
Augusto: la regione VII, alla quale toccò di perpetuare, fino alla fine del
mondo antico, il nome glorioso dell'Etruria.
Continua>