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STORIA DEGLI
ETRUSCHI - ANTICHI POPOLI ITALIANI
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STORIA ED ORIGINE DEGLI
ETRUSCHI |
ETRUSCHI LE FONTI Riportiamo brevemente un profilo degli studiosi antichi
che ci hanno tramandato la storia del popolo etrusco. Ricordiamo che la
cultura etrusca ebbe un forte "scontro" con quella romana. A tale proposito
si tenga presente che alcuni storici si sono schierati apertamente a favore
della cultura romana (cioè quella vincitrice), altri contro. Per tale
ragione, le notizie storiche sugli Etruschi che ci sono pervenute nel corso
dei secoli sono state in alcuni casi trionfalistice e leggendarie, in altri
scarne e deludenti.
Dionisio di Alicarnasso
Retore e storico
greco vissuto fra il 60 a. C. e la fine del I sec. a. C., soggiornò per molti
anni a Roma, dove tenne una scuola. Oltre ad opere di retorica, scrisse
un'importante opera storica: Antichità romane, composta in 20 libri, dei
quali possediamo i primi 10, mentre il libro XI ci è giunto lacunoso. Il
lavoro arrivava fino all'inizio della prima guerra punica, partendo dalle
fasi più antiche della preistoria e della storia romana.
Diodoro
Siculo
Vissuto tra il I sec. a. C. ed il I d.C., lo storico Diodoro
Siculo, il cui nome significa "dono di Dio", nacque ad Agira e visse a Roma
in età Cesarea ed Augustea. Considerato dai greci "padre della storia"
insieme ad Erodoto, Diodoro volle e seppe esprimere la sua cultura di lingua
greca tanto da essere spesso chiamato "storico greco". Viaggiò molto per i
tre continenti conosciuti per approfondire i suoi studi. Tornato a Roma,
utilizzò le sue nuove conoscenze per scrivere una colossale storia
universale, dal titolo "Biblioteca" in quaranta volumi, dei quali restano
soltanto quindici volumi. La sua opera, tradotta in diverse lingue, tratta
dalla tecnica egizia della mummificazione alla scienza urbanistica
mesopotamica, dal periodo precedente la guerra di Troia alle conquiste di
Giulio Cesare in Gallia. Alla sua fonte hanno attinto Marco Polo, che lo cita
ne "Il Milione", Salzano, Holm e Di Berenger. Innegabili sono i meriti della
sua opera che ci ha tramandato avvenimenti mai raccontati e che altrimenti
sarebbero andati perduti. Plinio il Vecchio lodò il contenuto della sua opera
scrivendo pure che Diodoro non favoleggiò, ma trasse i fatti reali dalla
somma delle tradizioni locali e, dove non era possibile per assenza di
documenti, da accurate deduzioni.
Dione Cassio
Dione Cassio,
ovvero Dio Cassius Cocceianus (ca. 150-235), storico e politico romano, nato
a Nicea, in Bitinia; suo nonno materno fu il filosofo stoico Dione Crisostomo
(ca. 40-112). Dione Cassio ebbe incarichi amministrativi a Roma sotto gli
imperatori Commodo, Pertinace, Settimio Severo e Alessandro Severo; fu due
volte console (220 e 229). Dione è meglio conosciuto come l'autore di una
storia di Roma in 80 libri scritta in greco. Ne restano interi solo 18, ma
frammenti di alcuni degli altri libri e successive epitomi di altri scrittori
sono arrivate sino a noi. Le opere di Dione sono tutte di primaria importanza
per la storia degli ultimi anni della repubblica romana ed i primi anni
del'impero.
Eforo
Storico greco nato a Cuma eolica all'inizio del
IV sec. a. C. La sua opera principale fu una storia universale della Grecia
in 29 libri, il trentesimo venne aggiunto dal figlio. La narrazione partiva
dal mitico ritorno degli Eraclidi nel Peloponneso sino all'assedio di Perinto
ad opera di Filippo II (341/340 a. C.). Il suo lavoro costituì una fonte
importante per Diodoro Siculo e Strabone, venendo utilizzata, inoltre, da
Polieno, Pompeo Trogo e Plutarco.
Erotodo
Storico greco nato ad
Alicarnasso, forse intorno al 484 a. C., e morto non prima del 430 a. C., non
si sa se a Thurii, come riporta la breve biografia della Suda, o ad Atene,
dove potrebbe essere ritornato a conclusione dei suoi viaggi nella Grecia
continentale, in Egitto, Fenicia, Mesopotamia, in Magna Grecia L'opera di
Erodoto ci è giunta con il titolo di Historìai (Storie), desunto dalle prime
parole del proemio. Fu probabilmente il filologo Aristarco di Samotracia a
dividerla in nove libri, a ciascuno dei quali, successivamente, venne dato il
nome di una musa. Vi è esposta la storia di Lidi, Persiani, Egiziani,
Babilonesi e Sciti. Gli avvenimenti del racconto principale riguardano gli
ottanta anni di storia che vanno dall'ascesa al trono di Creso e Ciro
(560-559 a. C.) alla battaglia di Micale e all'occupazione di Sesto (479 a.
C.). La composizione dell'opera risulta piuttosto complessa soprattutto per
le numerose digressioni che partendo dal racconto principale arrivano ad
occupare più capitoli se non un intero libro.
Floro L. Anneo (o
Giulio)
(secc. I-II d.C.) Originario dell'Africa, a somiglianza degli
oratori greci della "seconda sofistica", ebbe un'attività di conferenziere
itinerante nelle province. Uno dei temi da lui affrontato era la questione se
"Virgilio era oratore o poeta", problema sul quale ci è stato conservato
uno svolgimento redatto in forma di dialogo. Finì per stabilire a Roma la
sua dimora, durante l'impero di Adriano, e nella città compose i suoi 2 libri
"sulle guerre romane" (specificamente, il I relativo alle guerre esterne, il
II alle guerre civili del I sec. a.C.), comprende 7 secoli di storia militare
romana, dalla fondazione dell'Urbe ad Augusto. Sotto la vernice del presunto
storico, traspare però l'atteggiamento del rètore: Floro elogia più che
raccontare. Questo conferenziere, sempre in cerca di brillanti
amplificazioni, immagina di paragonare la vita del popolo romano a quella di
un essere umano le cui differenti età si caratterizzano per una crescita, una
maturità e una decadenza, salvo poi concludere, per trarsi d'impaccio, che la
dinastia antonina aveva restituito a Roma la sua giovinezza. Quest'opera
"puerile" (anche nella struttura molto semplice del suo latino) ci è stata
conservata sotto il titolo, davvero improprio, di "Epitoma de Tito Livio"
("Compendio di Tito Livio").
Livio Tito
Scarse le notizie della
sua vita. Di lui non si conosce il cognome. Si sa che nacque a Padova nel 59
a.C. Presto si trasferì a Roma, dove entrò nelle grazie dell'imperatore
Augusto, che gli affidò, a quanto pare, l'educazione culturale del nipote
adottivo Claudio, futuro imperatore. Ebbe una figlia ed un figlio, Tito,
divenuto poi famoso geografo. Di idee conservatrici, improntò la sua vita e
la sua opera ad equilibrio morale e religioso e spirito patriottico. Il suo
essere un convinto pompeiano, e quindi critico nei confronti di Cesare, non
gli impedì di comprendere lo spirito nuovo dei tempi, di ammirare l'opera
riformatrice imperiale e di celebrare la pace augustea e la figura stessa
dell'imperatore. Morì a Padova nel 17 d.C.
Pochi frammenti ci sono
pervenuti dei suoi scritti filosofici e retorici, che noi conosciamo
soprattutto tramite le testimonianze di successivi autori come Quintiliano e
Seneca. Ma il suo capolavoro è rappresentato dalle Storie. Iniziato tra il 27
ed il 25 a.C., occupò tutta la sua vita. Originariamente il titolo doveva
essere Ab Urbe condita libri e comprende in 142 libri annalisticamente, anno
per anno o per gruppi di anni, la storia di Roma dalle origini sino al 9
a.C., anno della morte di Druso Maggiore (figliastro di Augusto), il
governatore delle Gallie che combatté contro le popolazioni germaniche. E'
probabile che l'opera dovesse comprendere, nel disegno originario, 150 libri
e concludersi con la morte di Augusto (14 d.C.). L'autore la pubblicò, man
mano che procedeva nella composizione, per sezioni staccate, raggruppandole
in decadi (10 libri) o pentadi (5 libri), corrispondenti per lo più a
determinati cicli di fatti storici. Dei 142 libri ne avanzano solo 35 : le
decadi 1a, 3a, 4a e i primi cinque libri, lacunosi, della 5a. Degli altri 107
rimangono alcuni frammenti ed i riassunti che vennero fatti di tutta l'opera,
forse ad uso scolastico, ad eccezione dei libri 136 e
137.
Macrobio Ambrogio Teodosio
Ambrogio Macrobio Teodosio
visse nel V secolo. Egli si rivela africano da certe particolarità
linguistiche e probabilmente fu il Macrobio proconsole in Africa nel 410. Il
più e il meglio della sua erudizione è raccolto nei sette libri dei
Saturnalia, una specie di enciclopedia del sapere filosofico, centrata sulla
figura di Virgilio; inoltre aveva scritto prima due libri di Commentarii al
Somnium Scipionis ciceroniano. L'una e l'altra opera sono dedicate al figlio
Eustachio.
Plinio il Vecchio
Gaio Plinio Secondo, detto Plinio il
Vecchio, nacque a Como nel 23 d. C., fu il più grande naturalista romano.
Morì durante l'eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. a Stabia. La sua fama è
legata all'opera monumentale Naturalis Historia in 37 libri, tutti pervenuti
fino a noi. Si tratta di una vera e propria enciclopedia in cui Plinio si
propose di compendiare l'intero scibile umano: cosmologia e geografia fisica;
geografia ed etnologia; antropologia e fisiologia; zoologia; botanica;
botanica in relazione al suo impiego in medicina; zoologia in relazione
all'impiego in medicina; metallurgia e mineralogia, con ampie digressioni
sulla storia dell'arte.
Properzio Sesto
(Assisi? 50 ca a.C. -
Roma, dopo il 15 a.C.) Nacque da agiata famiglia di rango equestre che però,
dopo la guerra perugina del 41, perse buona parte dei suoi averi. Morto il
padre, fu condotto dalla madre a Roma, dove fu avviato alla carriera forense.
Ma Properzio rivelò precoce attitudine per la poesia: già al 28 a.C. risale
la pubblicazione del suo I libro di elegie, il cosiddetto "monobiblos"
("libro unico"), intitolato dal nome della donna amata (Cynthia), secondo la
tradizione dei poeti alessandrini. Il successo che gli arrise spinse Mecenate
ad ammetterlo nel suo celebre "circolo". Qui, Properzio conobbe i più
importanti poeti dell'epoca: da Virgilio a Ovidio, al quale era solito
recitare i propri "roventi" ("ignes") versi. Difficili, invece, i rapporti
con Orazio, evidentemente a causa dei molto diversi ideali poetici. Tibullo e
Properzio sembrano poi ignorarsi del tutto (gelosia reciproca?). Uno dei
primi amori cantati dal poeta fu la giovane schiava Licinna, ma forse l'unico
avvenimento davvero importante nella sua vita fu l'incontro con Cinzia.
Hostia era il vero nome della donna, come ci riferisce Apuleio: il nome
Cinzia sembra collegarsi con Apollo e Diana, che nacquero a Delo, sul monte
Cinto (si ricordi, a proposito, anche la Delia di Tibullo). Cinzia, una
fascinosissima donna, forse più grande di Properzio, dagli occhi neri e dai
capelli fulvi, colta e mondana, elegante, amante della danza, della poesia,
ma anche di facili avventure d'amore (e dunque costituzionalmente infedele),
dominò incontrastata nell'animo del poeta, nonostante il tormento continuato
di un rapporto reso difficile dalla stessa eccessiva intensità della
passione. Si amarono, talora "nevroticamente", per quasi cinque anni. Cinzia
morì intorno al 20 a.C., ma, dopo la sua scomparsa, la presenza e il
desiderio di lei si fecero ancora più acuti nella mente del poeta. Dunque,
una vera e definitiva "rottura" nel rapporto non ci fu mai: nonostante le due
ultime elegie del III libro, quelle che vorrebbero segnare il "discidium", la
separazione definitiva; nonostante la stessa morte di lei.
Silio
Italico Tiberio Cazio Asconio (Padova?, 25 ca - Campania 101 d.C.) Senatore,
cortigiano di Nerone, console nel 68, noto durante i periodi più cupi della
tirannide come delatore. Sotto Vespasiano, fu proconsole d'Asia. Coltivò la
poesia nella vecchiaia, ritiratosi a vita privata. Colpito da un male
incurabile, si lasciò morire di fame.
Stabone
La data di
nascita di Strabone, con buona probabilità, può essere stabilita nel 64/63
a.C., nella provincia romana di Amaseia, nel Ponto. Originario di una nobile
famiglia, anticamente legata al re Mitridate, Strabone ebbe a disposizione un
patrimonio notevole che gli diede la possibilità di ricevere un'ampia
istruzione e di dedicarsi, per tutta la vita, ai viaggi e agli studi. La
maggior parte delle notizie biografiche si desumono dalla stessa Geografia.
Al 44 a.C., anno della morte di Cesare, risale il suo primo soggiorno a Roma
(XII 6,2), dove fu allievo del celebre Tirannione, a sua volta originario del
Ponto. Personalità di spicco nella vita culturale romana di quegli anni - tra
l'altro fu il maestro dei figli di Cicerone - Tirannione era un grammatico di
formazione peripatetica e, in particolare, esperto di 'Geografia', come
ricorda lo stesso Cicerone (Lettere ad Attico, II 6). A Roma, Strabone poté
ricevere un'ampia istruzione filosofica caratterizzata dall'eclettismo: oltre
a Senarco di Seleucia, un altro filosofo peripatetico, frequentò anche lo
stoico Posidonio di Apamea, vissuto tra il 135 e il 51 a.C., i cui scritti,
amplissimi per numero e argomenti trattati, e oggi perduti, possono essere
considerati come importante fonte di numerosi autori greci e latini, da
Cicerone a Seneca, da Galeno ad Ateneo, Diogene Laerzio, fino a Simplicio e
Stobeo, oltre allo stesso Strabone. Tra il 35 a.C. e il 7 d.C., sono
documentati sempre nella Geografia, ulteriori soggiorni a Roma, e altri
viaggi nelle provincie e le città del nascente impero romano. Talora Strabone
accompagò anche personalità di rango della classe dirigente romana: in ogni
caso non sembra che abbia mai compiuto viaggi con la finalità di raccogliere
notizie 'autottiche' da inserire nella propria opera, compilata,
essenzialmente, attraverso la consultazione di fonti scritte; né d'altro
canto ricoprì mai direttamente ruoli di rilievo all'interno
dell'amministrazione romana. In breve, nella biografia di Strabone non si
ricordano episodi di grande rilievo, né particolari esperienze: fu una vita
da 'studioso', alquanto appartata rispetto ai tumultuosi anni che videro la
trasformazione della 'repubblica' romana nell'assetto imperiale augusteo.
Incerta la data di composizione della Geografia. Sicuramente l'opera fa
seguito ai Commentari Storici in 47 libri oggi perduti - ne restano solo
frammenti di tradizione indiretta - che proseguivano il corso della
narrazione di Polibio, incentrata sul periodo 264-200 a.C. Vari riferimenti e
dati interni, in ogni caso, come per es. alcuni cenni all'impero di Tiberio
(14-37 d.C.) e ad eventi riconducibili al 21 o al 23 d.C. (cfr. XVII
3,7.9.25), inducono a ipotizzare il periodo compreso tra il 17 e il 23 d.C.
per la redazione dell'opera, dunque verso la fine della lunga vita di
Strabone, probabilmente pubblicata solo dopo la sua morte, avvenuta intorno
al 24 d.C.
Svetonio Gaio Tranquillo
(Algeria o Roma, 70 d.C.? -
140? ca d.C.) Della sua vita possediamo poche notizie, desumibili soprattutto
dalle sue stesse opere e da Plinio, che in una lettera a Traiano ne
sottolinea la rettitudine e l'erudizione. Nato da una ricca famiglia
dell'ordine equestre, Svetonio rifiutò tuttavia la carriera di amministratore
o di soldato riservata in genere a quelli del suo rango. Uomo dedito agli
studi, intimo amico di Plinio il Giovane (il quale lo introdusse nelle
simpatie di Traiano, facendogli anche conferire lo ius trium liberiorum, una
sorta di sussidio familiare che in casi eccezionali veniva concesso anche a
scapoli benemeriti), nonché avviato alla carriera retorica e forense, lo
storico consacrò tuttavia tutta la sua vita a ricerche erudite che, per certi
aspetti, richiamano quelle di Varrone: ma la sua attività - come vedremo - si
limitò quasi interamente al genere biografico. Grazie all'amicizia del
prefetto del pretorio Setticio Claro (anch'egli amico di Plinio,
sopravvissuto a quest'ultimo, e che avrebbe continuato comunque a proteggere
il nostro autore), intorno al 120 Svetonio riuscì ancora a diventare
segretario "ad epistulas" (incaricato cioè della corrispondenza) nei servizi
dell'imperatore Adriano. A quest'alto incarico egli poté essere chiamato dopo
aver dato buona prova delle sue qualità di funzionario amministrativo, prima
come sovrintendente di tutte le biblioteche pubbliche di Roma, poi come "a
studiis" (quasi un nostro ministro della cultura e dell'istruzione). Tutte
queste mansioni, e in special modo l'ultima in ordine di tempo (quella di
segretario), gli permisero di accedere liberamente agli archivi del Palatino,
per cui le sue informazioni ci hanno permesso di ricostruire e di conservare
documenti che, senza di lui, sarebbero andati completamente perduti. Nessun
altro storico, infatti, poteva averne conoscenza. Dopo il rovescio
politico del suo protettore, tuttavia, anche l'incarico di Svetonio presso la
corte non durò molto a lungo. Nel 122, Adriano lo allontanò con un pretesto,
perché, a quanto pare, alcuni dignitari, e lui fra gli altri, avevano
instaurato un'eccessiva familiarità nell'ambiente dell'imperatrice Sabina.
Svetonio, così, trascorse gli ultimi anni della sua vita immerso negli studi
ed attendendo alla pubblicazione delle sue vaste e numerose
opere.
Tacito Publio (o Gaio?) Cornelio (55 d.C.? ca - 120 ca) Origini
nobili. Molto incerti e lacunosi sono i dati biografici di T. (a partire già
dai suoi "tria nomina"): nacque probabilmente nella Gallia Narbonese (ma
forse a Terni, o addirittura nella stessa Roma), da una famiglia ricca e
molto influente, di rango equestre. Studiò a Roma (frequentò probabilmente
anche la scuola di Quintiliano), acquistò ben presto fama come oratore
(dovette essere anche un valentissimo avvocato), e nel 78 sposò la figlia di
Gneo Giulio Agricola, statista e comandante militare. Iniziò la carriera
politica sotto Vespasiano e la proseguì sotto Tito e Domiziano; ma, come
Giovenale, poté iniziare la carriera letteraria solo dopo la morte
dell'ultimo, terribile, esponente flavio (96 d.C.), sotto il cui principato
anche il nostro autore, come altri intellettuali del resto, non dovette
vivere momenti certo tranquilli. Questore poi nell'81-82 e pretore nell'88,
T. fu per qualche anno lontano da Roma, presumibilmente per un incarico in
Gallia o in Germania. Nel 97, sotto Nerva, fu console (anche se in veste di
supplente) e pronunciò un elogio funebre per Virginio Rufo, il console morto
durante l'anno in carica. Abbandonò poi decisamente oratoria e politica (ebbe
solo un governatorato nella provincia d'Asia, nel 112-113), per dedicarsi
totalmente alla ricerca storica. Fu intimo amico, nella vita e negli studi,
di Plinio il Giovane.
Tiberio Claudio Druso Nerone
(Imperatore di
Roma) Tiberio Claudio Druso Nerone era figlio di Antonia - figlia a sua volta
del generale Marcantonio - nipote in linea paterna di Livia Drusilla - moglie
di Augusto - and fratello di Germanico. Sposò prima Valeria Messalina poi sua
nipote Agrippina, madre di Nerone. Nel 41 d.C, dopo la morte di Caligola,
diventò imperatore per caso, e di mostrò uno dei migliori Cesari di
Roma. Fu uno degli ultimi profondi conoscitori della lingua etrusca e scrisse
una monumentale storia di questo popolo - completa di grammatica (Tyrrenica)
- che è andata completamente perduta. Ordinò di costruire il Porto di Ostia
e cominciò il prosciugamento del lago di Fucino, opera che verrà portata
a compimento soltanto nel nostro secolo. Nel 43 d.C. conquistò la
Britannia. La sua ultima moglie, Agrippina, lo uccise nel 54 d.C, con una
porzione di funghi avvelenati per mettere sul trono il figlio
Nerone.
Tucidide
Storico nato ad Atene verso il 460 a.C. Molto
poco si conosce della sua vita e le scarse notizie sono per lo più deducibili
dalle sue opere e da biografie molto tarde. Fu stratega nel 424/3 a.C. e, al
comando di una flotta di sette navi, accorse in aiuto di Anfipoli minacciata
dai Persiani. L'insuccesso di questa spedizione costò a Tucidide un lungo
esilio durato venti anni che egli trascorse probabilmente nel Peloponneso e
in Tracia. Durante l'esilio cominciò a scrivere la Storia della guerra del
Peloponneso in otto libri, che poté condurre solo fino al 411 a.C. Tucidide
morì verso il 400 a.C. probabilmente di morte violenta.
Valerio
Massimo
(I secolo d.C. - Età di Tiberio) Non sappiamo quando e dove sia
nato questo retore, che era cliente del console del 14 d.C., Sesto Pompeo, e
che Valerio seguì nel 27 quando Sesto fu nominato proconsole in Asia. Nel 32,
dopo la caduta del prefetto di Tiberio, Seiano, completò la sua opera,
dedicandola al principe. Valerio Massimo è autore di una raccolta di aneddoti
storici, Factorum et dictorum memorabilium libri, in 9 libri. L'opera è una
raccolta di exempla storici, diretta alle scuole, divisa per argomenti, al
cui interno si ha una sotto-divisione in exempla stranieri e
(quantitativamente di più) romani, che sono attinti non tanto ai grandi
storici greci, quanto a Cicerone, Sallustio e Livio. I temi sono
disparati: I. Religione; II. Rispetto delle istituzioni; III. Coraggio,
forza, pazienza; IV. Misericordia, sobrietà, amore coniugale, amicizia;
V. Clemenza, riconoscenza, amore filiale; VI. Castità, giustizia; VII.
Fortuna; VIII. Processi e otium; IX. Vizi. Secondo quello che l'autore
afferma nella prefazione, si tratta di un manuale diretto a chi vuole citare
gesta o sentenze riguardanti un determinato argomento: è dunque un manuale ad
uso dei retori e dei declamatori delle scuole, costruito con uno stile
ampolloso e pretenzioso. Tuttavia Valerio nasconde questa vacuità retorica
sotto il pretesto etico dell'esaltazione della virtù, che ovviamente si
rivela in Tiberio e ha il suo contrario in Seiano, insigne esempio di
ingratitudine punita. Ragion per cui Valerio non può essere definito uno
storico, quanto un retore che testimonia il progressivo sbriciolamento della
storiografia in aneddotica e pettegolezzo, senza più la necessaria
comprensione delle causalità degli eventi. Per il suo carattere
moraleggiante, l'opera ebbe molta fortuna nel Medioevo, circolando anche in
due riassunti, quello di Giulio Paride e uno (mutilo) di Nepoziano, ambedue
del IV-V secolo d.C.
Varrone Marco Terenzio
(Reate, oggi Rieti, in
Sabina, nel 116 - 27 a.C.) Autore longevo. L'elemento più significativo della
vita di Varrone è sicuramente la sua longevità, che lo mette in condizione di
assistere agli eventi che vanno dal comparire di Mario sulla scena politica
all'ascesa di Augusto. Fra tradizione e modernità. Studiò a Roma e ad Atene.
Difensore della tradizione (secondo, potremmo dire, quasi il dettato genetico
della sua origine sabina), si schierò dalla parte di Pompeo, ricoprendo la
carica di tribuno della plebe e, in seguito, quella di pretore, senza
peraltro proseguire e concludere il suo "cursus honorum". Cesare gli perdonò
e gli affidò addirittura la biblioteca pubblica che intendeva instaurare in
Roma: la scelta proprio di Varrone potrebbe spiegare la valenza politica del
progetto cesariano: il mondo nuovo che dittatore sta realizzando si preoccupa
di mantenere la memoria del passato per trasmetterla ai posteri. Pare,
infine, che Varrone sia stato anche consigliere di Augusto per le questioni
religiose.
Vitruvio Pollione
(sec. I a.C.) Identificato con
l'ufficiale cesariano Mamurra, architetto, scrisse il "De architectura"
(25-23 a.C.), un trattato in 10 libri, dedicato ad Augusto e riconducibile
alla sua politica d'abbellimento architettonico di Roma. L'opera, in parte
compilatoria e in parte originale (7 libri di architettura, 1 di idraulica e
2 di gnomica e meccanica), per il suo scopo e per il suo contenuto (ricco di
elementi di varia natura, tratti da discipline disparate: aritmetica,
geometria, disegno, musica, prosodia, astronomia, ottica, medicina,
giurisprudenza, storia, filosofia), è un unicum nel suo genere.
L'architettura è vista, in senso aristotelico, come "mimesis" dell'ordine
provvidenziale della natura: perciò si richiede all' architetto una cultura
ricca e varia, enciclopedica (quasi quella dell' oratore ciceroniano), che
faccia perno sulla filosofia. Etruscologia
La rassegna retrospettiva
che qui s'intende presentare per grandi linee richiama i dati essenziali
relativi agli avvenimenti, alle persone e alle opere che costituiscono la
trama del graduale recupero delle conoscenze sull'Etruria antica e
dell'approccio moderno alla sua comprensione. A tal proposito non sembra
difficile individuare e distinguere: 1) una «preistoria» erudita che va fino
al Settecento, 2) un periodo di estese e positive acquisizioni scientifiche
che abbraccia gran parte dell'Ottocento e infine 3) uno stadio di più estesa
ricerca e di più compiuta elaborazione storico-critica soprattutto nel corso
del nostro secolo. Anche se la memoria degli antichi Tusci era riaffiorata
talvolta non senza qualche punta di orgoglio nelle cronache toscane del tardo
medioevo e nella letteratura umanistica, fu senza dubbio il generale
risveglio d'interesse per i monumenti antichi e per le scoperte di antichità
che portò la cultura del Rinascimento ad un primo incontro con le
testimonianze del mondo etrusco in quanto fenomeno più o meno chiaramente
distinguibile, e progressivamente distinto, nell'ambito della risorgente
classicità. Rinvenimenti sporadici di tombe e di iscrizioni osservati con
crescente curiosità alimentarono tra gli ultimi decenni del XV e i primi del
XVI secolo gli scritti pieni di ricostruzioni fantastiche di Annio da Viterbo
e le opere di altri eruditi come Sigismondo Tizio a Siena. Da Leon Battista
Alberti a Giorgio Vasari si avviò una iniziale teorizzazione
dell'architettura e dell'arte figurativa etrusca (particolarmente importante,
a metà del Cinquecento, fu la scoperta della Chimera d' Arezzo). Il
richiamo dell'Etruria antica si spostò nel corso del XVI secolo dalla Tuscia
papale alla Toscana, e in Toscana trovò il suo ambiente più propizio non
soltanto a livello di interessi culturali, ma anche per una certa rispondenza
al programma politico del principato mediceo, culminando poi nel Settecento
in quel vivacissimo movimento di ricerche (scavi a Volterra, Cortona, ecc.) e
di studi antiquari che prese il nome di etruscheria. L'entusiasmo dei dotti
locali portati a sopravalutare le antiche glorie della loro patria toscana
contribuì a diffondere la conoscenza dei monumenti etruschi e a favorire la
esaltazione, sovente esagerata, degli Etruschi fra gli altri popoli del mondo
antico. Come il XVI era stato il secolo della riscoperta di Roma e il XIX
sarà il secolo della scoperta della Grecia, così il XVIII può
considerarsi senz'altro il secolo della scoperta dell'Etruria. È pur vero che
il primo tentativo di sintesi sulle conoscenze lasciate dal mondo
antico relativamente all'Etruria risale all'opera De Etruria regali dello
scozzese Th. Dempster, scritta fra il 1616 e il 1619; ma è anche vero che
questa fu pubblicata e valorizzata soltanto nella prima metà del Settecento e
che ad essa fecero eco le opere di F. Buonarroti, di O. H. Passeri, di S.
Maffei, di A. F. Oori, di M. Guarnacci. Sin dal 1726 era stata fondata
l'Accademia Etrusca di Cortona, che divenne il centro principale di questa
attività erudita, riflessa anche nei volumi delle sue Dissertazioni,
pubblicati fra il 1735 e il 1795. Fuori d'Italia va ricordata l'opera del
grande antiquario francese A. C. Ph. De Caylus. Più che per il valore delle
congetture e delle conclusioni, sovente arbitrarie e fantastiche, e per la
natura del procedimento critico, la etruscheria settecentesca va
giudicata positivamente per la passione e per la diligenza delle ricerche e
della raccolta del materiale archeologico e dei monumenti, che talvolta
conserva tuttora un certo valore.
L'attività etruscologica del
Settecento culmina nella pubblicazione del Saggio di lingua etrusca e di
altre d'Italia di L. Lanzi: una piccola «summa» delle cognizioni
sull'Etruria, non soltanto nel campo della epigrafia e della lingua, ma anche
in quello della storia, dell'archeologia e della storia dell'arte. Il Lanzi
appare già alla soglia di una fase di cognizioni più vaste e di metodo più
sicuro, come è provato da molte sue affermazioni nel campo
epigrafico-linguistico e dalla reazione alle esagerazioni dell'etruscheria,
per esempio nella giusta attribuzione alla Grecia dei vasi dipinti fino
allora detti etruschi, e più generalmente nel concetto di una preminente
influenza greca sullo sviluppo dell'arte etrusca, della quale è tracciata una
prima embrionale ma apprezzabile periodizzazione; nel solco del Lanzi si
svilupperà l'attività degli epigrafisti italiani dell'Ottocento come O. H.
Vermiglioli. F. Orioli. M. A. Migliarini e lo stesso A. Fabretti. Possiamo in
sostanza affermare che quello studioso sia stato per molti aspetti, e
soprattutto per la convergente molteplicità dei suoi interessi, il vero
fondatore dell'etruscologia moderna. Occorre invece tener presente che una
certa sopravvivenza delle idee settecentesche, non solo per quel che riguarda
l'Etruria, ma anche nel senso dell'esaltazione degli antichi popoli italici
con più o meno accentuate sfumature antiromane (Maffei, Guarnacci, O. Lami,
C. O. M. Denina e altri), si manifesterà ancora negli scritti di archeologi,
storici e saggisti della prima metà del secolo XIX, trasferendosi
dall'illuminismo allo spirito romantico e perfino venandosi di spunti
nazionalistici nel quadro del movimento del Risorgimento italiano.
L'espressione più significativa di queste correnti è rappresentata dall'opera
di O. Micali, che, a torto sottovalutata, emerge per acutezza di
osservazioni, capacità di sintesi e apertura ai nuovi orientamenti delle
scienze storiche. Si andavano ormai del resto universalmente diffondendo i
riflessi di un rapido e straordinario progresso delle scoperte e degli
studi. Il nuovo secolo si era iniziato infatti con una intensissima
esplorazione soprattutto delle necropoli dell'Etruria meridionale e con una
serie di scoperte di valore decisivo a Tarquinia, a Vulci, a Cerveteri, a
Perugia, a Chiusi e in altre località. Alla iniziale attività formativa di
collezioni a Cortona e a Volterra, che aveva caratterizzato il Settecento si
contrappone ora lo sviluppo delle raccolte di materiali etruschi nel Museo
granducale di Firenze, nel Museo Etrusco Gregoriano a Roma, nel Museo
etrusco-romano di Perugia; mentre, come risultato immediato degli scavi, si
formano le ingenti collezioni private di Luciano Bonaparte, principe di
Canino, e del banchiere O. P. Campana, destinate ad emigrare in gran parte
fuori d'Italia e a costituire i nuclei delle collezioni etrusche del Museo
del Louvre a Parigi, del Museo Britannico a Londra e di molti altri grandi
musei europei. Nel frattempo, tra la fine del XVIII e l'inizio del XIX, si
era determinato quel grandioso processo di rinnovamento degli studi sulle
antichità classiche in generale che, iniziato da J. J. Winckel-Mann e
continuato da E. Q. Visconti, C. Fea, L. Canina, E. Gerhard, K. Q. Moller,
accoglieva nuovi impulsi dal contatto diretto del mondo occidentale con i
monumenti originali della Grecia e non di rado investiva direttamente, per
l'interesse personale di alcuni dei suoi protagonisti, anche il mondo
etrusco. Nello stesso periodo la linguistica generale comparata usciva con F.
Schlegel e F. Bopp dalle nebbie dell'erudizione prescientifica e si
concretava nella definizione e nella dimostrazione dell'unità linguistica
indoeuropea. In seguito a questi avvenimenti e nell'ambito di questi generali
sviluppi degli studi la conoscenza delle antichità etrusche passa decisamente
dalla fase settecentesca a quella ottocentesca del metodo storico,
archeologico e filologico. Un primo fattore essenziale di progresso è
costituito dalla fondazione dell'Instituto di Corrispondenza Archeologica,
nato a Roma nel 1829 per iniziativa del Oerhard e di un gruppo di studiosi e
di amatori nordici, i cosiddetti «Iperborei»: per diversi decenni le ricerche
e le scoperte d'Etruria saranno illustrate nel Bullettino, negli Annali e
nei Monumenti dell'Instituto. Lo studio della topografia e dei monumenti
si afferma attraverso una serie di indagini e di pubblicazioni di
viaggiatori, di archeologi e di architetti, come W. Gell, il Canina (Antica
Etruria marittima, 1846- 1851), O. Dennis (The Cities and Cemeteries of
Etruria, London, 1848, con successive edizioni fino al 1883). Particolarmente
famoso è stato, per la diffusione delle cognizioni sull'Etruria nel mondo
della cultura in generale, il libro del Dennis. Si continuano intanto a
pubblicare raccolte sistematiche di monumenti, opere d'arte ed oggetti di
scavo e cataloghi come quello del Museo Etrusco Gregoriano. Ma si iniziano
anche raccolte specializzate per singole classi di oggetti, veri e propri
«corpora»: di vasi specchi, poi urne. Non mancano relazioni di scavi talvolta
anche accurati, nella misura in cui le operazioni di ricerca sul terreno
ancora spesso concepite e condotte come recupero selettivo di materiali, se
non addirittura come rapina, tendono a finalità più decisamente conoscitive
sotto il controllo degli studiosi. L 'interesse per le opere figurate va
perdendo il carattere di curiosità soprattutto rivolta alle speculazioni
mitologiche, care agli eruditi del Settecento; ma resta ancora
prevalentemente confinato nello studio dei soggetti e alla derivazione e al
confronto delle immagini, cioè all'iconografia. Il confronto con l'arte greca
porta di regola ad un giudizio negativo nei riguardi della produzione etrusca
considerata in gran parte un artigianato d'imitazione: tale posizione sarà
teorizzata in modo esplicito nel primo tentativo di sintesi sull'arte degli
antichi Etruschi che appare soltanto verso la fine del secolo con l'opera di
Martha, L 'art etrusque (Paris, 1889). Il periodo del quale ci occupiamo è
particolarmente fecondo nel campo degli studi epigrafici. L'attività degli
studiosi italiani, epigoni del Lanzi, ai quali abbiamo già fatto cenno,
culmina nella pubblicazione del monumentale Corpus lnscriptionum ltalicarum,
con un Glossarium ltalicum, del Fabretti (1867). Nell'ultimo trentennio del
secolo gli studi sulla lingua etrusca prendono un deciso orientamento
critico. Si distinguono in essi, tra gli altri, W. Corssen, W. Deecke, C.
Pauli, S. Bugge, O. Herbig, E. Lattes: le questioni dominanti sono quelle dei
metodi di interpretazione e della appartenenza o meno dell'etrusco al gruppo
delle lingue indoeuropee.
In questo stesso momento s'imposta anche il
problema dell' origine degli Etruschi, non più soltanto sulla base delle
fonti letterarie antiche e delle congetture linguistiche, ma anche in
rapporto alle nuove scoperte sulle fasi primitive della civiltà dell'Eruria e
dell'Emilia (nel 1856 venivano in luce le prime tombe a cremazione di
Villanova presso Bologna) e agli sviluppi generali delle conoscenze sulla
preistoria italiana: partecipano a queste ricerche e a questi dibattiti, tra
gli altri, W. Helbig, I. Undset, L. Pigorini, E. Brizio. Occorre infine
ricordare un'opera complessiva che ebbe, ed ha tuttora. fondamentale
importanza come quadro di cognizioni complessive essenzialmente fondate sulla
raccolta, la rielaborazione e l'interpretazione dei dati della tradizione
greco-romana sul mondo etrusco: cioè il libro di K. Q. Moller, Die Etrusker
(1828). Il terzo e più avanzato periodo della storia degli studi
etruscologici ha come premessa l'intensificarsi di ricerche archeologiche
sistematiche e controllate che si manifesta già a partire dagli ultimi
decenni del XIX secolo soprattutto per l'intervento di organi responsabili
ufficiali dopo l'unità italiana. Si scava nelle necropoli di Tarquinia, di
Vetulonia, di Narce, di Bologna; si arricchiscono e si consolidano le
conoscenze sulle fasi più antiche dell'Etruria, cioè il villanoviano, che
appare ora diffuso, oltre che in Emilia, anche nei territori etruschi
tirrenici, e l'orientalizzante; si rivela il singolare abitato a pianta
regolare di Marzabotto; si esplorano i resti dei templii di Marzabotto, di
Falerii, di Orvieto con le loro decorazioni architettoniche. Via via nel
corso del secolo attuale fino agli ultimi decenni si intraprenderanno nuove
regolari indagini nei centri maggiori, a Caere, Veio, Tarquinia, Populonia,
Roselle, e altrove; infine nelle località litoranee e portuali di Spina
sull' Adriatico e di Pyrgi e Graviscae sul Tirreno, e in centri minori
arcaici dell'interno come Acquarossa presso Ferento nel Viterbese e Poggio
Civitate presso Murlo in provincia di Siena, per non citare che le imprese
più significative, in parte ancora in corso: ovunque con risultati che
hanno profondamente cambiato, se non addirittura rivoluzionato, il quadro
delle nozioni ottocentesche sulla civiltà etrusca. Naturalmente anche in
questo settore, come generalmente nell'archeologia moderna operante sul
terreno, gli scavi sono condotti con sempre maggiore scrupolo di
controlli scientifici tali da offrire il maggior numero possibile di
osservazioni e di dati, dai rilevamenti stratigrafici ai più avanzati e
raffinati metodi tecnologici (fotografia aerea, prospezioni chimiche,
fisiche, elettromagnetiche del sottosuolo ecc.). Hanno concorso e concorrono
a queste attività, oltre gli uffici statali cioè le Soprintendenze
archeologiche dell'Etruria Meridionale, della Toscana, dell'Umbria,
dell'Emilia, anche istituti scientifici italiani e missioni straniere. Si
aggiungano alle scoperte nel territorio etrusco quelle non meno importanti,
e collateralmente rivelatrici, del Lazio, della Campania, dell'Umbria,
del Piceno, dell'ltalia settentrionale. L 'indagine non è chiusa in se stessa
e il mondo che viene in luce appare sempre più significativamente
inquadrato ed interpretabile nella visione dello sviluppo della civiltà
antica in generale, così per quanto riguarda l'ltalia come per i suoi
rapporti con le aree circostanti, con la Grecia e con l'Oriente. Nascono
ora, anche come conseguenza dei nuovi scavi, i grandi musei pubblici italiani
con prevalente impronta di collezioni etruscologiche, a Firenze, a Roma (il
Museo Nazionale di Villa Giulia), a Tarquinia, a Chiusi, a Perugia, a
Bologna, poi a Ferrara (Museo di Spina), e le importanti raccolte locali di
Orvieto, Fiesole, Arezzo, Siena, Grosseto, Marzabotto, ecc., affiancandosi
all'incremento di vecchi musei come il Gregoriano Etrusco del Vaticano o il
museo dell' Accademia Etrusca di Cortona; mentre specialmente tra la fine del
secolo passato e il principio del nostro secolo si sono considerevolmente
arricchiti di materiali etruschi i musei stranieri d'Europa e d'
America. È proseguita intanto la pubblicazione di repertori generali o di
singole classi di monumenti: per il materiale della fase più antica della
civiltà etrusca la raccolta di tavole a disegno de La civilisation primitive
en Italie (1896-1904) di O. Montelius; per la pittura i fascicoli dei
Monumenti della pittura antica in Italia riguardanti le tombe etrusche di
Tarquinia e di Chiusi (dal 1937); per le terrecotte architettoniche la
raccolta di A. Andren, Architectural Terracottasfrom Etrusco-ltalic Temples
(1939-1940); per i sarcofagi il «corpus» di R. Herbig, Die
Ungeretruskischen Steinsarkophage (1952); per la ceramica dipinta l'opera di
D. Beazley, Etruscan Vase-Painting (1947). Parallelamente allo sviluppo
delle esplorazioni la descrizione dei luoghi e la considerazione topografica
delle città e del territorio, nel solco già aperto dal Canina e dal
Dennis, vengono assumendo in questo periodo caratteri più decisamente
critici: possiamo citare in proposito la parte dedicata all'Etruria nella
ltalische Landeskunde (1883-1902) di H. Nissen e, più specificamente ed
estesamente, la Topografia storica dell'Etruria in quattro volumi (1915-1920)
di A. Solari. Ma caratteristica soprattutto è la tendenza ad
affrontare monograficamente lo studio di singoli centri considerati in tutti
i loro diversi aspetti archeologici e storici: ciò che è stato fatto per
Bologna (A. Orenier, P. Ducati), Chiusi (R. Bianchi Bandinelli), Cortona (A.
Neppi Modona), Populonia (A. Minto), Sovana (Bianchi Bandinelli), Vulci
(F. Messerschmidt), Tarquinia (M. Pallottino), Capua (Heurgon), e così
via. Molte delle opere generali sugli Etruschi pubblicate negli ultimi
decenni danno del resto largo spazio alla trattazione descrittiva delle
città etrusche. All'indagine topografica si ricollegano i problemi di
storia dell'architettura, con particolare riguardo alle origini,
alle caratteristiche e allo sviluppo del tempio etrusco e della sua
decorazione, e sia pure in misura minore agli edifici civili e alla casa;
nonchè gli studi di urbanistica greca e italica che hanno investito
largamente anche il mondo etrusco (F. Castagnoli, O. A. Mansuelli, R.
Martin). L'approfondimento critico dei fenomeni dell'arte figurativa trova a
sua volta un duplice incentivo da un lato nelle nuove scoperte, specialmente
quella dell' Apollo di Veio avvenuta nel 1916; da un altro lato nelle
generali tendenze «esterne» della critica contemporanea verso il superamento
del classicismo e dell'accademismo e verso la comprensione e rivalutazione
delle culture artistiche estranee alla classicità, incluse quelle provinciali
e tardo-antiche (A. Riegl): donde partì una più o meno esplosiva
affermazione dell'originalità e della positività dell' «arte etrusca» o dell'
«arte italica» rispetto all'arte greca; ciò che è stato poi in
parte ridimensionato o riportato sul piano di più rigorose valutazioni
storiche. Non può trascurarsi la segnalazione di grosse raccolte
illustrative generali, tuttora utili anche se ormai prive di aggiornamento,
come la Storia dell'arte etrusca di Ducati (1927). I progressi dei
rinvenimenti e degli studi nel campo della preistoria e della protostoria
dell'Etruria e dell'ltalia in genere hanno portato soprattutto, nel corso del
secolo attuale, a basilari tentativi di sistemazione cronologica, sia in
senso relativo come individuazione di successione delle fasi culturali
dell'età del bronzo e dell'età del ferro, sia in senso assoluto come ricerca
di date sulla base dei confronti con materiali d'importazione o d'imitazione
di oggetti delle più o meno bene inquadrate civiltà del Mediterraneo
orientale, da ultimo anche con l'ausilio dei nuovi metodi scientifici di
datazione, segnatamente dei computi con il radiocarbonio (da O. Montelius, O.
Karo, A N. Aberg, A . Akerstrom, O. Von Merhart, H. Moller-Karpe, R. Peroni,
oltre chi scrive e molti altri). Ovviamente le novità archeologiche
continuamente insorgenti non solo in Etruria, ma anche nel resto dell'area
italiana e in tutto il Mediterraneo hanno concorso a dare più precisi
connotati e termini via via meno rigidi alla polemica sulle origini etrusche
iniziata nell'Ottocento ed ora affrontata in specifiche opere monografiche
(L. Pareti, F. Schachermeyr, Ducati, Pallottino, F. Altheim, H.
Hencken). Il compito degli storici, oltre che sul problema delle origini,
sembra concentrarsi con accresciuta attenzione su quello delle
istituzioni politiche, amministrative e religiose delle città etrusche, anche
in rapporto con gli analoghi fatti e sviluppi di Roma e del mondo italico.
Non sono mancate indagini sulle forme della vita, sui costumi, sull'economia
e sull'organizzazione sociale, quale emerge anche
dall'analisi dell'abbondantissimo materiale onomastico offerto dalle
iscrizioni funerarie. Si aggiungano vecchi e nuovi interessi portati
specificamente sul tema della religione, della divinazione, dei culti. Infine
gli studi epigrafici e linguistici hanno trovato nuovo alimento nella
individuazione e nella scoperta di testi di fondamentale importanza (alla
fine del XIX secolo il manoscritto su tela di Zagabria e la tegola di Capua,
i più lunghi tra quelli finora conosciuti; recentemente le lamine d'oro di
Pyrgi con una «bilingue» etrusco-fenicia) e nel generale incessante
incremento del materiale, la cui pubblicazione sistematica, in sostituzione
delle precedenti raccolte. Per tutto il corso del nostro secolo si
sono moltiplicate, con risultati rilevantissimi e talvolta determinanti,
le indagini epigrafiche, interpretative, grammaticali, ad opera di una
lunga schiera di studiosi. Un momento di particolare importanza per
l'etruscologia fu quello degli anni tra il 1920 e il 1930 quando, anche a
seguito delle scoperte archeologiche cui si è fatto cenno, segnatamente di
Veio, si accese improvvisamente nel mondo degli studi e della cultura un
vivacissimo interesse per l'arte e per la civiltà dell'Etruria antica e, ciò
che più conta, si manifestò una simultaneità e convergenza senza precedenti
nell'affrontare e discutere i problemi più scottanti, non soltanto dell'arte,
ma anche dell'origine, della lingua, della religione e della società etrusca.
Firenze diventa il centro principale di questo movimento al quale partecipano
studiosi italiani e stranieri; si susseguono un Convegno Nazionale (1926) e
il I Congresso Internazionale Etrusco (1928); nasce il Comitato Permanente
per l'Etruria (1927) e poco dopo (1932) sarà fondato l'Istituto di Studi
Etruschi ed Italici, massimo organo promotore e coordinatore degli studi
etruscologici anche a livello internazionale; dal 1927 si pubblica la serie
dei volumi annuali della rivista Studi Etruschi. La suggestione del mondo
etrusco non manca di riflettersi negli stessi anni sulla cultura e sulla
letteratura europea. Successivamente, e soprattutto dopo la seconda guerra
mondiale, le prospettive di attività, di cooperazione e di organizzazione del
lavoro così clamorosamente aperte hanno avuto ulteriori verifiche ed
ampliamenti con un ritmo che si è accelerato negli ultimi tempi: oltre
l'intensificarsi dei contributi individuali, vi hanno concorso gli incontri
scientifici, specialmente i convegni periodici promossi dall'Istituto di
studi Etruschi ed Italici; le rassegne documentarie a partire dalla grande
mostra «Arte e civiltà degli Etruschi» presentata in varie città d'Europa nel
1955 e 1956; gli scavi con risultati spesso imprevisti, le analisi
tecnologiche e i restauri di vecchi e nuovi materiali; lo sviluppo di
insegnamenti specifici di etruscologia nelle Università italiane; le
iniziative fiorite, oltre che a Firenze, a Roma intorno alla cattedra
etruscologica dell' Ateneo romano, al Centro di studio del Consiglio
Nazionale delle Ricerche per l'archeologia etrusco-italica e ad altre
istituzioni italiane e straniere; infine il formarsi di tradizioni di studi
etruscologici anche all'estero, specialmente in Francia, in Belgio, in
Olanda, in Germania, in Svezia. Alla informazione e alla divulgazione
concorre il diffondersi di opere generali sulla civiltà degli Etruschi, che,
dopo il pressochè unico esempio ottocentesco del citato Moller e Deecke,
accompagna il risveglio degli studi etruscologici con i libri del Ducati
(L'Etruria antica, 1927), di B. Nogara (Gli Etruschi e la loro civiltà,
1933), di M. Renaro (lnitiation à l'etruscologie, 1941) e la prima edizione
del presente volume (1942), cui seguiranno pubblicazioni di sintesi e
d'impostazione sempre più numerose soprattutto negli ultimi anni (tra le più
note quelle di R. Bloch, O. W. Von Vacano, L. Banti, E. Richaroson, H. H.
Scullaro), nonchè miscellanee (Historia, VI, 1957: Tyrrhenica, 1957; Etudes
etrusco-italiques, 1963). Questa letteratura rispecchia panoramicamente non
soltanto il progresso delle conoscenze, ma anche l'aprirsi di nuove
prospettive di metodo e d'interpretazione storica, delle quali si dirà più
avanti. Introduzione Il fondatore della questione etrusca è Dionisio
D'Alicarnasso, storico greco di età augustea, che dedica cinque capitoli
(26-30) del primo libro delle sue Antichità romane all'esame di questo
argomento, confutando - con i mezzi critici a sua disposizione - le teorie
che identificavano gli Etruschi con i Pelasgi o i Lidi e dichiarandosi
favorevole all'ipotesi che fossero un popolo «non venuto di fuori ma
autoctono», il cui nome indigeno sarebbe stato Rasenna. Scrive lo storico:
Dopo che i pelasgi ebbero lasciato la regione, le loro città furono occupate
dai popoli che vivevano nelle immediate vicinanze, ma principalmente dai
tirreni, che si impadronirono della maggior parte di esse, e delle
migliori.Sono convinto che i pelasgi fossero un popolo diverso dai tirreni. E
non credo nemmeno che i tirreni fossero coloni lidii, poiché non parlano la
lingua dei primi..Perciò sono probabilmente più vicini al vero coloro che
affermano che la nazione etrusca non proviene da nessun luogo, ma che è
invece originaria del paese.(Dionisio di Alicarnasso (Antichità Romane) I
sec. a.C.)
Prima di lui le opinioni sulle origini etrusche non avevano
avuto, a quanto sembra, carattere di meditata discussione; ma, come la
maggior parte delle notizie antiche sulle origini di popoli e città del mondo
greco ed italico, erano ai confini tra la storia e il mito, giovandosi al più
- nel senso di una giustificazione critica - di accostamenti etimologici ed
onomastici. Come le origini di Roma e dei Latini erano riportate ai Troiani
attraverso le migrazioni di Enea, così per i Tirreni, cioè per gli Etruschi,
si era parlato di una provenienza orientale, dalla Lidia in Asia Minore,
attraverso una migrazione transmarina, guidata da Tirreno figlio di Ati re di
Lidia, nel territorio italico degli Umbri (racconto di Erodoto, l, 94) o di
una loro identificazione con il misterioso popolo nomade dei Pelasgi
(Ellanico di Lesbo in Dionisio, I, 28), ovvero anche di una immigrazione di
Tirreno con i Pelasgi che avevano già colonizzato le isole egee di Lemno e di
Imbro (Anticlide in Strabone, V, 2, 4); si aggiungano minori varianti
o rielaborazioni di questi racconti su cui non vale la pena di
soffermarci. Scrive Erotodo: Sotto il regno di Atis, figlio di Manes, tutta
la Lidia sarebbe stata afflitta da una grave carestia. Per diciotto anni
vissero in questo modo. Ma il male, lungi dal cessare, si aggravava sempre
più. Allora il re divise il suo popolo in due gruppi: quello estratto a sorte
sarebbe rimasto, l'altro avrebbe cercato fortuna altrove. Alla testa dei
partenti pose suo figlio, chiamato Tirreno. Dopo aver costeggiato molte coste
e aver visitato molti popoli giunsero nel paese degli umbri e vi costruirono
varie città in cui tuttora abitano. Ma mutarono il nome di lidii in un
altro, tratto dal figlio del re che li aveva guidati: prendendo il suo stesso
nome si chiamarono tirreni. (Erodoto (Storie I, 94) V sec.
a.C.)
L'origine lidia degli Etruschi entrò senza difficoltà tra i luoghi
comuni della letteratura classica: Virgilio dice indifferentemente Lidi
per Etruschi. Ne mancava, a detta dello stesso Dionisio d' Alicarnasso,
chi sospettasse una loro origine indigena d'Italia. Ma soltanto
Dionisio raccolse le diverse opinioni, le discusse e cercò di dimostrare la
propria - cioè quella dell'autoctonia - sulla base dell'estrema antichità del
popolo etrusco e del suo isolamento culturale e linguistico tra le varie
genti a lui note. In epoca moderna il problema è stato ripreso dapprima
soltanto sulla base dei testi classici, più tardi anche con il concorso dei
dati archeologici e linguistici. La prima fase della discussione fu condotta,
tra l'inizio del XVIII e la prima metà del XIX secolo, da N. Freret , B.G.
Niebuhr e K.O. Moller, i quali, richiamandosi alla posizione «critica» di
Dionisio d' Alicarnasso, si pronunciarono, sia pure con diversa
accentuazione, contro la tradizione erodotea della provenienza degli Etruschi
dall'Asia Minore (si arrivò perfino ad accostare il nome Rasenna con quello
dei Raeti delle Alpi) . Di fatto noi riconosciamo l'esistenza di una civiltà
etrusca -etnicamente definita dalle iscrizioni in lingua etrusca che
cominciano ad apparire nel VII secolo a.C. e durano fino al principio
dell'età imperiale romana - diffusa nell'Etruria propria (Lazio
settentrionale e Toscana), in Campania e nella parte orientale della valle
del Po. La fase più antica di questa civiltà storica (e sicuramente etrusca),
caratterizzata da un intenso afflusso di elementi orientali e detta perciò
orientalezzante, si riattacca immediatamente alla cultura del ferro
villanoviana. Dal punto di vista del rito funebre si osserva in Etruria un
predominio esclusivo dell'inumazione di età preistorica (con le culture
eneolitica e del bronzo); poi l'apparire della incinerazione con i
sepolcreti «protovillanoviani» ed una sua netta prevalenza nel villanoviano
più antico; un riaffermarsi dell'inumazione nell'Etruria meridionale e
marittima durante il villanoviano evoluto e l'orientalizzante; infine un uso
promiscuo dei due riti - con prevalenza dell'inumazione nel sud,
dell'incinerazione nel nord - per tutta la successiva durata della civiltà
etrusca. Giova ricordare che anche in Roma repubblicana i due riti funebri
erano paralleli e legati a tradizioni familiari (ma alla forte prevalenza
dell'incinerazione sul finire della repubblica e nel primo secolo dell'Impero
succederà il generalizzarsi dell'inumazione a partire dal II secolo d.C.,
senza che ciò corrisponda a trasformazioni di carattere etnico). Sulla
base dei dati offerti dalle tradizioni letterarie, dai confronti linguistici
e dall'interpretazione dei fatti archeologici sono state formulate,
dall'ultimo secolo, varie teorie relative alle origini del popolo etrusco.
Esse possono tuttavia riportarsi sostanzialmente a tre sistemi, di cui uno
riprende e sviluppa la tesi tradizionale antica della provenienza degli
Etruschi dall'oriente, l'altro continua la scuola di Niebuhr e del Moller nel
senso di una provenienza da settentrione, il terzo infine -più recente -
tenta di aderire in modo meno generico all'opinione di Dionisio d'Alicarnasso
sull'autoctonia degli Etruschi, ricercando le loro origini etniche nel
substrato antichissimo delle popolazioni preistoriche d'Italia, anteriori
alla diffusione delle lingue indoeuropee. Di queste tre tesi la più nota ed
universalmente accettata è quella dell'origine orientale. Essa è stata
particolarmente cara agli archeologi, italiani e stranieri, che in densa
schiera hanno dedicato i loro appassionati studi alle antichità dell'Italia
protostorica. Ad essi apparve soprattutto perspicua la coincidenza tra le
notizie delle fonti e il fenomeno culturale orientalizzante, manifestatosi a
partire dalle coste tirreniche tra l'VIII e il VI secolo a.C., come un
improvviso avvento di progresso esotico in contrasto con le forme
apparentemente arretrate della precedente cultura villanoviana; si sottolineò
anche il capovolgimento del rito funebre dall'incinerazione
all'inumazione. Edoardo Brizio (nel 1885) fu il primo ad impostare
scientificamente questa tesi, identificando gli invasori etruschi con i
portatori della civiltà orientalizzante (poi ellenizzante) in Toscana e in
Emilia, e identificando gli Umbri della tradizione erodotea - intesi come
ltalici indoeuropei - nei preesistenti incineratori villanoviani. Dopo di
lui sono stati tenaci assertori dello stesso punto di vista, tra gli altri,
A. Piganiol, R. Bloch. La tesi orientale ha trovato e trova larghissimo
credito non soltanto fra gli etruscologi, ma anche in generale fra i
classicisti e studiosi delle civiltà antiche non strettamente specializzati
negli studi etruscologici, attratti dall'autorità della tradizione, dalla
facile spiegazione di alcune caratteristiche «orientali» della civiltà
etrusca, dalle notevoli concordanze onomastiche tra l'etrusco e le lingue
dell' Asia Minore (rilevate da O. Herbigs) e dall'ancor più evidente rapporto
linguistico dell'etrusco con l'idioma preellenico di Lemno. Tuttavia non sono
mancate varianti ed attenuazioni della classica impostazione del
Brizio, specialmente in conseguenza di una più approfondita considerazione
delle fonti antiche e dei dati archeologici: così vi fu chi suppose un
arrivo degli Etruschi dal mare, ma attraverso l'Adriatico e non il Tirreno,
sulla scia della tradizione dei Pelasgi (E. Pottier); chi immaginò
un'invasione in più ondate, a partire dal 1000 a.C.. Ancora più di
recente, l'origine stessa delle culture del ferro dette «tirreno-arcaiche»
sia con inumazione sia con cremazione (praticamente il villanoviano) è stata
attribuita ad un'ondata egea, entro la quale si collocherebbe l'avvento degli
antenati degli Etruschi storici da Lemno e da Imbro; o addirittura si è fatta
risalire l'immigrazione dei Tirreno-Pelasgi in Italia alla tarda età del
bronzo. Queste connessioni preistoriche e protostoriche con l'oriente
sarebbero confermate dalla più volte proposta identificazione dei Tyrsenoi
con i Trs. nominati dai geroglifici egiziani: vale a dire con uno dei «popoli
del mare» che tentarono l'invasione dell'Egitto sotto i faraoni Merneptah e
Ramses III (tra il 1230 e il 1170 a.C.). Infine, di fronte all'affermarsi
del concetto di una formazione storica degli Etruschi da più elementi (come
si dirà più avanti), l'apporto orientale è stato ultimamente riproposto in
forma più cauta e limitata, come un fattore di sollecitazione dovuto
all'avvento di nuclei di navigatori asiatici od egei, simili ai Normanni del
medioevo, ma pur sempre determinante in quanto esso avrebbe imposto la lingua
etrusca in Italia. Su questa linea di ipotesi si muovono le idee di H.
Hencken circa successive penetrazioni all'inizio del villanoviano e
dell'orientalizzante, come l'attuale tendenza a collocare le connessioni
orientali in età più remota, cioè nella fase micenea o immediatamente
postmicenea secondo la tesi del Berard. La teoria dell'origine da
settentrione ebbe però il suo principale fondamento critico nelle scoperte e
nelle ipotesi archeologiche del secolo scorso, con particolare riguardo alla
ricostruzione pigoriniana, che già conosciamo, sulla discesa degli
incineratori delle terremare verso l'Italia peninsulare. Tra questi sarebbero
stati non soltanto gli Italici, ma anche gli Etruschi, tanto più che diversi
linguisti ritenevano che l'etrusco fosse una lingua indoeuropea e
italica. La teoria settentrionale sedusse alcuni archeologi - che però
passarono poi alla tesi della provenienza orientale - ma fu soprattutto
sostenuta da studiosi di storia antica. Tuttavia, dovendosi riconoscere una
profonda differenza etnica e linguistica fra Etruschi ed Italici, O. De
Sanctis giunse a rovesciare la teoria pigoriniana identificando gli Etruschi
con i crematori discesi dal nord e gl'Italici con le genti eneolitiche
già stanziate nella penisola. L. Pareti ha voluto riconoscere una più
antica ondata indoeuropea (quella dei «Protolatini») negli eneolitici;
un'ondata indoeuropea più recente (quella degli Italici orientali) nei
crematori «proto- villanoviani»; e infine il nucleo etnico del popolo etrusco
nei possessori della cultura villanoviana, derivata dalle terremare e
dalle palafitte dell'Italia settentrionale. Alla teoria della
provenienza settentrionale si ricollega, in sede linguistica, la ipotesi di
P. Kretschmer sulla pertinenza degli Etruschi ad un gruppo
etnico-linguistico «retotirrenico» o «reto-pelasgico» disceso dall'area
balcanico-danubiana verso la Grecia e verso l'Italia.
La terza tesi, o
dell'autoctonia fu quindi elaborata nel campo archeologico da U. Antonielli,
ma soprattutto sviluppata dalla scuola dei linguisti italiani tra cui O.
Devoto, il quale ultimo ne dette una formulazione organica già nella prima
edizione del suo libro Gli antichi ltalici (1931). Considerati i legami
intercorrenti tra l'etrusco e le lingue preindoeuropee del Mediterraneo, il
popolo etrusco non sarebbe giunto in Italia dopo gli Indoeuropei, ma
rappresenterebbe invece un relitto delle più antiche popolazioni
preindoeuropee, una specie di «isola» etnica, così come i Baschi dell'area
dei Pirenei rappresentano tuttora l'avanzo di primitive popolazioni ispaniche
rispetto alle attuali nazioni neolatine che li circondano. La toponomastica
sembra dimostrare infatti, come abbiamo visto nel precedente capitolo,
l'esistenza nella penisola di uno strato linguistico più antico dei dialetti
italici e piuttosto affine all'etrusco stesso e agli idiomi dell'Egeo
preellenico e dell' Asia Minore. Gli Etruschi sarebbero un concentrarsi verso
occidente - sotto la spinta degli invasori ltalici - di elementi etnici
appartenenti a questo strato: naturalmente con notevoli commistioni ed
influssi linguistici indoeuropei. Dal punto di vista archeologico, cioè
culturale, lo strato etnico più antico sarebbe da riconoscere negli inumatori
di età neoeneolitica e dell'età del bronzo ai quali si sarebbero sovrapposti
gli ltalici o Protoitalici incineratori (rappresentati in Etruria dalla
cultura villanoviana), dando luogo alla nazione etrusca storica come un
riaffermarsi degli elementi originari della stirpe sotto gl'impulsi culturali
provenienti dall' oriente. Questa tesi, sia pure con formulazione diversa nei
particolari, fu cara anche a paletnologi
«occidentalisti».
Analisi della teoria della provenienza
orientale
Le teorie sin qui esposte tentano di spiegare ciascuna a suo
modo i dati della tradizione, delle ricerche linguistiche, delle scoperte
archeologiche, per ricostruire lo svolgersi degli eventi che hanno portato
all'insediamento e allo sviluppo del popolo etrusco. Si tratta in realtà di
ingegnose combinazioni dei diversi elementi conosciuti; ma esse soddisfano
soltanto una parte delle esigenze che derivano da una piena valutazione
critica di tali elementi. Ciascuno dei tre sistemi e delle loro varianti
lascia qualcosa di inesplicato, urta contro fatti assodati: senza tuttavia
che questo torni a vantaggio delle altre ricostruzioni. Se ciò non fosse,
la discussione sarebbe stata da lungo tempo superata con un accordo di
massima tra gli studiosi, e la polemica tradizionale non sarebbe giunta ad un
punto morto. Consideriamo in primo luogo criticamente la tesi orientale.
Essa riposa sopra una presunta concordanza tra dati della tradizione - per
quanto essi convergono sulla provenienza degli Etruschi dall'oriente
egeo-anatolico, siano stati essi Lidi o Pelasgi o abitanti di Lemno - e dati
archeologici, cioè la constatazione di una fase culturale orientalizzante
nell'Italia centrale. Si aggiungano sul piano linguistico, come già detto, la
forti somiglianze tra l'etrusco e il lemnio, nonchè le supposte
connessioni dell'etrusco con idiomi dell'Asia Minore e perfino del Caucaso.
Ma innanzi tutto quale è il valore effettivo di ciascuno di questi elementi
posti a confronto, preso isolatamente? Sulle tradizioni relative a migrazioni
e a parentele etniche derivate dai poeti e dai logografi greci la
critica moderna è generalmente scettica o almeno estremamente prudente. Ciò
vale in primo luogo per i Pelasgi, popolo leggendario che i Greci
ritenevano originario della Tessaglia ed emigrato in età eroica per via di
mare in varie regioni dell'Egeo e perfino dell'ltalia, sulla base di
concordanze formali tra nomi di località tessale e località esistenti nei
paesi che si ritennero meta delle loro migrazioni. Così furono dette
pelasgiche tutte le zone nelle quali appariva il nome di città Laris(s)a
(dalla Larissa di Tessaglia) e cioè l'Attica, l'Argolide, l'Acaia, Creta,
Lesbo, la Troade, l'Eolide, l'Italia meridionale. Lo stesso si dica per i
nomi affini a quello della città di Gyrton nella Tessaglia, come Gortyna in
Macedonia, in Arcadia e in Creta, Kyrton in Beozia, Crotone nell'ltalia
meridionale, Cortona in Etruria. Va però tenuto presente che in età storica
si consideravano di origine pelasgica popolazioni non greche effettivamente
esistenti al margine del mondo greco, quasi avanzi di quella antica
emigrazione, come gli abitatori delle isole di Lemno e di 1mbro e
dell'Ellesponto nell'Egeo settentrionale; e ciò fu immaginato probabilmente -
in direzione opposta, cioè in occidente - anche per gli Etruschi fin dai
primi contatti dei navigatori greci con l'Etruria, dato che proprio alcuni
centri etruschi costieri più aperti ad una intensa frequentazione ellenica e
perciò meglio conosciuti, come Caere (detta dai Greci Agylla, con i porti di
Alsio, Pyrgi, ecc.) e sull'Adriatico Spina, si consideravano originarie
fondazioni dei Pelasgi. È senza dubbio a questo filone di tradizioni che
s'ispira l'ipotesi erudita di un'identificazione dei Tirreni d'ltalia, cioè
degli Etruschi, con i Pelasgi, attribuita da Dionisio d'Alicarnasso allo
storico Ellanico, del tutto indipendente dalla versione di Erodoto
sull'origine lidia e palesemente contrastante con le opinioni degli autori
antichi posterodotei che parlano sì di un'occupazione pelasgica dell'Etruria,
ma anteriore e comunque distinta da quella dei Tirreni. Quanto al famoso
racconto di Erodoto sull'immigrazione dei Tirreni dalla Lidia (o meglio dei
Lidi chiamati poi Tirreni dal loro eponimo Tirreno), prescindendo dalla
fortuna che esso ebbe nell'antichità, difficilmente sfuggiremmo oggi - dopo
le argomentazioni critiche del Pareti - all'impressione che si tratti,
così come è formulato, di un'invenzione dei logografi ionici nella fase di
più stretti rapporti commerciali e culturali del mondo greco-orientale
con l'Etruria e di probabili presenze di navigatori etruschi nell'Egeo, di
cui si dirà più avanti, cioè essenzialmente nel VI secolo. È possibile che
questa storia abbia avuto spunti ispiratori concreti, oltreche in talune
apparenti somiglianze tra l'Etruria e il mondo anatolico, anche in
accostamenti onomastici con la città lidia di Tyrrha o con il popolo dei
Torebi e nella stessa esistenza di Tirreni nell'Egeo, ricordati dagli
scrittori greci a partire dal V secolo, ma spesso confusi con i Pelasgi
(cosicchè non è neppure esclusa l'ipotesi che si tratti di un nome diffuso
secondariamente in sede di erudizione etnografica come
conseguenza dell'identificazione dei Pelasgi con i Tirreni d'Italia, i quali
sarebbero dunque i soli Tirreni conosciuti dalla tradizione greca più
antica). Ancora ai Pelasgi ci riporta la notizia di Anticlide che, per quanto
tarda e contaminata favolisticamente con la versione di Erodoto,
presenta un'interessante precisazione geografica in quanto parla di
un'immigrazione dalla sfera nord-egea delle isole di Lemno e Imbro conosciuta
storicamente dai Greci come «pelasgica» (e alla quale richiamano i rapporti
linguistici fra etrusco e lemnio). In conclusione i dati delle fonti
letterarie classiche, leggendari e contraddittorii, non offrono alcuna prova
a favore di una provenienza del «popolo etrusco» dall'oriente; tuttavia non
escludono possibili echi di singole più o meno remote connessioni del mondo
etrusco con l'area egea. Passando a considerare l'aspetto archeologico del
problema, va notato subito che il fenomeno del manifestarsi della civiltà
orientalizzante in Etruria non è tale da giustificare l'ipotesi di un popolo
straniero che approdi recando le sue strutture e le sue forme di vita, come
invece è evidentissimo in Sicilia e nell'Italia meridionale all'arrivo dei
coloni greci. Durante la fase del villanoviano evoluto cominciano ad
avvenire trasformazioni notevoli che preludono allo splendore della
successiva fase orientalizzante: si diffonde il rito funebre dell'inumazione,
appaiono le prime tombe a camera, l'uso del ferro si generalizza, aumentala
frequenza degli oggetti di bronzo decorato e dei metalli preziosi (oro,
argento), e nello stesso tempo s'incontrano sempre più numerosi oggetti e
motivi d'importazione straniera (scarabei e amuleti di tipo egizio,
ceramica dipinta d'imitazione greca). II passaggio alla civiltà
orientalizzante non è dunque radicale ed istantaneo. Molti degli aspetti di
questa civiltà, come le stesse grandi tombe architettoniche o di imitazione
architettonica, la ceramica d'impasto e di bucchero, arredi, gioielli, ecc.,
rientrano in pieno nello sviluppo della cultura indigena, sia pure
sollecitata da influenze esterne, orientali e greche, e soprattutto eccitata
dal rigoglio economico. Singoli oggetti importati e motivi provengono
dall'Egitto, dalla Siria, da Cipro, da Rodi e in genere dalla Grecia; altri
hanno la loro patria d'origine anche più lontano, in Mesopotamia o in Armenia
(Urartu). Caratteristico è il genere di decorazione che mescola motivi
egiziani, mesopotamici, siriaci, egeo-asianici, talvolta in composizioni
ibride, o sviluppa i repertori di fregi con animali reali e fantastici,
presenti negli oggetti di lusso di origine fenicio-cipriota, ma rielaborati e
diffusi in parte notevole dai Greci stessi soprattutto nel corso del VII
secolo a.C.. In sostanza l'impressione che si prova di fronte alle tombe
etrusche orientalizzanti e ai loro sontuosi corredi è che l'ossatura, le
forme essenziali della civiltà affondino le loro radici nelle tradizioni
locali; mentre lo spirito e le caratteristiche degli elementi decorativi,
esterni, acquisiti, si riportino alla «moda» orientale. E quando appunto si
voglia prescindere da questo carattere composito - indigeno ed esotico -
della civiltà orientalizzante di Etruria' e ci si voglia limitare all'esame
dei soli elementi importati; allora appare chiaro che essi non sono
presenti soltanto in Etruria, ma appaiono più o meno con gli stessi aspetti
in altri paesi mediterranei nello stesso periodo, a cominciare dalla Grecia
stessa, là dove certo non si suppone un'immigrazione asianica. Allo stile
orientalizzante succederà in Etruria un preponderante influsso di elementi
culturali ed artistici propriamente greci, dapprima peloponnesiaci e ionici e
poi attici, nel corso del VI e del V secolo a.C. Ad essi è dovuta una ben più
decisiva trasformazione della vecchia cultura indigena in nuove forme di
vita, anche nel campo più intimo della religione e delle costumanze: basti
pensare alle divinità e ai miti ellenici penetrati in Etruria. Nessuno
naturalmente oserebbe immaginare l'assurdo storico di una colonizzazione
etnica greca dell'Etruria nel VI secolo (anche se abbiamo prove convincenti
dell'esistenza di nuclei di commercianti greci nei porti etruschi). Non si
comprende dunque la necessità di attribuire la civiltà orientalizzante ad
un'invasione di stranieri, piuttosto che a un rinnovamento di civiltà. Anche
per quel che concerne il rito funebre non esiste alcun brusco trapasso dalla
cremazione del villanoviano all'inumazione dell'orientalizzante. Già il
villanoviano più antico dell'Etruria meridionale mostra tombe a fossa
commiste con tombe a pozzo di cremati. L'affermazione dell'inumazione è
progressiva nella fase del villanoviano evoluto. Questo processo è del resto
comune nel corso dell'VIII secolo non soltanto in Etruria, ma anche nel
Lazio, dove non si suppone nessuna immigrazione. Inoltre esso appare limitato
all'Etruria del sud, perche l'Etruria interna (per esempio Chiusi) non
abbandonerà il costume dell'incinerazione prevalente ne
durante l'orientalizzante ne per tutta la successiva durata della civiltà
etrusca. Nella stessa Etruria meridionale si avrà una parziale ripresa
della cremazione nel VI secolo. Un'incidenza di fatti etnici è
inimmaginabile, se si intende come sostituzione di un popolo ad un
altro. Riconsideriamo ora questi diversi elementi nei loro reciproci
rapporti geografici ecronologici per verificare se sia sostenibile la
tesi orientalistica nella sua formulazione tradizionale e più diffusa -
tuttora sostenuta da alcuni studiosi e ripetuta in sede di pubblicazioni
non specialistiche - dell'arrivo degli Etruschi in Italia come portatori
della civiltà orientalizzante. Ma quale civiltà orientalizzante? Noi
sappiamo benissimo che le importazioni orientali e più generalmente il
formarsi del gusto orientalizzante in Etruria tra la fine dell'VIII e il
principio del VI secolo ci riconducono a centri di produzione e d'ispirazione
estremamente diversi e dispersi del Vicino Oriente e del Mediterraneo
orientale, con una prevalenza, se mai, dell'area siro-cipriota, e poi
greco-orientale. È dunque piuttosto alla navigazione fenicia e greca,
interessante con analoghi risultati anche altri territori del bacino
mediterraneo, che sarà da attribuire l'apporto culturale orientalizzante.
Questo quadro appare chiaramente inconciliabile con l'idea della immigrazione
o della colonizzazione di un popolo straniero che rechi con se il proprio
bagaglio di civiltà partendo da un punto ben definito del mondo orientale,
cioè, stando alle fonti, dalla Lidia o dall'Egeo settentrionale: tanto più
che proprio per questi territori manca ogni specifica analogia culturale
con l'Etruria in corrispondenza dell'età alla quale si è voluta
riferire l'immigrazione etrusca. Le scoperte di Lemno, delle località
costiere della Ionia e dell'Eolide asiatiche, di Sardi, dell'interno dell'
Anatolia non hanno offerto finora alcun elemento, se non piuttosto generico
(per esempio tumuli, tombe a camera, facciate rupestri, ecc.), di concordanza
con i monumenti e con la civiltà dell'Etruria per quel periodo che in Asia
Minore è denominato «frigio» (IX- VII secolo) ed a Lemno,
impropriamente, «tirrenico» (meglio dobbiamo dire «pelasgico», sulla base
della tradizione storica più antica ed autorevole). La ceramica
geometrica frigia, quella lidia e la caratteristica ceramica arcaica di Lemno
non hanno assolutamente alcun rapporto con la produzione vascolare indigena e
greco-geometrica d'Italia. Qualche vaso di tipo lidio si diffonde in
occidente soltanto nel VI secolo, insieme con tanti altri tipi
greco-orientali. Così anche la ceramica grigia asiatica è esportata
dai coloni di Focea nel Mediterraneo occidentale, ma è rara in Italia, dove
non sembra aver alcun rapporto con l'origine del bucchero etrusco. La
fibula asianica, presente con estrema dovizia in tutta l'Anatolia, ha
una caratteristica forma con arco semicircolare rigido e ingrossamenti a
perle o in forma di elettrocalamita; sembrerebbe impossibile che essa non
avesse dovuto accompagnare le migrazioni di un popolo asianico. Ma è un fatto
che essa non ha avuto diffusione verso occidente neanche per via
commerciale: finora nell'Italia centrale se ne è trovato un solo esemplare
sui Colli Albani, e altri due provengono dalla necropoli di Pitecusa, cioè in
ogni caso fuori del territorio dell'Etruria! La recente scoperta di una
tomba reale a Gordion, capitale della Frigia, con grandi lebeti di bronzo con
figure applicate simili a quelle delle tombe orientalizzanti dell'Etruria edi
Palestrina, offre un'altra testimonianza della larga diffusione dell'arte
bronzistica dell'Urartu sulle vie della Grecia e dell'Italia, ma non è una
prova di un rapporto diretto tra la Frigia e l'Etruria. Viceversa le
connessioni dei centri occidentali dell'Asia Minore con l'Italia sono sempre
più intense ed immediate nel VI secolo, a causa delle navigazioni ioniche
verso occidente e forse anche di presenze etrusche nell'Egeo, culminando con
le preponderanti influenze greco-orientali sull'arte dell'Etruria arcaica. Ma
questo fenomeno non ha ovviamente nulla a che vedere con la questione delle
origini. L'identificazione della civiltà orientalizzante con la
supposta immigrazione etrusca secondo le fonti antiche appare insostenibile
anche per elementari ragioni di carattere cronologico e storico. L 'inizio
della civiltà orientalizzante etrusca non è anteriore alla fine dell'VIII
secolo, cioè ad un momento in cui i coloni greci erano già più o meno
saldamente stanziati sulle coste della Sicilia e dell'Italia meridionale. Il
racconto di Erodoto sull'immigrazione dalla Lidia non può essere
invece arbitrariamente distratto dal suo sistema cronologico, che riporta i
fatti al regno di Ati sulla Lidia: cioè, secondo la cronologia tradizionale,
poco dopo la guerra di Troia, tra il XIII e il XII secolo a.C. Lo stesso
discorso vale anche per le migrazioni pelasgiche. Un avvenimento così
notevole agli albori dei tempi storici - ed in parallelismo e in concorrenza
con la colonizzazione greca - non sarebbe sfuggito ad altre fonti storiche
e soprattutto non sarebbe stato trasfigurato, come in Erodoto, in un
episodio leggendario di mezzo millennio più antico. Si consideri anzi che
una fonte così autorevole come lo storico greco Eforo (in Strabone, VI, 2,
2), parlando della fondazione di Nasso, la più antica colonia calcidese della
Sicilia, nell'VIII secolo, afferma che prima di allora i Greci non si
avventuravano nei mari occidentali per timore dei Tirreni: ammette cioè
implicitamente un'antica presenza e potenza degli Etruschi in Italia prima
dell'inizio della colonizzazione greca storica. Proprio se si vuol dare
giusto valore ai dati della tradizione quali possibili echi di una lontana
realtà storica occorrerà ricollocarli nel loro proprio contesto cronologico
che è quello dell' età eroica, cioè riportarli in ogni caso ad avvenimenti
corrispondenti alla tarda età del bronzo, che è quanto dire alle fasi
tardo-micenee e postmicenee degli ultimi secoli del II millennio a.C.: si
tratterebbe in ultima analisi di accogliere l'impostazione critica del
Berard, la sola metodologicamente accettabile. Ma anche volendo supporre che
i racconti di fonte classica contengano qualche reminiscenza di presenze e di
apporti orientali sulle coste tirreniche nella tarda età del bronzo, dovremmo
comunque sfrondarne le coloriture più ingenue e semplicistiche troppo
palesemente ispirate ai modelli delle colonizzazioni storiche, e respingere
l'idea di trasferimenti di popolazioni in massa. Dovremmo anche, più
sottilmente, distinguere l'impostazione aneddoticamente caratterizzata, e
perciò fittizia, del racconto di Erodoto sulla provenienza dei Tirreni dalla
Lidia - oltre tutto basata sull'ambiguità del concetto e del nome di Tirreni
- dai più vaghi ma più diffusi, e presumibilmente più antichi, richiami alle
navigazioni dei Pelasgi. In questo senso potrebbe anche ammettersi una certa
corrispondenza fra dati della tradizione e dati linguistici, sia nella
prospettiva geografica (pelasgità di Lemno, provenienza degli Etruschi da
Lemno secondo Anticlide, affinità fra illemnio e l'etrusco), sia nella
prospettiva cronologica (antichità del rapporto così nel quadro delle
tradizioni come nell'evidenza linguistica). Manca invece una qualsiasi spia
archeologica, anche se la possibilità che navigazioni egee abbiano raggiunto
il Tirreno nel tardo bronzo ci è suggerita da più o meno sporadici trovamenti
di ceramica di tipo miceneo, come già sappiamo.
Analisi della
teoria della provenienza settentrionale e dell'autoctonia
Passiamo ora
all'esame delle tesi «occidentalistiche», a cominciare da quella della
provenienza degli Etruschi da settentrione. Il vecchio raffronto tra il nome
dei Rasenna e quello dei Reti è puerile: le iscrizioni rinvenute nel Trentino
e nell' Alto Adige sono assai tarde (posteriori al V secolo a.C.) e, se anche
mostrano antichissimi legami o recenti rapporti con l'etrusco, nulla provano
ai fini di una supposta originaria immigrazione degli Etruschi, come popolo
già formato, dalla regione alpina. Dal punto di vista archeologico la critica
già fatta ai punti di vista del Pigorini e dello Helbig in firma
sostanzialmente l'ipotesi di una discesa di popoli dal settentrione
dell'ltalia verso il centro della penisola. L'etruschicità della pianura
padana è una ben definita conquista dal sud, come dicono anche le fonti
storiche: in questo si può andare d'accordo con il Brizio e con il Ducati,
pur facendo ogni riserva sulla cronologia ed escludendo che gli abitatori di
Bologna villanoviana siano da identificare con quegli Umbri italici la cui
apparizione sul versante orientale dell'Appennino è ancora più
recente. La linguistica ha ormai da tempo superato la vecchia concezione
delle affinità genetiche tra etrusco e lingueitaliche: cosicche anche da
questo punto di vista la tesi pigoriniana di, una discesa unica di Etruschi
edi ltalici ha perduto ogni consistenza. Di qui la teoria del De
Sanctis tendente a riconoscere gli Etruschi nei crematori e gl'ltalici
negli inumatori del vecchio ceppo eneolitico (meglio noi diremmo ora, nelle
genti di tradizione appenninica). Sul piano di una grossolana identificazione
dei fatti archeologici con quelli etnico-linguistici queste equazioni
sarebbero le sole idonee a spiegare la già constatata corrispondenza delle
aree dell'inumazione e della cremazione rispettivamente con le aree
indoeuropea e non indoeuropea d'ltalia. Ma è evidente, specialmente oggi alla
luce delle più recenti scoperte, che non si può parlare in blocco di
«crematori» come rappresentanti di un'unica e precostituita realtà
etnico-linguistica; che il villanoviano non è una cultura introdotta già
formata da qualche area esterna a quella del suo sviluppo, ne presenta forme
più antiche a nord dell' Appennino, ma anzi ha i suoi precedenti immediati
piuttosto nel «protovillanoviano» peninsulare, e tra l'altro proprio
nell'Etruria tirrenica (dai Monti della Tolfa al Grossetano); che fasi
arcaiche di culture di crematori affini al «protovillanoviano», come il
«protolaziale» e il «protoveneto», appaiono all'inizio delle culture del
ferro del Lazio e del Veneto, spettanti a popoli storici di lingua
indoeuropea ma di origine diversa, cioè rispettivamente ai Latini e ai
Veneti. Con ciò cade anche - o si riduce nella sfera delle congetture
indimostrabili - l'opinione del Pareti che i «protovillanoviani»
rappresentino originariamente una sola stirpe, quella degli ltalici orientali
(ipotesi tanto più inverosimile in quanto in età storica gl'Italici orientali
sono principalmente inumatori), e che una successiva ipotetica ondata di
«villanoviani» rappresenti la discesa degli Etruschi. Si tratta, come si
vede, di giuochi di pazienza senza alcun fondamento di verosimiglianza
critica. In nessun modo l'archeologia può dimostrare un «arrivo» degli
Etruschi dal nord. Altro argomento a svantaggio della tesi settentrionale è
proprio il rapporto della lingua etrusca con la lingua preellenica di Lemno.
Per spiegarlo occorrerebbe accettare la tesi del Kretschmer di
un'immigrazione parallela dal bacino danubiano, per via continentale,
nell'Egeo settentrionale e in Italia; ma resterebbero pur sempre da spiegare
gli elementi affini all'etrusco nella toponomastica «tirrenica»
dell'Italia peninsulare, che sono profondi e diffusi. Ciò non esclude
tuttavia la presenza in etrusco di elementi linguistici continentali,
ricollegabili a linguaggi nordico-occidentali del substrato preindoeuropeo
(come il «ligure» o il «retico») o addirittura a lingue indoeuropee. Ma
questo prova, se mai, una larga coincidenza e mescolanza locale di fattori di
diversa origine, attraverso una complessa sovrapposizione di aree
linguistiche. Anche la tesi dell'autoctonia, intesa in un senso assoluto e
schematico, presenta il fianco a fondate critiche. Il punto di vista dei
linguisti (Trombetti, Ribezzo, Devoto, ecc.), che riconosce nel fondo
dell'etrusco il relitto di una più vasta unità linguistica preindoeuropea, è
teoricamente ineccepibile, in quanto tiene conto delle affinità mediterranee
della lingua etrusca e della presenza del substrato «tirrenico», rivelato
soprattutto dalla toponomastica, in gran parte del territorio italiano.
Viceversa la ricostruzione specifica dei fatti in base ai dati archeologici,
tentata dall'Antonielli e dal Devoto, si dibatte contro gravi difficoltà.
Essa presuppone una netta contrapposizione etnica tra indigeni
inumatori dell'eneolitico e dell'età del bronzo, e «villanoviani» crematori
discesi da settentrione, identificando i primi con lo strato primitivo
«tirrenico», i secondi con gli invasori italici indoeuropei. Ancora una volta
la constatazione della corrispondenza pressoche esatta delle
aree d'incinerazione e di inumazione rispettivamente con l'area non
indoeuropea e con quella indoeuropea si oppone alla ricostruzione astratta
degli autoctonisti. Proprio l'Etruria, dove è tipica e densissima
l'occupazione degli incineratori, sarebbe il solo cantone dell'Italia in cui
la lingua primitiva avrebbe conservato i suoi caratteri sino alla pienezza
dei tempi storici; mentre invece le lingue italiche avrebbero trionfato nella
parte orientale della penisola, dove non si hanno tracce se non sporadiche
ed insignificanti del passaggio dei supposti incineratori italici! È
chiaro che l'autoctonismo linguistico non può essere costretto
entro l'assurdità di questi schemi archeologici, nei quali appare ancora
così evidente l'impronta del vecchio preconcetto pigoriniano. Invano Devoto
tentò di ricondurre l'equazione incineratori = Italici al concetto di una
corrente «protoitalica» di cui però nulla chiaramente risulta nei fatti
positivi dell'etnografia storica italiana. In ogni caso un puro autoctonismo
si presenta a priori come una teoria antistorica: ed in concreto urta
contro l'evidenza di vicende culturali che denunciano influenze europee
ed orientali e contro i dati linguistici che dimostrano rapporti tra
l'Etruria e l'Egeo oltre che una profonda penetrazione di elementi
indoeuropei nella lingua etrusca. I Villanoviani
Si denomina così
la cultura dell'età del Ferro caratteristica del territorio dell'Etruria,
dell'Emilia centrale (area delimitata dai corsi del Panaro, del Po e del
Santerno), della Romagna orientale (bacino del Marecchia), a Capua e a
Pontecagnano. Così chiamata dalla scoperta del Gozzadini nel 1850 a Villanova
di Castenaso (Bo) di un centinaio di tombe caratterizzate dalla sepoltura in
pozzetti: - rivestite da ciottoli (tomba a pozzetto); - limitata da
lastre di pietra (tomba a cassetta); - scavati nel tufo, all'interno di
grandi ovuli (tombe a ziro) nei quali veniva posto un ossuario dalla tipica
forma biconica coperto da una ciotola (femminile) o da un elmo (maschile)
contenente le ceneri del defunto. Il corredo era caratterizzato: elementi
tipici maschili come i morsi di cavallo, i rasoi lunati, spilloni, fibule
serpeggianti e la spada o da elementi tipici femminili come cinturoni, fibule
ad arco rivestito o ad arco ritorto, rocchetti e fusaiole. Pochi sono gli
elmi e le spade e questo ha fatto ipotizzare che per i guerrieri ci fosse un
altro tipo di rito, ma è molto più probabile che dato l'altissimo valore del
metallo, le armi restassero in eredità ai parenti del defunto, e solo in casi
eccezionali come quello di un "re" lo accompagnassero nell'ultimo
viaggio. Questa popolazione aveva senz'altro tutta una serie di riti
religiosi che a noi spesso sfuggono. La ricorrente presenza della "barca
solare" ci testimonia il culto solare. In un primo tempo queste tombe furono
credute di una popolazione non meglio identificata, ma col progredire degli
scavi in tutta l'Etruria queste emersero facendo chiaramente capire che
queste tombe sono da riferirsi agli antenati degli etruschi, che si imposero
senz'altro con la forza il proprio dominio dalla pianura Padana alla
Campania, come è testimoniato dalla distruzione dei villaggi della fase
precedente e dal sapersi opporre alla colonizzazione greca; manifestarono una
forte identità culturale testimoniata dalla presenza di oggetti identici nei
corredi. I villanoviani vivevano in capanne monofamiliari di forma rotonda
, realizzate in legno e fango; ve ne erano anche rettangolari, di
dimensioni maggiori, destinate alle attività comuni e di allevamento; la loro
forma ci è documentata dalle urne a capanna (usate come cinerario in
area tosco-laziale), dalla forma degli ziri e dalla stele della casetta ora
al Museo di Bologna. Erano raggruppate in piccoli nuclei. I Villanoviani
si occupavano di agricoltura, non avendo ancora affinato la capacità
di sfruttare le miniere. La ceramica che è l'evidenza materiale che più
spesso incontriamo ci testimonia una certa specializzazione artigianale
richiedendo (dato il notevole spessore) temperature elevate di 7000°-8000°,
era decorata con motivi a meandro, a zig-zag, a fascia continua ecc.. L'arte
villanoviana è straordinaria, troviamo una ricerca continua di nuove forme,
tutto può essere rappresentato.
I Villanoviani in
Emilia-Romagna
Con la fine del XII secolo vengono abbandonati i siti che
avevano visto una presenza della cultura terramaricola i motivi non sono
stati ancora sufficientemente chiariti. Abbiamo uno iato (vuoto) fino al IX
secolo, quando si insediarono i primi agglomerati villanoviani, in
siti apparentemente non coincidenti con quelli precedenti. In una vasta area
ad occidente del corso del fiume Panaro non si hanno tracce consistenti
di occupazione addirittura per il periodo dal XII al VII secolo a.C..
Questo dato potrà senz'altro essere rivisto, quando si faranno altri scavi
alla ricerca delle tracce di questa fase. Ci devono essere state cause
naturali (alluvioni, irrigidimento climatico ecc) e delle cause storiche
(invasioni di altri popoli) che hanno spinto i terramaricoli a spostarsi: è
tutto da chiarire, forse ci riuscirà uno di voi quando un domani diventerà un
valente archeologo. A Carpi, però, recenti scavi hanno messo in luce le
tracce della presenza villanoviana a Carpi S. Croce-Via Zappiano e a Budrione
- Via Gusmea, anche se sono da collocarsi cronologicamente in quella fase di
"attardamento" villanoviano caratteristica del villanoviano bolognese, cioè
tra metà VII e metà VI a.C. con una continuità fino al V testimoniata dalla
presenza di ceramica depurata etrusco-padana. A Bologna dal IX° secolo a.C.
abbiamo una moltitudine di dati che ci testimoniano una società poco
differenziata dal punto di vista sociale dedita all'agricoltura e
all'allevamento e nel Modenese: a Savignano, Castelfranco e Cognento. i
villaggi erano perlopiù arroccati su colline con le necropoli poste nelle
zone più basse. In Romagna Verucchio è il centro principale della Cultura
Villanoviana, posto su di un colle prospiciente il fiume Marecchia, fu al
centro di intensi traffici commerciali che dall'area Baltica (Via
dell'ambra), dalla penisola Illirica, dal centro Europa, dall'area Veneta qui
arrivavano. Le merci venivano poi smerciate verso il centro Italia. Per gli
archeologi è un osservatorio privilegiato per tutto il periodo storico,
infatti la sabbia e l'aria salmastra hanno permesso al legno e ad altri
materiali come stoffe, vimini e semi di conservarsi, unico caso in tutta
l'Italia, stranamente in questo contesto i metalli si sono molto consumati.
E' stato trovato un vestito di lino ornato di perline d'ambra e fermato con
numerose fibule (spille-bottoni) che serviva a dare l'identità fisica al
defunto cremato.
I villanoviani nella Tuscia
Con l'età del Bronzo
tardo si assiste all'aumentare progressivo della popolazione: la crescita
demografica in Etruria non porta all'aumento del numero degli abitati ma alla
nascita di abitati più estesi, più popolosi, meglio organizzati. Questa
fase vede la nascita dei primi nuclei di quasi tutte le future
città dell'Etruria storica: è l'inizio dello sviluppo protourbano che si
manifesta con la formazione di grandi abitati, posti sempre su pianori
difesi, ma di superficie nettamente superiore rispetto ai villaggi
protovillanoviani, talvolta superiore ai 100 ettari. I siti più importanti di
questa fase sono, da Sud a Nord, Veio, Cerveteri, Tarquinia, Vulci (Canino),
Orvieto, Vetulonia, Chiusi e Volterra. La maglia dei territori dei
centri villanoviani mostra come sia aumentata l'estensione del territorio
posto sotto il loro controllo politico, da poche decine a 1000-2000
chilometri quadrati: questo processo, denominato sinecismo, denota un marcato
aumento della compattezza politica del popolo etrusco che, proprio in questa
fase iniziale dell'Età del Ferro, inizia a delinearsi come entità politica
e culturale autonoma e peculiare. Lo sviluppo dei siti nel luogo delle
future città etrusche avviene precocemente nell'Etruria settentrionale:
Populonia e Vetulonia sono gli abitati che mostrano per primi il costituirsi
delle grandi comunità, e già nel X secolo a.C.. Molte comunità villanoviane
sembrano sorgere su siti che hanno già visto fasi dell'età del Bronzo, o
almeno della fase finale, dal X secolo a.C.. Bisogna ricordare che
testimonianze della cultura villanoviana sono state rinvenute non solo nel
territorio dell'Etruria propriamente detta, ma anche in Emilia Romagna, nelle
Marche ed in Campania, sul litorale salernitano: si è discusso molto se
considerare le emanazioni extra-Etruria come "colonie" etrusche o come
semplici influenze culturali su popolazioni locali. Fatto certo è la forte e
quasi totale permeazione di elementi villanoviani in queste zone. Con
l'inizio dell'età del Ferro, nel IX secolo a.C., la popolazione si concentra
in gruppi anche di migliaia di individui in grandi centri: questi sono
situati al centro di territori molto vasti e sono formati da nuclei abitati
distinti che occupano pianori e colline adiacenti. All'interno delle aree
controllate da ciascun centro sono presenti degli abitati molto più piccoli,
posti talvolta nelle zone di confine con il territorio di altri centri: è
stato supposto il loro ruolo di centri satellite posti a controllo del
territorio. In quest'ultimo sono presenti risorse diverse come, ad esempio,
colture, pascoli, aree metallifere; spesso il centro egemone sorge nei pressi
di importanti assi viari, fluviali od in prossimità di approdi costieri, da
cui dista circa 4-5 km in media. Caso unico Populonia, in Toscana, che sorge
proprio sulla costa, grazie probabilmente al suo ruolo di utilizzatrice del
metallo dell'Isola d'Elba e, per questo, al controllo del traffico marittimo
da e per l'isola tirrenica. Riguardo alla presenza di vari nuclei di abitato
all'interno di un solo insediamento, si cita ad esempio Veio, che ne mostra
diversi (Campetti, Macchia Grande, Portonaccio, Comunità, sullo stesso
pianoro, e Piazza d'Armi, Isola Farnese, Monte Campanile, Vaccareccia, su
colline prospicenti); la distribuzione frammentata dei vari nuclei d'abitato
è delineata anche dalle diverse necropoli (Valle la Fata, Quattro Fontanili,
Casal del Fosso, Grotta Gramiccia). La stessa situazione è mostrata dai
nuclei abitativi di Tarquinia (pianori della Civita, del Calvario, di
Tarquinia moderna) e dalle diverse necropoli (Poggio Selciatello, Poggio
Selciatello di Sopra, Poggio Selciatello di Sotto, Poggio dell'Impiccato,
Arcatelle e "Le Rose"). Per ricostruire la struttura interna degli abitati
dell'età del Ferro ci si può purtroppo attenere a pochi dati di rilievo,
poiché sono pochi gli scavi archeologici effettuati all'interno di aree
abitate di questo periodo. A Veio lo Stefani all'inizio del secolo ha messo
in luce le tracce di capanne circolari piccole (Veio-Piazza d'Armi) e ovali
più grandi (Portonaccio e Campetti). A Torre Valdaliga (Civitavecchia) e
nell'abitato della Mattonara (Civitavecchia) sono state rilevate strutture a
pianta circolare, ovale e rettangolare. Al villaggio del Gran Carro sul Lago
di Bolsena appaiono anche abitazioni su palafitta poste sulla riva lacustre,
sopraelevate per un probabile innalzamento del livello delle acque.
L'insediamento villanoviano meglio conosciuto è quello di Tarquinia-Monte
Calvario: sono state rinvenute le piante di 25 capanne a pianta ovale,
rettangolare allungata e quadrangolare. Queste abitazioni non differiscono
molto da quelle dell'età del Bronzo e si nota, all'interno degli abitati, tra
le capanne, l'esistenza di aree coltivate e destinate al ricovero degli
animali. Dalle urne a capanna rinvenute in Etruria e nel Lazio antico è
possibile conoscere quale fosse la struttura in elevato di queste abitazioni.
Si tratta di capanne dal tetto a doppio spiovente o a quattro falde,
con struttura lignea ricoperta da frasche, talvolta coibentate
ed impermeabilizzate da argilla asciugata all'aria, frammista a paglia e,
come accade ancora oggi in molte civiltà capannicole asiatiche ed africane,
ad escrementi di bovini. Talvolta le abitazioni avevano, come a Luni
sul Mignone (Blera), il pavimento scavato nel banco roccioso, forse
per ricavarvi un ambiente sotterraneo atto alla conservazione delle
derrate alimentari; l'elevato, per far sì che non deperisse, essendo in
materiale vegetale, appoggiava su muretti di pietrame a secco anziché sul
banco stesso. Per evitare infiltrazioni d'acqua piovana all'interno delle
capanne, attorno al perimetro delle stesse venivano scavate una o più
canalette di scolo con cui, spesso, veniva accumulata in cisterne. Al centro
delle capanne, lontano dalle pareti, c'era il focolare, "cuore"
dell'abitazione, in genere mantenuto acceso dalle donne. I fumi uscivano da
aperture apposite sul tetto. I villaggi dell'età del Ferro, come del
resto era avvenuto nell'età del Bronzo, dovevano il proprio sostentamento
principalmente all'agricoltura ed all'allevamento; ma c'è ora un nuovo
elemento a modificare la stratificazione sociale: la specializzazione
artigianale, soprattutto dei metallurghi, che porta all'accumulo di
ricchezza. Oltre a questo, il ceto emergente, quello dei guerrieri, basa il
proprio censo sul controllo delle terre e delle loro risorse, raggiungendo
posizioni di potere all'interno della società villanoviana. Il processo di
differenziazione sociale, che come abbiamo visto sembra avere una fase
embrionale nella tarda età del Bronzo, è forse mostrato dall'eccezionale
ricchezza di alcuni corredi funerari: numerosi oggetti in bronzo, ferro,
alcuni in oro, ambre, ceramiche pregiate (soprattutto dopo la ripresa dei
rapporti con il mondo egeo anche d 'importazione). "Simbolo"
dell'appartenenza alla classe superiore sono le armi, gli elmi (in terracotta
o, assai più raramente, in bronzo) ed i morsi per i cavalli: questo animale,
introdotto nella media età del bronzo in area tirrenica è un chiaro segno del
rango superiore di alcuni defunti, segno che, presto, verrà accompagnato
dall'uso del carro a due ruote. Un altro indicatore sono forse le urne a
capanna, che in ambito etrusco sono sia maschili che femminili, forse
pertinenti a persone che avevano nella società dei ruoli particolari. Alcuni
autori sostengono che sia forse presto parlare dell'esistenza di una
differenziazione sociale e notano una relativa uniformità nei corredi
funerari del periodo: sono però d'accordo sull'esistenza di un processo di
stratificazione sociale, preparatorio alla società orientalizzante "dei
principi" del VII secolo a.C.. Attorno alla metà dell'VIII secolo a.C. si
assiste al passaggio tra il villanoviano tipico a quello evoluto: si inizia
effettivamente a distinguere una netta differenziazione dei corredi, negli
oggetti che li compongono, in qualità e quantità, nella struttura stessa
delle tombe (ciste di pietra), nell'apparire del rito dell'inumazione accanto
a quello dell'incinerazione. L'inumazione è prevalentemente in fosse scavate
nel terreno. Non ci sono nette diversità nei corredi delle tombe ad
incinerazione ed in quelle ad inumazione: si nota comunque un generalizzato
aumento degli oggetti costituenti il corredo, in particolare di quello degli
inumati. La presenza di oggetti importati da altre culture dell'Italia
protostorica denota la forte mobilità delle genti protoetrusche: sono
accertati contatti e scambi con i Sardi, con le aree transpadane (soprattutto
con i paleoveneti), con le genti dell'Italia meridionale (enotri): presto,
sin dall'inizio dell'VIII secolo a.C., iniziano ad apparire anche
oggetti provenienti dall'Egeo. Come già detto, il tema dei rapporti con
genti provenienti dal mondo greco, va ricordato poiché è proprio
grazie all'influenza culturale orientale che inizia quel processo di
permeazione degli elementi greci, definito ellenizzazione, che influenzerà
moltissimo la cultura etrusca per tutta la durata di questo popolo. Se
alla fine dell'VIII secolo a.C. si assiste all' esplosione orientalizzante in
cui appare chiara la civiltà etrusca d'età storica con la sua stratificazione
sociale, la sua cultura, le sue forme politiche ed economiche, lo si deve in
buona parte anche all'influenza greca. Il rapporto con i Greci si fa più
intenso dopo la fondazione da parte di questi dell'emporio di Pithekusa
(Ischia) e della colonia di Cuma. Gli abitati aumentano nettamente la propria
popolazione e si estendono in nuclei attigui, allargandosi su diversi
pianori. Le abitazioni sono ancora in capanne più o meno complesse: si
prepara però la fase preurbana dell'età Orientalizzante in cui iniziano ad
apparire, all'interno degli abitati, alcune unità abitative assai più
articolate; anche qui, data la relativa scarsità di dati, esse sono
riconoscibili soprattutto dalla pianta complessa delle tombe a camera
orientalizzanti, arricchite da elementi architettonici scolpiti, a ricordare
struttura interna ed architettura domestica. Le abitazioni presentano il
tetto di frasche fino alla metà del VII secolo a.C. e ciò può essere
testimoniato dalla tomba "a capanna" di Cerveteri e dalla camera laterale
sinistra del Tumulo Cima di Barbarano Romano, in cui appare sia il tetto
semicircolare tipico delle capanne, che la struttura con orditura lignea
tipica dei tetti con tegole: il Tumulo Cima è databile attorno al 650
a.C.. Le prime aree pubbliche, più o meno monumentalizzate, non appaiono
prima della metà del VII secolo a.C.: esempi possono essere la cisterna di
Veio, un luogo di culto di Roselle e la monumentalizzazione dell'area della
Civita di Tarquinia. Secondo alcuni autori con l'istituzione di tali
strutture civiche si può considerare concluso il lungo processo di evoluzione
urbana iniziato embrionalmente nel IX secolo a.C.. I gruppi di
aristocratici apparsi nettamente nel Villanoviano evoluto sono alla base
di quell'esplosione culturale, economica e sociale che porterà alla
fase storica del popolo etrusco iniziata con il "periodo orientalizzante"
(fine VIII - fine VII secolo a.C.). Tra i siti principali della provincia
di Viterbo che hanno restituito testimonianze della cultura Villanoviana,
cioè della fase etrusca dell'età del Ferro, ricordiamo Vulci, Tarquinia,
Bisenzio (Capodimonte), Vetralla, Barbarano Romano, Civita Castellana, San
Giovenale e Luni sul Mignone (Blera): esse sono visibili nei Musei
Archeologici di Vulci (Castello della Badia), di Tarquinia (Palazzo
Vitelleschi), Barbarano Romano (Museo Civico), Bolsena (Castello Monaldeschi
- Museo territoriale del Lago di Bolsena), Civita Castellana (Forte del
Sangallo). La Storia Estensione territoriale e sviluppo dell'Etruria
interna L'espansione e l'apogeo degli Etruschi in Italia L'alleanza
cartaginese e gli scontri con i Greci e con Roma L'Etruria
"federata" L'epilogo etrusco: i Galli e Roma
Estensione
territoriale e sviluppo dell'Etruria interna In Tuscorum iure paene omnis
Italia fuerat: quasi tutta l'Italia era stata sotto il dominio degli
Etruschi, dice Catone (Servio, ad Aen., XI, 567); e Livio (I, 2; V, 33)
insiste sulla potenza, sulla ricchezza, sulla fama degli Etruschi in terra e
in mare dalle Alpi allo stretto di Messina. I dati archeologi ci ed
epigrafici e le notizie di altre fonti storiche confermano il valore di
queste tradizioni, pur limitandone la genericità e consentendo di chiarire
con sufficiente approssimazione quali territori italiani furono propriamente
abitati e quali sottomessi dagli Etruschi o in qualche modo da loro
influenzati politicamente, economicamente o culturalmente. Consideriamo
anzitutto quella che siamo soliti denominare Etruria propria, compresa tra il
Mare Tirreno, il corso del Tevere e il bacino dell' Amo, cioè l'Etruria
storica costituente la Regione VII dell'Italia augustea. Ad essa appartengono
le dodici città (dodecapolis) che secondo il canone tradizionale formavano la
nazione etrusca. La tradizione antica ha accreditato presso gli storici
moderni l'idea che questo territorio fosse la sede originaria della stirpe,
dalla quale sarebbero partite le imprese marittime e le conquiste terrestri
(verso il Lazio e la Campania e verso le zone transappenniniche). Ma su
questa semplice affermazione occorrerà comunque un più approfondito giudizio
critico. Già trattando delle origini etrusche si è fatto cenno alle ipotesi
di una progressiva «etruschizzazione» dell'Etruria storica che, secondo
i sostenitori della provenienza trasmarina dei Tirreni, sarebbe
logicamente avvenuta partendo dalle coste verso l'interno, con la
sottomissione o l'incorporazione di elementi indigeni italici (gli Umbri di
Erodoto). A riprova della esistenza di questo originario fondo italico e
della persistente eterogeneità etnica di aree comprese entro i confini
geografici dell'Etruria si addusse tra l'altro l'abbondante presenza di nomi
personali di origine italica nelle città etrusche, per esempio a Caere, ma
non soltanto a Caere (l'Etruria settentrionale è particolarmente ricca di
tali elementi soprattutto in tempi recenti); si è dato inoltre particolare
valore al fenomeno dei Falisci, di lingua originariamente latina,
abitanti nell'ansa orientale del Tevere, oltreche al ricordo dei Camertes
Umbri dell'Etruria interna e di Umbri Sarsinates per la zona di
Perugia. Ma il significato di queste constatazioni può rovesciarsi,
considerando l'eventualità (che è del resto controllabile in molti casi) di
penetrazioni storiche sabine e umbre in Etruria specialmente nelle zone di
confine e di processi di latinizzazione come a Caere dopo l'imporsi
dell'egemonia romana nel IV secolo a.C. Soltanto nel caso del territorio
falisco riconosciamo effettivamente la presenza originaria di una popolazione
di lingua non etrusca stabilita sulla riva destra del Tevere, in presumibile
continuità con l'area latina estesa a sud oltre il fiume; ed è significativo
che in questa zona, come nel Lazio, manca la tipica cultura del ferro
villanoviana, che invece è presente, vistosissima, nel non lontano centro di
Veio. Il territorio falisco subì certamente un'influenza politica e culturale
etrusca determinante, soprattutto in età arcaica, non diversamente da alcune
parti del Lazio inclusa la stessa Roma (la ricorrenza di iscrizioni
etrusche accanto a quelle falische è prova del bilinguismo delle classi
dominanti); ma poi prevalsero pressioni ed infiltrazioni di elementi italici
sabini che caratterizzarono fortemente il dialetto locale. In ogni caso
possiamo considerare assolutamente certo che fin dall'inizio dei tempi
storici esiste un mondo etrusco ben definito e riconoscibile la cui
estensione coincide sostanzialmente con quella della regione che fu chiamata
dagli antichi Etruria, cioè non solo la fascia costiera tirrenica ma anche
tutto il retroterra fino alla valle del Tevere e alle pendici dell'
Appennino Tosco-Emiliano. Lo dimostrano da un lato l'impronta unitaria della
lingua documentata dalla diffusione delle iscrizioni etrusche fin dal loro
primo apparire nel VII secolo; da un altro lato il carattere inconfondibile
degli aspetti culturali a partire dal villanoviano e per tutti i loro
successivi sviluppi, in piena coincidenza con l'univoca tradizione antica
sulla etruscità di questi territori e dei relativi centri. Ogni ipotesi
circa l'eventualità di preesistenti differenze e sovrapposizioni o
commistioni etniche andrà semmai respinta più lontano nella preistoria. Ogni
progresso dalle coste verso l'interno si spiega logicamente, non già con
l'idea di una penetrazione etnica, ma con le concrete ragioni storiche di una
penetrazione d'impulsi economici e culturali provenienti dai centri marittimi
più direttamente esposti a sollecitazioni esterne. Seppure con
minore concentrazione ed intensità gl'insediamenti interni partecipano in
pieno e vigorosamente allo sviluppo dell'Etruria arcaica. Esistono, ben
s'intende, condizioni ambientali diverse da quelle delle zone litoranee.
Mancano i fondamentali e primordiali presupposti di un accelerato incremento
basato sui contatti e sui commerci marittimi, oltreche sullo sfruttamento
delle miniere prevalentemente concentrate lungo la linea costiera, e sulla
potenzialità, di ambedue questi fattori combinati. Si offrono in compenso
estese, profonde e variate terre vallive e collinari ricche (allora) di
boschi o idonee al pascolo e specialmente all'agricoltura, costituente la
base principale dell'economia; mentre le comunicazioni interne dovevano
essere favorite dalla navigazione fluviale e lacustre e si aprivano vie di
contatti e di scambi, lungo ed oltre il corso del Tevere e dell'Amo ed
attraverso la dorsale appenninica, con le regioni centrali della penisola e
con il settentrione fino al versante adriatico. A questa configurazione del
paese con le sue risorse sembrano potersi in qualche modo ricollegare i
caratteri delle forme associative e delle strutture socio-economiche e in
ultima analisi i lineamenti della storia più antica dell'Etruria
interna. Di fatto noi vediamo apparire molto diffuso un sistema di
piccole aggregazioni sparse nel territorio o più intensamente addensate in
zone presumibilmente favorevoli a coltivazioni granarie od ortofrutticole o
a vigneti (quando fu introdotta e si diffuse la vite) o al
piccolo allevamento: tipici gli esempi attorno al lago di Bolsena, lungo la
valle tiberina, nei territori di Chiusi, di Volterra, ecc.; si può parlare
di persistenze della tradizione dei villaggi preistorici, ma anche di
fattori economici e sociali che possono aver determinato lo sviluppo di
insediamenti rurali ed un incremento demografico decentrato. L 'emergere di
ceti dominanti, cui si deve ovviamente ogni impulso innovatore,
poggia soprattutto sul possesso terriero: ne cogliamo un riflesso nei
grandi sepolcri a tumulo con ricchi corredi funebri più o meno isolati
nelle campagne (presso Cortona, nel Chianti, nella valle dell' Amo),
contemporanei e simili a quelli che appaiono invece accorpati nelle grandi
necropoli urbane di Caere, di Tarquinia, di Vetulonia, di Populonia. C'è poi
da considerare la frequenza di centri di maggiore consistenza aventi
carattere di «borghi» generalmente in altura e muniti (in latino si sarebbero
detti oppida), per i quali si può pensare a comunità autonome in qualche
modo affini ai piccoli popu/i ricordati dalla tradizione per il
Lazio protostorico: ne conosciamo esempi rilevanti, anche per le
loro testimonianze archeologiche, soprattutto nell'Etruria meridionale
e centrale, come San Giovenale, San Giuliano, Blera, Norchia,
Tuscania, Acquarossa, Bisenzio, Castro, Poggiobuco, Pitigliano, Satumia, ecc.
Alcuni di questi abitati, come quelli molto simili del vicino territorio
falisco, ad esempio Narce, risalgono a nuclei dell'età del bronzo. Alla loro
vitalità arcaica sembra aver fatto seguito dopo il VI secolo una decadenza
talvolta fino alla sparizione (è il caso di Acquarossa presso Ferento) per il
mutare delle condizioni economiche e politiche determinato dalla crescita
delle grandi città, sia litoranee sia interne, da un più marcato imporsi del
loro dominio territoriale, da presumibili fenomeni di inurbamento,
di accentrazione fondiaria, di insicurezza delle campagne a seguito di
eventi bellici, minacce esterne, ecc.; ma alcuni dei vecchi centri di
media grandezza avranno all'opposto rilevanti sviluppi in età avanzata
(Sutri, Tuscania, Sovana). Un caso particolare rivelato dagli scavi
recenti è quello dello splendido complesso architettonico-urbanistico di
Poggio Civitate presso Murlo nel territorio di Siena che dà l'impressione di
una fondazione principesca, santuario e forse anche residenza, fiorita fra il
VII e VI secolo e poi praticamente abbandonata, richiamando in certo senso a
quel sistema di dominii gentilizi che parrebbe altrimenti intravvedersi,
soprattutto nel nord, dai grandi sepolcri monumentali extraurbani. Ma
l'Etruria interna ha anch'essa le sue città, seppure meno numerose e
addensate di quelle della fascia litoranea. La nascita e lo sviluppo di
alcune di esse, meno distanti dal mare come Veio e a nord Volterra, o più
arretrate come Volsinii (Orvieto) e Chiusi, avvengono contemporaneamente ai
processi formatori delle città costiere e sostanzialmente con le stesse
caratteristiche. Per altri centri che avranno pari dignità in avanzata età
storica come Perugia, Cortona, Arezzo si può discutere, alla luce dei dati
archeologici finora conosciuti, se il vero e proprio accentramento urbano si
sia attuato più lentamente, per il perdurare di forti nuclei abitativi nei
possedimenti aristocratici delle campagne; ma anche se l'origine può essere
stata diversa queste città esistevano già certamente in età arcaica. Ciò
che appare soprattutto interessante è il fatto che le città
dell'Etruria interna si trovano disposte in qualche modo ad arco o a corona
lungo una fascia approssimativamente corrispondente ai confini
geografici dell'Etruria: da sud a nord, a breve distanza dalla riva destra
del Tevere, Veio, Falerii (seppure di origini falisce), Volsinii (nella zona
di confluenza del Paglia con il Tevere), Perugia; al margine dei
monti confinanti con l'Umbria Cortona; lungo l'Arno Arezzo e Fiesole; ne
si escludono del tutto da questo sistema, benche meno periferiche, Chiusi
e Volterra. Senza dubbio esiste un generale rapporto con le grandi
vie fluviali. Ma non si può sfuggire all'impressione che nell'ubicazione
delle città si configuri anche una sorta di delimitazione protettiva che in
certo senso conferma l'idea di un'antica concezione unitaria del
territorio etrusco. Per altro verso proprio la marginalità di questi
centri deve aver offerto possibilità di contatti e di scambi con le
confinanti regioni esterne, oltreche di aperture a fenomeni espansivi: quali
s'intravvedono per Veio (e per il territorio falisco) con il Lazio e la
Sabina; per Volsinii e Perugia con l'Umbria; per le città più settentrionali
in genere con i paesi d'oltre Appennino.
Una vera e propria
ricostruzione di eventi storici, di politica interna ed esterna, nell'età più
antica è impossibile come per l'Etruria costiera. È immaginabile uno sviluppo
parallelo e notevolmente differenziato dalle singole zone per l'ampiezza del
territorio e per la diversità delle situazioni e delle gravitazioni come si è
già accennato. Di primitive monarchie, sorte dai ceti egemonici o come
prevalente affermazione di piccoli potentati locali, possediamo soltanto echi
leggendari (e naturalmente d'incerta autenticità e cronologia): così per Veio
si ricordavano un re Morrius o Mamorrius discendente di Halesus fondatore
di Palerii (Servio, ad Aen. VIII, 285) ed un re Propertius connesso con
le origini della città di Capena (Catone in Servio, ad Aen. VII, 697),
ed inoltre un re Velo Vel Vibe vissuto ai tempi di Amulio di Albalonga,
cioè riferibile all'VIII secolo a.C. secondo la cronologia tradizionale;
più concretamente le iscrizioni arcaiche ci danno nomi di stirpi gentilizie
di alto rango di cui una, i Tulumne, assurgerà al potere regio, se non
prima, nel V secolo. È difficile dire quali rapporti, di rivalità, di
alleanza, ecc., vi siano stati fra i centri dell'Etruria interna e tra questi
e i centri costieri: una immagine piuttosto attendibile di queste
situazioni nella prima metà del VI secolo potrebbe riflettersi nel fregio
«storico» dipinto della Tomba Francois di Vulci (posteriore di oltre due
secoli agli avvenimenti, ma fondato, come crediamo, su buone tradizioni), che
mostra figure e nomi di principi o capi di alcune città, come Laris Papathna
di Volsinii (Velznax) e Pesna Arcmsna forse di Sovana (Sveamax), collegati
a quanto sembra con Cneve Tarchunie, cioè un Tarquinio di Roma (Rumax),
contro condottieri e avventurieri provenienti da Vulci. Ancora più difficile
è ipot izzare se, o fino a che punto, già in età arcaica si siano
venute determinando quelle tradizioni o istituzioni di colleganza
stabile, religiosa e in parte politica, tra le «dodici città» dell'Etruria,
che in età più recente vedremo incentrata intorno al santuario del dio
Voltumna, il Fanum Voltumnae, a Volsinii o presso Volsinii, e che porterà al
prestigio e alla fama di questa città come «capitale dell'Etruria» Etruriae
caput (Valerio Massimo, IX, 1). Ma il momento del grande sviluppo,
socialmente rivoluzionario, di Volsinii, sembra doversi collocare - alla luce
delle testimonianze archeologiche ed epigrafiche delle necropoli di Orvieto -
piuttosto negli ultimi decenni del Vl secolo come si avrà occasione di
sottolineare più avanti, Certamente invece molto antica, e straordinaria, è
la fioritura economico-culturale, e di conseguenza presumibilmente la
potenza, di Chiusi, situata nel cuore dell'Etruria centro-settentrionale, in
una posizione eccezionalmente favorevole di accessi e di transiti al centro
di densissimi abitati, con irradiazioni verso l'alta valle del Tevere e
Perugia attraverso il Lago Trasimeno e le vie terrestri, e da un altro lato
verso il Senese (si pensi al già ricordato «santuario-palazzo» di Murlo, dove
si manifestano influenze artistiche chiusine); cosicchè non deve far
meraviglia che la tradizione storica registri sul finire del VI secolo una
espansione politico-militare di Chiusi in piena area costiera tirrenica, con
la spedizione del re Porsenna contro Roma, spiegabile soltanto immaginando
un'egemonia della monarchia chiusina progressivamente acquisita già nei
decenni precedenti su gran parte dell'Etruria
interna.
L'espansione e l'apogeo degli Etruschi in
Italia
A questo punto, considerata l'Etruria propria, converrà affrontare
il quadro di quella più vasta «Etruria» che oltre i confini geografici del
Tevere e dell' Appennino fu creata dall'espansione non soltanto economica e
politica, ma anche in parte notevole stanziale e demografica degli Etruschi
in altri territori dell'ltalia antica. Espansione, va detto subito, che anche
e soprattutto alla luce delle scoperte e delle valutazioni critiche
più recenti deve ritenersi assai più precoce di quanto si credesse in
passato, diremmo addirittura contestuale al primo manifestarsi della civiltà
etrusca, comunque in atto già per diversi aspetti avvenuta all'inizio dei
tempi storici: se, come dobbiamo presumere ed abbiamo già fondatamente
supposto, la presenza del villanoviano a sud nel Salernitano e a nord in
alcune zone dell'Emilia e della Romagna significa presenza etrusca (o, se si
preferisce volendo giocare sui termini, protoetrusca). Ma va anche detto
subito e fermamente che non sembra lecito rinunciare al concetto di
espansione, cioè di stanziamenti secondari o conquiste, per ipotizzare vaghe
e confuse insorgenze etniche in luoghi lontani; e ciò per due ragioni: 1) in
primo luogo per il rispetto dovuto alla tradizione storica antica che
esplicitamente e concordemente parla di fondazioni o colonizzazioni etrusche
in Campania e nell'ltalia settentrionale; 2) inoltre per la reale differenza
che si percepisce, sulla base dei dati linguistici, archeologici e
storiografici, fra il territorio compat- tamente etrusco dell'Etruria propria
e le regioni esterne nelle quali convivono altre stirpi, lingue e tradizioni
e nelle quali l'etruschizzazione, anche se intensa, appare comunque limitata
nello spazio oltre che nel tempo. Ciò premesso, sempre sul piano generale non
può sfuggire alla nostra attenzione il fatto che la espansione etrusca, lungi
dal manifestarsi concentricamente attorno all'area originaria, appare
orientata secondo un lungo asse longitudinale che scende a sud seguendo il
versante tirrenico in direzione della Campania e sale a nord attraverso
l'Appennino Tosco-Emiliano verso la pianura padana, lasciando praticamente
intatto e non superato il confine orientale del Tevere che separa l'Etruria
dall'Umbria. La spiegazione dell'appariscente fenomeno potrà ricercarsi, se
non andiamo errati, proprio nelle condizioni dei tempi remoti ai quali
risalgono le prime spinte espansive, in parte collegabili con le attività
marittime, lungo il Tirreno, in parte identificabili con fattori d'attrazione
delle piaghe transappenniniche, mentre meno favorevole doveva apparire una
penetrazione verso l'interno della penisola anche per la forte presenza e
pressione di quelle genti italiche che sono storicamente conosciute come
Sabini e Umbri.
Verso il Sud
Il dominio etrusco in Campania, la
cui storicità fu rivendicata da una classica opera di J. Beloch contro
precedenti scetticismi, è largamente comprovato dalle fonti letterarie
antiche, dai documenti epigrafici e dalle testimonianze archeologiche. Gli
scrittori greci e romani parlano della fondazione di una dodecapoli
(Strabone, V, 4,3) evidentemente sul modello di quella dell'Etruria propria,
e più specificamente dell'origine o dell'occupazione etrusca di Capua,
considerata la capitale, NoIa, Nocera, Pompei e altri centri campanr. Le
iscrizioni etrusche sono piuttosto abbondanti, e tra queste primeggia la
tegola di Capua, che è il più lungo testo in lingua etrusca che possediamo
dopo il manoscritto su tela della Mummia di Zagabria. Il materiale
archeologico e le opere figurate presentano più o meno spiccate, a volte
strettissime, analogie con gli aspetti e le sequenze culturali dell'Etruria
fino al V secolo. Occorrerà tuttavia, per dare una più sicura e precisa
dimensione storica a questo quadro generale, cercare di definirne per quanto
possibile i termini geografici e cronologici. Va comunque ricordato che la
presenza degli Etruschi in Campania costituisce soltanto uno dei fattori che
concorrono a definire la fisionomia etnica, politica e culturale,
estremamente complessa, di questa regione la cui funzione fu d'importanza
primaria - e per certi aspetti ed in alcuni momenti determinante - nella
storia dell'ltalia antica. Gli altri fattori sono le popolazioni indigene,
variamente denominate Ausoni, Opici, Osci, Sanniti, Campani; e la
colonizzazione greca. La tradizione antica fu propensa a schematizzare questa
pluralità etnica nel senso di una successione di invasioni ed occupazioni:
ciò che in parte, ma solo in parte, corrisponde a reali avvicendamenti
storici. Più concreta appare invece la prospettiva geografica, che delimita
la presenza greca alla fascia costiera del golfo di Napoli (fondazioni degli
Eubei a Pithecusa, cioè lschia, e a Cuma, con estensione a Partenope o
Paleopoli, donde poi Napoli; forse Rodii; più tardi Samii a Dicearchia cioè
Pozzuoli; mentre altri attacchi coloniali greci s'incontrano soltanto a sud
del fiume Sele); colloca l'espansione etrusca fra il golfo di Salerno e il
retroterra campano, la «mesògaia», fino al fiume Volturno; riconosce alle
genti indigene il carattere di generale sottofondo etnico e perduranti
stanziamenti marginali specialmente a nord del Volturno; ambienta i Sanniti
sull'arco montano con processo verso la pianura. È molto probabile che le
origini dell'etruschizzazione della Campania siano da collocare nel quadro
delle più antiche attività marittime degli Etruschi nel Tirreno, di cui si è
già discorso. L'apparizione di un tipo di cultura villanoviana a Pontecagnano
presso Salerno nel IX secolo con qualche riflesso verso l'interno (Valle del
Tanagro), come elemento che ha tutto l'aspetto di essere intrusivo rispetto
alle dominanti manifestazioni culturali locali di inumatori, e le successive
sequenze in parte analoghe e parallele a quelle dell'Etruria propria,
includenti, ciò che è più importante, la presenza di iscrizioni etrusche
arcaiche nella stessa Pontecagnano e nell'area della penisola sorrentina fino
a Castellammaredi Stabia e a Pompei, coincide piuttosto significativamente
con le notizie delle fonti antiche circa il possesso etrusco del litorale
salernitano, cioè del cosiddetto «agro picentino», fino alla foce del Sele e
alla esistenza della colonia etrusca di Marcina. Il problema che si pone è
quello del rapporto, cronologico e storico, tra questi remoti insediamenti
costieri e la più vasta area del dominio territoriale etrusco interno tra il
Volturno e la valle del Sarno, cioè la vera e propria Campania etrusca avente
come centro principale Capua e tutta una serie di città caratterizzate dalla
presenza di iscrizioni etrusche e di materiali propri di una cultura
materiale di tipo etrusco (benchè di regola pertinenti ad una fase
cronologica piuttosto avanzata, tra la fine del VI e la prima metà del V
secolo), come Suessula, Acerra, Nola, Pompei, Nocera: queste due ultime
costituenti in certo modo una cerniera con l'
area sorrentino-salernitana. L'ipotesi di una netta priorità della
colonizzazione costiera pel golfo di Salerno sul dominio etrusco della
mesògaia campana che ne sarebbe stata quasi una tardiva conseguenza va
attenuata o corretta nel senso di una possibile e probabile pluralità di
antiche vie di approccio dall'Etruria propria alla Campania, e soprattutto
del maturare di condizioni storiche diverse attraverso l'età arcaica. La
stessa discussione sul problema dell'interpretazione dei dati tradizionali
circa la cronologia della fondazione etrusca di Capua appare di secondaria
importanza: i recenti scavi hanno confermato la progressiva formazione di un
grosso centro fra il IX e I'VIII secolo, con caratteri indigeni ma con
sensibili richiami alI' area culturale etrusca, falisca e laziale, e con una
progressiva affermazione di influenze etrusche soprattutto nel VI secolo;
prove sicure del carattere fondamentale etrusco della città si avranno
tuttavia soltanto per gli inizi del V secolo. Si può presumere che alla
primordiale colonizzazione, o protocolonizzazione, del litorale salernitano
abbiano fatto riscontro penetrazioni per via terrestre (valle del Sacco e del
Liri?) e per via di mare (foci del Liri e del Volturno?) verso l'ubertosa e
appetibile pianura della Terra di Lavoro; e che la precoce e salda
installazione coloniale greca nel golfo di Napoli (già almeno dalla metà
dell'VIII secolo), chiudendo questa privilegiata via d'accesso portuosa,
abbia favorito il consolidarsi di un dominio etrusco interno, a sua volta
serrato ad arco attorno alla fascia d'influenza di Cuma e tendente a sfociare
al mare più a sud alla foce del Sarno (Pompei) e nel golfo di Salerno in
congiunzione con i vecchi scali del territorio picentino. Si disegnerebbero
così, con una certa verosimiglianza, le grandi linee interpretative della
storia della etruschizzazione della Campania e della sua dialettica di
contrasto con la colonizzazione greca, ferma restando anche l'esistenza del
problema dei rapporti con le popolazioni locali, che possiamo immaginare di
coesistenza e di sovrapposizione nelle zone di più intensa occupazione
etrusca, e di vicinato, scambi e influenze nelle zone marginali specialmente
a nord del Volturno, come nel retroterra picentino, ma anche già forse di
minacciosa irrequietezza lungo l'arco montano abitato dai Sanniti dal quale
proverranno gl'impulsi e i movimenti destinati a segnare nel futuro la sorte
dell'Etruria campana e dell'intera Campania. Gli sviluppi di questa storia
nel V secolo appartengono tuttavia ad una fase cronologica più avanzata che
sarà oggetto di trattazione successiva. La presenza e la dominazione degli
Etruschi in Campania coinvolgono naturalmente il problema dell'espansione
etrusca nell'area intermedia fra l'Etruria e la Campania, cioè nel Lazio. Una
fase di prevalenza etrusca nella storia del Lazio è esplicitamente affermata
dalla tradizione antica, con particolare riguardo ai racconti relativi alla
dinastia etrusca dei Tarquini regnante in Roma tra la fine del VII e gli
ultimi decenni del VI secolo; confermata largamente dalle scoperte
epigrafiche e in generale dalle testimonianze archeologiche e artistiche;
universalmente riconosciuta dagli studiosi moderni. Ma va subito aggiunto
che, rispetto alla Campania, esiste una differenza sostanziale. Nonostante la
maggiore vicinanza geografica, anzi la contiguità territoriale con l'Etruria,
che manca alla Campania, non si può parlare per il Lazio di un dominio
etrusco definito, unitario e stabile, tanto meno di una colonizzazione
demografica, quali sono accertabili per la Campania come si è visto; si
riconosceranno semmai sovranità parziali, immigrazioni di capi, influenze
istituzionali e culturali, tali da giustificare l'impressione di una sorta di
«protettorato» che ha la sua ragione storica, evidentissima, nell'esigenza di
assicurare alle città etrusche, considerate singolarmente e nel loro insieme,
il controllo delle vie di transito terrestri e marittime (cioè di appoggio
al cabotaggio) verso la Campania. Ma il fondo della popolazione con la
sua lingua, le sue tradizioni e le sue strutture resta non etrusco, cioè
latino: ciò che senza dubbio dipende dal fatto che l'espansione etrusca a sud
del Tevere, quando avviene, trova un mondo di società protostoriche già da
tempo evolute, organizzate, sulla via dell'urbanizzazione e
presumibilmente coscienti di una loro identità «nazionale», quale è quello
che ci si rivela attraverso le scoperte archeologiche soprattutto recenti e
recentissime, con le sue fasi di cultura «protolaziale» o «albana» dei
crematori della fine dell'età del bronzo e del principio dell'età del ferro
(X-IX secolo) e di cultura dei fiorenti centri di inumatori dell'VIII-VII
secolo tipicamente esemplificata dalla grande necropoli di Decima. La
penetrazione degli Etruschi non sembra anteriore al VII secolo. Essa appare
preceduta da una serie di scambi tra i territori dell'una e dell'altra sponda
del Tevere, che tuttavia non alterano la sostanziale diversità della loro
fisionomia culturale: basti pensare che gli aspetti caratteristici della
civiltà villanoviana, che pure raggiungono le lontane coste del Salernitano,
sono ignoti al Lazio (come del resto al territorio falisco pur situato sulla
sponda etrusca). Viceversa è notevole la diffusione nel villanoviano
dell'urna cineraria in forma di capanna che ha la sua origine e il suo
epicentro nell'area laziale. I rapporti culturali piuttosto stretti esistenti
tra il Lazio e i territori di Capena e di Falerii fra il IX e il VII secolo
si giustificano con l'identità del fondo etnico-linguistico. Ma si può
parlare anche di una più vasta rete di connessioni che include Veio, il
territorio capenate e falisco e Roma. D' altra parte su questa
zona medio-tiberina deve aver pesato, in questo stesso periodo, anche un
altro elemento di indubbia rilevanza storica, e cioè la pressione
degl'italici Sabini discesi dall'interno della penisola lungo la valle del
Tevere fino a raggiungere Roma e ad essere implicati nelle sue stesse
origini. Una concreta presenza etrusca nel Lazio è attestata dalle tombe
principesche di Palestrina, l'antica Praeneste (tombe Castellani, Bernardini,
Barberini) databili intorno al secondo quarto del VII secolo, caratterizzate
da fasto si corredi orientalizzanti per molti aspetti analoghi a quelli di
Caere e dalla presenza di un'iscrizione etrusca; inoltre dalla tomba a tumulo
pure orientalizzante scoperta a Lavinio, la città sacra costiera a sud di
Roma, sotto un più tardo sacrario ricordato dagli antichi come «tomba di
Enea»; nonche dai sepolcri e dai depositi votivi di Satricum includenti
una iscrizione etrusca della fine del VII secolo. Per quel che riguarda Roma
la tradizione antica colloca l'inizio della dinastia etrusca dei Tarquini
negli ultimi decenni del VII secolo, con la «chiamata al potere» di
Tarquinio Prisco in sostituzione del re sabino Anco Marcio; ne per quanto
sappiamo esistono indizi archeologici a favore di una presenza etrusca in
Roma prima di quel momento. Tutti questi dati esigono un tentativo
d'interpretazione storica. È possibile che la richiesta di sicurezza dei
confini delle città etrusche meridionali, Caere e Veio, e di aperture
commerciali e politiche verso il sud abbiano imposto, nel momento di massima
fioritura della potenza tirrenica, la creazione di punti di controllo e
l'imposizione di signorie etrusche nei centri locali, sia all'interno in
direzione della cruciale via della valle del Sacco (come è presumibile per
Palestrina), sia lungo la costa fino a quel territorio dei Rutuli (e poi dei
Volsci) che Catone ricordava sotto il dominio etrusco. Il «ritardo» di
Roma - pur divisa dall'Etruria solo da un guado, e dunque naturalmente
esposta per prima ad un ingresso degli Etruschi nel Lazio - costituisce un
problema la cui spiegazione potrà ricercarsi, oltre che nella stessa
grandezza e potenza autonoma di un centro in rapido sviluppo (tanto che già
nel VII secolo, stando alla tradizione, era stato in grado di distruggere
Albalonga, cioè di imporre il suo predominio sulle antichissime comunità
albane nel cuore del Lazio), anche e soprattutto nell'ostacolo rappresentato
dai Sabini allora presenti e presumibilmente predominanti a livello di
direzione politica in Roma stessa (contro i Sabini appunto si manifesterà
poi, sempre secondo la tradizione, la principale attività militare di
Tarquinio Prisco assurto al potere regio). Alla tradizione annalistica
raccolta dalla grande storiografia romana (specialmente Livio e Dionisio
D'Alicarnasso) circa gli eventi dinastici e socio-politici di Roma dalla fine
del VII e per tutto il VI secolo non possiamo più negare oggi, sia pure con
ogni riserva e prudenza critica, una sostanziale veridicità storica.
Combinata con altre versioni collaterali delle fonti antiche e parzialmente
confermata dai dati epigrafici e archeologi ci (cioè topografico-monumentali
e artistici), essa ci offre un quadro sufficientemente perspicuo della
presenza etrusca a Roma e nel Lazio. Prescindendo dai particolari aneddotici
e dall'autenticità individuale dei personaggi - di cui tuttavia non è da
diffidare a priori (si pensi ad esempio alla spiccata verosimiglianza di una
figura come quella della regina Tanaquil, con il suo prenome femminile
etrusco Thanachvil di larga diffusione nella epigrafia arcaica, nata da
nobile famiglia tarquiniese ed esperta nell'interpretazione dei prodigi
celesti secondo la scienza degli Etruschi: Livio, I, 34) -, noi possiamo
riconoscere l'esistenza di una fase iniziale di affermazione e di
consolidamento della sovranità etrusca in Roma, e di etruschizzazione di
Roma, collocabile tra gli ultimi decenni del VII e i primi decenni del VI
secolo e sia pure convenzionalmente definibile come «età di Tarquinio
Prisco». Dobbiamo ritenere che allora l'aggregato romano abbia assunto il suo
volto definitivo di città unitaria ed organizzata, con una cinta difensiva,
la creazione di uno spazio pubblico (il foro) distinto dalle abitazioni
private, l'attrezzatura dell'arce del Campidoglio con l'inizio della
costruzione del tempio di Giove Capitolino, secondo esplicite notizie delle
fonti letterarie; ed effettivamente le scoperte archeologiche sembrano far
risalire a questo periodo le prime stabili costruzioni architettoniche civili
e religiose con le loro decorazioni di terracotta, soprattutto alla Regia
(presumibile santuario-dimora ufficiale dei re) e al Comizio, sopra tracce di
tombe e capanne più antiche. Sul piano politico e sociale si presumeranno
l'avvento e la supremazia di una classe dirigente etrusca, che possiamo
pensare installata di preferenza con le proprie dimore ai piedi del
Campidoglio tra la valle del Foro e il guado tiberino, in quello che sarà il
futuro Vicus Tuscus: ne abbiamo testimonianze dalle iscrizioni etrusche, di
cui due provenienti dall'adiacente area sacra di S. Omobono (una
specialmente, incisa su una placchetta d'avorio in figura di leoncino,
menziona un Araz Silqetenas Spurianas di possibile origine tarquiniese come
lo stesso re Tarquinio secondo la tradizione); il carattere prevalentemente
aristocratico della struttura dei poteri della città al principio del VI
secolo potrebbe trovare una conferma indiretta anche nell'iscrizione
dedicatoria latina del cosiddetto vaso di Duenos, se duenos è termine
generico indicante una qualità sociale del donante (= bonus, cioè «nobile»).
È importante notare che le iscrizioni in lingua etrusca sembrano essere tutte
di carattere privato, mentre il testo del famoso cippo del Lapis Niger nel
Foro Romano, ormai con sicurezza databile in questo periodo e riferibile a
prescrizioni di cerimonie sacre del re nel Comizio, è scritto in latino e
pertanto documenta, nonostante la sovranità etrusca, l'uso del latino come
lingua ufficiale dello stato. Gli eventi e i personaggi del regno di
Servio Tullio succeduto a Tarquinio Prisco, nei decenni centrali del VI
secolo, ci appaiono in verità ricordati dalla storiografia romana con
particolari drammatici, in parte fiabeschi e talvolta persino contraddittori
(origini oscure, comunque non etrusche, del protagonista; irregolarità
formali della sua assunzione al potere; riforme e popolarità, per cui pote
essere più tardi esaltato come fondatore delle libertà repubblicane e persino
ispiratore della costituzione della repubblica: esplicitamente Livio, I, 60;
imparentamento e rivalità con la famiglia dei Tarquini, di perdurante
potenza, culminanti nella sanguinosa «presa di potere» di Tarquinio il
Superbo), tali da far pensare ad un racconto in qualche modo sistematizzato
che nasconda situazioni, avvenimenti e processi istituzionali assai più
complessi. Il riferimento dell'imperatore Claudio, nel suo discorso al Senato
registrato dalle Tavole di Lione (C.I.L. XIII, 1668), a una tradizione
etrusca che identificava Servio Tullio con Mastarna compagno di gesta di
Caelius Vibenna eponimo del Monte Celio apre il discorso sulla fondata
possibilità di inserire in questo periodo - che potremmo anche qui definire
convenzional-mente come «età serviana» - tutti gli avvenimenti e personaggi
connessi con il «ciclo» semileggendario delle avventure dei fratelli Celio (o
Cele) e Aulo Vibenna (nella forma etrusca Caile e Avle Vipina) e di Mastarna
o Maxtarna (etrusco Macstrna), citate in numerosi e vari accenni delle fonti
letterarie e raffigurate nelle pitture della Tomba Francois di Vulci oltre
che in qualche altrò monumento minore. Si tratta di un' azione militare o di
un complesso di azioni militari, presumibilmente tendenti al formarsi di una
grossa «signoria» nel cuore dell'Etruria meridionale e su Roma stessa,
condotta dal «nobile duce» Celio Vibenna con il fratello Aulo, ambedue
originari di Vulci (Festo, Arnobio), e con il «fedelissimo compagno»
(Claudio) Mastarna, oltre che con altri camerati di varia estrazione, un
Larth Ulthe, un Marce Camitlna e un Rasce (l'«etrusco»?) forse di condizione
servile (Tomba Francois). È dubbio se questa sconvolgente iniziativa sia
partita da un tentativo ufficiale di affermazione egemonica della città di
Vulci, che comunque più tardi sembra essersene appropriata la gloria come
provano le pitture della Tomba Francois; in ogni caso s'incontrò
l'opposizione di altre città tra cui Volsinii e Roma, i cui capi coalizzati
(Larth Papathna di Volsinii, Pesna Arcmsna di Sovana? , Cneve Tarchunie di
Roma), dopo aver catturato lo stesso duce nemico Celio Vibenna - liberato
dall'amico Mastarna -, furono a loro volta sconfitti e a quanto sembra
massacrati (Tomba Francois). Ne conseguì la mano libera su Roma, con il
presumibile abbattimento del potere dei Tarquini che forse in origine avevano
favorito l'azione dei Vibenna (Tacito, Festo), l'installazione di questi
ultimi al margine della città (sul Celio?), infine con la morte di Celio il
probabile passaggio del dominio di Roma ad Aulo - il cui cranio trovato sul
Campidoglio farebbe parte di una storiella pseudoetimologica tendente a
spiegare il nome Capitolium come «caput Oli regis» - e quindi a Mastarna,
cioè, secondo le fonti di Claudio, a Servio Tullio. L 'insieme di questi
fatti potrebbe collocarsi tra la fine del regno di Tarquinio Prisco e
l'inizio del «regno» di Servio Tullio, diremmo attorno ai tempi di passaggio
dal primo al secondo venticinquennio del VI secolo (Tacito, Ann.. IV, 65
accenna a Tarquinio Prisco, ma da storico prudente avverte che per i rapporti
con i Vibenna potrebbe essersi trattato anche di «un qualsiasi altro re»: ed
effettivamente nella Tomba Francois appare un Cneve Tarchunie, un Gneo
Tarquinio, del tutto ignoto alla tradizione storiografica canonica). La
cronologia proposta, e diciamo pure la storicità dell'intera saga dei Vibenna
e di Mastarna, trova una luminosa concreta conferma archeologica nella
scoperta a Veio dell'iscrizione dedicatoria di un Avile Vipiiennas, recante
in forma arcaica l'identica formula onomastica di Aulo Vibenna e databile
nella prima metà del VI secolo. Abbiamo dunque ragioni per credere che in
questo periodo i legami fra Roma e l'Etruriasiano stati rafforzati dalla
presenza di elementi e di poteri diversi dalla dinastia dei Tarquini. La
questione diventa più complessa per quanto riguarda l'interpretazione storica
del personaggio Mastarna che, pur nel suo stretto vincolo con i Vibenna, non
ci appare necessariamente di origine etrusca: il suo nome singolo ha tutta
l'apparenza di un appellativo qualificante o di un titolo, per di più
chiaramente riferibile alla parola latina mogister con l'aggiunta del
suffisso aggettivale etrusco -no. Ciò ha indotto alcuni studiosi moderni a
supporre l'esistenza a Roma già in età regia della funzione del
mogister populi che all'inizio della repubblica avrebbe sostituito il potere
del re come magistratura suprema unica di dittatura ordinaria, collegata
al concetto di populus quale totalità dei cit- tadini, in un quadro tendente
a trasformare lo stato in una comunità egualitaria contro la supremazia
delle vecchie oligarchie gentilizie. Il «re» Servio Tullio, al quale la
tradizione attribuiva la riforma centuriata, potrebbe essere stato il
promotore di questo rinnovamento ed egli stesso esponente dell'affermazione
delle nuove classi sociali in qualità di mogister populi (donde
l'identificazione con Mastarna) in contrasto con l'ordine preesistente
rappresentato dalla dinastia dei Tarquini; la sua azione politica, dopo la
parentesi della reazione tirannica di Tarquinio il Superbo negli ultimi
decenni del VI secolo, sarebbe stata destinata a trionfare con l'inizio della
repubblica. Ma con questi avvenimenti siamo già in una fase avanzata di cui
si tratterà specificamente in una parte successiva di questo
capitolo.
Verso il Nord
Passando a considerare l' opposta
direttiva dell' espansione terrestre degli Etruschi, cioè l' Italia
settentrionale, dobbiamo dire che anche qui esistono zone per le quali si può
parlare, come per la Campania, di una occupazione stanziale, cioè di un
dominio di popolamento, che s'incentra essenzialmente nell'attuale Emilia-
Romagna a contatto con l'Etruria propria attraverso i passi del crinale
appenninico. Le fonti antiche alludono insistentemente ad una colonizzazione
e del pari alla fondazione di dodici città, di riflesso delle dodici città
dell'Etruria propria. Si aggiunga il ricordo di un'azione colonizzatrice
particolarmente antica, adombrata nella leggenda che l'attribuiva
principalmente a Tarconte, l'eroe delle origini eponimo e fondatore di
Tarquinia (versioni citate negli Scholia Vernonesia e in Servio, ad Aen., X,
200, specialmente a proposito delle origini di Mantova). Una derivazione
ravvicinata dalle zone dell'Etruria settentrionale interna si percepisce
d'altra parte nelle tradizioni relative alla fondazione di Felsina (Bologna)
e di Mantova da parte di Ocnus (altrimenti Aunus, forse da Aucnus) figlio o
fratello di Aulestes, a sua volta fondatore di Perugia. A parte la questione
delle origini la presenza degli Etruschi a nord dell' Appennino
Tosco-Emiliano è larghissimamente testimoniata dagli scrittori classici,
storici e geografici, e confermata dall'archeologia con estrema dovizia di
dati incontestabili, inclusi i documenti epigrafici. Si tratta ora di
precisare, nei limiti del possibile, i tempi, i luoghi, i caratteri e gli
sviluppi di questa occupazione. Nella più diffusa tradizione degli studi
moderni la conquista etrusca dei territori della pianura padana, cioè di
quella che suol definirsi appunto «Etruria padana», avrebbe avuto luogo con
notevole ritardo rispetto alla nascita dell'Etruria propria, e cioè non prima
della fine del VI secolo, quando a Bologna, a Marzabotto e a Spina - i centri
archeologicamente più significativi dell'etruschismo nordico - appaiono i
primi segni di una civiltà d'inconfondibile impronta etrusca e con iscrizioni
etrusche. Questa tesi fu proposta dai primi scavatori delle necropoli
bolognesi e in particolare sostenuta da E. Brizio in rapporto alla generale
teoria della provenienza degli Etruschi dall'oriente e della loro
sovrapposizione agli Umbri identificati con i «Villanoviani», tenuto conto
del perdurare della cultura villanoviana a Bologna fino all'inoltrato VI
secolo e dell'apparente distacco topografico fra i sepolcreti appartenenti a
questa cultura e le tombe di tipo «etrusco». Ma questa interpretazione è già
stata oggetto in passato di più o meno cauti dubbi, ed ora crediamo di poter
affermare con sufficiente fondatezza che l'apparizione, tutto sommato
localmente improvvisa, del villanoviano nel IX secolo debba considerarsi
la manifestazione esteriore di un iniziale passaggio di elementi etruschi
dalla Toscana oltre l'Appennino, e ciò non soltanto per le
valutazioni precedentemente espresse sul significato etnico della
diffusione villanoviana in generale, ma anche proprio per l'indizio, non
da sottovalutare, di quelle tradizioni che associavano in qualche modo
la colonizzazione padana con i tempi delle origini della nazione
etrusca. Che a Bologna in età villanoviana già si parlasse etrusco
sembrerebbe del resto dimostrato dalla recente individuazione di una
iscrizione etrusca incisa sopra un vaso della fase tardo-villanoviano di
Arnoaldi, databile intorno al 600 a.C., cioè assai prima della supposto
«conquista etrusca» della fine del VI secolo. Un altro motivo che collega ab
antiquo il villanoviano transappenninico alla grande matrice dell'Etruria
tirrenica si coglie nella sua stessa localizzazione geografica, che è
rappresentata da due zone limitate immediatamente aderenti all'Appennino: la
prima in Emilia, a Bologna e nei suoi immediati dintorni, in corrispondenza
dello sbocco delle valli dei fiumi Reno e Savena, cioè dei passi
Piastre-Collina e Futa; la seconda in Romagna, a Verucchio, San Marino ed
altre località minori, in corrispondenza e a guardia della valle del
Marecchia con i suoi raccordi montani all'alto bacino del Tevere e al
Casentino. Esse hanno veramente tutta l'apparenza di due "teste di ponte"
dall'Etruria verso la pianura padana e la costa adriatica. La cultura
villanoviana di Verucchio si evolve dal IX fino al VI secolo attraverso
almeno tre fasi, di cui soprattutto la seconda presenta singolari affinità
con il villanoviano evoluto dell'Etruria meridionale, mentre la terza fase,
in cui pur resta dominante la cremazione, appare già largamente imbevuta di
elementi orientalizzanti; assai notevoli e comprensibili in ogni caso sono i
rapporti con le vicine culture medio-adriatiche di Novilara e del
Piceno. Alla possibilità di una remota penetrazione etrusca lungo le coste
del Mare Adriatico si ricollega l'esistenza dell"'isola" villanoviana di
Fermo nelle Marche, in piena zona di cultura picena, con caratteristiche
anche qui di forti somiglianze con il villanoviano dell'Etruria meridionale;
non sembra incongruo citare in proposito il ricordo di una fondazione
tirrenica, cioè etrusca, del santuario di Hera a Cupra a non grande distanza
da Fermo (Strabone, V, 4, 2): è immaginabile una sia pur modesta attività
marittima sull' Adriatico analoga a quella coeva sul Tirreno? Per quel che
riguarda il villanoviano dell'Emilia è eviqente che esso ha attirato e attira
in modo preminente l'attenzione degli studiosi non soltanto per la priorità
delle scoperte risalenti a circa la metà del secolo scorso e per la ricchezza
dei materiali, ma anche e soprattutto per la possibilità di
sistematiche classificazioni topografi-che e cronologiche e per la continuità
di vita storica del suo maggiore centro, Bologna. L'area circostante in
pianura, entro limiti piuttosto ristretti segnati dai corsi del Panaro e del
Santerno e, a nord, del Reno presenta insediamenti di villaggi con tutto
l'aspetto di una specifica occupazione agricola (ne si può escludere che
proprio la disponibilità di queste estese terre coltivabili abbia primamente
attratto gli abitatori delle zone a sud dell'Appennino); ma l'occupazione si
addensa essenzialmente a Bologna che via via assumerà il carattere di un
aggregato protourbano. Ed è a Bologna che noi cogliamo le linee di uno
sviluppo che va dal IX al VI secolo, distinto in quattro fasi successive (più
o meno corrispondenti ai periodi già designati con i nomi delle località
dei sepolcreti: Savena-San Vitale, Benacci I, Benacci II, Arnoaldi), delle
quali le ultime appaiono progressivamente imbevute di elementi
orientalizzanti, pur nella tradizionale fedeltà al rito della cremazione, con
l'apparizione di stele funerarie scolpite e il sostituirsi ai vecchi cinerari
biconici di cinerari in forma di situle (secchie) con decorazione
stampigliata. È difficile dire quale impatto possano aver avuto le prime
penetrazioni etrusche a nord della catena appenninica con le popolazioni
locali di là dalle sfere, ripetiamo limitate, della presenza villanoviana. Di
queste altre popolazioni sappiamo del resto poco o nulla, anche dal punto di
vista della documentazione archeologica che per il resto
dell'area emiliano-romagnola e in generale per la Padania orientale risulta
ancora scarsamente conosciuta durante l'età del ferro, mal distinguibile
dalle sopravvivenze della tarda età del bronzo che fu comunque fiorente in
queste zone (notevole, anche se priva di significato storico dato il
dislivello cronologico, è la netta contrapposizione tra l'area delle
terremare del bronzo nell'Emilia occidentale e l'area di occupazione
villanoviana dell'età del ferro). Fa, bene inteso, eccezione il grosso e
netto complesso di manifestazioni della civiltà Paleoveneta a nord del Po e
dell'Adige, con il suo svolgimento parallelo a quello del villanoviano
emiliano e la sua certa connotazione etnica. Un fenomeno protostorico ben
definito che sembra fronteggiare a nord della grande piana fluviale il
fenomeno villanoviano esteso ai piedi dell'Appennino, cioè già i Veneti di
fronte agli Etruschi, e con influenze culturali via via crescenti sull'area
emiliana, sensibili soprattutto nell'ultima fase bolognese di Arnoaldi. Sui
fatti della Romagna, non rileno incerti di quelli emiliani per i tempi più
antichi, si potrà accennare soltanto ad osservazioni sporadiche specialmente
in zone montane, con particolare riguardo alle tombe di guerrieri in circoli
di pietra di San Martino in Gattara nell'alta valle del Lamone, che per altro
non sono anteriori alla fine del VI secolo e che possono oggi attribuirsi
con certezza, più che a genti indigene (o peggio a supposti invasori
gallici), all'avanzata verso il nord di Italici umbri, dei quali si avrà
occasione di riparlare. In sostanza la espansione protostorica degli Etruschi
verso la pianura padana e la costa adriatica non deve aver trovato rilevanti
ostacoli in preesistenze probabilmente non dense e forse attardate; in ogni
caso essa deve esser rimasta contenuta ai margini dello spartiacque
appenninico con aspetti economici, sociali e culturali di sostanziale
conservatorismo rispetto all'Etruria propria (ciò che tuttavia non esclude un
pro gresso, accelerato tra il VII e il VI secolo, sia negli scambi con le
aree esterne tirrenica, veneta e medio-adriatica, sia negli aspetti interni
delle forme di vita e del lusso: specialmente a Verucchio, dove più che a
Bologna s'intravvede il formarsi di gerarchie economico-politiche e
conseguenti emergenze culturali). Il solo indizio, sia pure discutibile e
discusso, di una politica attiva oltre i limiti dell'Emilia centrale e
interessata alla difesa degli equilibri dell'intera pianura padana parrebbe
riconoscersi nella notizia di Livio (V, 34) sulla battaglia combattuta, e
perduta, dagli Etruschi nelle vicinanze del Ticino contro i Galli discesi in
Italia con Belloveso e Segoveso ai tempi del re Tarquinio Prisco e della
fondazione focea di Marsiglia, cioè intorno al 600 a.C., se questa cronologia
alta dell'invasione celtica è accettabile come crediamo: saremmo comunque in
un periodo avanzato di Bologna villanoviana, corrispondente alla fase
Arnoaldi, e curiosamente proprio ai tempi nei quali si data la prima
iscrizione etrusca sopra ricordata. Ma la grande espansione etrusca nel nord,
con la sua massima estensione e con la pienezza e ricchezza delle sue
più caratteristiche espressioni, deve collocarsi effettivamente non prima
degli ultimi decenni del VI secolo, quale probabile conseguenza di
avvenimenti economici e politici di portata assai più vasta riguardanti non
soltanto l'Etruria, ma l'intera area italiana e i mari circostanti. È in
questo momento, e soprattutto a partire dagli inizi del V secolo, che
l'incipiente crisi della potenza marittima etrusca nel Tirreno può aver
richiamato allo sbocco adriatico; che lo sviluppo dei centri dell'Etruria
interna (Volsinii, Perugia, Chiusi, Volterra, Fiesole) può aver favorito un
più pressante interesse per gli aperti territori d'oltre Appennino e
determinato nuove ondate di migrazione verso il nord; che l'incremento dei
traffici con l'Europa centrale attraverso le Alpi ed in pari tempo la
minacciosa pressione dei Celti già dilaganti nella pianura padana possono
aver reso necessario un consolidamento ed un ampliamento della presenza
etrusca nell'ltalia settentrionale trasformandola in vero e proprio dominio.
Di fatto vediamo ora trasformarsi l'antico centro bolognese in città,
l'etrusca Felsina; nascere subitaneamente nella media valle del Reno, quale
stazione viaria, ma probabilmente anche come centro d'interesse minerario,
Marzabotto (cui si ritiene di attribuire il nome antico di Misa), con la sua
esemplare pianta regolare a strade incrociate di tipo ortogonale che gli dà
una così evidente impronta di "colonia"; fiorire sul mare alla foce di un
antico ramo del Po la grande città di Spina aperta ad ogni traffico e ad ogni
presenza e influenza dei Greci, e più a nord Adria condominio degli Etruschi
e dei Veneti (sui quali ormai si riversa il prestigio culturale
etrusco). Nell'antica area marittima romagnola è ricordato e in parte
attestato il possesso etrusco di Ravenna; il controllo degli Etruschi si
estende anche all'Emilia occidentale almeno fino all'Enza e forse oltre
(certamente contenuto dall'opposta avanzata celtica: priva di fondamento è
l'etruscità e comunque incerta l'ubicazione di Melpum già da molti ritenuto
un avamposto etrusco in Lombardia); sicuramente fu passato il Po verso le
Alpi come provano le tradizioni dell'origine etrusca di Mantova e taluni
indizi culturali ed epigrafici, con preminente attrazione verso la valle
dell' Adige quale canale di comunicazioni transalpine fra il territorio dei
Veneti e l'espansione dei Celti, donde la tradizione liviana dell'origine
etrusca dei Reti. La civiltà etrusca nell'Italia settentrionale tra la
fine del VI e l'inoltrato IV secolo è rappresentata tipicamente a Bologna,
come nei centri coevi e archeologicamente emergenti di Marzabotto e di Spina,
dalla fase culturale tradizionale detta della Certosa (da uno dei più
rappresentativi sepolcreti bolognesi): la caratterizzano abbondanti arredi di
tipo etrusco, larghissime importazioni di ceramica greca attica, il
diffondersi del rito funebre dell'inumazione, le stele sepolcrali figurate
(essenzialmente a Bologna), le iscrizioni etrusche. Alcuni di questi elementi
possono suggerire qualche fondata ipotesi sulle correnti d'origine,
dall'Etruria propria, del popolamento e delle influenze culturali di questa
grandiosa "colonizzazione". Molti indizi archeologici, epigrafici e
onomastici ci riportano, con indubbia verosimiglianza storico-geografica,
alle città dell'Etruria settentrionale interna quali Chiusi, Volterra e
Fiesole (si pensi tra l'altro alla comune seppur differenziata produzione
delle stele nel volterrano, attorno a Fiesole e a Bologna); transiti diretti
ed antichi furono senza dubbio le medie valli appenniniche. Ma esistono anche
tracce di influenze provenienti dall'Etruria meridionale che potrebbero far
sospettare una direttiva risalente lungo la valle del Tevere, tramite
Volsinii e Perugia, fino a raggiungere la costa adriatica: ciò che da un lato
ci consente di richiamare la saga "perugina" di Aulestes e di Ocnus, da
un altro lato ci fa pensare alle remote affinità del villanoviano romagnolo
e di Fermo con il villanoviano sud-etrusco. Quali che siano le provenienze
e i fattori di alimentazione dell'etruscità padano-adriatica, certo essa
acquistò nel V secolo una sua individualità e compattezza, attorno ai centri
maggiori (dalla polarità interna di Felsina a quella marittima di Spina),
oltreche una sua straordinaria rilevanza storica-economica, politica,
culturale, tale da giustificare la tradizione della dodecapoli nordica
contrapposta alla dodecapoli tirrena. Ma dello sviluppo e della sorte finale
di queste città e di questo dominio si tratterà in modo più specifico nel
quadro della successive vicende del mondo etrusco. Non può tralasciarsi
infine un cenno a quell'altra direttiva di espansione etrusca verso il nord
che è rappresentata dalla Liguria. Ci troviamo di fronte a premesse e a
situazioni storiche del tutto diverse, in cui l'attività marittima deve aver
avuto la sua parte di naturale rilevanza rispetto a possibili conquiste o
installazioni terrestri, con qualche analogia (per altro vaga e diremmo
embrionale) con i fenomeni dell'avanzata e della presenza etrusca nel
mezzogiorno. Il territorio compreso tra le foci dell' Amo e la valle del
Magra, cioè la Versilia e la Lunigiana, fu certamente investito da una
penetrazione etrusca già in età arcaica, anche se prevalentemente abitato da
popolazioni liguri e con una certa fluttuazione nel tempo tra Etruschi e
Liguri: lo attestano le fonti antiche (seppure con ambiguità nella sua
attribuzione alle due stirpi), alcune testimonianze archeologiche ed
epigrafiche, oltre che la finale attribuzione di queste zone all'Etruria
augustea; ma la stessa Pisa, pur nella importanza della sua posizione
geografica alla foce dell'Arno, non sembra essere mai stata tra le maggiori
città etrusche, collocandosi in una zona marginale del territorio di Volterra
e quasi di confine rispetto al resto dell'Etruria; mentre Luni avrà anch'essa
un suo autentico e grosso sviluppo urbano soltanto alla fine della civiltà
etrusca. Fra l'Etruria padana e le penetrazioni etrusche in territorio ligure
non sono pensabili coerenti rapporti sia per l'interposta area montuosa
tenuta da primitive e notoriamente bellicose tribù locali, sia anche e
soprattutto per l'avanzata dei Celti. Una progressione terrestre verso
occidente non sembra del resto aver superato la Magra; mentre è probabile, e
comprovata da iscrizioni etrusche, una presenza commerciale etrusca, forse
anche al limite di un controllo "coloniale" ; nel centro portuale di Genova;
più oltre le attività marittime verso le coste provenzali debbono aver
trovato un fermo nelle istallazioni greche, effettivamente coloniali, di
Monaco e di Nizza.
L'alleanza cartaginese e gli scontri
con i Greci e con Roma
Le fonti storiche greche ci parlano per il VI
secolo a.C. di accese rivalità "internazionali" per il controllo delle rotte
marittime, dandoci notizia di vere e proprie battaglie navali tra Greci ed
Etruschi. Così, ad esempio, nel caso della battaglia combattuta l'anno 535
a.C. circa, nelle acque del Mare Sardo, della quale ci informa Erodoto. Si
tratta di uno degli episodi più salienti di tutta la storia
etrusca, provocato dall'intrusione greca nel "mare di casa" degli Etruschi e,
in particolare, dalla fondazione, intorno al 565 a.C., della colonia di
Alalie (Aleria) sulla costa orientale della Corsica. Protagonisti di questa
impresa erano stati i profughi della città di Focea, nella Ionia asiatica,
che per sfuggire alla minaccia persiana si erano trasferiti a più riprese
in Occidente e, attorno al 600 a.C., si erano stabiliti alle foci del
Rodano fondandovi Massalie (Marsiglia). Gli scali marittimi e le
stazioni commerciali che i Massalioti avevano installato nel Golfo del Leone
e sulle coste del Mar Ligure misero così in crisi il commercio
etrusco. Quando l'ultima ondata di Focei provenienti dalla madre patria
occupati dai Persiani si stabilì in Corsica, gli etruschi furono costretti a
reagire. A muoversi fu Cere, la quale si alleò con Cartagine, anch'essa
seriamente danneggiata nei suoi interessi commerciali dall'intrusione focea.
L'alleanza condusse allo scontro armato al quale presero parte sessanta navi
dei Focei e altrettante di Etruschi e Cartaginesi. Stando sempre a
Erodoto, a vincere furono i Greci, ma la vittoria rimase senza frutto "poiché
- scrive lo storico - quaranta delle loro navi furono distrutte e le restanti
rese inservibili", sicché "essi tornarono ad Alalie,
presero a bordo i
figli, le donne e quanto dei loro beni potevano trasportare e, lasciata la
Corsica, partirono verso Reggio".
Alcuni dei prigionieri focesi furono
portati a Cere e lapidati. Coloro che passavano sul luogo dell'eccidio,
racconta ancora Erodoto, animali o uomini, "diventavano rattrappiti, storpi o
paralitici". Gli Etruschi mandarono allora a interrogare l'oracolo di Delfi,
il quale ordinò loro di celebrare sacrifici e di tenere ogni anno giochi per
placare le anime dei Focesi massacrati. Il successivo clamoroso episodio
della lotta per il predominio del Mediterraneo di verificò agli inizi del V
secolo a.C. nel 480 a.C. quando i Greci di Sicilia, accettando la supremazia
dei Siracusani, affrontarono a Imera i Cartaginesi sbarcati in forze
nell'isola sotto la guida di Amilcare. La sconfitta dei Cartaginesi fu un
colpo anche per gli etruschi, benché non avessero partecipato direttamente al
conflitto. Qualche anno dopo, nel 474 a.C., essi dovettero affrontare Cuma,
ribelle al loro predominio in Campania, e il tiranno siracusano Gerone, da
Cuma chiamato in soccorso. Furono sconfitti in una memorabile battaglia
navale presso Capo Miseno, che segnò l'inizio del declino della loro potenza
sul mare. I Greci cominciarono ad assalire e saccheggiare le località
etrusche della costa tirrenica, creando così un calo delle attività
produttive degli Etruschi, che non potevano fare più affidamento
sull'esportazione. Durante una spedizione siracusana, vennero saccheggiate
Vetulonia e Populonia. Anche sull'Adriatico gli Etruschi avevano cercato di
espandersi. Tappe fondamentali la fondazione di Marzabotto, una sorta di
stazione intermedia in Emilia sul percorso verso il delta del Po, e di Spina,
sul mare. Spina era un emporio molto vivace, frequentato dagli Ateniesi, fino
al IV secolo a.C., quando la presenza di questi sull'Adriatico cominciò ad
essere contrastata e alla fine soppiantata dai Siracusani. Incidentalmente,
era da questi mercati adriatici che transitava l'ambra, la resina
giallastra reperibile sul Baltico, usata in gioielleria, per la quale donne,
ma anche uomini, andavano matti. Ragioni economiche più che mire
espansionistiche spiegano dunque il dilatarsi della presenza etrusca a nord e
a sud della penisola. Nel corso del V secolo a.C. due gravi pericoli si
affacciarono ai due estremi del mondo etrusco: a nord, la pressione delle
tribù celtiche penetrate da tempo in Italia attraverso le Alpi; a sud,
l'incipiente espansionismo di Roma la quale, scaduta la tregua del 474 a.C.,
riprese con determinazione la guerra contro Veio. Nel 396 a.C. Veio venne
conquistata e distrutta, mentre il suo territorio fu incorporato nello Stato
romano. Nello stesso anno della caduta di Veio, le fonti storiche parlano di
occupazione da parte dei Galli della prima città dell'Etruria padana: una non
meglio precisata Melpum che alcuni pensano di localizzare nei pressi di
Milano o persino di identificare con essa. Nell'Etruria meridionale,
intanto, due fatti nuovi vennero a caratterizzare il IV secolo a.C. Da una
parte ci fu la progressiva emarginazione di Cere che, sia pure pacificamente,
finì col soccombere all'alleata Roma, alla quale cedette il suo antico ruolo.
Da un'altra parte, ci fu invece il ritorno di Tarquinia, la quale grazie ad
una accorta politica di sfruttamento delle risorse agricole del suo
territorio, riuscì a superare la crisi che l'aveva lungamente abbattuta e a
rifiorire, con ricchezza e potenza. Ma l'accresciuta potenza e la sua stessa
posizione geografica, portarono Tarquinia ad una situazione di antagonismo
con Roma, che portò alla guerra scoppiata nel 358 a.C. e che si concluse nel
351 a.C. senza vincitori né vinti, ma con una tregua quarantennale. Intanto
sul fronte settentrionale finiva l'Etruria padana: nella seconda metà del IV
secolo infatti l'onda celtica travolse tutti i centri etruschi della
regione, compreso quello più importante di Felsina (Bologna), occupata dai
Galli. Alla fine del IV secolo a.C. gli etruschi erano ormai ridotti entro
i confini originari, peraltro già intaccati a sud dall'espansione romana.
Nel 311 a.C. si riaccese la guerra contro Roma. Ancora una volta
l'iniziativa dovette essere degli Etruschi, ma protagoniste dello scontro
furono ora le città centro-settentrionali, con a capo Volsini affiancata da
Vulci, Arezzo, Cortona, Perugia e Tarquinia, svincolatasi dalla tregua appena
scaduta. Nel 308 a.C. Tarquinia rinnovò la tregua, mentre Cortona, Arezzo e
Perugia si arresero accettando condizioni umilianti. L'anno 302 a.C. la
guerra etrusco-romana, non ancora definitivamente conclusa, tornò a
riaccendersi, per protrarsi, con una serie pressoché ininterrotta di campagne
annuali, fino al 280 a.C.: i Romani quasi sempre all'attacco, gli Etruschi
costretti alla difensiva e a rinchiudersi spesso nelle loro città
fortificate. Tra il 281 e il 280 a.C. si arresero per sempre Vulci e Volsini,
mentre le città settentrionali si affrettarono a rinnovare i precedenti
trattati di pace. Tutti infine dovettero sottoscrivere patti associativi o
"federativi" (dal latino foedus, trattato), in forza dei quali mantenevano
una formale indipendenza, con lo status giuridico di "alleate" (sociae),
mentre, di fatto, accettavano la supremazia di Roma, ponendosi nei confronti
di questa in rapporto di sudditanza.
L'Etruria
"federata"
La capitolazione delle città etrusche e il loro ingresso
forzato nell' alleanza con Roma segnò l'inizio dell'ultimo periodo della
storia etrusca: quello che viene definito dell'Etruria "federata". A
fondamento del nuovo ordine imposto all'Etruria stavano dunque i vincoli
federali derivanti dai trattati. Questi ebbero, a seconda dei casi, clausole
speciali e diverse, particolarmente dure per le città che più direttamente si
erano opposte a Roma e più lungamente e duramente avevano lottato contro di
essa. Includenti tra l'altro anche l'imposizione di tributi e il controllo
sulla pubblica amministrazione. In generale, i trattati imponevano a tutte
le città di rinunciare a qualsiasi iniziativa politica autonoma; di
riconoscere come propri gli amici e gli alleati di Roma e i suoi nemici; di
fornire alla stessa Roma aiuti ogniqualvolta essa ne facesse richiesta,
specialmente in occasione di guerre e con contributi di uomini e mezzi; di
coordinare con gli interessi Romani ogni loro attività, anche di natura
produttiva e commerciale; di garantire il mantenimento dei propri ordinamenti
istituzionali fondati sul potere delle oligarchie aristocratiche; di
accettare (o di richiedere) l'intervento di Roma in caso di gravi turbamenti
sociali e di conflitti interni. L' aspetto positivo del sistema federativo
consisteva nel fatto che le singole città continuavano a vivere la loro vita
"locale", sostanzialmente libera e autonoma, regolata e ordinata secondo i
principi e le usanze della tradizione nazionale, di mantenere le proprie
leggi, la propria lingua e la propria religione. La federazione fu messa
a dura prova dall'invasione dell'Italia da parte di Annibale. La seconda
guerra punica (218 - 202 a.C.) toccò l'Etruria soltanto marginalmente,
durante la discesa dell'esercito cartaginese lungo la valle tiberina, ma
l'impressione suscitata dalla disfatta subita dai Romani al Trasimeno, in
territorio etrusco, fu tanto forte che nelle città etrusche si risvegliò
qualche desiderio di rivincita. Ci furono dei movimenti di simpatia nei
confronti di Annibale e qualche seria agitazione che costrinse i Romani a
rafforzare i loro presidi. Poi comunque i patti vennero rispettati e ogni
città diede il suo contributo prezioso prima alla resistenza e poi alla
riscossa romana; in particolare quando, nel 205 a.C., furono forniti aiuti
massicci a Scipione per l'allestimento della sua spedizione africana. Tito
Livio scrive in proposito che le città etrusche si comportarono ognuna
secondo le proprie possibilità e ne elenca dettagliatamente i contributi:
Cere dette frumento e viveri di vario genere; Tarquinia tele di lino per le
vele delle navi; Roselle, Chiusi, e Perugia fornirono legname per la
costruzione degli scafi e frumento; Volterra frumento e pece per le
calafature; Populonia ferro; Arezzo, infine, approntò grandi quantità di armi
(3.000 scudi e altrettanti elmi e 100.000 giavellotti), strumenti e attrezzi
da lavoro e 100.000 moggi (= antichi recipienti) di grano e rifornimenti di
ogni sorta da servire per quaranta navi. Con il I secolo a.C., tra il 90 e
l'89, Roma concesse agli Etruschi i diritti di cittadinanza e nacquero così,
tra l'80 e il 70 a.C., i municipi Romani dell'Etruria. La realtà storica
degli Etruschi venne infine consacrata con una delle regioni in cui la stessa
Italia venne suddivisa da Augusto: la regione VII, alla quale toccò di
perpetuare, fino alla fine del mondo antico, il nome glorioso dell'Etruria. Continua>
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