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L'ARTE DEGLI
ETRUSCHI
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LA STORIA, L'ARTE, IL
CULTO DEI MORTI, LA RELIGIONE, LA LINGUA |
Pagina precedente La pittura
La pittura etrusca è il completamento dell'architettura delle
tombe. La tecnica usata è una specie di affresco, con colori disciolti
nell'acqua che vengono assorbiti dallo strato sottile dell'intonaco. La
pittura è planimetrica: pochi colori, privi di chiaroscuro, distesi in
superficie, staccati dal fondo, con la conseguente prevalenza della linea che
li campisce, quasi come se fosse una decorazione vascolare. Quanto ai
temi, poiché lo scopo delle figurazioni è quello di circondare il morto con
le immagini della vita, prevalgono le scene di costume, con
musicanti, danzatori, ginnasti, partite di caccia e di pesca. Non mancano
tuttavia le figurazioni mitologiche, derivate dalla pittura vascolare greca o
dovute ad artisti greci immigrati. Tra queste i più antichi affreschi sono
quelli della Tomba dei Tori a Tarquinia, con l'agguato teso da Achille al
giovane troiano Troilo presso la fontana sacra ad Apollo; tra le figure,
definite linearisticamente e campite con chiari colori, compaiono fiori
stilizzati, ed altri elementi paesistici, quali alberelli e cespugli spinosi.
Nella tomba della caccia e della pesca a Tarquinia le figure dei
pescatori, rappresentate con grafia semplificata e leggera, assumono un
carattere squisitamente decorativo al pari degli uccelli e dei pesci che
popolano sparsamente gli ampi spazi celesti e marini. Il fascino di queste ed
altre consimili figurazioni consiste in buona parte nella
disposizione irrealistica dei colori: secondo una convenzione derivata dalla
pittura vascolare le figure sono tinteggiate in rosso se maschili, in bianco
se femminili: nè mancano talvolta audaci invenzioni e arbitrii cromatici,
come cavalli rossi ed azzurri. Altre pitture interessanti sono quelle
della Tomba del Barone. Sulle pareti della piccola camera funeraria sono
cavalli e figure umane, intervallate da arboscelli. I colori (nero, rosso,
grigio, verde, bruno-violaceo) sono stesi su un sottile velo di preparazione.
Il rapporto fra i pieni e i vuoti è perfettamente bilanciato, così come sono
calcolati gli equilibri fra le immagini di un lato e quelle dell'altro, le
proporzioni delle figure fra loro e delle singole parti con tutto il
complesso. Il disegno è sottile, raffinato, adeguato all'eleganza delle
figure. Nel IV sec. si stringono nuovi contatti con la civiltà greca. Lo
confermano le pitture della Tomba dell'Orco a Tarquinia fra le quali emerge
la testa di una fanciulla della famiglia Velcha, partecipante a un banchetto
funebre. Il fondo verde scuro, dai contorni irregolari, rappresenta forse una
nuvola nera, richiamo all'oltretomba. Questo piano di fondo dal colore
compatto fa risaltare il profilo puro della giovane e permette di evitare la
tradizionale linea di contorno. Manca però il chiaroscuro. Il valore
dell'immagine si affida al rapporto fra i due colori fondamentali: quello del
fondo e il bianco-rosa del bel volto di profilo, le labbra lievemente
dischiuse, il grande occhio aperto a contemplare la scena infernale, i
capelli inghirlanditi, il collo ornato da una doppia collana. La visione
dell'oltretomba si va facendo drammatica. A contrasto con la fanciulla Velcha
sta l'immagine paurosa del demone Charu (Caronte), dal colorito verdastro, il
naso adunco, la barbetta irsuta, i capelli anguiformi, le grandi ali, il
bastone. L'aldilà non è più il luogo dove prosegue tranquilla la vita, ma
bensì il luogo di tormenti per tutti gli uomini.
Tomba dei
Tori: L'agguato di Achille a Troilo Tomba della Caccia e della
Pesca: Scena di pesca
Tomba del Barone: Fregio con persone e
cavalli Tomba dell'Orco: Testa di
fanciulla
Finalità, condizionamenti e
tendenze
L'arte etrusca nacque dalla vita quotidiana e rimase sempre
sostanzialmente vincolata al soddisfacimento delle esigenze da quella
proposte. Essa fu pertanto strettamente legata, da un lato, alla struttura
sociale, dall' altro, alla sfera delle concezioni religiose e dell'ideologia
funeraria. Non a caso, cioè non soltanto per le fortuite circostanze della
loro conservazione e della loro riscoperta, le testimonianze che essa ha
lasciato provengono nella stragrande maggioranza dalle aree dei santuari e da
quelle cimiteriali. Questo significa che, tranne poche eccezioni, si trattò
di un' arte dalle caratteristiche di tipo artigianale (o di artigianato
artistico), con tutto quello che ciò comporta e pur tenendo presente che la
distinzione tra arte e artigianato non sempre trova valida rispondenza nel
mondo antico. In ogni caso, non si può parlare per l'arte etrusca di un
fenomeno autonomo né di finalità estetiche, e solo raramente ci si trova di
fronte a manifestazioni che si potrebbero dire di "grande arte", frutto
meditato del lavoro di particolari individualità e opera personale di artisti
consapevoli o di scuole ben definite e caratterizzate come tali. Si
aggiunga il condizionamento dell'arte greca che fu sempre presente
nella maggior parte dei temi, dei tipi, degli schemi compositivi e dei
canoni stilistici. Al punto che, una volta superata la fase dei primordi
ancora legata alle tradizioni d'origine preistorica o alle
suggestioni ornamentalistiche del periodo orientalizzante, le successive fasi
di sviluppo, a partire dal primo arcaismo e fino alla tarda età
ellenistica, cioè dalla fine del VII secolo a quasi tutto il I secolo a.C.,
ripeterono praticamente quelle dell'arte greca. Il condizionamento fu
tuttavia di natura prevalentemente formale ed esteriore. Essenzialmente
decorativa, attenta al particolare e generalmente di sapore incolto e
popolaresco; tesa alla spontaneità e all'immediatezza, disorganica ed
espressiva, portata all' enfatizzazione e alla tensione drammatica;
conservatrice ma anche incostante, discontinua e incoerente: proprio per
queste sue naturali tendenze (oltre che per la necessità di selezionare i
modelli onde adattarli ai propri scopi), l'arte etrusca seppe trovare una sua
via di fronte all' insegnamento dei Greci. Sicché il confronto, più che
soffermarsi sulla qualità, riguarda la diversità degli atteggiamenti e delle
realizzazioni, cioè il modo di reagire degli artisti etruschi alle
sollecitazioni e ai modelli che giungevano dal mondo greco. A seconda delle
necessità e delle epoche, e quindi in relazione alle caratteristiche delle
varie fasi dell' arte greca. Così, dei modelli via via disponibili, gli
Etruschi alcuni li ignorarono altri li assunsero facendoli propri e talvolta
rielaborandoli, magari insistendo su motivi che nella stessa Grecia ebbero
scarso rilievo o furono presto superati. Quanto ai canoni stilistici, ci
furono momenti di consonanza e di partecipazione, come nel periodo arcaico (e
specialmente nei confronti dell'arte ionica) del VI secolo a.C.: momenti di
ripulsa e di rigetto o, più semplicemente, d'incomprensione, come nel periodo
classico, tra il V e il IV secolo a.C.; momenti di sudditanza e di
pedissequa imitazione, come nel periodo ellenistico, dal III al I secolo
a.C. Non mancarono tuttavia atteggiamenti estranei, se non antitetici,
alle concezioni figurative greche, soprattutto quando queste non erano
congeniali alle tendenze espressive etrusche e quindi non sentite e
incomprese. E furono proprio quelle tendenze, insieme alle finalità pratiche
del quotidiano, che indussero gli Etruschi a trascurare, o a relegare in
secondo piano, certe forme d'espressione artistica, come l'architettura e
la statuaria, e a privilegiarne altre, come la coroplastica, ossia l'arte
della creta, la bronzistica, a quella connessa, e le cosiddette arti minori,
come la piccola plastica, la ceramica, l'oreficeria, la toreutica. Con
risultati spesso di notevole perfezione tecnica e non dirado d'elevato valore
formale.
Arte profana
E' proprio nelle arti
"minori", nella vastissima produzione di suppellettili, piccoli bronzi fusi e
piccole terracotte con funzioni ornamentali, gemme incise e avori intagliati,
che si espresse al meglio l'originalità e la creatività degli artisti
etruschi. Particolare attenzione meritano gli specchi, trovati a centinaia
nelle necropoli. Il modello più comune era quello tondo con il manico. Il
retro della suprficie di bronzo era inciso, solitamente con soggetti
mitologici provenienti dall'arte greca, oppure coperto di iscrizioni.
Ricchissima e meritatamente famosa anche la produzione di monili ed oggetti
in oro, nella quale gli etruschi dimostrarono un elevato grado di
elaborazione tecnica, capace di sfruttare le possibilità espressive del
metallo. Il periodo di massima fioritura fu tra la metà del VII e la fine del
VI secolo a.C., a Vetulonia e Vulci. Nella tomba Regolini- Galassi, scoperta
a Cere nel 1832, gli archeologi si trovarono davanti ad un gran numero di
gioielli; grandi bracciali lavorati, fibule incise, un pettorale in oro
sbalzato di 42 cm. conservato ai musei Vaticani.
Specchio
riproducente la cerimonia del chiodo Anche nell'orificeria trionfò il gusto
per il sovraccarico e gli effetti enfatici, sia con l'incontro di motivi
ornamentali vegetali, figurati e geometrici, sia con l'impiego delle diverse
tecniche di lavorazione, spesso combinate insieme. Tali tecniche
comprendevano l'incisione, lo sbalzo, la fusione la filigrana e, soprattutto,
la granulazione, consistente nell'applicare sulla superficie del metallo
piccoli granelli d'oro saldati tra loro, moltiplicando così l'effetto
dell'incidenza della luce.
Gioielli (V-VI sec) Collare con
teste di Sileno, VI-V sec.
I monumenti
architettonici
Ben altra ricchezza di testimonianze dirette ci si offre
per l'architettura e per le arti figurative: si tratta infatti degli stessi
monumenti superstiti e dei resti materiali recuperati attraverso le
scoperte archeologiche. Nonostante la distruzione di tante opere e manufatti
antichi, questi documenti sono tali da offrirci una visione sufficientemente
ampia dell'attività artistica degli antichi Etruschi nelle sue tendenze e nei
suoi sviluppi. L'edilizia monumentale non può naturalmente valutarsi sul
metro di quella dei Greci o dei Romani. L'impiego esclusivo di strutture
murarie a blocchi di pietra s'incontra soltanto nelle opere militari e nelle
tombe: per il resto, e cioè per gli edifici sacri e civili, esso appare
limitato alle fondazioni, mentre per le parti elevate si adoperavano
materiali più leggeri, quali il legno, il pietrame, i mattoni crudi, la
terracotta. Ciò significa che di questi edifici non possediamo più che le
piante e qualche elemento di decorazione; ma nonostante tutto è possibile
raffigurarcene l'aspetto originario, sulla base dei modelli offerti dai
sepolcri rupestri e dalle urne che ne imitano le forme o da piccole
riproduzioni di destinazione votiva. Le strutture murarie offrono, a seconda
dei tempi, dei luoghi e della qualità dei monumenti, una notevole diversità
di materiale e di tecnica. Le pietre di più largo impiego sono i calcari, il
travertino, le arenarie, il tufo, tutte di estrazione locale: l'assenza del
marmo che ha tanta importanza nell'architettura greca, si deve al fatto che
lo sfruttamento delle cave di Carrara non avrà inizio se non con l'età
romana. Il genere delle murature varia dalla tecnica dei grandi blocchi
semilavorati ed irregolari, quale si mostra, ad esempio, nella cinta di
Vetulonia, a quella dei fini paramenti con piccoli blocchi squadrati che si
riscontra nelle mura urbane delle Città dell'Etruria meridionale ed in
altre costruzioni, specialmente funerarie. Ma non c'è in generale
un'evoluzione delle strutture più rozze e primitive alle più raffinate: la
muratura quadrata regolare si conosce e si impiega sin dalle fasi iniziali
della civiltà etrusca; e le differenze paiono dovute piuttosto a
particolari condizioni di materiale, di capacità delle maestranze, di fretta
nella costruzione, ecc. Contrariamente a certe opinioni già diffuse tra
gli archeologi, la tecnica poligonale vera e propria deve considerarsi
estranea agli usi costruttivi degli Etruschi e tardivamente introdotta, dai
primi coloni militari romani, nelle piazzeforti di Pyrgi, di Cosa, di
Saturnia. L 'uso, almeno parziale, dei mattoni crudi non soltanto
nell'edilizia domestica ma anche nell'architettura militare sembra attestato
a Roselle sin dalla fine del VII secolo; ciò rientra nel quadro di una
tradizione struttiva che si va sempre più rivelando diffusa nel mondo
mediterraneo sotto l'influenza greca; ed è probabile che a questa tecnica si
riferiscano anche le notizie sulla cinta di mattoni della città di
Arezzo.
Notevole diffusione ha in Etruria il sistema delle coperture a
falsa volta ed a falsa cupola con filari di blocchi sovrapposti in aggetto,
di universale diffusione mediterranea; al quale si sovrappone, nelle fasi
più recenti, la tecnica della volta reale a spinte, che appare in porte di
città (Volterra, Perugia) ed in monumenti sepolcrali, preludendo alle
strutture dominanti dell'architettura romana. In questa predilezione per la
copertura a volta l'architettura etrusca continua, perfeziona e trasferisce
in sede monumentale motivi di antica origine orientale che l'architettura
greca classica tende invece generalmente a respingere come elementi estranei
alla sua rigorosa concezione rettilinea, basata sulla struttura ad
architravi. Fra i monumenti più notevoli dell'architettura militare
ricordiamo le cinte di Tarquinia (e tratti superstiti di quelle, simili, di
Veio, Caere, Vulci, ecc.), Volsinii, Roselle, Vetulonia, Volterra, Chiusi,
Cortona, Perugia, Fiesole, Arezzo. Queste opere si datano generalmente tra il
VI ed il III secolo, con ampliamenti e rifacimenti posteriori, dato che in
generale rimasero efficienti durante i tempi romani e in qualche caso anche
più tardi. Nonostante la diversità delle strutture, hanno in comune il
carattere di muraglie continue, originariamente non intrammezzate da torri:
avancorpi e rientranze si osservano soltanto in corrispondenza delle
porte. Queste erano forse da principio architravate; ma nei grandiosi
esempi superstiti della Porta dell' Arco di Volterra e della Porta Marzia e
della Porta "di Augusto" di Perugia appaiono coperte a volta e presentano
in facciata elementi di decorazione architettonica o figurata a
rilievo. L'aspetto antico di cinte urbane merlate e con porte ad arco ci
è testimoniato anche da figurazioni di urne e sarcofagi.
L'architettura funeraria si presenta con manifestazioni piuttosto eterogenee,
per il fatto che essa rappresenta l'occasionale complemento o sviluppo
costruttivo di tipi di sepolcri di origine od ispirazione diversa. La maggior
parte delle tombe, anche a carattere monumentale, risulta infatti lavorata
direttamente nella roccia sia che si tratti di vani scavati (che vanno dalle
più modeste forme dei pozzetti e delle fosse primitive sino ai grandiosi e
complessi ipogei con molti ambienti dell'età più matura), sia che si tratti
di adattamenti esterni aventi l'aspetto di tumuli rotondi o corpi
quadrangolari con terra sovrapposta o di facciate scolpite nella fronte di
declivi rupestri. Tali opere, pur non avendo un carattere architettonico,
si ricollegano strettamente all'architettura in quanto imitano
spesso fedelmente le forme di edifici reali nel loro aspetto esteriore
ed interiore, negli elementi decorativi e talvolta persino nelle
rifiniture d'arredo e nelle suppellettili. Frequente è però anche la
presenza di opere murarie, talvolta aggiunte ad integrazione delle pareti e
delle coperture di roccia, altre volte costituenti per intero il monumento.
Le camere sepolcrali costruite della fase più antica presentano coperture a
falsa volta ed eccezionalmente a falsa cupola (come nella tomba di Casal
Marittimo nel territorio di Volterra, o in quella recentemente scavata presso
Quinto Fiorentino). In età più recente si hanno tombe con volta a botte di
bella struttura (per es. la tomba del Granduca a Chiusi e l'Ipogeo di San
Mannopresso Perugia). Il tipo monumentale del tumulo rotondo (con tamburo
generalmente ricavato nella roccia come a Cerveteri e costruito come a
Populonia) diviene a partire dal V secolo assai meno frequente, ma evolve,
forse anche in contatto con l'architettura funeraria ellenistica, verso lo
schema dei grandi mausolei circolari romani di età imperiale quali l'Augusteo
e il Mausoleo di Adriano (per es. la così detta "Tanella di Pitagora" di
Cortona). Non mancano sepolcri quadrangolari informa di tempietti, per
esempio a Populonia. E va ricordato infine anche il tipo di tomba con
basamento a zoccolo sormontato da grandi cippi troncoconici o da obelischi,
noto soprattutto attraverso le figurazioni dei rilievi delle urne sepolcrali,
ma attestato direttamente fuori d'Etruria, nel così detto sepolcro degli
Orazi e Curiazi presso Albano Laziale. Un grandioso monumento di questo tipo
con più obelischi adorni di campane è ricordato dalle fonti antiche come
esistente a Chiusi, e identificato con la tomba del re Porsenna. I cippi
funerari imitano in piccolo queste forme. L'architettura domestica e
quella religiosa hanno origini e caratteristiche comuni. Delle forme assunte
dalla casa si tratterà più avanti parlando della vita etrusca. Il tempio che
da principio si identifica, come nel mondo paleo-ellenico, con la casa
rettangolare con tetto a spioventi e senza portico (documentata da modellini
votivi e dai resti di un edificio scoperto sull'acropoli di Veio) assume poi
forme più complesse parzialmente parallele a quelle del tempio greco. Il tipo
che Vitruvio (de archit. IV, 7) attribuisce agli Etruschi è caratterizzato da
una pianta di larghezza poco inferiore alla lunghezza, con la metà anteriore
occupata dal portico colonnato e la metà posteriore costituita da tre celle,
per tre diverse divinità, o da una sola cella fiancheggiata da due alae o
ambulacri aperti. Resti di monumenti scavati a Veio, a Pyrgi, ad Orvieto, a
Fiesole, a Marzabotto dimostrano che questo schema ebbe effettivamente una
vasta e durevole diffusione in Etruria dall'età arcaica sino a quella
ellenistica: esso appare anche a Roma nel tempio di Giove Capitolino, la cui
prima edificazione risale ai tempi della dinastia etrusca dei Tarquini. Ma
senza dubbio si costruivano anche edifici sacri più vicini, nel loro schema,
al tempio greco, e cioè con pianta rettangolare allungata e colonne in
facciata (prostilo) o addirittura con colonnato continuo su tutti i quattro
lati (periptero): esempi cospicui ne sono il tempio più antico di Pyrgi e
quello dell'Ara della Regina a Tarquinia. L' originalità dei templi etruschi
non consiste comunque tanto nella loro concezione planimetrica quanto
piuttosto nel materiale, nelle proporzioni e nelle forme dell'alzato, nel
genere della decorazione. Si è già detto che, all'infuori delle fondazioni,
essi dovevano essere costruiti di materiali leggeri, con impiego del legno
per le ossature portanti e per la travatura. Ciò comporta uno sviluppo
relativamente limitato in altezza (quale appunto risulta dalle misure del
tempio "tuscanico" secondo Vitruvio), larghi intercolumni, tetto ampio con
notevole sporgenza laterale delle gronde. La travatura lignea esige una
protezione con elementi compatti ma leggeri: donde l'uso universale di
rivestimenti di terracotta policroma, che si sviluppano in vivaci sistemi
decorativi geometrici e figurati con placche di copertura longitudinale o
terminale delle travi, cornici, ornati della estremità dei coppi (antefisse)
e delle sovrastrutture del tetto (acroteri). Il frontone era in origine
aperto, lasciando visibili in facciata le strutture della gabbia del tetto;
solo più tardi si adottò il tipo del frontone chiuso, decorato con una
composizione figurata come nei templi greci. Queste varie caratteristiche del
tempio etrusco trovano indubbi riscontri nella primitiva architettura greca
e, come si è detto, parziali paralleli nel tempio greco arcaico e
classico. La differenza sta nel fatto che il tempio greco sin dal VII secolo
a;C. tende a trasformarsi in un edificio monumentale pressoche
interamente costruito di pietra, con una sua propria ed inconfondibile
evoluzione delle forme architettoniche; mentre il tempio etrusco resta
sostanzialmente fedele alle tradizioni dell'architettura lignea sino alla
piena età ellenistica, accentuando, se mai, l'esuberanza decorativa dei
rivestimenti di terracotta. I quali offrono, specialmente nel VI e V secolo,
varietà di concezioni e sviluppi: per esempio nel tipo delle lastre di
copertura longitudiriale dei travi che possono formare fregi figurati
continui a rilievo di ispirazione greco-orientale (così detta "prima fase" o
"fase ionica") o possono invece presentare una semplice ornamentazione
dipinta con forte sviluppo della sovrastante cornice in aggetto, come nei
sistemi decorativi fittili della Grecia propria e delle colonie dell'Italia
Meridionale e della Sicilia ("seconda fase" o "fase arcaica"). Quest'ultimo
tipo si afferma a partire dalla fine del VI secolo, in coincidenza con il
momento di maggiore splendore dello sviluppo dei templi etruschi,
caratterizzato anche dalle antefisse a conchiglia, dalle decorazioni
frontonali a rilievo distribuite sulle placche di rivestimento delle testate
dei travi lunghi, dai grandi acroteri figurati: esempi caratteristici il
tempio di Veio e i templi di Pyrgi. Lo schema decorativo così formato sarà
poi seguito con poche modificazioni nei secoli successivi.
La sola
novità rilevante è l'introduzione del frontone chiuso decorato con una
composizione figurata unica alla maniera greca, di terracotta e
in altorilievo; esso appare già forse nel V secolo, ma ci è noto soprattutto
a partire dal IV secolo a Tarquinia, a Talamone, a Luni ("terza fase" o
"fase ellenistica"). Parlando delle forme e dei rivestimenti del tempio
etrusco, non si può trascurare il fatto fondamentale che i medesimi caratteri
e sviluppi si riscontrano nei templi del territorio falisco e laziale e,
sia pure con qualche differenza, in Campania: può parlarsi di una comune
civiltà architettonica dell'Italia tirrenica a settentrione dell'area
direttamente toccata dalla colonizzazione greca. L'affermarsi del tipo del
tempio di pietra, in sostituzione delle tradizionali strutture lignee
(sotto l'influsso greco, ma pur sempre con forme peculiari), avrà
luogo progressivamente, sotto l'influsso dei modelli greci, nel corso del
IV secolo e dell'età ellenistica. Il predominio di elementi di ispirazione
arcaica anche in opere di età molto recente si osserva del resto in tutti i
motivi della decorazione architettonica etrusca, quali appaiono nelle
costruzioni di pietra ed in quelle di legno e terracotta, e nelle loro
innumerevoli riproduzioni ed imitazioni dell'arte funeraria e votiva.
Vitruvio parla di un "ordine tuscanico" distinto dagli ordini dorici, ionici
e corinzio dell'architettura greca. Esso era caratterizzato da un tipo di
colonna che si vede effettivamente impiegato nei monumenti romani e
rappresenta una variante della colonna dorica, con la stessa forma di
capitello ma con il fusto liscio e con un basamento. La sua origine etrusca è
provata da testimonianze che risalgono all'età arcaica: di questa forma era,
verisimilmente, la maggior parte delle colonne lignee dei templi e degli
edifici civili. Si tratta in realtà di una sopravvivenza ed elaborazione del
tipo detto "protodorico" (fornito di plinto sagomato, con fusto senza
scanalature e sensibilmente rigonfio, con capitello a cuscino bombato), che
nel mondo greco primitivo era stato prestissimo sostituito dalla colonna
dorica vera e propria. Ma accanto a questo tipo vediamo diffuso in Etruria
anche un genere di colonne e di pilastri con capitello a volute floreali,
semplici e composite, che trova la sua ispirazione nei capitelli
orientali siro-ciprioti e nei capitelli così detti "eolici" della Grecia
orientale: genere, anch'esso, precocemente scomparso nel mondo greco, con
l'affermarsi del capitello ionico.
Modanature di impronta arcaica, con
dadi, cordoni, "campane", "gole", appaiono dominanti nella sagoma di
basamenti e coronamenti di edifici, altari, cippi, ecc. ; mentre la
incorniciatura di porte e di finestre sottolinea gli stipiti sui lati del
vano rastremato verso l'alto e il sovrapposto architrave sporgente che, in
epoca più evoluta, si piega alle estremità nelle caratteristiche
"orecchiette". L'ornamentazione non figurata delle cornici, dei coronamenti e
degli altri elementi delle sovrastrutture degli edifici appare domi!lata da
motivi a foglie stilizzate, trecce, palmette e fiori di loto, spirali,
meandri, ecc., di prevalente ispirazione ionica. Il sistema del fregio dorico
con metope alternate a triglifi sembra diffondersi soltanto dopo il IV
secolo; ma spesso, in luogo dei triglifi, s'incontrano veri e propri
pilastrini.
Il problema dell' «arte
etrusca»
Considerate le diverse categorie di monumenti artistici, resta
da affrontare il problema più grosso, il «problema» per eccellenza: quello
del loro significato estetico e storico. Gran parte delle opere che
possediamo non ha, ovviamente, il carattere di creazione originale: rientra
nel solco di tradizioni artigianali e riflette soltanto alla lontana le
grandi linee di sviluppo della storia dell'arte. Ma esistono alcuni monumenti
e gruppi di monumenti, nei quali si può ritenere presente l'impronta di una
certa personalità artistica, più o meno spiccata. Si tratta di stabilire fino
a che punto questa possibilità risponda a realtà, e cioè se veramente ci
si trovi, in questi casi, di fronte a piccole o grandi creazioni; o invece
si abbia pur sempre a fare con semplici imitazioni di modelli; ed in
quale ambiente debbano eventualmente ricercarsi questi modelli. Il fatto
più evidente è che la stragrande maggioranza dei temi, dei tipi, degli schemi
compositivi della produzione artistica etrusca trova i suoi precedenti e la
sua ispirazione nel mondo greco; e che tale dipendenza si estende normalmente
anche alle forme stilistiche; cosicche lo sviluppo dell'arte in Etruria, dal
primo arcaismo sino alla tarda età ellenistica, ripete sostanzialmente le
fasi di sviluppo dell'arte greca. Però si notano anche differenze: nel senso
che l'Etruria ignora certi motivi della produzione ellenica ed elabora invece
diffusamente altri che in Grecia hanno scarso rilievo o appartengono a fasi
stilistiche già superate; ne mancano indizi di atteggiamenti estranei, se non
addirittura antitetici, alle concezioni figurative greche. C'è da
chiedersi se e fino a che punto gli artisti etruschi abbiano inteso reagire e
di fatto abbiano reagito, con soluzioni originali, alle dominanti formule
greche. C'è da chiedersi poi se, realizzando una loro propria visione
artistica, essi abbiano creato le premesse al formarsi di tradizioni locali
distinte dall'arte greca; e su quale ampiezza e per quale durata queste
tradizioni abbiano avuto la possibilità di imporsi. In altre parole, posta
l'esistenza di spunti autonomi nella produzione-etrusca, ci domandiamo se
tali spunti siano fatti effimeri e slegati o se esista tra loro
una connessione; e se un'ipotetica «costante» nelle tendenze del gusto
in Etruria attraverso i secoli debba attribuirsi a continuità storica
o piuttosto ubbidisca ad una profonda predisposizione del popolo etrusco
verso orientamenti espres- sivi differenti da quelli del popolo greco.
Questi diversi interrogativi si riassumono, tutto sommato, in uno solo: fino
a che punto ed in che senso possiamo parlare della esistenza di un' ,
'arte etrusca"?. La posizione della critica nel secolo XIX fu, in
proposito, negativa. La produzione etrusca era da considerare come un
fenomeno provinciale dell'arte greca, con opere rozze e senza valore; mentre
ogni trovamento di un qualche pregio artistico fatto in Etruria si attribuiva
senz'altro a mano greca. Ma i nuovi orientamenti della critica e della storia
dell'arte, affermatisi col principio del nostro secolo specie a seguito degli
studi di A. Riegl, riconoscendo piena validità di espressione ad esperienze
artistiche diverse da quella classica, aprirono la strada ad una comprensione
di fenomeni stilistici del mondo antico per l'innanzi sottovalutati, quale
appunto l'etrusco. Dall'analisi di singole opere d'arte di recente scoperta
(come l'Apollo di Veio, come il "Bruto Capitolino") si arrivò, più o
meno cautamente, ad affermare l'originalità e l'autonomia dell'arte
etrusca rispetto alla greca, per una sua diversa ed inconfondibile visione
della forma. che trasoarirebbe evidente anche nell'imitazione degli schemi e
dei tipi ellenici. Si parlò, in vero, addirittura di una peculiare
disposizione dei popoli italici (non soltanto, quindi, degli Etruschi, ma più
tardi anche dei Romani) a concepire la realtà secondo una immagine
«illusionistica», «inorganica», immediata e fortemente individualizzata, di
contro alla visione «naturalistica», «organica», «tipica» dell'arte greca. A
questi punti di vista non sono mancate obiezioni critiche di un certo peso.
Più di recente si è tornati anzi ad affermare che non esistono in Etruria
vere opere d'arte se non sotto la diretta influenza delle forme greche; e che
la «originalità» etrusco-italica si riduce a manifestazioni effimere
di colorita abilità artigiana e popolaresca, incapaci di dar vita ad
una tradizione (R. Bianchi Bandinelli). Il problema, dunque, resta ancora
sostanzialmente aperto. Ma forse esso fu male impostato così dai negatori
come dai sostenitori della originalità dell'arte etrusca. Si considerò
infatti generalmente questo fenomeno in blocco, senza tener conto che esso
abbraccia manifestazioni quanto mai varie, per la durata di almeno sette
secoli, e che le trasformazioni avvenute nel corso di un così lungo periodo
non riguardano soltanto l'Etruria e la Grecia, ma hanno una portata decisiva
per tutto lo sviluppo dell'arte antica. È evidente che le prospettive mutano
a seconda dei tempi; e parrebbe quindi logico esaminare il problema
dell'«arte etrusca» riportandoci alla situazione di ciascun periodo,
piuttosto che cercarne astrattamente una soluzione complessiva. Risulterà
così che alle origini, più o meno tra il IX e il VII secolo, l'attività
artistica dei centri etruschi si svolge parallela a quella di altri paesi
mediterranei, compresa la Grecia, in un fluido e complicato accavallarsi di
motivi di tradizione preistorica (specialmente evidenti nel vivace realismo
della piccola plastica) e di influenze orientali che caratterizzano quella
fase del gusto decorativo che chiamiamo appunto orientalizzante. È chiaro che
per questi periodi non è ancora il caso di parlare di subordinazione all'arte
greca. Diremo piuttosto che l'Etruria partecipa, nella sua posizione
periferica verso occidente, alla estrema elaborazione di un'antica esperienza
artistica mediterranea, pa!allelamente alla Grecia. Ma fatta eccezione per
qualche spunto di originalità nella plastica funeraria (per esempio nelle
espressive teste dei canopi di Chiusi), non vi è nessun accenno al formarsi
di una valida tradizione artistica locale, o nazionale. Qui appunto sta la
differenza decisiva, gravida di sviluppi futuri, rispetto alla Grecia che,
precisamente in questa età cruciale, andava superando con vigoroso impeto
creativo le formule del vecchio mondo ed aprendo una nuova pagina nella
storia dell'arte universale. Non sorretta da una propria tradizione,
fatalmente l'Etruria era destinata a cadere nell' orbita della esperienza
artistica greca, la cui capacità di attrazione, oltreche nel fascino
innovatore e nella intrinseca superiorità di valori estetici, consisteva
anche nella sua amplissima diffusione territoriale dalla madrepatria alle
colonie d'Italia e di Sicilia. Ciò avvenne effettivamente almeno dagli inizi
del VI secolo; e dobbiamo ritenere che le influenze dell'arcaismo greco
sull'Etruria nel campo artistico non consistessero soltanto nella
importazione di oggetti e di modelli, ma anche nella diretta attività di
artefici greci nelle città etrusche. Eppure proprio in questo periodo, nel VI
e nei primi decenni del V secolo, la produzione d'arte in Etruria si
manifesta con un rigoglio meraviglioso e, per certi aspetti, insuperato,
nell'architettura templare, nella plastica, nella bronzistica, nella pittura,
negli oggetti «minori» decorati: con opere numerosissime, di tecnica
raffinata e di alto livello stilistico, non prive di un certo «carattere»
peculiare che le rende sovente riconoscibili come prodotti etruschi o di
ambiente etrusco. Il dilemma originario (dipendenza o autonomia ?) si propone
qui ora con aspetti tanto più delicati, quanto più i fatti sembrano condurre
verso un giudizio apparentemente contraddittorio, che giustifica le
incertezze dei critici moderni: nel senso che queste opere pur essendo
«etrusche» non cessano per ciò stesso di esser «greche». Affermazione che
potrebbe sembrare paradossale; ma non lo è, purche ci si sforzi di
sbarazzarci dello schema mentale di «arte nazionale», che nel
caso particolare non è applicabile. Dobbiamo in verità tener presente che
l'arte greca arcaica non rappresenta un fenomeno rigidamente unitario e
stilisticamente conseguente; bensì piuttosto il risultato della elaborazione
locale di centri quanto mai vari, numerosi e dispersi nello spazio, con
correnti vivaci, multiformi, mutevoli che si diffondono, si trasmettono,
s'intersecano. In questo quadro, essenzialmente regionalistico, trovano posto
anche territori parzialmente ellenizzati o non greci ma sotto l'influenza
della civiltà greca: quali, ad esempio, in oriente Cipro, la Licia, la Caria,
la Lidia, la Frigia, a settentrione la Macedonia e la Tracia, in occidente
l'Etruria. Questi paesi non sono soltanto «province» recettive che subiscono
passivamente l'impronta delle creazioni del genio greco; ma partecipano essi
stessi, come «regioni» di una vasta comunità civile, alla elaborazione
dell'arte arcaica, secondo le circostanze, le particolari esigenze, le
capacità: e pertanto con proprie caratteristiche nell'ambito della più vasta
unità periellenica. Nel caso dell'Etruria le peculiarità «regionali» della
produzione d'arte arcaica potrebbero indicarsi nei seguenti motivi
principali: 1) esigenze religiose e funerarie che predispongono
l'attività figurativa ad una rappresentazione concreta, immediata, veristica
della realtà; 2) sensibili persistenze di schemi, tecniche e
tradizioni formali della precedente fase «mediterranea» ed
orientalizzante; 3) relazioni dirette e fortissime con le
esperienze artistiche del mondo greco-orientale, e cioè dei centri eolici e
ionici delle coste e delle isole dell' Asia Minore occidentale: tali da
determinare per molti decenni (fra la metà del VI e il principio del V
secolo) quella impronta, sostanzialmente unitaria, della cultura figurativa
in Etruria che suoI definirsi appunto come arte
ionico-etrusca; 4) manifestarsi, nell'ambito dell'attività
artistica locale, di rilevanti personalità, di artisti greci e locali e di
scuole di alto livello (bronzisti di Vulci e di Perugia, pittori come il
maestro della Tomba del Barone a Tarquinia, modellatori in terracotta di Veio
come l'artefice dell'«Apollo» e i suoi seguaci, ecc.), cui difficilmente
potremmo negare una autentica, origi- nale ed a volte vigorosissima genialità
creativa.
La prospettiva storica muta completamente nella prima metà del
V secolo. La Grecia passa dall'arte arcaica all'arte classica con un processo
di fondamentale importanza per la storia della civiltà umana. Ma l'attività
dei grandi maestri greci tende a farsi stilisticamente più serrata, acquista
un carattere più «nazionale», si concentra specialmente attorno ad Atene e
alle città del Peloponneso. Anche per motivi d'ordine politico-economico
le regioni periferiche declinano. L'Etruria resta isolata. Lo spirito
della classicità, in quanto realtà di un momento creativo irripetibile
ed inimitabile, non trova rispondenza del mondo etrusco, dove, tra l'altro,
le felici condizioni storiche che avevano favorito la fioritura
artistica dell'arcaismo sono venute a cessare, con l'inizio di un lungo
periodo di depressione e di decadenza. Vediamo così per tutta la durata del
Ve fino all'inoltrato IV secolo perdurare motivi e formule di tradizione
arcaica o ispirate all'arte greca di "stile severo", cioè della fase di
passaggio dall'arcaismo alle forme classiche. Il fenomeno dell'attardamento
proprio dei paesi marginali (come, ad esempio, nella contemporanea arte
«subarcaica» di Cipro) si manifesta con una certa evidenza. La penetrazione
delle influenze classiche è parziale e stentata. In questo ambiente privo di
una tradizione unitaria ed accreditata, come già nella fase delle origini,
la vitalità artistica si palesa soltanto in qualche effimero spunto
di originalità espressiva; mentre nel campo della tecnica artigiana
continua, particolarmente attiva, la produzione dei bronzisti. Una intensa
ripresa di contatti artistici fra Grecia ed Etruria ha luogo a partire dal IV
secolo e si continua per tutta l'età ellenistica, confondendosi alla fine con
il fenomeno, altrimenti ben noto, del trionfo dell'ellenismo nell'Italia
romana della fine della repubblica e del principio dell'impero. Ma
l'atteggiamento dei figuratori etruschi rispetto all'arte greca non sembra
più quello dei tempi arcaici. Non si può più parlare della elaborazione, in
qualche modo originale di un patrimonio comune: si tratta piuttosto della
imitazione, più o meno fedele e riuscita, di modelli «stranieri». Non si
accolgono soltanto forme e singoli motivi tipologici, ma si riproducono
intere composizioni, specialmente da prototipi della grande pittura, ad
ornamento di edifici e di oggetti. Per quest'ultima fase di produzione
potrebbe giustificarsi il concetto dell'Etruria come «provincia» del mondo
greco (ciò che equivale alla negazione di una sua originalità
artistica). Occorre però tener conto di un altro aspetto, completamente
diverso e di gran lunga più importante, dell'attività figurativa etrusca di
età ellenistica. In singoli monumenti o in gruppi di opere,
specialmente dell'arte funeraria, vediamo aparire motivi e soluzioni
stilistiche decisamente contrastanti con il gusto classico: strutture
compatte e geometrizzanti, forme «.incompiute», sproporzioni, esasperazioni
di particolari espressivi, ecc. Ci si può chiedere se e fino a che punto
queste manifestazioni siano da spiegare come sopravvivenze artigianali di
remote formule arcaiche, favorite dall'immobilismo rituale del mondo
religioso etrusco, o come improvvisazioni popolaresche senza conseguenze,
o addirittura come casuali effetti di una tecnica manuale scadente. Ma si
può anche pensare a riflessi seppure indiretti dell'attività di artisti
che, accogliendo antichissime assuefazioni locali e reagendo ai modelli
greci secondo il proprio temperamento, abbiano tentato nuove forme di
espressione. Questa ipotesi diventa certezza nel campo della ritrattistica,
che ci si rivela con au- tentiche ed originali opere d'arte (grandi bronzi,
pitture, ecc.) e con innumerevoli prodotti secondari (coperchi di
sarcofagi, terrecotte), i quali mostrano a loro volta il formarsi di una
salda tradizione locale attorno all'attività dei maestri maggiori. In
contrasto con il ritratto greco, al quale pure originariamente si ispira (nel
IV secolo) e talvolta si richiama (nel corso dell'età ellenistica),
il ritratto etrusco tende a realizzare il massimo della concretezza
espressiva per ciò che concerne le fattezze e, in un certo senso, anche il
«carattere» individuale, prescindendo dalla coerenza organica delle forme
naturali, ma accentuando gli elementi essenziali attraverso l'impiego
semplice, rude, discontinuo e a volte violento delle linee o delle
masse. Con questo possiamo dire che è nato un nuovo stile, una nuova
tradizione artistica, effettivamente definita ed autonoma rispetto al mondo
greco: una tradizione che è «etrusca», ma anche, più genericamente «italica»,
perchè il suo sviluppo si continua, di là dal tramonto dell'Etruria come
nazione, nell'arte dell'ltalia romana e del mondo occidentale sotto l'impero.
Tale visione «espressionistica» della realtà, specialmente nel ritratto, ma
anche in altri temi d'arte, perdurerà vitale nelle correnti di produzione
popolare dei primi secoli dell'impero, si diffonderà nell'arte provinciale
europea, riaffiorerà impetuosamente nella grande arte romana aulica della
fine del II e del III secolo d.C., costituirà una delle componenti più
significative della civiltà artistica della tarda antichità e del
medioevo. La Religione
Introduzione Il pantheon etrusco Lo
spazio sacro L 'al di là Forme del culto Il culto degli dei e dei
defunti La ''disciplina etrusca" L'interpretazione dei fulmini e delle
viscere L'osservazione dei prodigi Libri Fulgurales L'arte della
divinazione Il rito di fondazione Le pratiche rituali Il rituale
funerario Il culto dei morti
Introduzione Gli autori
latini erano concordi nel definire gli etruschi un popolo religiosissimo
esperto nell'arte divinatoria. Ebbero infatti un'articolata letteratura
religiosa, oggi purtroppo irrimediabilmente perduta. Esistevano una serie di
rigide regole che determinavano il rapporto tra gli dèi e gli uomini (quella
che costituiva la ''disciplina etrusca", ossia scienza etrusca), quindi sul
rito e sull'interpretazione della volontà divina. Di queste norme possiamo
farci solo un'idea attraverso alcuni passi di Cicerone, Plinio il Vecchio,
Livio o Seneca (che si rifacevano a traduzioni che non ci sono pervenute) e
tramite rarissimi documenti etruschi come la "mummia di Zagabria" o il
"fegato di Piacenza". Sappiamo inoltre che quella etrusca fu una religione
rivelata attraverso le profezie di esseri superiori come il fanciullo Tagete
e la ninfa Vegoe o Vegonia. Fra gli etruschi delle origini la divinità appare
sempre in modo molto impreciso, sia nell'aspetto che nelle mansioni ed è
ragionevole pensare che in principio vi fosse un'unica entità divina che si
manifestava in molteplici modi, assumendo connotati diversi. Tra l'VIII e il
VI secolo a.C. si assiste alla trasformazione della religione etrusca. Dalla
Grecia vennero importate in Etruria nuove divinità; quelle indigene assunsero
figura umana e col tempo ereditarono le caratteristiche e le mansioni degli
dèi dell'Olimpo classico.
Il pantheon etrusco
Le
più antichità divinità degli etruschi rappresentavano le forze della natura,
distruttrici e creatrici al tempo stesso: Tarconte era il dio della tempesta,
distruttore ma anche dispensatore di benefica pioggia; Velka era il dio del
fuoco e, insieme, della vegetazione. Sommo dio dell'Etruria - dice Varrone -
era Velthune (in latino Vertumnus o Voltumna), il multiforme, che
rappresentava l'eterno mutare della stagioni ed era adorato nel santuario
federale di Volsinii. All'antico pantheon appartenevano anche gli dèi Selvans
(Silvano) e Ani (poi Giano) e la dea Northia, divinità probabilmente del
fato. Dal VII secolo a.C. molte divinità di fondo originariamente etrusco
vennero assimilate agli dèi olimpici: la divinità superiore Tinia (o Tin),
rappresentata sempre col fulmine, fu l'equivalente di Zeus ossia Juppiter
(Giove); lo stesso avvenne con Uni, compagna di Tinia, che divenne Hera,
ossia la Iuno latina (Giunone). Turan, la dea dell'amore, fu assimilata ad
Afrodite e quindi alla Venus (Venere) latina; Menerva ad Athena (Minerva);
Maris ad Ares (Marte); Nethuns a Poseidon (Nettuno); Turms a Hermes
(Mercurio); Fufluns a Dionisio (Bacco); Sethlans a Efesto (Vulcano); di
Castor e Pollux (Castore e Polluce, i Dioscuri) diventati Castur e Pultuce,
ecc.. Ci furono anche dèi nuovi, importati direttamente dal mondo greco, che
conservarono il loro nome appena etruschizzato: Artemis (ossia Diana) divenne
Aritimi, Apollon (Apollo) fu chiamato Apulu, Heracles (Ercole) cambiò in
Hercle. Controversa è l'origine etrusca delle ''triadi" che conosciamo con
certezza soltanto nel mondo romano: non è chiaro se la triade capitolina
Giove-Giunone-Minerva corrisponda a Tinia-Uni-Menerva. Di sicura origine
greca sono invece le coppie (''diadi"), come quella degli dèi infernali Ade e
Persefone (in etrusco Aita e Phersipnai). Gli Etruschi credevano
nell'ineluttabilità del destino, al limite potevano solo rendere più
piacevole la loro permanenza terrena, per questo motivo compivano feste e
riti magici. Credevano nell'aldilà, in particolare nell' inferno, che aveva
una porta di accesso, detta mundus, sorvegliato dalla terribile figura del
demone Tuchulcha, mostro con orecchie d'asino, il muso di avvoltoio e i
capelli fatti da serpenti. Questa figura fa maggiormente la sua presenza
nella fase di declino della cultura etrusca, caratterizzata dalla presenza di
morte e persecuzioni. Il demone degli inferi era Charun, che accompagna i
morti nell'aldilà, da cui si rievoca la figura di Caronte, portava indosso un
mantello ed aveva in mano un martello, simile a quello impiegato oggi per la
sepoltura del Papa, con il quale si tocca tre volte la tempia del pontefice
defunto. Un gioco funebre caratteristico è quello legato al mito di Phersu,
da cui ha origine la parola "persona", che aizza un cane contro una persona
con la testa coperta da un sacco, che lentamente viene legata. Il cane sbrana
la persona e sta a testimoniare l'ineluttabilità del destino. Le tombe
rappresentavano le scene di vita quotidiana: gioia, feste, pranzi e, negli
ultimi anni, dolore e terrore. Adottarono un calendario introdotto dai
Tarquini, con influenze mesopotamiche, e poi modificato da Cesare, con
l'aiuto sempre di tirreni. In esso si ricordavano feste e appuntamenti sacri.
Suddivisero la loro era in dieci saeculum dopo dei quali ci sarebbe stata la
fine della civiltà tirrenica, come in realtà fu confermato dalla
storia.
Lo spazio sacro
Lo spazio "sacro",
orientato e suddiviso, risponde ad un concetto che in latino si esprime con
la parola templum. Esso riguarda il cielo, o un'area terrestre consacrata -
come il recinto di un santuario, di una città, di un'acropoli, ecc. -, ovvero
anche una superficie assai più piccola (ad esempio il fegato di un animale
utilizzato per le pratiche divinatorie), purchè sussistano le condizioni
dell'orientamento e della partizione secondo il modello celeste.
L'orientamento è determinato dai quattro punti cardinali. congiunti da due
rette incrociate, di cui quella nord-sud era chiamata cardo (con vocabolo
prelatino) e quella est-ovest decumanus nella terminologia dell'urbanistica e
dell'agrimensura romana che sappiamo strettamente collegate alla dottrina
etrusco-italica.
Posto idealmente lo spettatore nel punto d'incrocio
delle due rette, con le spalle a settentrione, egli ha dietro di se tutto lo
spazio situato a nord del decumanus. Questa metà dello spazio totale si
chiama appunto «parte posteriore» (pars postica). L'altra metà che egli ha
dinnanzi agli occhi, verso mezzogiorno, costituisce la «parte anteriore»
(pars antica). Una analoga bipartizione dello spazio si ha nel senso
longitudinale del cardo: a sinistra il settore orientale, di buon auspicio
(pars sinistra o jamiliaris); a destra il settore occidentale, sfavorevole
(pars d extra o hostilis). La volta celeste, così orientata e divisa,
s'immaginava ulteriormente suddivisa in sedici parti minori, nelle quali
erano le abitazioni di diverse divinità. Questo schema appare riflesso nelle
caselle del bordo esterno (appunto in numero di sedici) e nelle caselle
interne (ad esse corrispondenti, seppure in maniera non del tutto chiara) del
fegato di Piacenza. Tra i numi dei sedici campi celesti, citati da M.
Cappella, e i nomi divini in scritti sul fegato esistono indubbie
concordanze, ma non una corrispondenza assoluta, perche l'originaria
tradizione etrusca pervenne presumibilmente alterata nelle fonti del tardo
scrittore romano, con qualche spostamento nelle sequenze. Ciò nonostante è
possibile ricostruire un quadro approssimativo del sistema di ubicazione
cosmica degli dèi secondo la dottrina etrusca. Esso ci mostra che le grandi
divinità superiori, fortemente personalizzate e tendenzialmente favorevoli,
si localizzavano nelle plaghe orientali del cielo, specie nel settore
nord-est; le divinità della terra e della natura si collocavano verso
mezzogiorno; le divinità infernali e del fato, paurose ed inesorabili, si
supponevano abitare nelle tristi regioni dell'occaso, segnatamente nel
settore nord-ovest, considerato come il più nefasto. La posizione dei
segni che si manifestano in cielo (fulmini, volo di uccelli, apparizioni
prodigiose) indica da qual nume proviene agli uomini il messaggio e se esso è
di buono o di cattivo augurio. Indipendentemente dal punto di origine, una
complicata casistica riguardante le caratteristiche del segnale (per esempio
la forma, il colore, l'effetto del fulmine, o il giorno della sua caduta)
aiuta a precisarne la natura: se si tratti cioè di un richiamo amichevole, o
di un ordine, o di un annuncio senza speranza e così via. Lo stesso valore
esortativo o profetico hanno le speciali caratteristiche presentate dal
fegato di un animale sacrificato, preso in esame dall'aruspice, secondo una
corrispondenza delle sue singole parti con i settori celesti. Così l'«arte
fulguratoria» e l'aruspicina, le due forme tipiche della divinazione etrusca,
appaiono strettamente collegate; ne fa meraviglia che esse possano essere
state esercitate da un medesimo personaggio, come quel L. Cafatius di cui si
rinvenne a Pesaro l'epitafio bilingue e che fu appunto haruspex (in etrusco
netsvis) e fulguriator (cioè inrerprete dei fulmini: in etrusco trutnvt
frontac o trutnvt?). Uguali norme devono aver presieduto all'osservazione
divinatoria del volo degli uccelli, come intravvediamo specialmente da fonti
umbre (Tavole di Gubbio) e latine. A tal proposito ha speciale importanza lo
spazio terrestre d'osservazione, e cioè il templum augurale, con il suo
orientamento e le sue partizioni, cui senza dubbio si ricollega la
disposizione non soltanto dei recinti sacri, ma dello stesso tempio vero e
proprio, cioè l'edificio sacro contenente il simulacro divino, che in Etruria
appare di regola orientato verso sud o sud-est, con una pars antica che
corrisponde alla facciata ed al colonnato ed una pars postica rappresentata
dalla cella o dalle celle. E del pari le regole sacre dell'orientamento si
osservano (almeno idealmente) nella planimetria delle città (concreto esempio
monumentale è Marzabotto in Emilia), e nella partizione dei campi. In
tutte queste concezioni e queste pratiche, come in generale
nelle manifestazioni rituali etrusche, si ha l'impressione, come già
accennato, di un abbandono, quasi di una abdicazione dell'attività spirituale
umana di fronte alla divinità: che si rivela nella duplice ossessione
della conoscenza e dell'attuazione della volontà divina, e cioè da un lato
nello sviluppo delle pratiche divinatorie, da un altro lato nella
rigida minuziosità del culto. Così anche l'adempimento o la violazione delle
leggi divine, nonche le riparazioni attuate attraverso i riti espiatorii,
sembrano essere soprattutto formali, al di fuori di un autentico valore
etico, secondo concezioni largamente diffuse nel mondo antico, che però
appaiono soprattutto accentuate nella religiosità etrusca. Ma è possibile che
almeno gli aspetti più rigidi di questo formalismo si siano definiti soltanto
nella fase finale della civiltà etrusca, e precisamente nell 'ambito di
quelle classi sacerdotali le cui elaborazioni rituali e teologiche trovarono
la loro espressione nei libri sacri, forse favorite dal desiderio dei
sacerdoti stessi di accentrare nelle loro mani l'interpretazione della
volontà divina e quindi la direzione della vita spirituale della
nazione. Un altro aspetto, che si ricollega alla mentalità primitiva degli
Etruschi, è l'interpretazione illogica e mistica dei fenomeni naturali,
che persistendo sino in età molto recente viene a contrastare in
maniera drammatica con la razionalità scientifica dei Greci. A questo
riguardo è particolarmente significativo e rivelatore un passo di Seneca
(Quaest. nat., II, 32, 2) a proposito dei fulmini: Hoc inter nos et
Tuscos...interest: nos putamus, quia nubes collisae sunt, fulmina emitti,.
ipsi existimant nubes collidi, ut fulmina emittantur," nam, cum omnia addeum
referant, in ea opinionesunt, tamquam non, quiafactasunt, significent, sed
quia significatura sunt, fiant. (La differenza fra noi [cioè il
mondo ellenistico-romano] e gli Etruschi... è questa: che noi riteniamo che
i fulmini scocchino in seguito all'urto delle nubi; essi credono che le
nubi si urtino per far scoccare i fulmini; tutto infatti attribuendo
alla divinità, sono indotti ad opinare non già che le cose abbiano un
significato in quanto avvengono, ma piuttosto che esse avvengano perche
debbono avere un significato...).
L 'al di
là
La mistica unità del mondo celeste e del mondo terrestre si
estende verisimilmente anche al mondo sotterraneo, nel quale è localizzato,
secondo le dottrine etrusche più evolute, il reame dei morti. Gran parte
delle nostre conoscenze sulla civiltà degli antichi Etruschi proviene, come
è noto, dalle tombe (la stragrande maggioranza delle iscrizioni è di
carattere funerario; alle pitture, alle sculture, alle suppellettili
sepolcrali siamo debitori dei dati fondamentali sullo sviluppo delle forme
artistiche e sugli aspetti della vita). Ed è naturale che le tombe ci
offrano, più o meno direttamente, indizi sulle credenze relative alla sorte
futura degli uomini e sui costumi e sui riti collegati a queste credenze. Ciò
nonostante siamo ancora ben lungi dall'avere una idea chiara dell'escatologia
etrusca. Motivi complessi e contrastanti denunciano livelli diversi di
mentalità religiosa ed influenze eterogenee. Ne risultano problemi tuttora in
parte irresoluti, singolarmente affascinanti. Il carattere stesso delle
tombe e dei loro equipaggiamenti, soprattutto nelle fasi più antiche, offre
una testimonianza inequivocabile del persistere di concezioni primitive
universalmente diffuse nel mondo mediterraneo, secondo le quali la
individualità del defunto, comunque immaginata, sopravvive in qualche modo
congiunta con le sue spoglie mortali, là dove esse furono deposte. Ne
consegue l'esigenza, fondamentale per i superstiti, di garantire, difendere,
prolungare concretamente questa sopravvivenza, non soltanto come tributo
sentimentale di affettuosa pietà, ma come obbligo religioso non disgiunto,
probabilmente, da timore. A questo genere di concezioni appartiene in
Etruria, come altrove (e segnatamente nell'antico Egitto), la tendenza ad
immaginare il sepolcro nelle forme di una casa, a dotarlo di arredi e di
oggetti d'uso, ad arricchirlo di figurazioni pregne, almeno originariamente,
di significato magico (specialmente pitture tombali con s.cene di banchetto,
di musica, di danze, di giuochi atletici, ecc.), a circondare il cadavere
delle sue vesti, dei suoi gioielli e delle sue armi; a servirlo con cibi e
bevande; ad accompagnarlo con figurine di familiari; e, infine, a riprodurre
l'immagine somatica del morto stesso, per offrire un incorruttibile
«appoggio» allo spirito minacciato dal disfacimento del corpo, onde in
Etruria (come già in Egitto) sembra nascere il ritratto funerario. Ma quale
sia l'effettiva e più profonda natura delle idee religio- se che
traspariscono esteriormente in così fatte costumanze e come esse abbiano
potuto sussistere ed evolversi accanto ad altre credenze è cosa ancora tutto
sommato assai oscura. All'origine della storia delle città etrusche vediamo
infatti dominare pressoche esclusivo un rito funebre, quale è quello della
cremazione, che non può non riflettere concetti estranei a quelli del legame
materiale tra spirito e corpo del defunto; che anzi, almeno nella piena età
storica, esso sembra talvolta significare un'idea di «liberazione» dell'anima
dai ceppi della materia verso una sfera celeste. Tanto più curioso è
osservare come nelle tombe etrusche del periodo villanoviano e
orientalizzante le ceneri e le ossa dei morti bruciati si contengano talvolta
in urne in forma di abitazioni o entro vasi che tentano di riprodurre le
fattezze del morto (i così detti "canopi" di Chiusi): ciò che rivela, già dai
tempi più antichi del formarsi della nazione etrusca, una mescolanza di
credenze e forse anche un riaffermarsi delle tradizionifunerarie mediterranee
sul costume diffuso dai seguaci della cremazione. Ne si può affermare che
l'idea della sopravvivenza nella tomba escluda assolutamente una fede
nella trasmigrazione delle anime verso un regno dell"'al di là". Ma è certo
che in Etruria quest'ultima concezione si venne affermando e
concretando progressivamente sotto l'influsso della religione e della
mitologia greca, con l'attenuarsi delle credenze primitive: e si configurò
secondo la visione dell'averno omerico, popolato da divinità ctonie, spiriti
di antichi eroi ed ombre di defunti. Già nei monumenti del Ve IV secolo, e
poi soprattutto in quelli di età ellenistica, la sorte futura è rappresentata
come un viaggio dell'anima verso il regno dei morti e come un soggiorno nel
mondo sotterraneo. Soggiorno triste, senza speranza, a volte dominato
dallo spavento che incute la presenza di mostruosi dèmoni, o addirittura
dai tormenti che essi infliggono alle anime. È, in sostanza,
la materializzazione dell'angoscia della morte in una
escatologia essenzialmente primitivistica. E a simboleggiare la morte sono
specialmente due figure infernali: la dea Vanth dalle grandi ali e con la
torcia, che, simile alla greca Moira, rappresenta il fato implacabile; e il
dèmone Charun, figura semibestiale armata di un pesante martello, che
può considerarsi una paurosa deformazione del greco Caronte dal quale prende
il nome. Sia di Vanth sia di Charun esistono moltiplicazioni, forse con
una propria individualità ed un proprio secondo nome. Ma la
demonologia infernale è ricca e pittoresca, e conosce altri personaggi,
come l'orripilante Tuchulcha dal volto di avvoltoio, dalle orecchie d'asino
e armato di serpenti; accoglie largamente la simbologia di animali
ctonii, come il serpente e il cavallo. Anche per questa fase più tardiva
le fonti monumentali, nei loro aspetti frammentari ed esteriori, sono
insufficienti a darci un'idea sicura e completa delle credenze contemporanee
sull'oltretomba. Stando alle pitture e ai rilievi sepolcrali, parrebbe che il
destino dei morti fosse inesorabilmente triste ed uguale per tutti: la legge
crudele non risparmia neanche i personaggi più illustri, la cui affermazione
di superiorità si limita ai costumi sfarzosi, agli attributi delle cariche
rivestite e al seguito che li accompagna nel viaggio agli inferi. Esistono
tuttavia nella tradizione letteraria, alcuni accenni più o meno espliciti a
consolanti dottrine di salvazione, e cioè alla possibilità che le anime
conseguano uno stato di beatitudine o addirittura q i deificazione,
attraverso speciali riti che sarebbero stati descritti dagli Etruschi nei
loro Libri Acherontici. Un prezioso documento originale di queste cerimonie
di suffragio, con prescrizioni di offerte e di sacrifici a
divinità specialmente infernali, sembra esserci conservato nel testo etrusco
della tegola di Capua, che risale al V secolo a.C.. Non sappiamo fino a che
punto allo sviluppo di queste nuove concezioni escatologiche abbia
contribuito il diffondersi in Etruria di dottrine orfiche, pita- goriche e,
più ancora, dionisiache (il culto di Bacco è, in verità, largamente attestato
anche in rapporto con il mondo funerario). Comunque le speranze di
salvazione sembrano restare collegate al concetto delle operazioni
magico-religiose, proprie di una spiritualità primitiva, piuttosto che
dipendere da un superiore principio etico di retribuzione del bene compiuto
in vita.
Forme del culto
Le testimonianze
monumentali, i documenti scritti etruschi e i riferimenti delle fonti
letterarie classiche offrono numerosi dati per la ricostruzione della vita
religiosa e delle forme del culto. Si tratta di costumanze che, almeno per
quel che riguarda gli aspetti sostanziali (luoghi sacri e
templi, organizzazione del sacerdozio, sacrifici, preghiere, offerte di doni
votivi, ecc.), non differiscono profondamente dalle analoghe manifestazioni
del mondo greco, italico e, specialmente, romano. Ciò si spiega per un
verso considerando i comuni orientamenti spirituali della civiltà
greco-italica a partire dall'età arcaica, per altro verso tenendo conto della
fortissima influenza esercitata dalla religione etrusca su quella romana. Uno
studio delle antichità religiose etrusche non può quindi prescindere dal
quadro, ben altrimenti particolareggiato e complesso, che in materia rituale
ci presentano la Grecia e Roma: tanto più difficile è determinare i
riflessi che le concezioni proprie della mentalità religiosa etrusca ebbero,
con motivi peculiari, nella prassi del culto. Sarà, in primo luogo, da
attribuire agli Etruschi quella concreta e quasi materialistica adesione a
norme sancite ab antiquo, quel preoccupato formalismo dei riti, quel
frequente insistere sui sacrifici espiatorii, che si avvertono nell'ambito
delle tradizioni religiose romane come un elemento in certo senso estraneo
alla semplice religiosità agreste dei prisci Latini e indizio della presenza
di un fattore collaterale che non può non riportarsi ad una antica e matura
civiltà cerimoniale, quale è appunto l'etrusca. Questa ars colendi religiones
(secondo l'espressione di Livio nel passo sopra citato) risponde in pieno al
senso di subordinazione dell'uomo alla divinità, che sappiamo predominante
nella religiosità etrusca e presuppone la fede nella efficacia magica del
rito, proprio delle mentalità più primitive. La concretezza degli atti
cultuali si manifesta nella precisa determinazione dei luoghi, dei tempi,
delle persone e delle modalità, entro i quali e attraverso i quali si compie
l'azione stessa volta ad invocare o a placare la divinità: quell'azione che i
Romani chiamavano nel loro complesso res divina e gli Etruschi probabilmente
ais(u)na (cioè, appunto, servizio "divino", da ais "dio"): donde, anche, la
parola umbra esono "sacrificio". Essa si svolge nei luoghi consacrati
(tempia) dei quali si è fatta già menzione: recinti con altari ed edifici
sacri contenenti immagini delle divinità. Sovente questi edifici sono
orientati verso sud e sud-est. Il concetto di consacrazione al culto di un
determinato luogo o edificio è forse espresso in etrusco dalla parola sacni
(donde il verbo sacnisa): questa condizione può estendersi, come in Grecia e
nel mondo italico e romano, ad un complesso di recinti e templi, per esempio
sulle acropoli delle città (Marzabotto); carattere in certo senso analogo
hanno anche le tombe, presso le quali o entro le quali si compiono sacrifici
funerari o si depongono offerte. Speciale importanza deve avere avuto in
Etruria la regolamentazione cronologica delle feste e delle cerimonie, che,
insieme con le modalità delle azioni sacre, costituiva la materia dei Libri
Rituales ricordati dalla tradizione. Il massimo testo rituale etrusco,
tramandatoci nella lingua originale -e cioè il manoscritto su tela
parzialmente conservato nelle fasce della mummia di Zagabria - contiene un
vero e proprio calendario liturgico, Con l'indicazione dei mesi e dei giorni
ai quali si riportano le cerimonie descritte. È probabile che altri documenti
fossero redatti nella forma attestata dai calendari sacri latini: e cioè come
una elencazione consecutiva di giorni contrassegnati dal solo titolo delle
feste o dal nome della divinità celebrata. Il calendario etrusco era forse
analogo al calendario romano precesareo: conosciamo il nome di alcuni mesi e
sembra che le "idi", circa a metà del mese, abbiano un nome di origine
etrusca; ma il computo dei giorni del mese segue generalmente, a differenza
del calendario romano, una numerazione consecutiva. Ogni santuario ed ogni
città doveva avere, come è logico, le sue feste particolari: tale è appunto
il caso del sacni cilfh (santuario di una città non altrimenti
identificabile), al quale fa riferimento il rituale di Zagabria. Le
celebrazioni annuali del santuario di Voltumna presso Volsinii avevano invece
carattere nazionale, come sappiamo dalla tradizione. Tra le cerimonie e gli
usi sacri può ricordarsi quello della infissione dei chiodi per segnare gli
anni (clavi annales) nel tempio della dea Nortia a Volsinii, ricordato a
proposito dell'analogo rito del tempio di Giove Capitolino a Roma. Anche per
intendere la natura e l'organizzazione dei sacerdozi siamo costretti ad
avvalerci del confronto con il mondo italico e romano. Abbiamo in ogni
caso indizi per ritenere che essi fossero varii e specializzati, strettamente
collegati con le pubbliche magistrature e sovente riuniti in collegi. Il
titolo sacerdotale cepen (con le variante cipen attestata in Campania),
particolarmente frequente nei testi etruschi, è ad esempio seguito spesso da
un attributo che ne determina la sfera d'azione o le specifiche funzioni:
come nel caso di cepen fhaurx, che senza dubbio indica un sacerdote funerario
(da fhaura «tomba»). La dignità sacerdotale in genere o specifici sacerdozi
sono designati anche con altre parole: quali eisnevc (in rapporto con aisna,
l'azione sacrificale), celu, forse santi, ecc. Si hanno inoltre i sacerdoti
divinatori: e cioè gli aruspici (netsvis), rappresentati nei monumenti con un
costume caratteristico composto di un berretto a terminazione cilindrica e di
un manto frangiato, e gl'interpreti dei fulmini (trutnvt?). Il titolo
marun-, è, come già sappiamo, in rapporto con funzioni sacrali, per esempio
nel culto di Bacco (marunux paxanati, maru paxafhuras): si osservi il
doppio titolo cepen marunuxva, che indica probabilmente un sacerdozio con
le funzioni proprie dei maru. Si può ricordare anche il titolo zilx
cexaneri, nel quale si è voluto intendere qualcosa come "curator sacris
faciundis", (ma è congettura molto opinabile). Probabilmente a confraternite
si riferiscono termini collettivi quali paxafhuras, formalmente analoghi
a quelli che esprimono aggregati gentilizi (per es. Velfhinafhuras nel
senso dei membri della famiglia Velfhina) o altri collegi. A Tarquinia
esisteva in età romana un arda LX haruspicum veri similmente di antica
origine. Uno degli attributi dei sacerdoti era illituo,
bastone dall'estremità ricurva, che è però frequentemente rappresentato
nei monumenti anche in rapporto ad attività profane, per esempio in mano
ai giudici delle gare atletiche. L 'azione del culto è volta ad interrogare
la volontà degli dèi, secondo le norme dell'arte divinatoria; e quindi
ad invocare il loro aiuto e perdono attraverso l'offerta. È probabile che
l'una e l'altra operazione fossero strettamente collegate tra loro; benche
sia ricordata dalle fonti letterarie una distinzione tra vittime sacrificate
per la consultazione delle viscere (hastiae cansultatariae) e vittime
destinate all'offerta vera e propria, in sostituzione dei sacrifici umani
(hastiae animales). Del pari intrecciate in complicati cerimoniali sembrano
le offerte incruente (di liquidi e cibi) con quelle cruente di animali.
Il grande rituale di Zagabria e il rituale funerario della Tegola di
Capua descrivevano minuziosamente, in tono prescrittivo e con un
linguaggio tecnico specializzato, queste liturgie; ma lo stato delle nostre
cognizioni della lingua etrusca non ci consente di stabilire con esattezza
il significato di molti 'termini impiegati nella descrizione dei riti
e, pertanto, di ricostruirne in pieno lo svolgimento. La preghiera, la
musica, la danza dovevano avere larga parte nelle cerimonie. Una scena di
culto con offerte è rappresentata nella parete di fondo della Tomba del Letto
Funebre di Tarquinia. I doni votivi offerti nei santuari, per grazie
chieste o ricevute, consistono per lo più di statue di bronzo, pietra,
terracotta, raffiguranti le divinità stesse e gli offerenti, o anche animali,
in sostituzione delle vittime, e parti del corpo umano; inoltre vasi, armi,
ecc. Questi oggetti che erano ammassati in depositi o favisse, recano spesso
iscrizioni dedicatorie. Essi variano per valore artistico e per pregio (la
massima parte è costituita da modeste figuri ne di terracotta lavorate a
stampo): ciò che indica, intorno ai grandi centri del culto, una diffusa e
profonda religiosità popolare.
Il culto degli dei e
dei defunti
Dopo che i sacerdoti avevano ottenuto attraverso la
divinazione la conoscenza del volere divino, si dava attuazione a tutto ciò
che ne derivava dal punto di vista del comportamento, sulla base delle norme
che facevano anch'esse parte della ''disciplina etrusca" ed erano oggetto di
trattazione nei Libri Rituales. Queste norme si traducevano (e si esaurivano)
in una serie impressionante di pratiche, cerimonie e riti rigidamente
codificati e ripetuti meccanicamente fino a diventare puro e semplice
formalismo. Essi toccavano sia gli aspetti religiosi della vita degli
etruschi sia quelli civili, secondo il principio che ''ogni azione umana
doveva essere compiuta in conformità della disciplina". E per ogni rito,
cerimonia di culto o servizio divino doveva essere stabilito con precisione
il luogo, il tempo, il modo, lo scopo, la persona preposta e, naturalmente,
la divinità che veniva chiamata in causa. Le funzioni sacre si svolgevano
perciò in luoghi rigidamente circoscritti e consacrati (templi, santuari,
altari) e il loro svolgimento era codificato fin nei minimi particolari tanto
che, se veniva sbagliato od omesso anche un solo gesto, tutta l'azione doveva
essere ripetuta da capo. Musica e danza vi trovavano ampio spazio. Oltre
all'uso di sacrificare bovini, ovini e volatili, particolarmente diffuso era
quello dei doni votivi che potevano andare dagli ex voto (statue e statuine
di divinità e di offerenti), alle prede di guerra (armi, carri), agli stessi
edifici sacri (dedicazione di un tempio o di un sacello). Tra le pratiche
di carattere religioso quelle destinate ai defunti avevano presso gli
etruschi un carattere tutto particolare. Esse erano legate alla concezione
(del resto diffusa in altre civiltà del Mediterraneo) che l'attività vitale
del defunto, la sua ''individualità" continuasse anche dopo la morte e che
questa sopravvivenza avesse luogo nella tomba. Spettava però ai vivi, ai
familiari e dei parenti, garantire la sopravvivenza dell'entità vitale del
defunto al quale doveva essere data una tomba, cioè una nuova casa, e un
corredo di abiti, oggetti d'uso personali, cibi, di cui si serviva
simbolicamente o magicamente. Per la stessa ragione vitalità e forza venivano
trasmesse al defunto con giochi e gare atletiche che si svolgevano in
occasione dei funerali o delle ricorrenze anniversarie della morte. Quanto
alle pratiche proprie dei funerali, la prassi non era dissimile da quella che
avveniva altrove: esposizione del cadavere al compianto pubblico e alle
lamentazioni di donne appositamente pagate (prefiche), corteo funebre e
banchetto presso la tomba. Il culto della ''sopravvivenza" nel sepolcro era
ulteriormente sviluppato nel culto degli antenati e in particolar modo del
capostipite, specie delle famiglie gentilizie. Tra il V e il IV secolo a.C.,
però, la fede della sopravvivenza del morto nella tomba cambiò sotto
l'effetto delle suggestioni provenienti dalla civiltà greca. Ad essa si
sostituì la concezione di un ''mondo dei morti" (simile all'Averno o all'Ade)
dove le ''ombre" soggiornavano. Ai defunti vennero allora dedicati
particolari riti di suffragio, stabiliti dai Libri Acherontici, e offerte
alle divinità infere (in particolare il sangue di alcuni animali) che
potevano consentire alle anime il conseguimento di uno speciale stato di
beatitudine.
La ''disciplina etrusca"
Secondo gli
etruschi gli dèi condizionavano il mondo e ogni azione umana: occorreva
quindi ''tradurre" la loro volontà andando in cerca dei segni attraverso i
quali essa si manifestava. Perciò era necessario avere a disposizione un
codice che interpretasse quei segni e un prontuario di norme precise e
costanti che per ogni segno indicasse il conseguente comportamento atto a
soddisfare (e quindi a seguire) la volontà degli dèi. Questo complesso di
conoscenze fu chiamato dai romani ''disciplina etrusca" i cui principi
ispiratori erano fatti risalire dagli etruschi all'intervento rivelatore
della stessa divinità. Essa si sarebbe servita di esseri mitici o semidei
(come il fanciullo Tagete o la ninfa Vegoe) i quali avrebbero ''dettato" le
verità soprannaturali e insegnato agli uomini l'arte di avvicinarsi ad esse:
in pratica la divinazione. Appositi collegi sacerdotali, che si tramandavano
la professione di padre in figlio, erano preposti all'interpretazione dei
segni della volontà divine: i fulguratores osservavano le traiettorie dei
fulmini, gli àuguri interpretavano i voli degli uccelli, gli arùspici
leggevano il fegato delle pecore e di altri animali sacrificati. Le
dottrine divinatorie, e tutte le altre che formavano il corpus minuzioso e
vastissimo dei riti etruschi, erano tramandati nei testi della
cosiddetta ''disciplina etrusca": i Libri Haruspicini, svelati dal fanciullo
Tagete, trattavano la consultazione delle viscere degli animali; i
Libri Fulguratores, il cui contenuto era stato manifestato dalla ninfa
Vegoe, riguardavano la scienza dei fulmini; i Libri Rituales, svelati
anch'essi dalla ninfa Vegoe, trattavano della suddivisione della volta
celeste, della gromatica (ripartizione dei campi), dei riti e delle modalità
per la fondazione delle città e per la consacrazione dei santuari, e infine
degli ordinamenti civili e militari. Esistevano poi i Libri Acherontici,
svelati da Tagete, che esponevano le credenze nell'oltretomba e dettavano le
norme per i riti di salvazione. Infine v'erano i Libri Fatales, nei quali
si trattava dei dieci secoli di vita assegnati dal Fato alla nazione etrusca,
e i Libri Ostentaria che trattavano dell'interpretazione dei prodigi e
dei fenomeni naturali.
L'interpretazione dei fulmini e
delle viscere
L'interpretazione dei fulmini L'osservazione e
l'interpretazione dei fulmini era regolata da una casistica alquanto
complessa. Grande importanza avevano il luogo e il giorno in cui essi
apparivano, ma anche la forma, il colore e gli effetti provocati. Le varie
divinità che avevano la facoltà di lanciarli disponevano, ciascuna, di un
solo fulmine alla volta, mentre Tinia ne aveva a disposizione tre. Il primo
era il fulmine "ammonitore" che il dio lanciava di sua spontanea volontà e
veniva interpretato come avvertimento; il secondo era il fulmine che
"atterrisce" ed era considerato manifestazione d'ira; il terzo era il fulmine
"devastatore", motivo di annientamento e di trasformazione: Seneca scrive che
esso "devasta tutto ciò su cui cade e trasforma ogni stato di cose che trova,
sia pubbliche che private". I fulmini erano variamente classificati a seconda
che il loro avviso valesse per tutta la vita o solamente per un periodo
determinato oppure per un tempo diverso da quello della caduta. C'era poi il
fulmine che scoppiava a ciel sereno, senza che alcuno pensasse o facesse
nulla, e questo, sempre stando a quel che dice Seneca, "o minaccia o promette
o avverte"; quindi quello che "fora", sottile e senza danni; quello che
"schianta"; quello che "brucia", ecc. Ma Seneca parla anche di fulmini che
andavano in aiuto di chi li osservava, che recavano invece danno, che
esortavano a compiere un sacrificio, ecc. Con un tale groviglio di
possibilità, solo i sacerdoti esperti potevano sbrogliarsi. Plinio il Vecchio
arriva ad affermare che un sacerdote esperto poteva anche riuscire a
scongiurare la caduta di un fulmine o, al contrario, riuscire con speciali
preghiere, ad ottenerla. Resta da dire che dopo la caduta di un fulmine c'era
l'obbligo di costruire per esso una tomba: un piccolo pozzo, ricoperto da un
tumuletto di terra, in cui dovevano essere accuratamente sepolti tutti i
resti delle cose che il fulmine stesso aveva colpito, compresi gli eventuali
cadaveri di persone uccise dalla scarica. Naturalmente, il luogo e la tomba
erano considerati sacri e inviolabili ed essendo ritenuto di cattivo auspicio
calpestarli, erano recintati e accuratamente evitati dalla gente, quali
"nefasti da sfuggire", come scriveva nel I secolo d.C. il poeta romano Persio
originario dell'etrusca Volterra.
L'interpretazione delle
viscere
Le viscere degli animali di cui si servivano gli Aruspici (dette
in latino exta) erano di diverso tipo: polmoni, milza, cuore, ma specialmente
fegato (in latino hepas). Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo
degli animali appena uccisi ed espressamente riservati alla
consultazione divinatoria e quindi distinti da quelli immolati per il
sacrificio. Esse venivano strappate ancora palpitanti dal corpo degli animali
appena uccisi ed espressamente riservati alla consultazione divinatoria e
quindi distinti da quelli immolati per i sacrifici. Si trattava in genere di
buoi e talvolta anche di cavalli ma soprattutto di pecore. Delle viscere
dovevano essere prese in considerazione la forma, le dimensioni, il colore ed
ogni minimo particolare, specialmente gli eventuali difetti. Quando non
rivelavano nulla di apprezzabile per la divinazione, erano ritenute "mute" e
inutilizzabili; erano invece "adiutorie" quando indicavano qualche rimedio
per scampare ad un pericolo; "regali" se promettevano onori ai potenti,
eredità ai privati, ecc.; "pestifere" quando minacciavano lutti e disgrazie.
L'osservazione era più minuziosa nel caso del fegato, dato che in esso, per
l'aspetto generale e per la particolare conformazione, veniva riconosciuto il
"tempio terrestre" corrispondente al "tempio celeste". La sua importanza era
del resto connessa alla credenza diffusa presso gli antichi che esso fosse la
sede degli affetti, del coraggio, dell'ira e dell'intelligenza. Ritenuto che
nel fegato fosse esattamente proiettata la divisione della volta celeste, si
trattava di riconoscere a quale delle caselle di quella corrispondessero, nel
fegato, le irregolarità. Le imperfezioni, i segni particolari o anche le
regolarità, e quindi prendere in considerazione i messaggi della divinità che
occupava la casella interessata. Per meglio riuscire nell'intento, per
l'istruzione dei giovani aruspici, venivano utilizzati degli appositi modelli
di fegato, in bronzo o in terracotta, sui quali erano riprodotte le varie
ripartizioni e scritti i nomi delle diverse
divinità.
L'osservazione dei prodigi
La fama di
insuperabili interpreti di viscere e fulmini, della quale godevano gli
Etruschi, era completata da quella che li riteneva anche esperti conoscitori
del significato di ogni genere di prodigi. Il romano Varrone, che desumeva
evidentemente da fonti etrusche, riferisce che tra i prodigi si distinguevano
l'ostentum, che prediceva il futuro; il "prodigio", che indicava il da farsi;
il "miracolo", che manifestava qualcosa di straordinario; il "mostro", che
dava un avvertimento. Tra i prodigi più frequenti erano annoverati la pioggia
di sangue, la pioggia di pietre e quella di latte, gli animali che parlavano,
la grandine, le comete, le statue che sudavano, ecc. In aggiunta alle
manifestazioni di carattere straordinario, nelle categorie dei prodigi
rientravano anche fatti del tutto naturali: c'erano perciò alberi e animali
"felici" o "infelici", cioè portatori di cattivo o di buon auspicio, piante
commestibili che portavano bene e piante selvatiche che portavano male. La
casistica era infinita: ad essa tutti prestavano in genere molta attenzione,
magari per tradizione o per rispetto della comune
opinione.
Libri Fulgurales
Seneca (II 32 ss.) e
Plinio (II,135 ss:) hanno conservato una larga parte di excepta dai libri
fulgorales etruschi e della loro minuziosa casistica (soprattutto delle opere
del volterrano Cecina). Il principio basilare e' quello secondo il quale:
alcuni Dei posseggono le Manubiae, ovvero le potesta' di scagliare i
fulmini.(Serv. Aen. I,42.) In particolare 9 dei (Plin. n. h.,II,138), forse
da identificare con i misteriosi dii novensiles o novensides della lista di
Marziano Capella, ma noti anche in dediche romane. I tipi di Fulmine sono
11 per 9 Dei, perche' Tinia (Tin = Giove) possiede 3 manubiae. (Plin. n.h.,
II, 138; Sen. n.q. II,41) Le 3 manubie possono distinguersi per il loro
significato e per il fatto di essere scagliati da Giove da solo o con il
"consiglio" degli altri Dei. Prima manubia del Solo
Tinia Seconda manubia di Tinia + i 12 Dei Consentes Terza
Manubia di Tinai + Dei Involuti I 3 tipi di fulmini possono essere
di natura fisica (Fest. p. 114 L; Sen. n.q. II, 40) oppure per alcuni
(Serv. auct. Aen. VIII, 429) ostentatorium = dimostrativo (dopo
consultazione con i 12 Dei Consentes. Segno di Ira degli Dei.Utile e dannoso
serve per impaurire). peremptorium = perentorio (Dopo consultazione con i
Dei superiores et involuti. Devasta. Indica che tutto verra' radicalmente
trasforamato nella vita pubblica o privata.) presagum = presago (Di
avvertimento per suadere (convincere) o dissuadere (far cambiare idea)). Da
Seneca ..manubia placata est et ipsius concilio iovis mittitur. oppure per
altri (Serv. Aen. I, 230) quod terreat = che atterisce quod adflet =
che soffia quod puniat = che punisce Degli altri 9 Dei abbiamo solo
degli indizi,dalle fonti letterari, per 5 di essi: Uni =
Giunone Menerva = (Mnrva,Menrua,Meneruva,Merva,Merua,Mera)=
Minerva Sethlans = Vulcano Mari = (Mars,Maris) Marte Satres = (Satrs)
Saturno La dottrina romana del fulmine attribuiva i fulmini notturni a
Summanus e tenendo conto del fegato di Piacenza e cio' che dice Capella
probabilmente il corrispondente etrusco potrebbe essere Cilen - Nocturnus.
Mentre l'identita' tra Vetisl etrusco e Vediovis o Veiovis romano
farebbe attribuire a questo una manubia infera, anche in considerazione di
uno Zeus sbarbato munito di fulmine frequente nella iconografia etrusca.
Anche per i fulmini vale la dottrina delle 16 regioni che vale per
l'epatoscopia.(Plin. n.h. II, 143) L'esame del fulmine (e del tuono) da
parte dell'aruspice prevedeva una casitica precisa, enunciataci da Seneca
(n.q. II ,48 ,2 ): 1- Da parte di quale Dio proviene 2- quale = di che
tipo e' 3- quantum = la durata 4- ubi factum sit, cui = l' oggetto
colpito 5- quando, in qua re = in che circostanza
Per quel che
riguarda il tipo: 1 - di che colore era il fulmine manubiae albae =
bianche = forse di Tinia manubiae nigrae = nere = di Sethlans manubiae
rubrae = rosse = forse di Mari Provenienti dai Pianeti associati al nome
divino e non dal Dio. I fulmini provenienti da Satres provenivano anche dalla
Terra in inverno ed erano detti Infernali. 2 - genus: l' acre del
fulmine, il grave del tuono, intensita' e capacita' erano di 3 tipi: quod
terebrat = che perfora,sottile e fiammeggiante. quod dissipat = che si
disperde,passante,capace di rompere senza perforare. quod urit = che brucia
in 3 modi come un soffio (afflat) e senza grave danno bruciando dando
fuoco
3 - C' erano fulmini Secchi - Umidi e Clarum (Plinio) Per quel
che riguarda l'oggetto colpito i fulmini possono essere fatidica = cioe'
portatori espressi di segni eventualmente comprensibili (fata) bruta =
privi di significato vana = il cui significato si perde l'oggetto puo'
essere schiantato = discutere non rompersi = terebrare essere + o -
affumicato = urere restare affumicato = fuscare
Per quel che riguarda
l'auruspice Seneca dice che il sacerdote procedeva con l'analisi sistematica
= quomodo exploremus con l'interpetazione dei segni = quomodo
interpretemus con l'espiazione, propiziazione e purificazione = quomodo
exoremus Ma soprattuto il sacerdote non era solo in grado di leggere i
segni ma anche di evocarli con l'attirare (exorare) il
fulmine.
L'arte della divinazione
Il segno più
importante, la ''voce" più potente della divinità era il fulmine, che
proveniva direttamente dal dio supremo Tinia; l'ars fulguratoria, cioè quella
di trarre dalla sua osservazione tutte le informazioni possibili, era quindi
al primo posto nella divinazione etrusca. Era regolata da una casistica
alquanto complessa che teneva conto della parte del cielo in cui il fulmine
appariva (la volta celeste era divisa in sedici parti, abitata ognuna da una
divinità), della forma, del colore, degli effetti provocati e del giorno
della caduta. Oltre all'osservazione dei fulmini (cheraunoscopia) c'era
un'altra forma di divinazione molto generalizzata alla quale era possibile
ricorrere ogni volta che fosse ritenuto utile o necessario senza dover
attendere altre forme di prodigi dipendenti invece dal caso, come appunto il
fulmine. Era l'epatoscopia, o lettura del fegato degli animali sacrificati,
che i romani chiamavano haruspicina. Il fegato, la cui immagine si riteneva
fosse proiettata la divisione della volta celeste, veniva strappato ancora
palpitante dal corpo dell'animale (pecora, bue, cavallo) e se ne osservavano
le regolarità e irregolarità a ognuna delle quali era attribuito un
messaggio. Per questo venivano usati degli appositi modelli in bronzo o in
terracotta sui quali erano riprodotte le varie ripartizioni e scritti i nomi
delle divinità. Fra i modelli giunti sino a noi il più celebre è il ''Fegato
di Piacenza". Oltre al fegato gli arùspici leggevano anche altre viscere come
il cuore, i polmoni, la milza.
Il rito di
fondazione
Fra i dettami della disciplina etrusca famoso in tutta
l'antichità era quello della fondazione di città per il quale erano previste
meticolosissime disposizioni. Gli aùguri cominciavano col delimitare una
porzione di cielo consacrata proprio in funzione del rito (e definita con il
termine significativo di templum) all'interno della quale trarre gli auspici
dedotti dal volo degli uccelli che la attraversavano, dai fenomeni
meteorologici che in quel perimetro potevano verificarsi, o da altre
manifestazione considerate provenienti dalle divinità. Erano poi individuati
il centro della città stessa e delle principali direttrici viarie scavando
fosse in cui venivano deposte offerte e sovrapposti cippi che fungevano sia
da punti di riferimento sia da luoghi sacrali. Veniva poi tracciato con un
aratro dal vomere di bronzo un solco continuo che disegnava il perimetro
delle mura, interrotto solo là dove si sarebbero aperte le porte delle città;
il solco diventava subito linea inviolabile per tutti gli uomini e
attraversarlo equivaleva ad attaccare la città. Lungo tutto il perimetro
delle mura correva inoltre, tanto all'esterno quanto all'interno, un'ampia
fascia di terreno (il pomerium) che non doveva essere né coltivata né
edificata e che era dedicata alla divinità. Una solenne cerimonia di
sacrificio inaugurava la città così prefigurata. La fondazione di Roma a
opera di Romolo e Remo così come ce l'hanno tramandata le leggende è
un'applicazione puntuale del rito etrusco: i gemelli che osservano il volo
degli uccelli per decidere chi dei due dovesse dare il nome alla città, il
solco tracciato da Romolo, l'uccisione di Remo che, saltando all'interno del
perimetro, profana i sacri confini e ''invade" la nuova
fondazione.
Le pratiche rituali
Dal momento che
con le arti divinatorie veniva raggiunta la conoscenza del volere divino, si
trattava di dare attuazione a tutto ciò che ne derivava dal punto di vista
del comportamento. Occorreva cioè agire sulla base delle norme prescritte
dalla "disciplina" e oggetto della trattazione specifica dei "libri rituali".
Tali norme si traducevano in una serie interminabile di pratiche, di
cerimonie, di riti. Si dovevano perciò determinare i luoghi, i tempi e i modi
nei quali e con i quali doveva essere eseguito quello che veniva chiamato il
"servizio divino" (aisuna o aisna, da ais che significa dio),
nell'indicazione delle persone alle quali l'azione competeva e, naturalmente,
prima di tutto, della divinità alla quale essa era dedicata. I luoghi
dovevano essere circoscritti, delimitati e consacrati; i tempi regolati dalla
successione cronologica delle feste e delle cerimonie previste ed elencate
nei calendari sacri; i modi rispettati fin nei minimi particolari, tanto che,
qualora fosse stato sbagliato oppure omesso un solo gesto, tutta l'azione
avrebbe dovuto essere ripresa da capo. Nelle funzioni trovavano ampio spazio
la musica e la danza; le preghiere potevano essere d' espiazione, di
ringraziamento o di invocazione; i sacrifici cruenti riguardavano particolari
categorie di animali; le offerte comprendevano prodotti della terra, vino,
focacce e altri cibi preparati. Particolarmente diffusa, tanto a livello di
religiosità "ufficiale" quanto a livello di religiosità popolare, era
l'usanza dei doni votivi. Nel primo caso poteva trattarsi di statue o altre
opere d'arte, di oggetti particolarmente preziosi, di prede di guerra e di
edifici sacri; nel secondo caso i doni erano solitamente piccoli oggetti, per
lo più di terracotta (ma anche di bronzo, di cera e mollica di pane) che i
fedeli compravano nelle apposite rivendite presso i
santuari.
Il rituale funerario
Durante il periodo
villanoviano, il corpo del defunto era spesso cremato; le sue ossa combuste
venivano raccolte in un apposito vaso che per la sua forma gli archeologi
hanno chiamato "biconico", poichè costituito da due coni contrapposti,
collegati per le basi (museo archeologico-topografico, sala di Roselle ecc.).
In genere, questo contenitore ha soltanto un' ansa (quando ve n'erano due,
una veniva ritualmente spezzata). Inoltre, la sua bocca è coperta da una
ciotola, anch'essa munita di una sola ansa; oppure, nel caso che il defunto
fosse appartenuto alla classe dei guerrieri, è talvolta coperta da un elmo.
Il vaso e il corredo funebre, composto dagli oggetti più cari al defunto,
vengono deposti in un "pozzetto", scavato appositamente nel terreno;
talvolta, le sue pareti vengono foderate con lastre di pietra e l'apertura ne
è chiusa con un lastrone. In alcune zone dell'Etruria d'epoca villanoviana i
cinerari hanno la forma di capanna, le cosiddette "urne a capanna" appunto
(museo archeologico-topografico, sala di Vetulonia), quasi a voler
ricostruire per il defunto la sua casa terrena. Il corredo mostra alcune
differenze, soprattutto a livello di sesso: spesso la presenza di un rasoio
distingue la deposizione dell'uomo, mentre quella della donna è evidenziata
da oggetti usati per la filatura, come un fuso o una fuseruola.
Successivamente, nell'VIlI secolo a.C. il corredo che accompagna il defunto
diventa più prezioso, aumentano gli oggetti di metallo, soprattutto in
bronzo, e compa- provenienti dalla Grecia; cominciano inoltre altri tipi di
sepolture, contraddistinte da dimensioni maggiori, come le tombe a fossa,
nelle quali viene deposto il defunto inumato. Con l'inizio di questo tipo di
sepoltura, il rito cambia; in- fatti, il corpo del defunto non è cremato, ma
è deposto in una fossa scavata nel terreno, munita talvolta di pareti
foderate con lastre di pietra -Sovana-, come i "pozzetti". In alcune aree
dell'Etruria, per esempio a Vetulonia, più tombe di questo tipo vengono
riunite entro circoli di pietre, quasi a voler tener uniti i membri di una
medesima famiglia. La differente ricchezza presente nei contesti funebri è un
dato molto importante perche segnala, all'interno della società etrusca, il
formarsi di una diversa stratificazione sociale rispetto alla più omogenea
situazione del periodo villanoviano. Nel periodo orientalizzante, nel VII
secolo a.C., troviamo tombe costruite o scavate nella roccia; la scelta fra
le due possibilità è dovuta ai diversi tipi di formazione geologica presenti
nelle differenti aree e, per molti decenni, i membri di una stessa famiglia
(gens) vengono sepolti all'interno di una medesima tomba . I corredi
raggiungono talora livelli di ricchezza eccezionali; la tomba assume
carattere monumentale, manifestando così la potenza della famiglia a cui
appartiene. Un lungo dròmos (corridoio) porta all'interno della tomba, in cui
è scavata o costruita la camera funeraria sotterranea; all'esterno la
protegge un tumulo artificiale di terra, contenuto da un "tamburo" (un muro
circolare) di pietra. Dal VI secolo a.C. diminuiscono le dimensioni delle
tombe, scompare il loro aspetto monumentale e si assiste talvolta a una
specie di "pianificazione edilizia" all'interno della necropoli, come quella
della Necropoli del Crocifisso del Tufo a Orvieto. Il dato archeologico ci
fa comprendere, in tale caso, che la grande aristocrazia, quella
proprietaria dei monumentali tumuli, ha perso potere in quest'area, lasciando
spazio a un ceto medio. Le costruzioni monumentali permangono in uso solo in
alcune zone dell'Etruria. A Populonia troviamo nella seconda metà del VI
secolo un tipo di costruzione piuttosto origi nale, la cosiddetta "tomba a
edicola", il cui esterno è simile a una piccola casa munita di un tetto a
doppio spiovente. Nel periodo ellenistico ci sono ancora tombe di proporzioni
monumentali, come quelle di Sovana o di Norchia, le note e affascinanti tombe
rupestri scavate nella roccia tufacea. Le loro facciate imitano quelle dei
templi o dei palazzi, come si rileva per la tomba Ildebranda a Sovana.
S'intendeva evidentemente eroizzare il defunto, deponendo il suo corpo
all'interno di un vero e proprio "tempio"; vicino alla tomba vi possono
essere altari per le celebrazioni cultuali dei defunti. Nello stesso periodo,
a Volterra le tombe vengono scavate nella roccia tufacea; sulle loro
banchine, ricavate nella pietra, troviamo urne contenenti le "ceneri" dei
defunti di una medesima gens . Tali "urnette", prodotte dalle botteghe locali
in alabastro o tufo, sono decorate sulla cassa con rilievi più o meno alti,
raffiguranti scene mitologiche tratte dal repertorio greco (Iliade, Odissea,
ecc. ) oppure legati al mondo etrusco (il congedo del defunto dai propri
cari, mostri dell'aldilà ecc.). Il coperchio "rappresenta" in genere il
defunto/a disteso sul letto da banchetto. Il viso della persona effigiata non
è inteso quale ritratto nel senso proprio del termine, ma piuttosto una
"tipologia" di volto, che raffigura per esempio una "giovane donna" oppure
un "uomo anziano". Nel II secolo a.C., accanto a questo tipo di urna
cineraria, rivolta a una committenza appartenente a un ceto "medio",
compaiono urnette in terracotta, provenienti dal territorio di Chiusi,
realizzate a matrice e deposte in tombe a "nicchiotto" semplicemente scavate.
Furono fatte per una classe sociale economicamente meno rilevante, che
tuttavia ebbe notevole fortuna politica nell'Etruria Settentrionale del
tempo. In alto, sulla cassa, è scritto il nome del defunto, a testimoniare la
diffusione dell'alfabetizzazione, ormai raggiunta anche da ceti sociali
"subalterni".
L'antropomorfizzazione e le statue cinerario
Il
Museo Archeologico di Firenze rivela al visitatore un aspetto interessante
della civiltà etrusca, talvolta non del tutto conosciuto. Il fenomeno
riguarda in particolare la città di Chiusi, le cui manifestazioni connesse
all'arte e all'artigianato rivelano, già nel VII secolo a.C., una tendenza
all'antropomorfizzazione: i vasi canopi. Sono ossuari realizzati in genere
con ceramica di impasto, ma talvolta anche in metallo (bronzo), cinerari che
presentano per coperchio una raffigura zione stilizzata della testa del
defunto; qualche volta, il "vaso" ha due piccole braccia disegnate a rilievo
e può essere collocato sulla rappresentazione miniaturizzata di un sedile
(Museo archeologico-topografico, sala di Chiusi). Qualcosa di simile troviamo
anche nel periodo Villanoviano, quando per coperchio del vaso biconico è
posto un elmo, quasi a voler restituire un 'integrità fisica
al defunto. Successivamente, nel V secolo a.C., questa tendenza diventa
ancora più evidente con la presenza, sempre nella città di Chiusi, di statue
cinerario: grandi sculture, come quella della Mater Matuta, scolpite in
pietra, che ospitano in una cavità interna le "cene ri" del defunto, mentre
la testa amovibile della statua funge da "chiusura".
La tomba come
casa del defunto Gli scavi archeologici delle necropoli ci hanno fornito
molti dati sulla civiltà etrusca. Un fattore costante nell'ideologia
funeraria etru- sca risulta la tomba, sentita come dimora del defunto.
Abbiamo già riferito di alcune urne cinerarie conformate "a capanna", ma
anche taluni monumenti funerari possono denotare questo aspetto. L'ingresso
della tomba può essere costituito da una porta in pietra con tanto di
battenti e, a guardia di essa come a custodia di un'abitazione terrena, sono
poste statue di animali fantastici, quali sfingi leonine, o più vicini alla
realtà, come i leoni; oppure, a testimonianza dell' importanza del defunto,
troviamo statue rigididamente composte di prefiche. Talvolta le camere
sotterranee delle tombe gentilizie riproducono fedelmente la pianta e
l'interno di un'abitazione, il cui "arredo" viene allora "scolpito"
nell'interno: sedie, letti, porte modanate, le stesse suppellettili, nonche i
tetti a doppio spiovente con l'orditura delle travi del soffitto. Medesima
decorazione si riscontra nella forma e nel coperchio di alcune urne
cinerarie, che hanno l' aspetto esteriore identico a quello di una casa. Da
tutto ciò emerge chiaramente l'immagine di un mondo dell'aldilà molto
prossimo a quello terreno. Gli oggetti che facevano parte del corredo funebre
testimoniano la volontà degli Etruschi di ricreare nell'oltretomba la realtà
di ogni giorno. Un'ulteriore testimonianza di ciò è notoriamente
rappresentata dalle pitture delle tombe, che spesso riproducono scene di vita
quotidiana e in particolare di banchetto.
Il culto dei
morti
Tra le pratiche di carattere religioso, un posto del tutto
particolare occupavano quelle che avevano come destinatari i defunti. Nei
primi tempi, esse erano legate alla concezione della continuazione dopo la
morte di una speciale attività vitale del defunto. A tale concezione si
accompagnava l' idea che quell'attività avesse luogo nella tomba e fosse in
qualche modo congiunta alle spoglie mortali. Dato però che tutto dipendeva
dalla collaborazione dei vivi, i familiari del defunto erano tenuti a
garantire, agevolare e prolungare per quanto possibile la "sopravvivenza" con
adeguati provvedimenti. La prima esigenza da soddisfare era quella di dare
al morto una tomba, che sarebbe diventata la sua nuova casa; subito dopo
veniva quella di fornirgli un corredo di abiti, ornamenti, oggetti d'uso e,
insieme, una scorta di cibi e bevande. Il resto era un arricchimento e poteva
variare a seconda del rango sociale del defunto e delle possibilità
economiche degli eredi. Si poteva così foggiare la tomba nell'aspetto sia
pure parziale o soltanto allusivo della casa, e dotarla di suppellettili e
arredi, e magari affrescarla sulle pareti con scene della vita quotidiana o
dei momenti più significativi della vita del defunto. Quanto alle pratiche
proprie dei funerali, esse andavano dall'esposizione al compianto pubblico al
corteo funebre al banchetto davanti alla tomba. Tutte queste pratiche,
insieme alle cerimonie e ai riti che dovevano essere compiuti in onore di
divinità connesse con la sfera funeraria, facevano parte di un autentico
culto dei morti, sacro da rispettare e da venerare. La situazione tuttavia
cambiò con il tempo: infatti, per effetto delle suggestioni provenienti dal
mondo greco, nel corso del V secolo a .C., alla primitiva fede di
sopravvivenza del morto nella tomba, si sostituì l'idea di uno speciale regno
dei morti. Questo fu immaginato sul modello dell'Averno (o Acheronte) greco,
il regno dei morti, governato dalla coppia divina di Aita e Phersipnai (Ade
e Persefone greci). ALCUNE OPERE: ARRINGATORE Tratto dal testo della
sovrintendenza del Museo Archeologico di Firenze
Provenienza: Il grande
bronzo entrò a far parte, nel 1566, delle collezioni del Granduca Cosimo de'
Medici. Scrive a tal proposito Vasari, in una lettera datata 20 settembre
1566, al Borghini: "Il Duca ha avuto una statua di bronzo intera che non gli
manca niente, d'uno Scipione Minore" - (l 'identificazione era errata) -"di
braccia 3 incirca in atto di locuzione". Non conosciute le circostanze del
recupero, il luogo di rinvenimento rimane incerto tra quello tradizionale,
Sanguineto (PG) sulla riva settentrionale del lago Trasimeno, e Pila, presso
Perugia, località emersa da fonti archivistiche.
Stato di
conservazione e tecnica: grande statua in bronzo eseguita con tecnica a cera
perduta, a fusione cava, in sette parti (testa e collo, tronco in due pezzi,
braccio destro, mano sinistra, le due gambe) poi saldate e, nel caso delle
gambe, inferiormente piene per maggior robustezza, fissate con chiodi alla
toga. Gli occhi, in diverso materiale (avorio, osso e/o pasta vitrea) erano
inseriti a parte e sono oggi perduti. Ciocche di capelli, bordi della toga,
iscrizione ed altri particolari sono incisi. La mano destra fu spezzata al
momento del primo rinvenimento.
Datazione: primi decenni del I sec.
avanti Cristo.
Soggetto: la statua, a grandezza naturale, rappresenta un
uomo maturo, con i capelli aderenti alla testa pettinati a ciocche, vestito
di una corta toga (toga exigua), praetexta, e, a contatto con la pelle, di
una tunica bordata da una stretta banda (angustus clavus; vedi il braccio
destro). Indossa dei calzari (calcei). Il suo rango è dichiarato dall' anello
che porta alla sinistra. La destra è alzata, la mano aperta nel gesto del
silentium manu lacere: il personaggio è ritratto nel momento in cui,
apprestandosi a parlare in pubblico, chiede l'attenzione, di qui il nome con
cui la statua è universalmente nota, l"'arringatore".
Il personaggio,
un etrusco, come vedremo dall'iscrizione, si atteggia e veste ormai alla
maniera romana: la sua veste, pur riportabile alla tebenna etrusca, è ormai
accostabile alla toga romana; i calzari presentano la caratteristica
linguetta (lìngula) e le corregge (corrigiae) dei calcei senatorii
romani.
L'iscrizione: incisa su tre righe sul bordo della toga, è un
'iscrizione di carattere "pubblico": la grafia è composta e ben curata, le
lettere presentano appendici (apicature) destinate a renderle più belle e
ricercate. Il tipo di alfabeto usato è quello presente, in epoca tardo
etrusca, nell 'area di Chiusi e Cortona.
aulesi .metelis .ve. vesial.
clensi cen .jleres .tece .sansl. terine tu ines .chisvlics
così
interpretabile: "per Aule Metelifiglio di Vel e di una Vesiquesto (oggetto
sacro) al dio Tece Padre è posto (o simile) dal pago (o vico) di Chiusuli".
Certa è l'interpretazione della prima riga, incerta quella delle altre;
quanto basta comunque per capire che ci troviamo di fronte ad una statua
comnemorativa di un uomo pubblico, politico, Aulo Metello appunto, offerta in
suo onore da una qualche comunità in un santuario della zona di Perugia o,
più probabilmente, del Trasimeno.
Il ritratto: l'iscrizione dichiara con
evidenza che, con questa statua, si voleva ricordare, e rappresentare, un
uomo ben preciso, Aulo Metello. Anche il volto dunque si sarà voluto
avvicinare alle fattezze del personaggio, accentuandosi in questo una
tendenza stilistica di pronunciato verismo di influenza, ancora, romana.
Lungo e dibattuto è il problema del nascere e del fiorire del genere
artistico del ritratto, e, soprattutto, il problema di quando si possa
parlare, per una testa dipinta o scolpita, di ritratto, nella "moderna"
accezione del termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le
seguenti tappe: l) ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che
si manifesta nella sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad
una immagine generica; 2) ritratto tipologico: la genericità dell'immagine
si riduce, cercandosi di indicare con essa la classe di appartenenza del
personaggio raffigurato (un re, un guerriero, un dio), e la sua età (vecchio,
giovane). La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le fattezze
individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti somatici
(ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi
un'espressione psicologica che meglio ricordi il personaggio: è il ritratto
fisionomico, ritratto nella sua accezione moderna, che affonda però le sue
radici nei fermenti della Grecia del IV sec., quando, sullo stimolo della
sofistica, si abbandonano le più antiche remore ideologiche che avevano fino
ad allora impedito dieternare con un tale tipo di ritratto un individuo
isolandolo al di sopra della massa di suoi pari, per giungere ora ad un più
pieno apprezzamento della individualità del singolo. Se ancora per il
sarcofago dell"'obeso" siamo incerti se ci troviamo di fronte ad un
ritratto fisionomico, e non piuttosto ad un ritratto tipologico di dominus
adagiato sulla sua kline, per la nostra statua è ormai chiara, nella cura
minuziosa dei dettagli, la potente influenza del verismo ritrattistico di
Roma. Il collo è lungo, la fronte è solcata da profonde rughe, il taglio
degli occhi prosegue lateralmente in sottili incisioni e la loro intensità è
aumentata dall'ampiezza delle guance, magre e glabre; la bocca, ben
disegnata, è sottolineata da un mento piuttosto deciso. Aule Meteli, un
etrusco (lo dichiara, l'iscrizione) che veste, si fa ritrarre alla maniera
romana. Un etrusco, dunque, ormai pienamente romanizzato, come giuridicamente
romanizzata è, proprio in questi anni, l'Etruria che, con la Lex Iulia e
laLex Calpurnia de civitate (90 a.C.), acquisisce la cittadinanza romana. La
nostra statua è dunque un monumento che possiamo prendere a simbolo dello
scomparire di una civiltà, quella etrusca, lentamente ed inesorabilmente
assorbita da quella romana. Con debita prudenza possiamo quasi riassumere in
questo bronzo un'epoca: " Aulo Metello, nato etrusco, cittadino
romano". CHIMERA Tratto dal testo della sovrintendenza del Museo
Archeologico di Firenze
La storia La Chimera fu scoperta nel 1553
(secondo il Vasari nel 1554), durante la costruzione di fortificazioni
medicee alla periferia della città. Il ritrovamento avvenne il 15 novembre
1553 e dopo il rinvenimento fu subito trasportata a Palazzo Vecchio. Questa
scoperta sensazionale ebbe larga eco tra artisti e letterati dell'epoca, come
ad esempio il Cellini, il Vasari, Tiziano ecc. ela notizia si diffuse assai
rapidamente, tanto che nella seconda metà del'500 la Chimera divenne
l'interesse precipuo e la mèta di numerosi viaggiatori stranieri che ne
parlarono in appunti di viaggio corredati spesso da disegni dell'opera. Da
alcuni disegni più antichi e da notizie sul ritrovamento nell'Archivio
di Arezzo risulta che solo la coda, rintracciata dal Vasari, mancava e che
non fu ricomposta. Così viene anche a cadere la leggenda che vedeva nel
Cellini l'esecutore del restauro integrativo delle zampe che dovevano quindi
essere complete seppur danneggiate. Dopo il rinvenimento si cominciò la
ricerca di testimonianze iconografiche che garantissero che si trattasse
proprio della Chimera di Bellerofonte, indirizzando l'indagine soprattutto
sui reperti numismatici. Dal Vasari (Ragionamenti sopra le invenzioni da lui
dipinte in Firenze nel palazzo di loro Altezze Serenissime, Firenze 1558, ed
Arezzo 1762, pp. 107-8) si ricava e si ha testimonianza del metodo seguito
per giungere ad affermare che il "leone" scoperto ad Arezzo era proprio
la Chimera. Ad un interlocutore che domanda se si tratta proprio della
Chimera di Bellerofonte, come dicono i letterati, il Vasari così
risponde:
"Signor sì, perche ce n'è il riscontro delle medaglie che ha il
Duca mio signore, che vennono da Roma con la testa di capra appiccicata in
sul collo di questo leone, il quale come vede V.E., ha anche il ventre di
serpente, e abbiamo ritrovato la coda che era rotta fra que' fragmenti di
bronzo con tante figurine di metallo che V.E. ha veduto tutte, e le ferite
che ella ha addosso, lo dimostrano, e ancora il dolore, che si conosce nella
prontezza della testa di questo animale...".
Quindi, per risolvere i
problemi interpretativi che si erano venuti a creare con il ritrovamento
della statua, l'indagine non si limitò alle testimonianze letterarie e
mitologiche, ma progredì nella ricerca di documentazioni iconografiche
antiche, particolarmente per quello che concerneva la documentazione
numismatica. E non si può escludere che la ricerca di medaglie avesse come
fine ultimo quello di scoprire un modello per restaurare la statua che
mancava della coda. Infatti, furono trovate delle monete d'argento di Sicione
recanti l'immagine della Chimera. Queste monete, ora nel Medagliere del Museo
Archeologico di Firenze, facevano presumibilmente parte delle Collezioni
Granducali. Esse mostrano la Chimera con la giusta posizione della coda,
formata dal serpente. La coda con la testa di serpente doveva avventarsi
minacciosa contro l'avversario e non mordere un corno della testa della
capra: si tratta infatti di un restauro sbagliato eseguito, in epoca
neoclassica, da Francesco Carradori nel 1785.
I Medici e la Chimera La
Chimera, come abbiamo detto sopra, fu subito portata a Palazzo Vecchio nella
sala di Leone X: si trattava di un'operazione non solo artistica (in quanto
si adattava al progetto decorativo stabilito dal Vasari) ma
anche "strategica"; in questo senso la Chimera, l'opera più
importante dell"'etruscheria" toscana, stava anche a simboleggiare le fiere
che Cosimo aveva combattuto e domato per costruire il suo regno.
Il
mito Chìmaira, in greco, letteralmente significa capra. Ed infatti questo
mostro della mitologia greca con il corpo e la testa di leone, talvolta
alato, con la coda a forma di serpente, portava nel mezzo della schiena una
testa di capra. Omero (II. VI, 181-182) ed Esiodo (Theog., 321-322) narrano
che era figlia di Tifone. La Chimera fu uccisa dall'eroe Bellerofonte,
ritenuto da alcuni addirittura figlio di Posidone; Bellerofonte riuscì a
catturare e domare il cavallo alato Pègaso, con il quale riuscì ad uccidere
la Chimera. La statua bronzea del Museo Archeologico di Firenze rappresenta
la Chimera ferita in atto di avventarsi sul suo aggressore, mentre la testa
di capra si reclina, morente, per le ferite ricevute. La coda con la testa
di serpente, come abbiamo detto, è un restauro non giusto: doveva avventarsi
minacciosa contro l'avversario e non mordere un corno della testa della
capra. Probabilmente, la Chimera faceva parte di un gruppo con Bellerofonte
sul Pegaso che colpiva dall'alto, come fa supporre la ferita sanguinante sul
collo della capra. Però non si può escludere completamente 1 'ipotesi che si
trattasse di un dono votivo a se stante.
La datazione Molto si è
discusso sull'appartenenza della Chimera all'arte etrusca, tesi ormai
accettata senza riserve dagli studiosi. La "maniera etrusca" già notata dal
Vasari si riflette in quel misto di naturalismo (nella muscolatura e nelle
vene rilevate, rese con calligrafico realismo, del corpo teso del leone) e di
stilizzazione (nella testa con fauci spalancate in atto di feroce aggressione
e nel pelame della criniera e del dorso, reso con ciocche dette
convenzionalmente "a fiamma"); di conservatorismo (negli elementi
convenzionali arcaizzanti della testa e della criniera) e di intensa
espressività (nell'aggressività feroce del muso del leone e nel patetico
abbandono della testa della capra). Altro elemento a favore della etruschità
di questa opera d'arte è la iscrizione sulla branca anteriore destra,
tracciata sul modello ed eseguita insieme alla fusione. Vi si legge tinscvil,
cioè dono votivo al dio Tinia (assimilabile al Giove dei Romani). Si tratta
di un'iscrizione dedicatoria con caratteristiche grafiche appartenenti
all'area etrusco-settentrionale, cosa che avvalorerebbe l'ipotesi di una
offi- cina nord-etrusca, localizzata ad Arezzo o in zona contigua. Per quanto
riguarda la datazione, quella finora consueta della fine del V secolo a.C. è
universalmente abbassata ai primi decenni del IV sec. a.C.
La
collocazione al Museo Archeologico Come abbiamo detto sopra, la Chimera
rimase a lungo, come un simbolo, a Palazzo Vecchio e solo molto tempo dopo,
nel 1718, venne trasportata nella Galleria degli Uffizi, proprio come oggetto
da esporre in museo. Non a caso fu trasportata agli Uffizi: in questo
periodo, la famiglia Medici non era più quella potente di una volta e
cominciava anche, lentamente, uno studio più serio sull"'etruscheria", che
andava ben oltre la semplice curiosità. Dopo il 1879 ci furono forti
pressioni perche tutto il materiale antico fosse collocato nel Palazzo della
Crocetta, l'odierna sede del Museo Archeologico. Lo scopo fu raggiunto solo
in parte, ma tra le opere trasferite ci furono l'Idolino, la Chimera ed altri
bronzi classici (1890). MATER MATUTA Provenienza: Chianciano (Siena).
Venne scoperta probabilmente nel 1846 o nel 1847 da Luigi Dei in un terreno a
1 krn. a sud di Chianciano, in località 'La Pedata'.
Stato di
conservazione: lacunoso, con numerose reintegrazioni.
Datazione: 450-440
a.C
La statua-cinerario aveva subìto un primo restauro ad opera di
restauratori chiusini dell'800, i quali, seguendo il gusto e la moda
dell'epoca, avevano integrato le parti mancanti con tasselli, scolpiti nella
stessa 'pietra fètida' della scultura (pietra arenaria a grana finissima,
tipica delle cave esistenti nelle vicinanze di Chiusi), tenuti insieme da un
impasto di polvere di pietra fètida e di gomma collosa di natura organica, in
modo da ottenere l'effetto di integrità.
A causa dei danni rilevanti
arrecati alla Mater Matuta dall'alluvione del 1966, fu necessario un nuovo
intervento di restauro, effettuato con tecnica perfezionata e rigore
scientifico, che ha pennesso di discernere le parti autentiche del monumento
dai posticci del restauro ottocentesco ( eliminati, quindi, nella nuova
ricostruzione). Il cinerario è in fonna di statua femminile, che regge sul
grembo un bambino, avvolto in un panno. La figura è seduta su un trono, di
fonna cubica, con i braccioli pieni a fonna di finge accosciata con le ali
aperte. La testa, mobile, fungeva da coperchio; ugualmente mobili sono i
piedi. Il corpo, che fa un tutt'uno con il tronco, fu probabilmene ricavato
da un unico blocco di pietra. Nell'interno della statua, secondo Milani,
furono rinvenuti l'oinochòe plastica a testa femminile e lo spillo d'oro
con decorazione granulare, conservati nella vetrina adiacente. La
statua-cinerario di Chianciano, variamente identificata con una
divinità (Bona Dea; Tujltha, la dea degli Etruschi protettrice dei morti,
Proserpina; o Mater Matuta) con tutta probabilità rappresenta una defunta con
il suo bambino. Dal punto di vista stilistico si nota una tale discrepanza
tra l'esecuzione della testa e quella del corpo (fenomeno, questo,
tuttavia frequentissimo nell'arte etrusca, che si rinnova, anche in epoca
posteriore, nelle figure dei defunti sui coperchi delle urne), da far pensare
che siano stati prodotti in botteghe diverse. Il corpo, massiccio, si stacca
appena dal blocco cubico del trono; il panneggio del chitone e del himàtion è
reso con vivo plasticismo e senso volumetrico nelle ampie e pesanti
pieghe accentuate soprattutto sulle gambe. Molto bella è la testa, con
capelli spartiti sulla fronte, trattenuti da una tenia e ricadenti sulle
tempie in bande ondulate; volto ovale con grandi occhi a mandorla,
sottolineati da palpebre pesanti; naso diritto; bocca con labbra carnose,
leggermente aggettanti, che ne accentuano l'espressione serena e pensosa, che
riflette una eco della grande arte greca del V sec. a.C. La datazione è stata
molto discussa, oscillando tra la metà del V ed il IV sec a.C. Gli oggetti
del corredo (la oinochòe a testa femminile, datata dal Beazley a1470-450 a.C.
e lo spillo d'oro granulato, datato nel 2° venticinquennio del V sec.a.C.)
ed i dati iconografici sembrano confermare la datazione della Mater Matuta
al 450-440 a.C. Per il suo uso come cinerario, la Mater Matuta si collega
ai canopi chiusini. Il canopo (o più propriamente "ossuario antropòide")
non è che un 'urna cineraria con copertura a testa umana, tipica e
caratteristica della regione chiusina. A sua volta, il canopo si riallaccia
ad una lunga tradizione, che sorge nella civiltà villanoviana. Infatti, la
copertura ad elmo di alcuni ossuari villanoviani (generalmente coperti da
ciotola-coperchio monoansata) non è che un principio di antropomorfizzazione,
che troverà il suo pieno sviluppo proprio nell'ossuario antropoide chiusino.
Cronologicamente, i canopi vanno dalla metà del VII al principio dell'età
ellenistica (IV sec.a.C.). I canopi, come le statue-cinerario, hanno una
testa mobile, che chiude il vaso contenente le ceneri; anche essi sono posti
su di un sedile di trono, spesso in terracotta, talora in lamina bronzea, più
modesto dei troni delle statue-cinerario, ma indicante una chiara intenzione
di onorare il ricordo del defunto. Sia i canopi che le statue-cinerario sono
peculiari dell'ambiente chiusino e attestano la continuità coerente e
costante di una cultura artistica che può aver determinato il fiorire in
Chiusi di una scuola scultorea di notevole importanza. Ciò è dovuto
prevalentemente al tipo di fiorente economia agraria, che Chiusi sviluppa in
modo particolare, ma che si ritrova anche in altre città dell'Etruria interna
(a differenza di quanto troviamo nei centri dell'Etruria costiera, la cui
florida economia commerciale e marittima subisce un arresto ed una
conversione da mercantile ad agraria soltanto dopo la sconfitta etrusca a
Cuffia del 474 a.C. e la conseguente perdita del dominio sul mare). Il
SARCOFAGO di LARTHIA SEIANTI
Provenienza: tomba a camera della gens
Larcna, rinvenuta nel 1877 in loc. Martinella, un km a NE di
Chiusi.
Stato di conservazione: il sarcofago, pressochè intatto,
conserva gran parte della policromia antica, frequente in monumenti del
genere, ma spesso sbiadita irrimediabilmente dal tempo e dalle condizioni di
giacitura dei reperti. Realizzato in terracotta, fu confezionato in quattro
parti distinte (e poi giustapposte) per l'impossibilità di cuocere insieme il
grande coperchio e la grande cassa. La figura è stata eseguita a mano libera;
per la decorazione della cassa si è probabilmente fatto uso di
stampi.
Datazione: secondo quarto delll secolo a.C.
Soggetto: la
defunta è immaginata semidistesa sulla kline, il busto tenuto eretto
puntellando il braccio sinistro su due cuscini a bande gialle, bianche e
violacee (nell'indicazione dei colori seguiremo anche le descrizioni del
pezzo al momento della scoperta, quando essi erano più vivi) dalle lunghe
frange gialle e viola. Tiene nella mano sinistra aperta, dalle dita
inanellate, uno specchio circolare: la superficie riflettente interna è in
azzurro, la cornice perlinata in giallo e deve quindi essere
immaginata aurea. La destra discosta dal volto, in un gesto di pudicizia, un
lembo dell'ampio mantello bianco, bordato da una striscia violacea tra due
minori verdi, che le avvolge le spalle, i fianchi e le gambe, coprendo una
tunica, pure bianca, decorata da tre bande verticali (due laterali violacee
ed una verde centrale) e da una banda a V che sottolinea la scollatura.
Stringe la tunica, poco sotto il seno, una cintura annodata, gialla,
frangiata, con motivi rilevati a fulmine ed a dischetto, con punto centrale
rosso (forse ad indicare l'inserzione di una qualche pietra dura). I piedi,
con calze verdi, calzano sandali con legacci verdi decorati con borchiette
gialle. La chioma, a corte ciocche regolari che incorniciano la fronte, reca
un diadema (o forse una ghirlanda) di fiori in giallo; ricordano l'oro la
collana a girocollo con pendente, la bulla a testa di Medusa sullo scollo, le
due armille sul braccio destro. Gli orecchini, a disco con pietre rosse,
hanno un pendente a ghianda. Il fronte della cassa è decorato secondo un
chiaro partito architettonico, generato forse dalla particolare ideologia
funeraria etrusca (la tomba vista come casa del defunto), o forse, più
semplicemente, mediatovi come elemento decorativo. E' ripartito in quattro
settori da cinque pilastrini scanalati con capitelli compositi, che
sorreggono una fila di ovoli ed un listello piatto su cui è impresso il nome
della defunta. I pilastrini inquadrano spazi rettangolari decorati con due
rosoni a rilievo violacei e rossi, intercalati a due pàtere umbelicate
dipinte di giallo.
Il ritratto: come vedremo, l'iscrizione tracciata sul
sarcofago al momento della sua esecuzione, venne poi sostituita, prima
dell'uso effettivo, da un' altra, con un diverso nome: il fatto rende
ancorpiù evidente il problema dell'eventuale valore ritrattistico della
figura sul coperchio. In effetti lungo e dibattuto è, in generale, il
problema del ritratto, del suo nascere e fiorire e, soprattutto, di quando si
possa parlare, per una testa, di ritratto nella "moderna" accezione del
termine. Nella sua evoluzione sono state individuate le seguenti tappe: 1)
ritratto intenzionale: il primo impulso al ritratto, che si manifesta nella
sua forma più ingenua, attribuendo un nome determinato ad una immagine
generica; 2) ritratto tipologico: la genericità dell'immagine si attenua,
cercando di indicare con essa la classe di appartenenza del personaggio
raffigurato (un re, un guerriero, un dio, una matrona), e la sua età
(giovane, vecchio). La III e la IV tappa tendono ad imitare precisamente le
fattezze individuali del soggetto, riproducendone veristicamente i tratti
somatici (ritratto fisionomico) ed infine cercando di conferire ad essi un'
espressione psicologica che meglio connoti il personaggio: è il ritratto
fisionomico, il ritratto come oggi lo concepiamo. Nel monumento, la
caratterizzazione del volto è piuttosto scarsa e non sembra andare oltre la
generica rappresentazione di una giovane matrona pomposamente recumbente
sulla sua ricca kline, nello sfoggio della sua ricchezza. La notevole
somiglianza del volto stesso con quello dell'analogo sarcofago di Seianti
Tanunia conservato presso il British Museum di Londra, ci convince ad
assegnarlo all'ambito del semplice "ritratto tipologico". L' iscrizione:
larqia:seianti:s.i:sve.(impressa nell'argilla); ...ti a:lar...lisa: niasa
(dipinta sullo stucco che ha coperto la prima): vedi Corpus Inscriptionum
Etruscarum 1215. Impressa sul listello superiore della cassa prima della
cottura, quando l'argilla era ancora cruda, l'iscrizione indica il nome della
defunta, o forse il nome del personaggio che commissionò il sarcofago, senza
poi usarlo. L'iscrizione, in effetti, risultava, al momento della
scoperta, parzialmente riempita e ricoperta da uno strato di stucco (alcune
lettere sono ancora mal leggibili) sul quale era stato dipinto un secondo
nome, diverso dal primo, oggi quasi completamente scomparso. Poco chiaro
per questo il reale rapporto tra la defunta seppellita nel nostro sarcofago
e gli altri personaggi sepolti nella stessa tomba, sicuramente pertinente
alla famiglia larcna.
Il corredo: attorno al sarcofago furono
rinvenuti i seguenti oggetti. Argento: craterisco in lamina; padella; doppio
pettine; tre pàtere; tre spilloni; un cucchiaino per cosmetici; tre aghi
(forse frammento di una fibula); un paio di pinzette; vetro: cinque pedine da
gioco, di vario colore; alabastro: due anforischi; bronzo: una fiaschetta in
lamina; un asse romano. Possiamo agevolmente distinguere tre gruppi di
materiale: il vasellame da mensa miniaturizzato, gli oggetti da toeletta, la
moneta. Proprio quest 'ultima, presente nel corredo come obolus Carontis,
cioè come offerta che la defunta elargirà al traghettatore degli Inferi al
momento di esser trasportata nel mondo dei morti, ci fornisce un utile dato
cronologico per la datazione della tomba: il monetiere che ha curato la sua
coniazione è infatti M. Titinius, che sappiamo attivo a Roma tra il 189 ed il
180 a.C.. La sepoltura sarà dunque di poco posteriore a tale epoca, visto che
la datazione tipologica degli altri oggetti di corredo non può scendere
molto nel II sec. a.C. I ricchi oggetti da toeletta non fanno che
completare, stavolta con l' oggetto reale, la ricca parure già esibita dalla
figura sul coperchio. Il vasellame da mensa, miniaturistico, rimanda al
mondo del banchetto aristocratico: una delle manifestazioni tipiche del
vivere gentilizio, esaltata nei cicli pittorici delle tombe di Tarquinia
(Tomba del Triclinio, Tomba dei Leopardi...) come anche e soprattutto dalla
figura sdraiata a banchetto dei grandi sarcofagi maschili ( cfr. quello
dell'obesus ) e delle piccole urne cinerarie. Il particolare pregio del
metallo con cui tali oggetti di corredo sono stati realizzati costituisce
un'ulteriore prova della estrema ricchezza della defunta. Una ricca signora,
dunque, debitamente onorata anche nell ' oltretomba: uno dei tanti indizi
della particolare considerazione della donna nel mondo etrusco. Una
considerazione spesso esagerata da certi moderni, specie influenzati dalla
propaganda "scandalistica" della storiografia greca. Una società
rigidamente androcentrica non poteva che stigmatizzare negativamente la
libertà ad essa concessa, ancor più se questa lo era da un mondo
economicamente in competizione, quale quello etrusco. Al di là di facili
esagerazioni possiamo comunque riscontrare numerose prove di un diverso ruolo
rivestito dalla donna etrusca rispetto ad altre civiltà antiche,
assolutamente androcentriche. Un esempio tra tutti, quello offertoci
dall'onomastica. Le formule onomastiche antiche citano il nome del padre, il
patronimico; quelle etrusche citano talvolta anche il nome della madre, il
metronimico (che però mai sostituisce il primo!). Si veda, come esempio,
l'iscrizione tarquiniese CIE 5471:
Larth Arnthal Plecus clan Ramthasc
Apatrual..., cioè Larth, figlio di Plecus e di Ramtha Apatrui. Mentre la
donna romana, inoltre, non possedeva un prenome, cioè un nome proprio,
diverso dal nome familiare (ossia il gentili zio che, volto al femminile, la
designava), la donna etrusca aveva invece il proprio prenome al pari
dell'uomo. Il diverso rilievo della donna etrusca nell'ambito delle società
antiche ci è poi confermato anche da altri indizi, anche storici: è l'etrusca
Tanaquilla, moglie di Tarquinio Prisco, che, alla morte del marito, impone a
Roma il regno di un sovrano ne appartenente alla linea dinastica, ne voluto
da (almeno apparenti) forze politiche interne: Servio Tullio (vedi Livio,
1,34). La Lingua L'etrusco è una lingua costruita in un alfabeto di
origine greca e affine all'alfabeto latino. Le incognite che ancora oggi la
lingua etrusca presenta sono da attribuire alla sua estraneità rispetto ai
gruppi linguistici noti. A detta degli antichi, tra cui lo storico Dionigi di
Alicarnasso, la lingua parlata dagli Etruschi era diversa da tutte le lingue
conosciute. Dopo la conquista romana, essa fu a poco a poco sostituita dal
latino, fino ad uscire completamente dall'uso.
Il presunto
mistero Il materiale: entità e caratteristiche delle testimonianze
superstiti Documentazione diretta Documentazione indiretta II processo
interpretativo Alfabeto etrusco Piccolo vocabolario
etrusco Trascrizione delle iscrizioni Iscrizioni indicanti
alfabeti
Il presunto mistero
Contrariamente a
quanto molti ancora suppongono, i documenti della lingua etrusca sono
tutt'altro che 'indecifrati' o 'indecifrabili': scritti con un alfabeto di
derivazione greca, di tipo euboico ('rosso', cioè occidentale, secondo la
divisione stabilita da A. Kirchhoff delle scritture dei Greci), fin dal
secolo scorso si leggono senza nessuna particolare difficoltà; ma anche in
precedenza, salvo qualche dubbio relativo a singoli segni, l' epigrafia aveva
rappresentato il capitolo forse più solido nell'intero panorama
dell'etruscologia. Sappiamo dunque che già nel tardo VIII secolo a.C. gli
Etruschi erano certamente in possesso d'un alfabeto, introdotto in Italia
centrale da coloni euboici dell'isola d'Ischia e comprendente ventisei
lettere, come si desume da una tavoletta d'avorio, dalla finalità
evidentemente scolastica, ritrovata a Marsiliana d'Albegna (Grosseto). Ma
quattro lettere non sono effettivamente impiegate (la b, la d, la s sonora e
la o, che si confondeva col suono u), mentre per il suono f dal VI secolo
a.C. è introdotto un segno apposito. La scrittura procede normalmente da
destra verso sinistra; assai più raramente, da sinistra a destra ovvero con
andamento bustrofèdico, cioè alternato riga per riga. In epigrafi meno
antiche si possono incontrare puntini di separazione tra le parole. In realtà
il problema è un altro ed è un problema d'interpretazione linguistica, non di
decifrazione epigrafica: quello d'intendere il significato dei testi, redatti
in una lingua che non sembra imparentata con nessun altra delle antiche o
moderne proposte alla comparazione, e di elaborare, possibilmente, una
descrizione grammaticale, morfologica e sintattica, di questa lingua, che è
poi la condizione stessa della sua conoscenza effettiva. E, da tale punto di
vista, bisogna ammettere che, nonostante lo sforzo grandioso di molte
generazioni di studiosi, i risultati sicuri permangono pochi e settoriali; e
ciò non per insufficienza d'impegno o per inadeguatezza dei metodi adottati,
ma per la qualità medesima dei documenti disponibili. Infatti le iscrizioni
etrusche, anche se numerose (circa 10.000), vengono in grandissima parte da
necropoli; sono perciò di carattere funerario e generalmente molto brevi.
Esse ci danno perciò soprattutto, se non soltanto, nomi di persona e
indicazioni anagrafiche elementari, pur essendo in gran parte abbastanza
facilmente (ma talvolta approssimativamente) traducibili. I pochissimi
testi etruschi più complessi - un rituale scritto su un rotolo di tela poi
utilizzato per avvolgere una mummia, ora al Museo di Zagabria; una tegola
iscritta, proveniente da Capua, a Berlino; il Cippo di Perugia - suscitano
invece gravi difficoltà nell'interpretazione, anche perché non si conoscono
per il momento ampi documenti bilingui a carattere di traduzione letterale
(del tipo della Stele di Rosetta). Ciononostante la pazienza degli indagatori
conduce pian piano a singole acquisizioni che, pur nei limiti quasi
invalicabili imposti dalla quantità e dalla qualità dei documenti (ai testi
epigrafici bisogna aggiungere le parole etrusche riportate dagli scrittori
antichi), possono organizzarsi in un disegno generale abbastanza ben
definito. Dopo l'esperienza dei metodi 'etimologico' (che presupponeva la
parentela dell'etrusco con altre lingue conosciute) e 'combinatorio' (rivolto
ad analizzare solo per via interna la 'combinazione' degli
elementi costitutivi del testo), in anni recenti hanno trovato sviluppo due
nuovi modi d'accostare il problema linguistico: il cosiddetto
'bilinguismo', promosso specialmente da Massimo Pallottino, che integra
l'analisi combinatoria con l'uso di fonti interpretative esterne (per
esempio, il confronto con formule di dedica latine e greche); e lo
'strutturalismo' di Helmut Rix, che reputa sufficiente una descrizione della
'struttura' dei testi a chiarirne anche il significato. Della grammatica
dell'etrusco non è qui il caso di parlare diffusamente, perché
c'introdurrebbe in un terreno di ardua e complicata spiegazione. Preferiamo
dare al lettore l'esempio di una declinazione di sostantivo ormai
sufficientemente accertata (secondo gli schemi di lingue più note, come il
greco e il latino e quello di un 'epigrafe funeraria abbastanza
traducibile. Ecco il modello di declinazione del sostantivo methlum (che
significa 'nome '): methlumes ('del nome'); methlumth ('nel mome', con valore
locativo); methlumeri ('al nome'). Ed ecco invece l'esempio di epigrafe
funeraria (si tratta dell'iscrizione incisa su un sarcofago da Norchia e
riportata sia nel Corpus Inscriptionum Italicarum di A. Fabretti, N. 2070,
sia nel nuovo Corpus Inscriptionum Etruscarum, N. 5874): Arnth Churcles
[Arnth Churcle], Larthal [di Larth] clan [figlio] Ramthas Nevtnial [(e) di
Ramtha Nevtni], zilc parchis [pretore] amce [fu] marunuch [appartenente al
collegio dei 'maroni'] spurana [urbano] cepen [sacerdote] tenu [ha
esercitato], avils [di anni] machs [cinque] semphalchls [(e) settanta] lupu
[è morto].
Il materiale: entità e caratteristiche delle
testimonianze superstiti
Si è già detto che uno dei fondamentali fattori
negativi per la conoscenza della lingua etrusca (e potremmo aggiungere più
generalmente della civiltà etrusca) è costituito dalla ristrettezza della
documentazione. Tuttavia questa documentazione è tutt'altro che trascurabile:
si tratta infatti del più ingente complesso di testimonianze scritte di una
lingua antica parlata in Italia, e nell'intero Mediterraneo
centro-occidentale, a parte il greco, il fenicio-punico e il latino; in età
arcaica gareggia per entità con i resti epigrafici di queste stesse lingue;
ed è in continuo aumento. Proprio il flusso delle nuove scoperte ravviva la
speranza che il futuro, anche prossimo, possa riservarci ulteriori sorprese.
È più che probabile che il sottosuolo etrusco nasconda ancora un ricco
patrimonio di iscrizioni. Non si può escludere che un' attenta indagine nelle
aree dei maggiori centri urbani porti al ritrovamento di testi epigrafici di
carattere pubblico, storico-commemorativo o giuridico eventualmente redatti
in etrusco e in latino (ciò che è ben possibile per le fasi più recenti
dell'Etruria sottomessa o federata a Roma). Rimarrà naturalmente comunque
l'incolmabile lacuna dell'assenza di testi letterari, per cui ci è preclusa
la possibilità di conoscere l'etrusco alla stessa stregua delle altre lingue
del mondo classico. In teoria documenti letterari etruschi potrebbero
scoprirsi nel futuro in papiri dell'Egitto o di Ercolano (se si tien conto
del già avvenuto miracolo - che di un vero miracolo dobbiamo parlare - del
rinvenimento di un testo etrusco sulle bende di tela di una mummia egiziana);
ma si tratta purtroppo di possibilità tanto tenui e remote da potersi
definire chimeriche.
Documentazione diretta
Le
testimonianze che attualmente possediamo aifini della conoscenza della lingua
etrusca si distinguono in dirette e indirette. Testimonianze dirette sono i
testi: in gran parte editi nel C.I.E.. in altre raccolte e
rassegne specifiche, ed in varie pubblicazioni monografiche e periodiche;
alcuni pochi ineditì (soprattutto quelli che continuamente vengono in luce,
nella fase che segue immediatamente la loro scoperta). Si tratta di
materiale tutto di carattere epigrafico, cioè di iscrìzioni sopra monumenti
od oggetti di scavo, salvo i frammenti del libro della mummia di Zagabria,
che ha tuttavia anch'esso una provenienza archeologica. Quest'ultimo
documento è di importanza eccezionale non soltanto per la civìltà etrusca, ma
anche più generalmente per le antichità classiche, trattandosi dell'unico
libro sacrale su tela (liber linteus) che ci sia stato conservato per il
mondo greco ed italico-romano. Aveva originariamente la forma di un panno
rettangolare ripiegato, quale è riconoscibile in alcuni monumenti funerari
etruschi. Fu poi tagliato in strisce ed impiegato per avvolgere la mummia di
una donna egiziana, di età tolemaica o romana, scoperta probabilmente nel
medio Egitto (ma il luogo di ritrovamento è incerto). Questa utilizzazione,
nella quale andarono perduti importanti frammenti del testo originario, è
senza dubbio secondaria; ignoriamo quali precedenti circostanze abbiano
determinato la presenza di un libro religioso etrusco in Egitto. La mummia fu
portata in Europa da un viaggiatore croato e poi dònata al Museo Nazionale di
Zagabria, dove J. Krall riconobbe la scrittura delle fasce come etrusca.
Riaccostando tra loro queste bende, si è potuto ricostruire un testo scritto
entro i limiti di almeno dodici colonne verticali: esso consta attualmente di
circa 1200 parole più o meno chiaramente e completamente leggibili, alle
quali si può aggiungere almeno un centinaio di altre parole che si
ricostruiscono dal contesto. Data la frequenza delle ripetizioni, il numero
delle parole sicure diverse fra loro si riduce a poco più di 500. Comunque il
libro di Zagabria è senza paragone il più lungo ed il più importante di tutti
i documenti etruschi finora in nostro possesso. Le iscrizioni, scoperte
soprattutto nell'Etruria tirrenica, campana e padana - in minor numero o
eccezionalmente nel Lazio, in territorio umbro e fuori d'Italia (Africa,
Francia meridionale) -, sono incise o dipinte sopra elementi architettonici,
pareti di tombe, cippi, sarcofagi, urne, tegole, statue, arredi, laminette
metalliche, vasi, ecc. Esse ammontano ad oltre diecimila; ma solo pochissime
sono di entità rilevante. Tra queste alcune hanno il carattere di documenti
autonomi non legati alla natura dell'oggetto, nel senso cioè che il loro
supporto mobile ha la funzione di una specifica superficie scrittoria (non
diversa da quelle di materiale deperibile come i volumi di tessuto o di
pelle, le tabelle e i dittici lignei, ecc., che vediamo frequentemente
riprodotti nei monumenti figurati etruschi, ma che nella realtà sono andati
perduti a causa del nostro clima, mentre il clima secco dell'Egitto ha
salvato illiber linteus di Zagabria). La più lunga è inscritta sopra una
lastra di terracotta in forma di tegola proveniente da Capua e
successivamente passata ai Musei di Berlino: esso consta di 62 righe
conservate, divise in dieci sezioni, con quasi 300 parole leggibili; la
seconda parte del testo è molto rovinata; la scrittura è tracciata a righe
alternativamente rovesciate in modo da imitare il procedimento detto
bustrofedico. Un testo graffito su ambedue le facce di un lungo nastro di
lamina di piombo, purtroppo trovato in frammenti, è venuto recentemente alla
luce in un piccolo santuario presso Santa Marinella (C. I. E. 6310): vi si
leggono tracce di almeno 80 parole, di cui solo una quarantina leggibili
integralmente; ed è inciso con lettere di proporzioni miniaturistiche. Una
laminetta lenticolare anch'essa di piombo rinvenuta a Magliano e conservata
nel Museo Archeologico di Firenze (C. I. E. 5237) è caratterizzata da una
iscrizione incisa, sui due lati, a spirale con movimento dal margine esterno
verso il centro: vi si contano almeno 70 parole (talvolta non è facile
distinguere se un gruppo di lettere contiene una o due parole). Un
carattere del tutto particolare, per la loro materia e la loro
importanza linguistica e storica, hanno infine le lamine d'oro scoperte nel
santuario di Pyrgi, già più volte citate, di cui due scritte in etrusco una
in fenicio (C.I.E. 6314-6316); l'etrusca più lunga, di 15 righe e 36 o 37
parole, corrisponde a quella fenicia (nel senso di una bilingue, come già
sappiamo); mentre la più breve è di 9 righe e 15 parole). Non mancano altri
documenti di un certo sviluppo su lamine metalliche, come le tabellae
defixionis (cioè consacrazioni a divinità infere di persone che si vogliono
maledire: specialmente quelle di Monte Pitti C.I.E. 5211 e di Volterra C.I.E.
52) e alcune di contenuto non precisabile. Fra i titoli propriamente
epigrafici eccelle il cippo di pietra, pro- babilmente confinario, del Museo
di Perugia (C.I.E. 4538), che pre- senta su due facciate una lunga e bella
iscrizione scolpita di 46 righe e 136 parole. Tra le iscrizioni funerarie
alcune sono estese come quella del sarcofago di Laris Pulenas del Museo di
Tarquinia (C. I. E. 5430), tracciata sul rotolo aperto esibito dal defunto
scolpito sul coperchio, con 9 righe e 59 parole; ma ne esistono anche altre
non meno lunghe e rilevanti, benche più rovinate, dipinte sulle pareti delle
tombe di Tarquinia. Esistono inoltre diverse epigrafi di sepolcri, sarcofagi,
cippi che presentano alcune righe di testo ed una certa varietà di parole; ma
la grandissima maggioranza consta di poche parole ed è redatta secondo
formule fisse; non mancano alcune brevi bilingui etrusco-latine. Le
iscrizioni dedicatorie su oggetti mobili si distinguono in un gruppo arcaico,
con proprie formule ed il nome del dedicante, e in un gruppo più tardo in cui
è più frequente il nome della divinità; ma, tolte le leggende piuttosto
estese di alcuni vasi arcaici, sono anch'esse generalmente brevi e
stereotipe. Dobbiamo ricordare infine le innumerevoli leggende esplicative
delle figurazioni tombali, dei vasi dipinti, degli specchi, ecc., le
iscrizioni su monete, proiettili di piombo e altri oggetti minimi, le marche
di fabbrica, in gran parte con nomi propri. Si aggiungano, per la loro
singolarità, i famosi dadi da giuoco di avorio detti provenire da Tuscania e
conservati nella Bibliothèque Nationale di Parigi, con parolette (certamente
numerali) su ciascuna delle sei facce.
Documentazione
indiretta
Fonti indirette per la conoscenza dell'etrusco sono: 1) le
glosse, ed altre informazioni offerte dagli scrittori classici e
postclassici; 2) gli elementi etruschi passati nel latino e gli elementi
comuni etrusco-italici; 3) gli elementi etruschi sopravvissuti nella
toponomastica; 4) i supposti frammenti di versioni latine da testi originari
etruschi. Le glosse sono parole etrusche delle quali è data la traduzione
latina o greca: citate occasionalmente in testi di autori classici o inserite
in veri e propri dizionari. Se ne contano una sessantina; ma il loro valore
come elementi traduttori esterni, ai fini dell'interpretazione dell'etrusco,
è piuttosto limitato: proprio come nel caso delle bilingui
etrusco-latine. Glosse di carattere vario ci provengono da Varrone (de lingua
latina), da Verrio Flacco (de verborum significatione), da Isidoro
(Etymologicum) e specialmente nel Lessico di Esichio. A speciali categorie di
vocaboli appartengono le glosse etrusche con nomi di piante medicinali e con
nomi di mesi (Papia, Liber Glossarum di Leida) che pare si ritrovino anche
nei testi etruschi: es. Aclus = giugno, cfr. nel testo di Zagabria.
Osservazioni di carattere fonetico e grammaticale sull'etrusco, di
scarsissimo valore, risalgono a Varrone, all' Ars de orthographia di M.
Cappella. Per alcune parole l'origine etrusca è esplicitamente testimoniata
dagli scrittori classici (mantisa. histrio. /ucumo. atrium. ecc.); per altre
è ipotetica e si può anche pensare ad una formazione analogica, cioè a parole
latine che imitino nella terminazione i derivati etruschi, come pure a
relitti del generale substrato preindoeuropeo d'Italia, piuttosto che ad
imprestiti dall'etrusco nella sua fase storica. Preferibilmente si riterranno
o sospetteranno etrusche quelle parole latine di etimologia oscura e
di terminazione etruscheggiante che si riferiscono al linguaggio tecnico
del culto, delle istituzioni civili e militari, della tecnica, ecc. :
teniamo presente il fortissimo influsso culturale esercitato dall'Etruria su
Roma primitiva in questi settori. Ne mancano esempi di vocaboli per i
quali l'etrusco è stato probabilmente intermediario tra il greco e il latino:
per es. groma (nome di uno strumento di orientazione e misurazione dei
campi). Non è da escludere neanche qualche limitato influsso dell'etrusco
sulla fonetica e sulla morfologia del latino. Il problema in tutto il
suo complesso meriterebbe un nuovo più attento esame, anche ai
fini dell'ermeneutica etrusca. Ancora meno chiara è la questione di
eventuali dirette sopravvivenzelessicali etrusche in volgari italiani;
mentre l'ipotesi di una derivazione etrusca dell'aspirazione toscana è
accettata da diversi linguisti. La difficoltà fondamentale consiste
soprattutto nel distinguere tra i diversi strati e le diverse aree di
diffusione dei toponimi preindoeuropei: ad esempio tra voci toponomastiche di
tipo «mediterraneo» o «paleoeuropeo» generale, diffuse anche nell'Italia
centrale (come i derivati dalle basi carra-, pala-, gav-, ecc.), e voci
toponomastiche che invece derivano dall'etrusco di età storica direttamente o
attraverso una forma latina come alcuni nomi di città (per es. Bolsena da
Volsinii, etr. Velsna-). Vanno infine menzionati gl'ipotetici esempi di
versioni in latino dall'etrusco. Già sappiamo che il corpo dei libri sacri
etruschi fu tradotto o compendiato in latino. Nelle congerie di riferimenti
indiretti, riassunti, rifacimenti di scritti etruschi, dei quali qualche eco
è giunta fino a noi, si notano alcuni brani che ci interessano non soltanto
per la conoscenza della letteratura e della civiltà etrusca, ma anche per le
forme di espressione che potrebbero riflettere una particolare struttura di
linguaggio: per esempio il frammento tratto dai Libri Vegoici e riportato dai
Gromatici con insegnamenti della Lasa Vegoia sulla divisione dei
campi.
II processo interpretativo
È evidente che
il nostro interesse si concentra soprattutto sulla documentazione diretta,
cioè sui testi etruschi, mentre le fonti indirette potranno se mai
considerarsi come dati accessori e ausiliari. Il problema che intendiamo
affrontare in modo specifico a questo punto è dunque essenzialmente quello
dell'interpretazione dei testi (o «ermeneutica» in senso proprio, volendo
usare il termine tradizionalmente diffuso negli studi etruscologici), cioè
della comprensione del significato dei documenti, indipendentemente
dall'obiettivo della conoscenza della struttura della lingua dei cui
risultati si darà conto nel capitolo successivo. Il punto di partenza è la
constatazione ormai pacificamente e incontrovertibilmente acquisita in sede
scientifica (contro ogni residua disinformazione in materia) che esiste da
tempo una generale e basilare capacità di leggere e capire, individuandone la
qualità e il senso o il contenuto certo o approssimativo, ogni testimonianza
scritta etrusca che costituisca l'illustrazione di monumenti figurati (nomi
di divinità e di eroi, di persone, ecc.), o ricordi i defunti menzionandone
la genealogia, l'età, la qualità o le azioni, o indichi l'appartenenza e la
destinazione di singoli oggetti con particolare riguardo alle dediche votive,
e così via; mentre per alcuni testi più lunghi di carattere rituale (è il
caso specialmente del manoscritto della mummia di Zagabria, della tegola
di Capua, della laminetta di piombo di Magliano si pensi al Cippo di
Perugina) possiamo accostarci alla comprensione complessiva del valore del
documento, talvolta alla sua articolazione in settori, paragrafi o frasi, e
perfino alla interpretazione di singoli brani. Il fondamentale ostacolo a
maggiori approfondimenti eprecisazioni è rappresentato dalla incertezza dei
valori semantici di una parte notevole del lessico etrusco, cioè del
significato di molte parole e radici, talvolta anche ricorrenti con frequenza
e perciò sicuramente riferibili a concetti importanti (per esempio la serie
di voci diffusissime ar, ara, aras, arce, art?, ecc. , di cui, nonostante
tante autorevoli e motivate ipotesi, non crediamo ancora possibile
considerare accertato il senso); ed in questi casi occorrerà onestamente
confessare la nostra ignoranza. Di molte parole si sa la rispondenza a
concetti generici senza possibilità di precise oggettivazioni: così nei testi
rituali ricorrono termini con funzione verbale dalle basi hec-, sac-, acas-,
ecc. , indicanti azioni di culto, più o meno nel senso di offrire, porgere,
sacrificare, consacrare, forse invocare; mentre termini come fase, cleva,
tartiria, acazr, debbono corrispondere a singoli tipi di cerimonie e di
offerte a cose concretamente offerte, sacrificate o donate, per altro non
distinguibili. Si sa d'altra parte che la nozione generale di offrire,
donare, dare (nell'ambito sacro, eventualmente votivo, ma anche
presumibilmente in quello profano) è espressa con assoluta certezza dai
«verbi» mul-. tur-. al-: il cui reciproco rapporto, di diversa sfumatura o di
diverso impiego preferenziale nel tempo o di pura sinonimia, resta tuttavia
incerto. Il fatto è che per «tradurre» esattamente non poche parole etrusche
occorre, od occorrerebbe, conoscere la realtà dei concetti che ad essi si
sottendono sul piano religioso, istituzionale, sociale, tecnico: problema,
dunque, non tanto linguistico quanto piuttosto storico-culturale. Ma i
nostri sforzi per intaccare questo grosso nucleo di oscurità del lessico
etrusco, per precisare il significato di parole e di frasi
vagamente intelligibili, e conseguentemente per interpretare sempre più
puntualmente e sempre in maggior numero i testi, sono in continuo, seppur
lento e limitato, progresso, soprattutto a seguito dell'ininter- rotto
acquisto di nuovo materiale di studio, divenuto particolarmen- te sostanzioso
nel corso degli ultimi anni, come già si è rilevato nel capitolo precedente.
Si può citare come esempio tra i più istruttivi il caso della scoperta della
già menzionata iscrizione ceretana «dei Claudii», che con l'espressione
apa-c ati-c, manifestamente significante «e il padre e la madre» ( =
latino paterque materque), conoscendosi già con certezza il valore ati =
«madre» e l'uso della copulativa enclitica -c, ha consentito di
accertare definitivamente il senso della parola apa = «padre», in precedenza
vagamente sospettato e per così dire avvicinato e circuito, ma rimasto
nella nebulosità dell'ipotesiI6. Analoga considerazione, come ben s'intende,
vale per quanto si è detto a proposito della prova del valore ci = «tre»,
fornita dalla corrispondenza bilingue delle lamine di Pyrgi. I risultati
finora conseguiti si estendono naturalmente dal signi- ficato delle parole
alle loro funzioni e correlazioni, che danno senso ai contesti. A
questo proposito esistono alcune certezze elementari, come il rapporto
di appartenenza o discendenza indicato da un suffisso di «genitivo»
nelle usuali formule onomastiche: Larces clan «di Larce figlio». Diremo
che esistono due soli principi di evidenza in assoluto: 1) riconoscere
comechessia il significato e la funzione di singole parole; 2) constatare la
natura del documento e, conseguentemente, desumerne il contenuto complessivo.
Si tratta di approcci fondamentalmente diversi e, nei loro sviluppi,
addirittura opposti. Il primo è basato su dati analitici, dai quali,
attraverso un'indagine linguistica strutturale e combinatoria, si tende alla
ricomposizione e ricostruzione del senso generale del testo (o del contesto).
Il secondo, al contrario, considera i testi sinteticamente per quanto essi
possano voler dire, partendo dalle loro caratteristiche archeologiche e
affinità culturali, per poi discendere ai particolari della valutazione
linguistica dei singoli elementi che li compongono. Le prime parole
riconosciute e riconoscibili dell'etrusco sono i nomi propri. Essi
costituiscono di fatto l'enorme maggioranza delle parole presenti nelle
iscrizioni etrusche ed hanno rappresentato il fondamento iniziale di ogni
loro tentativo d'interpretazione. Per quanto riguarda l'onomastica personale
appariva ed appare immediata l'identità formale con elementi onomastici
latini, prenomi (Marce: lat. Marcus) e nomi gentilizi (Vipi: lat. Vibius); si
è constatata altresì un'analoga costruzione con formula bimembre (prenome e
gentilizio) o trimembre (prenome, gentilizio, cognomen) e presenza del
patronimico. Con altrettanta facilità si riconoscono nomi divini comuni al
latino e all'etrusco (Menerva: lat. Minerva. Selvans: lat. Silva- nus) e nomi
greci di divinità e personaggi mitologici (Alexsantre, Elina, Elinai).
Aggiungiamo i toponimi ravvisabili dalla loro forma latina (Pupluna: lat.
Populonia) e loro derivati con valore di etnici (rumax «romano» da Ruma-
«Roma»). Diverso è il caso per quel che riguarda tutto il resto del
patrimonio lessicale etrusco, estraneo all'onomastica, cioè le parole comuni
o appellativi. È qui che s'incontrano le difficoltà di fondo. Non
possiamo contare su strumenti diretti di traduzione se non per le scarse e
malsicure nozioni fornite dalle glosse. Si vorrebbe perciò ricorrere al
confronto con radici e formazioni di parole di altre lingue, supponendo una
loro origine comune, nel senso del vecchio metodo etimologico. Passiamo
ora all'esame dell'altra possibilità di cogliere l'espressione di un testo, o
di parte di esso, nella sua globalità partendo da indizi esterni. Il tipo del
monumento o dell'oggetto inscritto è stato sempre, fin dall'inizio, una guida
sicura per delimitarne il senso: tanto ovvia e istintiva da restare per lungo
tempo sottintesa (se ne è avuta coscienza critica soltanto con la
teorizzazione del metodo bilinguistico). È evidente che l'epigrafe di un
sarcofago o di un loculo tombale non può che riferirsi ad un defunto,
formulandosi presumibilmente nello stesso schema dei testi funerari latini:
ciò che era stato avvertito già a partire dalle osservazioni degli eruditi
del Settecento, con tutte le conseguenze relative (onomastica personale,
rapporti e termini di parentela come clan = figlio, sex = figlia, e così
via). Altrettanto evidente è che sugli oggetti mobili (vasi, statuette di
bronzo, ecc.) debbono necessariamente comparire annotazioni di proprietà o di
destinazione o, soprattuto se il luogo di provenienza è un santuario, dediche
a divinità, implicanti la presenza del nome dell'offerente, dei termini
esprimenti l'azione dell'offerta, eventualmente del nome divino, come nelle
analoghe iscrizioni greche o latine. Ancora più evidente è che le parole
scritte accanto a figure di divinità o di eroi, per esempio in scene di
specchi o in pitture, sono didascalie che notificano il personaggio
(cosiddette «bilingui figurate»). Le parolette incise su ciascuna delle sei
facce dei dadi da giuoco «di Tuscania» rappresentano senza il minimo dubbio
le prime sei unità numerali. Ogni scarto da questi elementi di certezza non
può che condurre ad interpretazioni aberranti. L'evidenza «obiettiva»
desunta dall'accostamento di testi etruschi a testi di altra lingua in
ambienti culturalmente vicini e per casi di dimostrabile o presumibile af-
finità di contenuto può estendersi, sia pure con cautela, anche a documenti
per i quali sono meno significativi gl'indizi offerti dalla natura
archeologica dell'oggetto o del luogo, quale è soprattutto il libro su tela
di Zagabria, le cui formule rituali sono state studiate tentando di stabilire
paralleli con formule rituali umbre delle Tavole Iguvine, o latine degli Atti
dei Fratelli Arvali, del de agricultura di Catone, e altre. Richiami
culturali e storici valgono talvolta a legittimare confronti anche più
lontani, come quello fra il titolo di magistratura etrusca zilafh mexl rasnal
(ricorrente con lievi varianti formali in iscrizioni del IV-III secolo a.C.)
e il titolo onorifico latino di età romana imperiale praetor Etruriae o
praetor (Etruriae) quindecim populorum, di cui si è già parlato: esempio
significativo di una rispondenza generale che dà l'impressione di un vero e
proprio «calco linguistico», ma che è più difficile analizzare nel senso e
nel rapporto delle singole parole dei populi etruschi. Lo stesso «principio
dei testi paralleli» come fonte primaria d'interpretazione globale vale
ovviamente, per le vere e proprie bilingui. Le quali tuttavia, salvo il caso
speciale di Pyrgi, sono poche e brevissime. Si tratta di iscrizioni funerarie
redatte in etrusco e in latino, che presentano corrispondenze di nomi
personali e solo eccezionalmente dati utili per la conoscenza del lessico e
della grammatica. Assai più ampio e complesso è naturalmente il contributo
che hanno offerto e possono offrire le lamine d'oro di Pyrgi inscritte in
fenicio e in etrusco (A), per le quali potrebbe essere discutibile la
definizione come «bilingue» in senso tecnico, trattandosi di oggetti distinti
(comunque uguali e trovati insieme); ma che a parte alcune indiscutibili
divergenze tra i due testi, hanno in sostanza lo stesso contenuto: cosicche
la versione etrusca risulta più o meno efficacemente illuminata da quella
fenicia, con risultati di grande importanza ermeneutica già in parte rilevati
e di cui si tratterà ulterior- mente più avanti in uno specifico esame di
queste iscrizioni. Partendo dalle certezze di base sin qui descritte (valore
di singole parole con particolare riguardo all'onomastica e significato
d'insieme dei testi), il processo interpretativo si sviluppa ulteriormente, a
livello di ipotesi, attraverso più approfonditi tentativi di analisi
contestuale e strutturale, nei quali consiste l'essenza di ciò che, più o
meno vagamente, suole intendersi come metodo combinatorio: com- plesso di
operazioni che non ha, dunque, capacità di rivelazioni ermeneutiche primarie,
ma svolge una funzione secondaria di verifica, precisazione ed estensione dei
dati acquisiti. Si tratta di controllare la ricorrenza delle singole
parole, valutarne la posizione e i rapporti, studiarne le forme, prospettarne
le funzioni, distinguere frasi e partizioni dei testi, e così via. Molte
volte i risultati di queste indagini ricostruttive sono ovvii o
altamente probabili: quasi un semplice prolungamento delle nozioni di
partenza, con conseguente ampliarsi delle zone di traducibilità praticamente
sicura. Altre volte invece si tende a costruire ipotesi ingegnose, ma non
dimostrabili, spesso contrastanti tra loro, o a costruire ipotesi sopra
ipotesi, e a sostenerle puntigliosamente, sino a dare l'impressione di una
gigantesca macchina girante a vuoto: ciò che costituisce appunto il limite
degenerativo di tanta parte dei tentativi «combinatorii» degli ultimi
decenni, cui va reagito con un maggiore senso di misura e di
prudenza. Occorre infine riconoscere e sottolineare con chiarezza che non
soltanto tutte le conquiste sino ad oggi realizzate nel processo
d'interpretazione dei testi etruschi, ma anche l'intero patrimonio di
conoscenze sulle caratteristiche e sulla struttura della lingua etrusca di
cui si darà conto nel capitolo successivo derivano in ultima analisi da quei
dati di evidenza primaria sui quali si è ritenuto opportuno insistere nelle
pagine che precedono. Lo studio linguistico è nettamente conseguente
all'originaria certezza dei significati, e non
viceversa.
Alfabeto etrusco
Si riporta brevemente
l'alfabeto etrusco, visto nelle diverse fasi del periodo
etrusco:
Nella seguente tabella si confrontano gli alfabeti delle
principali lingue del mondo classico:
Inoltre, si confrontano
gli alfabeti delle principali lingue
italiche:
Etrusco
Osco
Umbro
Volsco
Piccolo
vocabolario etrusco In questo vocabolario, uso le due lettere sh per
rappresentare la lettera M Etrusca, scritto normalmente con s'. ais,
plurale aisar, dio. am, esser. an, egli, ella. apa, padre. ati,
mader. avil, anno. clan, figlio. eca, questo. fler, offerta,
sacrificio. hinthial, anima. in, esso. lauchum, re. lautun,
famiglia. mi, mini, Io, me. mul-, offrire, dedicare. neftsh,
nipote. puia, moglie. rasenna or rasna, Etrusco. ruva,
fratello. spur- or shpur-, città. sren or shran, figura. shuthi,
tomba. tin-, giorno. tular, confini. tur-, dare. zich-,
scrivere. zilach, un tipo di magistrato.
Numerali: 1. thu 2.
zal. 3. ci. 4. sha. 5. mach 6. huth. 7. semph. 8. cezp. 9.
nurph. 10. shar.
Trascrizione delle
iscrizioni
Le trascrizioni delle lettere etrusche qui adottate sono
conformi agli usi più comuni tra gli etruscologi. Ciò a comportato la
composizione di segni-immagini appositamente create , , , etc. che
potessero essere viste con qualsiasi sistema operativo. La soluzione non è
molto elegante sul piano tipografico, ma non crea confusioni di lettura
rispetto ai simboli tradizionali. Per la trascrizione delle spiranti si
sono impiegati i simboli tradizionali (quelli del Thesaurus Linguae Etruscae
e del Corpus Inscriptionum Etruscarum), sebbene vari autori si siano adeguati
al sistema del Prof. Helmut Rix, sistema che dà luogo a qualche arbitrarietà,
poiché presuppone una precedente ipotesi sulla provenienza dell'iscrizione. I
valori delle lettere dell'alfabeto etrusco sono noti da parecchio tempo anche
nelle varietà locali. L'unico problema riguarda il suono marcato dal san o
tsade nell'area meridionale che equivale al suono marcato dal sigma comune a
tre tratti al Nord e al sigma a quattro tratti usato a Caere. Il prof. H.
Rix ha riportato in auge una vecchia ipotesi di A. Pauli, secondo cui
l'etrusco ha una spirante postdentale [s] e una spirante palatale [ ]
(quella di it. sci, ingl. shape, franc. chou etc.). Questa tesi va
acriticamente prendendo piede presso altri etruscologi, sebbene non possa
basarsi su alcuna prova epigrafica e linguistica. Secondo un'altra ipotesi,
sostenuta da M. Durante (in Studi in onore di V. Pisani, I, Brescia 1969, pp.
295-306) e caldeggiata da M. Cristofani (Introduzione allo studio
dell'etrusco, Firenze 1991), i grafemi suddetti marcano /ss/: lo
dimostrerebbe il fatto che il suffisso patronimico e gamonimico -sa (al Nord)
o - a (al Sud) è trascritto in caratteri latini come -ssa.
L'ipotesi
che il san meridionale e il sigma settentrionale esprimano [ss] potrebbe
essere accettata senza grosse obiezioni quando tale grafema non è all'inizio
della parola; ma per i numerosi termini "meridionali" che iniziano col san e
"settentrionali" che iniziano col sigma occorrerebbe supporre una "tensione
dei muscoli orali" (per usare le parole del Cristofani) che contrasta con le
regole dell'economia fonetica. È probabile che nell'etrusco recente questo
potesse essere uno degli esiti del suffisso suddetto. Occorre però notare che
a volte il suffisso è scritto -za sia in caratteri latini che etruschi e che
anche altri dati epigrafici (ad es. la serie ut(u)s e / u uze / utu e /
utuse) mostrano come i grafemi in questione marcassero un'affricata
postdentale o un suono confondibile con essa. A nostro avviso il san
meridionale (Volsinii, Vulci, Tarquinia, Campania), il sigma al Nord
(Chiusi, Perugia, Cortona, Siena, Volterra, Vetulonia, Populonia, Emilia,
Adria) e il sigma a quattro tratti di Caere marcano appunto un suono
affricato postdentale, che spesso è l'esito di un incontro s+t o di un
originario gruppo st- . Come afferma ad es. André Martinet, in latino i
gruppi -ts- originari si risolsero in -ss-. Quindi anche nel tardo etrusco la
particolare affricata posdentale marcata dai simboli suddetti, forse più
prolungata di /z/, si sarebbe risolta ora in -ss- ora in -zz- (sorda)
quand'era in posizione intervocalica. In alcune iscrizioni
della zona di Cortona, e in particolare nella Tabula Cortonensis, è usata una
e rovesciata che qui viene riprodotta con lo stesso simbolo. Dall'esame
della Tabula Cortonensis si deduce che essa marca tre diversi suoni: 1)
una e con indebolimento verso i, come nei derivati di *pet- (p tkeal, p tr-),
in t csinal, s tmnal etc. 2) una tendenza all'atonìa a favore della liquida o
nasale successiva (p rkna, t rsna, c n, t n a) o una colorazione verso o (ad
esempio i casi in cui si ha lat. ol, rispetto a etr. el : nel gruppo vel- di
V l, V lara, V l inal, V l ur, V lusina, V l e e poi in F l ni, liunt , t l;
in C latina e anche in pru che pare avere la base di lat. oper-. 3) una e
lunga e chiusa in Sc va < Skaiva, Sc v < Scevai , An < Anei , sparz
te < *sparzaite che corrisponde all'uso del digrafo ei nell'umbro scritto
in caratteri latini.
In alcune iscrizioni dell'area senese e nel
Fegato di Piacenza è usata una particolare forma a U o V rovesciato ( ) per
marcare /m/. Ad esempio le iscrizioni
si leggono 1 = l . hepni .
hermes 2avial 2 = herme . hereni 2 lar al.
Nell'iscrizione 2 sono
notevoli le forme di m e di h ; in 1 sono notevoli le legature di lettere che
realizzano ep e me.
Iscrizioni indicanti
alfabeti
Si riportano brevemente esempi di alfabeti rinvenuti
su reperti archeologici
1. a b c d e v z h i k l m n s o p s q r
s t u 2. a b c d v e z h i k l m n o r s q s t u
1 Alfabeto modello
inciso su una tavoletta di avorio, da Marsiliana (agro di Vulci; VII sec. a.
C.). Si notino le spiranti , M, , X. 2 Alfabeto inciso sull'anforetta di
Formello (presso Veio; VII sec. a. C.) con le spiranti , M, , X.
3
Parte di alfabeto scritto su un bucchero del VI secolo a. C., trovato
a Ferentum. a c e v z i k l
4. Alfabeto inciso sul letto
funerario di una tomba di Magliano (Toscana), VI sec. a. C. a e v z h
i k l m n p r s t u f
5. Alfabeto inciso su un vaso perugino
della seconda meta' del VI secolo a. C. a e v z h i k l m n p r s t
u Dopo l'alfabeto sono scritte 4 lettere, in senso opposto: tafa
(altri leggono abat o afat).
6. Alfabeto su ciotola proveniente
dagli scavi presso Roncoferraro (Mantova). L'alfabetario, che risale al
IV sec. a. C., rispecchia fedelmente le norme ortografiche dell' Etruria
padana, da Spina a Bologna.
a e v z h i k l m n p r s t u
f
7. Alfabeto scritto su un fondo di vaso trovato a Poggio Moscini
(Bolsena) e datato al II secolo a. C. ] c e v z h i l m n p r s t u
[
Il Cippo di Perugia
E' un cippo rettangolare di
travertino, ritrovato nei dintorni di Perugia e conservato ora al Museo
archeologico della città. L'iscrizione corre per 24 righe sulla facciata e
continua su una delle supertìci per 22 righe, per un totale di 128
parole. La scrittura è quella in uso a Perugia tra III e II secolo a.C. Il
testo, a carattere giuridico, e la trascrizione su pietra di una
sentenza relativa a questioni di proprietà tra le famiglie perugine dei
Velthina e degli Aftuna. Il Fegato di Piacenza
L'argomento è stato
già affrontato nella sezione archeologica relativa a Piacenza. In questo
paragrafo affronteremo l'aspetto linguistico e la
sua interpretazione.
Il fegato etrusco di bronzo ha le seguenti
dimensioni: mm 126 x 76 x 60.
Per l'esame delle viscere esso veniva
capovolto di sotto in su perché la parte inferiore era ritenuta la più
importante, su questa si alzano tre protuberanze che sporgono: la più piccola
a forma semi mammellare (il processus papillaris), la seconda piramidale (il
processus pyramidalis), la terza è la cistifellea.
Su questa
superficie si trovano quaranta iscrizioni che si riferiscono a nomi di
divinità tra le quali sono identificate: Tin (Giove), Uni (Giunone), Neth
(Uns), (Nettuno), Vetisi (Veiove), Satres (Saturno), Ani (Giano),
Selva (Silvani), Mari (Marte), Futlus (Bacco), Cath (Sole), Herole (Ercole),
Mae (Maius) e altri cinque o sei che non hanno corrispondente nella
religione romana. Nella parte convessa si trovano due iscrizioni, una su di
un lobo (Usils = parte del sole), l'altra sull'altro (Tivs = parte della
luna). Il fegato di bronzo reca attorno al margine esattamente sedici
caselle contenenti ciascuna il nome di una divinità e queste sedici
caselle corrispondono alle altrettante parti in cui gli Etruschi dividevano
il cielo.
Fegato di fronte e trascrizione
Sul fegato
etrusco sono stati fatti molti studi, i più importanti furono quelli dei
ricercatori tedeschi Deecke (1880), Korte (1905), Thulin (1906) che misero in
risalto l'importanza di questo cimelio archeologico definendolo un documento
fondamentale per la conoscenza della religione e della lingua etrusca. Ma a
che cosa serviva questa riproduzione bronzea di un fegato di pecora con tante
iscrizioni in lingua etrusca? Il Korte lo confrontò con il coperchio di
un'urna cineraria ritrovata a Volterra che rappresentava un sacerdote (3°
secolo a.C.) che tiene in mano un fegato come quello ritrovato a Ciavernasco
di Settima, vicino al ponte della Ragione. Dunque il nostro bronzo è uno
strumento originale della "disciplina"; l'aruspice interpretava il volere
divino da segni particolari riscontrati nel fegato della vittima sacrificata,
cioè poteva prevedere se un'impresa si sarebbe compiuta sotto influssi
favorevoli o sfavorevoli, confrontando il viscere ancora caldo col modello
bronzeo inscritto, che fungeva da guida, da prontuario. Il Fegato Etrusco
risale al periodo tra il secondo e il primo secolo avanti Cristo (come
denunciano le caratteristiche delle scritture usate nelle iscrizioni) e non
all'epoca della dominazione etrusca nella Pianura Padana (V - IV - sec.
a.C.). Quindi il fegato non è da ritenersi un documento della dominazione
etrusca nella provincia di Piacenza, ma un oggetto prodotto successivamente
da nuclei etruschi presenti nelle colonie tra Pesaro e Rimini o nella stessa
Piacenza, oppure è da ritenersi un oggetto erratico perduto da un auspice che
seguiva una legione romana (Ducati). La sua relativa "tardità" nulla toglie
all'interesse che desta in noi, perché rappresenta una lunga tradizione
conservatasi intatta attraverso i secoli (Terzaghi). Più di quaranta saggi
sono stati pubblicati in tutto il mondo sul Fegato piacentino, ciò testimonia
la "fama" a livello mondiale del nostro reperto, unico esemplare nella sua
forma (esiste un altro Fegato di Alabastro al museo Guarnacci di Volterra);
modelli di fegato con le stesse caratteristiche suddivisioni, sono stati
ritrovati a Babilonia, nella valle del Tigri e dell'Eufrate e ad Hattusas la
capitale degli Ittici. Questi sono in terra cotta ma utilizzati con lo stesso
scopo religioso di quello di Piacenza.
Esiste anche un'interpretazione
geografica del fegato, di cui si riporta una breve descrizione: ·
le scritte sulla parte posteriore della mappa indicano le due regioni
principali della mappa, la parte meridionale LIVR (o TIVR, non e' chiara la
lattera iniziale) diventa YHDS (oppure T-HDS) che ricorda sia la parola GIUDA
che la HADESH (Kadesh) storicamente famosa e attualmente localizzata
erroneamente nella Siria mediorientale · la regione settentrionale
viene invece denominata YSILS che diventa P^HY^, leggibile come PNHYN (in
queste scritte le due lettere S etrusche appaiono unificate e quindi c'e'
equivalenza tra la N semitica e la sua quasi uguale ^, la lettera "muta"), la
regione del monte PAN-Cervino nonche' legata alla questione punica Tra le
scritte delle singole regioni appaiono evidenti le seguenti
interpretazioni: · la montagna a forma di conoide, il monte Cervino,
si presenta con la scritta TLUS che diventa TYP^ (TYPN), il nome della
divinita' TIFEO (TIFONE) · Tifeo-Tifone e' legato storicamente ai
vulcani dell'Italia meridionale, dall'area vesuviana al vulcano Etna e
difatti nella mappa compare la scritta TYP^ esattamente nel settore che
corrisponde alla Campania e nello spicchio esterno corrispondente alla
Sicilia · tra la regione Sicilia (TLUS che diventa TYP^) e la
regione Calabria c'e' un segno lungo che indica chiaramente lo stretto di
Messina · la regione Calabria, indica con il nome LEThA tale stretto
di Messina e la parola diventa YG-ZB · a prescindere dal
significato suo originale (per esempio Z-B, "questo e' il padre"), ZB e' lo
ZEB famoso nelle cronache assire, un fiume che nasce dal Monviso, scorre
nell'Adriatico, passa dallo stretto di Messina e arriva a sfociare
nell'oceano Atlantico · che la parola ZB sia legata a questo fiume
appena descritto lo ritroviamo nella parola accanto al Monviso, che anch'essa
la si legge come YG-ZB-K (LEThAM etrusco) · sappiamo per certo che
il fiume ZEB erano due, uno meridionale e uno settentrionale, e difatti
troviamo aldila' della catena alpina, dove nasce il fiume Danubio, la parola
CAThA che diventa tB-ZB, il "doppio Zeb", o meglio l'altro Zeb da
identificare come Danubio · nella parte centrale del fegato abbiamo
la catena alpina e sotto di essa abbiamo il fiume che nasce dalla
protuberanza a sinistra, il Po e il Monviso · la catena montuosa
alpina si abbassa nella parte occidentale · l'ultima lingua della
protuberanza rappresenta la striscia morenica all'imbocco della valle d'Aosta
(la piu' grande morena glaciale d'Europa, un panorama unico che lo si nota
fin da lontano) · si raggiunge cosi' la zona della grande piramide,
cosi' alta da essere visibile da tutta la pianura · finche' siamo
in pianura la piramide e' rappresentata dal Monterosa (un riferimento unico
per come si distingua nettamente dal resto della catena) · girando
dietro la morena ed entrando nella valle d'Aosta la vera montagna-piramide la
identifichiamo con il monte Cervino · la regione Toscana appare come
YD^Y, chiaramente legata a Giuda e la parola successiva contiene il DG che
contraddistingue la civilta' etrusca, il VEL che diventa appunto DGY, con DG
uguale a "pesce" ma anche ai successivi DOGI · la regione delle
Marche appare come "tHYGL", chiaramente legata ai TIGLAT assiri di cui
troviamo tracce nei reperti Piceni · la regione degli Abruzzi appare
come NGY-DB e sembra legata all'influenza della lingua ungherese (non e' un
caso che sia cosi' dato che il popolo Israelitico abitava a fianco di altre
popolazioni e gli stessi Edomiti balcanici presero il loro posto durante le
deportazioni), SELVA diventa NGY-DB, il "grande dio" ("nagy
deba") · la stessa scritta NGY-DB la ritroviamo difatti nella
zona balcanica a mostrare il collegamento di questa regione italica con
quelle balcaniche-danubiane · nelle regioni tedesche, nella parte
settentrionale della mappa, troviamo riferimenti ai "fasci", P-Sh (con la P
che semiticamente si tramuta facilmente in F, come Fenici e
Punici) · la parte piu' settentrionale, all'incirca la Danimarca,
viene scritta come TINSRNE che diventa THLNS-LG, i "luoghi di Atlans" e mi
sembra ovvio come questo abbia portato a considerare anticamente Atlante
colui che sostiene il mondo (e' questa la regione dove si e' piu' vicini al
cielo della stella polare) e anche Atlantide trova qui la sua
localizzazione Le Lamine di Pyrgi
Nel 1964, a Santa Severa, cittadina
che sorge sull'antica Pyrgi, il porto di Caere, vennero alla luce, durante
gli scavi diretti da Massimo Pallottino, tré lamine d'oro: su una era inciso
un testo in lingua punica, sulle altre due un testo etrusco. Le lamine erano
state accuratamente nascoste, all'epoca della distruzione del santuario, in
una vasca scavata fra il tempio A ed il tempio B. Se è vero che il testo in
lingua punica non presenta problemi insormontabili, nessuno ci dice che
l'etrusco ne costituisca la traduzione. Possiamo solo comparare i nomi propri
che figurano nei due testi. Ad esempio, nella lamina punica un personaggio
è definito "re delle genti di Caere": ora, sappiamo che in quell'epoca
la città non aveva re. (scrive il dott. Massimo Pittau, insigne
linguista) Il solo dato certo è che le due versioni parlano dello stesso
argomento, cioè di un trattato stipulato fra Caere e Cartagine; i contraenti
invocano a testimoni del patto le divinità tutelari di entrambe le nazioni.
Nei due testi si riconosce il nome del magistrato di Caere, Thefarie
Velianas, che avrebbe dedicato un santuario ad Uni. Sappiamo che le cerimonie
religiose celebrate a conclusione dell'accordo si svolsero secondo il rito
punico. Purtroppo nella lamina in punico non esiste la traduzione di un solo
termine etrusco per noi nuovo. Si riporta il testo redatto dal Prof . Massimo
Pittau, studioso di lingua etrusca. Circa 40 anni fa, e precisamente nel
1964, si è avuta una scoperta archeologica e linguistica che ha colpito in
maniera immediata e notevole il mondo degli studiosi specialisti della
civiltà antiche, e non soltanto questi: a Pirgi, cioè nel porto della città
etrusca di Cere (attuale Cerveteri), durante gli scavi condotti in un
santuario di cui si aveva già notizia per antiche testimonianze storiche, nei
resti di un piccolo locale interposto fra i due templi, sono state trovate
tre lamine d'oro. Su queste risultano incise delle scritte, due in lingua
etrusca ed una in lingua punica o fenicia, le quali sono state riportate alla
fine del sec. VI od ai primi anni del V
a.C.
Etrusco
Punico La notizia rimbalzò da un capo all'altro nel mondo dei dotti, anche
per l'immediata prospettiva che si intravide di avere finalmente
trovato iscrizioni etrusche abbastanza ampie con la traduzione in un'altra
lingua conosciuta e quindi con la speranza di vedere proiettate sulla
lingua etrusca, scarsamente conosciuta, nuove ed importanti cognizioni da
parte della lingua fenicio-punica, che invece è conosciuta in maniera
discreta. Senonché questa speranza cadde quasi immediatamente, quando si
intravide che l'iscrizione in lingua fenicio-punica e quella maggiore in
lingua etrusca si corrispondono tra di loro, sì, ma non costituiscono affatto
un esatta "traduzione" l'una dell'altra, cioè si intravide che si ha da fare
non con un «testo bilingue etrusco-punico», bensì con un «testo
quasi-bilingue etrusco-punico», nel quale cioè i due testi si corrispondono
solamente a grandi linee. D'altronde quella speranza cadde in larga
misura, anche per la circostanza negativa che pure il testo punico si rivelò
subito scarsamente aggredibile in fatto di interpretazione e di traduzione
effettiva e minuta. Dopo circa un quarantennio di studio ermeneutico molto
intenso delle lamine di Pirgi, condotto sia dagli specialisti della lingua
etrusca sia da quelli della lingua punica, le conclusioni alle quali si è
alla fine pervenuti sono che da un lato alla conoscenza dell'etrusco sono
venute dal testo punico alcune conferme significative, ma purtroppo anche
molto ridotte in quantità e in qualità, dall'altro la traduzione dei due
testi, condotta in maniera comparativa, implica purtroppo numerosi e grandi
punti oscuri sia per l'uno che per l'altro. E la presa di posizione ultima
che gli specialisti delle due lingue hanno assunto, in maniera esplicita od
anche implicita, è che convenga mandare avanti l'analisi e la interpretazione
e traduzione di ciascuno dei due testi in maniera sostanzialmente
indipendente l'uno dall'altro, nella quasi certezza che si ha da fare con due
versioni alquanto differenti di un identico messaggio relativo ad un certo
evento storico: la consacrazione, da parte di Thefario Velianio, lucumone o
principe-tiranno di Cere, di un piccolo edificio religioso in onore della dea
Giunone-Astarte. Per parte mia premetto che il mio presente intervento sui
testi etruschi delle lamine di Pirgi trova la sua motivazione in due
importanti circostanze: in questi ultimi quasi quarant'anni che ci separano
dalla scoperta delle lamine, la conoscenza dell'etrusco ha effettuato
numerosi ed importanti passi in avanti, conseguenti sia al ritrovamento di
altro materiale documentario e quindi ad una più ampia e più esatta
documentazione della lingua etrusca, sia al conseguente ulteriore
approfondimento scientifico che ne hanno effettuato gli specialisti,
soprattutto quelli di estrazione propriamente linguistica. Procedo adesso a
presentare il testo delle tre lamine prima nella loro effettiva
documentazione epigrafica e dopo nel loro ordinamento propriamente
linguistico, infine la mia traduzione ed il mio commento storico-linguistico
di ciascuna.
1ª lamina con iscrizione in lingua
etrusca
cioè
Traduzione: «Questo thesaurus e queste
statuette sono divenuti di Giunone-Astarte. Avendo la protettrice della Città
concesso a Thefario Velianio due [figli] da Cluvenia, (egli) ha donato a
ciascun tempio ed al tesoriere offerte in terreni per i tre anni completi di
questo Reggente, offerte in sale (?) per la presidenza del tempio di questa
(Giunone) Dispensatrice di discendenti; ed a queste statue (siano) anni
quanti (sono) gli astri!». tmia «thesaurus, tesoro di santuario», da
confrontare col greco tameîon «tesoro o tesoreria» (vedi sotto tameresca); si
trattava di una di quelle edicole che una città o il suo regnante costruiva
accanto ai grandi santuari per esporvi i doni offerti alle rispettive
divinità, anche con finalità propagandistiche di immagine esterna nei
confronti dei numerosissimi frequentatori dei santuari. ita tmia icac
heramasva «questo thesaurus e queste statuette». Il pronome dimostrativo ita
«questo» corrisponde perfettamente ad ica «questo», per cui è da escludersi
che in questo passo dietro le due varianti esista una qualche distinzione.
L'uso così ravvicinato che lo scrivano ha fatto delle due varianti può essere
stato determinato, al livello di meccanismo inconscio, dalla attrazione
delle consonanti vicine: ita t- e ica-c. heramasva «statuette», in cui
-s(a)- è una variante del noto suffisso diminutivo -za, mentre -va è la
ugualmente nota desinenza del plurale (vedi avanti heramve). Probabilmente le
statuette erano due, una per ciascuno dei figli di Thefario Velianio, e
ancora probabilmente raffiguravano i due bambini oppure due animali che
simbolizzavano altrettante vittime da immolare alla divinità. vatiekhe
«sono venuti, sono divenuti», forse da confrontare col lat. vadere; è al
preterito debole attivo, in 3ª persona plurale. unialastres, da distinguere
in unial-astres «di Giunone-Astarte», è da confrontare con fuflunsul pakhies
«di Funfluns-Bacco» dell'iscr. TLE-TET 336, prove evidenti, l'una e l'altra,
di interpretazione od assimilazione sincretistica di dèi stranieri in origine
differenti. Una spiegazione unitaria del vocabolo in senso totalmente etrusco
è da respingersi perché inspiegabile dal punto di vista morfologico;
d'altronde anche l'iscrizione punica nella prima riga richiama esplicitamente
Astarte: L'STRT. vatiekhe unialastres «sono divenuti di Giunone-Astarte»,
cioè, dopo la dedicazione e la consacrazione ormai «appartengono a
Giunone-Astarte». themiasa probabilmente significa «che ha concesso, avendo
concesso», participio passato attivo (LEGL 124), da connettere con thamuce
«concesse» della 3ª lamina. mekh il contesto ci spinge a reintegrare una l
morfema del genitivo, cioè mekhl «della città, della città-stato, dello
Stato, del Popolo», in questo caso "della città-stato di Cere"; vedi mekhl
dell'iscr. CIE 5360 di Tarquinia e della Tabula Cortonensis (capo
I). thuta «tutore, protettore-trice, patrono-a»; cfr. ati thuta
«madre protettrice» dell'iscr. TLE-TET 159; è da confrontare col lat.
tutor, tutrix, che è privo di etimologia (DELL s.v. tueor) e che pertanto
potrebbe derivare proprio dall'etrusco. thefariei è un prenome maschile,
che corrisponde a quello lat. Tiberius; è in dativo asigmatico (LEGL 80, 2°).
In velianas non compare la desinenza del dativo a norma della "flessione di
gruppo"; invece la -s è quella dell'originario genitivo patronimico ormai
fossilizzata (LEGL 78). sal «due». Non si può affatto escludere che questo
sia l'esatto significato di sal con la considerazione che la compresenza di
zal e sal nel Liber linteus della Mummia vieterebbe che i due vocaboli
avessero il medesimo significato, come ha scritto M. Pallottino, Saggi, 648;
infatti l'alternanza zal/sal «due» si riscontra anche nella Tabula
Cortonensis (capo I). cluvenias gentilizio femm. (in genitivo), che trova
riscontro in quello lat. Cluvenius (RNG). munistas «del monumento o
edificio o tempio», letteralmente «di questo monumento ecc.», da distinguere
in munis-tas (in epoca recente sarebbe stato munists), in genitivo di
donazione (LEGL 104, 136). thuva(-s) probabilmente aggettivo riferito a
munistas e pur'esso in genitivo; siccome sembra derivato da thu «uno»,
probabilmente significa «singolo», «ciascuno», con riferimento a ciascuno dei
due templi che costituivano il complesso sacrale di Pirgi. tameresca
(tameres-ca) «e del tesoriere» del tempio, anch'esso in genitivo di
donazione; vedi tamera «dispensiere, tesoriere, questore» delle iscr. TLE-TET
170, 172, 195, da confrontare col greco tamías «dispensiere». Per
la congiunzione enclitica -ca vedi hamphisca, laivisca del Liber linteus
e fariceka dell'iscr. TLE-TET 78. ilacve «offerte» (plur.) (LEGL
69). tulerase «in terreni» e sarebbe il dativo sigmatico plur. di tul
«confine, terreno, territorio», plur. tular = lat. fines «confine,-i» e
«terreno,-i, territorio» (LEGL 80, 1°). nac «per, in», preposizione che
nella frase ci avil khurvar «per i tre anni completi», avente un implicito
valore "temporale", mostra di reggere l'accusativo, mentre nella frase
seguente nac atranes zilacal «per la presidenza del tempio», avente un
implicito valore "finale", mostra di reggere il genitivo. khurvar siccome
richiama il lat. curvus, è probabile che significhi «circolari», ma qui col
significato di «completi» (aggettivo plur.) (LELN 122). tesiameitale, da
confrontare con tesinth «curatore, comandante, capo» dell'iscr. TLE-TET 227
(LEGL 124); lo traduco «di questo Reggente» per il fatto che non si riesce a
capire quale fosse l'esatta posizione giuridico-istituzionale di Thefario
Velianio rispetto alla città-stato di Cere, anche se si ha l'impressione che
fosse un "Principe-Tiranno", come quelli che di volta in volta si
impadronivano del potere in numerose poleis greche. Inoltre è ragionevolmente
ipotizzabile che egli fosse stato aiutato dalla potente Cartagine nella sua
conquista del potere a Cere; ed in questo modo e per questa ragione si
comprenderebbero bene sia la assimilazione effettuata nella lamina tra la
etrusca Giunone e la fenicia Astarte, sia la versione in lingua punica
dell'iscrizione etrusca di questa 1ª lamina. In proposito è appena da
ricordare la notizia data da Erodoto (I 166, 167; VI 17) della lega
politico-militare che si era stabilita fra Cere e Cartagine, la quale aveva
attaccato i Focesi della colonia greca di Alalia, in Corsica, nella battaglia
navale del Mare Sardo (circa 535 a.C.) e, pur con un esito militare incerto,
li aveva costretti a sloggiare dalla Corsica. Il vocabolo è da distinguere in
tesiame-itale, con -itale genitivo del pronome dimostrativo ita «questo-a» in
posizione enclitica; in epoca più recente sarebbe stato -itle e cioè
*tesiameitle (cfr. il seguente seleitala). alsase «in sale» (?), in dativo
sigmatico come tulerase, ma al sing.; in questa supposizione sarebbe da
richiamare il greco áls ed il lat. sal, inoltre il nome della città etrusca
di Alsium sulla costa tirrenica presso Cere andrebbe spiegato con riferimento
alla estrazione del sale. È appena da ricordare il grande valore che aveva il
sale in epoca antica, anche per la conservazione delle carni e dei pesci. In
subordine prospetto che ilacve alsase significhi «offerte (in terreni) ad
Alsium». atrane(-s) sembra un aggettivo derivato dall'etr.-lat. atrium
«atrio» ed anche «tempio», per cui significherebbe «templare, del tempio»
(in genitivo). zilacal (zilac-al) «della prefettura o presidenza» templare
o del tempio. seleitala «di questa Dispensatrice», da confrontare con selace
«ha elargito» della 3ª lamina; è da distinguere in sele-itala, con -itala
ancora genitivo del pronome dimostrativo ita in posizione enclitica e forse
al femm. (cfr. venala dell'iscr. TLE-TET 34); in età più recente sarebbe
stato *seleitla (cfr. tesiameitale) (LEGL 107). acnasvers probabilmente
«d(e)i discendenti o successori» (genit. plur.), da confrontare con acnanas
«che lascia, lasciando», acnanasa «che ha lasciato, avendo lasciato» (LEGL
123, 124). itanim (itani-m) probabilmente «ed a questi-e», dativo plur. di
ita «questo-a», da confrontare con etan «questo-a» (accusativo; TLE-TET 620,
Cr 3.24). Però potrebbe corrispondere al più recente etnam «poi, inoltre,
in verità» = lat. etenim «(e) infatti, in realtà, in verità», per cui la
frase andrebbe tradotta: «In verità le statue (abbiano tanti) anni quanti
(sono) gli astri!». In ciascuna delle due soluzioni si deve pensare ad una
frase ottativa, che per ciò stesso spiegherebbe l'ellissi del verbo. È del
tutto errato affermare - come ha fatto un archeologo - che non
esistono proposizioni ottative che sottintendano il verbo: ne esistono in
tutte le lingue, ad es. la locuzione italiana Alla salute! sottintende questo
sia o torni alla tua (vostra o nostra) salute!; la frase augurale Auguri
agli sposi e figli maschi! sottintende ed abbiano figli maschi! heramve
«statue» (plur.), quelle offerte a Giunone-Astarte da Th. Velianio per i suoi
due figli, probabilmente due, cioè una per ciascuno; è da confrontare col
greco hérma «erma, base, sostegno, puntello, cippo (anche funerario), cippo
con figura di Ermes», dio Hérmes «Ermes», fiume Hérmos della Lidia (finora
privi di etimologia, ma probabilmente anatolici e lidî; GEW, DELG) ed inoltre
con la glossa etr. Ermius «agosto» (ThLE 416). eniaca
«quanti-e». pulumkhva «astri, stelle» (plur., LEGL 69), significato
assicurato da un corrispondente vocabolo della iscrizione punica.
2ª
lamina con iscrizione in lingua fenicio-punica
«Alla signora Astarte
questo sacello ha fatto e donato Tiberio Velianio re di Cere, nel mese di
Zebah, come dono nel tempio e nella cella, perché Astarte ha favorito il suo
fedele, nel terzo anno del suo regno, nel mese di KRR, nel giorno della
sepoltura della divinità. E gli anni della statua della divinità siano tanti
quanti (sono) gli astri». Questa traduzione della 2ª lamina è
stata da me derivata da quelle correnti prospettate da specialisti della
lingua fenicio-punica, ma adattata alla mia personale traduzione della 1ª
iscrizione in lingua etrusca. Su questa mia traduzione però non intenderei
insistere, per il motivo che sono consapevole di non avere una sufficiente
competenza su questa lingua, tale da osare di confrontarmi coi colleghi
semitisti. L'unica cosa che mi sento di dire è che quasi certamente lo scriba
che ha stilato l'iscrizione fenicio-punica era un cartaginese, il quale non
comprese bene l'iscrizione stilata dal suo collega etrusco; e soprattutto da
questo fatto saranno derivate le discrepanze tra le due iscrizioni.
3ª lamina con iscrizione in lingua etrusca
cioè:
«Così
Thefario Velianio ha concesso l'offerta del corrente mese di dicembre (ed) ha
fatto elargizioni a Giunone. La cerimonia degli anni del thesaurus è stata la
undicesima (rispetto a)gli astri». Oppure «Così Thefario Velianio ha
concesso l'offerta del corrente mese di dicembre a Giunone (ed) ha
fatto elargizioni (al tempio). La cerimonia degli anni del thesaurus è stata
la undicesima (rispetto a)gli astri». Sia il cambio di grafia
fra le due lamine scritte in etrusco sia la differenza tra la forma del
gentilizio Velianas della prima e Veliiunas di questa ci assicurano che
ciascuna delle due lamine è stata scritta da un differente scrivano.
Probabilmente il nome del committente in realtà suonava Vélinas, cioè con
l'accento sulla prima sillaba e con la vocale posttonica
indistinta. thamuce «concesse, ha concesso»; nell'iscr. CIE 5357 compare come
thamce, cioè sincopato (vedi themiasa della 1ª lamina). etan(-al)
interpreto «(del) presente o corrente», intendendolo come derivato dal
pronome dimostrativo eta «questo». masan probabilmente «dicembre» oppure, in
subordine, «novembre», e corrisponde alla forma sincopata masn del Liber
linteus. tiur «mese». masan tiur sono privi della desinenza del genitivo ai
sensi della "flessione di gruppo" (LEGL 83-84). unia(-s) «(di) Giunone» in
genitivo di donazione o dedicazione (LEGL 136). vacal «rito sacro,
cerimonia»; nel Liber linteus figura sincopato in vacl. tmial «del thesaurus»
(genit.); vedi 1ª lamina. avilkhval (avil-khva-l) «degli anni», in genitivo
plur. (LEGL 74). amuce «fu, è stato». pulumkhva «per, rispetto agli
astri», i quali segnavano il passare del tempo; è un complemento di tempo con
morfema zero. snuiaph «undici»; già Marcello Durante aveva intravisto che si
tratta di un numerale. Secondo G. Giannecchini («La Parola del Passato»,
1997), indicherebbe il numero «dodici»; io lo escluderei, visto che in
etrusco «dodici» molto probabilmente si diceva sranczl (LEGL 96). Comunque
questo divario di un numero non implicherebbe alcuna differenza effettiva,
per effetto del modo in cui la gente spesso effettua la numerazione,
cioè saltando sia il terminus a quo sia il terminus ad quem. Dunque
la commemorazione della prima fondazione e dedicazione del thesaurus
venne fatta undici/dodici anni dopo, secondo un numero che nei tempi antichi
aveva anche una valenza sacrale in virtù delle dodici lunazioni della luna. E
per questo motivo si spiega la diversità dello scrivano della 1ª lamina
rispetto a quello della 3ª. Molto notevole è il fatto che in questa 3ª
lamina non si faccia alcun riferimento alla fenicia Astarte e che a questa
iscrizione etrusca non ne corrisponda una analoga punica: nella verosimile
supposizione che ho fatto a proposito della 1ª lamina, evidentemente Thefario
Velianio negli undici/dodici anni trascorsi aveva ormai rafforzato il suo
potere su Cere, per cui non aveva più bisogno dell'aiuto di Cartagine e tanto
meno di ringraziarla pubblicamente. La Mummia di Zagabria
Il
manoscritto della "Mummia di Zagabria" è un "liber linteus" eseguito
a inchiostro con un pennello su di un drappo di lino. E' suddiviso in
dodici riquadri rettangolari ognuno con 34 righe della scrittura. Il drappo
veniva ripiegato "a fisarmonica" seguendo le linee verticali dei riquadri
che funzionavano dunque come le pagine di un libro. Attualmente si
conserva al Museo Archeologico di Zagabria ma è stato ritrovato in Egitto,
dove era stato "riciclato" tagliandolo orizzontalmente in lunghe strisce, che
furono utilizzate come bende per una mummia.
Solo alcune delle strisce
sono conservate, per cui il manoscritto ha grosse lacune. Il testo è in
assoluto il più lungo tra quelli etruschi, esso consta infatti di 230 righe e
di circa 1350 parole. Il testo ha una storia molto curiosa: verso la metà
dell'Ottocento un collezionista croato (Mihail de Brariæ, scrittore della
Regia cancelleria ungherese) aveva riportato in patria dall'Egitto, secondo
l'uso dell'epoca, alcuni oggetti antichi, fra i quali una mummia. Qualche
tempo dopo ci si accorse che le bende del reperto erano coperte da un testo
scritto con l'inchiostro nero. Solo nel 1892 questo testo, di oltre 1200
parole, venne studiato dall'egittologo Brugsch e identificato come etrusco.
Dal 1947 mummia e bende vennero trasferite al Museo di Zagabria. L'ultimo
restauro è stato curato da un'équipe italiana nel 1997. Si tratta di un
calendario rituale che specifica le cerimonie da compiere nei giorni
prestabiliti in onore di varie divinità. Le prescrizioni di carattere
religioso sono tipiche dell'area tra Perugia, Cortona e Lago Trasimeno. La
scrittura, molto precisa e accurata, è quella in uso nell'Etruria
settentrionale tra il III e il lI secolo a. C. Un esempio dalla III colonna,
riga 3: " celi huthis zathrumis flerxva Nethunsl sucri" "Settembre sei venti
offerte a Nettuno si dedichino " ossia " il 26 settembre si dedichino venti
offerte a Nettuno" Si pensa che questo libro di lino, conosciuto come liber
linteus di Zagabria, appartenesse a un aruspice, e che sia stato poi ridotto
in strisce per fasciare la mummia. La Tabula Cortonensis
Una delle più
lunghe iscrizioni in lingua etrusca, la "Tabula cortonensis" (la tavola di
Cortona) del III-II secolo a. C., la cui clamorosa scoperta è stata
annunciata all'inizio della scorsa estate a Firenze, ha cominciato a svelare
i primi "segreti". Nel testo non si parla di defunti o riti funerari, come
succede in genere con i reperti degli Etruschi riemersi dal sottosuolo, ma di
un concreto e articolato passaggio di proprietà fra etruschi ben in vita e
preoccupati di tutelare le proprie ricchezze. Solo quattro mesi fa Francesco
Nicosia, ispettore centrale del ministero dei Beni culturali, ha reso nota
l'esistenza di una tavola bronzea, misteriosamente ricomparsa nel 1992, con
una fitta iscrizione di 32 righe, spezzata in sette frammenti, la cui
decifrazione sta fornendo importantissimi elementi per la conoscenza della
ancora in gran parte misteriosa lingua degli Etruschi. Ora un articolo della
rivista "Archeologia viva" rende noti i significativi passi in avanti nella
decrittazione delle parole della "Tabula Cortonensis", grazie agli studi del
professor Luciano Agostiniani, docente di glottologia all'università di
Perugia. L'ipotesi al momento più fondata è che la "Tavola di Cortona"
racconti di una transizione tra la famiglia Cusu, di cui farebbe parte il
personaggio Petru Scevas, da una parte, e un gruppo di quindici persone,
dall'altra. È stato decodificata anche una serie di numeri: il 10 (sar), il 4
(sa) e 2 (zal), che potrebbero indicare quantità di cose o estensioni di
terreno. È possibile, secondo Agostiniani, che si tratti dell'atto di vendita
di un terreno da parte dei latifondisti Petru Scevas e Cusu a piccoli
proprietari compratori.
Molti sono gli elementi eclatanti in questa
straordinaria iscrizione. Anzitutto la formula di datazione con il nome degli
eponimi, attestata qui per la prima volta per l'Etruria settentrionale. Il
primo dei personaggi che compare nell'ultimo elenco è accompagnato
dall'epiteto della carica rivestita, assai importante e attestata sempre per
la prima volta nell'Etruria settentrionale: si tratta dello "Zilath Mel
Rasnal", il magistrato supremo dello Stato, che intervenne nella stesura
dell'atto di compravendita. Il professor Agostiniani ha ipotizzato, inoltre,
in base a numerosi riscontri, l'esistenza sulla "Tavola di Cortona" di tre
elenchi di nomi: il primo rappresenta i venditori, il secondo i compratori e
il terzo i garanti della regolarità del contratto. I garanti del contratto
erano il magistrato supremo e i figli e i nipoti delle due parti. Ciò
significa che nel diritto orale etrusco, chi garantiva la regolarità del
contratto e i pagamenti non lo faceva solo per sé, ma anche per i suoi
discendenti. Insomma, in caso di disgrazia o di insolvenza, il figlio o il
nipote doveva garantire l'esecuzione del contratto. La Tegola
Capuana
Il testo della famosa "Tegola di Capua" (conservata al Museo di
Berlino) rappresenta la più estesa di tutte le epigrafi etrusche mai
ritrovate, se si eccettuano le bende della "mummia di Zagabria", che
costituiscono un vero e proprio libro. Si tratta di una lastra di terracotta
(di centimetri 60 x 50), scoperta nel 1898 nella necropoli di Santa Maria
Capua Vetere e recante una lunga iscrizione graffita, di cui restano
leggibili circa treo cento parole. Suddiviso in dieci sezioni da una linea
orizzontale, risulta attualmente costituito da 62 righe, alcune in parte
perdute, e da circa 390 parole, non tutte conservate per intero. È suddiviso
in dieci sezioni da una linea orizzontale. La scrittura è quella in uso in
Campania intorno alla metà del V secolo a.C. Si tratta, come nel caso della
Mummia di Zagabria, di un "calendario rituale" dove vengono prescritte
cerimonie da compiere in certe date e in certi luoghi a favore di alcune
divinità. Nel 1985 ne è stata presentata una bella edizione nel testo di
Francesco Roncalli, Scrivere etrusco, che contiene anche il "libro di
Zagabria" e il "cippo di Perugia". Sui problemi dell'interpretazione del
contenuto il riferimento più recente e importante è il libro Tabula Capuana
(1995), uno degli ultimi lavori lasciati dall'archeologo Mauro Cristofani. La
redazione del documento si può datare al 470 a.C., sebbene esso si debba
ritenere la copia (o comunque la trascrizione) di un testo certamente molto
più antico. In effetti sulla tegola è graffito un calendario festivo
risalente all'età arcaica: un calendario di prescrizioni cultuali relativo a
celebrazioni pubbliche e diretto, secondo il Cristofani, alla stessa comunità
capuana. Il calendario è diviso in dieci sezioni, corrispondenti ai dieci
mesi del calendario antichissimo e comincia da marzo (in etrusco,
probabilmente, Velxitna). Anche il calendario romano (da cui deriva il
moderno) ebbe, in origine, dieci mesi e certamente cominciava da marzo; ciò è
provato al di là di ogni dubbio dai nomi di settembre, ottobre, novembre e
dicembre, che oggi si trovano al nono, decimo, undicesimo e dodicesimo
posto. Le fonti antiche dicono che gennaio e febbraio furono aggiunti dal re
Numa; nel De die natali di Censorino (20, 30) si legge: «I quali ritenevano
che i mesi siano stati dieci, come un tempo succedeva presso gli Albani, da
cui ebbero origine i Romani. Quei dieci mesi (degli Albani) avevano in tutto
304 giorni, così distribuiti: marzo 31, aprile 30, maggio 31, giugno
30, quintìle 31, sestìle e settembre 30, ottobre 31, novembre e dicembre
30». Ecco dunque alcuni estratti del calendario festivo di Capua. I
nomi dei mesi etruschi sono noti sostanzialmente attraverso alcune glosse, la
"tegola di Capua" e il "libro di Zagabria" (l'asterisco indica le forme
ricostruite, in quanto conosciute soltanto da glosse e non ancora attestate
nei documenti etruschi originali): marzo = *velxitna; aprile = apiras( a);
maggio = anpili(a) o ampner; giugno = acalva o acal(a); luglio = *turane o
par-{}um; agosto = *hermi; settembre = celi; ottobre = *xesfer.
La Stele
di Lemno Come già detto, alcuni autori antichi condivisero l'idea di
un'origine orientale degli Etruschi. Ellanico, un altro storico, vissuto nel
V secolo a.C., in un brano delle sue storie, sostiene che Ceare (attuale
Cerveteri) in origine si chiamava Agylla e fu fondata dai Pelasgi,
provenienti dalla Tessalia; quando poi i Lidi, al seguito di Tirreno,
assalirono Agylla, uno degli assedianti si avvicinò alle mura e domandò il
nome della città; dalle mura, uno dei Tessali, invece di rispondere, lo
salutò con la parola "chaere". Così i Tirreni, appena presa la città, le
cambiarono nome in Caere. In seguito, gli studiosi sostenitori dell'origine
orientale, affermarono che per la trasformazione dei villaggi villanoviani in
città fortificate, avvenuta all'epoca dell'inizio della civiltà etrusca,
sono state necessarie tecniche e abilità amministrative ben maggiori di
quelle dimostrate dai villanoviani stessi; ne consegue che tali competenze
furono necessariamente arrivate dall'esterno. Altri riscontri archeologici a
favore di questa ipotesi sono le somiglianze trovate tra alcune tombe
etrusche e alcune tombe dell'Asia minore, nonché alcuni aspetti della civiltà
etrusca che sembrano più orientali che italici: il piacere del lusso, l'amore
per le feste e per le danze, alcune pratiche come
l'epatoscopia.
Più che a un'invasione in massa, avvenuta in un unico
momento, si può anche pensare al graduale arrivo dall'esterno di gruppi della
stessa popolazione, che a poco a poco si integrò con la base villanoviana
portando i suoi usi e la sua cultura, in seguito adottati totalmente. Come
riscontro archeologico a quest'ipotesi, nell'isola di Lemno, nei pressi della
città di Kaminia, si può citare il ritrovamento di una stele funeraria
recante un'incisione in una lingua non greca, che è stata interpretata solo
grazie alla sua somiglianza con l'etrusco, segno di un collegamento con
l'idioma in uso a Lemno nel VI sec. a.C., che pur non essendo la stessa
lingua, probabilmente ha delle radici comuni.
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