Il termine "rivoluzione industriale" venne coniato dal filosofo tedesco
Karl Marx, ma per ragioni ideologiche venne bandito per decenni dai circoli
accademici in tutta Europa. Come il termine stesso indica, si tratta di una
rivoluzione, un cambiamento repentino dovuto all'accumularsi di elementi
propizi. Tuttavia, storici come Rostow preferiscono parlare di "decollo",
inteso come un processo che si autosostiene ed autogenera. Fondamentalmente,
le definizioni di Rivoluzione industriale sono due: quella marxista prima
analizzata e quella di Hobsbawm, che considera l'innovazione come la svolta
verso l'alto di tutti gli indici economici. Ma il problema di maggior
rilievo consiste nel capire perchè il fenomeno ebbe origine in Inghilterra
proprio in quei anni. La prima Rivoluzione industriale si verificò in Gran
Bretagna alla fine del XVIII secolo e modificò profondamente l'economia e la
società. I cambiamenti più immediati furono quelli riguardanti la natura
della produzione, ossia che cosa, come e dove si produce. La manodopera
venne trasferita dalla produzione di materie prime a quella di manufatti e
servizi. Le quantità prodotte aumentarono considerevolmente e l'efficienza
tecnologica fece registrare progressi eccezionali, pur se fra grandi
contraddizioni sociali. Dobbiamo a Thompson la più esauriente ricostruzione
a noi pervenuta delle condizioni sociali che stavano caratterizzando la
nuova classe proletaria. La crescita della produttività si ottenne in parte
attraverso l'applicazione sistematica delle conoscenze scientifiche e
tecniche ai processi produttivi. L'efficenza crebbe anche grazie al fatto
che grandi agglomerati di fabbriche vennero concentrati all'interno di
determinate aree. In questo modo la Rivoluzione industriale coinvolse anche
i processi di urbanizzazione, ovvero il processo di migrazione della forza
lavoro dalle comunità rurali a quelle urbane.
I cambiamenti più importanti avvennero probabilmente all'interno
dell'organizzazione
del lavoro. Le piccole imprese si espansero e acquisirono nuove
caratteristiche. Inoltre, la produzione si svolgeva all'interno delle
fabbriche anziché a domicilio dei lavoratori o nei borghi rurali, come
avveniva un tempo. Il lavoro diventava sempre più meccanizzato e
specializzato. La produzione industriale dipese sempre più dalle possibilità
di utilizzo intensivo del capitale, di impianti e attrezzature costruiti
espressamente per aumentare l'efficienza. La familiarizzazione con gli
strumenti e i macchinari utilizzati permetteva ai singoli lavoratori di
produrre più di prima, e il vantaggio di acquisire esperienza di un
particolare ruolo, strumento o attrezzatura incrementava la tendenza alla
specializzazione.
L'aumento della specializzazione e l'applicazione del capitale alla
produzione industriale determinarono la formazione della classe sociale dei
capitalisti, che possedeva o controllava i mezzi di produzione.
La Gran Bretagna fu la culla della Rivoluzione industriale: dall'ultimo
quarto del XVIII secolo a tutto il XIX Londra fu non a caso al centro di una
complessa rete commerciale mondiale che diventò la base per il crescente
mercato di esportazione associato ai processi di industrializzazione.
L'esportazione
fornì un fondamentale sbocco ai prodotti dell'industria tessile e di altre
industrie, sbocco reso necessario dalla rapida espansione della produzione
indotta dall'introduzione di nuove tecniche. I dati disponibili indicano un
palese e forte accelerazione delle esportazioni britanniche a partire dal
1780. L'orientamento all'esportazione favorì ulteriormente la crescita
dell'economia
britannica in quanto i produttori inglesi potevano investire i ricavi delle
esportazioni nell'importazione di materie prime utilizzate nei vari processi
produttivi.
I tentativi di datare con precisione l'inizio della Rivoluzione industriale
negli altri paesi sono controversi. Ciò nonostante, gli studiosi concordano
sul fatto che la Rivoluzione industriale si verificò in Francia, Belgio,
Olanda, Germania e Stati Uniti verso la metà del XIX secolo, in Svezia e
Giappone verso la fine del secolo; in Russia e Canada subito dopo l'inizio
del XX secolo; e in alcune zone dell'America latina, Medio Oriente, Asia
centrale e meridionale e Africa, attorno o subito dopo la metà del XX
secolo. In Italia, dove non si ebbe una vera Rivoluzione industriale,
s'assistette
a un fenomeno analogo ma di dimensioni molto minori verso la fine
dell'Ottocento.
Ogni Rivoluzione industriale si è sviluppata secondo processi differenti in
relazione al periodo e al paese in cui si è verificata. Agli inizi
l'industria
britannica non aveva concorrenti che utilizzassero gli stessi metodi ed
esportassero su larga scala. Quando le altre nazioni avviarono il processo
di industrializzazione dovettero confrontarsi con il vantaggio della Gran
Bretagna, ma poterono d'altro canto imparare dal suo esempio. L'intervento
dello stato per promuovere l'industrializzazione fu praticamente nullo nel
caso britannico, ma fu invece considerevole in Germania, Russia, Giappone e
in quasi tutte le altre nazioni industrializzatesi nel XX secolo.
Per definizione l'industrializzazione porta a una crescita del reddito pro
capite, nonché a cambiamenti nella distribuzione del reddito, nelle
condizioni di vita e di lavoro e nei rapporti sociali.
La Rivoluzione industriale all'inizio portò ovunque dapprima a fenomeni di
disoccupazione favoriti sulla meccanizzazione dei processi produttivi, poi a
una caduta del potere d'acquisto dei lavoratori e a un deterioramento delle
loro condizioni di vita. Oggi tali problemi sono oggetto di ricerca e di
ampi dibattiti.
Fonte: http://www.biblio-net.com/storia/rivoluzi.htm
KARL MARX E L'ACCUMULAZIONE ORIGINARIA:
Nel cap. XXIV del I libro del Capitale, ad un certo punto Marx teme di aver
suscitato nel suo lettore l'impressione d'essere finito in un circolo
vizioso, poiché da un lato appare chiaro che il plusvalore non può essere
che il risultato di un processo di produzione iniziato in una fase
pre-capitalistica, dall'altro non è meno evidente che tale processo è
possibile solo perché esiste un plusvalore suscettibile d'essere
capitalizzato. Marx cercherà di risolvere l'empasse dimostrando come il modo
di produzione capitalistico si sia formato combinando degli elementi
strutturali che prima giacevano separati. E per questo motivo ha dovuto
svolgere un'analisi di tipo storico, di storia dell'economia.
Sin dalle prime pagine del Capitale Marx aveva dato per scontata
l'accumulazione originaria, anche perché ne aveva parlato nelle opere
precedenti (Formen, Grundrisse, Per la critica dell'economia politica...,
pur non avendole tutte pubblicate). Ora però si rende conto che l'impianto
fenomenologico su cui si regge tutto il I libro del Capitale può non essere
sufficiente per spiegare la genesi storica (il "peccato originale") del
capitale.
E' per una semplice ragione che, nel I libro del Capitale, Marx esordisce
con un'analisi di tipo fenomenologico (relativa alla merce): egli non si
considerava come uno "storico" che vuol prendere in esame l'uomo nella sua
globalità (cioè anche negli aspetti extra-economici), ma si considerava come
uno studioso ideologicamente schierato (uno scienziato che in gioventù aveva
svolto un'attività politica rivoluzionaria) che andava a cercare
nell'economia politica (ritenuta la scienza oggettiva più vicina alla
comprensione del presente) quelle contraddizioni che, a causa del loro
carattere antagonistico, il capitalismo non era in grado di risolvere e che,
per questo motivo, rendevano necessaria la transizione al socialismo.
Lo svolgimento di questa premessa, nel prosieguo del cap. XXIV, porterà a un
risultato molto preciso, che Marx avrà cura di dimostrare con ampia
documentazione: il capitalismo è il risultato di un processo di separazione
del lavoratore dalla proprietà delle proprie condizioni di lavoro (p. 5).
A questa conclusione Marx, in realtà, era già arrivato molto tempo prima
della stesura del Capitale, praticamente sin dai Manoscritti del 1844.
Tuttavia durante il soggiorno londinese egli ebbe modo di dettagliare al
massimo questa tesi, condivisa peraltro dal socialismo utopistico e persino
da buona parte della storiografia borghese.
La cosa singolare di questa tesi -e che ha motivato il presente studio- è
che Marx si sforza di dimostrare la verità di un fenomeno chiamandone in
causa un altro, che a sua volta però avrebbe necessitato di un'ulteriore
spiegazione. Detto altrimenti: la domanda a cui Marx non ha risposto è stata
proprio quella da cui era partito: "cosa ha generato il processo di
separazione del lavoratore dalla proprietà dei suoi mezzi produttivi?"
Per tutto il capitolo Marx fa un'analisi di tipo quantitativo, elencando una
mole notevole di dati, e dando per scontato che la spiegazione del processo
di separazione vada cercata nel processo stesso, cioè, in definitiva, nelle
sue dinamiche economiche. Ma in tal modo la comprensione del fenomeno resta
parziale, in quanto non se ne comprendono le radici extra-economiche, quelle
culturali (teologiche, filosofiche ecc.).
Marx non è riuscito a fare un'analisi storica in cui gli aspetti economici
risultassero integrati con quelli culturali, e il motivo di questo va
probabilmente ricercato nel fatto ch'egli ha sempre considerato gli aspetti
culturali come una mera sovrastruttura di quelli economici e non ha mai
sviluppato un'analisi in cui i due aspetti della realtà risultassero
interdipendenti.
Il motivo di questa difficoltà metodologica si pone a un duplice livello:
oggettivo e soggettivo. I nessi organici tra economia e cultura non sono mai
espliciti, ma sempre impliciti, indiretti, involontari, spesso addirittura
tenuti nascosti (dagli intellettuali) per motivi di sicurezza personale, in
quanto le loro teorie si trovavano a confliggere con quelle dominanti. In
secondo luogo va detto che per esaminare i testi di teologia (che sul piano
storico anticipano quelli della filosofia borghese) occorre essere scevri da
pregiudizi ideologici e convinti di non svolgere un lavoro inutile. E'
difficile infatti pensare che la disputa accademica degli universali abbia
potuto favorire la nascita del capitalismo commerciale, o che le basi
teoriche del potere temporale del papato stiano nella disputa sul Filioque,
eppure è così.
Nonostante questo, il genio di Marx appare così grande ch'egli è in grado di
offrire indicazioni per uno sviluppo ulteriore della sua analisi economica
in direzione della suddetta integrazione. Il che forse vorrebbe dire
riesaminare la metodologia delle ultime opere di Engels sul cristianesimo
primitivo e sulla guerra dei contadini tedeschi, nonché i Quaderni di
Gramsci. Quanto a Lenin, egli era perfettamente consapevole di aver
realizzato una rivoluzione politica senza una parallela rivoluzione
culturale fra le masse, ed era altresì convinto che quest'ultima fosse uno
dei compiti prioritari che il socialismo si doveva prefiggere.
1. L'arcano dell'accumulazione originaria
La prima cosa che andrebbe chiarita è tutta racchiusa in questa lapidaria
affermazione di Marx: "La dissoluzione della società feudale ha liberato gli
elementi della società capitalistica"(p. 6). E per "dissoluzione" Marx
intende alcuni aspetti fondamentali: fine del servaggio e delle
corporazioni, nonché delle città sovrane, e quindi nascita del proletariato
(eslege), cioè di individui che possono vendere sul mercato unicamente la
loro forza-lavoro.
Questi processi così sconvolgenti come sono potuti accadere? Marx non lo
spiega sul piano delle motivazioni ideali o culturali. Si limita
semplicemente a sostenere che "i cavalieri dell'industria riuscirono a
soppiantare i cavalieri della spada soltanto sfruttando avvenimenti dei
quali erano del tutto innocenti"(p. 7).
Il punto, tuttavia, è proprio questo: la genesi di quegli avvenimenti,
sfruttati in maniera innocente, è davvero stata innocente? Marx dice che non
ci sarebbe stato capitalismo se non ci fosse stata "servitù dei lavoratori".
Il capitalismo ha sfruttato una cosa che lo precedeva, limitandosi a
trasformare il servaggio in una contrattazione salariale. Ma così facendo,
Marx non spiega perché ciò, ad un certo punto, sia potuto accadere. Cioè non
spiega quali siano state le ragioni culturali che in maniera diretta o
indiretta, innocente o colpevole, abbiano in qualche modo determinato o
favorito il passaggio da uno sfruttamento all'altro. Egli si limita a
prenderne atto, considerandolo come un processo storicamente necessario.
Oggi però sappiamo che la necessità di un fenomeno non significa affatto la
sua ineluttabilità. Un fenomeno è sempre il frutto di una scelta, i cui
gradi di consapevolezza possono essere più o meno grandi. Esso diventa
inevitabile solo dopo che si sono operate delle scelte in luogo di altre.
Tuttavia uno storico dovrebbe sempre ipotizzare come sarebbero potute andare
le cose se si fossero compiute scelte diverse.
In una nota (la prima), dedicata all'Italia, Marx dice delle cose che da
sole meriterebbero una trattazione a parte: l'Italia ha sviluppato per prima
la produzione capitalistica. Perché? Perché qui -risponde Marx- il servaggio
era stato abolito prima che altrove. Ma perché proprio in Italia prima che
altrove Marx non lo dice.
Seconda cosa: pur essendo stata la prima a svilupparsi in senso
capitalistico (commerciale), perché l'Italia, dopo la scoperta dell'America,
che rende l'Atlantico più importante del Mediterraneo, torna a livelli
para-feudali? E' possibile spiegare questa inversione di rotta soltanto con
l'analisi economica?
Il passaggio dal capitalismo commerciale a quello industriale è sempre stato
considerato da Marx inevitabile, salvo imprevisti esterni che ne impediscono
forzatamente la realizzazione. E qui calza a pennello l'esempio dell'Italia,
la cui improvvisa involuzione storica viene fatta risalire alla scoperta
dell'America, che impose il primato dell'Atlantico sul Mediterraneo.
Tuttavia è davvero strano che la prima potenza europea sul piano del
capitalismo commerciale si fosse lasciata superare in così poco tempo da
nazioni economicamente molto più arretrate. Gramsci addebitò l'involuzione
alla mancata realizzazione dell'unità nazionale. Ma questa causa fu in
realtà una conseguenza della mancata trasformazione del capitalismo da
commerciale a industriale.
Il vero motivo che impedì all'Italia di trasformarsi nella prima nazione
industriale d'Europa o comunque in una nazione capitalistica non meno
importante dell'Inghilterra, fu la Controriforma, ovvero la mancata
realizzazione di una Riforma in cui risultasse centrale il ruolo della
borghesia.
Nel momento in cui la borghesia italiana accettò, seppur malvolentieri, la
Controriforma (e fu un'accettazione più politica che culturale), tolse a se
stessa la possibilità di diventare "capitana d'industria" e impedì al popolo
italiano di realizzare l'unificazione nazionale e di costituire uno Stato
indipendente dalla chiesa.
Se è vero che il capitalismo nasce con la nascita della manifattura -
fenomeno che appunto in Italia, rimasta ferma al livello dei commerci, non è
avvenuto e che avverrà in particolar modo laddove s'imporrà una qualche
riforma protestante, cioè una forma di emancipazione dal dominio o culturale
o politico della chiesa romana -, è anche vero che senza manifattura non è
neppure il caso di parlare di espropriazione irreversibile dei contadini. La
prima industrializzazione della vita sociale è costituita dalla manifattura
ed è con questa che la borghesia distrugge l'artigianato e subordina
l'agricoltura.
Cosa ha impedito alla borghesia italiana di compiere questo passaggio? E'
stata appunto la religione cattolica, che, nonostante tutti i suoi palesi
abusi, costituiva allora un'idealità più alta della religione protestante.
La borghesia italiana, nel complesso, non era ancora sufficientemente cinica
e individualista.
Marx si è chiesto ripetutamente (non solo in questo capitolo) il motivo per
cui il capitalismo non sia nato là dove era forte il capitale commerciale:
nel I libro del Capitale la risposta è nota: il capitalismo nasce là dove
esistono sia un certo volume di capitali circolanti, sia la presenza sul
mercato di una certa disponibilità di forza-lavoro, separata dai mezzi
produttivi.
Nel II libro Marx accentuerà il fatto che, per la formazione del
capitalismo, la determinante in ultima istanza è una forte e massiccia
presenza di capitale monetario. Laddove esiste ciò è impossibile che ad un
certo punto non nasca il capitalismo.
Col che Marx mostra di dibattersi in un problema che non trova soddisfacente
soluzione. La differenza principale tra capitalismo commerciale e quello
industriale può essere di tipo meramente "quantitativo", come p.es. il
volume delle merci o del capitale monetario circolante?
In realtà il capitalismo non ha bisogno solo di capitali circolanti e di
manodopera salariata, ma anche, prima di tutto, della presenza culturale di
un'ideologia di vita, che ne legittimi la nascita o che comunque ponga le
basi, anche senza volerlo, per la sua gestazione.
Il capitalismo non può nascere come "figlio legittimo o naturale" di un
sistema pre-capitalistico in decomposizione; o meglio, perché nasca con una
patente di legittimità o di naturalità, occorre che venga elaborata
un'ideologia specifica che s'incarichi di far sembrare bianco il nero e
viceversa.
Occorre un'ideologia che s'insinui nei punti più deboli delle strutture
dominanti, politicamente ancora forti, ma largamente sofferenti di una certa
incoerenza tra valori, affermati in sede teorica, e realtà concreta.
Questa ideologia alternativa può cercare il compromesso con le istituzioni
dominanti, ma deve comunque essere disposta, in caso di necessità, a
trasformare i propri ideali in una lotta politica vera e propria.
2. Espropriazione della popolazione rurale e sua espulsione dalle terre
Quando inizia, nel paragrafo 2, a parlare dell'Inghilterra, dove il
capitalismo assume "forma classica" (in quanto la coeva e molto più ricca
Olanda si era fermata alla fase commerciale) e dove non ci sono
"ripensamenti", come in Italia, Marx descrive una situazione socioeconomica
a dir poco idillica: in Inghilterra, prima del capitalismo, esisteva una
sorta di "ricchezza popolare"(p. 9). Più di 1/7 della popolazione totale,
dice -riportando una citazione- alla nota 2, viveva in freehold, cioè con
una proprietà libera da ogni specie di vincolo feudale e questa parte di
popolazione era superiore a quella dei fittavoli che lavoravano su terreno
altrui. Nell'ultimo terzo del sec. XVII i 4/5 della massa della popolazione
erano agricoltori. Il servo della gleba era un proprietario, obbligato a
tributi, di piccoli appezzamenti di terra annessi alla sua abitazione e
comproprietario delle terre comunali - dice Marx alla nota 3.
Il rivolgimento si ha "nell'ultimo terzo del secolo XV e nei primi decenni
del secolo XVI"(p. 9). Ora, è inutile qui andare a cercare una causa
scatenante sul piano culturale; Marx la trova solo sul piano economico ed è
stato l'impulso immediato allo scioglimento dei seguiti feudali, determinato
dalla "fioritura della manifattura laniera fiamminga e dal corrispondente
aumento dei prezzi della lana"(pp. 9-10). In pratica i contadini non
sufficientemente ricchi per trasformarsi in fittavoli o per mettersi in
proprio furono sfrattati dalle terre in cui lavoravano perché in esubero:
l'arativo andava convertito in pascolo, che per essere gestito necessitava
di molti meno lavoratori.
Marx dice espressamente che mentre la vecchia nobiltà feudale era stata
inghiottita dalle grandi guerre feudali (qui si devono presumere quella
esterna dei Cento Anni con la Francia [1337-1453] e quella interna delle Due
Rose [1455-1485]), la nuova nobiltà, invece, "era figlia del proprio tempo
per il quale il denaro era il potere dei poteri"(p. 10): di qui l'esigenza
di trasformare i campi in pascoli per le pecore.
Un'affermazione del genere andava culturalmente spiegata, altrimenti è
impossibile comprendere le vere motivazioni storiche che generano i
fenomeni. Nell'analisi marxiana tutto sembra sottostare alla categoria della
necessità. Una trasformazione così repentina della "ricchezza popolare" in
"ricchezza capitalistica" andava spiegata con un'analisi dei processi
culturali che in qualche modo l'avevano favorita. Marx peraltro non dice
nulla sulla nascita e lo sviluppo del capitalismo in Olanda e sui rapporti
di questo capitalismo con quello inglese prima dell'iniziativa drammatica
delle enclosures. Sarebbe stato interessante verificare il motivo per cui il
capitalismo trovò in Olanda un terreno così favorevole e uno sviluppo così
potente da mettere a repentaglio un sistema produttivo, come quello inglese,
ove la ricchezza era "popolare".
Sarebbe stato anche interessante verificare se le enclosures avvennero
proprio là dove maggiore era stata la propaganda dei calvinisti (cioè, per
le recinzioni, soprattutto in Kent, Essex, Suffolk, Norfolk,
Northamptonshire, Leicestershire, Worcestershire, Hertfordshire...). Da
notare che la nobiltà più antica e conservatrice risiedeva nelle contee
settentrionali e occidentali.
Si ha invece l'impressione che proprio in virtù della categoria della
necessità, Marx abbia voluto mostrare come il feudalesimo fosse destinato ad
essere superato dal capitalismo. Il che però non spiega perché ciò sia
potuto avvenire proprio nel XVI secolo e non prima, visto e considerato che
il capitale commerciale e quello usuraio sono sempre esistiti. Le recinzioni
non possono essere state dettate da un mero "impulso esterno": esse in
realtà sono una conseguenza di uno "spirito capitalistico" già in atto.
E' pacifico che un contadino non si trasforma volontariamente in operaio, ma
è altresì evidente che a questa trasformazione non è interessato neppure il
possidente agrario, se in qualche modo non vi si sente indotto dalle
circostanze, le quali tuttavia non possono essere solo di natura economica,
in quanto la trasformazione del contadino in operaio salariato implica un
primato del valore di scambio (vendere prodotti per il mercato) sul valore
d'uso (per l'autoconsumo) che non può imporsi in maniera spontanea, come
regola generale dell'intera società.
Non andando a ricercare le ragioni della "combinazione degli elementi"
nell'ambito della sovrastruttura, Marx, in un certo senso, sarà costretto ad
affermare che il capitalismo è nato nel XVI sec., ovvero non è nato nei
secoli precedenti, solo per un puro caso: il che contraddice nettamente la
tesi di un passaggio "naturale", inevitabile, da una formazione sociale
all'altra.
Non a caso nella sua analisi non esiste un movimento di resistenza a questa
transizione verso il capitalismo. Eppure alla fine del XVII su una
popolazione nazionale di 5-5,5 milioni di abitanti, ben 4 milioni vivevano
nelle campagne, di cui il 60% era ancora copyholder e il restante freeholder
(tra quest'ultimi i più ricchi si trovavano in una condizione analoga a
quella della piccola nobiltà rurale): quindi ancora esisteva la possibilità
di una regolamentazione democratica dello sviluppo economico
dell'agricoltura, che esulasse dai metodi violenti delle recinzioni.
I copyholders (dominanti nelle contee settentrionali e occidentali) avevano
il possesso non la proprietà della terra; di regola ne erano usufruttuari
per 21 anni, dopodiché il lord poteva decidere se rinnovare il contratto o
se cacciare il contadino imponendogli un canone d'affitto per lui
impossibile. Solo una ristretta minoranza entrava in possesso della terra
per via ereditaria. Oltre alla rendita i lords riscuotevano altre gabelle:
le tasse sull'uso del mulino e del mercato, la quota per il pascolo e il
godimento del bosco ecc. Rare volte s'incontrano le vecchie corvées e i
tributi in natura. Naturalmente, non essendone i proprietari, i copyholders
non avevano alcun diritto sui loro terreni: nulla poteva essere venduto,
ipotecato, affittato senza il consenso del lord. Quando i canoni d'affitto
dalla metà del XVI sec. alla metà del XVII aumentarono di 10 volte i
copyholders furono costretti a trasformarsi in freeholders (fittavoli a
tempo determinato) o, più raramente, in mezzadri, oppure a diventare
braccianti, salariati giornalieri. Alla fine del XVII sec. c'erano già
400.000 mendicanti e vagabondi senza tetto.
Nessuna città inglese, se si esclude Londra, aveva più di 30.000 abitanti e,
nel complesso, l'Inghilterra della prima metà del sec. XVII era ancora molto
in ritardo rispetto all'Olanda quanto a industria, commercio e traffico
marittimo, per cui non poteva ancora considerarsi scontata la transizione al
capitalismo.
Peraltro, a differenza della Francia, gli strati sociali inglesi non erano
chiusi e isolati (clero, nobiltà, terzo stato). Tra la piccola-media nobiltà
e la borghesia non c'era molta differenza nello stile di vita.
L'Inghilterra non fu solo sconvolta da sommosse borghesi, mascherate da
ideologie religiose, che volevano accelerare la suddetta transizione, ma
anche da sommosse contadine di stampo anticapitalistico. A partire da quella
del 1607 nelle contee centrali del paese (Northamptonshire,
Leicestershire...) contro le enclosures in cui si distinguono i cosiddetti
Livellatori (Levellers) e gli Sterratori (Diggers), sino a quelle degli anni
'20-'30-'40 sempre contro le recinzioni ma anche contro l'usurpazione delle
terre comuni, da parte dei lords, per farne parchi privati. Negli anni
1617-20 molti artigiani, apprendisti, operai manifatturieri cominciarono a
saccheggiare i depositi di grano, ad assalire gli esattori delle tasse e i
giudici di pace, a incendiare le case dei ricchi.
Da questi movimenti insurrezionali nascerà nel 1652-56 una "Società degli
amici" sotto l'influenza di G. Fox (1624-1691), le cui idee troveranno una
sistemazione teologica grazie a R. Barclay e che porteranno alla nascita del
movimento dei Quaccheri, il quale solo nel 1689, con l'editto di tolleranza,
otterrà libertà di azione dopo essere stato per molti anni represso (specie
dalla repubblica puritana di Cromwell).
La situazione era diventata piuttosto drammatica, tant'è che nel 1624 (lo
stesso anno in cui il paese entrò in una guerra disastrosa con la Spagna) la
corona si vide costretta a fare delle concessioni.
A dir il vero, tutta la prima metà del XVII sec. fu così travagliata da
lotte intestine che la società inglese non aveva ancora chiara alcuna strada
da prendere per il proprio futuro sviluppo. P.es. nel 1603 salì al trono il
figlio di Maria Stuart, Giacomo VI re di Scozia, che prese il nome di
Giacomo I (1603-1625). Egli è vero sostenne il sistema dei monopoli, cioè
dei diritti esclusivi offerti a singole compagnie nella produzione e nel
commercio di un qualsiasi prodotto, ma è anche vero che proprio sotto il suo
governo ci fu un brusco arresto nello sviluppo delle manifatture.
La corona inglese voleva sfruttare il nascente capitalismo con lo stesso
spirito di un feudatario che vive di rendita grazie ai suoi contadini, e nel
contempo voleva tenere sotto controllo dei processi economici il cui
sviluppo temeva avrebbe nuociuto alla stabilità della stessa corona. E così
da un lato chiedeva ingenti somme per la concessione delle licenze
commerciali, dall'altro pretendeva un apprendistato di 7 anni come
condizione per esercitare una qualunque professione. Gli agenti governativi
controllavano la qualità dei prodotti, la quantità e la qualità degli
strumenti di lavoro, il numero dei garzoni e degli apprendisti occupati in
una bottega artigianale ecc. e, pur di incamerare soldi nell'erario, non
avevano scrupoli di colpire commercianti, artigiani, imprenditori con multe,
estorsioni, esosità fiscali, processi giudiziari... E si pretendeva che
tutto il commercio estero fosse concentrato a Londra. Insomma già nel 1622
la bilancia del commercio estero era diventata passiva. Peraltro nel 1604 il
re aveva firmato un accordo di pace con la Spagna ignorando del tutto il
problema degli interessi commerciali inglesi nei possedimenti spagnoli delle
Indie orientali e occidentali.
La corona era solo capace di dilapidare i propri patrimoni o di venderli
all'asta, di introdurre nuovi dazi senza l'approvazione del parlamento, di
pretendere l'acquisto a basso prezzo di prodotti all'ingrosso, di ricorrere
a prestiti forzosi, di ripristinare diritti feudali decaduti...e di
perseguitare gli oppositori (i puritani furono costretti a emigrare in
Olanda e negli Stati Uniti).
Sotto il successore di Giacomo I, Carlo I (1625-1648), le cose peggiorarono
drasticamente, al punto che il parlamento l'obbligò a firmare la "Petizione
dei diritti", mediante cui si chiedeva la garanzia dell'inviolabilità della
persona, dei beni patrimoniali e della libertà dei sudditi.
Nel 1629 il parlamento chiese altre tre cose che la corona giudicò
inaccettabili: a) chi introduceva innovazioni papiste nella chiesa anglicana
andava considerato come il principale nemico del regno; b) chiunque
consigliasse al re di riscuotere dazi senza il previo consenso del
parlamento andava considerato come nemico del regno; c) chiunque paghi
volontariamente le tasse non ratificate dal parlamento va considerato come
un traditore della libertà del paese.
Carlo I, per tutta risposta, fece chiudere definitivamente il parlamento,
impose la censura sulla stampa e sulla libertà di parola, vietò la lettura
di libri proibiti, incarcerava i dissidenti e li faceva fustigare in
pubblico, aumentava le tasse in maniera insopportabile, in una parola impose
il terrore.
Dal 1630 al 1640 emigrarono dall'Inghilterra 65.000 persone, di cui 20.000
in America e nelle colonie della Nuova Inghilterra. Alla fine degli anni '30
si verificarono violente manifestazioni di operai e di artigiani. Anche gli
scozzesi reagirono al tentativo anglicano d'imporre il proprio servizio
liturgico e costrinsero la corona a un armistizio nel 1639. Anche in
Irlanda, nel 1641, scoppia una grande rivolta popolare con cui si voleva por
fine alla politica colonizzatrice inglese.
Il parlamento tentò a più riprese di ridurre l'assolutismo della monarchia,
ma lo stesso parlamento, quando presentò nel 1641 la petizione popolare con
cui si chiedeva la fine della gerarchia ecclesiastica, ovvero l'eguaglianza
democratica negli affari di chiesa, si divise in gruppi contrapposti, in
quanto la maggioranza dei possidenti terrieri temeva che la concessione di
questo diritto avrebbe comportato anche quello relativo all'equa
ripartizione della terra. D'altra parte i parlamentari combattevano gli
abusi compiuti dalla corona, non certo quelli compiuti da borghesi e nobili
contro contadini, artigiani e operai.
Carlo I ne approfittò subito per tentare un colpo di stato e siccome non gli
riuscì fece scoppiare, nel 1642, la guerra civile. Le contee del nord e
dell'ovest, poco popolate ed economicamente arretrate, lo appoggiarono,
mentre tutte le altre difesero i diritti del parlamento. Ciononostante,
senza l'intervento della Scozia è dubbio che il parlamento (allora guidato
dall'ala più radicale del puritanesimo, gli Indipendenti) sarebbe riuscito
ad avere la meglio sulla corona.
Insomma sotto i governi filocattolici e tardofeudali dei primi Stuart si
poté assistere da un lato alla possibilità di scegliere una strada
alternativa al capitalismo (grazie alle rivolte contadine) e, dall'altro,
alla impossibilità, da parte delle istituzioni politiche legate al mondo
cattolico, di indicarla.
* * *
Una delle cose più strane di questo capitolo è che Marx ha descritto il
processo di espropriazione dei contadini e degli artigiani senza spendere
neppure una parola sul processo inverso, cioè sulla resistenza sociale o
sull'opposizione politica a tale espropriazione. Dalla famosa rivolta
contadina dei Lollardi (1381), che volle mettere in pratica le teorie
eversive di John Wycliffe, sino all'insurrezione, sempre contadina, del 1450
guidata da Jack Cade, per non parlare di quanto avvenne in occasione dello
scisma anglicano, l'Inghilterra fu sconvolta da avvenimenti che di per sé
non lasciavano presagire come inevitabile una soluzione univoca.
La classe dei contadini indipendenti era più numerosa di quella dei
fittavoli negli ultimi decenni del XVII sec. e scomparirà del tutto -dice
Marx (p. 14)- solo verso il 1750. E negli ultimi decenni del XVIII sec.
cesserà completamente l'uso delle terre comuni e demaniali. Qui in sostanza
s'è verificata un'espropriazione dalle dimensioni colossali, di una gravità
eccezionale - come se la popolazione intera vi avesse acconsentito paga
della riforma anticattolica! come se considerasse le conseguenze del
capitale un male inevitabile all'introduzione del calvinismo! E' vero,
l'espropriazione delle terre contadine e comuni avverrà senza tregua anche
sotto la cattolica Mary Tudor, ma questo è la riprova che lo "spirito
protestante" aveva profondamente intaccato anche gli ambienti cattolici, in
modo analogo a quanto già accaduto nell'Italia comunale.
In Inghilterra le asprezze del confronto ideologico tra religioni fu
attenuato proprio dal compromesso sullo stile di vita borghese tra i ceti
mercantili e la nuova nobiltà feudale, da un lato, e la vecchia nobiltà
feudale ed ecclesiastica dall'altro. Tutti, potendo impadronirsi
abusivamente di terre altrui (non solo comuni o demaniali, ma anche quelle
secolarizzate dei monasteri, per non parlare di quelle che, una volta
recintate, misero sul lastrico migliaia di contadini non proprietari),
poterono evitare di confliggere per motivi religiosi. E' la legge stesse che
permette questo immane saccheggio. Nella nota 24 Marx paragona questa
involuzione verso il predominio della proprietà privata a quanto avvenne
nella Roma antica, prima della lex Licinia-Sestia del 367 a.C.
Marx rileva anche che in Scozia il processo delle inclosures assunse un
"carattere sistematico"(p. 21), ma non ne spiega la ragione, che fu invece
quella di un'introduzione del calvinismo più radicale.
* * *
Secondo noi la proprietà privata fondata sul lavoro personale non è mai
esistita nelle società divise in classi, se non in termini alquanto ridotti.
Là dove era fondata sul "lavoro personale" non era certo "libera" (se non
per i proprietari), là dove era "libera" era spesso basata sul lavoro
altrui.
La "piccola azienda" di cui parla Marx, quella di tipo familiare o
patriarcale, era "libera", nel mondo romano o feudale, solo per ristrette
categorie sociali.
Il capitalismo non si è opposto solo a questa forma di proprietà, ma anche e
soprattutto a quella privata basata sullo sfruttamento del lavoro altrui.
Esso cioè è passato da uno sfruttamento all'altro, e ha potuto farlo
promettendo la libertà a tutti gli sfruttati.
Una proprietà privata libera, che riguardasse la grande maggioranza dei
lavoratori, non è mai stata individuale, se si esaminano le formazioni
sociali primitive, pre-schiavistiche, ma è sempre stata sociale. La libertà
è veramente reale sono nell'uguaglianza sociale, cioè in un regime di
comunismo dei beni.
Marx nel Capitale ha considerato astrattamente la proprietà privata libera e
individuale, e l'ha giudicata negativamente, appunto perché spontanea e
individuale. Una proprietà senza cooperazione, senza concentrazione dei
mezzi produttivi, senza divisione del lavoro, senza capacità di dominare la
natura, regolandone il rapporto con la società, con una minuta ripartizione
della terra e dei mezzi produttivi, non poteva che essere superata dal
capitalismo.
Marx qui non si rende conto che una tale proprietà, se mai è esistita, era
già stata superata -come forma generale di produzione- dalla proprietà
fondiaria della società schiavista e feudale; anzi, la sua stessa esistenza
dipendeva da quelle società divise in classi, era un prodotto della
proprietà privata usata per sfruttare lavoro altrui.
La libera proprietà contadina, sorta in Inghilterra verso la fine del XIV
sec., anche se era gestita -come dice Marx- dalla "stragrande maggioranza
della popolazione", non era affatto totalmente libera, ma sempre soggetta a
un vincolo di tipo feudale con la signoria aristocratica. Marx stesso lo
afferma laddove parla di qualsivoglia "insegna feudale" sotto cui si celava
questa forma di proprietà.
In questo senso, se si vuole ammettere l'idea che la libera proprietà
individuale aveva in sé contraddizioni tali per cui il suo dissolvimento era
inevitabile e quindi necessaria era la transizione al capitalismo, allora
bisogna anche ammettere che quelle contraddizioni erano dovute al rapporto
ch'essa aveva con la proprietà feudale o comunque con i rapporti produttivi
di tipo feudale.
La piccola proprietà individuale non era libera né come la intendiamo oggi
né come la si intendeva nelle società pre-schiavistiche. In queste società
peraltro la libertà della proprietà individuale non era in contrasto con la
libertà della proprietà collettiva, anzi era il collettivo che dava la
dimensione della libertà individuale. Mentre sotto il capitalismo è "libera"
solo la grande proprietà, quella che decide i vari monopoli sul mercato.
Tutta l'altra proprietà deve sottostare alle leggi del mercato, per cui è
"libera" solo giuridicamente non economicamente.
Dunque se nell'Inghilterra del XVI sec. la prima proprietà ad essere
espropriata fu quella libera e individuale, ciò è dipeso appunto dal fatto
ch'essa nella società feudale era la più debole, sotto tutti i punti di
vista.
Tale libera proprietà era continuamente minacciata dalla forza
dell'aristocrazia, e il contadino doveva difenderla con ogni mezzo. Se essa
si trasformò abbastanza velocemente in proprietà capitalistica, ciò dipese
appunto dal fatto ch'era costantemente minacciata da quella feudale, per
quanto, a una spiegazione del genere, bisogna aggiungerne un'altra,
trascurata da Marx, quella della progressiva emancipazione ideologica dalla
religione tradizionale, da parte o dei contadini che, vendendo per il
mercato, si erano arricchiti e quindi avevano intenzione di trasformarsi in
capitalisti sul proprio terreno, oppure da parte dei ceti mercantili e
usurai, i quali, imponendo le leggi del mercato, costrinsero parte della
nobiltà a espropriare i contadini e far diventare anche questa stessa classe
feudale un produttore capitalistico.
Delle due insomma l'una: se la piccola proprietà contadina è stata così
facilmente espropriata, ciò è potuto accadere o perché il capitalismo
commerciale e usuraio era già notevolmente sviluppato, oppure, se questo
capitalismo ancora non era molto sviluppato, perché esisteva una mentalità
religiosa fortemente protenstantizzata, che tendeva a giustificare la prassi
mercantile. In entrambi i casi il processo di trasformazione capitalistica
della piccola proprietà non s'è imposto senza una buona dose di "odio" nei
confronti della rendita feudale e dei privilegi aristocratici.
Spesso il borghese non era che un ex-contadino o un ex-artigiano che, dopo
aver concesso il primato al commercio e al denaro, era tornato alla terra
per cominciare a produrre in modo capitalistico. La piccola azienda
familiare s'era trasformata in azienda capitalistica solo dopo aver
accumulato capitali da una parte e risentimenti e odio nei confronti del
feudalesimo, dall'altra. Ecco perché, prima di parlare di "accumulazione
originaria", Marx avrebbe dovuto prendere in esame le lotte di classe dei
contadini inglesi medievali e l'evoluzione dell'ideologia religiosa, che
portarono all'abolizione della servitù della gleba, quelle lotte appunto che
avrebbero potuto far nascere, volendo, una società di tipo
non-capitalistico. Egli semplicemente si limita a considerare l'abolizione
del servaggio come un dato storicamente acquisito, che non avrebbe potuto
non fare gli interessi, in ultima istanza, della classe borghese.
In sintesi, quando Marx parla esplicitamente del fatto che il capitalismo è
sorto sulla disgregazione del feudalesimo, non offre una spiegazione
convincente delle cause interne che hanno disgregato il feudalesimo, poiché,
se l'avesse fatto, avrebbe dovuto prendere in esame anche gli aspetti
sovrastrutturali (in specie l'ideologia religiosa) che condizionano quelli
strutturali dell'economia.
Quando Marx esamina gli aspetti sovrastrutturali (in specie il diritto) lo
fa solo con l'intento di confermare quelli strutturali o di mostrare che le
leggi della struttura trovano sempre un loro riflesso nella sovrastruttura.
Nella sua analisi la struttura e la sovrastruttura non hanno un vero
rapporto dialettico, d'influenza reciproca, ma solo uno di causa ed effetto.
Di conseguenza, parlando dell'accumulazione originaria inglese, egli è stato
costretto a rifarsi, anzitutto, a delle cause esterne, la prima delle quali
è stata l'espandersi della manifattura laniera fiamminga.
3. Legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del secolo XVI
in poi. Leggi per l'abbassamento dei salari
Nel paragrafo 3 Marx delinea sinteticamente i principali provvedimenti
legislativi della corona inglese contro il vagabondaggio e la mendicità e
afferma che disposizioni analoghe si diffusero in tutta Europa occidentale
alla fine del sec. XV e per tutto il sec. XVI.
a) Non si accettava l'idea di una povertà causata da circostanze
indipendenti dalla volontà dell'individuo.
b) Una licenza di mendicità veniva riconosciuta solo alle persone anziane o
incapaci di lavorare.
c) Si ammetteva la possibilità di schiavizzare i poveri refrattari a
determinati lavori.
d) Si ammetteva la possibilità di frustarli in pubblico, di marchiarli a
fuoco e di giustiziare, se recidivi, i poveri e gli schiavi che rifiutassero
di lavorare.
e) Si aprivano le porte al mercato degli schiavi.
f) Generalmente le leggi riguardavano individui di età non inferiore a 14
anni (per essere giustiziati ne occorrevano almeno 18).
g) L'associazionismo dei lavoratori resterà un grave delitto a partire dal
XIV sec. fino al 1825, e anche dopo questa data ripetuti saranno gli
attacchi contro di esso.
h) Non era possibile stabilire un salario minimo per gli operai e
tendenzialmente s'impediva di andare oltre un certo salario. Le leggi di
regolamentazione dei salari saranno abolite solo nel 1813.
Nel paragrafo non si rileva alcuna resistenza a questo incredibile processo
di schiavizzazione di cittadini liberi. Anzi Marx afferma che già nella
seconda metà del sec. XIV "si sviluppa una classe operaia che per
educazione, tradizione, abitudine, riconosce come leggi naturali, ovvie, le
esigenze di quel modo di produzione... [che] spezza ogni resistenza"(p. 29).
Questo però andava spiegato.
Non a caso, partendo immediatamente dalla constatazione della fine del
servaggio, Marx, in questo capitolo, ha evitato di considerare il momento in
cui il contadino, lottando contro il feudatario, si chiedeva se accettare la
prassi borghese che s'andava affermando nelle città, oppure se costituire
un'alternativa sia al sistema feudale in decadenza, sia all'economia
borghese in fieri.
In realtà Marx offre anche una propria spiegazione del fatto che il
capitalismo sarebbe dovuto comunque nascere. L'emancipazione dei
contadini -a suo giudizio- era avvenuta in maniera troppo "individuale"
(Marx parla di "liberi contadini autonomi"), perché essa potesse reggere il
confronto con la grande proprietà fondiaria o con i metodi capitalistici che
la borghesia applicava in agricoltura.
Per Marx l'emancipazione era avvenuta in maniera prevalentemente economica
(in Inghilterra), e quindi appunto in maniera individualistica, cioè nel
senso che i contadini si erano assicurati il possesso di un certo lotto di
terra "qualunque fosse l'insegna feudale sotto la quale potesse celarsi la
loro proprietà".
Viceversa in Italia -dice sempre Marx in nota- "il servo della gleba viene
affrancato prima di essersi assicurato un diritto di prescrizione sulla
terra. Perciò la sua emancipazione lo rende immediatamente proletario".
Anche qui però -come si può notare- Marx non spiega il motivo del processo
di emancipazione del servo della gleba italiano, cioè il motivo per cui ad
un certo punto si sia lottato per avere un diritto politico (la libertà) e
non anche o non solo un diritto economico (la proprietà). Sembra addirittura
che l'emancipazione dal servaggio sia stata concessa ai contadini dall'alto.
Marx, in sostanza, lascia intendere che l'emancipazione dal servaggio
avvenne senza particolari conflitti di classe, in quanto i grandi
proprietari (feudali) erano riusciti a conservare integralmente la proprietà
delle loro terre. Essi non potevano avere paura dei contadini autonomi, in
quanto sapevano che non avrebbero potuto essere rovinati dalla loro
concorrenza.
Non può certo sfuggire a uno storico il fatto che qui i contadini autonomi
vengono presentati senza alcuna personalità sociale e culturale, senza
interessi di classe, senza alcuna ideologia politica. Essi subiscono
passivamente l'espropriazione delle terre, proprio perché non hanno gli
strumenti necessari per opporvisi. Al massimo si accontentano di poter
continuare a utilizzare le terre comunali per il pascolo, il legname ecc. Il
che non ha senso.
Marx spiega anche che il motivo principale della loro espropriazione fu
determinato dal fatto che, essendosi rovinata con le guerre feudali, la
nobiltà non poteva far fronte alle nuove esigenze di vita della società
borghese che in città si stava sviluppando. (Da notare che in questo
passaggio di Marx la società borghese è "già nata").
In particolare, ciò che convinse i nobili a espropriare i contadini fu
l'espandersi della manifattura laniera fiamminga e il conseguente rincaro
della lana. Di qui la necessità di trasformare le terre arabili in pascoli.
Ora, questo modo di presentare le cose è tutto meno che storico: 1) perché
sembra sia stato sufficiente un semplice fattore congiunturale (l'aumento
del costo della lana) per provocare un fenomeno sociale di una drammaticità
inaudita e dalle conseguenze incalcolabili; 2) perché di fronte a tale
fattore i nobili, che fino a quel momento sembravano strutturalmente legati
alla mentalità feudale, si riscoprono improvvisamente dei veri e propri
capitalisti; 3) perché i contadini vengono ancora una volta dipinti come
soggetti passivi: prima sembrava che avessero ottenuto l'emancipazione
gratuitamente, ora sembra che accettino l'espropriazione come una necessità
del destino.
Qui non solo Marx manifesta dei profondi pregiudizi nei confronti della
classe contadina, non solo compie un'analisi parziale del tipo di gestione
della proprietà agricola, ma -quel che più importa- non fa assolutamente
capire quali siano stati i meccanismi culturali che hanno indotto la nobiltà
a diventare "borghese".
Peraltro, nella sua analisi, il fattore congiunturale non è neppure
endogeno, cioè nazionale, ma proveniente dalla piccola regione dei Paesi
Bassi. Paradossalmente, la borghesia inglese, che è stata l'artefice
principale della rivoluzione industriale, è del tutto assente in questo
processo di espropriazione a carico dei contadini. Si ha cioè l'impressione
che il capitalismo sia nato dalla semplice quanto improvvisa trasformazione
del nobile in borghese.
4. Genesi dei fittavoli capitalisti
Interessante è la domanda che si pone Marx nel paragrafo 4: "Poiché
l'espropriazione della popolazione rurale crea in via immediata soltanto dei
grandi proprietari fondiari... di dove vengono originariamente i
capitalisti?"(p. 35).
La domanda è interessante perché noi siamo soliti pensare che il soggetto
dell'azione capitalistica vera e propria sia non tanto il proprietario
fondiario quanto piuttosto il borghese. In realtà, in Inghilterra, a
differenza p.es. dell'Olanda, il processo di avvio del capitalismo fu
portato avanti essenzialmente dalla piccola e media nobiltà (insieme
ovviamente alla borghesia) e poi anche da quella grande.
Le manifatture appaiono successivamente. "La classe degli operai salariati,
che è sorta nella seconda metà del sec. XIV, formava allora e nel secolo
successivo soltanto un elemento costitutivo molto ristretto della
popolazione..."(pp. 29-30).
Dunque qual è stato il rivolgimento culturale che ha indotto i proprietari
fondiari a trasformarsi in capitalisti agrari? E come mai in Inghilterra
proprio questa classe inaugurò il takeoff del capitale quando negli altri
paesi europei essa aveva caratteristiche molto conservatrici e
sostanzialmente feudali? Per quale ragione i landlords inglesi hanno saputo
reagire prontamente al capitalismo commerciale di altri paesi europei
(Olanda, Italia, le città della Lega anseatica...) prendendo le debite
misure? Il collasso della vecchia nobiltà feudale, causato dalle
interminabili guerre feudali, poteva di per sé comportare, sic et
simpliciter, una sostituzione culturale dei principi fondamentali in cui
essa aveva sempre creduto?
In Inghilterra in capitalismo è nato perché si era sviluppato al di fuori
dei propri confini: i campi vennero trasformati in pascoli perché la nuova
nobiltà inglese, avida di denaro, vedeva nella richiesta di lana da parte
dei fiamminghi la possibilità di poter lucrare come non mai. Questa
spiegazione di Marx avrebbe potuto evitare di essere così semplicistica se
si fossero presi in considerazione i rivolgimenti culturali della riforma
(che in Inghilterra iniziò con le teorie di Wycliffe)?
Gli stessi passaggi di mansioni dal castaldo (bailiff), che in sostanza era
servo della gleba, al fittavolo, in grado di sfruttare lavoro salariato,
necessitavano di una spiegazione extra-economica, poiché qui si ha a che
fare con ruoli produttivi troppo diversi per poter convivere sotto una
medesima cultura. Un servo della gleba non s'improvvisa fittavolo se la
cultura dominante non glielo permette: non è solo questione di opportunità
economica.
I contadini liberi e i servi della gleba riescono a sopravvivere abbastanza
tranquillamente fin quasi tutto il XV sec. Il mutamento radicale -dice Marx-
avviene a partire dall'ultimo terzo, come se una regia occulta avesse
determinato lo scatenamento dell'offensiva economica in previsione di guai
peggiori se questo scatenamento non ci fosse stato.
"La genesi del fittavolo -dice Marx- è un processo lento che si svolge
attraverso molti secoli"(p. 35). Ma è solo "alla fine del sec. XVI che
l'Inghilterra possiede una classe di fittavoli capitalisti che per quei
tempi erano ricchi"(p. 37). Nel mezzo di tutti questi secoli cos'è accaduto
sul piano sovrastrutturale? Altrimenti non riusciamo a spiegarci le
motivazioni dell'agire sulla base di determinate scansioni temporali. C'è
differenza tra gentleman e fittavolo, perché il primo, essendo di origine
feudale, può sì espropriare i contadini, ma per continuare a vivere di
rendita. Il fittavolo invece ha un'altra mentalità: è capace di rischiare,
di mettere in piedi manifatture, di trasformarsi in capitalista
industriale...
Dice Marx nella nota 44: "In Francia, il régisseur, l'amministratore e
collettore delle prestazioni al signore feudale durante l'alto Medioevo,
diventa presto un home d'affaires che a furia di estorsioni, truffe ecc. si
fa capitalista". In realtà non si diventa alcunché "presto" se già non
esiste un background culturale su cui poter far leva. "In tutte le sfere
della vita sociale -scrive nella stessa nota- la parte del leone tocca
all'intermediario", cioè a colui che, non avendo ingenti proprietà private,
ama rischiare e quindi investire il proprio capitale per arricchirsi a
dismisura e diventare più potente del nobile feudale. Ora, da dove viene un
mutamento di mentalità del genere? dalle mere circostanze economiche?
5. Ripercussioni della rivoluzione agricola sull'industria. Creazione del
mercato interno per il capitale industriale
Il paragrafo 5 è un condensato della genialità con cui Marx riusciva a
capire i processi economici dal punto di vista fenomenologico. Le sue
descrizioni sembrano essere fatte di getto, dopo lunghi e faticosi e
sistematici studi: dovrebbero, come tali, appartenere ai manuali scolastici
di storia dell'economia.
La cosa stupefacente è che Marx sa individuare in maniera cristallina il
momento di trasformazione materiale dei processi economici, in cui le stesse
identiche cose (p.es. la materia prima) assumono significati del tutto
opposti.
Egli aveva capito perfettamente che se il capitalismo nasce con
l'espropriazione dei contadini dai loro mezzi produttivi, e si sviluppa con
l'allestimento delle manifatture e quindi col "processo di separazione di
manifattura e agricoltura"(p. 41), si afferma però definitivamente solo
grazie alla grande industria, che "con le macchine... porterà a compimento
il distacco tra agricoltura e industria domestica rurale strappando le
radici di quest'ultima... la filatura e la tessitura"(p. 42).
L'Italia, p.es., poté tornare alla "piccola coltura" -come detto nella nota
1- non tanto perché al primato del Mediterraneo subentrò quello
dell'Atlantico, quanto perché in Italia non si verificò il passaggio dalla
manifattura alla grande industria, se non nel XIX sec.
Perché questo passaggio non si verificò neppure in Olanda? Marx è convinto
che la storia dell'accumulazione originaria ha solo in Inghilterra una
"forma classica"(p. 8). Se fosse vissuto in Olanda avrebbe detto la stessa
cosa? Probabilmente sì, perché pur essendo il maggior paese capitalistico
dell'Europa per tutto il XVII secolo, l'Olanda di fatto si limitò al
capitale commerciale, finanziario e usuraio e non arrivò a fare del capitale
industriale il perno fondamentale del proprio sviluppo: per quale ragione?
Quelle economiche le conosciamo: mentre Inghilterra e Francia attuavano una
politica protezionistica nei confronti dell'industria nazionale, la
borghesia olandese, pur di ricavare i maggiori profitti dal commercio
estero, aveva inondato il mercato interno di prodotti stranieri a basso
prezzo, soffocando così l'industria nazionale. Perché questo atteggiamento?
La Borsa di Amsterdam era una delle più potenti del mondo, eppure già alla
fine del XVII secolo l'Olanda aveva perduto la supremazia industriale sugli
altri paesi europei. Una spiegazione di questo non può essere data pensando
alle interminabili guerre che, già a partire dal 1652, essa dovette
sostenere sia con Francia che con Inghilterra, perché in tal modo si
finirebbe in un circolo vizioso.
Forse bisognerebbe anche pensare al fatto che all'inizio del 1600, quando fu
sanzionata la spartizione delle antiche Fiandre in due stati confessionali:
i protestanti al Nord (Olanda) e i cattolici al Sud (Belgio), la
Controriforma e la cultura spagnola ebbero un influsso profondo e duraturo
in Belgio, e ciò non poté non avere un influsso anche sulla vicina Olanda.
6. Genesi del capitalista industriale
Il capitalismo industriale ha tolto definitivamente ai produttori ogni
autonomia e li ha subordinati in toto alle esigenze del grande capitale.
Come sia potuto accadere questo, al di là delle descrizioni fenomenologiche
fatte da Marx (e dai socialisti utopisti prima di lui) non è dato di sapere
nel Capitale. Cioè come sia potuto accadere che questo processo di inaudita
gravità, e che ha comportato immani tragedie, abbia trovato un relativo
consenso da parte delle masse popolari, resta ancora materia di discussione,
poiché in questo processo devono per forza essersi innestati dei fattori
extra-economici che ancora devono essere analizzati nei loro rapporti coi
processi economici.
Da questo punto di vista la storia dell'accumulazione primitiva andrebbe
riscritta, poiché si sono tenute separate delle scienze che invece
andrebbero viste in maniera integrata, olistica. Teologia, filosofia...
andrebbe studiate in rapporto all'economia, beninteso senza cercare dei
rapporti stretti di causa/effetto, ma tentando di scoprire il luogo delle
premesse culturali dei fenomeni sociali.
Qui non si vuole sostenere che le idee precedono i fatti, ma semplicemente
che i fatti non possono imporsi se non sono appoggiati dalle idee. Non c'è
trasformazione dei fatti se a livello culturale non si affermano delle idee
opposte a quelle dominanti. E' possibile che queste idee non abbiano un
rapporto diretto coi fatti che andranno a determinare o legittimare, poiché
esiste sempre un certo margine di ambiguità negli enunciati teorici, i quali
non necessariamente portano a determinate conseguenze pratiche. Però
sicuramente non è possibile che i fatti si trasformino nella più completa
inconsapevolezza dei protagonisti.
P.es. sarebbe interessante, in tal senso, verificare se l'atteggiamento
strumentale, così tipico delle società antagonistiche di derivazione
cristiana (feudalesimo e capitalismo), sia in realtà un atteggiamento
conforme a una determinata interpretazione dei rapporti interpersonali che i
teologi trasposero a livello di relazioni infratrinitarie. E' noto infatti
che la teologia latina nutre assai poca considerazione per il concetto
ontologico di "persona", preferendo a questo il concetto di "funzione" o di
"ruolo". Di qui i suoi limiti rispetto alla teologia ortodossa. Di qui forse
il carattere meno oppressivo del feudalesimo est-europeo. La trasformazione
della persona in una merce da sfruttare, dopo averla resa giuridicamente
libera, è un concetto le cui origini vanno fatte risalire alla cultura
cattolica e soprattutto protestante.
Gli studi, in tal senso, sono davvero scarsi. Di poco aiuto ci sono quelli
che hanno associato capitalismo a riforma, poiché a nostro parere il
protestantesimo non è che una radicalizzazione di idee già nate e sviluppate
in ambito cattolico. Lo stesso Marx d'altra parte, e a suo modo, lo dice:
"Il Medioevo aveva tramandato due forme differenti di capitale: il capitale
usuraio e il capitale commerciale"(p. 43). Marx sa bene che nel Medioevo "il
capitale denaro formatosi mediante l'usura e il commercio veniva intralciato
nella sua trasformazione in capitale industriale, nelle campagne dalla
costituzione feudale, nelle città dalla costituzione corporativa"(p. 44).
Era la cultura cattolica che lo intralciava, la stessa che però sfruttava il
servaggio sia per fini economici (la rendita) sia per fini culturali (il
clericalismo) e che per queste ragioni non fu in grado di opporsi alla
riforma protestante, che spazzò via rendita e clericalismo per aprire le
porte allo sfruttamento libero e selvaggio.
Marx si limita a parlare di "costituzione feudale e corporativa", cioè in
sostanza di leggi, statuti ecc., ma gli ostacoli non erano solo di natura
giuridica, come se le autorità costituite volessero impedire la spontaneità
di certi processi: erano proprio di natura culturale, nel senso che erano
condivisi dalle masse, le quali accettavano usura e capitale commerciale
solo in via del tutto straordinaria, eccezionale, non come regola sociale
che avrebbe dovuto imporsi contro le disposizioni legali dominanti.
Questo significa che nel passaggio dal feudalesimo al capitalismo devono
essersi sviluppate culturalmente delle idee favorevoli alla generalizzazione
delle eccezioni, qualche tempo prima che ciò avvenisse. La storia anzi
dimostra non solo che i fautori di queste generalizzazioni (che al loro
tempo erano eccezioni) di regola morirono prima della realizzazione delle
loro idee, ma anche che la realizzazione di queste idee non fu quasi mai del
tutto conforme alle loro aspettative originarie.
Marx può tranquillamente constatare che nell'affermazione del capitalismo e
del correlato colonialismo, l'ideologia che gli ha fatto da supporto è stata
quella cristiana. "Quei sobri virtuosi del protestantesimo -dice con la sua
solita ironia- che sono i puritani della Nuova Inghilterra misero nel 1703,
con risoluzioni delle loro assembly, un premio di 40 sterline su ogni scalp
d'indiano e per ogni pellerossa prigioniero..."(p. 47). Detto questo però
egli non scava in profondità e non si preoccupa di verificare quale tipo di
ideologia cristiana e soprattutto quale tipo di rivoluzione culturale ha
portato una certa corrente del cristianesimo: quella euro-occidentale
(cattolica e soprattutto protestante) a trasformare il cristianesimo in una
religione neo-schiavista.
La successione cronologica dell'accumulazione originaria ha visto paesi
cattolici e protestanti fare a gara nell'uso dei mezzi e metodi più brutali
con cui saccheggiare risorse e uomini dei continenti extra-europei: Spagna,
Portogallo, Olanda, Francia, Inghilterra... "L'Olanda -dice Marx-, che è
stata la prima a sviluppare in pieno il sistema coloniale, era già nel 1684
all'apogeo della sua grandezza commerciale"(p. 48). E non dimentichiamo che
l'Olanda veniva considerata "terra di libertà" per gli intellettuali
cattolici inseguiti dalla Controriforma.
"Oggigiorno la supremazia industriale porta con sé la supremazia
commerciale. Invece nel periodo della manifattura in senso proprio è la
supremazia commerciale a dare il predominio industriale. Da ciò la funzione
preponderante che ebbe allora il sistema coloniale"(p. 48). Marx tuttavia
non spiega il motivo per cui nazioni cattoliche come Spagna e Portogallo non
arrivarono mai a trasformare la supremazia commerciale in predominio
industriale.
Constata cose che da sole meriterebbero trattazioni a parte, per le loro
implicazioni e risvolti culturali, come p.es. questa: "Il sistema del
credito pubblico, cioè dei debiti dello Stato, le cui origini si possono
scoprire fin dal Medioevo a Genova e a Venezia, s'impossessò di tutta Europa
durante il periodo della manifattura..."(p. 49). Di nuovo il primato storico
dell'Italia cattolica...
Nell'elencare i punti salienti della nascita del capitalismo: sistema
coloniale, del debito pubblico, tributario e protezionistico, Marx afferma
che il ruolo dello Stato (quello che appunto mancò all'Italia
rinascimentale) era diventato prioritario: "Tutti si servono del potere
dello Stato, violenza concentrata e organizzata della società, per fomentare
artificialmente il processo di trasformazione del modo di produzione feudale
in modo di produzione capitalistico e per accorciare i passaggi"(p. 45).
Il debito pubblico trasforma il denaro in capitale "senza che il denaro
abbia bisogno di assoggettarsi alla fatica e al rischio inseparabili
dall'investimento industriale e anche da quello usuraio. In realtà i
creditori dello Stato non danno niente, poiché la somma prestata viene
trasformata in obbligazioni facilmente trasferibili, che in loro mano
continuano a funzionare proprio come se fossero denaro in contanti..."(p.
49).
Sono indubbiamente ancora molto moderne le seguenti osservazioni di Marx sul
debito pubblico (p. 50), che ha fatto nascere:
- una "classe di gente oziosa vivente di rendita";
- la "ricchezza improvvisata dei finanzieri che fanno da intermediari fra
governo e nazione";
- la ricchezza degli "appaltatori delle imposte, dei commercianti, dei
fabbricanti privati, ai quali una buona parte di ogni prestito dello Stato
fa il servizio di un capitale piovuto dal cielo";
- le società per azioni;
- "il commercio di effetti negoziabili di ogni specie";
- l'aggiotaggio;
- il gioco in borsa;
- la bancocrazia moderna.
"Le bassezze del sistema di rapina veneziano sono ancora uno di tali
fondamenti arcani della ricchezza di capitali dell'Olanda, alla quale
Venezia in decadenza prestò forti somme di denaro. Altrettanto avviene fra
l'Olanda e l'Inghilterra. Già all'inizio del sec. XVIII le manifatture
olandesi sono superate di molto, e l'Olanda ha cessato di essere la nazione
industriale e commerciale dominante. Quindi uno dei suoi affari più
importanti diventa, dal 1701 al 1776, quello del prestito di enormi
capitali, che vanno in particolare alla sua forte concorrente,
l'Inghilterra. Qualcosa di simile si ha oggi fra Inghilterra e Stati
Uniti..."(p. 51). Qualcosa di simile domani si avrà tra Stati Uniti e Cina?
Ovviamente "il debito pubblico ha il suo sostegno nelle entrate dello Stato
che debbono coprire i pagamenti annui d'interessi..."(p. 51). Queste pagine
sono attualissime perché descrivono molto bene l'essenza finanziaria della
situazione dei tre poli dell'imperialismo mondiale: Stati Uniti, Europa
occidentale e Giappone.
Non faremmo citazioni così lunghe se non fossimo convinti della loro
importanza. "I prestiti mettono i governi in grado di affrontare spese
straordinarie senza che il contribuente ne risenta immediatamente, ma
richiedono tuttavia un aumento delle imposte in seguito. D'altra parte,
l'aumento delle imposte causato dall'accumularsi di debiti contratti l'uno
dopo l'altro costringe il governo a contrarre sempre nuovi prestiti quando
si presentano nuove spese straordinarie. Il fiscalismo moderno, il cui perno
è costituito dalle imposte sui mezzi di sussistenza di prima necessità
(quindi dal rincaro di questi), porta perciò in se stesso il germe della
progressione automatica"(p. 52). "Questo sistema è stato inaugurato per la
prima volta in Olanda..."(ib.).
E che dire del protezionismo? "Il sistema protezionistico è stato un
espediente per fabbricare fabbricanti, per espropriare lavoratori
indipendenti, per capitalizzare i mezzi nazionali di produzione e di
sussistenza, per abbreviare con la forza il trapasso dal modo di produzione
antico a quello moderno. Gli Stati europei si sono contesi la patente di
quest'invenzione e, una volta entrati al servizio dei facitori di
plusvalore, non solo hanno a questo scopo imposto taglie al proprio popolo,
indirettamente con i dazi protettivi, direttamente con premi
sull'esportazione, ecc., ma nei paesi da essi dipendenti hanno estirpato con
la forza ogni industria; come p.es. la manifattura laniera irlandese è stata
estirpata dall'Inghilterra"(p. 53).
E della schiavitù? Non c'è stupirsi, leggendo queste frasi così esplicite,
che ancora oggi Marx sia bandìto dai centri della cultura dominante in
occidente: "L'industria cotoniera, introducendo in Inghilterra la schiavitù
dei bambini, dette allo stesso tempo l'impulso alla trasformazione
dell'economia schiavistica negli Stati Uniti, prima più o meno patriarcale,
in un sistema di sfruttamento commerciale. In genere, la schiavitù velata
degli operai salariati in Europa aveva bisogno del piedistallo della
schiavitù sans phrase nel nuovo mondo"(p. 56).
7. Tendenza storica dell'accumulazione capitalistica
L'ultimo paragrafo è un piccolo gioiello di letteratura economica. Sarebbe
da citare integralmente, ma qui vogliamo riportare solo alcune sintetiche
affermazioni di Marx: "l'accumulazione originaria del capitale significa
soltanto l'espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione
della proprietà privata fondata sul lavoro personale"(p. 57). Marx è
chiarissimo nel sostenere che la base della democrazia sociale
pre-capitalistica stava nella proprietà privata fondata sul lavoro
personale.
L'esproprio di questa proprietà individuale ha determinato la realizzazione
di una produzione sociale del lavoro: quella capitalistica, la cui proprietà
dei mezzi produttivi è rimasta però individuale. Il socialismo non deve fare
altro che rendere sociale anche la proprietà di tali mezzi. "La
centralizzazione dei mezzi di produzione e la socializzazione del lavoro
raggiungono un punto in cui diventano incompatibili col loro involucro
capitalistico"(p. 60).
Marx non è favorevole alla "piccola azienda", cioè non è favorevole al
lavoro individuale e alla piccola proprietà. Lo dice a chiare lettere: il
modo di produzione pre-capitalistico "presuppone uno sminuzzamento del suolo
e degli altri mezzi di produzione; ed esclude, oltre alla concentrazione dei
mezzi di produzione, anche la cooperazione, la divisione del lavoro
all'interno degli stessi processi di produzione, la dominazione e la
disciplina della natura da parte della società, il libero sviluppo delle
forze produttive sociali. Esso è compatibile solo con dei limiti ristretti,
spontanei e naturali, della produzione e della società"(p. 58).
Per Marx la "necessità storica" del capitalismo è dipesa dal fatto che nel
modo di produzione feudale esisteva unicamente la proprietà privata dei
mezzi produttivi per un uso personale, mentre quella collettiva per un uso
sociale era di scarsissimo rilievo (terre comuni, demaniali ecc.). La minuta
ripartizione del suolo e degli altri mezzi di riproduzione per Marx
significa "dispersione, ristrettezza, egoismo sociale, povertà di mezzi...";
per Marx non esiste alcuna forma di "cooperazione" nell'ambito della
famiglia patriarcale o tra famiglie patriarcali nell'affronto dei problemi
comuni; la divisione del lavoro viene considerata come un metro sicuro dello
sviluppo di una formazione sociale; e che dire del soggiogamento e della
regolarizzazione della natura da parte della società? Oggi un socialismo che
dicesse questo apparirebbe ancora democratico? L'equiparazione che Marx pone
tra "spontaneismo" e "sviluppo secondo ritmi naturali" va davvero
considerata negativamente?
La concezione della storia di Marx, per quanto concerne l'idea della
"necessità storica", è tutta di derivazione hegeliana: vi è stata nella sua
analisi soltanto una sostituzione di categorie, che da filosofiche son
divenute economiche.
Marx plaude al superamento della formazione feudale in nome del fatto che è
preferibile una produzione sociale, di operai collettivizzati, in mano a
singoli capitalisti, piuttosto che una produzione individuale (il servaggio
viene considerato tale) in mano a singoli contadini tra loro separati e
dipendenti da un signore analfabeta sul piano economico, e quando critica
che tale transizione sia avvenuta con "metodi violenti", in ultima istanza
la giustifica in nome della "necessità storica". Questo perché dolori e
sofferenze inenarrabili saranno redenti dalla stessa storia, che si
preoccuperà di espropriare i capitalisti, dando origine, per la prima volta
nella storia del genere umano, a una produzione davvero sociale e
consapevole, scientificamente organizzata.
Tutti i protagonisti delle vicende storico-sociali, non essendo consapevoli
delle cause di fondo che generano i mutamenti dei processi storici, non sono
considerati in alcun modo "responsabili"; o meglio, si può esser consapevoli
delle dinamiche di un processo ma non responsabili della sua nascita, in
quanto le generazioni ereditano sempre delle condizioni già date.
"Questa terribile e difficile espropriazione della massa della popolazione
costituisce la preistoria del capitale"(p. 59) ed è in un certo paradossale
che per Marx la transizione dal capitalismo al socialismo non possa avvenire
prima che tutta la formazione sociale pre-capitalistica sia stata distrutta
dal capitale (sono noti i suoi ripensamenti negli anni in cui prese contatti
col populismo russo).
Ad un certo punto infatti diminuiranno i capitalisti medi e piccoli
(espropriati dai più grandi) e aumenteranno a dismisura gli sfruttati,
rendendo così evidente alla società il contrasto insanabile tra rapporti e
forze produttive, tra socializzazione della produzione e privatizzazione dei
profitti. Alla stragrande maggioranza della popolazione apparirà un
controsenso continuare a sviluppare il capitalismo in mezzo a una crescente
miseria.
Il passaggio dal capitalismo al socialismo sarà molto meno doloroso di
quello dal feudalesimo al capitalismo, poiché ieri si dovettero espropriare
milioni di lavoratori, domani invece basterà espropriare pochi capitalisti
(p. 61). Oggi però dovremmo aggiungere che questi "pochi capitalisti"
detengono un potere enorme, in grado di distruggere decine di volte l'intero
pianeta, un potere che è aumentato a dismisura proprio perché, invece di
reagire subito, si è preferito assumere, nei loro confronti, posizioni
attendiste e concilianti o comunque non sufficientemente risolute.
Insomma Marx ha sempre pensato di sfruttare le "conquiste" del capitalismo a
vantaggio del socialismo, senza alcuna possibilità di tornare a forme
pre-capitalistiche di gestione della proprietà e del lavoro. E su questo
bisogna aggiungere, molto chiaramente, ch'egli non ha mai parlato di
"proprietà sociale o pubblica" come di una "proprietà statale". Questa
deformazione del "socialismo reale" non gli può essere imputata.
Economia e Religione
Marx ha intuito il nesso tra ideologia religiosa ed economia borghese (sia
nel senso che il protestantesimo riflette le esigenze del capitalismo, sia
nel senso che il capitalismo contiene, in forma laicizzata, alcune leggi di
tipo religioso: si veda ad es. il feticismo delle merci), ma non ha poi
sviluppato con coerenza questa intuizione portandola alle sue estreme
conseguenze, le quali appunto sono che è l'uomo a fare l'economia, in ultima
istanza: l'uomo con i suoi rapporti sociali, con i suoi pensieri, con il suo
rapporto con l'ambiente... Quando il marxismo dice che l'essere sociale è
superiore alla coscienza non può restringere il campo ontologico a quello
economico.
Benché l'uomo nasca in una formazione sociale che lo precede, ad un certo
punto deve decidere se accettare le fondamenta di tale formazione o se
lottare per distruggerle. Questa possibilità è a disposizione di ogni essere
umano della storia. I fatti, in tal senso, hanno dimostrato che l'uomo di
religione protestante, situato nell'Europa occidentale, ha deciso che le
fondamenta della società feudale andavano distrutte o comunque ha deciso che
l'ideologia religiosa del cattolicesimo-romano andava profondamente
modificata - il che portava ad accettare meglio l'opera di distruzione del
feudalesimo.
A questo punto iniziano due storie separate: quella delle intenzioni e
quella dei fatti. Nel distruggere il feudalesimo l'intenzione del
protestante europeo probabilmente non era quella di creare il capitalismo
(altrimenti esso sarebbe nato anzitutto nella Germania di Lutero), o
comunque non era quella di creare un capitalismo con tutte le sue terribili
contraddizioni antagonistiche, ma nei fatti (cioè indipendentemente dalla
sua volontà) è avvenuto proprio così (anche la Germania, in questo senso, ha
dovuto adeguarsi e l'averlo fatto per ultima le comporterà dei problemi
eccezionali, per la soluzione dei quali sarà costretta a far scoppiare due
guerre mondiali).
Se dunque esiste un momento in cui il soggetto non può essere considerato
negativamente responsabile, durante il periodo dell'accumulazione
originaria, questo momento non va individuato allorché il soggetto si staccò
dal feudalesimo o dalla religione cattolica in crisi, ma quando, nel
tentativo di costruire un'alternativa, tale soggetto non cercò delle
soluzioni convincenti (valide per tutta la collettività) ma delle soluzioni
parziali (valide solo per poche categorie di persone). Sia il capitalismo
che il protestantesimo sono infatti il frutto di una scelta a favore del
singolo individuo, contro gli interessi dell'intera società.
Con questo naturalmente non si vuole sostenere che se ci fu una qualche
responsabilità, essa va ricollegata solo al momento genetico del
capitalismo, poiché di fronte alle sue contraddizioni l'uomo deve sempre
decidere se accettarle o contrastarle. E non è neppure il caso di dire che
quanto più il capitalismo diventa maturo tanto meno è possibile combatterlo,
poiché ad ogni azione o trasformazione del capitale corrisponde, in genere,
una reazione positiva del mondo del lavoro.
Come noto, il marxismo cadde nell'errore opposto, quello secondo cui più il
capitalismo è maturo e più è facile superarlo. La svista dipese sempre dal
fatto che s'interpretava il concetto di transizione come un processo
naturale e inevitabile. Anche in questo caso però non si fa alcun
affidamento al concetto di responsabilità personale.
A tale proposito, però, è bene precisare che esistono nel capitolo,
soprattutto nelle note, dei passaggi che lasciano intuire quanto Marx fosse
consapevole della necessità di completare le sue analisi con altri strumenti
di indagine, a testimonianza della scrupolosità con cui egli affrontava
l'oggetto dei suoi studi. Prendiamo ad es. la nota 4, laddove egli dice, in
riferimento ai testi europei di storia, viziati da pregiudizi borghesi
antifeudali: "E' troppo comodo essere 'liberati' a spese del Medioevo".
Peccato, in tal senso, che Marx abbia cominciato a rivedere i suoi
pregiudizi antifeudali mutuati dalla borghesia solo negli ultimi anni della
sua vita, a contatto con gli ambienti populistici russi.
Nella nota 10, p. es., egli ha chiarissima l'idea che non l'abolizione della
servitù della gleba ma piuttosto quella della proprietà che il coltivatore
aveva del suolo, lo farà diventare un proletario o un povero. Questo a
riprova, se ce ne fosse ancora bisogno, che di per sé l'abolizione del
servaggio non poteva costituire elemento sufficiente per scatenare il
capitalismo. Chi avrebbe potuto impedire una progressiva democratizzazione
della società rurale senza le tragedie del capitale?
* * *
Marx inizia a parlare della Riforma protestante a p. 13, descrivendola non
come un fenomeno culturale, tale per cui sarebbe stato necessario
addentrarsi nei nessi tra questa rivoluzione del pensiero e quella del
capitale (per quanto egli non ne ignori l'esistenza), ma descrivendola negli
aspetti puramente economici, conseguenti all'accettazione istituzionale
della stessa da parte del potere costituito.
La conseguenza che più gli preme sottolineare è, in tal senso,
l'espropriazione dei beni ecclesiastici e quindi l'inevitabile
proletarizzazione dei contadini e dei fittavoli che campavano su quelle
terre. Il governo di Elisabetta I (1558-1603) fu per la prima volta
costretto a riconoscere il pauperismo e a emanare le prime leggi che ne
contenessero la diffusione.
Qui ci si può chiedere il motivo per cui Marx non abbia voluto approfondire
il motivo per cui un paese che riconosceva agli agricoltori così ampi
diritti li abbia fatti drasticamente precipitare in un baratro così
profondo. La cosa più singolare dell'Inghilterra è che la riforma
protestante qui fu un affare di stato, una Parlamentary Transaction. La
ragione della repentina transizione al capitalismo va forse cercata nel
fatto che i governi inglesi, memori delle immani tragedie accadute sul
continente, volevano evitare con la massima cura qualunque guerra civile per
motivi religiosi? ovvero che permisero o vollero riconoscere una veloce
introduzione dei metodi capitalistici proprio per evitare una guerra di
religione?
Di nuovo riusciamo a trovare nelle note di questo capitolo un qualche
barlume di risposta. Marx è consapevole della difficoltà e nella nota 10,
anticipando in maniera geniale le analisi di Weber, Sombart ecc., delinea i
nessi tra capitalismo e "spirito protestante". Quest'ultimo viene dipinto
coi tratti della psicologia borghese: una sorta di adattamento di mentalità
al nuovo trend economico. Non si vedono nessi reciproci di causa-effetto:
Marx non li avrebbe mai ammessi.
Significativo comunque resta il fatto ch'egli abbia subito visto come la
reintroduzione in Europa delle idee favorevoli allo schiavismo fosse
intimamente legata alla nascita del capitalismo e che su questo la riforma
protestante non trovò nulla da eccepire. Concependo l'uomo solo come
"produttore" (capitalista o salariato), i riformatori non potevano
ovviamente tollerare la presenza di disoccupati (altrove Marx dirà che
proprio i disoccupati servono a contenere la crescita dei salari).
E' un fatto che il rifiuto di assistere i poveri è una caratteristica tipica
della società borghese, come si può già notare in Italia dopo l'esplosione
del fenomeno comunale: non a caso le eresie medievali vengono definite
"pauperistiche". Si comincia a fare della "povertà" un motivo di
contestazione socio-politica non tanto quando la mentalità dominante non la
riconosce più come un male endemico, ma quando detta mentalità propone dei
rimedi impraticabili alla stragrande maggioranza dei poveri. Per il borghese
"essere povero" significa semplicemente "non voler lavorare", cioè non
essere disposto a fare qualunque tipo di lavoro pur di campare. Si prescinde
totalmente dai rapporti oggettivi di proprietà.
Queste stesse idee esistevano negli ambienti borghesi italiani ben 500 anni
prima del capitalismo inglese, ed erano maturate in ambienti cattolici.
Questo a dimostrazione che il protestantesimo non è stato altro che una
radicalizzazione borghese di idee cattoliche appartenenti a ceti mercantili.
Una radicalizzazione analoga a quella del calvinismo nei confronti del
luteranesimo, analoga a quella del consumismo nei confronti dello stesso
calvinismo.
* * *
Quel che qui si vuol sostenere è che Marx non ha mai preso seriamente in
considerazione, approfondendoli come avrebbe dovuto, i legami tra
cristianesimo ed economia borghese. Più volte (anche in questo stesso
capitolo) egli ha equiparato la dinamica di taluni fenomeni capitalistici
con quanto avviene nella religione (cristiana), ma la constatazione di
queste analogie o è rimasta ferma a livello d'intuizione, oppure è stata
usata come mera esemplificazione, non senza una certa dose d'ironia, come
appare p.es. là dove fa paragoni tra accumulazione originaria e "peccato
originale" (pp. 3-4), o tra credito pubblico e "credo religioso", o tra
"peccato contro lo spirito" e "sfiducia nel debito pubblico" (p. 49), o tra
"infanzia della grande industria" e "strage erodiana degli innocenti" (p.
53) ecc.
In fondo può non significare nulla il fatto ch'egli sia voluto partire dalla
fenomenologia del capitalismo (l'analisi economica della merce) e che poi ad
un certo punto abbia voluto svolgere un'analisi di storia dell'economia (il
cap. XXIV): in fondo il sottotitolo del Capitale è "Critica dell'economia
politica"; quello che però è mancata è stata un'analisi ontologica del
capitale (basata sul nesso culturale tra religione ed economia), e questa
mancanza pare sia stata dettata dal lato "deterministico" del suo pensiero,
che tende a privilegiare, della realtà sociale, l'aspetto economico.
Qui in un certo senso si compie il dramma del Capitale, attraverso il quale
Marx ha saputo sviscerare le contraddizioni economiche più recondite del
capitalismo, senza tuttavia afferrarne la loro origine culturale.
E' evidente che la soluzione di tale arcano avrebbe comportato la
riscrittura di alcune parti del Capitale, specie quelle che trattano dei
rapporti tra capitalismo e pre-capitalismo, nonché quelle che considerano il
capitalismo come una "necessità storica" e quelle che vedono il macchinismo
come un grande progresso di civiltà.
L'analisi storica del cap. XXIV, essendo stata trattata per ultima, non
incide minimamente sull'impianto generale dell'opera. In realtà era proprio
da essa che si sarebbe dovuti partire per comprendere la natura "culturale"
della merce, cioè la sua origine "religiosa". In Marx vi sono dei limiti
ermeneutici dovuti esclusivamente ai suoi pregiudizi in materia di
religione.
Si badi, Marx poteva anche usare l'analisi fenomenologica come pretesto per
avviare un discorso di tipo storico. Il fatto è purtroppo che nel Capitale
l'analisi storica è soltanto un'appendice di quella economica: è la cornice
che abbellisce il quadro.
La storia, in Marx, è in funzione dell'economia, non dell'uomo; e
l'economia, a sua volta, è in funzione di un'ideologia politica che cerca
nella prassi economica la conferma dei propri postulati.
Nel Capitale l'errore metodologico è stato proprio quello di aver fatto
nascere la merce dal determinismo economico, il quale, a sua volta, non è
che il frutto della "psicologia delle parti", cioè del "ruolo teatrale" che
ogni attore economico è costretto a svolgere sulla scena della storia (che è
soprattutto "economica"). In sostanza la genesi del capitalismo è
strettamente legata alla categoria hegeliana della "necessità storica", cui
nessun protagonista storico può sottrarsi.
Non può essere questo il modo di fondare la "scienza storica", che dovrebbe
essere la scienza del processo della libertà umana. Se si perde di vista
l'aspetto culturale delle scelte socio-economiche, si finisce col
sottovalutare i fattori cosiddetti "sovrastrutturali", relativi alla
coscienza, alla libertà, alle idee etico-religiose, filosofico-politiche che
gli esseri umani normalmente hanno e che costituiscono un patrimonio non
meno importante delle condizioni materiali dell'esistenza.
Questi aspetti possono essere capiti solo in maniera "storica", cioè
affrontando integralmente la vita dell'uomo. Una volta fatto questo, la
stessa economia si troverà ad essere oggetto di una diversa interpretazione.
Certamente meglio degli economisti borghesi Marx ha capito il meccanismo di
funzionamento del capitalismo, e ha senza dubbio saputo dargli una
collocazione spazio-temporale molto precisa. Ma pur avendo capito questo dal
punto di vista economico, egli non si è mai preoccupato -come invece p.es.
ha fatto Groethuysen- di dare una spiegazione del motivo culturale per cui,
ad un certo momento, è nata la civiltà borghese. Tutti i fenomeni culturali
sono per Marx un epifenomeno dell'economia.
Ecco perché, in ultima istanza, il concetto di "accumulazione originaria" è
servito soltanto per confermare un processo le cui dinamiche dovevano
apparire scontate, assodate, e non per mettere sul tappeto le possibili
varianti in cui il processo storico si sarebbe potuto sviluppare. Marx parte
sempre da un dato di fatto: il capitalismo, e nell'analisi storica egli va
soltanto a ricercare quelle condizioni necessarie che l'hanno reso
inevitabile e che ne rendono non meno inevitabile il superamento.
Suo grande merito è stato quello di averci fatto capire che il capitalismo
industriale ha delle origini storiche ben precise, che cioè non è un
fenomeno "naturale", e che, come tutti i fenomeni storici, è destinato ad
essere superato, ma non ci ha fatto capire il motivo per cui, ad un certo
punto, gli uomini hanno scelto questa formazione sociale e non un'altra.
E, non facendoci capire questo, non poteva poi spiegarci il motivo per cui
gli uomini, pur in presenza delle condizioni oggettive di superamento del
capitalismo, soggettivamente non lottano per una transizione al socialismo.
Né poteva offrire precise indicazioni circa il modo di condurre una lotta
politica anticapitalistica, anche quando, oggettivamente, le condizioni del
superamento del capitalismo non sono così evidenti come un economista
rivoluzionario vorrebbe.
* * *
Il fatto che Marx non abbia mai afferrato bene il carattere sociale della
produzione pre-capitalistica è dipeso, molto probabilmente, dai pregiudizi
ch'egli ha sempre nutrito nei confronti della religione.
Se Marx avesse avuto come esempio pre-capitalistico una formazione sociale
non individualistica ma collettivistica, come ad es. l'obscina russa,
avrebbe ugualmente considerato come inevitabile la transizione dal
feudalesimo al capitalismo? Gli ultimi suoi scritti dicono di no.
Ma anche supposta l'esistenza storica della proprietà privata libera e
individuale, Marx era forse in diritto di considerarla come una "mediocrità"
destinata ad essere superata dal capitalismo?
E' curioso vedere come in Marx l'origine del capitalismo venga fatta
risalire, a volte, al momento della "circolazione" del capitale, altre volte
al momento della "separazione" dell'individuo dalla comunità,
contestualmente alla rivoluzione tecnico-scientifica (in realtà anche nel
servaggio e infinitamente di più nello schiavismo c'è "separazione", ma non
si può certo parlare di "rivoluzione" tecnologica, poiché anche questa
presuppone una rielaborazione culturale anticristiana).
Dice Marx: "La trasformazione di una somma di denaro in mezzi di produzione
e in forza lavorativa è il primo movimento effettuato dalla quantità di
valore che deve fungere da capitale. Esso si verifica sul mercato, nella
sfera della circolazione"(Il Capitale, Ed. Newton Compton, 1976, I, p. 742).
Cioè l'esigenza o la necessità o l'inevitabilità di tale trasformazione non
viene spiegata ma accettata come un dato di fatto. Il capitalismo, in un
certo senso, si pone come un evento del destino: il tempo e il luogo, poste
quelle premesse relative alla circolazione dei capitali, possono essere
considerati casuali o comunque molto relativi.
Di fronte a sé Marx ha l'immagine di un individuo singolo, dedito al
commercio di qualche bene di scambio che, ad un certo punto, decide di
investire il proprio denaro nell'acquisto della forza-lavoro da impiegare in
un'attività produttiva finalizzata all'accumulo di capitali.
A differenza degli economisti borghesi Marx capì perfettamente che la
nascita del plusvalore (il cuore dello sfruttamento capitalistico) è
strettamente connessa all'impiego di manodopera salariata, ma non riuscì a
spiegare le ragioni culturali (storiche, se riferite a una classe sociale;
esistenziali, se riferite a un individuo) che ad un certo punto portarono il
mercante a trasformarsi in capitalista.
Infatti, finché si parla di "mercante" bisogna dare per scontato il primato
dell'agricoltura (il commercio è solo un addentellato di un sistema di vita
rurale); quando invece si parla di "capitalista" bisogna pensare al primato
dell'industria (manifattura ecc.). Qui però è bene subito precisare che non
può essere l'industria che di per sé spiega la trasformazione del mercante
in capitalista, poiché la presenza stessa di una manifattura implica già una
rivoluzione culturale, il protagonista della quale non necessariamente è
stato lo stesso mercante o la classe cui egli appartiene.
L'origine del capitalismo va cercata, come motivazione e quindi come
elaborazione culturale, nei testi degli intellettuali (filosofi e
soprattutto teologi) i quali, a loro volta, non potevano prevedere con
chiarezza tutte le possibili conseguenze che avrebbero potuto determinare le
loro teorie. Generalmente un intellettuale elabora delle idee allo scopo di
migliorare la situazione sociale, culturale ecc. del periodo in cui vive, e
ovviamente spera che le generazioni future vogliano continuare a utilizzare,
con gli inevitabili correttivi, quelle stesse teorie. Ma nessun
intellettuale è mai in grado di prevedere, sino in fondo, che determinate
sue idee potranno essere soggette ad un uso opposto o non voluto rispetto a
quello immaginato.
La nascita del capitalismo, tanto per fare un esempio, non può essere
culturalmente fatta risalire, stricto sensu, alla riscoperta medievale
dell'aristotelismo, eppure in quel periodo vennero poste le basi, senza
volerlo e senza neppure saperlo, per il superamento del cattolicesimo romano
(che avverrà 500 anni dopo con la riforma protestante) e anche per
l'affermazione del Cogito cartesiano, che rappresenta la quintessenza della
primordiale concezione di vita borghese.
Ponendosi sulla scia del progressivo distacco del mondo latino da quello
greco-ortodosso, i teologi cattolici hanno contribuito, senza volerlo e
senza neppure esserne consapevoli, al superamento della loro stessa
ideologia. E' stato il progressivo imporsi dell'arbitrio del singolo sul
collettivo (che per quanto riguarda la chiesa romana si estrinsecò nel
primato che si volle concedere al papato rispetto alle esigenze conciliari)
che ad un certo punto (per progressive determinazioni quantitative) si
arrivò a trasferire questo processo dalla sfera politica (la gerarchia
cattolica insieme alla nobiltà feudale) a quella sociale vera e propria, in
cui la nuova figura del borghese imprenditore risulterà decisiva per la
diffusione mondiale del capitalismo.
Marx ha criticato nel Capitale l'ipocrisia dell'economia politica borghese,
che finge di non riconoscere la differenza tra le due opposte proprietà:
quella basata sul proprio lavoro e quella basata sul lavoro altrui. E ha
dimostrato come dalla dissoluzione della prima sorge inevitabilmente la
seconda, per quanto il capitalismo sia nato in opposizione non solo alla
suddetta libera proprietà, ma anche alla proprietà feudale basata sul
servaggio.
Marx in sostanza non ha capito che in Europa occidentale l'economia politica
borghese si preoccupava di affermare che il capitalismo era una proprietà
basata sul lavoro personale non perché voleva porsi in antitesi alla libera
proprietà pre-capitalistica (ch'era cosa quantitativamente irrilevante), ma
piuttosto perché voleva illudere il servo della gleba (figura dominante nel
Medioevo) che, lottando contro il servaggio e accettando il capitalismo,
avrebbe potuto diventare finalmente libero, in quanto vero proprietario di
qualcosa. Il capitalismo cioè venne accettato come un miraggio che
prometteva condizioni di vita migliori.
Se nella transizione dal feudalesimo servile al capitalismo i contadini
avessero potuto costatare solo gli aspetti negativi
dell'industrializzazione, l'opposizione al capitalismo sarebbe stata
certamente più forte.
Marx non ha compreso questo semplicemente perché non ha sufficientemente
studiato l'ideologia con cui il capitalismo emergente cercava di superare il
feudalesimo: questa ideologia ha le sue radici nel protestantesimo, anzi,
ancor prima, nella riscoperta dell'aristotelismo avvenuta in ambito
cattolico.
La nascita storica del protestantesimo non è avvenuta, ovviamente, con
Lutero, ma intorno al Mille, cioè nel momento in cui si è verificato il
passaggio dall'Alto Medioevo (ideologicamente caratterizzato, in Europa
occidentale, dall'agostinismo) al Basso Medioevo (ideologicamente
caratterizzato dal tomismo). Il tomismo rappresenta, grazie alla riscoperta
dell'aristotelismo, il superamento ideologico dell'agostinismo in un ambito
ancora dominato politicamente dal cattolicesimo. E' stato il tomismo che
indirettamente ha portato al protestantesimo.
Il primo Paese di religione protestante è dunque stato l'Italia, che a
partire dal Mille e fino alla scoperta dell'America, ha conosciuto una
rivoluzione culturale (non politica), ineguagliata nel resto d'Europa. La
Germania, in questo senso, non fece che portare a compimento, sul piano
dell'ideologia religiosa, un processo iniziato nelle università e nei comuni
italiani e fra i primi movimenti ereticali: un processo che aveva trovato in
Francia, Inghilterra, Olanda, Cecoslovacchia... un felice seguito. Non
dobbiamo dimenticare che la Germania, nell'Europa occidentale, ha sempre
rappresentato il massimo dell'idealismo possibile.
Con Lutero si è avuta la migliore formulazione teologica del protestantesimo
basso medievale, la sua definitiva sanzione giuridica. Nella Riforma, in
effetti, sono confluite tutte quelle correnti borghesi, tutti quei movimenti
ereticali che si erano succeduti per almeno mezzo millennio, prima della
nascita di Lutero.
Tuttavia la rivoluzione politica borghese non avverrà anzitutto in Germania,
ma in Inghilterra, poi in Olanda e in Francia. Cioè la Germania, pur
riuscendo a fare sul terreno sociale e ideologico ciò che l'Italia non era
riuscita a fare (se non in ambiti meramente intellettuali), non ebbe poi la
forza di compiere il passo successivo, probabilmente perché riteneva
sufficiente all'emancipazione del lavoratore un'acquisizione interiore della
libertà, una liberazione della coscienza.
Come mai allora la Germania, che pur ai tempi di Lutero era prevalentemente
protestante, benché territorialmente divisa, dovette aspettare alcuni secoli
prima di diventare una grande potenza industriale e capitalistica?
Il motivo è che in Germania la riforma protestante fu una rivoluzione
tradita dallo stesso fondatore, che invece di allearsi con la classe
borghese si alleò con quella latifondista contro le masse contadine in
rivolta. Lutero si accontentò di due cose: 1) aver spezzato l'egemonia
politica del cattolicesimo-romano; 2) aver posto le basi culturali per un
rinnovamento del pensiero teologico.
Il vero artefice della rivoluzione culturale borghese, colui che decisamente
unì il protestantesimo all'attività economica borghese fu Calvino, che non a
caso riuscì a trovare ampi consensi in Svizzera, Olanda, Francia,
Inghilterra e soprattutto Stati Uniti. La Germania dovrà scatenare due
guerre mondiali per recuperare il tempo perduto.
Che l'ideologia protestantizzante fosse profondamente penetrata nella
società occidentale, ancor prima della Riforma, è documentato anche dal
fatto che nelle colonie i lavoratori salariati, là immigrati per
emanciparsi, non si lasciarono mai sfuggire l'occasione di diventare dei
capitalisti (cioè degli sfruttatori del lavoro degli indigeni locali).
Nelle colonie l'espropriazione è potuta avvenire usando metodi più brutali,
appunto perché non c'era necessità di giustificarla attraverso lo strumento
dell'ideologia religiosa (o almeno questa necessità non era così sentita
come in Occidente).
Il riferimento alla religione per comprende la transizione dal feudalesimo
al capitalismo non va inteso, ovviamente, che in senso culturale, al fine
d'individuare le mentalità, gli atteggiamenti psicologici, gli usi e i
costumi etici che possono aver influenzato determinate scelte economiche o
comportamenti sociali. La religione non ha solo cercato di adeguarsi a una
prassi sociale in evoluzione, ma ha pure condizionato l'evolversi di questa
stessa prassi.
* * *
Marx ha esaminato la forzata separazione del lavoratore dai suoi mezzi
produttivi; oggi bisogna esaminare la volontaria separazione del borghese
dalla comunità cristiana, perché questa separazione precede l'altra e sul
piano culturale la spiega. E spiega anche il motivo per cui il capitalismo
sia potuto nascere in Europa occidentale e perché proprio nel XVI sec., cioè
contestualmente alla riforma protestante.
Qui non interessano le motivazioni personali, psicologiche, quelle
descrizioni individuali alla Pirenne, col suo san Godric di Finchale, fatto
passare per archetipo del mercante medievale, a meno che non vengano prese
come mere esemplificazioni di un discorso più generale. Qui piuttosto
interessano le linee teoriche fondamentali che possono aver indotto ad
assumere determinati comportamenti.
Nell'esaminare la teoria (teologia, filosofia, diritto...) c'interessano non
tanto le diatribe interne alle correnti teologiche, filosofiche ecc., poiché
i termini dei problemi non sono più attuali o, se ancora lo sono, ad essi
oggi diamo delle risposte che allora neanche supponevano, quanto piuttosto
c'interessano i possibili nessi tra determinate posizioni culturali e gli
sviluppi della formazione capitalistica, che può essere coeva a quelle
posizioni, ma che è quasi sempre successiva, avendo gli uomini bisogno di
metabolizzare le innovazioni del pensiero.
Qui non dobbiamo dimenticarci che abbiamo sempre a che fare con profonde e
subdole mistificazioni, in quanto raramente gli intellettuali potevano
esprimersi in libertà, raramente quindi dicevano tutto quello che pensavano.
Marx riuscì a individuare le mistificazione nell'economia politica classica,
ma oggi dobbiamo trovarle nella teologia cattolica, protestante e nella
stessa filosofia borghese che diede inizio al capitalismo.
Si badi: qui non si tratta di dimostrare che lo spirito borghese è falso
perché là dove predica l'umanesimo laico e la democrazia politica, di fatto
impone l'ineguaglianza sociale, poiché questo dualismo o doppiezza di metodo
è ben noto alla storiografia marxista. Qui si tratta di dimostrare che le
origini dello spirito borghese vanno cercare nelle origini dello spirito
individualistico, anticomunitario, che risalgono agli albori della
separazione tra la chiesa romana e la chiesa ortodossa (e all'interno di
quest'ultima tra il cristianesimo predicato dal Cristo e quello predicato
dagli apostoli).
La chiesa romana impose l'individualismo sul piano politico-istituzionale,
facendo del papa un soggetto superiore all'istanza comunitaria chiamata
"concilio". La chiesa protestante non fece che estendere questo stesso
principio sul terreno sociale, trasformando il mercante (che pur sempre è
esistito) in un individuo borghese superiore e al pontefice e alla
tradizionale comunità cristiana, pur lasciando egli sopravvivere la
religione come strumento di consolazione e di soggezione delle classi
oppresse.
Esiste quindi una linea di continuità che attraversa i cosiddetti "momenti
di rottura". Sotto questo aspetto non ha più senso vedere il protestantesimo
in antitesi al cattolicesimo-romano (se vogliamo riprendere i lavori di
Grothuysen dobbiamo farlo con questa consapevolezza, altrimenti non si esce
dall'empasse).
La stessa esperienza del "socialismo reale" va inserita in questa medesima
linea, almeno a partire dallo stalinismo e dal maoismo. Il "socialismo
reale" non è stato altro che una sorta di cattolicesimo-romano in veste
ateistica, nel senso che il primato concesso alla politica rispetto
all'economia è stato gestito con criteri di tipo assolutistico. Oggi il
superamento del "socialismo reale" (se si esclude la parentesi democratica
della perestrojka) continua a porsi sulla scia dell'individualismo, in
quanto l'attuale primato concesso all'economia risente di forti
condizionamenti borghesi.
Le possibili transizioni al socialismo
Se Marx avesse evitato il pregiudizio nei confronti della società contadina,
non solo avrebbe creduto possibile l'alleanza operaio-contadina contro il
capitalismo, ma avrebbe evitato di considerare come "automatica" la
formazione, nella classe operaia, della coscienza rivoluzionaria, in virtù
dello stesso sviluppo capitalistico.
Marx non riuscì ad intuire -a differenza di Lenin- che proprio lo
sfruttamento dei contadini (ivi inclusi quelli delle colonie) avrebbe
permesso ai capitalisti d'influenzare in modo borghese la coscienza operaia,
impedendole di diventare rivoluzionaria.
Paradossalmente proprio il Capitale permette, senza volerlo, al capitalismo
di sopravvivere grazie allo sfruttamento dei contadini, prima che le proprie
contraddizioni interne giungano a piena maturità. Lenin invece ha dimostrato
che non occorre aspettare il parto naturale della negazione del capitale:
con la rivoluzione politica di operai e contadini lo si può affrettare.
Marx ed Engels non hanno mai creduto nella possibilità che in Europa
orientale si potesse sviluppare una rivoluzione socialista prima che nella
parte occidentale, ovvero che, anche avvenendo prima in Europa orientale
essa potesse sopravvivere senza l'aiuto di una rivoluzione socialista nella
parte occidentale (questa tesi verrà ripresa da Trotski).
Il loro torto stava:
nel considerare il capitalismo come una formazione sociale superiore sotto
tutti i punti di vista a qualunque altra formazione sociale non socialista;
nel non considerare che se il capitalismo era davvero una formazione sociale
superiore, lo era anche nella capacità d'influire in modo borghese sulla
coscienza degli operai;
nel considerare gli operai, appunto perché "operai", politicamente più
maturi di qualunque altra classe sociale;
nel non considerare che la lotta anticapitalistica dev'essere condotta non
solo nei momenti di particolare crisi, ma anche nella quotidianità dei
rapporti sociali, in modo globale, cioè investendo tutte le contraddizioni
del capitalismo, non solo quelle economiche e politiche.
Fu il populismo russo che obbligò Marx ed Engels a rendersi conto
dell'importanza dell'obscina (comune agricola), cioè della gestione
collettiva e non individuale della terra. Engels, da allora, iniziò a
rivalutare anche la "marca" tedesca, ed entrambi -grazie alle opere di G.
von Maurer, che dimostrò l'esistenza della comune rurale tedesca e di L.
Morgan, che dimostrò l'esistenza del comunismo primitivo- cominciarono a
ripensare le formazioni sociali precapitalistiche.
Tuttavia né Marx né Engels arrivarono mai a credere che le masse contadine
russe, unite agli operai, avrebbero fatto la rivoluzione socialista prima
che in Europa occidentale o senza una contemporanea rivoluzione in
occidente. Al massimo Engels arrivò ad accettare l'idea di una "cospirazione
blanquista".
Engels, nel migliore dei casi, era convinto che senza l'aiuto della
rivoluzione socialista occidentale, l'obscina si sarebbe disintegrata
dall'interno, dando il via allo sviluppo capitalistico. Nel peggiore dei
casi riteneva l'obscina già dissolta o comunque uno strumento utile solo
all'autocrazia zarista.
Marx ed Engels non si rendevano conto che se per quanto riguardava l'istanza
di liberazione il proletariato occidentale poteva sentirsi più intenzionato
a volere la rivoluzione, poiché da tempo sperimentava il peso delle
contraddizioni antagonistiche (sebbene tale peso fosse sempre più alleviato
dal colonialismo), per quanto invece riguardava la memoria di liberazione
che nell'Europa orientale si voleva conservare contro il capitalismo
emergente, i contadini e gli ex-contadini divenuti operai si sentivano molto
più rivoluzionari del proletariato occidentale.
Marx ed Engels non escludevano il passaggio dall'obscina al socialismo:
escludevano che tale passaggio potesse avvenire prima della rivoluzione
socialista occidentale. Ancora non potevano immaginare che proprio con il
colonialismo, il capitalismo avrebbe potuto tenere alti i salari degli
operai delle metropoli corrompendo la loro coscienza rivoluzionaria.
Abituati a convivere con l'individualismo delle formazioni sociali
occidentali, Marx ed Engels si sentivano indotti ad ammettere che il
capitalismo dovesse avere anche in Europa orientale il suo corso naturale,
inevitabile. Siccome in Europa occidentale non ci fu modo di contrastarlo
efficacemente, nel momento in cui nacque (XVI sec.), essi pensavano che la
medesima difficoltà avrebbe dovuto esserci anche in Europa orientale,
all'interno della quale -dicevano Marx ed Engels- le contraddizioni
sarebbero state ancora più pesanti, poiché il capitalismo vi si sarebbe
imposto già nella sua fase più matura, quella monopolistica.
In altre parole, l'industrializzazione, per Marx ed Engels, non poteva
essere che "capitalistica". Tale loro fatalismo storicistico rispecchiava la
cultura tedesca, protestante e idealistica.
Sarà il leninismo a dimostrare che le possibilità del socialismo erano
migliori non nei Paesi altamente sviluppati dell'occidente, ma in quel Paese
dove le contraddizioni create dal capitalismo si scontrassero con una forte
coscienza di classe.
La differenza tra il marxismo e il leninismo qui è rilevante. Il marxismo
riteneva possibile la rivoluzione solo quando il capitalismo avesse esaurito
tutte le proprie potenzialità. Il leninismo invece la riteneva possibile
nella misura in cui le contraddizioni antagonistiche risultavano
insopportabili alla coscienza rivoluzionaria.
Il primo a credere nella possibilità di una transizione dall'obscina al
socialismo non fu però Lenin ma Chernyshevski.
Bisogna qui tuttavia precisare, contro le idee populistiche, che l'obscina
non avrebbe mai vinto contro il capitalismo se non ci fosse stata la
rivoluzione d'Ottobre. L'obscina infatti non rappresentava l'unica
formazione sociale della Russia pre-capitalistica. L'altra era il servaggio,
che, per quanto abolito giuridicamente, restava sempre in vigore sul piano
sociale. Marx questo l'aveva capito perfettamente. Nella contraddizione tra
servaggio e obscina si era insinuato il capitalismo, il quale, senza
rivoluzione socialista, avrebbe sicuramente avuto la meglio sull'obscina.
Purtroppo però se l'obscina sopravvisse grazie all'Ottobre, venne
sistematicamente distrutta dallo stalinismo.
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