Oggi, qualunque partito socialista o comunista o socialdemocratico europeo
vada al potere in Europa occidentale, è costretto a fare gli interessi del
capitale, quindi la stessa conquista del potere politico è diventata
irrilevante, senza una trasformazione radicale dei rapporti produttivi.
La domanda che ci si pone è dunque la seguente: com'è possibile compiere una
rivoluzione economica ora che tutto il mondo è inglobato nel mercato
capitalistico? Si può compiere una vera transizione al socialismo restando
all'interno di questo mercato? Cioè si può sviluppare un mercato interno di
tipo socialista accettando l'idea di dover convivere con un mercato esterno
di tipo capitalista?
Se esistesse una società socialista, che cosa si venderebbe sul mercato
capitalistico, visto che nel socialismo si dovrebbe anzitutto produrre per
soddisfare bisogni e non per accumulare profitti? Ciò che più conta infatti
per il socialismo è l'uguaglianza delle condizioni o comunque il diritto per
tutti ad avere quanto occorre per essere soddisfatti come persone. Dunque si
venderebbe all'estero solo il surplus? esattamente come nel Medioevo e in
tutte le società precapitalistiche?
Se anche oggi, con una rivoluzione politica (locale, regionale, non
nazionale) il proletariato di un determinato territorio riuscisse ad
espropriare i capitalisti della proprietà dei mezzi produttivi e fosse così
forte da contrastare il peso di una resistenza armata dei suddetti
capitalisti, cioè se avesse la forza, la capacità di gestire autonomamente i
mezzi e gli strumenti produttivi che in precedenza faceva funzionare in
qualità di "operaio salariato" - che possibilità avrebbe questo proletariato
di autogestirsi come "lavoratore libero" all'interno di un mercato globale,
dominato dalle leggi dell'imperialismo?
A quale livello di determinazione geografica è oggi possibile che avvenga un
superamento del capitalismo nell'Europa occidentale? In che misura sarebbe
possibile una riconversione industriale indirizzata verso il soddisfacimento
dei bisogni vitali della popolazione?
Non dobbiamo infatti dimenticare che oggi le merci vengono prodotte non per
i bisogni (direttamente), ma per il mercato, al fine di ottenere profitti:
la soddisfazione dei bisogni è effetto secondario e quasi incidentale,
poiché molte delle merci vengono vendute senza soddisfare dei bisogni veri e
propri (si pensi p.es. alla moda), o comunque vengono vendute per soddisfare
bisogni non vitali ma indotti, prodotti artificiosamente dai mass-media.
Siamo abituati a questo trend. Dunque forse la prima cosa da fare sarebbe
quella di continuare a vendere le merci tradizionali, pensando però nello
stesso tempo a come riconvertire il capitale costante in direzione del
soddisfacimento dei bisogni primari, riscontrabili a livello locale o
regionale, i cui principali soggetti sono gli stessi lavoratori e le loro
famiglie.
Occorre che sulla base di tali bisogni la produzione si autonomizzi il più
possibile, sottraendosi alla tipica dipendenza dal mercato che si verifica
sotto il capitalismo.
E' fuor di dubbio che non si arriverà a una soluzione del genere se prima
non si saranno sperimentati gli effetti più negativi dello sviluppo
capitalistico (già oggi i salari permettono una semplice riproduzione della
forza-lavoro: è sufficiente una crisi petrolifera o una spinta
inflazionistica per mettere i lavoratori nel panico). Bisogna rieducarsi a
valori oggi scomparsi: l'autoconsumo, il risparmio delle risorse, il riciclo
delle scorie, la compatibilità ambientale...
Le occasioni storiche di una transizione al socialismo sono andate tutte
perdute, e questo ha fatto sì che i condizionamenti borghesi si siano
spaventosamente accentuati. Oggi nei paesi del capitalismo avanzato è
impensabile una transizione spontanea al socialismo, e forse non è neppure
ipotizzabile una soluzione geograficamente limitata che non parta dalla
consapevolezza critica delle masse popolari. Cioè non ha senso ipotizzare
una soluzione in cui il ruolo guida venga svolto da intellettuali di tipo
giacobino. Soluzioni di questo genere (o come quelle del socialismo
utopistico) potevano andar bene agli albori del capitalismo, quando esisteva
ancora la memoria d'un passato precapitalistico da salvaguardare. Tutto ciò
oggi non esiste più.
La rivoluzione comunista è avvenuta in Russia perché questo paese era
l'anello debole del capitalismo mondiale. Oggi esiste un anello debole?
Noi viviamo dominati da un mercato imperialistico: possiamo pensare a forme
autarchiche di produzione e consumo? Forse sì, ma a condizione di essere
assolutamente sicuri di poter produrre quanto effettivamente ci occorre e
soprattutto di avere le forze sufficienti per rieducare la popolazione.
Oggi l'anello debole del capitalismo e, se si vuole, tutto il Terzo Mondo,
che è stato coinvolto di prepotenza nel mercato mondiale. Quest'area deve
avere in sé la forza, anche intellettuale, di emanciparsi e di stabilire con
l'occidente un rapporto alla pari, dove gli scambi abbiano la possibilità di
essere equi.
Ma che cos'è più importante per i paesi del Terzo Mondo: la possibilità di
iniziare una rivoluzione industriale in piena autonomia (così come fecero i
paesi europei 500 anni fa) oppure la possibilità di scegliere autonomamente
il proprio sviluppo? Il problema infatti non è tanto quello di sapere come
arrivare alle stesse conquiste dei paesi tecnologicamente o industrialmente
più avanzati, quanto quello di sapere come poter ottenere un'autonomia
economica che funga da base per una scelta non obbligata del proprio futuro.
La cosa infatti che non si capisce nei teorici del marximo-leninismo è il
motivo per cui si debba necessariamente passare, per giungere al socialismo,
attraverso una rivoluzione industriale o comunque tecnico-scientifica più o
meno analoga a quella che in occidente ha portato o ha accompagnato la
nascita e lo sviluppo del capitalismo.
L'unica plausibile ragione di questa "necessità" può essere quella che vede
nella debolezza militare di un'esperienza socialista un rischio gravissimo
per la sua futura sopravvivenza, in quanto la minaccia di una distruzione da
parte del capitalismo sarebbe troppo forte per poterla sottovalutare.
Dobbiamo però chiederci se questo sia davvero un prezzo che il socialismo
deve pagare. Cioè se sia davvero indispensabile puntare sulla tecnologia per
avere un efficiente apparato militare difensivo, oppure se si possa
ipotizzare l'idea che una società basata su principi collettivistici in
maniera consapevole non ha bisogno di un'elevata tecnologia militare per
potersi difendere.
In altre parole: i sistemi precapitalistici hanno perso il confronto bellico
col capitalismo perché non erano sufficientemente armati o perché non erano
sufficientemente coesi? Non dimentichiamo che sulla sua strada il
capitalismo ha spesso incontrato civiltà in decadenza (come p.es. quelle
precolombiane) e formazioni tribali divise tra loro (come quelle indiane
nord-americane, che non a caso riuscirono ad avere la meglio sui coloni e
sui loro eserciti solo quando scelsero l'unità). Là dove gli europei o gli
statunitensi hanno trovato popolazioni relativamente unite, anche se
scarsamente dotate di mezzi tecnici (India, Vietnam...), lì non c'è stato
modo di realizzare un'occupazione militare.
Se così dunque stanno le cose, per quale ragione non si dovrebbe autorizzare
una determinata popolazione a cercare strade autonome verso la realizzazione
del socialismo, prescindendo dalle dinamiche occidentali dell'accumulazione
originaria e del conseguente sviluppo?
In Cina, ma anche in India, lo sviluppo capitalistico è controllato a
livello politico. Cioè esiste, sulla base di un certo opportunismo teorico,
una parvenza di socialismo sul piano politico e una progressiva
industrializzazione analoga a quella capitalistica.
Anche se non vi è un pericolo di crollo dovuto a fattori endogeni (p.es. una
caduta vertiginosa del saggio di profitto), quando il capitalismo non
garantisce il livello minimo di sussistenza per la maggioranza della
popolazione, questa, inevitabilmente, tende a non resistere alle forze
esterne che minacciano l'esistenza del capitalismo. Questo in sostanza sta a
significare che se il capitalismo, in teoria, è in grado di perpetuarsi
all'infinito, di fatto esso deve assolutamente garantire un minimo vitale di
sussistenza alla grande maggioranza della popolazione, se non vuole che
questa assuma un atteggiamento di rassegnazione nei confronti delle nazioni
o civiltà che premono ai confini e che si presentano come culturalmente o
tecnologicamente meno avanzate (almeno rispetto ai canoni cui si era
abituati in occidente).
Industria e agricoltura: integrazione o primato?
Marx non ha mai voluto sottoporre a critica l'industrializzazione in sé, il
macchinismo in sé, prescindendo dalle esigenze del profitto capitalistico.
Il Capitale vuole essere una critica dell'economia politica borghese che
considera il capitalismo come una formazione sociale sovrastorica, non vuole
essere una critica delle motivazioni sociali che hanno permesso lo sviluppo
industriale.
Marx ha sempre dichiarato di accettare le forme della società capitalistica,
rifiutandone piuttosto l'aspetto pratico-oggettivo, cioè l'organizzazione
spontaneistica e lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi invece ci chiediamo se
davvero l'industrializzazione debba prevalere in maniera così esorbitante
sull'agricoltura e sull'artigianato, e se sia davvero giusto puntare sulla
grande industrializzazione e non invece su quella media e piccola.
Sappiamo che se non ci fosse la possibilità di realizzare un plusvalore non
ci sarebbe neanche l'industria. Essa infatti è nata come tentativo di
accumulare profitti da parte di un proprietario privato intenzionato a
sfruttare lavoro altrui. Si dirà: questo veniva fatto anche dal feudatario
attraverso il servaggio. Ebbene, la differenza sta proprio in questo, che il
capitalista, prima di sfruttare il lavoro dell'operaio, sfrutta l'illusione
di una libertà, quella dell'emancipazione dal servaggio.
La rivoluzione industriale è nata sulla base di una falsa libertà giuridica.
Quanto più ci si convince di essere liberi, tanto più si è sfruttati, poiché
si è incapaci di vedere gli antagonismi da superare. Se in Occidente non ci
si accorge di questo aumentato sfruttamento, è perché il capitalismo da un
lato possiede i mezzi comunicativi per mascherarlo, dall'altro perché,
materialmente, ne ha trasferito le forme peggiori nel Terzo mondo. Senza
sfruttamento delle colonie il capitalismo non potrebbe sussistere se non
facendo pagare dei prezzi altissimi ai lavoratori occidentali, rischiando
così di aumentare di molto la resistenza anticapitalistica.
Viceversa, nel servaggio feudale la dipendenza personale comportava sì lo
sfruttamento del lavoro, ma entro i limiti imposti da un rapporto non
meccanizzato con la natura: il che voleva dire che più di tanto il
lavoratore non poteva essere sfruttato.
L'industria invece rappresenta l'illusione di poter creare una libertà
personale del lavoratore attraverso un rapporto meccanizzato con la natura:
il che effettivamente comporta un notevole aumento delle forze produttive.
La libertà del lavoratore è però fittizia in quanto in tale rapporto chi
trae i maggiori profitti è il proprietario dei mezzi produttivi, cioè
soprattutto il capitalista, il quale, sulla base dei propri profitti, tende
a costruire un modello di società che invece di emancipare il lavoratore lo
aliena sempre di più (non solo sul luogo del lavoro ma anche in ogni
manifestazione della vita sociale).
Marx credette di aver trovato la soluzione a questo problema nella
socializzazione dei mezzi produttivi. Naturalmente egli non poteva allora
rendersi conto che l'industrializzazione aliena di per sé l'uomo, in quanto
lo allontana da un rapporto equilibrato con la natura, da un rapporto
naturale con l'ambiente... Egli non poteva ancora sapere che l'aumento delle
forze produttive causato dall'industrializzazione provoca delle
contraddizioni dovute non soltanto al capitalismo, ma allo stesso
macchinismo, che ha un impatto sulla natura quanto mai deleterio.
Oggi noi dobbiamo ridiscutere il primato concesso all'industria rispetto
all'agricoltura. L'industria dovrà, in futuro, essere considerata come
"parte integrante" dell'agricoltura, e non come pilastro fondamentale cui
anche l'agricoltura deve adeguarsi.
Anche perché se il destino dell'industria è quello di diventare
completamente automatizzata, tanto da escludere la presenza rilevante
dell'operaio, l'esubero di manodopera risulterà catastrofico, poiché nessuno
vorrà né potrà tornare all'agricoltura o all'artigianato, e non tutti
potranno essere rioccupati nel terziario.
L'industria libera potenti energie ma a scapito dello stesso lavoratore, che
ogni giorno di più si vede sostituire dalle macchine. Il lavoro industriale
crea ricchezza solo per il capitalista, non assicura un futuro ad alcun
lavoratore (che non abbia una grande specializzazione), né garantisce una
vera creatività nelle mansioni che si svolgono (se non a livelli
intellettuali, tecnico-progettuali). E non si dica che l'automazione
permetterà al lavoratore d'avere maggior tempo libero che potrà impiegare
secondo la propria creatività, perché questo è in contrasto col noto
principio che il lavoro deve diventare un principio vitale d'esistenza, non
solo per la sopravvivenza o la riproduzione del lavoratore ma anche per la
sua personale realizzazione. Le macchine non potranno mai sostituire
completamente l'uomo.
Nel "socialismo reale" la situazione, fino a ieri, non era migliore: i
profitti andavano allo Stato, che poi dall'alto li redistribuiva secondo
criteri estranei alla volontà dei lavoratori; il futuro era assicurato, ma
solo perché in realtà le mansioni svolte erano poco qualificate, i prodotti
di scarsa qualità, i deficit di bilancio coperti dallo Stato, ecc.
Una nuova società industriale dovrà creare un'industria legata ai bisogni
della comunità locale; dovrà quindi essere un'industria tendenzialmente
esaustiva, con capacità globali, in grado di soddisfare molteplici esigenze.
Non quindi un'industria specializzata in un settore, sempre più sofisticata
perché preoccupata di non reggere la concorrenza straniera, ma un'industria
multilaterale, competente in tutti quei settori richiesti dalla comunità
locale (elettrodomestici, trasporti, trasformazione dei prodotti ecc.).
Per il socialismo democratico - Proprietà e lavoro
Il criterio del socialismo democratico secondo noi non sta tanto nella
proprietà quanto nel lavoro. Cioè chi lavora ha diritto ad avere una
proprietà privata per uso personale. L'esproprio della altrui proprietà si
rende necessario quando questo principio non riesce a realizzarsi, quando
chi vorrebbe lavorare non può farlo, o può farlo solo accettando condizioni
indegne di una persona umana.
Per Marx il modo di lavorare questa proprietà deve per forza essere sociale
e non individuale: la terra e gli altri strumenti di lavoro vanno sfruttati
socialmente. Invece secondo noi che il soggetto che lavora sia individuale o
collettivo non fa molta differenza: gli uomini possono associarsi per il
bene comune e quindi gestire la proprietà in una maniera più efficiente che
restando separati tra loro. Si tratta di una loro scelta. Le forme di
socializzazione e cooperazione debbono restare un'opzione, non un criterio
obbligatorio imposto dall'alto. Ogni imposizione della socializzazione si
trasforma inevitabilmente in una burocratizzazione o statalizzazione del
socialismo, cioè nel suo contrario.
L'importante è affermare il principio che chi lavora deve poter disporre non
solo della propria forza-lavoro, ma anche del diritto a una proprietà che lo
aiuti a realizzarsi come persona e come lavoratore. Finché l'uomo è
costretto a vendere la propria forza-lavoro a chi dispone di proprietà non
si potrò mai parlare di socialismo.
Valorizzare il pre-capitalismo (Spunti di riflessione per studi futuri)
Marx ha sempre ritenuto che le forme comunitarie del modo di produzione
asiatico siano state le più tenaci nell'opporsi allo sviluppo del
capitalismo, e non in virtù di aspetti positivi, ma proprio a causa del
fatto che l'individuo veniva praticamente sacrificato sull'altare
dell'interesse collettivo, che a sua volta era imposto o tenuto entro certi
limiti dal potere autocratico.
Queste forme hanno potuto opporsi al capitalismo quando questo era allo
stato embrionale; in seguito però, non avendo mutato fisionomia, sono state
destinate a soccombere.
In effetti, laddove è avvenuto il mutamento, questo è dipeso
dall'acquisizione di alcuni elementi dell'ideologia occidentale (liberale o
marxista), adattati successivamente alle esigenze di quelle comunità. Il
maoismo e il gandhismo hanno potuto superare il colonialismo europeo (e
anche nipponico, nel caso cinese) appunto perché avevano saputo trasformare
l'ideologia borghese secondo gli interessi della lotta di liberazione
nazionale (in Cina anche secondo gli interessi dell'edificazione del
socialismo). (Caratteristica della Cina, tuttavia, è, a tutt'oggi,
l'eclettismo ideologico da un lato e il socialismo autoritario dall'altro.
Il primo aspetto ha permesso, prima di ogni altro paese socialista,
l'introduzione di elementi dell'economia capitalistica).
Dunque, il mancato processo d'individualizzazione dell'uomo non è dipeso da
una superiorità del modo di produzione asiatico, ma piuttosto da una sua
inferiorità, la cui causa Marx non ha mai pensato di attribuire alla cultura
religiosa dell'indo-buddismo. Se l'avesse fatto avrebbe capito perché sotto
l'influsso del cristianesimo ortodosso quello stesso modo è stato
trasformato in Russia nella comune agricola, che ha resistito sino agli
inizi di questo secolo.
L'Europa occidentale ha spezzato le forme comunitarie di vita con
l'introduzione dell'ideologia schiavista. Nell'Alto Medioevo cercò di
recuperarle in nome del cristianesimo, ma poi, proprio in nome di un modo
sbagliato di vivere questa ideologia religiosa, essa ha riaffermato
l'individualismo in tutti quei Paesi di religione cattolica e soprattutto
protestante.
Marx inoltre ha dato per scontato il fatto che le forme della comunità
originaria, primitiva, si siano conservate, sostanzialmente, nelle forme
asiatiche, ove gli individui sono elementi puramente naturali della
comunità. In realtà, non è affatto dimostrato che le forme asiatiche siano
l'unico rispecchiamento delle forme comunitarie primitive. Se così fosse non
si spiegherebbe la ragione per cui in Asia quelle forme non si sono evolute,
mentre in Europa sì. Peraltro, il concetto stesso di potere autocratico, che
ha sempre caratterizzato le forme asiatiche, esclude di per sé ch'esse
abbiano conservato tracce significative della comunità primitiva.
Per "cultura" non si devono intendere tanto le cognizioni
tecnico-scientifiche, quanto la capacità di usarle per distruggere una
tradizione comunitaria che si ritiene superata. A tale scopo occorre che
l'individuo abbia piena fiducia nelle proprie risorse e si consideri
assolutamente in opposizione agli interessi della collettività. Si prenda
come es. il fatto che la civiltà cinese raggiunse il suo massimo splendore
nei secoli XII-XIII, eppure lo sviluppo del suo potenziale
tecnico-scientifico non riuscì a spezzare l'involucro della struttura
sociale burocratico-agraria, e i rapporti di tipo "asiatico" sopravvissero
ancora per secoli, finché vennero a contatto con il colonialismo
occidentale.
Marx ha affermato che nelle comunità asiatiche primitive, nelle forme
greco-romane e germaniche, non ci poteva essere uno sviluppo libero e
completo dell'individuo o della società, poiché la "compiutezza", la
"soddisfazione" era concepita nell'ambito di uno sviluppo limitato, mentre
caratteristica fondamentale del mondo moderno è l'illimitatezza.
Qui Marx non ha fatto che applicare al passato un pregiudizio formulato nel
suo presente. Egli cioè ha rifiutato di considerare libero uno sviluppo
"limitato", cioè posto entro rigorosi limiti.
Marx, in sostanza, non ha voluto accettare l'idea di considerare il
passaggio dalla proprietà collettiva primitiva a quella privata
antagonistica, come il frutto di una scelta soggettiva dettata da un modo
arbitrario d'interpretare il senso della proprietà collettiva. Secondo Marx
il passaggio era determinato da una necessità oggettiva, dettata da
contraddizioni naturali, interne a quelle stesse forme primitive
d'esistenza. Nel senso cioè che l'uomo avrebbe dovuto superare il
collettivismo primitivo appunto per sentirsi "uomo" e non mero prodotto
della "natura".
Questo modo di vedere le cose è tipicamente occidentale. Il senso di
"umanità" viene considerato un attributo specifico del senso di
"individualità". Là dove il soggetto non emerge, col suo bisogno di
distinguersi dalla massa, lì -si dice- esistono non rapporti "sociali" ma
"naturali". I veri rapporti sociali sono quelli che l'individuo libero si dà
da sé, non quelli che riceve dalle generazioni precedenti.
La libertà quindi per Marx non sta nell'accettare la tradizione
modificandola negli aspetti che richiedono innovazione, ma sta nel superare
ogni tradizione per poter essere veramente innovativi. L'individuo libero è
un titano che con decisione combatte contro una massa informe e senza
personalità. Da qui al disprezzo della vita contadina il passo è breve.
In altre parole, all'associazione, libera da dominio ma sottoposta alle
leggi di natura, Marx preferiva un'associazione libera e in grado di
dominare la natura: ecco perché egli ha considerato necessario, inevitabile,
la disgregazione della comunità primitiva.
Oggi il marxismo deve rimettere in discussione il principio che vede
affermata la libertà dell'uomo nel dominio sulla natura. Ciò che è
inevitabile, in realtà, è proprio una sorta di dipendenza nei confronti
della natura. La libertà umana è possibile solo entro i limiti imposti dalla
natura. Non a caso l'individualismo ha cercato in un rapporto di dominio con
la natura quella compensazione al vuoto che gli aveva procurato la rottura
dei rapporti sociali comunitari. Il dominio dell'uomo sulla natura,
attraverso il macchinismo, riflette l'alienazione dell'individualismo. Il
sociale dunque non può essere contrapposto al naturale.
Lo "sviluppo" della forze produttive non può essere considerato legittimo se
avviene solo a condizione di distruggere la comunità naturale. Non c'è
sviluppo ma involuzione se l'uomo perde il rapporto sociale che dà senso
alla sua esistenza.
Anche perché l'iniziativa indipendente dell'uomo singolo che si stacca dalla
comunità, può essere considerata "libera" solo nel senso negativo che si è
"liberata" da una dipendenza collettiva. Ma in un senso positivo questa
libertà è falsa poiché, per sussistere, essa ha immediatamente bisogno della
schiavitù altrui. Questo aspetto il marxismo non l'ha mai sottolineato a
sufficienza, poiché, nel tentativo di dimostrare la superiorità della
formazione capitalistica su tutte le altre formazioni e quindi la
superiorità del proletariato industriale su qualunque altra classe oppressa,
esso ha sempre cercato di far vedere che il capitalismo è nato grazie allo
sforzo e all'iniziativa di individui privati indipendenti.
E' sul concetto di "indipendenza" che bisogna discutere. La vera libertà
esiste solo in un collettivo democratico; se da questo collettivo ci si
emancipa, la propria personale indipendenza viene subito pagata dalla
schiavitù o servitù altrui. (Nel racconto biblico del peccato d'origine la
prima schiavitù che s'è imposta, dopo la rottura dei rapporti comunitari, è
stata quella della donna nei confronti dell'uomo).
L'emancipazione del singolo può trovare una qualche giustificazione se il
collettivo non è libero e democratico, ma anche in questo caso bisogna
ribadire il valore dei rapporti collettivi: il singolo resta un'astrazione
sociale, se si pone al di fuori di ogni contesto. Se l'individuo, traendo
pretesto dalla crisi del collettivo, si afferma soltanto come singolo, la
sua emancipazione non farà che aggravare la crisi del collettivo e non sarà,
in ultima istanza, una garanzia di sopravvivenza neppure della nuova
individualità affermata. Il singolo, senza comunità, è in grado di
sussistere solo a condizione di poter sfruttare il lavoro altrui.
VALORE D'USO E DI SCAMBIO
Tra i limiti fondamentali delle comunità primitive e pre-capitalistiche,
Marx annovera quello d'essere impostate unicamente sul valore d'uso, al
punto che dal momento in cui vengono a contatto col valore di scambio,
inizia la loro lenta disgregazione. Naturalmente a condizione che lo scambio
penetri nella comunità e non resti solo un'attività tra diverse comunità.
Dallo scambio infatti si svilupperà la divisione del lavoro, la proprietà
privata e l'antagonismo delle classi.
Questo modo di vedere le cose è di tipo deterministico o positivistico. Marx
cioè esclude la possibilità che valore d'uso e valore di scambio possano
coesistere: la presenza dell'uno esclude necessariamente quella dell'altro.
In realtà, lo scambio di per sé non uccide alcuna comunità, neppure quando è
penetrato all'interno della stessa comunità. Certo è che il primato va
concesso al valore d'uso, poiché è solo il significato dell'uso che può dare
il giusto valore allo scambio. Se chi pratica lo scambio si arricchisce a
spese della comunità, le ragioni per cui lo fa sono due: o il valore d'uso
della comunità è già entrato in crisi e un suo ripristino per via
autoritaria è ovviamente impossibile, poiché qui solo la comunità, nella sua
interezza, può decidere come regolarsi; oppure l'individuo ha compiuto un
atto arbitrario, che la comunità, consapevole dell'importanza del valore
d'uso, ha il diritto-dovere di contrastare. In questo caso o l'individuo si
riadegua liberamente alle leggi comunitarie, oppure deve abbandonare la
comunità.
Sia come sia la comunità deve saper cogliere questo fatto come un'occasione
per riflettere su se stessa, poiché se l'individuo ha cominciato a usare lo
scambio per sottomettere il valore d'uso, significa che all'interno della
comunità ci sono delle contraddizioni che spingono in questa direzione e che
se non vengono risolte in tempo, possono svilupparsi e fossilizzarsi, al
punto che la dissoluzione della comunità apparirà non come una disgrazia ma
come una liberazione.
Il valore d'uso può essere determinato solo dalla comunità nella sua
interezza. Se la comunità agisce all'unisono, il valore di scambio non agirà
mai in maniera distruttiva. Allorché accade questo, le ragioni vanno cercate
non tanto nell'arbitrio del singolo, quanto piuttosto nella crisi dei
rapporti sociali. Se il significato originario di questi rapporti viene
recuperato dall'intera comunità (locale) e rafforzato dalla consapevolezza
della loro importanza e dal timore di poterli perdere, allora il desiderio
di concedere il primato al valore di scambio rientrerà in modo naturale. I
frutti del commercio continueranno ad appartenere all'intera comunità, la
quale ovviamente premierà ogni rischio individuale.
Il segno che il valore di scambio tende a prevalere sul valore d'uso è la
comparsa del denaro. E' il denaro che permette un arricchimento individuale
illimitato, per quanto uno possa arricchirsi anche in una società ove esso
non esista affatto, servendosi semplicemente del proprio potere politico. Ma
anche una società del genere non potrebbe certo dirsi comunitaria. Quando la
comunità arriva a considerare il denaro o il potere politico come fonti di
arricchimento illimitato, ciò significa che la comunità, da tempo, non
esiste più.
In sostanza, la crisi del valore d'uso dipende dalla crisi del valore in
generale. E' dunque una questione culturale e sociale, prima ancora che
economica o politica.
LA TRANSIZIONE DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO
Marx ha affermato che le scoperte geografiche dei secoli XVI e XVII hanno
accelerato il modo di produzione capitalistico (fase della manifattura) solo
là dove le condizioni necessarie per l'applicazione di tale modo produttivo
si erano venute creando nel Medioevo. Ed egli precisa che il monopolio
privato della proprietà fondiaria costituisce la base storica del
capitalismo, in quanto già nel possesso fondiario feudale si realizza un
potere estraneo che aliena e opprime il lavoratore.
Marx però non ha mai esaminato l'ideologia (religiosa) che ha permesso una
tale evoluzione della proprietà fondiaria. Solo nella tarda maturità
comprese che nell'Europa orientale la proprietà fondiaria non aveva subìto
la stessa evoluzione di quella occidentale.
Egli capì che rispetto alla proprietà dell'antichità classica
(greco-romana), lo sviluppo del feudalesimo (nell'Alto Medioevo) rappresentò
un arretramento del processo di parcellizzazione o autonomizzazione della
terra, ma non ha capito che tale arretramento trovava la sua ragion d'essere
nell'ideologia egualitaria del cristianesimo (che nell'Europa occidentale
s'è lasciata condizionare dalle tradizioni individualistiche, mentre
nell'Europa orientale ha cercato di perfezionare le tradizioni
egualitaristiche).
Anzi, per Marx la dipendenza personale nel Medioevo rappresenta un limite
rispetto alla proprietà libera e individuale del periodo classico. Mentre in
realtà essa voleva costituire una trasformazione in positivo del rapporto
schiavistico in agricoltura. Colonato e servaggio rappresentano
un'alternativa, seppure parziale, allo schiavismo. E tale alternativa fu
resa possibile dall'ideologia del cristianesimo, non solo da fattori di
ordine socioeconomico.
Il marxismo inoltre dovrebbe chiedersi se la libera proprietà privata del
mondo classico non traeva la sua legittimazione proprio dalla presenza della
grande proprietà schiavistica. Nel senso cioè che la piccola proprietà fu
lasciata sopravvivere dai grandi latifondisti finché questi ebbero
l'opportunità di rifornirsi con relativa facilità di un numero ingente di
schiavi. La libera proprietà basata sul lavoro individuale, già rovinata
dall'esoso apparato fiscale dell'impero, scomparve definitivamente quando,
per difendersi dai barbari, i piccoli proprietari chiesero ai grandi
proprietari di entrare nella loro orbita. Essi così rinunciarono alla
libertà personale e si trasformarono in coloni o servi della gleba.
Il marxismo dovrebbe inoltre chiedersi il motivo per cui mentre in Europa
occidentale la borghesia s'è sviluppata all'interno del feudalesimo, in
Europa orientale ciò invece non è avvenuto. Se la differenza sta nel tipo di
feudalesimo, allora la ragione di questo va ricercata nelle diverse
ideologie religiose.
Non a caso è stata la Russia ad aver sperimentato alla fine del secolo
scorso (sino all'Ottobre) un certo sviluppo capitalistico: infatti, quale
nazione più della Russia, nell'Europa orientale, aveva cercato d'abbracciare
la cultura occidentale? Già al tempo di Pietro il Grande la Russia voleva
occidentalizzarsi...
CAPITALISMO E VIA NON-CAPITALISTICA
Non si è sottolineato abbastanza il fatto che Marx precisò che l'analisi del
Capitale intendeva riferirsi esclusivamente all'Europa occidentale, solo
dopo che i populisti russi avanzarono la critica che il Capitale imponeva un
atteggiamento negativo verso quei tentativi di cercare in Russia
un'alternativa non solo al feudalesimo ma anche allo stesso capitalismo.
In realtà Marx non imponeva alcun atteggiamento "negativo" verso la ricerca
della via non-capitalistica (o post-feudale): semplicemente questi tentativi
non li conosceva e, di conseguenza, dava per scontato che il capitalismo si
sarebbe affermato ovunque, prima o poi, in un modo o nell'altro, quindi
anche nella feudale Europa orientale.
E' fuor di dubbio, tuttavia, che Marx simpatizzò con l'idea di una soluzione
non-capitalistica solo dopo essere venuto a contatto col populismo russo, ed
è assai significativo, in tal senso, che fino a quando si tenne in contatto
con tale movimento, egli non ebbe mai la netta convinzione ch'esso avrebbe
potuto evitare, sic et simpliciter, lo sviluppo capitalistico della Russia.
Marx arrivò a ipotizzare un diverso sviluppo capitalistico della Russia,
legato a una rigenerazione della comune agricola (obscina). Ma su questo non
aveva delle opinioni precise. Si limitò semplicemente ad affermare che
l'obscina non avrebbe potuto bloccare il capitalismo se prima non si fossero
eliminate "le influenze deleterie" che l'assalivano da tutte le parti. Il
che però non voleva necessariamente dire che Marx stesse pensando a una
rivoluzione politica che servendosi da un lato dell'industrializzazione
capitalistica e dell'altro della comune agricola, avrebbe potuto creare una
società socialista.
La mancanza di chiarezza su una questione così complessa dipendeva, in Marx,
dal fatto ch'egli -come d'altra parte Engels- non ha mai creduto, dopo il
fallimento dell'esperienza rivoluzionaria del '48, nella possibilità di
superare il capitalismo prima che questi avesse esaurito tutte le proprie
potenzialità. Non era quindi solo questione di non conoscere delle
alternative non-capitalistiche (in atto o in potenza), ma era anche
questione di non considerare possibili tali alternative prima della fine del
capitalismo.
Marx sembrava accettare l'eventualità proposta dai populisti solo perché in
Russia il capitalismo era appena nato e quindi vi erano maggiori possibilità
di contrastarlo o di incanalarlo in una strada meno dolorosa per i
lavoratori, rispetto a quanto già era accaduto in Occidente.
Sulla "inevitabilità" del capitalismo a livello mondiale, offre eloquenti
delucidazioni la stessa Prefazione di Marx alla Ia edizione del Capitale.
Egli infatti da un lato considera l'Inghilterra la "sede classica" del modo
di produzione capitalistico, dall'altro però esclude a priori l'idea che in
Germania si possa realizzare una via non-capitalistica. Questo perché "il
paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare al meno sviluppato
l'immagine del suo avvenire".
Cioè a dire, per Marx era proprio lo sviluppo industriale del capitalismo
inglese che avrebbe obbligato gli altri Paesi a diventare capitalistici.
Ogni ritardo su questa via avrebbe avuto delle ripercussioni negative sugli
stessi lavoratori, i quali avrebbero avuto a che fare con un capitalismo
"selvaggio", preoccupato solo di recuperare il tempo perduto e di
fronteggiare la concorrenza straniera. Questo mentre in Inghilterra -dice
Marx- gli operai già si difendevano dallo sfruttamento del capitale con la
legislazione sulle fabbriche.
Così, invece di lamentarsi d'essere oppresso "non solo dallo sviluppo della
produzione capitalistica, ma pure dalla mancanza di tale sviluppo" (mancanza
dovuta al fatto che in Germania continuavano a "vegetare metodi di
produzione vecchi e sorpassati"), i tedeschi -dice Marx- avrebbero dovuto
accettare "le leggi naturali della produzione capitalistica", cercando di
"abbreviare e attutire le doglie del parto" (ciò che poi avrebbero dovuto
fare -secondo Marx- i populisti russi).
Da un lato insomma Marx non vedeva altra soluzione alla crisi del
feudalesimo che quella "naturale" del capitalismo; dall'altro non riteneva
possibile opporsi politicamente alla via capitalistica prima ch'essa non
avesse mostrato tutte le sue intrinseche contraddizioni. La politica doveva
restare subordinata al momento in cui si verificavano le crisi cicliche del
capitale.
Il "punto di vista" di Marx considerava "lo sviluppo della formazione
economica della società come processo di storia naturale", alla maniera
deterministica del positivismo allora imperante. In questo senso era giusta
la sua affermazione di non poter "fare il singolo responsabile di rapporti
da cui egli socialmente proviene". Ed altrettanto giusto era il prosieguo di
tale affermazione: "pure se soggettivamente egli possa innalzarsi al di
sopra di essi".
Tuttavia era proprio questo il punto. Se si ammette la possibilità
dell'"innalzamento"
del singolo sui rapporti sociali che lo precedono, cioè se si esclude il
rigido determinismo del positivismo, allora per quale ragione non si deve
accettare l'ipotesi di una via non-capitalistica post-feudale (o comunque di
una via non-capitalistica alla disgregazione dei rapporti
pre-capitalistici)? Per quale ragione la Russia non avrebbe potuto fare quel
che avrebbe dovuto fare la Germania? La "naturalezza" economica delle leggi
capitalistiche non poteva forse trasformarsi in "innaturalezza" per la
coscienza politico-rivoluzionaria? L'"innalzamento" di cui parla Marx
riguarda la sola coscienza individuale (che ovviamente di fronte alle leggi
capitalistiche nulla potrebbe fare) o può far parte della mentalità
collettiva? E' forse un caso che nel Poscritto alla IIa edizione del
Capitale, Marx abbia riportato una lunga citazione del russo M. Block, il
quale, specificatamente, ribadiva il ruolo subordinato della coscienza
rispetto ai fenomeni, ovvero l'inevitabilità del capitalismo?
Qui però occorre precisare, cercando di essere il più obiettivi possibile,
che quando Marx affermava l'inevitabilità del capitalismo "in tutti gli
stati del continente europeo" e anche negli Stati Uniti, aveva di mira le
classi dominanti europee, che s'illudevano, con i loro legami assolutistici
al feudalesimo, di poter fermare l'avanzata del capitalismo.
Marx non ha mai avuto torto quando sosteneva che il feudalesimo, per come
era strutturato nell'Europa occidentale, non sarebbe mai stato in grado di
fermare il capitalismo. Ciò che gli difettava era la convinzione che non
potesse esistere, in nome di valori alternativi a quelli borghesi, un modo
non capitalistico di realizzare la rivoluzione industriale.
Sul Colonialismo
Che Marx ed Engels avessero un atteggiamento ambivalente nei confronti del
capitalismo, è testimoniato anche dal fatto che la loro analisi del
colonialismo non è sempre stata coerente.
Da un lato infatti era esplicita la condanna del colonialismo come strumento
di oppressione e sfruttamento; dall'altro però essi tendevano a considerarlo
come occasione di sviluppo per popoli arretrati e "senza storia". In questo
loro giudizio pesava ovviamente il retaggio della filosofia occidentale,
specie quella hegeliana.
Nel Capitale non è affatto chiaro l'apporto determinante del colonialismo
alla realizzazione dell'accumulazione originaria. E' singolare come nel
Capitale non venga mai ipotizzata l'inevitabilità di una serie infinita di
guerre civili cui in Europa avrebbe portato l'accumulazione originaria, se
nel contempo non fossero state conquistate America, Africa e Asia. La
popolazione si sarebbe dimezzata e lo sviluppo capitalistico, se ancora ci
fosse stato, avrebbe subito un rallentamento considerevole.
Nel cap. XXV (libro I del Capitale) dedicato al colonialismo, Marx afferma
che la proprietà basata sul proprio lavoro era presente nei territori
extraeuropei successivamente colonizzati dalle nazioni capitalistiche più
industrializzate. Anche questo però è un modo astratto di vedere le cose,
poiché al tempo di Marx la proprietà libera in Asia non esisteva più, mentre
in Americalatina era già in forte disuso nel XV sec. Solo in Africa si
poteva ancora ampiamente costatare.
Marx ed Engels capivano perfettamente i limiti del colonialismo, ma, poiché
nutrivano forti pregiudizi nei confronti delle società pre-capitalistiche,
preferivano indulgere verso certe interpretazioni contraddittorie piuttosto
che dover ammettere la sostanziale inadeguatezza delle soluzioni
capitalistiche, globalmente intese, all'arretratezza dei paesi
pre-capitalistici.
In Miseria della filosofia Marx scrive: "Una delle condizioni più
indispensabili per la formazione dell'industria manifatturiera era
l'accumulazione dei capitali, facilitata dalla scoperta dell'America e
dall'introduzione dei suoi metalli preziosi... e dall'aumento delle merci
messe in circolazione dal momento in cui il commercio penetrò nelle Indie
orientali per la via del Capo di Buona Speranza, dal regime coloniale, dallo
sviluppo del commercio marittimo... dal licenziamento dei numerosi seguiti
dei signori feudali, i cui membri subalterni divennero dei vagabondi prima
di entrare nell'officina... molti contadini, cacciati di continuo dalle
campagne in seguito alla trasformazione dei campi in praterie o in seguito
al fatto che i lavori agricoli richiedevano meno braccia per la coltivazione
della terra, affluirono nelle città per secoli interi"(ed. Samonà e Savelli,
Roma 1968, p. 174).
Poi riassume dicendo: "L'allargamento del mercato, l'accumulazione dei
capitali, i mutamenti intervenuti nella posizione delle classi sociali...".
Dunque si noti:
per Marx, in questo testo, il capitalismo nasce anche e soprattutto in forza
dell'espansione dei commerci, resa possibile dalla conquista dell'America,
delle Indie ecc.;
egli non sembra riporre le cause della nascita del capitalismo soltanto
all'interno della nazione capitalistica, ma le fa dipendere anche
dall'esterno, soprattutto dalla conquista militare di paesi non europei.
Viceversa, nel Capitale (cap. XXIV) Marx dirà che il capitalismo nasce tutto
all'interno della nazione mercantile; il rapporto con le colonie è marginale
o comunque conseguente rispetto al ruolo che ha avuto il commercio interno,
che, raggiunto un certo livello, ha appunto generato il capitalismo e che,
raggiunto un livello superiore, genera il colonialismo. In pratica il
ragionamento del Marx maturo è di tipo hegeliano: da una serie di
determinazioni quantitative ad un certo punto sorge una nuova qualità.
Il giovane Marx era invece convinto che il commercio interno si fosse
sviluppato grazie soprattutto al commercio estero, che, a sua volta,
dipendeva dal colonialismo.
Le domande rimaste senza risposta nel periodo giovanile portarono il Marx
della maturità a formulare delle tesi fataliste.
In realtà il marxismo non ha mai spiegato perché il colonialismo sia una
caratteristica tipica dell'Europa occidentale e soprattutto perché la
nascita del capitalismo abbia favorito in maniera decisiva soltanto in
Europa occidentale (specie nei paesi protestanti) la nascita del
capitalismo.
L'Italia comunale, con le sue città marinare, era già un paese colonialista
(attività commerciale + attività militare) nei confronti del Medio Oriente
(sin dai tempi delle crociate), e tuttavia non diventò un paese capitalista
industriale, ma si fermò allo stadio commerciale; anzi, con la controriforma
regredì a livelli para-feudali. Anche la Polonia, tra i paesi cattolici
nord-europei, reagì al progredire del capitalismo delle nazioni vicine,
accentuando il peso del servaggio.
Spagna e Portogallo, che pur erano già delle nazioni, ebbero bisogno di
diventare prima di tutto paesi colonialisti, al fine di poter fronteggiare
la concorrenza dei nuovi paesi manifatturieri del Nord Europa: eppure gli
imperi coloniali che riuscirono a creare non servirono loro per diventare
potenze industriali.
Questo significa che se il colonialismo appartiene come eredità culturale
all'Europa occidentale pre-industriale (anzi, addirittura pre-borghese), il
capitalismo invece ha bisogno di un terreno culturale specifico, quale solo
la religione protestante poteva offrire.
Singolare inoltre il fatto che Marx abbia visto nel colonialismo soprattutto
la possibilità per l'operaio salariato immigrato di diventare un
capitalista. Marx cioè non ha mai analizzato il rapporto di stretta
dipendenza che legava le colonie alla madrepatria occidentale. Eppure il
colonialismo era iniziato con la scoperta-conquista dell'America. Era cioè
tempo di rendersi conto che il capitalismo non è mai stato un fenomeno
tipicamente euroccidentale, nato in Inghilterra e da qui trasferito in tutto
il mondo. Esso in realtà è nato come fenomeno mondiale.
In altre parole, senza colonialismo non ci sarebbe stato il capitalismo, che
non avrebbe potuto sopravvivere nel mero ambito dell'Europa occidentale.
Esso aveva necessariamente bisogno di espandersi ovunque fosse possibile.
Marx insomma considerò il colonialismo un effetto del capitalismo, mentre
esso in realtà ne è una concausa.
Non bisogna inoltre mai dimenticare che proprio in virtù dell'apporto
decisivo delle colonie allo sviluppo delle metropoli europee, la borghesia
imprenditoriale ha potuto corrompere, con salari relativamente alti, una
parte del proletariato, creando la cosiddetta "aristocrazia operaia".
In Occidente il proletariato industriale è sì sfruttato dalla classe dei
capitalisti, ma insieme essi partecipano, secondo proporzioni diverse, allo
sfruttamento dei proletari del Terzo Mondo. E' quindi dubbio, sotto questo
aspetto, che il proletariato occidentale potrà mai solidarizzare col
proletariato terzomondista finché resterà immutata questa copertura
favorevole all'occidente e allo sfruttamento delle ingenti risorse umane e
materiali del Terzo Mondo.
* * *
Il capitalismo nasce da un centro (l'Europa occidentale), ma ha bisogno
immediatamente di una periferia per svilupparsi. La periferia può essere
cercata inizialmente all'interno della stessa nazione che ha imboccato la
strada del capitalismo (il Mezzogiorno p.es. può essere considerato una
colonia interna dell'Italia), ma, poiché il capitale ha bisogno di una
riproduzione allargata... ed è così che la Luxemburg spiega la necessità
intrinseca del colonialismo.
In realtà noi vorremmo fare un discorso più culturale: poiché il
capitalismo, per evolversi, ha bisogno di una ideologia favorevole alla
libertà individuale e poiché la consapevolezza di questa libertà porta a un
atteggiamento di ribellione nei confronti delle imposizioni (vedi la
resistenza prima contadina poi operaia durata sino alla fine del XIX secolo,
ma in Italia, p.es., sino alla fine della mezzadria e alla costituzione del
movimento cooperativistico), il capitalismo, ad un certo punto, per
riprodursi agevolmente, ha bisogno di espandersi in territori periferici
extranazionali, ove il livello culturale sia più basso di quello nazionale.
Il capitalismo, infatti, da un lato, per imporsi, deve promettere benessere
per tutti, dall'altro però non può mantenere le proprie promesse, poiché il
benessere di pochi è frutto della miseria di molti. Di qui l'esigenza di
sfruttare altri lavoratori, di paesi coloniali, il cui livello culturale è
troppo basso perché siano in grado di ostacolare lo sviluppo del capitale e
il cui grado di sfruttamento sia tale da permettere al capitalismo
metropolitano di soddisfare le esigenze di libertà (economica e culturale)
dei lavoratori occidentali. Ecco perché là dove esiste solo "precarietà di
mezzi" o produzione per l'autosussistenza, il capitalismo crea miseria,
degrado e sottosviluppo.
Questo significa che fino a quando i lavoratori del Terzo Mondo (il
sottoproletariato) non si emanciperanno dallo sfruttamento imperialistico (e
non solo dalla dipendenza politica), sarà molto difficile che i lavoratori
dei paesi occidentali lottino per la realizzazione del socialismo.
Lenin aveva già capito molto bene che in presenza dell'imperialismo, la
consapevolezza rivoluzionaria della classe operaia occidentale arriva a
porre, come massimo, delle rivendicazioni di tipo sindacale, cioè perde
quell'istinto sociale alla rivoluzione che invece Marx le aveva
riconosciuto, condizionata com'è e da un relativo benessere pagato altrove e
dai potenti mezzi persuasivi (propagandistici) del capitale.
Quando Lenin cominciò a predicare la necessità di offrire dall'esterno una
vera consapevolezza rivoluzionaria, egli non fece altro che constatare una
situazione di fatto: spontaneamente gli operai occidentali, nel sistema
dell'imperialismo, non sono rivoluzionari ma piccolo-borghesi, non meno
degli intellettuali di sinistra che li rappresentano.
Commento di Balibar al cap XXIV del Capitale
(L. Althusser - E. Balibar, Leggere il Capitale, ed. Feltrinelli, Milano
1971)
Balibar esordisce osservando giustamente che la transizione dal capitalismo
al socialismo non può essere il frutto di una progressiva evoluzione da una
struttura a un'altra, in quanto occorre una vera e propria "rottura", un
momento di "dissoluzione": "il passaggio da un modo di produzione a un
altro, per esempio dal capitalismo al socialismo, non può consistere nella
trasformazione della struttura attraverso il suo stesso funzionamento, cioè
a dire in nessun passaggio dalla quantità alla qualità"(p. 294).
Tuttavia, dice Balibar, il cap. XXIV del Capitale sembra prospettare proprio
una soluzione del genere: "la trasformazione come un processo dialettico di
negazione della negazione"(p. 295). Marx infatti ne parla così: "la
produzione capitalistica genera essa stessa, con l'ineluttabilità di un
processo naturale, la propria negazione. E' la negazione della negazione. E
questa non ristabilisce la proprietà privata, ma invece la proprietà
individuale fondata sulla conquista dell'era capitalistica, sulla
cooperazione e sul possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione
prodotti dal lavoro stesso"(p. 61 nell'edizione di Marx). Il ragionamento di
Marx -come si può notare- è di tipo hegeliano: se la tesi è il capitale e
l'antitesi il proletariato che gli si oppone, la sintesi è una formazione
sociale che supera entrambe le opposizioni, conservandone gli aspetti che
meritano d'essere riprodotti. Quindi non più un ritorno alla proprietà
pre-capitalistica, in cui non c'era cooperazione, collettivizzazione dei
mezzi produttivi ecc., ma la nascita di un nuovo modo di lavorare. Come ciò
materialmente possa avvenire non è dato di sapere, in quanto Marx parla di
"ineluttabilità di un processo naturale".
Balibar non ha dubbi nell'affermare che "l'analisi dell'accumulazione
originaria [in tal senso] appare relativamente indipendente dall'analisi
propriamente detta del modo di produzione, anzi come un'enclave di storia
'descrittiva' in un'opera di teoria economica"(p. 295). Il cap. XXIV sembra
infatti suggerire l'idea "che il modo di produzione (capitalistico) si
trasformi 'da sé' attraverso il gioco della sua propria 'contraddizione',
cioè a dire della propria 'struttura'"(ib.).
Su questo bisogna aprire una parentesi. Se il cap. XXIV suggerisce l'idea di
cui parla Balibar, secondo noi non è cosa di cui ci si dovrebbe preoccupare
più di tanto, in quanto è fuor di dubbio che il capitalismo ha in sé
contraddizioni così antagonistiche che o il suo superamento deve essere
considerato inevitabile, o inevitabile sarà l'acuirsi degli antagonismi,
fino alla possibile autodistruzione del genere umano, come le due guerre
mondiali hanno già lasciato presagire: se nazioni come Cina, India, Russia,
Brasile... pretendessero di rimettere in discussione, in chiave
imperialistica, la ripartizione del mondo anche a costo di scatenare un
nuovo conflitto mondiale, è dubbio, con il potenziale bellico attuale, che
l'umanità riuscirebbe a sopravvivere a se stessa.
Semmai sono i modi per realizzare la transizione al socialismo che
meriterebbero d'essere oggetto di discussione. La specie umana non è votata
all'autodistruzione né a vivere rapporti sociali antagonistici, per quanto
la necessità di vivere rapporti sociali di tipo collettivistico debba essere
considerata solo come una possibilità soggetta a decisione libera e
consapevole, non potendo essere una necessità imposta da qualcosa, sia
questa la storia o la natura. Oggi siamo più che convinti che la
consapevolezza della necessità di questi rapporti deve sempre prevedere un
loro rifiuto non meno consapevole.
La perestrojka gorbacioviana è stata in fondo la presa di coscienza che la
libertà non può mai essere imposta, neanche in nome della verità, e che una
qualunque sua imposizione è una forma di dittatura politica. E' vero che i
paesi est-europei non sono passati dal collettivismo forzato a quello
libero, ma è anche vero che quelli dell'ovest non hanno ancora sperimentato
alcuna forma di socialismo. Cioè mentre all'est hanno avuto il coraggio di
rinunciare al collettivismo forzato, qui invece non si è ancora avuto
analogo coraggio di mettere in discussione il forzato individualismo. Chiusa
la parentesi.
Molto interessante il fatto che Balibar si sia accorto che "anche il modo di
produzione capitalistico appare [nel suddetto capitolo] come il risultato
dell'evoluzione spontanea della struttura"(ib.).
L'affermazione è interessante perché in effetti l'impressione è proprio
quella. Oggi nessuno è in grado di escludere l'idea di una certa
"continuità" nel passaggio dal servaggio al lavoro salariato, come d'altra
parte la si può notare nel passaggio dallo schiavismo al servaggio.
Tuttavia, ogni forma di passaggio (di transizione) implica, secondo noi, e
inevitabilmente, anche una sorta di "discontinuità" nelle forme sociali che
si susseguono, che lottano per imporsi: nel senso che non bisogna mai dare
per scontata l'evoluzione di un determinato sviluppo socioeconomico.
Questo però significa che nel processo di affermazione di una forma di
transizione in luogo di un'altra devono concorrere fattori che non sono
strettamente economici ma extraeconomici, cioè sostanzialmente culturali o,
se si preferisce, sovrastrutturali (teologia, filosofia, diritto, politica
ecc.). La discontinuità è in stretta correlazione anche con le elaborazioni
teoriche che, in maniera più o meno originale, producono le classi
intellettuali o dirigenti, e che sono conseguenti al mutamento di
determinate condizioni socioeconomiche. Insomma non c'è mai transizione
spontanea senza un qualche riflesso consapevole tra le fila degli
intellettuali.
Senonché proprio su questo il marxismo classico (escluso ovviamente il
leninismo e il gramscismo) ha sempre sofferto di un limite nell'analisi
storica: non a caso è noto il riduzionismo di tale analisi a una storia
dell'economia. Si è tanto più appoggiata l'idea di una transizione
"spontanea" da una formazione a un'altra, quanto meno si andava a cercare
nella sovrastruttura quelle motivazioni teoriche che in un modo o nell'altro
avrebbero potuto favorirla.
Balibar ovviamente condivide la critica marxiana dell'economia politica
classica che vede nelle leggi del capitalismo qualcosa di "naturale" o di
"sovrastorico", mentre sappiamo che il capitalismo è frutto di un processo
drammatico in cui il lavoratore è stato forzatamente separato dalla
proprietà dei mezzi produttivi o comunque da un loro uso relativamente
autonomo (come appunto nel servaggio).
Con molto acume Balibar ha capito come uno dei fondamentali problemi attorno
a cui Marx s'è spesso arrovellato senza mai trovare una soluzione definitiva
o quanto meno convincente, e per il quale oggi ci vorrebbe un nuovo Marx,
che riprendesse le tesi di Gramsci e che avesse nel contempo una grande
padronanza della scienza economica, è stato il seguente: "la storia della
separazione tra il lavoratore e i mezzi di produzione non ci dà il capitale
monetario [e qui Balibar riporta la domanda cruciale di Marx: "di dove
vengono originariamente i capitalisti? Poiché l'espropriazione della
popolazione rurale crea in via immediata soltanto dei grandi proprietari
fondiari"(p. 35 nel libro di Marx)]; da parte sua la storia del capitale
monetario non ci dà il lavoratore 'libero'"(p. 302).
Ovviamente ogni storico sa benissimo che nell'ambito delle leggi specifiche
del servaggio e della rendita feudale non è mai esistita da alcuna parte una
"espropriazione della popolazione rurale" che permettesse di generare dei
"grandi proprietari fondiari". Si era "grandi proprietari" in rapporto
diretto alla grandezza della popolazione da sfruttare, e la rendita non
permetteva comunque uno sfruttamento che andasse oltre un certo fabbisogno
naturale.
Quando l'esproprio ha cominciato a verificarsi in maniera così drammatica si
era già in presenza, da qualche parte, di processi di produzione che si
ponevano in antagonismo con quelli classici della rendita feudale.
L'espropriazione dei contadini è la risposta capitalistica di un
proprietario fondiario (il gentleman) che vuole continuare a vivere di
rendita in forme e modi diversi, ma non è esattamente questo che fa nascere
il capitalismo, anche se certamente contribuisce a svilupparlo.
Un atteggiamento del genere presuppone già una rivoluzione
economico-commerciale (che nel XVI sec. era sicuramente presente in Olanda e
nelle Fiandre in particolare), ma anche una rivoluzione culturale, non
trattata nel suddetto cap. XXIV, ove non si prendono in esame le idee della
Riforma (da John Wycliffe sino al calvinismo scozzese più radicale).
"La formazione delle fortune mobiliari -dice Balibar- è prodotta dal
capitale commerciale e da quello finanziario il cui movimento avviene fuori
di queste strutture, 'marginalmente'..."(p. 302).
La seconda parte di ciò che scrive Balibar -ripresa da Marx- non è meno
vera. La storia del capitale monetario (in cui può essere coinvolta una
determinata zona geografica non europea: p.es. la Cina, l'India o il mondo
islamico) non ci dà il lavoratore "libero". Infatti la "libertà giuridica"
sembra essere un connotato specifico della formazione capitalistica.
L'operaio può essere "sfruttato" appunto in quanto persona "libera". Il
capitalismo concede una libertà "formale" per poter imporre una diversa
schiavitù sostanziale.
Una rivoluzione del genere -qui bisogna dirlo senza equivoci, ma Balibar non
lo dice-, che è insieme sociale e culturale, poteva essere compiuta solo
nell'ambito di un'ideologia che nel contempo avesse radici cristiane e
posizioni anticristiane.
La tesi che sosteniamo è dunque la seguente: il tradimento di queste radici
cristiane raggiunse l'apogeo col protestantesimo, specie nella sua variante
calvinista, ma esso era iniziato molto tempo prima, con la stessa
separazione del cattolicesimo-romano dall'ortodossia greco-bizantina;
separazione che è avvenuta intorno al Mille, ma le cui basi erano state
poste alcuni secoli prima, con la creazione del Sacro Romano Impero
d'Occidente (sulla base del compromesso tra i Franchi e la Chiesa di Roma),
con la creazione del potere temporale del papato e con la revisione
ideologica delle fondamentali tesi cristiane (dal Filioque al dogma
dell'infallibilità pontificia).
Dice Balibar, chiosando con grande acume Marx: "gli elementi di cui si fa la
genealogia hanno esattamente una collocazione 'marginale', cioè a dire non
determinante"(p. 303). Il capitalismo, in altre parole, nasce in virtù di
elementi che nell'ambito del feudalesimo sono del tutto marginali rispetto
al modo di produzione dominante e che pur tuttavia riescono a scardinarlo; e
riescono a farlo -qui sta la stranezza- dapprima in un contesto geografico
che sul piano culturale era relativamente omogeneo (l'area protestante del
Nord-Europa e degli Stati Uniti), e secondariamente nell'area cattolica di
tutti gli altri paesi europei, che ad un certo punto s'è vista indotta ad
accettare la svolta.
La conclusione di Balibar si pone solo come occasione di ulteriori
approfondimenti, perché in sé non è sufficiente a chiarire i passaggi
culturali che hanno portato alla nascita del capitalismo. Lui stesso lo
dice: "nell'analisi dell'accumulazione originaria non abbiamo tratto tutte
le conseguenze"(p. 305).
Scrive, in particolare: "la formazione del modo di produzione capitalistico
è totalmente indifferente all'origine e alla genesi degli elementi di cui
abbisogna, che essa 'trova' e 'combina'"(p. 304).
Questo è vero sino a un certo punto, proprio perché la differenza si pone
nel modo di "combinare" gli elementi: un "modo" che, a sua volta, deve
riflettere un "criterio" o una forma di rappresentazione teorica della
realtà ben specifica e nient'affatto irrilevante. Se queste forme non sono
ancora state trovate è perché si è andati a cercarle in luoghi sbagliati, in
cui fosse visibile, evidente, il nesso tra teoria e prassi capitalistiche.
In realtà i nessi, i fili che collegano le entità sono invisibili e vanno
cercati in quelle espressioni del pensiero che solo indirettamente producono
effetti sulle relazioni sociali, sul comportamento degli individui, sul
costume, sui modi di pensare...
Queste forme di pensiero sono squisitamente teologiche e vanno cercate in
tutta quella produzione ideologica che va appunto, come si diceva,
dall'elaborazione del Filioque sino alla Riforma protestante (i dogmi
cattolici successivi alla Riforma costituiscono solo un tentativo maldestro
della chiesa romana di sopravvivere come istituzione feudale in un modo
sempre più borghese).
Il lavoro da fare è immane e potrà essere svolto solo da un'équipe di
intellettuali che partano da presupposti scientifici appartenenti non solo
all'umanesimo laico ma anche al socialismo più democratico, intellettuali
capaci di analizzare la struttura come Marx e la sovrastruttura come
Gramsci.
* * *
La seconda parte del testo di Balibar (prima del paragrafo 4, che è il più
interessante) riflette in un certo senso i limiti politici del marxismo
occidentale e quindi l'esigenza che ad esso venga associato il grande
contributo del leninismo, poiché quest'ultimo ha capito, meglio di ogni
altra corrente, che il marxismo non è solo una critica del capitalismo ma
anche una prassi politica per realizzare il socialismo.
Balibar non può nascondersi che nel cap. XXIV del Capitale, ancorché si
lasci indefinito il modo di realizzare la transizione, vi sono passi che
possono essere interpretati nel senso di una progressiva evoluzione dal
capitalismo al socialismo, fatta salva la conditio sine qua non della
garanzia del processo, e cioè l'esproprio della proprietà privata
capitalistica.
Ebbene, su questo -come noto- il leninismo è sempre stato categorico:
l'espropriazione dei capitalisti può essere solo il frutto di una
consapevole rivoluzione, quanto cruenta o incruenta solo il livello di
resistenza degli stessi capitalisti potrà deciderlo.
Le contraddizioni strutturali del capitalismo -si chiede Balibar, all'inizio
degli anni '70- possono essere il "motore" del suo superamento?(p. 307) Sì,
ma a condizione che nello stesso tempo si formi un soggetto rivoluzionario
che le sappia svolgere nella maniera più democratica possibile. Sarebbe
infatti insensato pensare a un processo automatico di transizione, quando la
stessa nascita del capitalismo ha comportato, da parte della borghesia,
notevoli battaglie teoriche e pratiche contro il feudalesimo e il
clericalismo.
Balibar vuole qui giustificare i ritardi della transizione, limitandosi a
dire che la tendenza al superamento del capitalismo "si realizza solo alla
lunga"(p. 308). E poi prosegue dicendo che esiste una legge obiettiva
(quella della caduta tendenziale del saggio di profitto) che pur portando al
superamento del capitalismo, di fatto viene ostacolata da "circostanze
esterne che non dipendono da essa e la cui origine rimane (per il momento)
inspiegata"(p. 308).
Queste "circostanze esterne" sono in realtà l'assenza di un vero movimento
rivoluzionario, ovvero la presenza di rapporti imperialistici così forti tra
Occidente e Terzo Mondo, da rendere la coscienza rivoluzionaria prigioniera
di questi rapporti. Gli intellettuali occidentali più progressisti sanno che
il capitalismo va superato, ma non si pongono il problema di come farlo,
perché la loro condizione sociale, nei rapporti imperialistici, è analoga a
quella di una classe di privilegiati, in grado di vivere un'esistenza più o
meno agiata.
Balibar in sostanza è convinto che occorra attendere l'acuirsi della
suddetta caduta tendenziale dei profitti: cosa che inevitabilmente porterà
ad aumentare il grado di sfruttamento del lavoro e il livello di concorrenza
tra i capitali e quindi, se l'estensione della scala della produzione avrà
raggiunto limiti insuperabili (quali siano però non viene specificato), il
rischio reale di conflitti insanabili tra le classi.
Il fatto è però -lui stesso lo dice- che il capitale sembra essere in grado
di risolvere i guasti della propria struttura attraverso periodiche crisi di
riproduzione, realizzando così una sorta di relativo equilibrio (fino alla
prossima drammatica crisi). Tuttavia, dice ancora Balibar, l'equilibrio è
solo apparente: i limiti del capitale sono in realtà quelli del capitale
stesso, che paiono essere risolti -e qui Balibar riprende Marx- solo perché
vengono posti "su scala nuova e più alta".
* * *
Nell'ultimo paragrafo: Caratteristica delle fasi di transizione, Balibar
sostiene che Marx, nel cap. XXIV, ha descritto le origini ma non gli inizi
del capitalismo. Sembra un sofisma, ma ha ragione, perché in quel capitolo
non c'è un'analisi vera e propria della transizione dal feudalesimo al
capitalismo. Le enclosures, p.es., vengono imposte quando la mentalità dei
landlords era già sostanzialmente di tipo borghese. Lo stesso Marx afferma
che, mentre la vecchia nobiltà feudale era stata inghiottita dalle grandi
guerre feudali (qui si devono presumere quella esterna dei Cento Anni con la
Francia [1337-1453] e quella interna delle Due Rose [1455-1485]), la nuova
nobiltà, invece, "era figlia del proprio tempo per il quale il denaro era il
potere dei poteri"(p. 10 del testo di Marx): di qui l'esigenza di
trasformare i campi arativi in pascoli per le pecore. Col che però egli non
spiega come essi si fossero formati tale "mentalità".
Tuttavia Balibar pensa che si possano trovare gli "inizi" del capitalismo
nella manifattura, che in effetti fu presente anche in Italia, dove però il
capitalismo industriale nascerà tre secoli dopo.
Secondo noi si può dire quel che si vuole sulle differenze di "forma" tra
manifattura e industrializzazione capitalistica, resta comunque fuor di
dubbio che con la manifattura era già stata posta in essere una decisione
consapevole in direzione del capitalismo, cioè di una netta fuoriuscita dal
modo di produzione feudale. Tant'è che già con la manifattura si ha a che
fare con produttori totalmente privi di proprietà, ancorché sfruttati sulla
base delle loro specifiche competenze o abilità e non sulla base di un
processo produttivo le cui dinamiche fossero a loro del tutto estranee.
Nella manifattura il lavoratore è ancora padrone (in senso morale) della
macchina (a volte anche in senso materiale, se la manifattura non è
concentrata in un unico luogo); nel capitalismo è sempre vero il contrario.
La manifattura è una forma di transizione verso il capitalismo industriale:
a noi invece interessa una forma di transizione dal servaggio al lavoro
salariato in cui l'elemento culturale abbia giocato un ruolo chiave di
legittimazione, ne fossero o no consapevoli i protagonisti.
Molto più interessante, in tal senso, è l'affermazione di Balibar secondo
cui nei processi di transizione coesistono differenti modi di produzione che
potrebbero essere oggetto di un'analisi sincronica di una futura ricerca
marxista (p. 331). Ricerca che però noi non abbiamo mai visto, a parte
qualche spunto offerte dalle ricerche di Groethuysen.
E' evidente infatti che se il capitalismo si è sviluppato nel Medioevo, ciò
è potuto avvenire perché ad un certo punto quel che era un'eccezione è
diventata una regola e diventando tale essa ha finito col modificare
radicalmente tutte le forme dell'attività produttiva dominante in
precedenza.
Un'analisi sincronica del genere dovrebbe altresì sviluppare il fatto che la
borghesia, per imporsi come classe, si è servita del diritto e della
politica dello Stato come arma di offesa ideologica nei confronti della
popolazione interna alla propria nazione ed esterna (nelle colonie), a
testimonianza che il borghese, come soggetto economico, ha saputo far leva
su intellettuali e politici non meno borghesi di lui (cfr p. 330).
Non ha più senso studiare la storia della formazione delle monarchie
nazionali dal punto di vista meramente politico (o politico-religioso, se si
pensa alle infinite guerre di religione che devastarono l'Europa). Occorre
avere una visione sincretica e mettere sullo stesso piatto della bilancia
gli aspetti sociali, culturali e politici.
Conclusioni
Nell'analisi del feudalesimo gli storici pongono lo spartiacque che divide
l'Alto dal Basso intorno al Mille, allorché effettivamente si verificò una
rivoluzione culturale di tipo borghese.
In realtà questa rivoluzione è stata resa possibile perché la chiesa romana
aveva posto le basi, già col conferimento (abusivo) del titolo di imperatore
del Sacro Romano Impero a Carlo Magno, ai fini di un progressivo distacco
politico, amministrativo e ideologico dal mondo bizantino-ortodosso.
Se non si comprende che la rivoluzione economica borghese è stata non
ovviamente prodotta ma comunque resa possibile dalla involuzione
politico-ideologica della chiesa romana, che ha spezzato l'unità imperiale
cristiana sotto tutti i punti di vista, noi, sul piano culturale, non avremo
mai le coordinate spazio-temporali della transizione dal feudalesimo al
capitalismo.
Soprattutto non si riuscirà mai a comprendere il motivo per cui al porsi di
determinate condizioni economiche favorevoli al sorgere o allo sviluppo del
capitalismo, può di fatto accadere anche un regresso verso forme di
produzione para-feudali, di cui l'Italia controriformista costituisce
l'esempio più eclatante.
La recrudescenza del feudalesimo nell'Europa orientale alla fine del XV sec.
è appunto la dimostrazione che in quei territori non erano state ancora
poste le basi di un'autentica rivoluzione culturale.
E' vero, l'Italia umanistica e rinascimentale aveva posto ampiamente tali
basi, e tuttavia qui la classe borghese ha rivelato la sua pochezza nel
momento in cui non ha saputo trasformare le proprie conquiste culturali in
una battaglia politica contro la reazione clerico-feudale. Se l'Umanesimo e
il Rinascimento avessero lottato politicamente è probabile che non ci
sarebbe stata neppure una Riforma protestante (almeno non in Italia), in
quanto l'ideologia umanistica era già talmente evoluta da considerare come
irrilevante una "riforma" della "religione cattolico-romana", in quanto
ampiamente sufficiente una separazione degli ambienti laici da quelli
religiosi.
Tutta la cultura del '400 e del '500 (e quella scientifica del '600), ma
anche certa cultura del '300 (si pensi a Marsilio da Padova, cui John
Wycliffe s'ispirò) era chiaramente orientata a tenere separati i campi
d'indagine e d'intervento, e solo per esigenze di opportunità politica si
ammetteva la possibilità di un compromesso con le istituzioni
ecclesiastiche.
Gli intellettuali italiani avevano raggiunto livelli culturali
incredibilmente elevati per quei tempi, specie in relazione alle esigenze
della laicità, e solo a motivo del loro distacco aristocratico dalle masse
non si riuscì a tradurre politicamente le loro conquiste culturali e
scientifiche. Probabilmente l'Italia, se avesse avuto questo coraggio,
sarebbe giunta, prima di altri paesi europei, a realizzare il capitalismo
industriale, proprio perché la maggior parte di questi intellettuali nutriva
idee di stampo borghese.
Il fatto che ciò non sia avvenuto, se non secoli dopo, deve farci
riflettere. E' stato forse un bene per l'Italia essere giunta relativamente
tardi al capitalismo, visto e considerato che in Inghilterra questa
introduzione comportò dei rivolgimenti che dir "tragici" è poco? E' stato
forse un bene per l'Italia non essere arrivata a tempo debito al capitalismo
e aver continuato, in maniera anacronistica, sulla strada del
tardo-feudalesimo? (Si badi: l'anacronismo non rispetto al capitalismo delle
altre nazioni: Olanda, Inghilterra..., ma rispetto alle palesi
contraddizioni dello stesso feudalesimo, che gli intellettuali italiani
avevano preso a contestare sin dal secolo XI).
Che possibilità reali aveva l'Italia umanistica e rinascimentale o anche
quella controriformistica di realizzare una riforma del feudalesimo senza
finire nelle contraddizioni antagonistiche del capitalismo? Esistono in tal
senso delle testimonianze documentate che ci autorizzano a formulare
un'ipotesi del genere?
Può essere considerato storicamente giustificabile (a prescindere dalle
forme oppressive in cui ciò di fatto si è manifestato) l'accettazione, da
parte della società italiana del '600, dei rapporti politici dominanti,
orientati verso il predominio delle istituzioni clerico-feudali, contro le
tesi intellettuali in direzione dello sviluppo borghese dei rapporti
produttivi?
Roman Rosdolsky, Genesi e struttura del "Capitale" di Marx
(ed. Laterza, Bari 1971)
Secondo Rosdolsky Marx non fece, nel cap. XXIV, una storia vera e propria
della transizione dal feudalesimo al capitalismo, in maniera ortodossa dal
punto di vista della metodologia storica, semplicemente perché non ne ebbe
il tempo (p. 315 n. 3).
Nei Grundrisse lo stesso Marx afferma che "per enucleare le leggi
dell'economia borghese, non è necessario scrivere la storia reale dei
rapporti di produzione", in quanto basta -aggiungiamo noi- la fenomenologia
dell'economia. E tuttavia Marx si era proposto di fare anche un lavoro di
ricerca storica vera e propria.
Senonché Rosdolsky secondo noi ha sottovalutato la difficoltà di Marx, in
quanto per poter fare una vera storia dell'economia (della transizione al
capitalismo) occorre un approccio storico che non può privilegiare
l'economico su tutto. A Marx ha sempre fatto difetto l'analisi integrata
degli aspetti culturali con quelli sociali ed economici del capitalismo,
specie in relazione alle sue origini storiche.
* * *
Interessante la sottolineatura che Rosdolsky fa circa un'apparente
contraddizione di Marx che in alcuni testi, elencando le epoche della storia
economica comincia non col comunismo primitivo ma coi modi di produzione
asiatici, mentre in altri fa discendere tutta la storia della civiltà dal
comunismo primitivo (la proprietà comune naturale spontanea), ribadendo che
questa è la forma originaria (Urform) riscontrabile in Asia, presso gli
antichi romani, presso gli slavi e i germani, i celti ecc. (n. 17 di p.
321).
Cioè a dire per Marx non è mai esistito un modo di produzione asiatico
particolare, che non rientrasse in quelli già enumerati: comunismo
primitivo, schiavismo, servaggio, capitalismo e socialismo.
Rosdolsky però avrebbe dovuto sottolineare due cose: 1) che al tempo di Marx
gli studi sul comunismo primitivo erano scarsissimi, 2) che Marx ha sempre
ritenuto necessario il passaggio dal comunismo primitivo alle civiltà: il
che ha sempre reso limitata la sua analisi del processo di transizione dal
capitalismo al socialismo.
* * *
Rosdolsky ha ben capito che Marx s'è arrovellato tutta la vita senza trovare
una soluzione soddisfacente al seguente problema: il capitalismo non viene
dalla proprietà fondiaria, né dalle corporazioni, ma dal patrimonio
mercantile e usurario. E' un prodotto della circolazione monetaria avanzata.
Tuttavia la circolazione è solo uno dei presupposti, non l'unico, altrimenti
il capitalismo si sarebbe dovuto formare anche nell'antica Roma, a Bisanzio
ecc. Dunque come spiegare l'arcano?
Nella n. 26 di p. 323 Rosdolsky riporta una frase molto importante di Marx,
presa dal libro III del Capitale: il capitalismo è il prodotto dello
sviluppo del capitale commerciale, ma anche di "altre circostanze".
Dice Rosdolsky: "non fu dunque la ricchezza monetaria in quanto tale, ma il
processo storico della separazione dei mezzi di produzione dal lavoro e dal
lavoratore, a fare dei mercanti e possessori di denaro dei secoli XV-XVII
dei capitalisti"(p. 324).
Tuttavia, il processo se è "storico" non può essere solo "economico": è
anche sociale, culturale e politico. Solo allorché questo processo ebbe
raggiunto "un certo stadio" -dice Marx- si verificò la nascita del
capitalismo. Può questo stadio essere misurato con un metro meramente
quantitativo? Secondo noi no. Non possono essere state determinazioni
quantitative progressive a generare una nuova qualità, poiché qui si ha a
che fare con una qualità troppo diversa. Tra schiavismo e servaggio le
varianti sono infinitamente minori rispetto a quelle tra servaggio e lavoro
salariato.
Marx ha individuato un processo storico di dissoluzione del modo di
produzione feudale, ma non ne ha individuato gli intrecci tra riflessione
culturale e produzione economica. Egli ha cercato in tutti i modi di evitare
che nelle sue analisi economiche si rischiasse di cadere nel circolo vizioso
di cui parla nel cap. XXIV del Capitale (vedi n. 30 di Rosdolsky). Ma non si
può uscire da questo circolo senza uno studio approfondito dei possibili
nessi tra una cultura teologica non ancora espressamente protestante e una
prassi economica non ancora espressamente borghese. Qui c'è uno scarto che
va ancora colmato.
Le origini culturali del capitalismo sono nell'individualismo, che nella
società feudale era rappresentato dai vertici della gerarchia
cattolico-romana (culturalmente superiore ai vertici delle popolazioni
cosiddette barbariche) e quindi dalle elaborazioni teologiche degli
intellettuali che hanno giustificato quell'individualismo.
Il processo di separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione è
potuto avvenire perché la chiesa romana aveva già realizzato il processo di
separazione dei propri vertici gerarchici dall'ecumene cristiano: il che
mise la chiesa in grado di tollerare, al proprio interno, in maniera lenta
ma progressiva, lo sviluppo di una prassi economica che di cristiano aveva
sempre meno, quella prassi che porterà alla nascita della figura del
mercante cristiano e poi del borghese cristiano.
Questa prassi non era dominante nel Medioevo, però la chiesa romana assunse
un atteggiamento sempre più benevolo, sempre più concessivo, di fronte alle
continue richieste di autonomia e di profitto privato dei mercanti, finché
il processo le sfuggì di mano.
Quando si accorse che la classe mercantile poteva minacciare il suo potere
politico, era troppo tardi per tornare indietro, e i tentativi di fermare la
storia indirizzata verso il trionfo del capitale, come p.es. la
Controriforma, non fecero che ritardare di secoli un processo che, stante
quelle condizioni, doveva comunque imporsi.
Commento al cap. 4 "Lo sviluppo del Capitale"
del Trattato marxista di economia di E. Mandel (vol. I)
(ed. ErreEmme, Roma 1997)
Mandel parte subito male: "Il sovrapprodotto agricolo è la base di ogni
sovrapprodotto e quindi di ogni civiltà"(p. 163). Anche in queste
affermazioni apparentemente banali possono celarsi grandi limiti.
Attribuire la nascita delle civiltà, cioè di formazioni sociali basate sulla
divisione in classi contrapposte, a una mera questione quantitativa, a sua
volta determinata da un puro e semplice progresso tecnologico, significa non
comprendere il dramma del passaggio dal comunismo primitivo alle civiltà.
Non c'è stata evoluzione ma rottura tra le due formazioni sociali.
Altrimenti noi non riusciremmo a spiegare storicamente, se non affidandoci
al caso (che è categoria utile per miti e leggende), il motivo per cui il
capitalismo non sia nato in paesi non europei.
A dir il vero Mandel sa bene che "il sovrapprodotto agricolo, fornito sotto
forma di lavoro non pagato o di corvée, appare agli albori di qualsiasi
società di classe"(ib.). Però questo non può significare che nelle
formazioni tribali non potesse esistere surplus agricolo, né che questo
surplus, in dette formazioni, fosse il frutto di un pluslavoro non
retribuito. Un marxista non dovrebbe far coincidere la quantità con la
qualità.
L'eccedenza, il surplus (in questo caso alimentare) non sta di per sé ad
indicare la presenza di un conflitto di classe, di un antagonismo sociale.
Altrimenti saremmo costretti a dire che la tecnologia può svilupparsi solo
in contesti conflittuali: il che per milioni di anni non è mai stato. Non
c'è nulla sul piano quantitativo che possa giustificare la presenza di
questa o quella qualità. Neanche un'automazione completa della produzione
industriale può supporre, di per sé, la presenza di un capitalismo avanzato.
Mandel sbaglia anche in un'altra cosa, là dove dice che "l'incremento
progressivo della produzione agricola è accaparrato dai signori che, per
parte loro, la vendono al mercato. Ma per la stessa ragione la gran massa
della popolazione non è in grado di acquistare prodotti artigianali
fabbricati nelle città. Questi prodotti restano dunque, soprattutto,
prodotti di lusso. La ristrettezza del mercato limita all'estremo lo
sviluppo della produzione artigianale"(p. 165).
Qui dunque si è già in presenza di una civiltà in cui la città è più
importante della campagna: infatti il "signore" vuol subito vendere le
eccedenze sul mercato per acquistare prodotti artigianali di lusso, mentre
il contadino, da parte sua, avrebbe bisogno di fare la stessa cosa per
ottenere "prodotti artigianali urbani" per il proprio fabbisogno.
Una situazione di questo genere è già di tipo capitalistico e non feudale o
precapitalistico, in cui si poteva ugualmente avere un rapporto col mercato
senza per questo dover subordinare il valore d'uso al valore di scambio. Non
è vero -come dice Mandel- che "il carattere di queste civiltà è
fondamentalmente agricolo"(p. 166). Quando c'è "dipendenza" dal mercato, la
produzione agricola è inevitabilmente di tipo capitalistico.
Infatti, in tutte le civiltà precapitalistiche il contadino era anche
artigiano o comunque poteva ottenere dall'artigiano della comunità di
villaggio in cui viveva ciò di cui aveva bisogno e per la manutenzione del
quale fruiva di una relativa autonomia, essendo il funzionamento della
tecnologia alla sua portata.
Non era la "ristrettezza del mercato" che "limitava" la produzione
artigianale; questa semmai era in rapporto ai bisogni tecnologici di una
produzione agricola basata sull'autoconsumo. Il passaggio
dall'autosussistenza alla dipendenza dal mercato non è avvenuto per motivi
contingenti, per sviluppi di tipo quantitativo, per cause di tipo
tecnologico o per un aumento improvviso o progressivo di bisogni vitali.
Niente di tutto questo (se non in via eccezionale e transitoria) è in grado
di spiegare il dramma di una transizione che il mondo contadino ha vissuto
come un'imposizione.
Se un contadino fosse costretto a cercare sul mercato ciò che gli occorre
per la sua economia di autoconsumo, non avrebbe bisogno di aspettare la
trasformazione della rendita in natura in rendita in denaro, per sentirsi
"sconvolto da cima a fondo"(p. 166).
Il giudizio che Mandel dà dell'economia feudale è decisamente negativo. Si
tratta di "un'economia naturale e chiusa"(ib.), come se ciò che è "naturale"
sia di per sé "chiuso", nel senso di "ristretto", "limitato", "rozzo",
"primitivo"...
"La vita economica esce dal suo torpore secolare -dice Mandel- e dal suo
relativo equilibrio per diventare dinamica, squilibrata, spasmodica"(ib.).
"Torpore secolare" e "relativo equilibrio" sono qui stranamente equivalenti:
perché dunque passare dall'"equilibrio" allo "squilibrio"? In realtà per
Mandel il concetto di "equilibrio" indica solo "staticità", "fissità",
"povertà" a tutti i livelli (tecnologici, economici, culturali...). Solo il
capitalismo è "dinamico": è questo il primo aggettivo usato. Il fatto che
sia anche "squilibrato", "spasmodico" rientra nel suo "dinamismo".
Più interessante invece il fatto che Mandel dica che "la trasformazione del
sovrapprodotto agricolo da rendita in natura in rendita in denaro non è il
risultato inevitabile dell'espansione del commercio e dell'economia
monetaria, ma risulta da rapporti di forza dati tra le classi"(p. 167). E
qui cita Postan: "in mancanza di una grande riserva di liberi lavoratori
senza terra e al di fuori delle garanzie legali e politiche dello Stato
liberale, l'espansione dei mercati e l'aumento della produzione possono
portare piuttosto al rafforzamento delle corvées che al loro declino"(ib.).
Questo è vero, ma andava spiegato diversamente. Non basta parlare di
"rapporti di forza tra le classi". La forza di questo scontro fisico
(politico-militare) si è basata anche sulla forza delle idee, che Mandel
però neppure vede. Se lo sviluppo del mercato porta al rafforzamento delle
tradizionali corvées, significa che il conflitto non è solo tra "signori" e
"contadini", ma anche tra "signori" e "borghesi" e che in questo conflitto
un ruolo decisivo viene giocato dall'ideologia, perché se il borghese riesce
a convincere il contadino che è meglio per lui emanciparsi dal servaggio,
mettersi in proprio, trasferirsi in città e trasformarsi in borghese come
lui..., nessuna coercizione extraeconomica sarà in grado d'impedire questo
passaggio di mentalità e questa possibilità di mutamento della condizione
sociale.
Mandel però non è interessato alle motivazioni culturali: gli basta sapere
che le classi possidenti, "in cambio della parte del sovrapprodotto agricolo
che non arrivano a consumare direttamente, possono acquistare prodotti di
lusso, gioielli, utensili domestici di grande valore e bellezza, che
tesaurizzano per acquistare un prestigio sociale e per sentirsi sicuri in
caso di catastrofi"(p. 169).
Dunque delle due l'una: o questi possidenti avevano un'inconscia psicologia
borghese che attendeva la nascita del mercato per venire alla luce, oppure
la mentalità borghese, propagandata ai quattro venti, doveva per forza aver
condizionato anche loro. Ma se è vera la seconda, perché Mandel preferisce
la prima, che da un punto di vista storico ha un valore uguale a zero?
Queste classi tardo-feudali chiedono di comprare sul mercato cose di cui
fino a quel momento avevano potuto fare a meno, o comunque sono disposte a
sconvolgere dalle fondamenta l'economia che fino a quel momento aveva loro
garantito introiti sicuri, soltanto per il gusto di avere degli oggetti di
lusso.
Mandel non si rende conto che anche per i nobili non meno che per i
contadini (ovviamente in gradi e forme diverse) fu un trauma la nascita e lo
sviluppo del mercato capitalistico, e che ben pochi di loro furono in grado
di adattarsi a questa dipendenza economica. Altro che acquistare prodotti
"per sentirsi sicuri in caso di catastrofi"! La catastrofe era già arrivata,
ed era quella di dover spartire il potere con una nuova classe sociale. La
nobiltà semmai fu responsabile del fatto che pretendeva di avere i vantaggi
del capitalismo facendone pagare il prezzo ai contadini. Cioè nel momento
della minaccia non vide nel contadino un possibile alleato in funzione
anti-borghese, ma una bestia da soma da sfruttare più di prima.
Tuttavia la cosa più strana nell'analisi di Mandel è un'altra, ed è il fatto
che, secondo lui, la classe borghese s'arricchisce a dismisura proprio in
conseguenza del fatto che quella feudale acquistava delle merci sul mercato
per un puro e semplice godimento personale, senza mai pensare a produrre,
investire, capitalizzare... (p. 171). Cioè sembra che i nobili abbiano
assunto una mentalità da figliol prodigo, causata da un capitalismo che in
realtà doveva ancora nascere! Questi nobili feudali si comportano come i
"signori" e "possidenti" d'ogni epoca storica o civiltà, salvo che, in
questo caso, il loro sperpero, il loro consumo fine a se stesso fa
arricchire smisuratamente una categoria di persone molto più furba di loro,
al punto che farà nascere una nuova civiltà, che manderà a picco quella
precedente. "Il denaro viene accumulato per fruttare plusvalore"(p. 171).
Come se dallo "sperpero" al "plusvalore" non si fossero in mezzo un'altra
miriade di passaggi da fare!
I borghesi non sono diventati capitalisti solo perché non lo sono diventati
i signori feudali: non è stata una questione di opportunità, di occasioni.
In Inghilterra p.es. lo diventarono contemporaneamente: la piccola e media
nobiltà, a differenza di quella grande, acquisì velocemente la mentalità
borghese. Qui entrano in gioco dei processi culturali di cui Mandel non
sospetta neppure l'esistenza (e chissà perché questo suo limite lo si
ritrova anche in tutto il marxismo della IV Internazionale).
Gli stessi borghesi non avrebbero potuto diventare capitalisti semplicemente
limitandosi a vendere per il mercato. Occorreva un insieme di fattori che
sono nel contempo sociali, culturali e politici. Una storia dell'economia
che non prendesse in esame gli elementi extraeconomici, avrebbe lo stesso
valore di una storia meramente politica o meramente religiosa.
Se Mandel l'avesse fatto, non avrebbe mai detto che "la prima forma con cui
il capitale si presenta in un'economia ancora fondamentalmente naturale,
agricola, produttrice di valori d'uso, è quella del capitale usurario"(p.
172).
Questa non è la prima forma di capitale ma la seconda, perché la prima resta
sempre quella del capitale commerciale o mercantile, che è legale. L'usura
acquista un certo potere solo nelle civiltà dove esiste già un certo
capitale commerciale o mercantile, e non tanto o non solo per l'ovvia
ragione che non c'è usura senza denaro (se non in forme limitate), quanto
perché la mentalità usuraia è una conseguenza di quella mercantile.
L'usuraio, che nelle civiltà è sempre esistito, non è mai un capitalista ma
un semplice commerciante di denaro: se diventa capitalista smette di essere
usuraio. Contro di lui la chiesa feudale inventò i monti di pietà, molti dei
quali, poi, si trasformarono in banche (ed entrambi, per molti versi, si
trasformarono in usurai legalizzati). Peraltro i prestiti in natura in
cambio di un interesse si fa fatica a definirli "usurari", poiché c'è usura
solo quando il prestito stesso è un modo per far fallire chi lo riceve. Il
fine dell'usura non è tanto quello di riottenere un rimborso del prestito
maggiorato di un interesse esoso, quanto quello di mettere sul lastrico la
persona indebitata per spogliarla di tutto (fino a schiavizzarla, come
spesso succedeva nel passato, ma potrebbe benissimo accadere anche oggi).
Una mentalità del genere poteva essere solo un'eccezione persino nelle
società dove il capitale commerciale era molto avanzato. Se diventava la
regola, ed era comunque una regola illegale, anche le persecuzioni o le
ritorsioni, non meno illegali, contro gli usurai lo diventavano, senza che
nessuno avesse da ridire qualcosa. Nell'antico popolo ebraico l'usura veniva
tollerata solo nei confronti degli stranieri.
Mandel dà troppa importanza al capitale usurario, ed è costretto a farlo non
avendo argomentazioni di tipo culturale. E' molto raro che un usuraio
diventi capitalista, perché l'usuraio non ama rischiare i propri capitali.
Anche un usuraio ricchissimo non andrebbe mai oltre l'investimento
immobiliare o comunque diversificherebbe l'investimento del proprio
patrimonio guardandosi bene dall'impegnarsi direttamente a livello
industriale. L'usura, in genere, distrugge il tessuto economico, non crea
alcunché.
Viceversa il capitalista ha bisogno di sfruttare legalmente la forza-lavoro
di operai formalmente liberi, i quali potrebbero anche coalizzarsi e
ribellarsi. Per un'operazione del genere ci vuole tutt'altra mentalità e
cultura.
Mandel sostiene che il capitale usurario "ripiega verso gli strati oscuri
della società, in cui sopravvive per secoli a spese della gente minuta"(p.
176), solo dopo che si è generalizzata l'economia monetaria. In realtà
l'usura non ha un prima o un dopo nei confronti dell'economia monetaria.
L'usura, nelle civiltà, coesiste sempre con l'economia ufficiale, dominante,
che può essere prevalentemente agricola o basata sulla circolazione
monetaria. L'usura aumenta all'aumentare delle crisi sociali ed economiche e
tende a diminuire quando la società intera, le sue istituzioni, prendono
provvedimenti contro le crisi (utilizzando generalmente i conflitti bellici,
le dittature politiche, ma anche il credito agevolato).
* * *
Anche sull'origine del capitale mercantile Mandel è esagerato, come tutti
quelli che affrontano la realtà in maniera schematica, semplicistica. A suo
parere l'accumulazione primitiva di capitale monetario proviene da due fonti
principali: "la pirateria e il brigantaggio, da un lato, l'appropriazione di
una parte del sovrapprodotto agricolo o persino del profitto necessario del
contadino, dall'altro"(p. 176).
Questa però non può essere stata un'accumulazione primitiva che ha
trasformato il mercante in un imprenditore capitalista. Pirateria e
brigantaggio non hanno mai portato, di per sé, al capitalismo; al massimo un
capitalismo ancora imberbe poteva servirsene per contrastare capitalismi più
maturi, nati in precedenza. I capitalismi ultimogeniti di Italia e Germania
furono costretti a far scoppiare due guerre mondiali per recuperare il tempo
perduto (la Spagna si accontentò, si fa per dire, di una sanguinosissima
guerra civile).
E per quanto riguarda l'appropriazione del surplus va detto ch'essa già
suppone il capitalismo, quindi non ha nulla di "primitivo". Marx non ha mai
detto cose del genere.
Mandel non si rende conto che il capitalismo ha avuto bisogno di una buona
dose di legittimità storica per poter nascere e svilupparsi. Se fosse nato
sulla base di un "furto" (come voleva il socialismo utopistico) ci sarebbe
stata una reazione di massa. Il "furto" è senza dubbio una componente
intrinseca a qualunque attività commerciale, ma è una componente "legale",
che l'acquirente accetta e da cui sa di doversi difendere.
Finché i commerci restano subordinati a mercati urbani o fiere con cadenze
periodiche, in cui si va a vendere il surplus o ad acquistare ciò che
scarseggia o non si trova nella comunità di villaggio, la regola del "furto"
può essere tranquillamente accettata: non sarà qualche raggiro subìto
involontariamente che manderà a pezzi un'economia di autosussistenza. Le
civiltà precolombiane non sono crollate quando gli spagnoli scambiavano
specchietti per oggetti d'oro, ma quando gli indigeni furono costretti ai
lavori forzati.
I problemi sorgono quando in virtù dell'accrescere dei commerci e
dell'incapacità culturale e politica di contrastarli, l'economia di
autosussistenza si trasforma progressivamente in un'economia di dipendenza
dalle leggi di mercato. Questi processi avvengono contro le dinamiche
comunitarie tradizionali, ma sotto una parvenza di legalità che inganna gli
individui. E' dunque assurdo sostenere "che i primi mercanti navigatori
raccolgono il loro piccolo capitale iniziale" col brigantaggio e la
pirateria (che a loro volta, se vogliamo, sono non cause ma conseguenze
dello sviluppo del capitalismo commerciale), e che "l'accumulazione del
capitale-denaro dei mercanti italiani che dominarono la vita economica
europea dall'XI al XV secolo, proviene direttamente dalle crociate"(p.
176-77).
Qui si confonde la causa con l'effetto. Il commercio si sviluppa
indipendentemente dalle crociate, come il capitalismo indipendentemente dal
colonialismo, anche se crociate e colonialismo furono scatenate subito dopo,
o comunque diedero un forte impulso alla nascita del capitalismo, che ha
motivazioni interne alla società europea, la quale, una volta basata sul
commercio o sul capitalismo, tende ad impoverire la maggior parte della
propria popolazione. Crociate e colonialismo furono le risposte borghesi
alle contraddizioni che la stessa borghesia aveva creato nel proprio paese
d'origine. La prima crociata è intorno al Mille, ma intorno al Mille si
formarono anche i primi Comuni. Questo significa che la classe dei mercanti
esisteva in Italia ben prima del Mille.
Peraltro Mandel dà una giustificazione delle crociate e del colonialismo,
ovvero del commercio estero, del tutto sbagliata. Non sono semplici
difficoltà economiche ("un commercio strettamente limitato e regolato", p.
178) che inducono a scatenare guerre commerciali che durano per dei secoli e
che comportano sempre perdite colossali di uomini, risorse e mezzi, e che si
rivelano davvero produttive solo dopo un certo tempo. Non ci si avventura in
imprese belliche così onerose per poter avere la possibilità di smerciare
"prodotti di lusso destinati alle classi possidenti"(ib.).
Crociate e colonialismo servirono piuttosto a far espatriare quelle
categorie di persone che nella madrepatria risultavano eccedenti, oltre che
per avere scali portuali per qualunque tipo di merce (o anche solo per
mettere dei dazi per il transito delle merci, come spesso i turchi
s'accontentavano di fare). E questo mercato estero ebbe bisogno di
motivazioni culturali per essere giustificato e legittimato. Ai tempi delle
crociate si proponeva di liberare il Santo Sepolcro dagli infedeli; ai tempi
del colonialismo di diffondere ovunque la civiltà europea, ritenuta, grazie
a scienza e tecnica, superiore a ogni altra.
Erano piuttosto i trasporti che rendevano un lusso questo commercio, ma là
dove furono create delle colonie non si pensò mai a produrre qualcosa che
solo poche persone avrebbero potuto comprare. Andava bene qualunque tipo di
commercio che sostenesse gli ingenti costi di trasporto (equipaggio, mezzi,
dogane... ivi inclusa la pirateria).
Se vogliamo dare per scontato che il commercio fosse solo per i prodotti di
lusso, allora dobbiamo anche dare per scontato che il commercio non aveva
ancora permeato di sé l'intera economia. Possiamo accettare l'idea del
"lusso" in occasione delle crociate, in quanto l'attività dominante era
quella agricola nella madrepatria, certo non in relazione al colonialismo.
E comunque resterebbe sempre da spiegare il modo in cui un'economia
prevalentemente agricola sia diventata prevalentemente commerciale in virtù
di un commercio estero basato sui prodotti di lusso.
Inoltre è sciocco pensare che un "grande mercante" si sforzasse "di limitare
qualsiasi nuova espansione, pena il distruggere per sua stessa opera le
radici monopolistiche dei profitti"(p. 181). Un atteggiamento del genere
andrebbe spiegato sul piano culturale, perché se può essere appartenuto alle
città marinare al tempo delle crociate, non è tipico della borghesia
coloniale. Mandel fa citazioni di autori che sono vissuti in periodi storici
diversissimi, al fine di mostrare delle analogie trasversali nello spazio e
nel tempo, ma il problema è proprio questo, che per spiegare le origini del
capitalismo le analogie non bastano, anzi sono fuorvianti. Marx l'aveva già
capito.
Cioè anche se si volesse sostenere che i mercanti medievali accumulavano
capitali per poi reinvestirli in gran parte in beni immobili o in
speculazioni di borsa, o in operazioni di credito..., e che solo i loro
discendenti arrivarono a investirli in attività capitalistiche vere e
proprie, il passaggio da un tipo di mercante all'altro resterebbe comunque
da dimostrare, perché di per sé non può essere considerato un passaggio
logico o inevitabile. E' tutto da dimostrare infatti che un imprenditore
capitalistico, agli albori del capitalismo, avesse necessariamente origini
mercantili. Cioè non è di per sé il capitale commerciale che fa nascere il
capitalismo, ma una serie di circostanze (economiche, tecnologiche) in cui
la cultura dominante (o che vuole diventarlo) gioca un ruolo chiave.
Parlare di "rivoluzione commerciale" (p. 128) solo perché si scoprì
l'America o si cominciò a commerciare con India e Cina, o perché i prezzi
salirono alle stelle o perché si verificarono importanti innovazioni
tecnologiche, è esagerato. La Spagna, da tutto questo, non ebbe alcuna
"rivoluzione commerciale", anzi sprofondò nel baratro sino al Franchismo,
mentre l'Italia, che era la più avanzata d'Europa nel XVI sec., insieme
all'Olanda, si bloccò sino alla fine dell'800.
Non esistono determinazioni quantitative che ad un certo punto producono,
automaticamente, una nuova qualità. Si eredita, è vero, ciò che ci precede,
ma per far nascere il capitalismo occorre porre in essere delle dinamiche
culturali completamente diverse dal passato. P.es. la rivoluzione
scientifica non è semplicemente nata per aiutare gli uomini a emanciparsi
dalla religione e neppure soltanto per rispondere alle esigenze delle nuove
forze produttive (commerciali prima e capitalistiche dopo). E' nata anche -e
da qui si comprende l'importanza della cultura- come forma di risposta che
l'uomo ha dato alla propria alienazione, quella causata da una nuova
civiltà.
Per la prima volta nella storia delle civiltà gli uomini hanno avvertito il
bisogno di non riconoscere alla natura alcuna autonomia, ma anzi di
sottometterla in ogni forma e modo. L'esigenza di applicare senza ritegno il
macchinismo alla natura, per sfruttarne al massimo ogni risorsa, non a caso
è emersa nel momento stesso in cui gli uomini si sentivano estranei tra loro
da non avere alcuno scrupolo nell'usare tutti i mezzi possibili per
sfruttare il lavoro altrui.
Se non si esamina la cultura si sarà indotti a ritenere che il capitalismo
non nacque nel periodo delle crociate solo perché allora mancava la
tecnologia adeguata. Eppure gli spagnoli avevano una grande tecnologia per
la produzione delle armi: per quale ragione non riuscirono ad applicarla per
allestire fabbriche di tipo capitalistico?
In realtà sotto le crociate il capitalismo non poté nascere proprio perché
la cultura borghese non era ancora sufficientemente elaborata e
spregiudicata, in grado di produrre tecnologia per sfruttare il lavoro di
persone formalmente libere. Non ci sarebbe mai stato il capitalismo senza
riforma protestante, e là dove il capitalismo s'è imposto senza i traumi
della nascita di questa riforma, è stato perché questa era stata esportata
nella sua fase più avanzata e definitiva (ecco perché oggi sono gli Stati
Uniti a guidare il capitalismo mondiale).
"Solo nel Giappone -dice Mandel-, i cui mercanti-pirati infestano il mare
della Cina e delle Filippine a partire dal XIV secolo, e accumulano un
capitale considerevole mentre contemporaneamente l'autorità dello Stato si
dissolve, la supremazia borghese commerciale e bancaria sulla nobiltà e poi
lo sviluppo di un capitale manifatturiero, hanno permesso di ripetere, dal
XVIII secolo, cioè con due secoli di ritardo, l'evoluzione del capitalismo
in Europa occidentale, indipendentemente da questo"(p. 213). Non una parola
sullo shintoismo, questa particolare religione priva di un qualunque "ordine
etico", in grado di far convivere aspetti feudali e capitalistici con grande
disinvoltura.
Secondo Mandel è il capitale commerciale (tipico della colonizzazione) che
trasforma il commercio di lusso (tipico del capitale mercantile) in
commercio generalizzato. In realtà non si tratta affatto di un progresso nel
commercio estero: p.es. una maggiore estensione delle zone geografiche
(susseguente alla scoperta dell'America). Anche qui si ragiona in termini
hegeliani: dalla quantità alla qualità.
Il capitalismo non nasce dal colonialismo, perché il colonialismo è una
caratteristica anche dell'epoca feudale. Le crociate, volute dal mondo
cattolico-romano, possono aver contribuito, indirettamente, allo sviluppo
del capitalismo, ma solo perché hanno contribuito allo sviluppo delle idee
che porteranno alla Riforma, senza la quale il capitalismo non sarebbe mai
nato.
Noi non dobbiamo dimenticare che la prima opposizione alle idee mercantili
fu quella organizzata dalle eresie pauperistiche, che la chiesa cattolica,
con l'aiuto dell'impero e delle forze comunali e feudali in genere, riuscì a
liquidare in maniera irreversibile.
Dopo quei movimenti, che si svolgevano in una cornice di capitalismo
mercantile, vi furono le guerre contadine (la più famosa forse è quella
tedesca) e le rivolte degli operai salariati (a partire, in Italia, da
quella dei Ciompi).
Ma le idee della borghesia ebbero bisogno di tempo per affermarsi. Cioè il
fatto che la chiesa eliminasse con la forza le eresie pauperistiche non sta
di per sé a significare che le idee borghesi riuscirono, dopo di allora, ad
avere la strada spianata. In Inghilterra, per imporsi, dovettero fare la
rivoluzione del 1688, in Francia quella dell'89, in Italia, nonostante
l'umanesimo e il rinascimento, vi fu il regresso della controriforma.
Questo per dire che se anche poniamo intorno al Mille la nascita delle prime
idee a chiaro orientamento borghese, ci vorranno ancora 500 anni prima che
si possa parlare di nascita del capitalismo. Se dovessimo guardare la storia
col metro delle determinazioni quantitative, verrebbe subito da chiedersi il
motivo per cui una borghesia, già cosciente di sé intorno al Mille, ci abbia
messo ben 500 anni prima di imporsi all'attenzione dell'intera società. Non
era solo questione di limitatezza dei commerci o delle tecnologie; era
piuttosto il fatto che la borghesia aveva bisogno di darsi delle motivazioni
culturali convincenti, sufficientemente elaborate, supportate da un
benessere dimostrabile, che rompessero definitivamente i ponti con la
cultura cattolico-feudale, la quale, mentre sul piano politico da un lato
concede e dall'altro impone, sul piano sociale è eccessivamente legata alle
tradizioni del mondo contadino e nel complesso nutre degli ideali in cui
religione e politica si mescolano continuamente (come nell'ebraismo e
nell'islam).
Non per nulla il movimento comunale, pur essendo originato da istanze
borghesi, in Italia fu spesso caratterizzato da lotte intestine di tipo
ideologico-politico, tra opposte fazioni la cui identità si poneva in
relazione all'accettazione o meno del primato della chiesa sull'impero o
sugli stessi comuni (guelfi e ghibellini, per fare un esempio).
Senza riforma protestante, che non a caso per imporsi dovette fare guerre
colossali contro la chiesa romana e i sovrani che la difendevano, la
borghesia sarebbe rimasta inesorabilmente a livello "mercantile",
rischiando, come p.es. in Italia, inaspettati regressi.
* * *
Un'altra delle cose singolari nell'analisi economica di Mandel è il
passaggio automatico dal capitalismo commerciale all'industria a domicilio.
Si noti la seguente incongruenza: "Malgrado l'estensione del grande
commercio internazionale a partire dall'XI secolo nell'Europa occidentale,
il modo di produzione urbano era rimasto fondamentalmente quello della
piccola produzione mercantile"(p. 189).
Ora, passare all'industria a domicilio, cioè alla manifattura sparsa,
significa inequivocabilmente passare al capitalismo. Cosa ha determinato
questo passaggio? Ecco la risposta di Mandel: "l'aumento progressivo della
popolazione e del numero degli artigiani"(p. 190). Cioè ancora una volta
semplici determinazioni quantitative portano la famiglia contadina a
produrre non più per se stessa ma per un mercante che la paga.
Una cosa del genere non sarebbe mai stata possibile senza emancipazione dal
servaggio, ma un'emancipazione del genere ha bisogno di lotte politiche e di
battaglie culturali, di cui Mandel non dice nulla.
Se non si parla di queste cose si finisce col dire sciocchezze come la
seguente: "Per portare i propri prodotti a una fiera lontana, un tessitore o
un ramaio deve fermare la produzione e non può riprenderla che al suo
ritorno. E' inevitabile che taluni di essi, in particolare i più ricchi, in
grado di procurarsi un sostituto in casa, si specializzino ben presto nel
commercio"(pp. 190-91).
Ragionamenti analoghi vengono fatti dai teologici quando per spiegare il
peccato originale lo danno per scontato. Mentre pensa di portare i propri
prodotti in fiera, l'artigiano è ancora legato al mondo feudale, ma siccome
teme di dover fermare la produzione... Quale "produzione"? Ovviamente quella
per il mercato. Ma allora mentre ha "timore", l'artigiano, come se potesse
azionare una macchina del tempo, si ritrova a vivere qualche secolo dopo; e
questo artigiano cripto-capitalista o malgré soi non si comporta, come
sarebbe stato naturale per un parvenu come lui, "controllando" la produzione
e mandando qualcuno a vendere le sue merci, ma fa esattamente il contrario,
come se vivesse nel Medioevo!
Ma la cosa più comica è un'altra: questi artigiani -dice Mandel- "in un
primo momento portano al mercato, assieme ai loro prodotti, i prodotti dei
vicini solo per rendere un servizio. Finiscono poi con l'acquistare
direttamente i prodotti di una gran massa di mastri artigiani e con
l'incaricarsi esclusivamente della vendita in luoghi lontani"(p. 191).
Cioè l'artigiano non solo non controlla la propria produzione, ma
addirittura si trasforma in mercante, cioè smette di lavorare e di essere
magnanimo, si toglie la maschera del "buonista" e comincia tranquillamente a
sfruttare il lavoro altrui. Ora è diventato un mercante in grado d'impedire
a dei mastri artigiani "proprietari dei loro mezzi di produzione"(p. 191),
di andare a vendere i loro prodotti sul mercato. Anzi, questi mastri
artigiani sono addirittura costretti a comprare la materia prima dal
mercante e a rivendergliela finita o semilavorata ad un prezzo irrisorio.
E' davvero incredibile che un processo che ha sconvolto l'esistenza di
milioni di persone, distruggendo tradizioni consolidate di secoli, sia
avvenuto in maniera così naturale, senza che nessuno abbia opposto un minimo
di resistenza. E' forse questa la "scientificità" che l'analisi economica
vuol dare alla conoscenza storica? A dir il vero Mandel parla di una certa
opposizione da parte degli artigiani, ma per dire, subito dopo, che quanto
più resistevano tanto più facevano il gioco dei mercanti (p. 192). Insomma
la categoria della "necessità storica" viene in soccorso, ancora una volta,
alla trasformazione della quantità in qualità.
"La legge ovunque è favorevole ai mercanti" -dice Mandel (p. 192), senza
rendersi conto che la legge ha ostacolato l'attività dei mercanti per almeno
500 anni (nei paesi est-europei almeno sino alla fine dell'800). Tutte le
battaglie furibonde tra chiesa e comuni o tra comuni e impero, ovvero tra
cattolici e protestanti (esistono guerre durate 30, 100 anni) ha sempre
avuto come unico scopo quello di mettere un freno all'attività della
borghesia, che per le forze tardo-feudali stava accumulando troppi poteri
economici e politici.
E se la legge era davvero favorevole perché i mercanti si rivolgevano agli
artigiani residenti in campagna? E' Mandel stesso che lo dice: "per sfuggire
alle regole delle corporazioni urbane e agli alti salari degli artigiani"(p.
192). Mandel ha posto una suddivisione cronologica dei fatti che lascia
molto a desiderare. Questo perché la sua scelta metodologica è quella di
porre una linea evolutiva tra i fatti, senza rotture significative. La sua
ambizione è stata addirittura quella di mostrare che detta linea può essere
estesa a civiltà ed aree geografiche del tutto estranee all'Europa
occidentale. Il che non ha senso, almeno per quanto riguarda la genesi del
capitale moderno.
* * *
Le illogicità di Mandel cominciano a essere troppe. Ecco l'ultima prima di
passare al cap. "Particolarità dello sviluppo capitalistico in Europa
occidentale"(p. 205): da un lato i "mercati lontani"(p. 185) subordinano la
piccola produzione mercantile al capitale monetario; dall'altro la borghesia
commerciale "non investe che una frazione dei propri capitali e profitti
nell'industria a domicilio"(p. 205).
Primo errore di comparazione: "Nella piccola produzione mercantile, il
produttore, padrone dei mezzi di produzione e dei suoi prodotti, può vivere
solo vendendo questi prodotti per acquistare mezzi di sussistenza. Nella
produzione capitalistica, il produttore, separato dai propri mezzi di
produzione, non è più padrone dei prodotti del suo lavoro e può vivere solo
vendendo la propria forza-lavoro in cambio di un salario che gli consenta di
acquistare questi mezzi di sussistenza"(p. 205).
Se la si mette così, il passaggio dall'una all'altra diventa obbligato, e la
seconda appare migliore perché non "piccola" ma "grande" produzione.
Nel capitolo sopra citato Mandel non può non porsi la domanda fondamentale
che Marx s'è posto tutta la vita: "Perché questa accumulazione di capitale
usurario e mercantile non ha dato origine al capitale industriale in queste
civiltà [precapitalistiche]?"(p. 207).
Tutte le risposte che dà Mandel prescindono dalle questioni culturali e in
tal senso non servono a molto; infatti molte delle cose che dice indicano un
livello culturale non "arretrato" ma "avanzato", in quanto la rinuncia ad
adottare metodi di tipo capitalistico va considerata come un segno di
"civiltà" superiore, dal punto di vista dei valori etici, soprattutto se il
rifiuto era consapevole (questo naturalmente a prescindere dal fatto che con
tale rifiuto si sono volute perpetuare forme di sviluppo socioeonomico
tutt'altro che democratiche).
Nelle civiltà extraeuropee hanno fatto difetto "le forme di organizzazione
intermedie tra l'artigianato propriamente detto e la grande fabbrica...
l'industria a domicilio e la manifattura"(p. 207),
il commercio è rimasto di lusso,
"la schiacciante maggioranza della popolazione non partecipa alla produzione
di merci"(p. 208),
non c'è stato sviluppo del macchinismo, che "è il solo a consentire alla
grande fabbrica di spezzare la concorrenza dell'industria a domicilio e
dell'artigianato..."(p. 209),
"il disprezzo verso il lavoro manuale"(p. 210) - cosa però riscontrabile
anche nell'Europa occidentale, nelle classi colte, nobiliari..., almeno sino
allo sviluppo della borghesia,
"la concorrenza di una manodopera a buon mercato..."(p. 210) - che oggi
invece è quella più temuta dai monopoli occidentali,
"l'impiego produttivo dell'energia idraulica a fini non agricoli... entrava
in conflitto con le esigenze dell'irrigazione del suolo"(p. 210) - questa è
una tesi che si ritrova anche in Max Weber, il quale poi la prese da Marx,
l'assenza di una classe, quella borghese, in grado di contrapporsi a quella
dominante il cui potere è legato all'uso della terra, persino in grado di
contrapporsi allo Stato: temendo confische, supertasse, persecuzioni... la
borghesia non europea, invece di concentrare i capitali li disperde,
tesaurizza invece di investire. E pontifica Mandel, senza capire nulla dei
tentativi istituzionali di porre un freno al dilagarsi dei traffici: "Invece
di progredire verso l'autonomia e l'indipendenza, marcisce nella paura e nel
servilismo"(p. 212). L'unica eccezione il Giappone, di cui già si è detto.
Infine una motivazione che ricorda la teoria dei climi di Montesquieu:
"L'agricoltura ben più primitiva dell'Europa medievale non poteva sopportare
il peso di una densità paragonabile a quella della Cina o della vallata del
Nilo nelle epoche di prosperità"(pp. 213-14). Questa tesi è davvero strana,
poiché l'aumento della densità demografica in Europa occidentale era già
effettivo intorno al Mille in relazione allo sviluppo del capitale
mercantile, all'urbanizzazione, al commercio internazionale ecc. Quello
stesso commercio che invece di sacrificare la piccola produzione, le aveva
dato un grande impulso.
Mandel non dice una sola parola sui processi culturali, salvo questa piccola
noticina, riferita però ai processi politici: la borghesia fece il proprio
"apprendistato di lotta politica nei liberi Comuni del Medioevo"(p. 211).
Come se i mercanti dei paesi extraeuropei appartenessero a civiltà che
impedivano loro di fare qualunque lotta politica!
* * *
Si può forse concludere questo breve commento al cap. 4 del Trattato di
Mandel dicendo, molto semplicemente, che la classe dei mercanti è sempre
esistita, generalmente per il commercio di beni di lusso (anche le spezie lo
sono state per molto tempo) o per tutte quelle merci che non si potevano
trovare (o che si trovavano con molta difficoltà) nei mercati locali o nelle
fiere, cui poteva tranquillamente accedere la comunità di villaggio (una
delle merci più importanti per tantissimo tempo è stato il sale).
Questi mercanti facevano spesso lunghi viaggi, a loro rischio e pericolo, e
solo dopo un certo tempo si presentavano nei mercati locali o nelle fiere,
oppure agivano come ambulanti.
Oltre a questa classe, la cui attività è sempre stata tollerata da qualunque
civiltà contadina o precapitalistica, lo stesso contadino poteva vendere (o
meglio: barattare, perché per molto tempo s'è fatto questo) sul mercato le
proprie eccedenze o persino i propri prodotti artigianali (spesso fabbricati
dalle donne, specie se il prodotto era tessile). Quando l'abilità
artigianale si separò da quella contadina, e l'artigiano si trasferì in
città, il prodotto artigianale si specializzò e diventò una merce che poteva
essere venduta in maniera regolare, senza aspettare le eccedenze.
Questo distacco dell'artigianato dall'agricoltura fu l'inizio della
divisione della città dalla campagna: in sé non avrebbe comportato nulla di
pericoloso per l'autosussistenza della comunità di villaggio, se
contestualmente a tale separazione non fosse nata una classe mercantile che
voleva trasformare la città in un luogo di dominio della campagna.
I mercanti avevano scarsi legami con le comunità di villaggio, perché erano
come dei nomadi, o comunque era gente che, anche se stanziale, mostrava più
interesse al proprio profitto che non al bene collettivo. E' sempre stato
così e le società contadine hanno tollerato queste eccezioni appunto perché
erano tali.
Quando il mercante si arricchiva con traffici più o meno leciti, di regola
acquistava della terra, delle proprietà e assumeva degli operai che
lavoravano per lui. Poteva anche comprare dei titoli nobiliari. Anche questo
processo, fintantoché la terra e i mezzi per lavorarla rimasero in mano ai
contadini (o in proprietà o in uso), non costituì alcun vero pericolo per
l'autosussistenza della comunità.
Anche se il mercante, invece di acquistare della terra, voleva gestire
un'impresa artigiana, doveva comunque sottostare a dei controlli rigorosi,
tipici delle corporazioni. Questi processi sono andati avanti per dei secoli
in Europa occidentale senza che venisse minacciata l'esistenza delle
comunità di villaggio. Un mercante non poteva arricchirsi oltre un certo
livello né poteva aspirare a un particolare potere politico.
E' fuor di dubbio che i mercanti hanno cominciato ad acquistare un certo
peso (economico e politico) nelle città marinare, che per loro natura sono a
contatto con realtà molto diverse tra loro e dove il rispetto di tradizioni
consolidate è sempre stato più debole. Non a caso le città marinare
parteciparono volentieri alle crociate contro l'islam e per il saccheggio
dell'impero bizantino in decadenza.
Grazie a queste crociate, che praticamente durarono 200 anni, la classe dei
mercanti ebbe un notevole impulso. Si può anzi dire che senza lo sviluppo
della classe mercantile difficilmente ci sarebbero state le guerre tra
Comuni e Impero o tra Comuni e feudatari (laici ed ecclesiastici). E' grazie
ai mercanti che si sviluppa un'ideologia anticlericale, antifeudale,
antimperiale, a tutto vantaggio delle autonomie comunali.
I primi elementi di ideologia laico-umanistica furono introdotti dai
mercanti nella teologia cattolica. Sarebbe tuttavia un errore far coincidere
"laicità" con "umanesimo". I mercanti non introdussero l'umanesimo nella
teologia cattolica, ma la laicità, cioè la riduzione a termini umanistici
dei termini teologici. L'umanesimo dei mercanti è sempre stato viziato
dall'individualismo, come mezzo fondamentale per ricercare un fine
economico: il profitto, la proprietà, il capitale.
Nella misura in cui la chiesa romana tollera questo trend, anche nella
speranza di trarne un vantaggio personale, la borghesia può facilmente
svilupparsi, per quanto si sviluppino anche i movimenti contestativi
(pauperistici), che denunciano a più riprese le collusioni tra cattolicesimo
istituzionale e mercantilismo. E' noto come tali movimenti verranno bollati
col marchio dell'eresia e liquidati dalla chiesa romana.
Sarà proprio la persecuzione di questi movimenti che porterà alla definitiva
affermazione sociale (anche se non ancora politica) delle idee borghesi. La
riforma protestante erediterà la contestazione pauperistica per volgerla a
favore della borghesia e per chiedere a questa un distacco (culturale in
Germania, politico in Francia, Inghilterra ecc.) dalla chiesa romana.
Conclusa la riforma, la borghesia non avrà più alcuna riserva per affermare
se stessa.
(Karl Marx, L'accumulazione originaria, Ed. Riuniti, Roma 1991).
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