DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO
Il passaggio dal feudalesimo al capitalismo furono indispensabili
soprattutto il perfezionamento della tecnica, la divisione e la nascita di
nuove professioni, vasti mercati, grandi manifatture, concentrazioni di
capitali. Ma oltre a ciò, fu necessaria anche una buona dose di fiducia in
un futuro migliore, non molto lontano, quella di credere che, emancipandosi
dal servaggio o dalla coercizione corporativa, si potesse diventare più
liberi senza fare alcuna rivoluzione sociale. In questo senso contadini e
artigiani s'illusero pensando che, per emanciparsi veramente, fosse
sufficiente partecipare con la borghesia alla rivoluzione politica
antifeudale. L'illusione stava appunto in questo, nel credere che dalla
rivoluzione politica potesse scaturire automaticamente anche quella sociale,
cioè che una mera rivendicazione giuspolitica di diritti fosse sufficiente
per la democrazia sociale.
Era giusto emanciparsi dalla condizione servile che il feudalesimo imponeva,
ma nel farlo bisognava assicurarsi di non finire in una condizione sociale
peggiore. In che modo? Impedendo alla borghesia di guidare da sola la
rivoluzione politica o comunque di non gestirne da sola i risultati
conseguiti.
L'individualismo così si è accentuato. Il benessere è aumentato solo per
pochi. E' vero, in Europa occidentale il benessere, col tempo, ha riguardato
sempre più persone, ma solo perché, grazie al colonialismo e
all'imperialismo, la miseria e l'indigenza sono state trasferite nel Terzo
Mondo. Se non ci fosse stata la conquista dell'America, dell'Africa e in
parte dell'Asia, l'Europa occidentale sarebbe andata incontro a una
catastrofe economica, o forse il Medioevo sarebbe stato più lungo, oppure, a
fronte delle insanabili crisi del capitalismo emergente, si sarebbe passati
dal feudalesimo al socialismo. L'Europa occidentale ha potuto supplire alla
mancanza di una "democrazia" interna (che l'Europa ortodossa dell'est invece
parzialmente aveva) grazie appunto al colonialismo.
Gli storici devono smetterla di considerare il capitalismo come un progresso
rispetto al feudalesimo. Il feudalesimo poteva evolvere verso il benessere
perfezionando gli strumenti produttivi, da un lato, e compiendo una riforma
agraria dall'altro, tale per cui i contadini fossero veramente padroni della
loro terra, così come tutti gli artigiani, associati in cooperativa,
avrebbero dovuto esserlo della loro corporazione, e gli operai della loro
manifattura. Non c'era alcun bisogno di sconvolgere un sistema produttivo
sostanzialmente legato alla natura con un sistema produttivo così
artificiale e disumano.
Il capitalismo ha provocato dei guasti d'incalcolabile portata: ha separato
il lavoratore dai mezzi di produzione (rendendo tutta la vita sociale e
privata profondamente alienante); ha separato il produttore dal consumatore,
mettendo quest'ultimo nelle mani dell'altro; ha subordinato tutto alla
logica del profitto e dell'interesse (rendendo cinici i rapporti umani); ha
creato delle istituzioni statali, burocratiche e amministrative, politiche,
giudiziarie e militari che tolgono agli individui qualunque forma di
libertà, di sicurezza e di responsabilità; ha saccheggiato le risorse di
interi Paesi, regioni e continenti senza dare nulla in cambio, se non tutte
quelle cose che servono ad arricchire le metropoli occidentali; ha
danneggiato l'ambiente in maniera irreparabile, nell'illusione di poter
ricostruire con la scienza e la tecnica ambienti sostitutivi di quelli
naturali; ha scatenato centinaia di guerre, anche mondiali, con milioni e
milioni di morti. Come stupirsi se in queste condizioni vi sono state
nazioni legate al feudalesimo sino al secolo scorso e che dal feudalesimo
sono volute passare direttamente al socialismo?
Ovviamente non ha senso fare dei confronti con due sistemi così diversi: qui
si vuole soltanto precisare che non si può "condannare" il feudalesimo in
nome del capitalismo. Ogni sistema va esaminato per le proprie
contraddizioni interne. E' sulla base di queste contraddizioni che bisogna
cercare di capire quante possibilità c'erano di creare la transizione da un
sistema all'altro.
Perché la Cina o qualche Paese arabo non sono diventati capitalisti nel XVI
sec.? Se riusciremo a comprendere i motivi per cui né la Spagna né il
Portogallo sono diventate nazioni capitalistiche, pur avendo inaugurato il
moderno colonialismo, troveremo relativamente facile rispondere alla
suddetta domanda.
La storia ha dimostrato che per entrare nella via del capitalismo non è
sufficiente avere una tecnologia abbastanza sviluppata o dei commerci molto
avanzati, oppure delle contraddizioni feudali molto forti: occorre anche una
mentalità, una forma di cultura particolare. Questa mentalità è mancata alla
penisola iberica, troppo cattolica per essere pienamente, consapevolmente
capitalistica, ed è mancata alle due grandi nazioni asiatiche: Cina e India,
caratterizzate da due religioni della rassegnazione: Induismo e Buddismo.
Nei tempi in cui sono nati il capitalismo e il colonialismo, l'ideologia
dominante, in Europa occidentale, era quella religiosa (prima cattolica, poi
protestante). E' qui che vanno ricercati i motivi sovrastrutturali che hanno
permesso un fenomeno così perverso.
Con uno studio molto approfondito si dovrebbe scoprire in quali enunciati
teorici della teologia e della filosofia cattolica e protestante, si possono
rintracciare le motivazioni culturali che hanno spinto gli uomini (anche
inconsciamente) ad accettare il capitalismo e il colonialismo, nonché quelle
motivazioni che (questa volta consapevolmente) sono state usate per
giustificare la nuova formazione sociale. Cioè vanno ricercate quelle
motivazioni che sono servite per legittimare direttamente o indirettamente
(involontariamente) il capitalismo, e quelle motivazioni che sono state
usate per contrastarlo praticamente o per condannarlo solo teoricamente.
Questo significa che non è più possibile scindere lo studio della storia da
quello dell'ideologia (dominante, soprattutto), sia essa di tipo filosofico,
religioso o politico. La storia deve diventare anzitutto la storia
dell'economia in stretta correlazione con la storia del pensiero, nel senso
weberiano che l'economia va vista come riflesso del pensiero, e nel senso
marxiano che il pensiero va visto come riflesso dell'economia.
Le scelte, tra una formazione sociale e l'altra, tra una modalità e l'altra
all'interno di una stessa formazione, si fanno sempre in un contesto di
relativa libertà, altrimenti saremmo costretti ad ammettere l'inevitabilità
della transizione dal feudalesimo al capitalismo. Certo, vi possono essere
dei processi sociali ed economici che oggettivamente, se non intervengono
delle controtendenze, possono portare al capitalismo, ma se ad un certo
punto non v'è un determinato consenso sociale (di massa), questi processi
non vanno avanti. Gli uomini possono dare un consenso inconsapevole a certi
fenomeni, ma sino a un certo punto, poiché ogni fenomeno contiene in sé
delle contraddizioni che a posteriori possono essere individuate e superate
(il superamento è tanto più facile quanto più è veloce l'individuazione e
decisa la volontà). E' assolutamente falso affermare che la storia è un
"processo senza soggetto".
Il determinismo economico non è certo in grado di spiegare il motivo per cui
il capitalismo s'è sviluppato proprio in Europa occidentale e soprattutto
nell'area geografica di religione protestante. E neppure è in grado di
spiegare perché i Paesi di religione cattolica sono diventati capitalisti
conservando solo la "forma" della loro religione. Questo non sta forse a
dimostrare che fra cattolicesimo e protestantesimo non esistono differenze
sostanziali, nel senso che l'uno non è che il rovescio dell'altro?
Solo così riusciremo a capire il motivo per cui i Paesi che non hanno
conosciuto né il cattolicesimo né il protestantesimo si sono adeguati più
facilmente alla realtà del socialismo, e perché i Paesi che non hanno
conosciuto alcuna forma di cristianesimo, fanno molta fatica ad adeguarsi al
capitalismo, volgendo piuttosto la loro attenzione verso il socialismo. Non
è forse vero che il socialismo democratico vuole essere il recupero,
ovviamente in forma diverse, più consapevoli, dello spirito del comunismo
primitivo?
Il cristianesimo è la religione col più alto tasso di ambiguità della
storia. La sua dialettica, le sue contraddizioni, soprattutto fra teoria e
pratica, sono assolutamente inconcepibili per qualunque altra religione. Non
è infatti immaginabile, in maniera naturale e spontanea, che si possano
affermare le cose più sublimi di questo mondo e nello stesso tempo compiere
le azioni più abominevoli. Occorre un livello di alienazione, di
sdoppiamento della personalità, particolarmente elevato, non meno grande del
livello di profondità di pensieri e di sentimenti.
Il cristianesimo ha dato all'umanità un'autoconsapevolezza prima
impensabile. Ma, proprio per questo motivo, le ha dato anche una sicurezza,
un coraggio, una fiducia in se stessa che nessun'altra religione ha mai
saputo dare. Ora, ci si rende facilmente conto che se si vive questa
sicurezza non per migliorare le cose, ma per giustificare un contesto
caratterizzato da valori o da comportamenti negativi, il risultato che si
ottiene col cristianesimo sarà infinitamente più disastroso. Se l'ideologia
cristiana non viene vissuta in un contesto sociale comunitario (ma questo
implica una revisione totale dell'interpretazione e delle modalità
applicative dei vangeli), la tendenza sarà sempre quella ad usare il
cristianesimo per colmare in misura irrazionale l'insopportabile scarto
esistente fra metodo e contenuto.
Dobb e Sweezy
Dice M. Dobb: "All'origine del tramonto del feudalesimo... in primo luogo la
sua inefficienza come modo di produzione, accoppiata al crescente bisogno di
reddito della classe dominante, cosicché queste accresciute esigenze
portarono ad un inasprimento della pressione esercitata sui produttori fino
a un punto in cui fu loro letteralmente impossibile sopportarla"(Problemi di
storia del capitalismo, Roma 1969, p. 76).
Il "crescente bisogno di reddito della classe dominante" non è una causa
della crisi del feudalesimo, ma una conseguenza dovuta allo sviluppo del
capitalismo commerciale. Certo, in virtù di tale "accresciuta esigenza" i
feudatari possono aver inasprito le condizioni di vita dei contadini,
costringendo quest'ultimi a fuggire dai feudi o a intraprendere la lotta di
classe per la riforma agraria. Ma lo sviluppo del mercantilismo presuppone
già, in qualche modo, o la fuga dei feudi o il fallimento della riforma
agraria. Va inoltre ricordato che, inizialmente, lo sviluppo capitalistico
di alcuni paesi europei portò ad accentuare le caratteristiche feudali in
altri paesi europei.
L'inefficienza del feudalesimo non può essere considerato un motivo
sufficiente per spiegare la nascita del capitalismo. Un'inefficienza
tecnologica può essere superata da un'innovazione tecnologica -come spesso è
avvenuto per tutto il feudalesimo. Peraltro, usare il concetto di
"inefficienza", mettendo il feudalesimo a confronto col capitalismo, può
generare molti equivoci, non foss'altro perché l'efficienza del capitale è
tutt'altra cosa rispetto all'efficienza del lavoro agricolo basato
sull'autoconsumo e della rendita in natura.
La tesi di Dobb ha un valore (fenomenologico) per l'ultima fase della crisi
del feudalesimo, ma sul piano sostanziale le cause della crisi vanno
ricercate nella possibilità di scelta tra una vita incerta ma giuridicamente
libera, che il contadino poteva vivere in città, e una vita sempre più
servile che avrebbe continuato a vivere in campagna, nella consapevolezza
che in città avrebbe potuto emanciparsi. La differenza era tra un disagio
sicuro sempre più difficile da sostenere e la speranza di una vita migliore.
Naturalmente il contadino doveva prima essersi rassegnato all'idea di non
poter migliorare la propria situazione socioeconomica nella campagna.
La causa di fondo della crisi del feudalesimo sta nell'indisponibilità dei
feudatari a concedere la riforma agraria (la fine del latifondo e della
proprietà privata della terra) e nell'incapacità dei contadini a pretenderla
con rivendicazioni di tipo politico. Sarebbe interessante verificare quanto
su tale incapacità abbia influito la cultura cattolica.
Dobb è un marxista che crede nella necessità del superamento del feudalesimo
da parte del capitalismo: in tal senso egli è un determinista
evoluzionistico. La necessità, per i deterministi, è un evento che
prescinde, in ultima istanza, dalla possibilità di scelta.
La critica che Sweezy muove a Dobb di aver fatto coincidere "feudalesimo" e
"servaggio", senza rendersi conto che il feudalesimo si caratterizza
essenzialmente come "produzione per il consumo", è una critica che non può
certo essere definita scientifica.
Sweezy non vuol vedere nel feudalesimo la contraddizione antagonistica
fondamentale, e cioè appunto il servaggio, tant'è che fa dipendere la caduta
del feudalesimo dalla ripresa dei commerci (tesi, questa, che riprende
quella di Pirenne).
Sweezy può aver ragione solo se si riferisce a quell'economia agricola
alto-medievale di tipo pre-feudale, perché sostanzialmente di derivazione
"barbarica". Ma lo sviluppo ulteriore di tale economia porterà al
feudalesimo, non al capitalismo.
Sweezy non ha visto le contraddizioni interne al feudalesimo semplicemente
perché non ha visto alcuna lotta di classe nel corso del Medioevo tra
contadini e feudatari. Egli non si è reso conto che le contraddizioni
antagonistiche del feudalesimo erano molto più sopportabili di quelle del
capitalismo, in quanto nel feudalesimo i contadini potevano gestire in
proprio i mezzi produttivi.
Inoltre la lotta di classe si esprimeva nel Medioevo sostanzialmente entro
l'involucro religioso: di qui l'importanza delle eresie pauperistiche.
PER UNA TEORIA DEL CROLLO DEL FEUDALESIMO
Quando si parla di "crollo del feudalesimo", non si può affermare che le
cause principali sono state quelle esterne al sistema, e cioè il commercio,
il valore di scambio, il denaro ecc.
La causa principale del crollo di un sistema antagonistico, generalmente va
cercata nell'antagonismo stesso. Ovviamente questo non significa che nella
lotta delle classi, quella oppressa non possa servirsi di elementi esterni
al sistema (o marginali, periferici) per influire negativamente su quelli
interni, accelerandone la dissoluzione.
Quando si afferma che il feudalesimo crollò a causa del sempre crescente
lusso della nobiltà, la quale, avendo bisogno di contanti, prese a sfruttare
massicciamente i contadini, che fuggirono verso le città; quando cioè si
afferma che la causa del crollo fu il commercio a lunga distanza, non ci si
rende conto di confondere la causa con l'effetto. Lo sviluppo del commercio
infatti è già una conseguenza della crisi del feudalesimo, che è interna al
sistema.
Se non si accetta questa spiegazione, si deve poi attribuire al caso il
crollo di un sistema antagonistico, non avendo alcuna fiducia nelle capacità
di lotta delle classi oppresse.
Il secondo servaggio, cui andarono incontro alcune nazioni o alcune regioni
di alcune nazioni europee, nel momento in cui in altre nazioni (o in altre
regioni) s'andava sviluppando il capitalismo, dipese appunto
dall'arretratezza della cultura, che non sapeva trovare un'alternativa al
servaggio né in modo borghese, né in modo democratico, ma soltanto
modificando il rapporto feudale, trasformando cioè la rendita in natura in
rendita monetaria, ovvero il servo della gleba in un mezzadro, oppure
creando una proprietà fondiaria di tipo usuraio. Questo fu possibile anche
perché il commercio liquidò la classe dei piccoli contadini indipendenti.
Il capitalismo industriale delle nazioni borghesi indusse i feudatari ad
adeguarsi alle circostanze, ed essi lo fecero sulla base della loro
arretrata cultura. La rendita monetaria non faceva che acutizzare le
contraddizioni del feudalesimo.
In Asia invece continuò a prevalere la rendita in natura e da questa
rendita, attraverso la lotta di classe, si passò al socialismo.
SCHIAVISMO FEUDALESIMO E CAPITALISMO
La principale contraddizione antagonistica della nostra epoca è quella
determinata dall'economia: i proprietari privati accumulano capitali per
acquisire un potere politico. Quanti più ne accumulano, tanto più è grande
il potere politico. Per poter realizzare tale scopo il capitalista è
disposto a tutto. Nei confronti del capitale, del denaro, vi è completa
soggezione.
Nell'antichità feudale e schiavista la contraddizione antagonistica
prevalente non era di natura così astratta, così artificiale, così
sofisticata: era di natura "fisica". Quanti più schiavi o servi della gleba
si possedevano (da far lavorare come contadini e artigiani), tanto più
potere politico si disponeva.
Il feudalesimo, in tal senso, è stato molto più vicino allo schiavismo che
non al capitalismo. Il capitalismo ha potuto formarsi dentro il feudalesimo
euroccidentale, ma ad un certo punto ha dovuto rompere con la "fisicità" di
quella forma d'antagonismo per poterne creare una nuova. In un certo senso
il capitalismo ha simbolizzato, materializzandolo nella forma astratta del
capitale, lo sfruttamento del servo della gleba. Ha cioè dovuto trasformare
una contraddizione "fisica" (la dipendenza personale del servaggio) in una
contraddizione "economica" (la falsa libertà personale del lavoratore
salariato).
Il capitalismo è stato costretto a questa finzione perché la resistenza del
servo della gleba alla contraddizione "fisica" era ormai diventata molto
grande ed essa non avrebbe permesso la riedizione, più o meno simile, di
quell'antagonismo. L'antagonismo, di fronte alla consapevolezza della
necessità del suo superamento, ha dovuto perfezionarsi per poter
sopravvivere. In quest'ottica andrebbero analizzati tutti i movimenti
contadini di protesta anteriori a quelli borghesi.
Il denaro resta un'astrazione anche quando permette di acquisire un potere
politico. Esso non avrà mai la concretezza di uno schiavo o di un servo
della gleba. Si possono accumulare capitali all'infinito (sempre che gli
operai lo permettano), non si può sfruttare uno schiavo o un servo oltre un
certo limite: sia perché si rischia di farlo morire (e di ciò si può non
tener conto solo se gli schiavi o i servi a disposizione sono in grande
quantità), sia perché l'accumulo di derrate alimentari superiori al
fabbisogno del proprietario è per forza di cose limitato, specie se esse
sono deperibili.
Con l'uso del denaro, inteso come scambio equivalente delle merci, tutti
questi problemi sono stati superati. Allo sfruttamento "estensivo",
relativo, della manodopera si è sostituito quello "intensivo", assoluto (che
diventa relativo solo se la manodopera si oppone con la forza allo
sfruttamento).
L'economia ha sostituito la fisicità dell'antagonismo, non solo acuendo lo
sfruttamento del lavoratore, ma estendendone anche i confini geografici.
Interi popoli della terra sono entrati nella storia del capitale solo come
"sfruttati". Il servaggio non poteva avere un'esigenza di universalità,
poiché il rapporto di dipendenza personale, per quanto gerarchizzato fosse,
non conosceva la possibilità di usare il denaro come equivalente universale,
cioè non aveva la capacità di servirsi di una finzione a livelli così
elevati. Oggi tuttavia per la prima volta un'opposizione all'antagonismo può
diventare di tipo universale.
Ci si può chiedere se in futuro non esisterà un'altra forma di antagonismo,
ancora più sofisticata di quella economica, che possa permettere
l'acquisizione di un potere politico. Una forma analoga a quella stalinista
o maoista, basata su una sorta di potere carismatico (soggettivo) della
persona e ideologico (oggettivo) dell'istituzione ch'essa rappresenta. Una
forma cioè che dopo essere maturata in un'esperienza collettivistica
s'imponga in maniera individualistica, servendosi del collettivismo in modo
burocratico e militarizzato. L'acquisizione del potere a partire da ideali
di giustizia sociale e di libertà, e poi l'uso del potere acquisito contro
questi stessi ideali: ecco la sostanza dello stalinismo. Solo delle
motivazioni interiori (non legate quindi al denaro né alla proprietà di
alcunché) possono determinare un rivolgimento del genere.
* * *
Il feudalesimo va considerato come una forma di passaggio anche morale dallo
schiavismo al capitalismo. Esso cioè rappresenta una forma di schiavismo più
sofisticata, in quanto la chiesa cristiana affermava che davanti a dio non
c'è né schiavo né libero: concetto, questo, che le cosiddette "tribù
barbariche" potevano accettare più facilmente dei cittadini dell'impero
romano, abituati a considerare lo schiavo diverso dal libero anche
nell'aldilà (a dir il vero tutti i sistemi schiavistici tendevano a
discriminare lo schiavo anche nell'aldilà).
Una volta condiviso questo presupposto, ne doveva discendere, sul piano dei
rapporti sociali e produttivi, un comportamento conseguente: infatti, se la
coscienza dominante vuole l'uguaglianza di libero e schiavo di fronte a dio,
un libero (specie se proprietario di schiavi) non può più comportarsi in
modo arbitrario, o almeno non può più farlo come prima.
Durante il crollo dell'impero la schiavo aveva la chiesa che lo difendeva,
anche se la difesa era solo a titolo morale (con la minaccia di castighi
eterni per i padroni e cose simili). Il passaggio dalla schiavitù al
servaggio riflette anche questa mutata coscienza sociale, questo sviluppo
della sensibilità umana. Si può anzi dire che nel momento in cui i barbari
sono penetrati nell'impero, tale passaggio, con l'istituzione del colonato,
era in parte già avvenuto. I barbari non hanno fatto altro che legittimarlo
ed accelerarlo.
Purtroppo all'inizio del Medioevo vi fu una decadenza paurosa a livella di
forze produttive, ma i rapporti sociali migliorarono sicuramente. Vi è stata
molta più giustizia nel rozzo e incivile alto-Medioevo che non in tutta
l'età romano-imperiale.
Certo, il cristianesimo avrebbe potuto fare di più, ma anche quel poco che
ha fatto va considerato positivamente rispetto all'ideologia schiavista del
mondo romano. In fondo il cristianesimo ha. avuto il coraggio di dire che
l'imperatore non era una divinità e che di fronte a dio si è tutti uguali.
Anche l'ebraismo diceva la stessa cosa, ma solo in teoria: nella pratica gli
ebrei, proprio in quanto "ebrei", si consideravano superiori ai pagani. Ecco
perché gli imperatori temevano dì più il cristianesimo: sapevano bene che
l'ebraismo era destinato a restare circoscritto.
Il cristianesimo, la cui stessa esistenza dipese dalla rinuncia
politico-rivoluzionaria alla realizzazione dell'uguaglianza sociale,
trasferì nell'aldilà il momento di tale realizzazione; però seppe ugualmente
mettere in crisi l'ideologia classista dei mondo romano. Come tale, il
cristianesimo ha minato dall'interno la credibilità delle istituzioni
imperiali: in tre secoli le ha svuotate di ogni valido contenuto.
A causa di questo progresso nella coscienza sociale e di conseguenza nei
rapporti sociali, il capitalismo non poteva creare che una forma di
schiavismo ancora più sofisticata del servaggio. Esso infatti ha saputo
sostituire al concetto astratto di "dio", il concetto concreto di "denaro",
usato in maniera non meno feticistica.
La borghesia afferma che tutti gli uomini sono uguali davanti al "denaro"
(bianchi a neri, liberi a schiavi, uomini a donne): basta averne! In teoria
cioè la borghesia afferma che tutti, volendo, possono procurarselo e con
esso dominare chi non lo possiede. E', come si può notare, un'uguaglianza
puramente formale, poiché, di fatto, il denaro può essere procurato solo a
determinate condizioni, quelle appunto imposte dalle classi sociali egemoni
(eventualmente di quelle nazioni più egemoni a livello mondiale).
Il marxismo tuttavia ha affermato che il servaggio sta allo schiavismo molto
di più di quanto il capitalismo sta al feudalesimo. In altre parole, il
salto dal feudalesimo al capitalismo è stato molto più netto di quello dallo
schiavismo al servaggio. Il feudalesimo ha cercato di umanizzare lo
schiavismo, ma il rapporto di dipendenza personale del servo dal padrone
restava così evidente da non lasciare dubbi in proposito. Proprio come nello
schiavismo l'oppressione era qualcosa di "osservabile" empiricamente, benché
la coscienza che se ne aveva era scarsa (quasi nulla in epoca romana). La
religione ha cercato di. relativizzare questa soggezione, di mascherarla con
la promessa di un premio nell'aldilà.
Il fallimento del tentativo della chiesa va messo in relazione proprio con
la nascita del capitalismo, in virtù della quale ha fatto la sua comparsa il
concetto di libertà o di autoaffermazione individuale, il concetto cioè che
tutti gli uomini sono liberi davanti allo Stato, alle leggi e soprattutto
davanti al denaro. Questo concetto di libertà personale di ogni individuo
non era mai esistito nella società romana e neppure in quella feudale, in
cui chi nasceva schiavo o servo ben difficilmente aveva la possibilità di
diventare libero. Libere erano solo poche categorie di persone, a scapito
della stragrande maggioranza.
Tuttavia il capitalismo è una colossale mistificazione, incomparabilmente
più grande di quella che si poteva verificare sia sotto lo schiavismo,
allorché si prometteva la libertà o la semi-libertà a quello schiavo che si
fosse comportato "bene" agli occhi del padrone, sia sotto il servaggio,
allorché si prometteva al servo della gleba un premio nel paradiso per la
sua capacità di sopportare le ingiustizie.
Viceversa, il capitalismo pretende di assicurare la libertà personale "qui
ed ora", sulla terra, nella società borghese. Esso è una mistificazione
appunto perché non fa capire lo stretto legame esistente tra libertà e
proprietà.
L'inganno non sta nel momento in cui si afferma che la proprietà garantisce
la libertà (poiché ciò sostanzialmente è vero), bensì quando s'afferma che
con la libertà ogni uomo è in grado di procurarsi la proprietà che vuole.
Solo con l'esperienza si può capire che chi possiede una proprietà,
soprattutto quella fondamentale dei mezzi produttivi, non permetterà mai, a
chi dispone della "libertà", di portargliene via anche solo una piccola
parte. Ecco perché il marxismo sostiene che formalmente la borghesia
assicura che con lo strumento della libertà chiunque può diventare
proprietario, mentre di fatto essa vincola tale uso a parametri e condizioni
così restrittivi che gli uomini sono costretti a ricorrere alla lotta di
classe per modificare determinati rapporti di proprietà.
La borghesia, ai suoi albori, ha affermato il principio della "concorrenza",
perché ne aveva bisogno; in seguito è stata costretta ad accettarlo solo per
dimostrare il valore (relativo) della sua libertà; ma appena questa
concorrenza mette in crisi la sua proprietà, ecco che subentra il concetto
di "monopolio" (ovvero di autoritarismo sul piano politica, in quanto al
monopolio economico fa sempre da pendant quello politico).
Oggi il capitalismo occidentale è in grado di assicurare la fruizione
(relativa) del concetto di libertà in forza dello sfruttamento della
proprietà dei Terzo mondo, in quanto la moderna proprietà borghese è
diventata di tipo imperialistico.
SITUAZIONE PRECEDENTE AL CAPITALISMO
(Marx, Il Capitale, Ed. Newton Compton, Roma 1976, III libro, cap. 36)
Marx esordisce dando per scontato che la presenza del capitale usuraio
comporti due cose fondamentali: "almeno una porzione dei prodotti venga
convertita in merci" e "un certo sviluppo del denaro"(p. 803). Quindi in un
certo senso si presuppone una sorta di precapitalismo commerciale.
Marx tuttavia, facendo l'esempio di Roma antica, precisa che lo sviluppo del
capitale usuraio cresceva col crescere della decadenza di quella civiltà
(decadenza della fase repubblicana, che poi portò alla dittatura imperiale).
E mentre questo capitale usuraio e quello che per il commercio di denaro si
svilupparono enormemente alla fine della repubblica, viceversa la
manifattura si trovava "in condizioni assai inferiori allo sviluppo medio
dell'antichità"(ib.).
L'usuraio è un ex-tesaurizzatore di professione che presta denaro a un
commerciante, il quale spera di ricavarne un profitto investendolo. Marx
sottolinea come "in tutte le forme in cui l'economia schiavistica... serve
come mezzo d'arricchimento"(p. 804), là esiste la possibilità che il denaro
possa essere "valorizzato come capitale che rende interesse"(ib.). Persino
le università cattoliche ritenevano "legittimo l'interesse per i prestiti
commerciali"(ib.). Tuttavia, a p. 809 dirà il contrario: "nel Medioevo non
esisteva in nessun paese un saggio generale dell'interesse. La chiesa
proibiva a priori una qualunque forma d'interesse. Leggi e tribunali
proteggevano assai poco i prestiti".
Questo però faceva sì che il saggio d'interesse fosse particolarmente alto,
tanto più che il traffico bancario era molto ridotto. Si badi che Marx non
fa quasi mai differenza tra "alto Medioevo" (che per lui assomiglia troppo
all'economia schiavistica perché meriti d'essere preso in considerazione) e
"basso Medioevo", dove l'economia effettivamente comincia ad essere
semi-borghese (specie nell'Italia comunale e delle città marinare).
Ora vediamo se Marx dà una definizione di usura. A p. 809 cita i dati di K.
D. Hüllman (1765-1846), riportati in Storia delle città nel Medioevo (1826).
Sono tutti relativi ai tempi di Carlo Magno e arrivano sino al XIV sec. Gli
usurai generalmente erano gli ebrei, esclusi dagli uffici pubblici, e le
disposizioni non si riferivano ai cristiani, per i quali era vietato un
qualunque prestito che prevedesse un interesse (almeno sino a quando non
compaiono i monti di pietà, anticamera delle banche).
Marx comunque è preoccupato non tanto di dimostrare quando un prestito può
essere considerato "usuraio" da rendere impossibile la restituzione
dell'importo ricevuto, quanto piuttosto di far capire la differenza di
priorità tra il capitale nel capitalismo e il capitale nel precapitalismo.
In effetti, sono sempre esistite due forma di usura, che nella società
schiavistica detenevano un ruolo molto importante e che invece sotto il
capitalismo hanno un ruolo del tutto marginale: "l'usura tramite prestito di
denari a grandi scialacquatori, soprattutto a proprietari terrieri"(p.
804) - ed è il caso praticato nel basso Medioevo; "l'usura tramite prestito
di denaro a piccoli produttori, che mantengono nelle loro mani le condizioni
del proprio lavoro [artigiano, contadino]"(ib.).
Marx dà per scontato che entrambe le figure "usurate", proprietario terriero
e piccolo produttore, andando inevitabilmente in rovina, finivano col
permettere la concentrazione di "grandi capitali monetari"(ib.). Tuttavia
egli non è così stupido dal sostenere che questa concentrazione di per sé
favorisca la nascita del capitalismo, altrimenti questo non sarebbe nato
anzitutto in Europa occidentale, nel XVI secolo. La transizione "dipende
completamente dal grado dello sviluppo storico e dalle corrispondenti
circostanze"(p. 805), di cui però Marx non dice nulla, almeno qui. A p. 808
ribadirà che ci vogliono "altre condizioni", e noi sappiamo che Marx non
darà mai alle stampe quei testi in cui i problemi non avevano trovato
soluzioni soddisfacenti.
E pensare che la conclusione del capitolo precedente a questo lasciava ben
sperare in un approfondimento culturale di queste tematiche: "Il sistema
monetario è intimamente cattolico -dice Marx-, il sistema creditizio
intimamente protestante... Come carta l'esistenza monetaria delle merci ha
solo un'esistenza sociale [non materiale, come nella tesaurizzazione]. E' la
fede... nel valore monetario come spirito immanente delle merci, la fede nel
modo di produzione e nel suo ordine prestabilito, la fede nei singoli agenti
della produzione come semplici personificazioni del capitale che si
autovalorizza [di qui, si può aggiungere, l'innegabile componente ateistica
nel protestantesimo, ovvero la sfiducia nel valore sacramentale degli
oggetti religiosi]. Ma come il protestantesimo non riesce ad emanciparsi
dalla base cattolica, così il sistema creditizio non si emancipa dal
fondamento del sistema monetario"(pp. 801-802). Quest'ultima frase è buttata
lì, senza ulteriori spiegazioni. Probabilmente Marx vuole dimostrare che il
suo disinteresse per le questioni religiose era dipeso proprio
dall'incapacità del protestantesimo di emanciparsi totalmente dalla sua
componente religiosa.
Giustamente Marx fa notare come il ricorso al capitale usuraio era ed è
tipico del piccolo produttore e non certo dell'operaio salariato, il quale
al massimo ricorre al monte dei pegni. Il motivo per cui il piccolo
produttore si rivolge all'usuraio è presto detto: le banche preferiscono far
credito a clienti che offrono garanzie. Questo non significa che l'usuraio
presti i soldi ai poveri; egli infatti li presta anche ai ricchi, e in ogni
caso non ha un reale interesse a che gli usurati li investano con profitto.
"Quando l'usura dei patrizi romani portò a un totale fallimento la plebe di
Roma, cioè i piccoli contadini, questa forma di sfruttamento cessò e
l'economia dei piccoli contadini dovette cedere il posto all'economia
schiavistica vera e propria"(p. 806).
L'usuraio distrugge l'economia e riconverte nel peggio i capitali acquisiti.
Divora tutto il plusvalore del piccolo produttore, esattamente come fa il
capitalista nei confronti dell'operaio, con la differenza che il capitalista
reinveste nella propria attività. Se l'usura colpisce gli schiavisti o i
feudatari "il modo di produzione non cambia; solo si fa più pesante per chi
lavora"(p. 808). Se il latifondista o lo schiavista non regge il peso dei
debiti, può anche accadere che venga direttamente sostituito dall'usuraio,
come nell'antica Roma fecero i cavalieri (ceto dei grandi commercianti,
appaltatori e usurai). "Al posto dei vecchi sfruttatori, il cui sfruttamento
conservava un carattere in un certo senso patriarcale... subentrano nuovi
ricchi, spietati e avidi di denaro"(ib.). Il modo di produzione però resta
lo stesso.
Anzi, mentre l'usuraio cerca di espropriare completamente il piccolo
produttore, il salariato, quando si presenta al cospetto del capitalista, è
già espropriato di tutto. Quindi è assurdo sostenere, come fa H. C. Carey
(1793-1879), che il capitalista sia migliore dell'usuraio o che il
capitalismo sia un sistema meno esoso, meno violento, più democratico di
quello schiavista.
Il salariato può mettersi nelle mani dell'usuraio al massimo come
consumatore. Anzi, secondo Marx, il capitale usuraio è meno esoso di quello
capitalistico, proprio perché ha solo la pretesa di distruggere, favorendo
una "situazione precaria in cui la produttività del lavoro sociale non è
sviluppata"(p. 807). Viceversa, il capitalismo non solo distrugge la
proprietà personale dei mezzi produttivi del piccolo produttore, ma
subordina a sé ogni forma di lavoro, sviluppando un sistema di relazioni che
favorisce sempre più non solo l'espropriazione, ma anche lo sfruttamento del
lavoro altrui e quindi il progressivo accumulo di capitali.
Tuttavia, prosegue Marx, non tutti i mali vengono per nuocere. "I
lavoratori, prima isolati, vengono ammassati in grandi officine, in
un'attività ripartita e concatenata"(ib.). Là dove c'era l'isolamento del
produttore individuale (qui sta l'incomprensione di Marx circa la situazione
delle comunità di villaggio), ora c'è il collettivismo forzato di molti
ex-produttori, cioè di salariati nullatenenti. Il capitalismo "non permette
più il frazionamento degli strumenti di produzione relativo alla piccola
proprietà, così come non permette più l'isolamento dei lavoratori"(ib.).
Questo aspetto, secondo Marx, giustifica il passaggio dal feudalesimo al
capitalismo.
L'incomprensione sta appunto nel fatto che Marx fa coincidere un modo
tecnico di produzione economica con un modo di gestione sociale
dell'economia. Il fatto che il contadino vada da solo a lavorare la terra
non significa affatto ch'egli viva da isolato nel contesto della comunità di
villaggio. E' molto più isolato un operaio che quando torna dal lavoro si
trova a vivere in edifici urbani di cui non conosce neppure il vicinato,
senza considerare che nel mentre lavora in fabbrica la socializzazione coi
colleghi risulta tempo sottratto alla produttività. Il fatto che gli
strumenti produttivi di un contadino siano "primitivi" va messo unicamente
in relazione con quelli adottati dal capitalismo, ma non può di per sé voler
dire che fossero inadeguati alla produzione, in quanto questa necessita di
un rapporto equilibrato con la natura, che ha precise esigenze riproduttive.
Queste due sviste: di natura sociale e di natura ecologica, oggi sarebbero
imperdonabili.
SCHIAVISMO - SERVAGGIO - LAVORO SALARIATO
Dallo schiavismo al servaggio esiste un progresso nell'emancipazione sociale
e culturale del lavoratore che il marxismo classico non ha mai sottolineato
nella giusta misura.
I pregiudizi nei confronti del mondo rurale si sono riflessi
nell'interpretazione del feudalesimo, che viene positivamente considerato
solo in riferimento a quelle realtà sociali e istituzionali che poi
porteranno alla nascita del capitalismo (p.es. l'Italia comunale o in genere
la borghesia del basso Medioevo).
Il marxismo occidentale non ha ipotizzato l'idea che con una maggiore
resistenza contadina al servaggio si sarebbe potuta verificare una
transizione diversa da quella che farà poi nascere il capitalismo. C'è
voluto il leninismo prima di ipotizzare un salto dal feudalesimo al
socialismo.
La storia in realtà s'è incaricata di dimostrare che dal servaggio al lavoro
salariato esiste più che un progresso nell'emancipazione sociale, un
progresso nell'ipocrisia di tale presunta emancipazione.
Esiste infatti un falso progresso sul piano della libertà giuridica, la
quale viene costantemente contraddetta dalla schiavitù sociale (questo anche
tutto il marxismo lo sa bene). Si è "liberi" di vendere la propria
forza-lavoro, ma con scarse possibilità di contrattare sul prezzo (specie se
non esiste qualifica per una mansione particolare) e comunque senza certezze
che qualcuno sarà disposto a comprarla.
L'operaio salariato è più simile allo schiavo romano che non al servo della
gleba. La differenza sta solo nella maggiore libertà giuridica, che però è
del tutto formale. Lo schiavista poteva fare dello schiavo quel che gli
pareva, ma doveva comunque mantenerlo in vita per poterlo sfruttare. Oggi la
libertà giuridica lo ha anche esonerato da questo obbligo.
Rispetto al servaggio è migliorata una situazione formale ed è peggiorata la
condizione sostanziale. Di questo non ci si accorge nei tre poli
dell'imperialismo mondiale: Stati Uniti, Europa occidentale e Giappone
semplicemente perché il peso delle contraddizioni tra capitale e lavoro
viene prevalentemente scaricato sull'80% dell'umanità che vive nei paesi del
Terzo e Quarto Mondo.
LE FORMAZIONI PRECAPITALISTICHE
Nell'esaminare il pensiero di Marx relativamente alle formazioni
precapitalistiche bisognerebbe partire dalle seguenti premesse:
nel marxismo occidentale esistono pregiudizi nei confronti del mondo rurale,
sia perché questo mondo è legato a ideologie di tipo religioso, sia perché
non presenta i connotati tipici del proletariato industriale, che non
possedendo altro che la propria forza-lavoro, viene ritenuto più disposto a
compiere la rivoluzione;
il marxismo occidentale, per spiegare la nascita dell'accumulazione
primitiva, non è in grado di fare un'analisi di tipo culturale,
ontogenetica, ma solo un'analisi di tipo economico-fenomenologico;
quando Marx parla di Medioevo generalmente intende il basso Medioevo;
quando Marx si riferisce alla comunità primitiva, generalmente esclude che
fosse libera e basata su un lavoro collettivistico;
Marx scopre il lato eversivo e quindi "potenzialmente rivoluzionario" del
mondo agricolo soltanto quando viene a contatto col populismo russo, cioè
dopo il 1868.
Nel cap. 36 del III libro del Capitale egli afferma, in maniera ricorrente,
che "il capitale usuraio è tanto più forte quanto più è dominante la piccola
produzione dei contadini e degli artigiani" (ed.Newton Compton). Ma se
questa tesi può essere vera per il basso Medioevo, non lo è anche per l'alto
Medioevo.
Un'altra tesi ricorrente, molto generica e sostanzialmente errata, è questa:
"se e quando il capitale usuraio porta alla nascita del capitalismo, ciò
dipende dal grado di sviluppo della società". Anche perché lo stesso Marx
sembra sostenere il contrario: "il capitale usuraio distrugge la società
pre-capitalistica senza crearne una capitalistica; il capitale industriale
invece distrugge e crea".
Dunque, cosa intende Marx per "grado di sviluppo della società"? Qualunque
riferimento all'economia in ultima istanza non spiega nulla.
Finché esiste solo il capitale usuraio, la società pre-capitalistica ha più
possibilità di autoconservarsi di quante non ne abbia se si sviluppa il
capitalismo, ovviamente a condizione che esista un'opposizione collettiva
del lavoro all'usura. Viceversa, se si sviluppa il capitalismo, la
conservazione della memoria del passato diventa impossibile e
l'anticapitalismo non può essere che un sinonimo di post-capitalismo, cioè
di socialismo.
In una lettera a Engels, Marx ammette d'aver avuto dei pregiudizi nei
confronti della questione contadina. Lo scrive dopo aver preso contatti col
populismo russo. Come noto, i pregiudizi non dipendono sempre dalle
insufficienti conoscenze. Marx mostra di averne nei confronti del mondo
rurale sin dal suo esordio giornalistico nella "Rheinische Zeitung"
(1842-43). Molto interessanti sono le lettere spedite da Marx a Engels nel
1856 (29/02, 16/10, 30/10). Rilievi negativi nei confronti delle istituzioni
comunitarie dei popoli slavi si trovano anche in Per la critica
dell'economia politica, nei Lineamenti... e nello stesso Capitale.
Certamente il livello degli studi delle formazioni precapitalistiche era ai
suoi tempi relativamente modesto, ma sia Marx che Engels conoscevano le
opere di Hanssen, Meitzen, Maurer, Morgan, e comunque non era assente
l'esperienza del lavoro agricolo pre-capitalistico.
Marx conosceva le comunità asiatiche (specie dell'India), le comunità di
villaggio rumene, le comunità "comunistiche" del Perù pre-colombiano...
Tuttavia, mentre scriveva il I libro del Capitale, Marx non s'è mai
interessato seriamente ai problemi dell'evoluzione dell'agricoltura
medievale o della servitù della gleba. L'unica regione dell'Europa orientale
citata nel Capitale è la Romania (vagamente i paesi danubiani).
E' stato semmai Engels a interessarsi maggiormente del Medioevo dell'Europa
occidentale (soprattutto della Germania). In una lettera a Engels del
14/03/1868, Marx mette a confronto alcune caratteristiche dell'obscina russa
con la marca tedesca: questo indurrà Engels ad approfondire l'argomento
della rivoluzione contadina dei tempi di Lutero e il tema dell'Origine della
famiglia, della proprietà e dello Stato.
Marx cominciò a superare i suoi pregiudizi non solo quando ebbe una chiara
visione della comune agricola russa (grazie alle opere di Cernysevskij e di
Kovalevskj), ma anche quando si rese conto che i populisti erano seriamente
intenzionati a fare una sorta di "rivoluzione socialista" per impedire che
il capitalismo distruggesse l'obscina definitivamente.
In una lettera a Kugelmann (17/02/1870), Marx difende esplicitamente
l'obscina contro coloro che ritengono quest'ultima responsabile della
miseria dei contadini. Cfr anche le lettere di Marx all'Otecestvennje
Zapiski (novembre 1877), a Vera Zasulic (08/03/1881), di nuovo a Kugelmann
(29/11/1869 e 27/06/1870) e a S. Meyer (21/01/70).
In quegli anni la posizione di Marx si può così riassumere:
è possibile salvaguardare l'obscina e compiere una rivoluzione socialista
agraria solo se contemporaneamente esiste in Europa occidentale una
rivoluzione proletaria, che aiuti la comune agricola a sopravvivere;
dal 1861 in poi in Russia, pur in presenza della liberazione dal servaggio,
va emergendo la classe dei kulaki, che tende a privatizzare la terra: ciò
senza dubbio favorirà la nascita del capitalismo.
Una questione bisognerebbe tuttavia chiarire: quando Michajlovskij sosteneva
che, per come viene descritto nel Capitale, il processo di formazione del
capitalismo pare debba valere come legge inevitabile della storia qua talis
e che quindi non ci può essere rivoluzione socialista se prima non viene
imposto il capitalismo su vasta scala - si tratta, questa, di una lettura
sbagliata del Capitale o di una sua inevitabile interpretazione (conseguente
a certe tesi marxiane)?
Marx si è difeso dicendo che intendeva riferirsi all'Inghilterra, ma lui
stesso ha affermato d'aver scelto questo paese come "sede classica"
dell'accumulazione capitalistica. Solo dopo aver preso contatti col
populismo ha affermato di non aver voluto indicare una sorta di "filosofia
della storia".
Qui tuttavia è impossibile discutere delle intenzioni di un grande
economista quale fu Marx. Qui si vuole semplicemente discutere se
oggettivamente talune sue tesi (o addirittura l'impostazione generale del
Capitale) potevano portare alla conclusione che il capitalismo fosse una
tappa fondamentale per la realizzazione del socialismo.
Che poi Marx abbia voluto fare autocritica solo in maniera indiretta,
facendo concessioni, ammettendo alcune possibilità non previste... questo è
un altro discorso.
Dal canto suo Marx non aveva dubbi nel considerare l'Europa occidentale e
l'Inghilterra in particolare come l'area geografica più avanzata del mondo.
Se a questo si unisce la sufficienza con cui Marx ha sempre guardato le
formazioni economiche precapitalistiche, diventa una conseguenza
inevitabile, anche se non esplicitamente ammessa, il ritenere che tutto lo
sviluppo storico mondiale debba in qualche modo ripercorrere le fasi del
capitalismo europeo.
Marx avrebbe fatto meglio ad ammettere che dopo essere venuto a contatto col
populismo russo, cominciò a comprendere l'importanza delle società
precapitalistiche europee e non, e di averle colpevolmente trascurate nella
stesura del Capitale, proprio a causa di un personale pregiudizio nei
confronti del mondo rurale (riscontrabile esplicitamente persino nel
Manifesto del 1848).
La conclusione cui vogliamo arrivare è in sostanza la seguente: se Marx
avesse compreso meglio le formazioni precapitalistiche, probabilmente
avrebbe cercato di approfondire di più, sul piano culturale, i motivi che
storicamente portarono alla nascita del capitalismo. L'aver ricondotto
l'analisi della nascita del capitalismo entro gli angusti limiti
dell'economia politica, implicava già di per sé una posizione nettamente
sfavorevole nei confronti delle società precapitalistiche, dove il ruolo
culturale di questa scienza era del tutto trascurabile e dove le forze
produttive era indubbiamente limitate rispetto a quelle che si svilupperanno
a seguito del macchinismo. Implicava inoltre la decisione di considerare il
capitalismo come una formazione sociale inevitabile.
Marx ovviamente non fu così ingenuo dal pensare che il capitalismo sarebbe
potuto nascere in qualunque epoca storica (inclusa quella greco-romana, dove
i commerci erano molto sviluppati). Tuttavia egli era convinto di due cose:
che dal feudalesimo euroccidentale si sarebbe potuti uscire solo attraverso
il capitalismo (almeno fino ai contatti col suddetto populismo);
che un capitalismo europeo su scala mondiale avrebbe fatto entrare in un
unico mercato internazionale anche quelle aree geografiche caratterizzate
non solo dal feudalesimo ma anche da formazioni sociali pre-feudali.
Le varianti a queste tesi non sono emerse che dal rapporto coi populisti
russi (poi hanno trovato conferma negli studi di Morgan e di Maurer).
Non si può sostenere che Marx giudicasse inevitabile la transizione al
capitalismo solo in Europa occidentale, non in Russia. Nessuna transizione è
mai inevitabile, in nessun paese del mondo. Lo diventa solo se non vengono
poste liberamente alcune condizioni per impedirla. Ma la possibilità di tali
condizioni esiste sempre, ed è esistita anche in Europa occidentale. Non è
un caso che Marx non si sia mai interessato delle lotte contadine
antifeudali.
Per Marx l'inevitabilità del capitalismo dipendeva proprio dal fatto che si
passava da una proprietà privata (quella dei piccoli agricoltori) a un'altra
(quella dei capitalisti). In Russia, per realizzare il capitalismo, si
doveva passare da una proprietà comune (l'obscina) a una privata (p.es. dei
kulaki). Se questa seconda forma di transizione la si voleva considerare
inevitabile, occorreva farla dipendere non dalle considerazioni (fatte nel
Capitale) relative alla prima forma di transizione, ma da nuovi argomenti
(vedi p.es. la lettera alla Zasulic).
Tuttavia neppure la prima forma di transizione avrebbe dovuto essere
considerata inevitabile, non foss'altro perché in Europa occidentale sono
esistite comunità di villaggio, proprietà comuni della terra ecc. Per Marx
le comunità di villaggio sono esistite solo nelle formazioni pre-feudali.
Gli ultimi 12 anni della vita di Marx andrebbero studiati come un capitolo a
parte della sua vita. Questo periodo andrebbe intrecciato con quello coevo
di Lenin, il quale, condizionato com'era da Plechanov, non riusciva ad
afferrare l'importanza del populismo. Lenin, come tutti i marxisti russi,
era convinto che il capitalismo sarebbe stato inevitabile in Russia
e -questo però solo lui lo pensava- che si sarebbe potuto opporre
un'efficacia resistenza non tanto con la comune agricola quanto con la
rivoluzione proletaria. Solo molto più tardi Lenin penserà di utilizzare le
rivendicazioni contadine per la realizzazione del socialismo. Di Lenin
bisogna leggere Che cosa sono gli "Amici del popolo"... (1894).
Le domande cui bisognerebbe rispondere sono queste: se i marxisti russi si
fossero alleati in tempo coi populisti, la rivoluzione bolscevica sarebbe
scoppiata prima? sarebbe stata comunque dominata dagli intellettuali e dalle
esigenze dell'industrializzazione? sarebbe stata ugualmente burocratica e
statalistica, secondo la deformazione staliniana? ci sarebbe stata la
collettivizzazione forzata delle campagne?
Se si considera l'obscina russa come una possibilità praticabile che
l'Europa aveva d'impedire il sorgere del capitalismo, oggi, essendo essa
scomparsa, si deve necessariamente credere che per tutta l'Europa non sarà
mai più possibile alcuna transizione al socialismo?
Ha senso sostenere che un'efficace lotta anticapitalistica non avrebbe
potuto essere patrimonio esclusivo dei soli populisti, senza un collegamento
con quella condotta dagli operai industrializzati?
* * *
Nell'odierna Russia è riesploso il capitalismo perché col comunismo s'era
cercato di fermarlo in maniera artificiosa. Non nel senso che, affinché si
realizzasse il comunismo, doveva prima affermarsi il capitalismo (seguendo
la linea del marxismo classico), ma nel senso che il comunismo russo non è
riuscito a servirsi dei contadini in funzione anticapitalistica.
I contadini, a parte i primi momenti della rivoluzione, sono sempre stati
subordinati agli operai, o meglio alle esigenze di una forzata
industrializzazione. D'altra parte, gli intellettuali marxisti, essendo
tutti atei, non potevano essere "organici" agli interessi dei contadini, che
erano tutti credenti e che semmai si riconoscevano nei populisti.
Gli intellettuali marxisti avevano bisogno di affermare la necessità del
capitalismo perché volevano essere "organici" a una nuova classe sociale:
quella operaia dell'industria, la quale, essendo stata strappata dalla
terra, aveva perso ogni legame con la religione.
La differenza tra Marx e gli intellettuali marxisti russi, riguardo alle
forme pregiudizievoli verso il mondo rurale, stava semplicemente nel fatto
che quest'ultimi si resero subito conto che in un paese prevalentemente
agricolo non sarebbe stata possibile alcuna rivoluzione proletaria senza
l'appoggio dei contadini. Di qui lo sviluppo di scienze politiche come la
tattica e la strategia rivoluzionaria. Anche se ideologicamente Lenin era
lontano dal mondo contadino, politicamente gli era vicino.
E' un fatto, tuttavia, che nella sua polemica contro i populisti, Lenin non
abbia saputo trovare nelle istituzioni contadine del suo paese alcun
elemento positivo.
Eppure i marxisti russi sapevano bene che in un paese arretrato come il loro
il capitalismo, per imporsi, non poteva aspettare il consenso delle masse,
doveva per forza agire usando gli strumenti più brutali: cosa che i
contadini, la stragrande maggioranza della popolazione, non avrebbero potuto
tollerare. E' stata dunque una scelta assai infelice quella di aver
attribuito un primato socio-politico al proletariato industriale.
Scrive Lenin, a proposito della classe operaia, in Che cosa sono gli "Amici
del popolo": "nessun legame la unisce con la vecchia società, interamente
basata sullo sfruttamento; le condizioni stesse del suo lavoro e il suo modo
di vivere la organizzano, la costringono a pensare, le danno la possibilità
di scendere sull'arena della lotta politica"(p. 80).
Dunque, la "vecchia società" impediva di "pensare"? di reagire?
forse perché essa era "interamente" basata sullo sfruttamento?
Dunque, i contadini erano del tutto incapaci di ribellarsi a uno
sfruttamento così massivo?
Un modo "particolare" di lavorare porta di per sé a una maggiore
consapevolezza rivoluzionaria?
Eppure proprio Lenin dirà in Che fare? che non basta essere operai per
diventare rivoluzionari: occorre che la "coscienza" venga data
"dall'esterno", e più precisamente dagli intellettuali rivoluzionari.
Per il Lenin antipopulista vi era solo un modo per distruggere il
capitalismo: "la lotta di classe del proletariato contro la borghesia"(p.
87). Questo l'insegnamento di Marx mediato in Russia da Plechanov.
Quando Lenin arrivò a comprendere che la sola via d'uscita dal capitalismo
non poteva essere che quella d'una lotta comune tra operai e contadini
contro feudalesimo e capitalismo insieme, il suo rapporto col populismo era
praticamente finito. E la fine di questo rapporto renderà precaria la
consapevolezza che il ruolo dei contadini nella rivoluzione bolscevica non
avrebbe potuto essere irrilevante.
D'altra parte non si deve dimenticare che i cosiddetti "marxisti legali" in
Russia erano addirittura convinti che il capitalismo fosse in Russia del
tutto inevitabile, per cui sarebbe stata vana qualunque forma di resistenza.
Essi non avevano alcuna fiducia nel mondo contadino.
Ed erano altresì convinti che l'unica forma possibile di socialismo fosse
quella industriale, post-capitalistica, del tutto estranea alle formazioni
sociali pre-capitalistiche.
La Russia ha sempre sofferto di questa antinomia: la classe politica e
intellettuale è tendenzialmente filo-occidentale, mentre la classe contadina
è slavofila.
I VANTAGGI DEL CAPITALISMO
Gli storici devono cominciare a chiedersi se i vantaggi ottenuti con lo
sviluppo della società borghese, subito dopo il crollo del feudalesimo,
potevano essere considerati sufficienti a legittimare la necessità di una
definitiva transizione, ovvero se gli svantaggi correlati a questa
transizione non furono così grandi da escludere l'idea che non vi fosse
un'altra soluzione alla crisi del feudalesimo.
In effetti, oggi appare sempre più chiaro che il capitalismo non è che una
variante dello schiavismo (così come d'altra parte lo era il servaggio): le
differenze sono più formali (cioè giuspolitiche) che sostanziali (cioè
socioeconomiche). La differenza tra capitalismo e feudalesimo sta
nell'illusione della libertà o della ricchezza e naturalmente nei mezzi
materiali con cui si cerca di alimentare tale illusione. Nel feudalesimo la
libertà dipendeva da una ricchezza che si acquisiva per nascita: solo a
partire dalla crociate gli esclusi da qualunque forma di eredità (ad es. i
cadetti), cercarono di far fortuna come i borghesi.
Ricchezza e libertà coincidono sia nello schiavismo, che nel servaggio e nel
capitalismo: nel primo caso il metro di misura è il numero degli schiavi che
si possiede (ma si conosceva anche la ricchezza fondiaria e quella
commerciale); nel secondo caso il metro di misura è la terra; nel terzo è il
capitale.
Il capitalismo, aumentando l'illusione della libertà, è stato, dal punto di
vista dell'onestà intellettuale, un regresso rispetto allo schiavismo
romano, dove l'illusione era minima. Il capitalismo non ha fatto che
accentuare al massimo l'illusione del servaggio, sostituendo la religione
con mille altre droghe. Senza contare il fatto che il capitalismo, per
sopravvivere, ha necessariamente bisogno di colonie da sfruttare, mentre il
feudalesimo -almeno sino alle crociate- si limitava a uno sfruttamento del
lavoro interno. Da ultimo bisogna tener conto che il capitalismo, per
alimentare le proprie illusioni, ha bisogno di usare strumenti imponenti e
sofisticati, che comportano una notevole distruzione ambientale (e su scala
planetaria).
Il marxismo da sempre ha detto che il capitalismo sarebbe stato l'ultima
illusione. La storia però ha dimostrato che ne può esistere un'altra ancora
più sofisticata (sul piano politico-ideologico): quella del socialismo
amministrato, di Stato (che è una riedizione del servaggio, e che oggi si
trova ancora in Cina).
Dobbiamo in sostanza chiederci che possibilità aveva il capitalismo di
svilupparsi senza il colonialismo (iniziato praticamente con le crociate,
cioè con un'ideologia religiosa -quella cattolica- ben marcata). E' forse
giusto esaltare gli aspetti antifeudali del capitalismo, quando, per
affermare tali aspetti, esso ha avuto bisogno di inaugurare nuove forme di
sfruttamento e di oppressione (su larga scala)? I progressi conseguiti sul
piano tecnico, materiale, scientifico sono sufficienti per giustificare il
superamento del feudalesimo? E' possibile cioè che dal servaggio, attraverso
la lotta politica, non si potesse passare a un'altra forma di società
civile, realmente democratica?
Perché nell'Europa orientale è potuta avvenire la transizione dal
feudalesimo al socialismo (seppure di Stato), senza passare per il
capitalismo? La risposta, probabilmente, va cercata nello sviluppo diverso
delle tre ideologie religiose: cattolica, protestante e ortodossa, o
comunque nel diverso tipo d'influenza che queste ideologie hanno esercitato
sui rapporti sociali. Non a caso l'inizio dei rapporti borghesi è avvenuto
in Europa occidentale, quando si era definitivamente consumata la rottura
tra Occidente cattolico e Oriente ortodosso. Solo che lo sviluppo di tali
rapporti ha trovato la sua maggiore coerenza nell'area protestantica non in
quella cattolica. La chiesa romana, infatti, essendo eminentemente politica,
non tollera che si formi al proprio interno una classe che in nome del
capitale possa minacciarne il potere. La chiesa romana è una chiesa feudale
il cui potere economico è sostanzialmente legato alla terra.
L'ideologia cattolica non favorisce di per sé i rapporti borghesi, ma non ha
neppure in sé la forza (morale) per escludere tale evoluzione: essa cerca
solo di usare la forza politica per opporsi alla borghesia, ma questo ha
potuto farlo in Italia sino all'unificazione nazionale, in Francia sino alla
Rivoluzione dell'89, ecc. La capacità di opporsi idealmente al capitalismo è
diminuita, nel cattolicesimo, in misura proporzionale al suo distacco
dall'ortodossia. Il protestantesimo, dal canto suo, ha potuto perorare al
100% la causa della borghesia perché, rompendo col cattolicesimo, ha evitato
di ricollegarsi all'ortodossia (infatti ha eliminato il concetto di
"tradizione"). E così oggi è solo la chiesa cattolica che ancora s'illude di
poter realizzare sul piano politico una "terza via" tra socialismo e
capitalismo. Né l'ortodossia, né, per motivi diversi, il protestantesimo si
sono mai preoccupati di questa cosa.
Nei Paesi protestanti, sul piano etico, si sono realizzati dei rapporti
umani individualistici e cinici, perché basati sul denaro; nei Paesi
cattolici ancora ci si illude che l'ideologia religiosa abbia in sé il
potere d'impedire che si formino dei rapporti del genere. Il persistere di
concetti come "Stato assistenziale" o "garantista", "capitalismo popolare"
ecc. sono appunto il frutto di questa illusione.
In Italia le forze conservatrici, che da mezzo secolo stanno al potere (e
che dicono d'ispirarsi al cattolicesimo e che fino a qualche tempo fa
s'illudevano di poter "umanizzare" il capitalismo), si sono sempre
meravigliate, lamentandosene, della grande forza (almeno sul piano
quantitativo) delle masse comuniste. In realtà, tale forza trovava la sua
ragion d'essere proprio nella presenza autorevole, nel nostro Paese, del
cattolicesimo, il quale, nonostante i suoi dualismi, ha saputo trasmettere,
per un certo periodo di tempo, l'esigenza di un ideale di giustizia anche in
quei soggetti usciti dalla chiesa cattolica. Paradossalmente, proprio
l'affermazione del socialismo avrebbe permesso agli ideali del cattolicesimo
di sopravvivere meglio (seppure ovviamente in forma laicizzata). Tuttavia,
la chiesa cattolica non ha mai accettato questa soluzione (almeno in
Occidente), proprio perché è una chiesa sostanzialmente legata al potere
politico: essa ha sempre preferito considerare come suo principale nemico il
comunismo invece del capitalismo. Salvo poi lamentarsi, con ipocrisia, che
dopo il crollo degli ideali comunisti non s'intravede più in Occidente una
lotta politica per la giustizia. Viceversa, nel Terzo mondo la chiesa
cattolica (slegata dal potere istituzionale) ha preferito mettersi in
rapporto con le ideologie socialiste.
E' curioso che il crollo "storico" del socialismo stia trascinando con sé
anche quello "ideale" del cattolicesimo. Tuttavia il vero crollo "storico"
del cattolicesimo avverrà soltanto quando il socialismo avrà realizzato gli
ideali della democrazia sociale e dell'umanesimo integrale. Prima di allora
il destino del cattolicesimo occidentale sarà sempre più quello di
trasformarsi, all'ovest, in un'ideologia analoga a quella protestantica (con
qualche settore interessato all'ortodossia), e al sud in un'ideologia legata
agli ambienti di sinistra.
DAL FEUDALESIMO AL CAPITALISMO: IL RUOLO DELL'IDEOLOGIA
Nel capitalismo il diritto apparentemente è più importante della forza, ma
nella realtà il diritto è in funzione della forza, cioè la forza economica
del proprietario privato, per imporsi sul cittadino, ha bisogno di
travestirsi coi panni del diritto. Perché questa finzione?
Nel feudalesimo la teologia serviva per consolare il servo della gleba che
subiva un rapporto violento, basato sulla forza, cioè sulla cosiddetta
coercizione extra-economica. Il contadino era costretto a lavorare e a
produrre plusvalore perché il feudatario lo minacciava con la sua forza. E
la chiesa lo consolava promettendogli d'intercedere presso il feudatario e
garantendogli la fine di quel rapporto nell'aldilà. La teologia veniva
usata, nello stesso tempo, per legittimare quel rapporto e per cercare di
renderlo più sopportabile.
La differenza tra diritto e teologia sta nel fatto che il primo ha la
pretesa di garantire la libertà sulla terra e non nel cielo. Sia il diritto
che la teologia agiscono prima e dopo i fatti dell'economia, al fine di
promuoverla e di legittimarla, ma il diritto vuole apparire come uno
strumento di emancipazione della borghesia dalla teologia e dai rapporti
feudali. Solo in questo senso la borghesia può sperare che la "nuova
scienza" venga accettata dal servo della gleba, che, lottando contro il
feudalesimo lotta anche contro la teocrazia.
Il diritto rappresenta un'ipocrisia maggiore proprio perché sul piano
economico l'antagonismo tra proprietario e lavoratore si riproduce in forme
diverse ma non meno opprimenti. Il contratto, nel lavoro salariato, offre
l'illusione di una libertà superiore a quella della dipendenza personale
dell'epoca feudale, ma essendo di molto aumentati gli standard vitali, ora
per il contadino neo-operaio la rottura di quel contratto comporta
immediatamente una situazione disperata.
L'illusione borghese è superiore perché superiore è l'alienazione. Mentre
nel feudalesimo era la dipendenza personale che imponeva lo sfruttamento,
nel capitalismo invece è la libertà personale (giuridica) del lavoratore che
impone un diverso sfruttamento, uno sfruttamento così particolare che lo
stesso lavoratore è diventato una "merce" da acquistare sul mercato del
lavoro.
Il diritto ha svolto le stesse funzioni della teologia all'alba del
feudalesimo. Infatti, all'origine del rapporto feudale la teologia ebbe lo
scopo d'illudere lo schiavo sulla possibilità della libertà nel servaggio.
Tale cultura, invece che spingere gli schiavi alla rivolta contro i padroni,
li convinse ad accettare una diversa forma di rapporto di lavoro, facendo
credere loro che con un proprietario cristiano il rapporto sarebbe stato
meno oppressivo.
All'origine di una formazione sociale antagonistica, che segue un'altra
formazione antagonistica, deve per forza esserci una cultura illusoria, che
è tale anche senza saperlo, in perfetta buona fede e nella convinzione di
poter modificare qualitativamente l'oppressione sociale.
E' proprio questa cultura che impedisce la transizione democratica. Ma per
poterla impedire essa deve offrire l'illusione di poterla superare. Là dove
c'è un antagonismo in atto, lì deve esserci un'ideologia che lo giustifica:
in questo caso era il paganesimo. Oltre a ciò deve anche esserci
un'ideologia che lo contesta e che cerca di superarlo: in questo caso il
cristianesimo. E' stato appunto il cristianesimo che nel tentativo di
superare lo schiavismo ha contribuito alla nascita del servaggio. Lo storico
non deve fare altro che esaminare l'efficacia democratica delle ideologie
progressiste.
* * *
Il fatto che nell'Europa orientale il feudalesimo fu più stabile di quello
occidentale dipese dalla diversità delle culture: ortodossa e cattolica.
Nell'est-europeo ci fu meno contestazione nei confronti del servaggio (come
minore fu quella nei confronti dello schiavismo) perché meno forti erano le
contraddizioni antagonistiche. Quando queste contraddizioni divennero
insopportabili, si finì col rifiutare, con esse, anche la soluzione
capitalistica prospettata in occidente. Ciò sta appunto a significare la
superiorità della cultura est-europea.
Tuttavia, la stabilità del feudalesimo si verificò anche in Asia, cioè sotto
la cultura indo-buddista. Questo fatto può essere spiegato pensando alla
limitatezza di quella cultura, che non ha saputo elaborare autonomamente una
critica del feudalesimo. Questa cultura sarebbe stata incapace di elaborare
un'illusione così sofisticata come quella euroccidentale. La critica del
feudalesimo essa l'ha acquisita dopo essere venuta a contatto con la civiltà
borghese e l'ideologia socialista.
Il fatto che in Asia il capitalismo non si sia affermato come in Occidente
(a parte il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore,
Macao...), sta però a significare che il feudalesimo asiatico aveva
conservato delle tracce del comunismo primitivo o comunque del modo di
produzione asiatico, che è di tipo socialistico, seppure in forma
autoritaria e massificante.
In tal senso è parso più naturale (soprattutto in quelle nazioni ove
l'ideologia è più democratica e i rapporti sociali sono più collettivistici:
si pensi alla Cina buddista) il passaggio diretto dal feudalesimo al
socialismo. In Cina, Vietnam, Corea del Nord, Mongolia ecc. è avvenuta la
stessa cosa che è avvenuta nell'Europa orientale, solo che qui il passaggio
è stato mediato dal cristianesimo e non dal buddismo. Probabilmente è stato
lo scarso peso dato all'individuo singolo che ha indotto il socialismo
asiatico ad essere così burocratico e autoritario. Sarebbe interessante, in
questo senso, cercare di capire se lo stalinismo è una variante del
socialismo asiatico o se invece rappresenta un'anticipazione del socialismo
che si affermerà in Europa occidentale.
CAPITALISMO E CRISTIANESIMO
Come mai la rivoluzione borghese si è verificata prima che altrove in
un'area geografica dominata dalla presenza del cristianesimo? Cosa ha
impedito a tutte le altre religioni di conseguire i medesimi risultati?
Il motivo è semplice: il cristianesimo è la prima religione del mondo che
pone l'uomo al centro del processo storico-universale. Esso da un lato ha
ereditato l'ottimismo della cultura ebraica, la fiducia nelle capacità degli
uomini, organizzati collettivamente, di trasformare l'ambiente in cui
vivono, superando della cultura ebraica l'aristocraticismo dell'appartenenza
a un "popolo eletto", a una delle dodici tribù, alla "nazione santa" ecc.
(il che comportava chiusure e settarismi); dall'altro ha ereditato il
cosmopolitismo dei popoli pagani (greco-romani soprattutto), superandone
l'individualismo e l'intellettualismo: limiti che portavano a credere nei
concetti passivi di "destino", "fato" ecc.
Tutte le altre religioni hanno conservato un rapporto migliore con la
natura, senza preoccuparsi più di tanto di "fare storia". In ciò esse
possono riflettere una maniera individualistica o collettivistica di vivere
i rapporti sociali: quel che è certo è che esse appaiono più "religiose" (in
senso tradizionale) del cristianesimo. La religione tradizionale esprime
infatti una sorta di rapporto magico con la natura, che è avvertita più
potente dell'uomo. Col cristianesimo invece il rapporto si ribalta: è l'uomo
a essere considerato più forte.
CONCETTO DI PROGRESSO
Il concetto borghese di progresso è un controsenso, poiché da un lato induce
a desiderare con tutte le forze un'identità soddisfatta di sé, dall'altro
impedisce con tutti i mezzi di realizzare tale desiderio. Stimola e reprime
nello stesso momento. Il capitalista infatti ha bisogno di vendere, ma vuole
anche che tutti gli altri abbiano bisogno di comprare. Ma se si può solo
comprare, vendendo al massimo "forza-lavoro", come si può essere
soddisfatti?
Il concetto borghese di progresso rimanda al futuro la nostra emancipazione
e intanto nel presente ci fa vivere come alienati, come individui frustrati.
Fa pagare prezzi salatissimi e alla fine non garantisce nulla. Spingendo a
desiderare sempre più (consumismo), impedisce che gli uomini s'accontentino
dl minimo indispensabile per vivere dignitosamente, quel minimo che assicura
la loro coscienza che nessun altro sta pagando per loro. Sarà mai possibile
diventare poveri e liberi? Non è forse questo il vero progresso: vivere
modestamente senza essere schiavi di nessuno, sapendo che la propria
ricchezza non dipende dalla miseria degli altri?
Laddove è esistito il comunismo primitivo, il benessere consisteva nel non
morire di fame e nella libertà interiore, ovvero nel non temere più di tanto
il proprio futuro e quello dei propri figli, nell'avere inoltre un rapporto
sano, equilibrato con la natura, con gli altri, con se stessi... Se questo
comunismo non è mai esistito, bisognerebbe inventarlo. Ma se lo avvertiamo
come desiderio, esso probabilmente s'è conservato nella memoria collettiva
inconscia. Se il socialismo scientifico non è che un modo d'essere
maggiormente conformi alla natura di questa realtà, esso non servirà a
nulla, anzi non farà che aggravare le contraddizioni antagonistiche.
Il benessere vero o è per tutti o è falso. Laddove esistono ingiustizie di
varia natura, lì esiste non soltanto benessere materiale per pochi e fame
per molti, ma anche un diffuso malessere spirituale, che negli strati
inferiori, marginali, meno consapevoli si esprime in forma di ignoranza,
superstizione, fatalismo, mentre negli strati superiori si esprime in forma
di cinismo e paura: cinismo per poter conservare la propria fortuna, paura
quella di perderla.
Questo diffuso malessere spirituale non inquina solo la natura e i rapporti
umani, ma anche la coscienza di chi vi si crede immune. Paradossalmente, ci
troviamo ad essere oggi, con tutta la scienza, la tecnica, i capitali e le
armi che abbiamo, molto più insicuri degli uomini primitivi, che di tutto
ciò non possedevano nulla.
Ecco perché dobbiamo affermare un nuovo concetto di benessere, un nuovo
senso della qualità della vita. Dobbiamo creare una società in cui ognuno
consumi quel che produce (o un prodotto equivalente), in cui gli scambi
commerciali siano volontari, non obbligati, e che siano equi, cioè
reciprocamente vantaggiosi: una società in cui nessuno possa sfruttare il
lavoro altrui, possedendo molto di più di quel che effettivamente gli
occorre. Dobbiamo ricondurre tutte le merci al loro valore d'uso.
CAPITALISMO E PROGRESSO TECNOLOGICO
Per introdurre il discorso sull'evoluzione tecnologica occidentale di questi
ultimi 500 anni si potrebbe partire da una domanda di carattere generale, le
cui risposte però possono portare in direzioni molto diverse.
I progressi tecnologici che hanno indotto gli uomini a vivere sempre meno
sull'autosussistenza e sempre più sullo scambio delle merci, vanno
considerati come uno sviluppo naturale, che prescinde dalle determinazioni
specifiche del capitalismo, oppure dobbiamo considerare questi progressi
come peculiari del capitalismo?
In altre parole, il capitalismo s'è innestato su qualcosa che già c'era o
l'ha invece prodotto? Lo scambio infatti è sempre esistito, ma solo sotto il
capitalismo è diventato preponderante. Va considerata "naturale" questa
evoluzione delle cose?
Generalmente tutti gli equivoci risiedono nell'incomprensione della
differenza tra i concetti di "necessità" e "inevitabilità". La storia
dell'uomo è la storia della libertà, perché l'essere umano è l'unico essere
vivente dotato di libertà di scelta. E' una "necessità" dell'uomo dover
scegliere e fa parte della "inevitabilità delle cose" il fatto che
determinate scelte abbiano, ad un certo punto, determinate conseguenze.
Nessuna scelta rimane senza conseguenze e nessuna conseguenza è mai stata,
almeno fino ad oggi, così grave da impedire alla specie umana di compiere
una nuova scelta, diversa dalla precedente.
Sotto questo aspetto il capitalismo merita d'essere preso in esame perché
per la prima volta nella storia gli uomini hanno voluto assegnare un primato
assoluto a un aspetto che, nelle civiltà precedenti, era sempre stato
considerato di secondaria importanza: quello cioè di attribuire allo scambio
delle merci un'importanza infinitamente superiore alla produzione per
l'autoconsumo.
Qual è stata la motivazione culturale che ha spinto gli uomini a compiere
questa rivoluzione copernicana nel modo di vivere l'economia? Per quale
motivo l'eccedenza è diventata così assolutamente prioritaria rispetto alla
soddisfazione dei bisogni primari?
Il paradosso più incredibile del capitalismo è che proprio nel momento in
cui il cittadino o il lavoratore potrebbe mettersi in proprio per non
dipendere da nessuno e uscire definitivamente dal servaggio di memoria
feudale, in virtù della libertà giuridica acquisita, ecco che subentra un
nuovo processo di dipendenza, che lega il cittadino-lavoratore non tanto
alla terra ma alla fabbrica e, più in generale, al mercato, che di fatto lo
priva della libertà giuridica acquisita. L'operaio resta formalmente libero
ma sostanzialmente è di nuovo schiavo.
Perché è potuto accadere che la rivendicazione di una forma di libertà
personale e sociale si sia trasformata in una tragica illusione?
La prima ragione di questo risiede nella mancanza di una riforma agraria,
che permettesse all'ex servo della gleba di diventare padrone di una
porzione di terra coltivabile.
I contadini sono stati cacciati o indotti ad andar via dalle terre in cui
prima vivevano: i più sono emigrati in cerca di fortuna verso le zone
industrializzate, senza portarsi dietro alcunché. E le terre che loro
lavoravano si sono trasformate in latifondi, in terre incolte, in pascoli o
in possessi fondiari usati in maniera capitalistica (piantando p.es.
monocolture la cui vendita era destinata al mercato, oppure edificandoci
sopra strade, ponti, ferrovie... per il trasporto delle merci
capitalistiche, ecc.).
Moltissime altre persone disoccupate sono andate a ingrossare le fila
dell'amministrazione statale, degli apparati militari, delle compagini
politiche o religiose; non poche persone hanno scelto la strada della
resistenza armata (brigantaggio) o della criminalità più o meno organizzata.
Il lavoratore è stato espropriato dell'uso dei mezzi produttivi
tradizionali: si è trovato libero ma poverissimo. Cioè non solo non aveva
acquisito la proprietà dei mezzi che usava nel periodo del servaggio o della
mezzadria, ma aveva addirittura perduto la facoltà di usarli.
Il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere senza questa espropriazione
iniziale, senza questa forma irrazionale di individualismo, fatta passare
come l'affermazione di una libertà personale.
In secondo luogo, ma è "secondo" solo per esigenza espositiva, in quanto,
nella realtà, fu contestuale al primo, si deve considerare la motivazione
culturale che ha spinto gli uomini ad accettare più o meno consapevolmente
l'evoluzione di questo sconvolgimento nello stile di vita.
E qui difficilmente si potrebbe prescindere da tutti quei fenomeni religiosi
cosiddetti "ereticali" che, a partire dal Mille, minarono le consolidate
tradizioni di potere delle gerarchie cattolico-romane, fino all'esplosione
della riforma protestante.
Non si sarebbe stata alcuna evoluzione "naturale" verso il capitalismo se
questa evoluzione non fosse stata culturalmente preparata, per mezzo
millennio, da una revisione intellettuale del cristianesimo feudale di
matrice latina che ad un certo punto prese la direzione di un
neo-cristianesimo di matrice anglosassone.
Ecco perché una qualunque analisi del capitalismo non potrà mai ritenersi
"scientifica" finché si limita ad affrontare gli aspetti economici, senza
integrarli con quelli culturali. Non basta analizzare un fenomeno per
poterlo capire, bisogna anche cercare di individuare le motivazioni
culturali che possono averlo fatto sorgere in un certo luogo e tempo.
Certo, sarebbe stupido cercare dei nessi di causa-effetto tra i processi di
ordine culturale e quelli di ordine economico, anche perché, di regola, i
primi coinvolgono persone del tutto diverse da quelle coinvolte nei processi
economici e non necessariamente i protagonisti culturali e sociali di questi
fenomeni sono in contatto tra loro.
In ogni caso i suddetti nessi non sono mai immediati, in quanto i mutamenti
di tipo culturale sono lenti, progressivi e devono necessariamente radicarsi
nell'immaginario collettivo prima di indurre gli uomini a utilizzarli per
giustificare i mutamenti della realtà economica e a pretendere mutamenti
ancora più radicali.
Quando le motivazioni culturali sono sufficientemente chiare, è poi
relativamente semplice rendersi conto, per uno storico, cioè per uno
studioso che guarda le cose in retrospettiva, che gli sviluppi di tipo
economico hanno una loro specifica ragione, cioè non sono determinati da
circostanze fortuite o casuali, non dipendono dall'arbitrio di singoli
individui, non sono frutto di una cieca necessità, ma fanno parte di una
cultura caratterizzata da un percorso ambiguo, dove si susseguono,
continuamente, istanze di liberazione e tradimenti, dove le scelte che si
compiono vengono messe in discussione solo dopo che hanno sortito gli
effetti più negativi, dove anche quando si fanno le scelte più sbagliate si
pensa sempre vi sia la possibilità di tornare indietro e ricominciare da
capo.
La storia tuttavia è proprio la conferma che, poste determinate opzioni di
vita, raramente si è poi in grado di ripristinare la situazione originaria,
a meno che gli uomini non lottino consapevolmente per una rivoluzione
politica.
Nella genesi dei fenomeni è invisibile il nesso che lega i mutamenti
culturali con quelli sociali. Possono infatti esistere motivazioni
profonde, di ordine psicologico o materiale, che inducono gli uomini a
preferire un tipo di produzione economica rispetto a un'altra, ma, in ultima
istanza, sono le motivazioni culturali, di cui il più delle volte si ha
scarsa consapevolezza, che decidono il trionfo su larga scala di determinati
metodi e mezzi produttivi.
E' solo la cultura che universalizza dei processi di natura economica,
perché se questi processi, al loro apparire sono contrari alla mentalità
dominante, agli usi e costumi consolidati per tradizione, non c'è modo di
estenderli socialmente senza l'appoggio di un intervento culturale, più o
meno diretto.
Un processo economico, una scoperta scientifica, una scelta tecnologica
risultano "vincenti" soltanto quando la maggioranza della popolazione si è
lasciata convincere dagli intellettuali della sua assoluta necessità o, se
vogliamo, della sua compatibilità più o meno grande coi processi e le
tecniche dominanti in un determinato momento storico.
La storia del capitalismo è quindi anche la storia delle idee che lo hanno
culturalmente preparato, ne fossero o meno consapevoli gli intellettuali che
le hanno elaborate. D'altra parte se gli uomini potessero sapere in anticipo
dove potrebbe portarli lo sviluppo e l'applicazione pratica delle loro
teorie, forse si preoccuperebbero di più a conservare la memoria del loro
passato che non a puntare sul desiderio di vivere un futuro completamente
diverso.
Tuttavia, anche questa è solo un'ipotesi, poiché non si possono porre
confini all'esercizio della libertà umana.
* * *
La rivoluzione tecnologica, iniziata col capitalismo, non può essere
considerata un evento neutrale, che sarebbe potuto accadere anche in assenza
del primato concesso al capitale sul lavoro, o che, una volta posto, non
avrebbe influito in maniera decisiva sullo sviluppo dello stesso
capitalismo.
Prima del capitalismo sono esistite civiltà le cui classi dominanti ponevano
l'interesse materiale (terre, schiavi, capitali commerciali) al di sopra di
tutto, ma in assenza di una rivoluzione tecnologica si restava entro limiti
ben definiti. Oggi invece si ha l'impressione che non esistano limiti.
La rivoluzione tecnologica ha cominciato ad affermarsi a partire dal XVI
sec. e da allora non si è più fermata: è una componente essenziale del
capitalismo.
Questo significa che un'alternativa al capitalismo non può non implicare
un'alternativa anche alla tecnologia, cioè al suo attuale livello di
complessità, di sofisticazione, di dipendenza dalle necessità di un sistema
che di "umano" non ha nulla. Per dimostrare la superiorità del socialismo
democratico non c'è bisogno di utilizzare la medesima tecnologia. E' assurdo
pensare che l'impossibilità di poter padroneggiare con sicurezza l'odierna
tecnologia sia comunque un segno di "progresso sociale e civile".
Tra l'altro i vantaggi non sono neppure sicuri dal punto di vista del
capitale. Infatti, il capitalismo ha continuamente bisogno di perfezionare i
propri strumenti di produzione, a causa della necessità che il capitale ha
di valorizzarsi in maniera crescente, ma questo incessante aumento della
complessità tecnologica e quindi del know how per poterla gestire porta a un
decremento sempre più vistoso della manodopera meno qualificata e infine
alla caduta tendenziale del saggio di profitto.
Questo senza considerare che l'aumento progressivo del divario tra chi
possiede i mezzi e le conoscenze più avanzate e chi no, non comporta alcun
vero vantaggio per questi ultimi, che si sentono sempre più tagliati fuori
dalla storia e sempre più disposti a rischiare qualunque cosa.
Insomma, dovendo scegliere tra conservazione delle forme e superamento della
sostanza, ci si accorgerebbe facilmente che le due opzioni sono strettamente
interconnesse, per cui non è più il caso di discutere se un'analoga
rivoluzione tecnologica sarebbe potuta accadere a prescindere dal
capitalismo: ormai infatti è evidente che, sotto il capitalismo, la
tecnologia è sempre stata usata, sin dagli inizi, non solo per lo
sfruttamento sociale, ma anche per quello ambientale e naturale.
L'uomo è un essere di natura: la sua tecnologia deve avere caratteristiche
naturali o comunque non può avere un'artificiosità tale da pregiudicare gli
interessi della natura stessa e della specie umana che le appartiene.
COMMENTO AL CAPITALE
(K. Marx, Il Capitale, ed. Newton Compton, Roma 1976)
Dall'economia politica all'antropologia storica
Premessa
Il grande merito di Marx è stato quello di aver subordinato la filosofia
alla politica; il grande torto quello d'aver subordinato la politica
all'economia. Tuttavia, nel momento in cui riuscì a mettere a nudo i limiti
di fondo, ontologici, dell'economia politica borghese, attraverso Il
Capitale, Marx aveva aperto la strada, senza volerlo, alla fine del primato
dell'economia sulla politica.
Infatti, proprio il fallimento della rivoluzione socialista in Europa
occidentale aveva dimostrato che la fine del capitalismo non sarebbe potuta
avvenire con il solo strumento della "critica dell'economia politica",
ovvero sulla base della convinzione che la transizione verso il socialismo
era non meno necessaria di quella dal feudalesimo al capitalismo.
Sarà Lenin a dimostrare che il superamento, pur necessario, del capitalismo,
sarebbe potuto avvenire se anzitutto si fosse privilegiato lo strumento
della politica (tattica, strategia, organizzazione del consenso, ecc.) La
tesi del Capitale sulla necessità di superare la contraddizione
antagonistica del capitalismo, poteva, in sostanza, realizzarsi affrontando
il problema della transizione in maniera rivoluzionaria, privilegiando la
sovrastruttura politica sulla struttura economica, senza aspettare che il
capitalismo portasse a maturazione le proprie risorse.
La storia dell'umanità, con Marx e Lenin, ha compiuto dei progressi
sostanziali. Per superare l'ideologia borghese bisognava cogliere l'uomo
nella sua storicità, e Marx riuscì a farlo, ma bisognava coglierlo anche
nella sua interezza, e l'economia politica, da sola, non poteva rispondere a
questa esigenza.
Sotto questo aspetto, anche il leninismo va superato, poiché i limiti
dell'economia politica e del sistema capitalistico se non si risolvono con
la critica in sé -come fece Marx-, non si risolvono neppure con la
rivoluzione in sé, come Lenin credette di fare, anche se nell'ultimo periodo
della sua vita si accorse dell'errore, così come Marx, venendo a contatto
col populismo russo, s'accorse d'aver sottovalutato l'importanza della
comunità agricola fondata sull'autosussistenza.
La critica teorica è stato il primo passo, la rivoluzione politica il
secondo: il terzo passo dovrà essere quello della riscoperta del primato
dell'uomo sia sull'economia che sulla politica.
Marx ha trovato l'ontologia dell'economia, Lenin quella della politica, ora
bisogna trovare l'ontologia dell'uomo.
Probabilmente la nuova scienza che dovrà preoccuparsi di cercarla sarà
l'antropologia storica, cioè una scienza che da un lato valorizzi la
storicità dell'uomo e dall'altro la sua globalità di espressioni vitali.
NOTA. Tutte le citazioni del Commento si riferiscono al volume unico di
Marx, Il Capitale, a cura di E. Sbardella, prima edizione della Newton
Compton, Roma 1976.
Breve analisi del Capitale - I vol.
Il primo libro del Capitale venne pubblicato da Marx nel '67 ad Amburgo. Il
piano iniziale era quello di pubblicarlo come secondo fascicolo di Per la
critica dell'economia politica, sulla "Tribune", ma la collaborazione al
giornale era stata sospesa. Il secondo e il terzo volume furono pubblicati
da Engels. Il quarto volume, che sotto il titolo Teorie del plusvalore
comprende un resoconto storico delle dottrine dell'economia politica
borghese da Hobbes a Ricardo, venne dapprima pubblicato da Kautsky e poi, in
un'edizione più accurata dall'Istituto Marx-Engels-Lenin di Mosca dopo il
1920.
Marx inizia l'indagine del sistema capitalistico con l'analisi del concetto
di merce. Nel capitalismo la forma commerciale del prodotto del lavoro è
comune e non isolata o casuale come nelle società precapitalistiche. Marx
scopre che nella merce ci sono due valori: Valore d'uso (quello che soddisfa
un qualunque bisogno dell'uomo) e Valore di scambio (che è il rapporto
quantitativo tra una merce e un'altra di diverso tipo: attraverso infiniti
scambi si stabiliscono continuamente dei rapporti di equivalenza tra i
valori d'uso più diversi).
Base del valore di scambio di due merci diverse è il lavoro. La produzione
delle merci è un sistema di rapporti sociali in cui i singoli produttori
creano prodotti di qualità diversa (in virtù della divisione sociale del
lavoro) e tutti questi prodotti sono fatti uguali l'uno all'altro mediante
lo scambio. Di conseguenza quello che tutte le merci hanno in comune non è
il lavoro concreto di un determinato ramo della produzione, né il lavoro di
una stessa categoria di prodotti, ma il lavoro umano astratto (in generale).
E' questo tipo di lavoro che dà il vero valore alle merci. La grandezza del
valore è determinata dalla quantità (o tempo) di lavoro socialmente
necessario per produrre una data merce, cioè non è determinata dal tempo
"individuale" impiegato da un singolo produttore.
Nel capitalismo una merce non si scambia con un'altra merce, ma si scambia
col denaro, che svolge il ruolo di equivalente universale (come prima
l'oro). Ad un certo grado di sviluppo della produzione mercantile il denaro
si trasforma in capitale. Prima la formula della circolazione delle merci
era M (merce)- D (denaro)- M (merce). Ora diventa D-M-D' (ove D' è la somma
di denaro originalmente anticipata più un incremento: il plusvalore). Ora si
compra non per l'uso ma per la vendita, per il profitto.
Da dove viene questo profitto? Il plusvalore non può scaturire dalla
circolazione delle merci, perché questa conosce solo lo scambio tra
equivalenti, né può sorgere da un aumento dei prezzi, perché i guadagni e le
perdite reciproche dei venditori e degli acquirenti si compenserebbero. Per
ottenere plusvalore il possessore di denaro deve trovare sul mercato una
merce il cui valore d'uso abbia la proprietà peculiare di essere fonte di
altro valore. Questa merce è la forza-lavoro dell'uomo. Il capitalista non
paga tutta la forza-lavoro dell'operaio, ma solo quella parte sufficiente
all'operaio per riprodurla; contemporaneamente però il capitalista può
disporre di questa forza-lavoro per un tempo superiore a quello necessario
per riprodursi: è sulla base della differenza di questo tempo che il
capitalista realizza il plusvalore. Ad es. in 6 ore l'operaio può creare un
prodotto la cui vendita basta a coprire le spese del proprio mantenimento,
ma siccome il capitalista gli ha offerto in anticipo un contratto sulla sua
forza-lavoro complessiva, ne risulta che nel tempo di lavoro supplementare
l'operaio non viene pagato, ma solo sfruttato, per cui il plusvalore non è
che pluslavoro non retribuito.
Di per se stessi i mezzi di produzione non rappresentano "capitale", perché
lo diventano solo quando servono a sfruttare lavoro altrui. Va inoltre
sottolineato -dice Marx- che non è stato il capitalismo a scoprire il
pluslavoro, poiché questo esisteva in tutte le società dove una piccola
minoranza deteneva il monopolio dei mezzi produttivi. In queste società però
non dominava il valore di scambio, ma il valore d'uso del prodotto e quindi,
per il carattere stesso della produzione (che era per i bisogni locali
immediati) non si aveva un illimitato bisogno di plusvalore.
Naturalmente perché l'operaio venga sfruttato, occorre che sia libero di
accettare il contratto (non può quindi essere un servo della gleba o un
artigiano nelle corporazioni), ma deve anche essere totalmente privo di
mezzi di sussistenza (terra e mezzi produttivi). Cioè egli deve poter
esistere solo vendendo forza-lavoro.
L'aumento del plusvalore è quindi possibile in due modi: 1) prolungando la
giornata lavorativa (plusvalore assoluto) o 2) riducendo, con la
razionalizzazione del lavoro o l'introduzione di nuova tecnologia, il tempo
di lavoro necessario alla riproduzione della forza-lavoro (plusvalore
relativo).
Marx analizza tre stadi storici nello sviluppo della produttività del lavoro
in regime capitalistico: semplice cooperazione, manifattura e produzione
meccanica. Quest'ultima ha assicurato la piena vittoria del capitalismo.
Caratteristiche fondamentali del capitalismo (concorrenziale):
crisi di sovrapproduzione, cioè eccesso di beni prodotti, per realizzare
profitti, che non possono essere consumati a causa dei bassi salari;
nello stadio industriale avanzato si ha l'eliminazione dei piccoli
capitalisti che producono a costi superiori e non riescono a tenere il passo
con le innovazioni tecnologiche e la concentrazione dei capitali;
l'accumulazione capitalistica esige l'allargamento della popolazione
operaia, ma con l'estendersi della tecnologia si riduce l'impiego di lavoro
e si crea una sovrappopolazione relativa, con cui il capitalista tiene bassi
i salari degli occupati (quando questa sovrappopolazione diventa assoluta i
capitalisti, nel timore d'essere espropriati, tendono a scatenare delle
guerre);
legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, ovvero il
capitalista, essendo interessato a realizzare sempre maggiori profitti,
cerca di introdurre nuovi macchinari, facendo notevoli investimenti: se a
questo si aggiunge la difficoltà di piazzare le merci per le limitate
capacità di acquisto degli acquirenti o per la concorrenza di altri
capitalisti, di avere le materie prime a prezzi ridotti, di avere una classe
operaia combattiva - si spiega il motivo per cui il saggio generale del
profitto tende ad abbassarsi.
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