L'ANALISI DELLA MERCE (I)
Marx apre la Ia sez. de Il Capitale costatando che "la ricchezza delle
società, nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico, appare
come un'immensa raccolta di merci'"(p.25), cioè è una ricchezza il cui
valore si misura in termini quantitativi: quante più merci circolano, tanto
più la società è ricca. La "qualità" dipende dalla "quantità"; la "qualità"
decisa dalla "quantità" è sempre inerente ai "beni materiali", e viene
decisa sulla base di questi beni, in modo particolare sul loro possesso.
La merce infatti -prosegue Marx- ha la pretesa di soddisfare "bisogni umani
di qualunque specie", materiali e spirituali. Lo fa a prescindere dal
"come".
La pretesa della merce non dipende dalla sua effettiva riuscita: è, per così
dire, di tipo "genetico".
Nella società capitalistica la merce è composta di due fattori: il valore
d'uso e il valore di scambio. Il primo è deciso sulla base del consumo: ha
un valore ciò che serve per l'individuo. Il secondo invece rappresenta un
modo d'esprimere, di due merci, il valore equivalente. Marx vuole qui
evidenziare che nel capitalismo lo scambio prescinde, in un certo senso,
dall'uso e quindi dalla qualità delle merci, limitandosi più che altro alla
loro quantità, sebbene una comprensione adeguata della natura del valore di
scambio -Marx lo dirà più avanti- debba necessariamente prescindere dalle
questioni quantitative relative alle proporzioni delle merci, per rivolgersi
alla qualità del lavoro astratto, socialmente necessario, in esse racchiuso.
Viceversa, in una società pre-capitalistica lo scambio non potrebbe mai
prescindere dall'uso. Marx infatti afferma che se si prescinde dal valore
d'uso, si prescinde da tutto ciò che dà significato alle cose e al loro
stesso uso. Nel capitalismo il valore di scambio è determinato da una sorta
di "lavoro umano astratto" (p.29), cioè da un lavoro che non può essere
concretamente osservato, essendo una "fantastica oggettività"(ib.). Nel
capitalismo lo scambio è indipendente dall'uso. Questo naturalmente non
significa che nelle società pre-capitalistiche non poteva esistere un valore
di scambio mutevole, soggetto a varie circostanze, come non significa che
nel capitalismo le merci non abbiano un valore d'uso.
Come si può notare, Marx è partito con un'analisi fenomenologica, ma ha già
chiarito che è impossibile spiegare il mistero della merce capitalistica
(che si sdoppia in due valori contrapposti) con gli strumenti di
quest'analisi. Ne occorre una che vada aldilà delle "forme" e che entri
nella loro "sostanza", con la "forza dell'astrazione". Marx dirà nella
Prefazione alla Ia edizione che per comprendere i misteri della merce (le
sue "sottigliezze") è stata necessaria un'analisi simile a quella
dell'"anatomia
microscopica". In pratica, egli è dovuto passare, per superare i limiti
metafisici degli economisti inglesi del suo tempo, dalla fenomenologia
all'ontologia dell'economia politica, cercando di spiegare, sulla base
dell'analisi storica, la contraddizione fondamentale, antagonistica, del
sistema capitalistico.
* * *
Il valore di scambio, nel capitalismo, non solo si forma a prescindere dal
valore d'uso, ma, in definitiva, determina questo stesso valore. Cioè un
aspetto esterno o estrinseco determina un aspetto interno o intrinseco,
sebbene nella "merce" -dice Marx- il valore di scambio sia più "intrinseco"
di quanto non lo sia il valore d'uso in un oggetto qualsiasi.
Il "valore" di una merce consiste nella sua più o meno grande scambiabilità.
Il valore di scambio è la forma fenomenica del valore di una merce. Marx si
riferisce sempre alle "merci", cioè a prodotti finalizzati anzitutto allo
scambio.
Un bene ha tanto più valore d'uso quanto più è grande la quantità di lavoro
umano in esso oggettivato. La sostanza che crea valore è il lavoro.
Naturalmente qui Marx dà per scontato che il bene debba avere un valore
d'uso per la sussistenza dell'uomo o per la produzione di qualcosa. Egli non
prende in considerazione il fatto (irrilevante da un punto di vista
strettamente economico) che un bene può avere un altissimo valore (per la
coscienza del soggetto) senza per questo avere un vero uso pratico,
concreto, funzionale.
Nel Capitale il valore viene considerato solo in due modi: d'uso e di
scambio. Tertium non datur. Quando Marx parla del valore in sé, senza
aggettivi, lo intende sempre strettamente connesso al valore di scambio.
"Una cosa può essere valore d'uso -dice- pur non essendo valore"(p.32). C'è
"valore" solo quando c'è "scambio". Il valore di scambio, nel Capitale, o
viene esaminato in sé e per sé, oppure nel suo rimando al valore d'uso,
mentre questo generalmente si riferisce ai fattori materiali della
sussistenza umana e della produzione di beni.
La cosa, a ben guardare, è limitativa rispetto alle capacità umane di
gestire le proprie risorse, che non sono solo "materiali". Ecco, in questo
senso, il valore d'uso, nel Capitale, non rimanda mai alla cultura con cui
l'essere umano dà valore, storicamente, alle cose. E' forse "antimarxista"
aggiungere, in maniera paritetica, ai due valori "classici" quello culturale
e includere tra i valori culturali quelli normativi, affettivi, estetici
ecc.?
Esistono cose che "non hanno valore" proprio in quanto il loro valore è
incommensurabile, cioè non quantificabile, non monetizzabile. Una collana di
conchiglie, per l'indio lucayo incontrato da Colombo durante il primo
viaggio, poteva avere più valore di un oggetto artigianale in oro massiccio,
semplicemente perché quella collana era stata costruita dallo stesso
indigeno. Ma se essa gli fosse stata regalata dalla persona amata, avrebbe
sicuramente avuto un valore maggiore. E se quella persona gli avesse
addirittura salvato la vita o fosse morta poco prima di donargli la collana,
allora questa avrebbe avuto un valore assolutamente incommensurabile.
L'indio l'avrebbe conservata gelosamente e non l'avrebbe barattata con
nessun'altra cosa al mondo.
L'indio in questione conosce sia il valore d'uso che il valore di scambio,
ma più di tutto sa apprezzare il valore in sé delle cose, che prescinde sia
dall'uso materiale che dallo scambio. Il valore, in tal caso, è
incommensurabile non tanto perché non esiste sul mercato un possibile
acquirente, quanto perché la cultura che si riflette nella coscienza
dell'indio e la coscienza che si rispecchia nella sua cultura non vogliono
paragonarlo con nessun'altra cosa.
Dunque se la sostanza che crea un valore "materiale" delle cose è il lavoro,
quella che crea un valore "spirituale" delle cose è la coscienza: beninteso,
non la coscienza astratta, di tipo kantiano, universalmente valida, ma la
coscienza di un soggetto appartenente a una determinata cultura storica,
quella stessa cultura che dà valore al lavoro umano.
Marx non era interessato a questo discorso perché esaminava le cose dal
punto di vista dell'economia politica. La sua principale preoccupazione era
quella di dimostrare i limiti e le irrisolte contraddizioni dell'economia
politica classica (borghese), restando il più possibile all'interno di
quest'ambito d'indagine. Pur avendo compreso perfettamente l'esistenza di un
nesso tra struttura economica e sovrastruttura ideologica, Marx non avrebbe
mai accettato l'idea che l'origine delle contraddizioni dell'economia
politica borghese e della stessa formazione sociale capitalistica (il cui
antagonismo irriducibile è riflesso in quella scienza borghese), va
ricercata nel contesto culturale (ideologico, in particolare religioso)
precedente a quella formazione sociale.
* * *
Per Marx il valore di una merce è dato dalla quantità di lavoro (misurabile
con la sua durata nel tempo), ovvero è dato dal tempo di lavoro socialmente
necessario, dal grado sociale medio di abilità e d'intensità di lavoro (il
dispendio di energie). Naturalmente ciò dovrebbe essere deciso dall'intera
società. Inutile qui aggiungere che nel capitalismo non è la società, nel
suo insieme, che decide il carattere "medio" dell'abilità, dello sforzo
fisico-intellettuale, del tempo necessario, ma è la classe capitalistica
che, sulla base delle leggi dello sfruttamento e delle innovazioni tecniche,
impone a tutta la società i propri criteri relativi alla "medietà".
Marx non ha mai approfondito il motivo culturale per cui, ad un certo punto,
è potuto accadere che una determinata classe sociale potesse decidere, per
tutta la società, di assegnare il valore delle cose a partire anzitutto dal
lavoro, cioè considerando il lavoro come "autosignificantesi", a prescindere
dal contesto socio-culturale che gli dà un senso. Marx si limitò a costatare
che tale "cultura del lavoro" era nata nell'ambito del cristianesimo (specie
nella sua variante borghese, che è il protestantesimo), ma non è mai
riuscito a spiegare perché questa cultura non sarebbe potuta sorgere
nell'ambito della confessione ortodossa o islamica, e neppure in quella
cattolica, se questa non si fosse laicizzata, trasformandosi appunto in
protestantesimo.
Marx afferma, nella Prefazione suddetta, che "al giorno d'oggi, a confronto
della critica dei tradizionali rapporti di proprietà, lo stesso ateismo è
diventato 'culpa levis'". In effetti, questo era vero per la cultura
protestante, ma non sarebbe stato vero, nella stessa misura, anche per
quella cattolica, proprio perché l'ideologia cattolica conserva nei
confronti dell'ideale di una società religiosa un interesse maggiore, che
all'individualista protestante manca.
Da notare, en passant, che nel capitalismo, almeno nella sua fase
concorrenziale, il lavoro presumeva di dare un valore alle cose, a
prescindere dalla cultura sociale (di origine cattolica) in cui lo stesso
lavoro trovava il suo significato, la sua relativizzazione. Il lavoro aveva
questa pretesa perché la religione protestante si era emancipata dalla
teologia cattolica.
In seguito, nella fase monopolistica, il lavoro non è stato più in grado di
dare un valore alle cose. Il valore oggi viene sempre più determinato da
fattori che precedono o che seguono il lavoro vero e proprio (come ad es. la
ricerca scientifica finalizzata al lucro, la pubblicità ecc.). Il lavoro
oggi è la cosa che conta di meno, poiché sempre più viene sostituito dalle
macchine e da aspetti irrazionali del mercato (ad es. la moda).
Dopo essersi reso indipendente dal contesto socio-culturale che gli dava
significato, il lavoro (borghese) ha preteso di sostituirsi a quel contesto,
dando valore alle cose: ne è risultato che il valore delle cose oggi non ha
più alcun senso.
* * *
La grandezza di valore di una merce varia al variare della forza produttiva
del lavoro, ma mentre nelle società pre-capitalistiche tale grandezza
rimaneva abbastanza costante, nel capitalismo invece, a causa dello sviluppo
intensivo dello sfruttamento del lavoratore e della scienza applicata alla
produzione, tale grandezza varia di continuo. Le "condizioni naturali" sono
le ultime che possono, sotto il capitalismo, contribuire al mutamento della
grandezza di valore, mentre nelle società pre-capitalistiche esse erano
generalmente al primo posto.
La mancanza di una grandezza di valore costante è caratteristica del
capitalismo, che non vuole conservare nei confronti del passato alcun
rapporto. "In generale -dice Marx- quanto più è grande la forza produttiva
del lavoro, tanto più corto è il tempo di lavoro necessario alla produzione
di un articolo, tanto più piccola la massa di lavoro in esso cristallizzata
e più basso il suo valore". E' stato appunto così che il capitalismo
emergente ha potuto distruggere il primato dell'agricoltura e
dell'artigianato. Con la concorrenza dei prezzi, il capitalismo ha imposto
sulla qualità del lavoro concreto la forza della quantità del lavoro
astratto. Esso ha distrutto la "piccola forza produttiva del lavoro" che,
avendo bisogno di molto tempo per produrre i beni, crea un valore d'uso
molto grande. Insieme al senso della qualità delle cose, esso ha distrutto
anche il primato dell'uomo sulla macchina, la creatività sulla produzione in
serie.
* * *
Quando nasce il capitalismo: quando si comincia a produrre valore d'uso
sociale o quando si produce solo per il mercato? Il paradosso, infatti, è
questo, che mentre col capitalismo un oggetto viene destinato esclusivamente
a un uso sociale, poiché non ci si limita più a soddisfare i bisogni dei
produttori, con lo stesso capitalismo la prevalenza sociale dello scambio,
che si realizza nel mercato, fa perdere alla merce il suo effettivo valore
d'uso e le fa acquistare un altro valore, quello che le dà chi la produce
(che è un proprietario privato). Di qui i bisogni indotti, il consumismo
ecc.
In altre parole, mentre da un lato il carattere sociale della produzione per
il mercato sembra superare qualitativamente la ristrettezza del carattere
individuale della produzione per l'autoconsumo; dall'altro, invece, proprio
quella pretesa socializzazione della merce toglie a questa il suo valore
d'uso e assicura al singolo proprietario che produce valori di scambio un
primato sulla collettività, rendendo meramente "quantitativo" quel
superamento che pretendeva d'essere "qualitativo".
Dove sta l'inganno di questo processo, in cui lo stesso Marx, in parte, è
caduto? Sta nel far credere che la produzione per l'autoconsumo non abbia
alcun carattere di "socialità", che sia cioè una produzione individuale. In
realtà, anche nella società feudale esisteva il valore d'uso sociale,
esistevano delle merci che si vendevano sul mercato, ma la differenza,
rispetto al capitalismo, era che non si produceva esclusivamente per il
mercato, non si faceva del mercato il sostituto della comunità rurale o di
villaggio. I commercianti di schiavi, di spezie o di articoli di lusso, gli
stessi usurai non avevano certo la forza sociale per mutare questo stato di
cose.
Se vogliamo, la nascita del capitalismo ha rappresentato l'illusione di
credere che il mercato costituisse l'elemento più socializzante della vita
pubblica. Ma se questa illusione ha potuto far breccia nella comunità
agricola, distruggendola dalle fondamenta, significa che in quella comunità
i rapporti sociali non erano vissuti dai lavoratori secondo giustizia. Il
mondo contadino ha potuto essere ingannato dalla classe borghese, con
relativa facilità, appunto perché nelle campagne vigeva il servaggio.
Nell'esaminare i motivi per cui il cattolicesimo è stato superato dal
protestantesimo non si deve dimenticare l'importanza fondamentale di questa
contraddizione sociale. Per secoli il contadino ha lottato contro il
servaggio, ma in Europa occidentale si è riusciti ad eliminarlo solo con una
diversa forma di schiavitù, quella del lavoro salariato.
Se l'illusione non avesse intaccato la maggior parte dei contadini di ogni
comunità, nessun abile e spregiudicato mercante di schiavi, di spezie o di
articoli di lusso avrebbe potuto subordinare le esigenze della comunità
agricola a quelle del mercato.
E' dunque sbagliato sostenere che nella società feudale non si produceva
valore d'uso sociale. Tale valore esisteva nell'ambito della comunità di
lavoro, e anche sul mercato, relativamente alle eccedenze che si volevano
vendere. Ciò che non esisteva era la produzione finalizzata unicamente al
mercato, alla vendita, se non in limitatissimi casi. Il "grano di tributo" o
della "decima", che il contadino produceva per il signore feudale o per il
prete, aveva un valore d'uso sociale, anche se non come il surplus venduto
sul mercato per acquistare sale, spezie e altre cose: la differenza stava
che il primo valore d'uso sociale era estorto con la coercizione, per cui
alla fine diventava di "proprietà privata"; il secondo invece era libero.
In altre parole, nell'ambito della comunità agricola poteva esserci valore
d'uso sociale senza che per questo vi fosse uno scambio equivalente,
diretto, immediato, fra un bene e l'altro (ciò che appunto si verificava sul
mercato). Lo scambio poteva essere "simbolico", indiretto, nel senso che il
contadino poteva produrre un bene d'uso sociale per ottenere in cambio la
possibilità della sopravvivenza della propria comunità.
Nel servaggio invece egli era costretto a produrre un bene d'uso sociale che
a causa della coercizione extra-economica diventava privato: un bene che
serviva appunto al feudatario per garantirsi la sopravvivenza della rendita.
Questo per dire che la merce rappresenta un'alternativa vincente al valore
d'uso sociale soltanto quando questo, in realtà, ha smesso d'essere sociale
ed è diventato privato.
Il punto sta proprio in questo, che il contadino voleva essere sempre più
libero di produrre per il proprio autoconsumo (ovvero per il consumo del
proprio villaggio) e naturalmente di acquistare sul mercato, e sempre meno
voleva essere costretto a produrre valori d'uso per altri. Il borghese deve
aver fatto leva su questa contraddizione sociale e su questa esigenza
emancipativa.
Bisogna quindi distinguere tra valore d'uso sociale e merce: il primo viene
prodotto anche per il mercato, la seconda viene prodotta solo per il
mercato. La precisazione di Engels, messa tra parentesi, a p.33, non ha
chiarito questa differenza, pur avendone lo scopo, e non tanto perché Engels
non sappia che sul mercato esistono solo "merci", quanto perché egli con una
certa difficoltà avrebbe ammesso la presenza d'un valore d'uso sociale nel
Medioevo. Marx ed Engels nutrivano non pochi pregiudizi nei confronti delle
società agricole e delle idee "comunistiche" degli ambienti contadini,
almeno sino a quando non verranno a contatto col populismo russo.
Per loro la produzione agricola era di carattere prevalentemente
individuale. Non a caso Marx, nella suddetta Prefazione, afferma che la
Germania "feudale" è destinata, prima o poi, a diventare come l'Inghilterra
"capitalistica". Questo perché "il paese industrialmente più sviluppato non
fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine del suo avvenire". Al
massimo -dice ancora Marx- si "possono abbreviare e attutire le doglie del
parto, ma non saltare né togliere di mezzo con decreti le fasi naturali
dello svolgimento".
Secondo Marx (ed Engels) il passaggio dal feudalesimo al capitalismo andava
considerato come parte di un "processo di storia naturale", in cui il
singolo non è assolutamente "responsabile di rapporti da cui egli
socialmente proviene, pure se soggettivamente [leggi: con la sua coscienza
personale] possa innalzarsi al di sopra di essi".
In realtà, mentre nel capitalismo un bene diventa sociale solo sul mercato
(e per questa ragione esso riflette solo l'interesse di individui privati),
nella società feudale invece un bene è individuale solo nella misura in cui
è sociale, nel senso che il valore di un bene non viene mai deciso dal
singolo individuo, né da un elemento che, rispetto alla comunità di lavoro,
rappresenta (come nel caso del mercato) un aspetto di secondaria importanza.
Ecco perché si deve affermare che se l'individuo può soggettivamente
"innalzarsi" al di sopra dei rapporti sociali da cui proviene, allora non si
deve considerare la transizione dal feudalesimo al capitalismo come un
processo "naturale", inevitabile, assolutamente necessario. L'inevitabilità
è sempre una conseguenza del fallimento di alcune alternative concrete.
* * *
Al § 2, dopo aver parlato della differenza tra valore d'uso e valore,
intendendo per "valore" la sostanza prodotta dal lavoro e la grandezza
prodotta dal tempo di lavoro socialmente necessario, dopo aver specificata
la differenza tra valore d'uso e valore di scambio, Marx riprende la
dimostrazione già fatta in Per la critica dell'economia politica sulla
"doppia natura" del lavoro contenuto nella merce. Non dimentichiamo che Il
Capitale vuole essere la continuazione del suddetto volume, apparso nel
1859, e, in particolare, il suo primo capitolo -come dice Marx nella
Prefazione- vuole essere un riassunto delle parti significative di quella
ricerca, con l'aggiunta di precisazioni e chiarimenti indispensabili.
Quando Marx inizia a parlare della divisione sociale del lavoro e afferma
ch'essa "è il presupposto dell'esistenza della produzione delle
merci"(p.34),
non bisogna intendere tale affermazione nel senso che là dove esiste una
divisione sociale del lavoro, la produzione è unicamente finalizzata al
mercato. La divisione del lavoro non suppone di per sé il capitalismo.
Viceversa, quando Marx aggiunge, subito dopo la suddetta asserzione, che "la
produzione delle merci non è presupposto dell'esistenza della divisione
sociale del lavoro", e sceglie, come esempio di questo, "l'antica comunità
indiana", dove "il lavoro è socialmente diviso, senza che i prodotti
divengano merci", qui si possono ipotizzare due spiegazioni: o Marx è caduto
in una svista, poiché l'esempio riportato contraddice la sua seconda
asserzione; oppure egli voleva sostenere che le merci possono essere
prodotte da una comunità il cui lavoro non è socialmente diviso, ma allora
ciò contraddice la prima asserzione.
Marx, in pratica, fa questo ragionamento: la divisione del lavoro può
esserci anche nella proprietà collettiva (come ad es. nella comunità
indiana), ma così non si è in grado di produrre merci, poiché queste
sussistono solo in presenza di una proprietà individuale. Infatti, "solo
prodotti di lavori privati autonomi e indipendenti l'uno dall'altro si
possono confrontare reciprocamente come merci"(ib.). Cioè solo quando la
"comunità" è finita e ad essa si è sostituita la libera proprietà privata,
si può parlare di divisione sociale del lavoro finalizzata alla produzione
di merci.
L'incoerenza logica che Marx ha manifestato nella seconda asserzione (e che
Engels probabilmente non è riuscito a spiegarsi) non è semplicemente il
frutto di una svista, ma piuttosto di un pregiudizio nei confronti delle
formazioni sociali pre-capitalistiche, specie di quelle non-schiavistiche.
Marx cioè vuole qui attribuire la facoltà di produrre merci unicamente
all'indipendenza dei produttori singoli semplicemente perché non riesce a
contemplare la possibilità che una comunità, basata sull'autoconsumo, possa
produrre, con la propria divisione del lavoro, merci per un'altra comunità,
e che faccia questo senza escludere l'esistenza, al proprio interno, delle
proprietà individuali, ovvero degli "affari privati di autonomi produttori".
In altre parole, Marx non credeva possibile conciliare proprietà individuale
e proprietà sociale all'interno della comunità agricola pre-capitalistica.
Le merci potevano essere prodotte solo da individui privati la cui proprietà
si contrapponesse a quella sociale.
Questo modo di vedere le cose oggi, se si vuole costruire il socialismo
democratico, va superato. Senza dubbio è vero che la libera proprietà
privata non presuppone, di per sé, una finalizzazione esclusiva della
produzione per il mercato. Però la storia ha dimostrato che nel capitalismo
ciò avviene in maniera generalizzata, irreversibile, senza soluzione di
continuità. Il motivo di questo Marx lo spiegherà più avanti, quando parlerà
del fatto che la presenza di una proprietà privata per pochi e di una
libertà per tutti, obbliga la divisione del lavoro a produrre soltanto merci
e lo stesso lavoratore a trasformarsi in una "merce".
In tal senso si può qui affermare che né la produzione di merci, né la
divisione del lavoro presuppongono, di per sé, la separazione del lavoratore
dalla proprietà dei suoi mezzi produttivi: solo in forza di questa
alienazione materiale un prodotto diventa esclusivamente "merce". Dunque,
per converso, la libera proprietà privata non produrrà unicamente per il
mercato soltanto quando essa sarà patrimonio di tutta la società, cioè
soltanto quando la libera proprietà privata non verrà gestita in
contrapposizione alla libera proprietà altrui. Ma la proprietà privata non
sarà mai libera finché resterà patrimonio di pochi monopolisti.
* * *
Meritevole d'attenzione è l'affermazione di Marx secondo cui il valore d'uso
è il prodotto di un "lavoro utile" e non della "natura" in sé. Il lavoro è
l'unica "attività speciale, produttiva e conforme a uno scopo"(p.35), in
grado di adattare "particolari materiali naturali a particolari bisogni
umani"(ib.).
Nell'economia politica di Marx l'uomo produce valori d'uso in quanto
appartiene alla natura. Nel senso che, in ultima istanza, è la stessa natura
che, attraverso l'uomo, produce valori d'uso per sé. La produzione di valori
d'uso -osserva Marx- è "una perenne necessità della natura"(ib.). In nota
egli cita una frase di Pietro Verri, secondo cui l'uomo non "crea" ma si
limita a "trasformare" la materia ("accostando e separando").
Con questo ragionamento Marx non ha dato una vera spiegazione di ciò che dà
valore al lavoro. Da economista qual era, egli riteneva che il valore del
lavoro (concreto) stesse nello stesso valore d'uso dei prodotti creati: il
valore di una "causa" veniva qui dai suoi "effetti". In tal modo però è
impossibile uscire dalla tautologia, dal determinismo economico. Cosa che
invece si può fare affrontando il problema della cultura che dà senso
all'attività lavorativa e che, in definitiva, permette di distinguere un
criterio di lavoro da un altro. L'indagine su questa cultura, partendo da
un'analisi di tipo marxista, deve ancora essere fatta.
Non avendo considerato l'elemento della cultura, essendosi cioè limitato a
quelli della materia naturale e del lavoro (relativamente alla formazione
del valore d'uso), Marx è caduto in una contraddizione che, se si resta
nell'ambito dell'economia politica, è irrisolvibile. Da un lato, infatti,
Marx sostiene che il valore d'uso è prodotto dal lavoro utile, lasciando
così credere che il lavoro sia un'attività specifica dell'uomo; dall'altro
però sostiene che, nel produrre tale valore, l'uomo "può agire solo come la
stessa natura, cioè solo modificando le forme dei materiali"(ib.).
Il che, in sostanza, non permette di spiegare in che modo il lavoro
dell'uomo va considerato qualitativamente diverso da quello dell'animale. Se
l'uomo fosse semplicemente un ente naturale, i suoi valori d'uso non
potrebbero avere, tra loro, differenze di sostanza, grandezza e forma così
rilevanti. Per quanto grandi possano essere le differenze tra una tela di
ragno e un'altra, mai nessun ragno potrà mai uscire dall'ordine degli
araneidi. Nel costruire oggetti di valore d'uso da parte del mondo animale,
le differenze sono visibili e anche rilevanti, ma mai paragonabili alle
capacità operative dell'essere umano, il quale è sì un prodotto della
natura, ma un prodotto che supera la natura stessa.
Certo, finché si considera il rapporto dell'uomo con la materia, l'attività
lavorativa non potrà essere che quella della trasformazione, essendo la
materia (o la natura) antecedente alla comparsa dell'uomo sulla terra.
Tuttavia, se si considera il rapporto dell'essere umano con se stesso e con
il suo simile, non si può non costatare che l'elemento della coscienza,
sociale e personale (ovvero dell'autocoscienza) rappresenta il superamento
della stessa natura (che è determinata da leggi meccaniche), poiché, al di
fuori dell'essere umano, non esiste in alcun altro ente di natura la
coscienza che sa di essere tale.
* * *
La principale difficoltà della teoria del valore-lavoro di Marx non si
riscontra tanto nell'esame del valore d'uso, quanto in quello del valore di
scambio, e non perché si tratti del valore di scambio in sé, quanto perché,
sotto il capitalismo, tale valore è quanto di più complesso, di più
contraddittorio, si possa pensare, avendo esso un primato ingiustificato,
arbitrario, sul valore d'uso.
Nella IIa parte del § 2, Marx parla del valore della merce, ovvero del
passaggio dal lavoro utile, concreto (per il valore d'uso) al lavoro
astratto (per il valore di scambio). Egli afferma che ogni società ha sempre
cercato di sostituire a una "quantità maggiore di lavoro semplice" una
"quantità minore di lavoro complesso"(p.37), cioè ha sempre cercato di
produrre di più in minor tempo.
Tale "economicità" non sta di per sé ad indicare la transizione dal
feudalesimo al capitalismo. Perché ciò avvenga occorre che il lavoro
astratto abbia un primato decisivo su quello concreto, al punto che
quest'ultimo sia rovesciato dalle fondamenta e al valore della qualità si
sostituisca, tout-court, quello della quantità.
Tuttavia, Marx non è riuscito a spiegare, né mai vi riuscirà, il motivo per
cui, ad un certo punto, la società, nel suo insieme, sulla base di una
determinata cultura (la quale naturalmente avrà subìto un'evoluzione nel
corso dei secoli), preferisce anzitutto e soprattutto produrre sempre di più
in un tempo sempre minore, sconvolgendo così "le proporzioni fornite dalla
tradizione"(ib.). Né egli ha qui considerato l'eventualità che la
"riduzione" del tempo o il "potenziamento" del lavoro semplice possano
essere dettati da motivi occasionali, contingenti (come ad es. le calamità
naturali) e che la società, dopo aver risolto i problemi straordinari, torni
spontaneamente ai metodi ordinari di sussistenza e produzione.
Pur senza dirlo esplicitamente, Marx intende far notare che la transizione
dal feudalesimo al capitalismo (cioè dal valore d'uso prevalente al valore
di scambio prevalente) è stata necessaria, inevitabile, così come è
necessario, da sempre, il passaggio dal lavoro concreto al lavoro astratto.
Anche se non per mezzo di questo passaggio -sarà lui stesso a riconoscerlo-
si deve considerare la transizione al capitalismo come un fatto scontato,
essendo necessarie, a tale scopo, condizioni particolari suppletive, che non
si riscontrano in ogni luogo e tempo. Quelle condizioni appunto che vanno
ricercate nella cultura, nell'ideologia, nei valori, in una parola nella
sovrastruttura, e che Marx non ha mai pensato d'individuare e approfondire
più di tanto.
Egli considerava più importante il lavoro astratto semplicemente perché con
esso è possibile soddisfare molteplici esigenze, e certo non solo del
singolo individuo. Semmai è il lavoro concreto che -secondo Marx- risulta
utile solo al singolo produttore. Insomma, ad una società che privilegia
l'autoconsumo sul mercato, Marx tendeva a preferire, con la sua visione
deterministico-evolutiva, una società che privilegia il mercato
sull'autoconsumo. La "qualità" del singolo prodotto non può andare a scapito
del "benessere diffuso".
Con molta difficoltà Marx avrebbe accettato l'idea che una corretta
valutazione del valore di scambio (ovviamente di due merci diverse) è
possibile solo se nella società domina il valore d'uso di entrambe le merci.
Egli avrebbe obiettato che, in questo caso, non ci sarebbe neppure stato lo
scambio di quelle merci sul mercato. Tuttavia il nodo da sciogliere sta
proprio in questo, che lo scambio può trovare la sua vera ragion d'essere
non solo nel bisogno d'una merce che non si possiede, ma anche e soprattutto
nella capacità che una determinata comunità deve avere di stabilire, con una
certa approssimazione, l'esatto valore d'uso di quella merce oggetto di
scambio. Uno scambio è virtualmente democratico, reciprocamente vantaggioso,
quando entrambi i contraenti sanno in anticipo quanto tempo e fatica
occorrono per produrre una determinata merce. Se lo scambio avviene a
prescindere da questa consapevolezza, facilmente chi detiene il monopolio
della produzione o della proprietà sarà in grado di sottomettere il mero
consumatore o il produttore più debole.
* * *
Marx non ha iniziato Il Capitale con un'analisi storica dell'accumulazione
originaria ma con un'analisi fenomenologica della merce, perché non voleva
dare al lettore l'impressione che tutto quanto è stato prodotto dal
capitalismo va superato.
Partendo dalla merce, egli ha voluto mostrare, indirettamente, che la
transizione dal feudalesimo al capitalismo era indispensabile e che nel
capitalismo l'unica cosa che il socialismo non può assolutamente accettare è
lo sfruttamento del lavoratore, reso possibile dal fatto che la proprietà
dei mezzi produttivi è in mano a pochi capitalisti.
Ecco perché nell'analisi della merce non si riescono a scorgere i motivi di
fondo per cui il capitalismo va rovesciato. Marx ha posto le cose come se il
capitalismo, sul piano fenomenologico, cioè dell'apparenza fenomenica, non
abbia veramente nulla di così "ripulsivo" da necessitare il suo superamento
da parte del proletariato.
Il capitolo dove forse più risulta il lato "irrazionale" della merce
capitalistica, è quello dedicato al "feticismo". Ma qui l'analisi, che pur
viene a toccare aspetti di ordine etico e socio-esistenziale, si limita a
una sorta di "filosofia dell'economia" (non molto diversa da quella dei
Manoscritti del 1844, in quanto Marx non riesce a spiegare quale sia la
cultura che origina il fenomeno del feticismo.
Se egli avesse lavorato di più sul nesso struttura/sovrastruttura, sarebbe
probabilmente arrivato alla conclusione che il superamento del capitalismo
dovrà comportare non solo la fine dello sfruttamento, ma anche l'inizio di
una rivoluzione culturale che modifichi tutti gli aspetti del sistema
capitalistico, strutturali e sovrastrutturali.
* * *
Nel § 3 Marx prende in esame la "forma di valore, cioè il valore di
scambio".
Mentre nel § 1 egli aveva mostrato che la "sostanza" e la "grandezza"
ottenute attraverso il lavoro e il tempo impiegato per produrre una merce,
possono aiutarci a capire il valore d'uso, ovvero "l'oggettività rozzamente
sensibile dei corpi delle merci"(p.41), ora egli non ha dubbi nell'affermare
che "l'oggettività del valore delle merci differisce in ciò dalla vedova
Quickly, che non si sa dove trovarla"(pp.40-1).
Anche qui Marx imposta in modo sbagliato la ricerca per trovare la soluzione
dell'enigma del valore. Egli infatti afferma che "l'oggettività di valore
[delle merci] è semplicemente sociale, e quindi sarà evidente che
quest'ultima può apparire solo nel rapporto sociale tra merce e
merce"(p.41).
L'errore sta appunto nel fatto di ritenere "sociale" solo il valore di
scambio, cioè solo il mercato, e di ritenere "individuale" il valore d'uso,
la cui oggettività sarebbe "rozzamente sensibile". Per Marx la comunità
agricola basata sull'autoconsumo è più individualistica dei soggetti
indipendenti che s'incontrano sul mercato per contrattare, sulla base
dell'offerta e della domanda, i prezzi delle merci. Posto il problema in
questi termini, era ovviamente inconcepibile, per Marx, andare a ricercare
l'oggettività del valore di scambio in una comunità del genere. Egli fa un
discorso logico partendo da una premessa sbagliata.
Il suo ragionamento potrebbe funzionare a una sola condizione, che i
contraenti, sul mercato capitalistico, avessero piena fiducia reciproca. Ma
perché questo accada, occorre che nella società domini il valore d'uso, cioè
il principio secondo cui un oggetto viene prodotto anzitutto per il consumo
individuale e sociale, e solo in secondo luogo per essere venduto. Ora, tale
eventualità non è nemmeno ipotizzabile sotto il capitalismo.
* * *
Secondo Marx il primo motivo per cui è alquanto difficile stabilire
l'oggettività del valore di scambio, consiste nel fatto che due merci di
genere diverso, ad es. una tela e un abito, sono, nel contempo, "l'uno la
condizione dell'altro" ed "estremi che si escludono a vicenda"(p.42).
Infatti l'espressione della "forma di valore semplice" o singola o
accidentale, e cioè: venti braccia di tela = un abito, può essere rovesciata
nel suo contrario: un abito = venti braccia di tela. In tal modo è
impossibile stabilire, in maniera assoluta, quale delle due merci funzioni
come forma relativa di valore (rispetto ad altra merce) o come forma
equivalente (generalmente intesa).
L'enigma poteva essere risolto facendo capo al valore d'uso, ma non è stata
questa la strada scelta da Marx. Facciamo un esempio. Supponiamo che un
intellettuale viva in ristrettezze. Siccome è un appassionato di studi
storici, mira ad abbonarsi a diverse riviste che trattano tale argomento. La
passione per le riviste è superiore a quella per i libri, poiché esse
possono tenerlo aggiornato per un anno intero, mentre un libro, quando vede
la luce, è già vecchio di almeno un anno, se tutto va bene. Certo, potrà
essere profondo, analitico, originale, ma non avrà mai il pregio
dell'attualità, del legame diretto col presente, che fa sentire
l'intellettuale, in contatto con altri intellettuali, protagonista del suo
tempo.
Ad un certo punto egli s'accorge che l'abbonamento medio annuale di tutte le
sue riviste è di circa £ 50.000. Questa cifra, automaticamente, gli diventa
un metro di misura oggettivo per tutti i suoi successivi acquisti di libri.
Nel senso che ogniqualvolta gli capita di voler acquistare un libro che
costa sulle 50.000 £, prima fa mente locale e poi decide se il suo valore
possa corrispondere a quello di un abbonamento annuale a una rivista
storica. Di colpo, il valore d'uso del libro, nella coscienza
dell'intellettuale, crolla a £ 40.000 e poi a £ 30.000, finché egli decide
di non comprarlo (almeno per il momento). "Il libro mi serve, ma costa
troppo; costando così troppo, forse non mi serve tanto".
In pratica che ragionamento ha fatto questo intellettuale? Egli non ha fatto
altro che abbassare, in coscienza, il prezzo del libro mettendolo a
confronto con ciò che più gli interessava. In pratica, egli ha fatto
trionfare il valore d'uso della rivista sul suo stesso valore di scambio,
nel senso cioè che il suo valore d'uso ha fatto abbassare sotto le 50.000 £
il valore d'uso del libro, per avendone fatto aumentare il valore di
scambio.
Naturalmente se la cosa finisse qui non ci sarebbero né vinti né vincitori,
poiché da un lato il libro ha bisogno d'essere venduto, dall'altro ha
bisogno d'essere letto. Se tutti gli acquirenti ragionassero come il nostro
intellettuale, l'editore fallirebbe, ma deve forse cedere l'intellettuale
sul primato del valore d'uso della sua rivista? Deve essere forse lui a fare
un sacrificio e ad accettare l'alto valore di scambio del libro che gli
occorre? Se lo facesse, domani si troverebbe ad avere gli stessi problemi
con un libro che costa £ 60.000, il quale, a sua volta, contribuirà a far
aumentare di prezzo la rivista. D'altro canto l'intellettuale ha bisogno,
per la sua professione, di acquistare anche determinati libri, altrimenti il
valore del suo lavoro tenderà a diminuire. Dunque cosa fare?
Da questo match non si può uscire in termini di "lotta economica"
nell'ambito del capitalismo. L'intellettuale può anche scioperare e smettere
di leggere libri, ma se si limita a questo, sarà poi lui a dover scendere
per primo a compromessi, essendo la parte sociale più debole. Può anche
scegliere soluzioni più "empiriche", come ad es. fotocopiare solo le pagine
che gli interessano, ma prima o poi gli editori gli porranno un divieto.
L'unica cosa che gli resta dare fare, se vuole salvaguardare il primato del
valore d'uso, è quella di affrontare il problema politicamente. Dal circolo
vizioso che il mercato impone alle categorie più deboli, l'intellettuale non
può uscire finché non avrà il potere di strappare all'editore il monopolio
sulla carta stampata. Quando la rivoluzione politica sarà compiuta, non solo
l'editore e l'intellettuale potranno finalmente impostare i loro nuovi
rapporti sul primato del valore d'uso, ma anche tutta la società.
* * *
Marx, trattando l'argomento della "forma di valore", è partito da quella più
"semplice", allo scopo di dimostrarne il limite non rispetto al principio
del valore d'uso (ché, anzi, se messa a confronto col valore d'uso, tale
forma di valore è -secondo Marx- molto meno "rozza"), ma rispetto
all'esigenza del valore di scambio di perfezionare al massimo le sue
"forme",
che, nell'analisi della merce, arrivano sino a quattro (l'ultima è quella
del denaro).
Da un lato quindi Marx ha ritenuto che, di un qualunque prodotto del lavoro
che non si confronta sul mercato con altri prodotti, il valore sia
insignificante, arbitrario, in quanto del tutto individuale; dall'altro ha
cercato di trovare l'oggettività di tale valore nello scambio, ma ha finito
col dimostrarne l'inesistenza, poiché nel capitalismo il valore di una merce
è possibile stabilirlo solo in rapporto a un'altra merce, ed entrambe,
avendo come punto di riferimento non il lavoro ma il mercato, mutano di
continuo i loro valori.
Certamente, Marx ha avuto tutte le ragioni di affermare che una merce non
può stabilire da sé il proprio valore. Tuttavia, invece di dedurre da ciò
che il valore di una merce può essere deciso solo da una comunità che non
dipenda dal mercato, ne ha dedotto che la comunità deve cercare nel mercato
il valore di quella merce ponendola a confronto con un'altra di scambio
equivalente. Cioè invece di porre le premesse per una lotta politica contro
l'egemonia del mercato, Marx si è limitato a sostenere che "indietro" non si
può tornare, che l'autoconsumo è definitivamente tramontato e che il mercato
può essere tenuto sotto controllo semplicemente se si razionalizza la
produzione attraverso la socializzazione dei mezzi produttivi.
Naturalmente se Marx avesse privilegiato il valore d'uso su quello di
scambio, sarebbe poi stato costretto a rivedere i suoi pregiudizi sulle
comunità agricole pre-capitalistiche (cosa che farà, almeno in parte, negli
ultimi anni della sua vita). Ecco perché, affermando che solo nel valore di
scambio si ottiene "una forma di valore diversa dalla sua forma
naturale"(p.46),
egli ritiene che ciò sia un vantaggio rispetto al valore d'uso, dove il
"lavoro umano produce valore ma non è valore"(p.45). Questo perché "soltanto
l'espressione di equivalenza tra merci di diverso genere dà rilievo al
carattere specifico del lavoro come creazione di valore, giacché riconduce
in effetti i lavori di genere diverso contenuti nelle merci di genere
diverso a quello che è loro comune, a lavoro umano in genere"(ib.).
Questo modo di vedere le cose oggi va completamente superato: semplicemente
perché se ciò che dà valore alle merci non può essere il lavoro in sé, ma il
lavoro espressione di una realtà sociale che dà valore allo stesso lavoro,
allora il valore del lavoro non può essere dato dalle possibilità che offre
il mercato di considerare equivalenti determinati merci: l'equivalenza dei
lavori non può essere dedotta dall'equivalenza delle merci.
Se in una determinata società domina il principio del valore d'uso, possono
essere considerati equivalenti due lavori che producono merci non
equivalenti. Se ad es. nel raccogliere le pesche il soggetto A impiega
un'ora per riempire cinque casse e il soggetto B con lo stesso tempo ne
riempie tre, i due lavori non saranno equivalenti se finalizzati al mercato,
ma lo sono se finalizzati all'interesse generale della collettività basata
anzitutto sull'autoconsumo, nel senso che B ha dato quanto era in suo potere
e il confronto con A sarebbe l'ultima cosa cui la comunità potrebbe pensare.
In sostanza, l'uguaglianza dei lavori è possibile solo se all'interno della
comunità vige l'uguaglianza degli uomini tra loro. Se manca questa
uguaglianza, è impossibile ristabilirla partendo da quella delle merci.
E l'uguaglianza degli uomini è possibile realizzarla solo se la proprietà
privata è accessibile a tutti, o in forma individuale o in forma
cooperativistica (all'interno della quale tutti i produttori sono soci a
pari titolo). Non ci può essere uguaglianza sociale là dove un cittadino è
costretto ad accettare il lavoro salariato per poter vivere.
In tal senso, non è singolare il fatto che proprio mentre, attraverso il
valore di scambio, il capitalismo abbia la pretesa di dare "rilievo al
carattere specifico del lavoro come creazione di valore", questo stesso
lavoro, in ultima istanza, non è in grado di stabilire alcun vero valore
oggettivo delle merci?
E non è forse singolare che proprio mentre il capitalismo si preoccupa di
stabilire che il valore di una merce non è dato anzitutto dal suo "valore in
generale", bensì dal suo "valore quantitativamente determinato", questo
stesso specifico valore non sia in grado di farci capire l'effettivo valore
di una merce se non dopo averla messa a confronto con un'altra?
Non è insomma singolare che dopo aver condannato il lavoro concreto a un
ruolo storico del tutto marginale, il capitalismo -che pur privilegia il
lato quantitativo del valore delle merci- sia stato costretto ad affermare
il primato del "lavoro astratto", cioè dell'astratto "valore in generale"
delle merci?
Stupisce, in questo senso, che Marx, pur avendo compreso perfettamente i
limiti ontologici del capitalismo, non sia riuscito a cogliere la positività
del modo di produzione pre-capitalistico fondato sull'autoconsumo.
Una spiegazione di questo limite di Marx la si può trovare nella parte
dedicata alle tre particolarità della "forma di equivalente". Marx indovina
le prime due: primato del valore di scambio sul valore d'uso e primato del
lavoro astratto su quello concreto, ma sbaglia la terza, allorché sostiene
un primato del lavoro sociale (capitalistico) su quello individuale o
privato (pre-capitalistico).
Che Marx non abbia compreso la terza caratteristica lo si può notare anche
dal fatto che l'ha messa per ultima, come fosse una conseguenza delle altre
due, mentre in realtà essa andava messa per prima, essendo la causa
principale del sorgere delle altre.
Se Marx non avesse conservato un pregiudizio sulle comunità agricole di
autosussistenza non avrebbe contrapposto lavoro individuale a lavoro sociale
nei termini in cui l'ha fatto. Egli infatti non ha saputo scorgere nel
lavoro individuale agricolo la dimensione sociale, che è prevalente, e non
ha sottolineato a sufficienza che l'origine del lavoro "sociale", nel
capitalismo, è tutta individuale. La "socializzazione" del lavoro,
nell'ambito del mercato capitalistico, è una mera astrazione, così come è
quanto meno improprio parlare di lavoro "socializzato" nell'ambito
dell'impresa capitalistica, ove la proprietà è di uno o più imprenditori
privati. Meglio sarebbe parlare, in questo caso, di lavoro "organizzato" con
l'uso delle macchine.
Viceversa, nell'economia contadina il lavoro era da subito sociale, anche se
il contadino lavorava la terra con poche persone. Infatti, era anzitutto
"sociale" la comunità che dava senso al lavoro. Ed era "sociale" anche nel
senso che la realizzazione dell'autarchia non veniva affidata ai singoli
produttori, ma alla comunità nel suo complesso. Nelle comunità di
autosussistenza non è mai esistita l'indipendenza assoluta del singolo
produttore dagli altri produttori.
La crisi di questa comunità, ciò che determinò, in ultima istanza, la
transizione al capitalismo, traeva la sua ragion d'essere nell'antisocialità
costituita dal servaggio, ovvero dalla rendita feudale. Questa antisocialità
pratica, mascherata ideologicamente dalla religione, troverà un contrappeso
non solo nelle lotte politiche dei contadini, ma anche nell'affermazione di
una nuova antisocialità: quella del lavoro individuale borghese.
La società borghese è nata con la pretesa di anteporre al lavoro collettivo
il lavoro individuale, facendo credere che quest'ultimo fosse più "libero"
dell'altro, in quanto i produttori privati presumevano d'essere totalmente
indipendenti. In pratica la società borghese non ha fatto altro che
sostituire la dipendenza del singolo produttore da una comunità di
produttori come lui, con la sua dipendenza da un proprietario privato che
non produce. Questo passaggio è potuto avvenire appunto perché nella
comunità di autosussistenza vigeva un principio ad essa estraneo o
contrario, quello della rendita feudale.
Marx avrebbe insomma dovuto puntare di più l'attenzione sul fatto che la
caratteristica della merce d'essere "immediatamente scambiabile" con altra
merce, sul mercato, era un fatto altamente drammatico, in quanto
presupponeva l'agonia della comunità di autosussitenza. Senza tale comunità,
infatti, il bisogno di merci si fa sempre più pressante, sicché la loro
scambiabilità deve farsi più veloce. Il consumatore ha bisogno di "tutto"
proprio perché è in grado di produrre soltanto "qualcosa" o addirittura
"niente". Dirà Marx nel § sul feticismo: "Nei modi di produzione dell'antica
Asia e dell'antichità classica ecc., la trasformazione del prodotto in
merce...diviene tanto più importante, quanto più le comunità s'avvicinavano
all'epoca del loro tramonto"(p.80).
In fondo, la grande diversità esistente tra Marx e l'economia politica
classica, consiste semplicemente in questo, che Marx non s'illudeva di poter
conservare il valore d'uso in una società ove domina quello di scambio. Marx
mise a nudo il formalismo dell'economia classica non rinunciando
definitivamente al valore d'uso, ma cercando di sintetizzarlo con quello di
scambio, proponendo la socializzazione dei mezzi produttivi, ovvero la fine
della proprietà privata. Tuttavia, egli non si accorse che, così facendo, si
doveva per forza tornare a valorizzare l'economia pre-capitalistica fondata
sull'autoconsumo.
In tal senso il limite del Capitale si pone a un duplice livello: da un lato
esso non offre la modalità operativa con cui realizzare la suddetta sintesi
(e qui il leninismo, col suo primato della politica sull'economia,
costituirà, del marxismo, l'insostituibile complemento); dall'altro esso non
parte dal presupposto che la sintesi suddetta può essere efficacemente
realizzata solo a condizione che il valore d'uso abbia un primato su quello
di scambio (e su questo neppure il leninismo riesce ad offrire indicazioni
di merito). Praticamente il problema di recuperare il primato del valore
d'uso si sta ponendo solo ora nei paesi dell'ex-"socialismo reale".
* * *
Marx ha potuto facilmente criticare Aristotele perché la società schiavista
che questi rappresentava aveva delle contraddizioni evidenti, ma non per
questo è riuscito a porsi con la dovuta obiettività di fronte all'etica
economica medievale.
E' vero, Aristotele aveva capito che "non può esistere lo scambio senza
l'uguaglianza"(cit. a p.55), ovvero che esiste "un rapporto di uguaglianza
nella espressione di valore delle merci"(p.56). Ed è anche vero ch'egli non
poteva dedurre il concetto di valore, ovvero l'equivalenza delle merci,
dall'uguaglianza dei lavori umani, essendo la società greca di tipo
schiavista. In questo senso, la seconda parte della frase di Aristotele,
riportata da Marx: "non può esistere l'uguaglianza senza la
commensurabilità", è, rispetto alla prima definizione, di carattere
tautologico, poiché "scambio" e "commensurabilità" sono, in definitiva,
equivalenti.
Stando al ragionamento, perfettamente corretto, di Marx, Aristotele, se non
fosse vissuto in una società schiavista, avrebbe dovuto concludere dicendo:
"non c'è l'uguaglianza delle merci se non c'è l'uguaglianza sociale di chi
le produce".
Tuttavia, Marx, ancora vittima dei suoi pregiudizi antimedievali, non
s'accorge che la prima vera alternativa allo schiavismo non è stata
costituita dalla società borghese, col suo "concetto dell'uguaglianza
umana",
ma è stata costituita dalla società feudale, col suo concetto di uguaglianza
umana "davanti a dio". Marx cioè non si è reso conto che l'uguaglianza
formale affermata dalla borghesia non era altro che una laicizzazione
dell'uguaglianza non meno formale affermata dalla chiesa.
Dove stava la differenza tra le due forme di uguaglianza? Nel fatto che
quella contadina viveva un conflitto antagonistico fra la socializzazione
della comunità agricola e la dipendenza personale dal feudatario; mentre
quella borghese rappresenta una lacerante contraddizione fra la
socializzazione del mercato e la libertà individuale strettamente legata
alla proprietà privata.
Marx è arrivato a un passo dal comprendere che se il concetto di uguaglianza
umana ha assunto nella società borghese "la saldezza di un pregiudizio del
popolo"(ib.), ciò è dipeso dal fatto che prima della cultura borghese c'era
quella cristiana che alimentava nelle masse l'illusione di una libertà
sostanziale. Marx non è arrivato a fare il passo successivo -che sarebbe
stato quello di esaminare i pro e i contro dell'etica economica medievale,
orientale e occidentale, nonché i fondamenti dell'ideologia borghese
nell'ideologia religiosa del cristianesimo occidentale- semplicemente perché
ha sempre considerato il servaggio una variante dello schiavismo e non un
tentativo di superamento.
* * *
Che il valore di una merce debba essere soggetto alle mutazioni delle
circostanze di luogo, di tempo e di altri fattori (non ultimo dei quali il
lavoro), è cosa che si può accettare senza dover ogni volta ribadire la
necessità, per una sana economia, che il valore d'uso abbia un primato su
quello di scambio.
E' fuor di dubbio, tuttavia, che non esisterà mai alcuna possibilità di
stabilire "per decreto" tale primato, senza arrecare un danno rilevante
all'intera economia. La dialettica tra i due valori sarà eterna, ma
fintantoché la comunità in cui essi si esprimono conserverà il proprio
valore umano, quello di scambio resterà complementare a quello d'uso.
Viceversa, ogniqualvolta la comunità, come tale, perderà di credibilità, il
valore di scambio tenderà a prevalere su quello d'uso.
Sotto il capitalismo questa tendenza si è così radicalizzata che è
impossibile ripristinare il rapporto originario senza una rivoluzione
politica. Le classi sociali legate al primato del valore di scambio hanno
interessi così grandi che, anche se costituiscono un'infima minoranza, non
riescono a rinunciare spontaneamente ai loro privilegi.
D'altra parte la tendenza si è radicalizzata proprio perché sono falliti
nell'ambito del capitalismo tutti i tentativi di salvaguardare il valore
d'uso senza mettere anzitutto in discussione il monopolio di pochi privati
sulla proprietà: mercantilismo, fisiocrazia ecc.
E' fallita persino quella forma di socialismo (detta dal marxismo "utopica")
che mirava ad allargare la proprietà a tutti i membri di una particolare
collettività socializzata. Non c'è infatti alcuna possibilità di costruire
"isole felici" in cui tutelare il valore d'uso, se prima non si elimina
politicamente il sistema capitalistico. In tal senso, se un merito al
marxismo va riconosciuto è stato proprio quello di aver svolto una profonda
opera di disillusione.
Il socialismo utopistico avrebbe avuto ragione se prima si fosse fatta la
rivoluzione politica per abbattere il sistema capitalistico. Esso invece
pensava che proprio attraverso riforme progressive, attraverso particolari
esperimenti collettivi, non ci sarebbe stata bisogno di alcuna rivoluzione
politica. Senza volerlo, esso non faceva che puntellare l'edificio
traballante del sistema.
* * *
Lo sforzo maggiore che Marx ha compiuto nel § 3 è stato quello di cercare
d'individuare la possibilità di una definizione oggettiva di valore a
partire dalla scambio. Non è stato quello di sostenere che tale definizione
è impossibile in un'economia così "anarchica" o che, prima di dare una
definizione del genere, bisogna rivoluzionare il sistema.
In tal senso egli ha cercato di dimostrare che la possibilità di trovare una
qualche forma di oggettività è strettamente correlata alla nascita di una
contrapposizione tra "forma relativa di valore" e "forma di equivalente"
(cosa che deve concludersi con il prevalere della seconda sulla prima).
Nella forma di valore semplice, singola o accidentale (ad es. venti braccia
di tela = un abito) ognuna delle due merci può svolgere il ruolo opposto,
per cui è "difficile fissare la contrapposizione polare"(p.66). Ogni merce
ritiene di poter essere equivalente a una qualunque altra merce (poste
naturalmente determinate proporzioni quantitative).
Nella forma di valore totale o sviluppata "il rapporto casuale di due
individuali proprietari di merci viene meno"(p.61), poiché ora infinite
merci possono fungere da equivalenti particolari per un'unica merce (ad es.
la tela).
Il rovescio di questa molteplice serie di rapporti dà la forma generale di
valore, quella per cui "un genere particolare di merce [ad es. la tela]
riceve la forma generale di equivalente"(p.65), mentre tutte le altre ne
sono escluse. Solo una merce "si trova nella forma di diretta scambiabilità
con tutte le altre merci"(p.66). Questo dipende dal fatto che in essa si
riconosce il riferimento sociale generale di ogni lavoro umano.
Come si può notare, Marx si è limitato a un esame logico della successione
delle forme, senza entrare nei dettagli storici. Cosa che avrebbe potuto,
anzi dovuto fare se avesse accettato l'idea che tali passaggi sono il frutto
di una concezione culturale determinata dei rapporti sociali, e non tanto
una necessità di tipo economico, e meno che mai un'esigenza di tipo
psicologico.
Marx ha elaborato con grande fatica i vari passaggi della forma di valore
per giungere alla conclusione, tautologica, che il valore di una merce sta
nel suo prezzo, che trova la sua espressione più compiuta nell'equivalente
universale del denaro e che viene deciso di volta in volta.
Tale deludente (ma d'altra parte inevitabile) conclusione -cui Marx cercherà
di porre rimedio col § sul feticismo della merce- si sarebbe potuta evitare
se si fosse partiti da un'altra premessa, quella secondo cui è possibile
trovare un valore oggettivo alla merce solo nell'ambito della comunità di
autoconsumo, che di per sé non esclude affatto il mercato.
La premessa da cui parte Marx (vedi la forma "A" del valore), e cioè quella
dei due individui privati che s'incontrano casualmente, liberamente, sul
mercato, potrà avere un valore come ipotesi astratta ma non ne ha alcuno
come riscontro storico. Sin dall'inizio, infatti, tentando di far valere il
lavoro astratto su quello concreto, la borghesia ha fatto in modo che sul
mercato prevalessero i "manufatti finiti" rispetto alla "materia prima"
(l'abito rispetto alla tela).
Il contadino è sempre stato produttore di materia prima (beni alimentari,
cotone ecc.). Ora, l'interesse principale che ha l'imprenditore privato
borghese, che vuole trasformare la materia prima, è anzitutto quello che il
contadino non abbia la possibilità di trasformare la propria materia prima
in modo industriale e che quindi egli stesso si trasformi in consumatore a
vita.
In tal senso la tendenza della borghesia è stata quella di considerare
subito il denaro come equivalente universale, onde impedire che sulla base
di una qualche materia prima a disposizione della comunità agricola si
potesse imporre sul mercato un'altra merce riconosciuta equivalente. La
borghesia ha imposto come equivalente ciò di cui già disponeva in
abbondanza.
Le forme elencate da Marx, quindi, riflettono non l'evoluzione della società
borghese (a partire dalla sua fase mercantile), ma l'innesto di due società
che privilegiano il mercato sull'autoconsumo: quella schiavistica e quella
borghese e, a partire da questo, la superiorità della seconda sulla prima.
In tal senso si potrebbe affermare che nella prima forma di valore solo in
astratto tela e abito si equivalgono: nel concreto è la tela che deve
adeguarsi all'abito. L'imprenditore privato che trasforma la materia prima
vuole dominare non solo sul consumatore (impedendogli qualunque aspirazione
all'autonomia), ma anche il produttore di materie prime, al quale non si
concede la possibilità di trasformarsi in un imprenditore per il vasto
pubblico.
Facciamo un esempio. Una stoffa di lino può costare £ 50.000 al mq; con 2 mq
si può fare una giacca che sul mercato può essere venduta a £ 300.000. Ma la
giacca "segue" la moda. L'anno dopo essa costerà £ 150.000, mentre il costo
del lino sarà intanto aumentato, per cause diverse, di altre 10.000 £ al mq.
Dunque, è stata la stoffa ad adeguarsi al trend della giacca o è stato il
contrario?
Facciamo un altro esempio. Un agricoltore raccoglie 1 kg di albicocche che
gli vengono pagate £ 300 dall'imprenditore che con la sua industria di
trasformazione ci farà 3 confetture di marmellata al prezzo di £ 1500 l'una.
L'anno dopo, se il raccolto sarà ancora più abbondante, le albicocche, al
kg, scenderanno a £ 200, mentre l'imprenditore potrà, con relativa
tranquillità, incrementare il prezzo della marmellata di altre 2-300 £: cosa
che, a maggior ragione, farà anche se il raccolto sarà stato scarso o molto
scarso.
Dunque, chi o che cosa esprime di più la "forma di equivalente": il frutto
naturale o quello lavorato? Per quale ragione tra la "forma naturale" della
merce e quella "fenomenica" deve esistere un divario così grande e sempre
così svantaggioso alla prima?
FETICISMO DELLE MERCI
Isaak Rubin, nel 1928, disse che "la teoria del feticismo della merce di
Marx non è mai stata valutata adeguatamente nell'ambito dell'economia
marxista"(Saggi sulla teoria del valore di Marx, ed. Feltrinelli, Milano
1976, p.5). Ebbene, da allora non sono stati fatti molti progressi. Il
motivo è semplice: è impossibile formulare un'ipotesi alternativa al sistema
capitalistico senza recuperare il meglio della società agricola feudale.
Marx si rese conto che un valore di scambio staccato dal suo valore d'uso è
il sintomo di una società divisa in classi antagonistiche. E si rese anche
conto che se avesse puntato la sua attenzione sul recupero, mutatis
mutandis, del valore d'uso, non sarebbe uscito dall'empasse in cui era
finito il socialismo utopistico, il quale s'illudeva di poter conservare,
nel particolare, il valore d'uso, mentre a livello di società generale
dominava quello di scambio.
Tuttavia, piuttosto che uscire dall'ambito dell'economia politica ed entrare
in quello dell'organizzazione politico-rivoluzionaria del passaggio al
socialismo, Marx ha preferito analizzare in profondità i meccanismi del
valore di scambio e le sue interne contraddizioni. Questa scelta di campo lo
ha portato a credere, da un lato, che nel sistema capitalistico esistono
delle leggi obiettive che lo portano al crollo (cosa insostenibile sul piano
logico e che non si è verificata storicamente); e, dall'altro, che, in
ultima istanza, il valore di scambio non deve sottostare a quello d'uso, ma
solo a una programmazione razionale di tutte le risorse, resa possibile
dalla socializzazione dei mezzi produttivi.
Il feticismo delle merci, in tal senso, è sì una conseguenza del primato del
valore di scambio, ma se questo primato esistesse in una società
socialista -sembra dire Marx- non si avrebbe alcun feticismo. A riprova di
ciò si deve sottolineare che quando Marx parla di feticismo delle merci, i
protagonisti in gioco sono sempre dei produttori privati indipendenti, i
quali sono, a loro volta, reciprocamente consumatori del prodotto altrui. Il
feticismo è sì una conseguenza dell'indipendenza dei produttori privati, ma
in ciò Marx non considera la contemporanea espropriazione del produttore
diretto dalla proprietà dei mezzi produttivi. Questo aspetto verrà
analizzato in un secondo momento.
Il primato del valore di scambio, in sostanza, va superato semplicemente
perché esso presuppone un tipo di rapporto sociale alienato (che trova un
riflesso nel feticismo); non va superato recuperando, senza il servaggio, il
primato del valore d'uso della società agricola feudale. Marx era così
contrario a questa società che preferì piuttosto pensare a un socialismo
quale ripetizione "socializzata" del modo di vivere "individualistico" di
Robinson.
L'economista sovietico Rubin era convinto che il capitolo sulla merce non lo
si poteva comprendere se prima non si leggeva l'ultimo § dedicato al
feticismo. Solo in questo § infatti si elabora una soluzione alternativa al
capitalismo. Tuttavia Rubin non capì che Marx non potè elaborare
un'alternativa al valore di scambio proprio perché rifiutava il primato del
valore d'uso. Il capitolo sul feticismo, in tal senso, offre un'alternativa
al capitalismo, ma, conservando i pregiudizi nei confronti del mondo
contadino, finisce anche coll'aprire le porte alla trasformazione del
feticismo da economico a politico-ideologico.
La possibilità di conservare il primato del valore di scambio in una società
socialista, in virtù della pianificazione generale (statale) di tutte le
risorse, può dipendere, in effetti, soltanto dal consenso che le masse
manifestano nei confronti di un ideale politico. In tal modo però si finisce
col sostituire al feticismo delle merci quello del "piano".
* * *
"Il carattere mistico della merce [ovvero la sua natura "sensibilmente
soprasensibile"] -dice Marx- non deriva dal suo valore d'uso"(p.70). Finché
una merce soddisfa dei bisogni umani o è semplicemente il prodotto di un
lavoro umano, non c'è nessun mistero da svelare.
L'enigma "non deriva neanche dal contenuto delle determinazioni di
valore"(ib.),
cioè "sostanza" e "grandezza" di valore, poiché da sempre gli uomini si sono
interessati a distinguere la quantità di lavoro occorsa per produrre una
merce dalla sua qualità.
Il prodotto di lavoro diventa "una cosa intricatissima" quando assume "forma
di merce". Per quale ragione? "Il segreto della forma di una merce -spiega
Marx- sta nel fatto che tale forma ridà agli uomini [dopo avergliela tolta],
come uno specchio, l'immagine delle caratteristiche sociali del loro proprio
lavoro, come proprietà sociali naturali di quelle cose [cioè nascondendo il
lato antagonistico, "innaturale", di quelle proprietà: quel lato che
l'economia politica classica non è mai riuscita a individuare], e perciò
ridà anche l'immagine del rapporto sociale tra produttori e lavoro
complessivo, facendolo sembrare come un rapporto sociale tra oggetti che
esiste al di fuori dei produttori", cioè al quale essi sono soggetti (p.71).
Nell'economia mercantile è "il processo di produzione che regola gli
uomini"(p.82).
Ma perché avviene questo "qui pro quo"? Perché da un lato i produttori
eseguono dei lavori privati "gli uni indipendentemente dagli altri"(p.72);
dall'altro "solo tramite lo scambio dei prodotti del loro lavoro
stabiliscono un contatto sociale"(ib.). In altre parole, le relazioni
sociali dei loro lavori privati non sono "rapporti direttamente sociali tra
persone nei loro stessi lavori, ma rapporti di cose tra persone e rapporti
sociali tra cose"(ib.).
Là dove gli uomini credono di avere, tra loro, un rapporto sociale, in
realtà hanno solo un rapporto "reificato", nel senso che il rapporto sociale
è mediato anzitutto dalla compravendita di una merce; viceversa, là dove
credono di avere un rapporto naturale con le cose, in realtà hanno un
rapporto "artificiale", poiché le merci, in un certo senso, si
"personificano", permettendo agli uomini d'incontrarsi solo in una
determinata maniera: quella fra produttore e consumatore. Questo tipo di
relazione, essendo l'unico dominante a livello sociale, è in grado
d'influenzare ogni aspetto della vita pubblica e privata, sociale e
personale, anche gli aspetti non direttamente legati al luogo fisico del
mercato o del negozio.
In sintesi dunque la merce nasce da un rapporto sociale alienato ed essa
stessa, a sua volta, riproduce questo rapporto. La merce esiste anzitutto
non per l'uso ma per essere venduta e comprata, esiste non per le sue
intrinseche qualità, che aiutano a rendere migliore l'esistenza, ma per la
quantità di denaro che permette di guadagnare. Essa domina incontrastata,
nella società mercantile, non solo perché è frutto di una separazione tra
produttore e proprietà dei mezzi lavorativi, ma anche perché il consumatore
s'illude, comprandola, d'aver acquistato un bene utile, indispensabile.
Il rapporto sociale che trasforma un oggetto d'uso in merce è già di per sé
un rapporto alienato, diviso, antagonistico. La merce è un modo per
giustificare la propria alienazione. L'illusione del produttore alienato è
quella di superare la propria alienazione nella misura in cui produce quante
più merci può. L'illusione sta nel credere che un processo meramente
economico e quantitativo possa superare una forma di alienazione sociale di
tipo qualitativo (cioè ontologica).
Marx constata che questa illusione si verifica anche nel mondo religioso,
allorché "i prodotti della mente umana [ad es. gli dèi] sembrano essere
dotati di una propria vita"(p.71). La merce dà l'illusione di un rapporto
sociale diretto tra gli uomini, così come i sacramenti danno l'illusione di
un rapporto mistico, non meno diretto, tra gli uomini e la divinità. Essendo
i rapporti sociali della borghesia basati sull'antagonismo di classe (in una
maniera ancora più accentuata che nel Medioevo, poiché ora l'accumulazione e
il profitto non conoscono limiti naturali), l'alienazione viene
semplicemente trasferita dal rapporto dell'uomo col "cielo" al suo rapporto
con la "terra". La borghesia non ha fatto che secolarizzare una mentalità e
un comportamento che nel Medioevo erano religiosi.
Tuttavia Marx non arriva a concludere che il feticismo delle merci sia la
conseguenza di un certo modo di vivere l'ideologia religiosa. Nella sua
analisi, al massimo, i due "feticismi" procedono parallelamente,
influenzandosi a vicenda, ma la ragione ultima di quello religioso sta
sempre in quello economico. E' il cristianesimo che "corrisponde" al
capitalismo. A tale proposito viene detto in una nota a p.85: "il Medioevo
non poteva vivere del cattolicesimo, e il mondo antico non poteva vivere
della politica. Al contrario, la maniera di guadagnare la vita rende chiaro
perché la parte più importante era rappresentata là dalla politica, qua dal
cattolicesimo". Col che Marx considera la sovrastruttura in un rapporto solo
passivo, di mero rispecchiamento, rispetto alla struttura correlata, e si è
lasciato così sfuggire l'occasione di conoscere il modo come questa sia
influenzata da quella.
D'altra parte Marx non va a cercare il motivo del feticismo nella sfera
dell'ideologia ma in quella dell'economia: "gli uomini equiparano gli uni
con gli altri i loro diversi lavori come lavoro umano, equiparando nello
scambio gli uni con gli altri, come valori, i loro eterogenei prodotti.
Ignorano di fare questo, ma lo fanno"(p.73).
Detto altrimenti: il feticismo dipende dal fatto che l'uguaglianza dei
lavori e quindi dei produttori viene fatta risalire, magicamente,
all'uguaglianza delle merci sul mercato. E tale uguaglianza, a sua volta,
parte dal presupposto che i lavori tra loro siano socialmente uguali, in
quanto tutti riconducibili all'astratto lavoro umano (quello che l'economia
classica non riuscì a capire).
L'illusione quindi si pone a un duplice livello: da un lato si deduce
l'uguaglianza sociale dall'equivalenza delle merci sul mercato; dall'altro
si deduce che l'indipendenza dei produttori privati, ovvero la loro
uguaglianza, possa riflettersi nell'equivalenza delle merci. La
"socializzazione" del lavoro non si verifica "a monte", cioè sul luogo
produttivo, che resta individuale, ma "a valle", cioè sul mercato, e si
verifica solo in rapporto alla compravendita delle merci.
Nel capitalismo l'oggettività di valore socialmente uguale dei prodotti
avviene solo nello scambio, senza che vi sia necessità -come nel valore
d'uso- di paragonare, fra loro, tempo di lavoro, dispendio d'energia
psico-fisica e senso sociale dell'uso. Una cosa ha valore non perché
anzitutto serve alla propria "sussistenza", ma se è scambiabile con altre
cose, cioè se può essere acquistata sul mercato, se di essa esiste un
equivalente in denaro. Gli altri significati della merce sono conseguenti a
questo.
L'uguaglianza dei produttori -come si può notare- non è di tipo sociale ma
giuridico. Il produttore "finge" di sentirsi uguale al consumatore, il
proprietario dei mezzi produttivi "finge" di sentirsi uguale al lavoratore,
semplicemente per indurlo ad acquistare sul mercato ciò che permette a tale
uguaglianza formale di riprodursi. Nel momento in cui "acquista", il
consumatore, cioè il lavoratore senza proprietà, avverte, per un attimo, che
la merce lo rende uguale al produttore: è questa l'illusione
dell'uguaglianza sociale che crea il feticismo delle merci.
Naturalmente sarebbe impossibile per un produttore realizzare ingenti
profitti senza dimostrare che la merce serve a qualcosa. Il problema
tuttavia è un altro. Se il produttore ha la facoltà d'imporsi sul mercato,
egli ha anche la capacità d'indurre il consumatore a considerare "utile"
(anche se veramente utile non è) una determinata merce. Il valore d'uso
infatti non è più determinato da un rapporto sociale a misura d'uomo, in cui
i soggetti si controllano a vicenda e sanno in anticipo quello di cui hanno
bisogno, ma dalla disgregazione di questo rapporto.
Per cui il vero valore d'uso, sotto il capitalismo, non esiste più, né
potrebbe esistere, essendo tutto assorbito nel valore di scambio. Un valore
d'uso (minimo) può esistere quando il capitalismo è emergente, quando esso
cioè ha bisogno di spazzare via le forme sociali pre-capitalistiche con la
forza qualitativa e quantitativa delle proprie merci. Ma appena il
capitalismo s'è imposto su queste forme il valore d'uso tenderà
progressivamente a scemare: le merci saranno sempre meno valide sul piano
qualitativo, proprio perché l'esigenza sarà quella di venderne il più
possibile. La qualità sussiste quando permane la concorrenza tra i monopoli
di uno stesso settore, ma anche qui intervengono facilmente altri fattori
(tecnologici soprattutto) per rendere precaria la qualità dei prodotti. Le
merci non sono fatte per durare ma per deperire ed essere riacquistate.
Dunque un oggetto è utile nella misura in cui è scambiabile contro il
denaro, vendibile sul mercato. In teoria è il mercato che stabilisce se una
cosa è utile o no. In pratica sono i capitalisti che si servono del mercato
solo come un indicatore di massima e che ritengono di poterlo
strumentalizzare come meglio credono (ad es. attraverso la pubblicità).
L'utilità è un sofisma, un pretesto per accumulare profitti e capitali
privatamente. Nel mercato infatti non agiscono persone socialmente
equivalenti, ma produttori di merci e meri consumatori. Se la produzione
resta in mano a singoli privati, e non è soggetta al controllo popolare
della comunità locale, i consumatori non potranno che subire forti
discriminazioni.
Nello scambio si ha solo l'illusione dell'equivalenza dei lavori, delle
merci, dei soggetti che vendono e comprano. Il capitalismo ha preteso di
eguagliare tutto allo scopo di subordinare la qualità alla quantità, la
diversità all'uniformità, l'utilità all'effimero... I rapporti sociali
borghesi sono, in definitiva, dei rapporti matematici fra grandezze
ritenute, a torto, omogenee.
Il borghese non vuole determinare il valore di un oggetto sulla base delle
caratteristiche del rapporto sociale ch'egli ha rigettato. Egli vuole
realizzare sul mercato l'equivalenza delle merci per togliere al lavoro
pre-borghese la sua pretesa alternatività. Ma così facendo, non si riesce
più a determinare un valore oggettivo delle cose, un valore cioè basato su
fattori o elementi oggettivi (come il tempo di lavoro, il dispendio di
energie psico-fisiche, il senso sociale dell'uso). Le merci mutano
continuamente di valore nel mercato, sfuggendo al controllo non solo dei
consumatori ma degli stessi produttori. Un capo firmato, equivalente, nella
sostanza, a un altro non firmato, costa dieci volte di più. Un capo firmato,
acquistato l'anno dopo in cui è stato prodotto, costa cinque volte di meno.
Un prodotto reclamizzato costa sempre di più di un prodotto equivalente, o
anche superiore, non reclamizzato.
Ovviamente Marx, nel momento in cui scriveva il Capitale, non poteva ancora
sapere che il monopolio tende a superare i limiti della concorrenza, anche
se aveva intuito che la concorrenza era destinata ad essere superata. Egli
in realtà avrebbe voluto che dalla intrinseca contraddizione della
concorrenza si sviluppasse la coscienza proletaria della necessità di una
rivoluzione politica. Invece nascerà la coscienza borghese della necessità
del monopolio (cui lo stesso Capitale, indirettamente, contribuirà), cioè la
necessità di sottomettere la concorrenza a delle regole di mercato. Come
noto, questo monopolio, dopo la IIa guerra mondiale, si avvarrà anche del
sostegno statale. Oggi infatti si parla di capitalismo monopolistico di
Stato.
* * *
In ogni caso questo modo d'impostare l'attività produttiva è tipico solo
della società mercantile, non essendo riscontrabile in alcun'altra
formazione sociale, poiché, anche se altre società hanno conosciuto la
trasformazione del prodotto in merce, mai però l'hanno considerato come
parte fondamentale della vita sociale: il rapporto di schiavitù o di
servaggio (cioè di dipendenza personale) era sicuramente più importante di
qualunque altro prodotto naturale o manufatto.
A tale proposito Marx delinea, per sommi capi, le caratteristiche di altre
tre formazioni: primitiva e medievale, relativamente al passato, e
socialista, relativamente al futuro.
Sulla formazione sociale primitiva -che qui Marx s'immagina sulla scia
dell'esperienza romanzata di Robinson Crusoe- il giudizio è nettamente
favorevole: "tutti i rapporti tra Robinson e gli oggetti che formano la
ricchezza da lui stesso creata sono qui semplici e chiari...vi sono
racchiuse tutte le fondamentali determinazioni del valore"(p.77).
Sembrerebbe che Marx continui qui a considerare l'individualismo del modo di
produzione primitivo col metro di misura della società borghese, ripetendo,
in pratica, l'errore di Rousseau, se non si fosse smentiti da una nota
acclusa nella seconda edizione del Capitale, che riporterà un passo di Per
la critica dell'economia politica, ove Marx dirà che "la forma della
proprietà comune [naturale e spontanea] è la forma originaria" dalla cui
dissoluzione sono nate le diverse forme di proprietà privata.
Esiste tuttavia un paradosso. Fintantoché si tratta di parlare
dell'individuo singolo (alla Robinson) -in riferimento al comunismo
primitivo-, Marx ha sempre parole di apprezzamento. Allorché invece sono in
gioco "organismi sociali di produzione", il giudizio si fa più critico, non
tanto in rapporto a una presunta superiorità del sistema capitalistico, ché,
anzi, quegli organismi -dice Marx- "sono di gran lunga più semplici e più
chiari"(p.80), appunto come dovrebbero essere i rapporti in cui l'uomo
controlla la produzione, quanto piuttosto in rapporto alla futura società
socialista, che, nella mente di Marx, dovrà essere qualcosa di assolutamente
inedito sul piano storico.
Quegli "antichi organismi sociali di produzione", infatti, si basavano "o
sull'immaturità dell'uomo individuale, che ancora non ha staccato da sé il
cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini" [per cui
"Robinson" rappresenta l'unica vera alternativa al comunismo primitivo],
oppure si basavano "su diretti rapporti tra dispotismo e schiavitù"(ib.),
come appunto nello schiavismo o nel feudalesimo, la diversità dei quali, per
Marx, è alquanto relativa.
In sostanza, avendo attribuito un'eccessiva importanza al ruolo
dell'economia, ai fini dell'emancipazione umana, Marx si sente qui indotto
ad affermare che il comunismo primitivo -che per il momento egli ancora non
distingue dal modo di produzione asiatico- era arretrato a causa del "basso
livello di sviluppo delle forze produttive del lavoro"(ib.); ciò
che -secondo Marx- rendeva i rapporti sociali e naturali "primitivi e chiusi
nei limiti del processo materiale di generazione della vita"(ib.). Al punto
che l'uomo primitivo, non molto diverso dall'animale, cominciò a definirsi
come "uomo", per Marx, nel momento stesso in cui sviluppò la sua
individualità.
Nelle Forme economiche precapitalistiche verrà detto che nella comunità
primitiva c'era sì "trasparenza", ma solo in quanto "ingenuamente" si
credeva che certi rapporti di parentela e certe forme di organizzazione
sociale fossero di origine "naturale" o addirittura "divina", e non inerenti
a un modo particolare di produzione.
Per quanto riguarda il "tetro" Medioevo, il giudizio è più severo che nei
confronti di Robinson. "Qui, al posto dell'uomo indipendente, vediamo che
tutti sono dipendenti"(p.77). Ciononostante, Marx riconosce al feudalesimo
l'impossibilità di creare il fenomeno del feticismo delle merci, in quanto
"lavori e prodotti non debbono prendere una fantasiosa figurazione diversa
dalla loro realtà: si riducono nel meccanismo sociale a servizi e
prestazioni in natura"(ib.).
In effetti, nel feudalesimo l'alienazione non era avvertita nelle cose che
si usavano (per quanto la rendita feudale costituisse, per il contadino, una
continua fonte di espropriazione). L'alienazione era dovuta al fatto che
l'ideologia dominante permetteva di credere possibile il benessere solo "nel
regno dei cieli". A parte questo però, la contraddizione del servaggio -lo
stesso Marx lo lascia qui intendere, forse anche senza volerlo- risultava
meno ipocrita a confronto di quella del lavoro salariato. Non c'era
l'illusione della "libertà personale".
Purtroppo Marx ha sempre escluso il carattere di "vera socialità"
nell'ambito produttivo medievale. Il produttore borghese -nell'analisi del
Capitale- ha interesse a emanciparsi non tanto dalla vita sociale del mondo
agricolo, quanto piuttosto dalla dipendenza personale dei rapporti sociali.
Nella società feudale non esiste -secondo Marx- forma "sociale" del lavoro,
ma solo forma "naturale". Il lavoro quindi non può essere "generalizzato",
come nell'economia mercantile, e i suoi prodotti hanno solo un valore d'uso.
I diversi lavori che danno origine ai prodotti dell'agricoltura,
dell'allevamento, della filatura ecc. al massimo sono "funzioni sociali" di
una famiglia patriarcale, al cui interno si ha una divisione del lavoro
naturale e spontanea, basata ad es. sulle differenze di sesso e di età. Marx
non vede la comunità di villaggio aldilà della singola famiglia patriarcale.
Poste le cose in questi termini, uno storico non sarebbe assolutamente in
grado di spiegare la presenza del feticismo religioso nella società feudale.
E sarebbe altresì costretto ad ammettere che lo sfruttamento del lavoro era
nel Medioevo accettato come un fenomeno "naturale". Per Marx, infatti, la
società feudale era statica, e i soggetti delle semplici "maschere" che
recitavano la loro parte (tradizionale) in un "teatro". Egli non trae
nessuna conseguenza rilevante dalla considerazione, pur giusta, che "i
rapporti sociali tra le persone nei loro lavori si manifestano comunque [nel
Medioevo] come loro rapporti personali"(p.78).
Ecco perché Marx non è riuscito a cogliere l'importanza del fatto che nello
scambio sul mercato il contadino non aveva la pretesa di realizzare un
rapporto sociale che ovviasse all'alienazione della vita lavorativa. Lo
scambio era una conseguenza naturale del lavoro agricolo (non
particolarmente significativa ai fini dell'attività produttiva e comunque
non obbligata). Nel contadino la "realizzazione di sé" non dipendeva dallo
scambio. Egli non aveva la pretesa (o l'illusione) di poter costruire nel
mercato quanto non riusciva a vivere nel lavoro agricolo.
Questa pretesa, semmai, l'aveva il borghese, che in un certo senso
rappresenta l'alienazione del contadino che vuol trovare non nella lotta di
classe, ma in un'attività economica redditizia (priva di eticità) una forma
di compensazione individuale. Già la separazione professionale
dell'artigiano dal contadino rifletteva questa forma di revanche
individuale. L'artigiano nasce come colui che in nome della specializzazione
di una mansione tradizionale ritiene di potersi emancipare economicamente da
quella professionalità onnilaterale o polivalente del contadino che non
garantiva un tenore di vita sufficientemente agiato. Tuttavia, tale
emancipazione non comportò affatto la transizione al capitalismo, poiché la
realtà sociale dominante continuava a restare quella della comunità agricola
autarchica.
Se non ci fosse stato il servaggio, la forma naturale del lavoro nel
Medioevo sarebbe stata una forma sociale libera, molto più libera di
qualunque altra formazione sociale. L'uomo, il lavoratore, il cittadino si
sarebbe sentito valorizzato per il lavoro che faceva, senza aver bisogno di
ritagliarsi uno spazio di tempo per sé, lottando con tutte le sue forze per
sentirsi emancipato.
* * *
L'ultima formazione sociale che Marx descrive, supponendola, è quella
socialista, ovvero "un'associazione di uomini liberi [non individualisti né
forzatamente dipendenti] che lavorino con mezzi di produzione comuni e che
impieghino con coscienza le loro molte forze lavorative individuali come
un'unica forza lavorativa sociale. Qui si ripetono tutte le particolarità
del lavoro di Robinson, però socialmente invece che individualmente"(p.79).
Marx non s'accorge d'ipotizzare una cosa che prima della nascita dello
schiavismo, era sempre esistita. Egli è convinto di aver trovato, per la
prima volta, il passepartout per superare l'ostacolo dell'individualismo
borghese, senza dover ricadere nel collettivismo forzato del Medioevo. Ed è
convinto di questo semplicemente perché non sa di aver guardato le
formazioni sociali pre-capitalistiche con un pregiudizio che gli derivava
dall'ideologia individualistica borghese.
Occorre senza dubbio riconoscere a Marx lo sforzo di aver voluto superare ad
ogni costo tale ideologia, proponendo come alternativa l'idea di un
collettivismo libero, in cui la distribuzione del tempo di lavoro, "fatta
socialmente secondo un programma, regola l'esatta proporzione delle diverse
funzioni lavorative con i diversi bisogni"(ib.).
Tuttavia anche su questo aspetto c'è qualcosa che non convince. L'idea che
"il tempo di lavoro sia preso contemporaneamente come misura della
partecipazione individuale del produttore al lavoro comune, e perciò anche
alla porzione del prodotto comune che può essere consumata
individualmente"(ib.)
- è un'idea che potrebbe essere accettata solo in una fase molto
transitoria.
In effetti, il tempo di lavoro, in una comunità socialista, non può più
essere misurato sulla base delle capacità produttive del singolo, altrimenti
si finirà col privilegiare, nella distribuzione dei prodotti, quelli che
saranno stati dotati dalla natura di maggiori capacità psico-fisiche o
intellettuali.
In realtà, ciò che più deve contare, in una comunità socialista, è la
ricerca del benessere collettivo, che non significa anzitutto l'uguaglianza
delle condizioni sociali, quanto che nella ricerca del benessere individuale
tutti abbiano la possibilità di raggiungere il proprio. Se s'impone a priori
l'uguaglianza sociale, si mortifica la libertà della ricerca individuale, ma
se si vuole premiare questa libertà, senza tener conto delle difficoltà
altrui, si finirà col distruggere l'idea stessa di una uguaglianza nella
diversità.
Usare il tempo di lavoro individuale per decidere la distribuzione dei
prodotti non è quindi un criterio particolarmente democratico per garantire
il benessere di tutta la collettività. Gli uomini devono poter rinunciare
spontaneamente a una parte dei loro prodotti, se questo può servire a
salvaguardare un interesse collettivo. Naturalmente questo è possibile solo
all'interno di una comunità i cui componenti si conoscano gli uni gli altri,
e i risultati dei sacrifici siano tangibili nel breve periodo.
Il motivo per cui l'economia politica classica non era riuscita a
comprendere la duplicità del lavoro dipendeva anche dal fatto che per la
borghesia l'indipendenza dei produttori privati garantiva un'uguaglianza
sociale reale, valida per tutti. Essa non avrebbe mai accettato l'idea che
tale uguaglianza si fondava, in realtà, sullo sfruttamento di chi non
possedeva mezzi produttivi. Anzi, essa era convinta che proprio quella forma
di uguaglianza avrebbe permesso anche all'operaio salariato di diventare un
proprietario.
Marx, in tal senso, non ha fatto altro che dimostrare il carattere
assolutamente "formale" dell'uguaglianza borghese, che si pone anzitutto non
a un livello sociale ma a un livello giuridico. L'uguaglianza giuridica non
è un riflesso di quella sociale ma la sua negazione. La proprietà privata
infatti può garantire la libertà sociale solo se è di tutti. Se non si parte
da questo presupposto -che va realizzato praticamente- si finisce per
concentrare la proprietà nelle mani di poche persone.
Marx ha detto che l'economia classica operava sì una distinzione tra valore
d'uso e valore di scambio, ma solo perché nel primo caso considerava il
lavoro dal punto di vista qualitativo e nel secondo dal punto di vista
quantitativo. Essa cioè "non teneva presente che la distinzione dei lavori
semplicemente quantitativa presuppone la loro unità qualitativa, cioè la
loro uguaglianza, e quindi la loro riduzione ad astratto lavoro umano"(nota
a p.81).
Naturalmente se la borghesia fosse arrivata ad accettare l'idea di un
astratto lavoro umano, avrebbe dovuto negarsi come classe che sfrutta il
lavoro altrui. Se è vero infatti -come dice Marx- che "l'uguaglianza di
lavori del tutto diversi può esistere solo quando non si tenga conto della
loro effettiva disuguaglianza"(p.72), è anche vero che tale principio la
borghesia non è mai riuscita a realizzarlo compiutamente, poiché, se
l'avesse fatto, avrebbe dovuto scomparire come "classe" specifica.
Nel capitalismo non si tiene conto della diversità dei lavori perché in tal
modo si può meglio affermare la superiorità di un lavoro su un altro.
L'equivalenza delle merci è un sofisma che permette al produttore più forte
d'imporsi su quello più debole. L'uguaglianza astratta dei lavori per la
borghesia è un modo subdolo per imporre il dominio della proprietà privata
dei mezzi produttivi, e quindi per riaffermare la disuguaglianza dei lavori.
Il lavoro astratto dalla borghesia viene accettato solo nello scambio perché
di fatto viene negato nella produzione. Solo il proletariato, che non è una
classe particolare, potrà accettare consapevolmente il lavoro astratto nello
scambio dopo averlo affermato nella produzione. L'equivalenza delle merci
potrà effettivamente esistere soltanto quando la società considererà uguali
i diversi lavori individuali, cioè ugualmente importanti ai fini del
benessere collettivo.
Il concetto di "lavoro astratto", in questo senso, appare come un'arma a
doppio taglio. Nell'ambito del socialismo si potrà non tener conto della
diversità dei lavori individuali solo quando esisterà già affermato il
principio dell'uguaglianza sociale, o se comunque esisterà una tensione
collettiva verso il bene comune. Ma questo implica che nella società
l'ideale sia molto forte.
L'altro aspetto che del marxismo qui non convince è più noto e il leninismo
l'ha già superato. Quello secondo cui per costruire il socialismo
democratico "è necessario un fondamento materiale della società, cioè un
insieme di condizioni materiali d'esistenza che sono, a loro volta,
l'originario prodotto naturale della storia di uno svolgimento lungo e
doloroso"(pp. 80-1).
L'importanza attribuita, nel processo storico di emancipazione umana, alla
struttura economica è stata, nei classici del marxismo, inversamente
proporzionale alla sottovalutazione dell'importanza della sovrastruttura
culturale. E' stato appunto il leninismo a dimostrare che il socialismo può
essere costruito là dove se ne avverte il bisogno, anche perché, mentre il
capitalismo si sviluppa, nessuno sarebbe in grado di fissare un limite
massimo a tale sviluppo, il quale, tra l'altro, non può mai corrispondere,
ipso facto, a una particolare "crisi", poiché a questa, di regola, segue una
ripresa della produzione.
Peraltro, la formazione delle basi materiali non garantisce di per sé una
possibilità più favorevole alla transizione socialista, anche perché, mentre
si formano queste basi, l'ideologia borghese penetra nelle coscienze dei
lavoratori e le "corrompe". Ecco perché la coscienza proletaria non ha
bisogno di attendere "uno svolgimento lungo e doloroso" della propria
soggezione al capitale, per organizzare il rovesciamento del sistema. E'
stata proprio la storia del movimento operaio a dimostrare che quanto più la
coscienza proletaria tarda a costruire il socialismo, tanto più le sarà
difficile farlo.
Il feticismo delle merci è stato scoperto da Marx come fenomeno reificante
della vita sociale e produttiva del capitalismo.
Marx ha cercato di spiegarne le ragioni da un punto di vista economico, ma
non ha saputo spiegare quelle di origine culturale.
La domanda a cui ancora oggi bisogna trovare una risposta è infatti la
seguente: per quale motivo, ad un certo punto dell'evoluzione storica
dell'Europa occidentale, le merci hanno cominciato ad acquisire un carattere
feticistico? quali sono state le ragioni culturali che hanno favorito questo
processo sociale, che influenza tanta parte del comportamento umano e
persino della psicologia degli individui?
A questa domanda il socialismo potrà trovare una risposta davvero adeguata
soltanto quando s'immergerà nello studio del fenomeno religioso. Infatti le
origini culturali del capitalismo, esattamente come quelle della filosofia
borghese (da Cartesio a Hegel), vanno ricercate nella religione.
Con Gramsci il socialismo ha appena iniziato il grande lavoro di lettura
sovrastrutturale della formazione capitalistica. In particolare occorre
andare oltre l'interpretazione meramente "politica" del fenomeno religioso e
accingersi ad affrontare quella più propriamente culturale (che riguarda
scienze come l'antropologia, l'ontologia, la psicologia sociale ecc.).
P.es. sarebbe interessante dimostrare come il feticismo delle merci tragga
in ultima istanza la propria origine da quella concezione trinitaria che a
partire da Agostino è venuta affermandosi in Europa occidentale, quella
secondo cui l'identità delle persone dipende dalla funzione che ricoprono.
Il concetto di "persona" in Occidente è stato ad un certo punto subordinato
a quello di "ruolo".
L'unità della natura divina -dicevano i padri occidentali della chiesa- non
è che l'organizzazione dei rispettivi ruoli, quindi sostanzialmente un
consesso di tipo politico-contrattuale.
Naturalmente ci si potrebbe chiedere il motivo per cui il sorgere del
feticismo delle merci va fatto storicamente risalire al XVI sec, cioè a quel
secolo che secondo il socialismo scientifico ha visto generare la civiltà
capitalistica. La risposta a questa domanda può essere trovata solo in uno
studio dei rapporti tra cattolicesimo-romano e protestantesimo.
Infatti il cattolicesimo-romano ha saputo porre soltanto le basi culturali
del feticismo delle merci, ma la vera realizzazione pratica di questa idee,
assicurata da una vasta diffusione sociale, è avvenuta ad opera del
protestantesimo, il quale in un certo senso ha saputo trasferire nella vita
quotidiana dei credenti quanto sotto il cattolicesimo-romano era patrimonio
dei soli ceti clericali e nobiliari.
* * *
Il socialismo scientifico ha mostrato per la prima volta quanto sia ipocrita
quell'atteggiamento borghese che s'illude di considerare le merci come
entità a se stanti, che si rapportano secondo una logica del tutto avulsa
dal contesto sociale.
Tale atteggiamento infatti torna comodo a chi non vuole scorgere nel nesso
di capitale e lavoro la principale contraddizione antagonistica del
capitalismo.
Se esiste uno scambio equivalente delle merci - sostenevano gli economisti
borghesi -, i difetti del capitalismo non sono strutturali ma solo
congiunturali.
Tuttavia, il feticismo delle merci non è solo "personificazione delle cose",
ma anche "reificazione delle persone". Questo secondo aspetto Marx ha saputo
certamente individuarlo, ma non ha saputo approfondirlo sul piano culturale.
L'origine di questa illusione risiede infatti nell'ideologia cristiana (in
particolare quella cattolico-romana) che attribuisce più "fede" a quel
credente che la baratta con le "opere di salvezza" che gli offre la
gerarchia.
Il culmine di questo processo reificante lo si può riscontrare, in ambito
cattolico, con la vendita delle indulgenze, che costituisce, se vogliamo, lo
spartiacque tra cattolicesimo e protestantesimo.
Il protestantesimo non ha fatto che trasferire sul piano economico,
legittimandola sul piano sociale, una prassi che la gerarchia cattolica
tollerava solo in chiave politica, come emanazione diretta del potere
ecclesiastico.
Il protestantesimo non ha reagito alla reificazione proponendo
l'umanizzazione dei rapporti sociali, ma si è limitato a togliere a quella
reificazione il suo carattere di esclusivo privilegio (appartenente appunto
alla gerarchia), e che rendeva impossibile una vera equivalenza delle merci:
"fede contro opere". Esso non ha fatto altro che estendere la reificazione a
tutti i rapporti sociali e quotidiani dei credenti. Al punto che, a partire
dal calvinismo, i moderni cristiani hanno cominciato a porsi più come
"borghesi credenti" che non come "credenti borghesi" (quest'ultimi sono
esistiti, in campo cattolico, dall'origine dei Comuni al XVI sec.).
Il protestantesimo non si è opposto al carattere feticistico delle
indulgenze, così come avrebbe dovuto opporsi (e molte eresie medievali lo
fecero) al carattere feticistico di qualunque altra "opera salvifica"
sponsorizzata dal cattolicesimo, ma si è opposto al fatto che di quel
feticismo l'unico vero soggetto agente era la gerarchia romana.
Nessuno prima di Lutero aveva impostato il problema in termini così
"borghesi", e cioè che nella prassi mercificata delle indulgenze non
esisteva un vero scambio degli equivalenti. Chi le acquistava non lo faceva
liberamente e, per di più, non aveva la certezza di ottenere una reale
contropartita.
Ecco perché diciamo che il cattolicesimo-romano è stato una religione
essenzialmente "politica", che ha posto le basi della formazione economica
capitalistica, senza però avere in sé sufficienti energie per negarsi come
tale, modernizzandosi in una religione più laica e individualistica, e nel
contempo più democratica nella gestione dell'economia.
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