Dopo aver chiarito la questione culturale bisogna porsi quella politica e
sociale: come si supera il feticismo delle merci?
Qui il socialismo scientifico ha dato una risposta che s'è rivelata
fallimentare: la statalizzazione dei mezzi produttivi.
L'alternativa a tale statalizzazione è la socializzazione dei mezzi
produttivi. La differenza sta nel fatto che per realizzare una progressiva
socializzazione (senza rischiare d'imporre alcuna statalizzazione) occorre
promuovere delle comunità basate sull'autoconsumo, perché solo in questo
modo i cittadini possono conoscere l'origine dei prodotti che acquistano o
che usano.
Chi conosce l'origine dei prodotti che usa ne conosce anche il vero prezzo e
quindi il vero valore (prezzo e valore qui coincidono, seppur sempre in
maniera relativa, poiché un'esatta coincidenza non è mai esistita e mai
esisterà: essi infatti potrebbero coincidere perfettamente se tra produttore
ed acquirente non esistesse alcuno scambio, cioè se ci fosse totale gratuità
o, se si preferisce, una fondamentale preoccupazione collettiva a soddisfare
anzitutto i bisogni altrui. In tal caso non esisterebbe alcuna teoria del
valore).
Quando nelle società fondate sull'autoconsumo esisteva solo il valore d'uso,
il valore delle cose non era certo misurato in termini strettamente
economici. Persino nel Medioevo, dove pur esisteva sfruttamento attraverso
il servaggio, il valore d'uso era concepito in termini più sociali che
economici. Una cosa aveva tanto più "valore" quanto più aiutava la comunità
a sopravvivere e a riprodursi, in tutti i suoi aspetti.
Dunque la quantificazione del valore d'uso va sottratta ad un calcolo di
tipo economicistico. Anzi esso non andrebbe neppure quantificato. Dovrebbe
infatti valere il principio secondo cui il valore d'uso di un bene ha tanto
meno valore commerciale quanto più il suo valore sociale è grande (oggi solo
in maniera individuale arriviamo a dire che una cosa che per noi ha un
grande valore "affettivo", in sostanza non ha prezzo, anche se questo non
impedisce certamente al mercato di attribuirle un valore molto diverso da
quello che noi vorremmo).
Il valore d'uso di una qualunque cosa (e quindi non solo di un mezzo
produttivo) dovrebbe essere il valore che le viene attribuito dall'intera
collettività (e quindi non solo, come oggi, da quella parte di collettività
che possiede i mezzi produttivi), cioè da un determinato gruppo di persone
che possiede una certa "memoria storica", una comune "sensibilità
individuale e sociale", una condivisa tradizione di usi e costumi...
Il vero valore delle cose è quello culturale o spirituale, quello stabilito
da una collettività che si sente unita in un destino comune.
Il socialismo di Giuda, che si scandalizza nel vedere Maria versare un
prezioso profumo sulla testa di Gesù, non è più sufficiente per stabilire il
vero valore delle cose. Il socialismo deve umanizzarsi maggiormente, per
poter vedere nel valore d'uso la grandezza della libertà umana.
IL PROCESSO DI SCAMBIO (II)
Ciò che più sconcerta dell'inizio del Capitale è che Marx parla
continuamente di liberi proprietari privati, che producono gli uni
indipendentemente dagli altri, e che s'incontrano sul mercato per scambiarsi
i loro prodotti, facendoli diventare delle merci.
Si ha la netta impressione che questo modo d'impostare le cose sia del tutto
astratto, poiché la nascita della figura del proprietario privato non è mai
avvenuta, nell'ambito del capitalismo, senza la contemporanea nascita del
lavoratore salariato.
Finché il proprietario privato non dispone di manodopera salariata, non è
neppure il caso di parlare di "economia mercantile": infatti, pur esistendo
lo scambio sul mercato, l'economia dominante resta quella basata
sull'autoconsumo. Viceversa, quando il proprietario privato può affermare la
propria assoluta autonomia rispetto alla comunità "d'origine", ciò avviene
appunto perché egli ha già alle sue dipendenze dei salariati.
Marx, partendo dalla merce, e non ad es. dal "salario", come nei Manoscritti
del 1844, pare abbia avuto l'intenzione di dimostrare che se la
contraddizione maggiore del capitalismo resta quella del lavoro salariato,
tutto il resto è però facilmente accettabile o comunque recuperabile dalla
transizione socialista. La stessa grande astrazione usata nell'analisi della
merce sembra essere finalizzata a dimostrare questa tesi.
Nel Capitale c'è una sorta di passiva contemplazione del sistema
capitalistico, per quanto l'analisi delle sue manifestazioni, palesi e
occulte, si sia notevolmente perfezionata, mentre sul ruolo politico del
proletariato il testo non offre nulla di più di quanto si può trovare nel
Manifesto.
E' davvero impressionante, in tal senso, il fatto che Marx consideri i
"possessori di merci" come semplici "maschere economiche" che personificano
dei rapporti economici (p.88). Nel Capitale la società mercantile appare
come un teatro in cui le parti degli attori sono fissate in maniera
irrevocabile. Nessuno può rinunciare al proprio ruolo e assumerne un altro.
D'altra parte per Marx il processo di scambio può avvenire solo fra
possessori di merci che si riconoscono reciprocamente come "proprietari
privati". Essi sono "persone" proprio in quanto hanno capacità autonome,
indipendenti rispetto alla comunità "d'origine". Essi sono "liberi" non
perché appartengono a una comunità, ma, al contrario, perché se ne sono
liberati. La libertà si esprime, formalmente, attraverso un riconoscimento
giuridico, contrattuale, volitivo, della reciproca indipendenza materiale,
economica.
A Marx non interessa individuare la motivazione culturale, "valoriale", che
ha indotto gli uomini ad acquisire un tale modo di affermare la propria
identità. La motivazione di fondo, per lui, non è culturale ma economica: i
possessori di merci s'incontrano sul mercato perché hanno bisogno della
merce altrui: "tutte le merci sono per i loro possessori valori non d'uso e
per i loro non-possessori valori d'uso"(p.89).
Accettando, come motivazione ultima dell'agire, la necessità economica, Marx
è poi costretto ad affermare, da un lato, che "le merci, prima di potersi
realizzare come valori d'uso, si debbono realizzare come valori"(ib.);
dall'altro, che esse, "prima di potersi realizzare come valori, si debbono
accertare come valori d'uso"(ib.).
Cioè, da un lato Marx assegna al valore di scambio un primato su quello
d'uso, ritenendo che solo lo scambio possa provare se un lavoro è utile;
dall'altro è costretto a riconoscere che senza un valore d'uso lo scambio
non avrebbe senso. Col che però non si riesce a comprendere come il bisogno
dello scambio possa "precedere", non cronologicamente, è ovvio, ma piuttosto
"ontologicamente" il valore d'uso.
Per Marx il valore d'uso, non avendo un significato in se stesso, pare
finalizzato a quello di scambio, nel senso che uno scambio subordinato al
primato del valore d'uso non può determinare il valore della merce. In altre
parole, non avendo capito che il passaggio da un primato all'altro
presuppone un'autentica rivoluzione culturale (di mentalità ecc.), Marx è
stato costretto ad attribuire all'effetto di tale rivoluzione una causa
(genetica) dell'intero processo di scambio.
Paradossalmente, il determinismo economico qui si rovescia in quello
psicologico, in quanto i possessori di merci "pensano -dice Marx- come
Faust. In principio era l'azione. Le leggi della natura delle merci si son
fatte già sentire nel naturale istinto dei possessori di merci"(ib.). Il
borghese cioè attribuisce per istinto al valore di scambio il primato su
quello d'uso e fa immediatamente del denaro e non di una merce
particolare -che rimanderebbe troppo al suo valore d'uso- l'equivalente
generale.
Inutile dire che, se veramente fosse così, sarebbe impossibile cercare di
capire il motivo per cui il capitalismo è nato nell'Europa occidentale del
XVI sec. e non nell'impero bizantino o nella Cina dei Ming. Lo stesso Marx,
d'altronde, s'era reso conto di questa difficoltà, laddove in Sulle società
precapitalistiche dirà: "eventi di un'analogia sorprendente, ma verificatisi
in ambienti storici del tutto diversi condussero a risultati diversi" -ma
non riuscì mai a spiegarsela.
"La trasformazione della merce in denaro avviene nella medesima misura della
trasformazione dei prodotti del lavoro in merci"(p.90). In tal senso, quando
Marx parlava nel § 3 del cap. 1 delle diverse forme di valore della società
mercantile, e ne elencava quattro tipi, bisognava intendere solo l'ultima,
quella del denaro, come la più rappresentativa del modo di produzione
capitalistico, mentre tutte le altre sono riferibili solo a formazioni
sociali non capitalistiche.
Tuttavia, se questo è vero, il passaggio da una forma all'altra non può
essere inteso in maniera puramente logica. Se l'istinto borghese è quello di
scegliere il denaro come equivalente universale, ciò significa che
l'adozione di una delle altre tre forme, finché tale istinto non s'impone, è
destinata a rimanere nel tempo. Quell'istinto infatti è, secondo noi, il
frutto di una scelta culturale ben precisa, che gli uomini possono anche
vivere inconsapevolmente, ma che non per questo essa non è oggettivamente
individuabile.
* * *
Dunque, rendendosi conto d'aver fatto, nel § 3 del cap. 1, un discorso
troppo astratto, Marx riprende l'argomento a p. 91, mostrando che "lo
scambio diretto dei prodotti" non esiste solo nella semplice forma di
valore: x merce A = y merce B (vedi p.41), ma esiste anche in un'altra
forma, riscontrabile in ogni società non capitalistica: quella che s'impone
quando esiste un'eccedenza dopo l'autoconsumo. "La prima maniera d'essere
potenzialmente valore di scambio -dice Marx- è per un oggetto d'uso il suo
esistere come non-valore d'uso, come quantità di valore d'uso eccedente gli
immediati bisogni del suo possessore"(p.91). L'equazione in questo caso è: x
oggetto d'uso A = y oggetto d'uso B.
Tuttavia, Marx compie qui un duplice errore: da un lato rifiuta di accettare
l'idea che possa esistere un valore di scambio in nome del valore d'uso (lo
scambio, nella sua analisi, presuppone sì l'uso ma al tempo stesso lo nega);
dall'altro ritiene che lo scambio del surplus sia destinato ad affermare,
con la fine del valore d'uso, la fine della comunità autarchica.
Secondo Marx il vero scambio è possibile solo là dove esiste un "rapporto di
reciproca estraneità"(ib.) tra il produttore e il consumatore. Quindi "lo
scambio di merci ha inizio dove terminano le comunità, ai loro punti di
contatto con comunità estranee"(ib.).
Ora, a parte il fatto che questo può essere vero inizialmente, in un primo
momento, ciò che non si può assolutamente accettare è che la fine della
reciproca estraneità comporti necessariamente la fine della comunità. Il
passaggio di cui parla Marx, e cioè "quando le cose sono diventate merci
nella vita esterna della comunità, esse, per reazione, lo divengono anche
nella sua vita interna"(ib.), non è affatto un passaggio automatico, ma
sempre l'esito di una scelta culturale, fatta in maniera più o meno
consapevole. La stessa decisione, da parte di Marx, di rendere automatico il
passaggio è frutto di una scelta culturale. Egli infatti non riesce ad
accettare l'idea che una comunità basata sull'autoconsumo possa commerciare
con una comunità estranea senza perdere la propria identità. A suo giudizio,
se c'è lo scambio ce n'è il bisogno e se c'è il bisogno la comunità non è
autosufficiente.
"In un primo tempo -dice Marx- il loro [delle comunità] rapporto
quantitativo di scambio è del tutto occasionale. (...) Intanto si afferma
mano a mano il bisogno di oggetti d'uso di altri: e questo diviene un
normale processo sociale per il continuo ripetersi dello scambio. Da adesso
in poi si afferma, da un lato, la distinzione tra l'utilità delle cose per
il bisogno del momento e la loro utilità per lo scambio: il loro valore
d'uso si distingue dal loro valore di scambio. D'altro lato viene a
dipendere dalla loro produzione il rapporto quantitativo secondo il quale
esse sono scambiate: l'abitudine le fissa come grandezze di
valore"(pp.91-2).
Come si può chiaramente notare, Marx considera il passaggio dall'autoconsumo
al mercato come necessario, inevitabile, dettato dal fatto stesso ch'esiste
un bisogno di scambiare i prodotti, di acquistare quelli che non si
producono. Egli non riesce a distinguere tra bisogni primari o fondamentali
e bisogni secondari. I primi non sono anzitutto quelli economici, ma quelli
connessi all'affermazione della libertà, i quali naturalmente hanno bisogno
di una certa configurazione sociale dell'economia. I secondi non sono certo
quelli che, in ultima istanza, garantiscono l'esistenza di tale libertà.
Una comunità autarchica non rinuncerebbe mai alla propria indipendenza per
subordinarsi al mercato sulla base dei propri bisogni secondari. E se
dovesse restarvi subordinata sulla base dei bisogni primari, essa non
sarebbe autarchica.
Non esiste quindi passaggio obbligato dall'autoconsumo al mercato, poiché
qualunque comunità autarchica, dovendo scegliere fra autonomia e
soddisfazione di bisogni primari da un lato, e dipendenza e soddisfazione di
bisogni secondari dall'altro, sceglierebbe la prima soluzione. A meno che
essa non viva al proprio interno una crisi di legittimità o di credibilità,
di fronte alla quale emergono alcune categorie sociali che, invece di
affrontare collettivamente la crisi, credono di potersi emancipare
individualmente attraverso il mercato. E' a questo punto e solo a questo
punto che la comunità si trova costretta a scegliere fra le due suddette
alternative. E l'illusione, scegliendo la seconda, di poter continuare, come
comunità, a soddisfare anche i bisogni primari, si scontrerà ben presto con
la dura realtà dei fatti.
Marx inoltre non prende neppure in considerazione l'eventualità che la
comunità autarchica possa imparare a riprodurre, proprio in virtù dello
scambio, ciò di cui ha bisogno. Sarrebbe davvero un curioso destino che la
casualità di un rapporto commerciale avesse in sé il potere di trasformare
totalmente una comunità, a prescindere dalla volontà dei suoi membri.
* * *
La scelta di usare il denaro come equivalente universale permette alla
borghesia di scindere completamente il valore di scambio da quello d'uso o
"dal bisogno individuale di quelli che effettuano lo scambio"(p.92).
Tuttavia, per Marx la scelta del denaro avviene soltanto per motivi pratici,
contingenti: "la necessità di questa forma si determina coll'aumentare del
numero e della varietà delle merci implicate nel processo di scambio. Il
problema sorge contemporaneamente ai mezzi per risolverlo"(ib.). Detto con
una formula hegeliana: numerose determinazioni quantitative, sommate una
sull'altra, ad un certo punto producono una nuova qualità. Il determinismo
economico è qui riconfermato.
Marx però non riesce a spiegarsi il motivo per cui, mentre l'uso del denaro
come equivalente universale, è rinvenibile presso moltissime civiltà, solo
in quella borghese esso è in grado di ridurre tutto a merce. "Le popolazioni
nomadi -dice Marx- creano per prime la forma di denaro, giacché ogni loro
bene sta in forma mobile, perciò direttamente alienabile"(ib.). Il fatto di
vivere continuamente a contatto con comunità straniere, le stimola allo
scambio dei prodotti. Naturalmente -dice Marx- molto forte è sempre stato
l'uso del denaro per l'acquisto di prodotti esteri.
Tuttavia, "solo in una società borghese già perfezionata"(p.93) poteva
apparire l'idea di fare della terra una merce alienabile. Questa
idea -prosegue Marx- "data dall'ultimo trentennio del XVII sec. e la sua
applicazione su scala nazionale fu provata solo un secolo più tardi, nella
rivoluzione borghese dei francesi"(ib.), tramite gli "assegnati", che erano
titoli di credito garantiti sulle terre appartenenti al clero regolare e
incamerate dallo Stato. Marx però non offre una spiegazione convincente di
questo.
Infatti, prima di arrivare ad espropriare la terra, occorre che il denaro
abbia acquisito a livello di società civile un potere universalmente
riconosciuto, in grado di condizionare lo stesso potere politico. E ciò è
stato storicamente possibile solo a una condizione, che l'ideale religioso
cattolico fosse entrato in una crisi così profonda da necessitare un suo
superamento qualitativo. Il limite della soluzione borghese sta appunto in
questo, che al feticismo religioso è stato sostituito quello economico. Il
superamento c'è stato ma non di ordine "qualitativo". Di fatto la società
mercantile non esprime una vera alternativa al servaggio e al clericalismo,
ma un modo ancora più sofisticato di vivere lo sfruttamento e l'alienazione.
Marx ha tutte le ragioni ad opporre il denaro come merce universale a coloro
che volevano considerarlo solo come un "segno" del valore. Allorquando era
vietato considerare il denaro come merce e quindi venderlo, era il potere
politico (monarchico) a stabilire il valore del denaro. In tal modo
l'arbitrio delle istituzioni s'imponeva sullo sviluppo delle relazioni
sociali, impedendo, per quanto poteva, che s'imboccasse la direzione
"borghese", o che tale direzione acquisisse un'eccessiva autonomia.
Tuttavia, Marx ha visto in questo solo il lato negativo. Concedendo il
primato al valore di scambio, egli non avrebbe mai accettato l'idea che il
denaro possa essere collettivamente considerato come un "segno" del valore
d'uso. La caratteristica "simbolica" del denaro potrebbe essere del tutto
lecita, in riferimento al valore d'uso, se fosse accettata consapevolmente e
liberamente da tutta la società. In tal caso il denaro perderebbe la sua
funzione di merce universale, che si contrappone a una qualunque altra
merce, e conserverebbe sia quella di un particolare valore d'uso (ad es. per
oggetti ornamentali), sia quella di equivalente generale, non in astratto,
ma in concreto, cioè in riferimento a beni di utile consumo.
Se in una società dominasse il valore d'uso, gli uomini non avrebbero mai
l'impressione che il potere del denaro, in ultima istanza, possa essere
"onnipotente", anche a prescindere da ciò ch'esso effettivamente
rappresenta. Nel capitalismo il possesso del denaro autorizza
automaticamente a credere che vi siano sempre delle merci da acquistare.
"Non pare che una merce si trasformi in denaro solo perché in essa, da ogni
lato, le altre merci indicano i loro valori, ma al contrario, pare che le
altre merci indichino in generale in essa i propri valori, in quanto è
denaro"(pp.97-8).
Marx ha compreso perfettamente "la magia del denaro", ovvero il nesso tra
"l'enigma del feticcio denaro" e quello del "feticcio merce"(p.98), ma non
ha compreso il rapporto di causa/effetto che lega il feticismo religioso con
quello economico. Cioè non ha compreso che quando saranno superate le radici
culturali di ogni possibile feticismo, la funzione del denaro si ridurrà a
quella di rappresentare simbolicamente il valore d'uso, semplicemente per
rendere più agevoli gli scambi.
IL DENARO (III)
Nell'analisi di Marx il denaro rappresenta varie cose: anzitutto è misura
dei valori (in tal senso decide anche la scala dei prezzi); in secondo luogo
è mezzo di circolazione, che permette alla merce di subire una sostanziale
metamorfosi; in terzo luogo è segno del valore, in quanto è capace di
trasformarsi in carta moneta o in altri simboli, senza perdere il proprio
valore; in quarto luogo è denaro in senso proprio, utilizzato per
tesaurizzare, come mezzo di pagamento e come fondo di riserva in lingotti di
metalli pregiati, che assicurano un valore al commercio mondiale.
1) Misura dei valori
"Il denaro, in quanto misura di valore, è la forma fenomenica necessaria
della immanente misura di valore delle merci, del tempo di lavoro"(p.99),
cioè è "incarnazione sociale del lavoro umano"(p.103). Esso "serve come
denaro meramente immaginato, cioè ideale"(p.101), serve "a trasformare i
valori delle merci in prezzi, in quantità immaginate d'oro"(p.103). Questa
funzione specifica verrà ripresa in maniera analitica nel § 2b.
In quanto "scala dei prezzi", il denaro esprime il "peso determinato di un
metallo", l'oro (ib.): esso "misura quelle quantità d'oro" immaginate (ib.).
Questa funzione verrà ripresa nel § 2c.
Il prezzo -dice Marx- "dipende totalmente dal reale materiale del
denaro"(p.101):
oro, argento o rame, benché qui Marx presupponga, per semplificare, che solo
l'oro sia la merce-denaro. Il prezzo è "esponente della grandezza di valore
della merce, cioè del suo rapporto di scambio col denaro"(p.108).
Marx però afferma che il contrario non è vero, cioè che dal prezzo non si
può risalire al valore, poiché nel capitalismo ha più importanza il primo
che non il secondo. Infatti, se "la grandezza di valore della merce sta ad
indicare un rapporto necessario, immanente al suo processo di formazione,
con il tempo sociale di lavoro, tale rapporto necessario, trasformandosi la
grandezza di valore in prezzo, appare come rapporto di scambio di una merce
con la merce denaro che esiste fuori di essa"(p.109). Ovverosia, se si
trattasse di uno scambio diretto di prodotti, il loro prezzo rispecchierebbe
più facilmente il loro valore, ma siccome qui è in gioco il denaro, quale
universale equivalente, ecco che il prezzo non corrisponde più al valore.
"Rimanendo uguali i valori delle merci -dice Marx-, i loro prezzi cambiano
col valore dell'oro stesso (materiale del denaro), e aumentano in
proporzione al suo calare, e calano aumentando quello"(p.128).
Il valore di scambio, che aveva sostituito il valore d'uso, si trova a
contraddire se stesso a vantaggio d'una forza estranea: il denaro. E così
"la possibilità di una incongruenza quantitativa tra prezzo e grandezza di
valore, risiede nella stessa forma di prezzo. E questo non è un difetto di
tale forma, anzi, ne fa al contrario la forma adeguata di un modo di
produzione in cui si può imporre la regola solo come legge media della
sregolatezza, che agisce ciecamente"(p.109). Questo perché nel capitalismo
ciò che più importa non è -lo ripetiamo- il valore della merce, ma il
profitto che, attraverso il suo prezzo, essa fa realizzare. Ciò sarà
approfondito nel § 2b.
Il denaro ha un potere così grande che è in grado di stabilire un "prezzo" a
cose che in realtà non hanno alcun valore economico, come ad es. la
coscienza, l'onore ecc.(ib.). L'incongruenza, in questo caso, non è
quantitativa ma qualitativa. Il denaro sfugge dalle mani di chi ha voluto
cercare nelle cose solo il loro valore di scambio.
L'uguaglianza delle merci affermata nello scambio (che prescinde
dall'uguaglianza effettiva dei lavori concreti, in quanto, al massimo,
rimanda all'uguaglianza del lavoro astratto), diventa un'uguaglianza così
formale che può essere sostituita da quella che impone il denaro, il quale,
in tal caso, assume i panni di una divinità metafisica, in grado di
eguagliare astrattamente o formalmente tutte le merci, i lavori e i valori.
2) Mezzo di circolazione
a) La metamorfosi della merce
La metamorfosi della merce è possibile in virtù non della merce ma del
denaro. O meglio, finché c'è scambio di merce contro merce, non c'è
metamorfosi, ma "ricambio organico sociale"(p.111). Finché il denaro è solo
"mezzo di scambio" e non diventa "mezzo di circolazione delle merci", il
capitalismo non nasce.
Tuttavia, qui Marx non ha spiegato il motivo per cui da tale "ricambio
organico" ad un certo punto si forma la metamorfosi. Non l'ha spiegato
perché ha impostato il problema in termini non culturali, ma economici. Il
passaggio dal ricambio organico alla metamorfosi, per Marx, è necessario,
inevitabile: "lo sviluppo della merce non elimina le contraddizioni del
processo di scambio, ma crea la forma in cui esse possono muoversi"(ib.).
Il difetto dell'impostazione metodologica di Marx lo si può notare nel
concetto stesso di "ricambio organico del lavoro sociale", termine col quale
egli presuppone la fine della comunità di autoconsumo. Marx ha saputo
individuare le contraddizioni del processo di scambio, ma non quelle fra
autoconsumo e scambio, poiché ha osservato il primo dal punto di vista del
secondo. I limiti dell'autoconsumo sono determinati dai pregi dello scambio.
Peraltro, tutte le contraddizioni del processo di scambio non possono mai
prescindere dalla pretesa egemonica che il denaro vuole esercitare su ogni
altra merce. Cioè a dire le contraddizioni partono dal presupposto che la
contrapposizione tra autoconsumo e scambio sia già stata superata a favore
dello scambio. Se così non fosse, il processo del ricambio organico -dice
Marx- si "spegnerebbe"(p.114).
In sostanza, Marx ha soltanto costatato il "raddoppiamento delle merci in
merce e in denaro"(p.112), ma non ne ha spiegata la ragione di fondo. In
effetti, non è per nulla scontato che laddove il "ricambio organico sociale"
viene esercitato da comunità autarchiche, si verifichi il suddetto
"raddoppiamento", come non è scontato che si verifichi l'esaurirsi dello
scambio.
L'immanente contrapposizione di valore d'uso e di valore è già, allo stadio
in cui l'analizza Marx, destinata a risolversi a favore del valore. Nel
capitalismo una merce è "valore d'uso" solo per l'acquirente, non certo per
il produttore, se non indirettamente, nel senso che una merce non usabile
non è vendibile. E' pertanto ingenuo sostenere che "in tale contrapposizione
le merci in quanto valori d'uso si oppongono al denaro in quanto valore di
scambio"(ib.). La contrapposizione è nata prima, fra produzione anzitutto
per il consumo e produzione esclusivamente per il mercato. Quando Marx
afferma che "ambedue gli estremi della contrapposizione sono merci, perciò
unità di valore d'uso e valore"(ib.), lascia intendere che lo scontro non
sia tra "estranei" ma tra "parenti". In realtà, prima di questo scontro, il
cui esito era facilmente prevedibile, ne è avvenuto un altro, assai più
incerto e più tragico di quanto non appaia nel Capitale.
La differenza tra i due "estremi" è più che altro di forma, anche se la
metamorfosi delle merci, quale "mutamento di forma"(p.111), ha portato a un
dominio sostanziale del denaro. Nel senso che se la merce è "realmente"
valore d'uso, il denaro è "realmente" valore di scambio (come equivalente
universale), ovvero la merce è "idealmente" valore di scambio (il prezzo),
mentre il denaro è "idealmente" valore d'uso (in sé non serve ma permette
l'acquisto di ogni merce). Paradossalmente, il denaro ha, rispetto a una
qualunque altra merce, maggiore "concretezza" nello scambio (perché ha più
potere di astrazione) e maggiore "astrazione" nell'uso (perché è
l'equivalente universale più concreto).
La merce quindi non rappresenta affatto -come vuole Marx- una "unità di
valore d'uso e valore"(p.112), ma la subordinazione del primo al secondo,
testimoniata dal fatto che, in caso contrario, non si otterrebbe mai che il
valore di scambio del denaro risulti infinitamente superiore al valore d'uso
di una qualunque merce. Non c'è nessuna merce capitalistica che, una volta
posseduta, possa ridimensionare le pretese del denaro.
* * *
La prima metamorfosi della merce è quella della vendita: Merce-Denaro. Per
giustificare il "salto mortale" della merce, dal suo corpo al corpo
dell'oro-denaro, Marx fa questo ragionamento: in una qualunque società la
divisione sociale del lavoro, che è "un naturale organismo di produzione, le
cui fila si sono tessute e continuano a tessersi all'insaputa dei produttori
di merci"(p.114), produce valori di scambio che per il non-produttore (o per
il consumatore) devono avere un valore d'uso, altrimenti le merci non
sarebbero acquistate.
Il "salto mortale" della merce consiste appunto in questo, che sul mercato
non è detto ch'essa -solo perché "soddisfa un bisogno sociale"(p.115)- sia
destinata ad essere acquistata. Perché lo sia, occorrono delle circostanze
favorevoli, la prima delle quali è che la "concorrenza" non faccia di meglio
(producendo ad es. la stessa cosa in un tempo minore).
Per Marx quindi, il "salto mortale" non sta tanto nel diverso modo che il
produttore ha di guardare la merce: anzitutto per il consumo o
esclusivamente per il mercato, quanto nella capacità ch'essa ha o non ha
d'imporsi sul mercato (contro altre merci).
Infatti, il passaggio dal consumo al mercato è, per Marx, del tutto
naturale, inevitabile. "Un certo atto lavorativo era una funzione tra le
molte funzioni di uno stesso produttore di merci, oggi forse si stacca da
questo assieme, si rende indipendente e proprio per questo manda al mercato
il proprio prodotto parziale come merce autonoma"(p.114).
La spiegazione di ciò rientra nel preteso carattere spontaneo (anarchico)
attribuito alla divisione sociale del lavoro, la quale si svilupperebbe
senza intenzione da parte dei produttori. In tal modo Marx vuole attribuire
la causa della metamorfosi della merce (che è un processo tipico della sola
produzione mercantile) al passaggio "naturale" dall'autoconsumo al mercato.
Non avendo in mente di cercare la ragione culturale di tale metamorfosi,
Marx ne addebita la genesi a ragioni di comportamento economico istintuale.
"Può accadere forse che la merce sia prodotto di una nuova maniera di
lavoro, che voglia appagare un bisogno sopravvenuto da poco, o che voglia
far nascere per la prima volta un bisogno, di sua iniziativa"(ib.) -dice
Marx, usando degli esempi che già suppongono l'esistenza della società
mercantile e che quindi non sono in grado di spiegare, culturalmente, il suo
nascere.
In pratica Marx, e ancora una volta, applica a un modo di produzione
pre-borghese dei criteri desunti dalla società borghese. Egli infatti
ritiene che la divisione sociale del lavoro sia così "spontanea" da
determinare un passaggio inevitabile dal consumo al mercato. In altre
parole, la produzione di valori d'uso non sembra implicare affatto -a suo
giudizio- la possibilità di una divisione del lavoro consapevole: questa
sarà soltanto una prerogativa del futuro socialismo.
Marx insomma si è limitato a costatare che "la divisione del lavoro
trasforma in merce il prodotto del lavoro e in tal maniera rende d'obbligo
la sua trasformazione in denaro, e contemporaneamente rende occasionale la
riuscita o meno di questa transustanziazione"(p.116), in quanto non ogni
merce ha un prezzo competitivo.
L'esistenza del "produttore privato indipendente" è considerata da Marx di
livello superiore a quella del produttore legato alla comunità autarchica,
sebbene egli non si nasconda il carattere "anarchico" della produzione
mercantile e quindi la necessità ch'essa ha di essere superata da un'altra
di tipo "sociale" e "consapevole". "I nostri produttori di merci s'accorgono
che quella medesima divisione del lavoro che li fa produttori privati
indipendenti, fa poi indipendenti proprio da loro sia il processo sociale di
produzione [perché ad un certo punto si produce solo per il mercato] sia i
loro rapporti entro tale processo [che sono determinati dalla logica della
concorrenza], e s'accorgono che l'indipendenza reciproca delle persone ha il
suo complemento in un sistema di dipendenza tra di essi, imposto dalle cose
[poiché sul mercato ciò che conta è il tempo di lavoro socialmente
necessario e la produzione strettamente legata alla vendita]"(ib.).
Ciò che più stupisce, nell'analisi di Marx, è la freddezza con cui si guarda
il modo di produzione pre-capitalistico. Quando Marx afferma che "la merce,
nella sua figura di valore, elimina ogni segno del suo originario valore
d'uso e del particolare lavoro utile per il quale è nata, per mettersi nel
bozzolo della uniforme materializzazione sociale del lavoro umano
indifferenziato"(p.118) - si ha l'impressione che in questa conclusione Marx
non si limiti a esprimere un giudizio di fatto, ma dia anche un giudizio di
valore, cui sembra sottesa non la consapevolezza d'un dramma storico, ma la
soddisfazione di un personale pregiudizio.
* * *
La seconda e definitiva metamorfosi della merce è quella dell'acquisto:
Denaro-Merce. La merce, dopo essersi trasformata in denaro, permette al
denaro di acquistare qualunque merce. L'alienazione particolare della merce
qui diventa assoluta.
Benché la metamorfosi complessiva della merce presupponga che questa
riappaia nel processo finale, dando così l'impressione che si tratti, pur
con la mediazione del denaro, di uno scambio di prodotti, in realtà "la
circolazione delle merci si distingue sostanzialmente e non solo formalmente
dal diretto scambio dei prodotti"(p.121).
Da un lato, infatti, "lo scambio di merci frantuma i limiti individuali e
locali del diretto scambio di prodotti e sviluppa il ricambio organico del
lavoro umano"(p.122). Per Marx -come noto- il lavoro astratto borghese è
superiore al lavoro concreto del contadino-artigiano, caratterizzato,
quest'ultimo -come si evince dal testo-, da limiti "individuali" (Marx non
riconosce alcun carattere di "socialità" al lavoro agricolo) e "locali" (per
Marx l'autarchia comporta la precarietà delle forze produttive, una visione
ristretta della realtà ecc.).
"D'altro lato si viene a formare tutto un insieme di nessi sociali spontanei
e che sfuggono al controllo delle persone che conducono l'operazione"(ib.).
Marx, nonostante che in questo abbia perfettamente ragione. è convinto che
il socialismo possa costituire una forma razionale o pianificata
dell'economia, pur nella conservazione del primato dello scambio
sull'autoconsumo. Su questo tutti gli esperimenti realizzati del socialismo
gli hanno dato torto, come lo diedero ai socialisti utopisti i tentativi di
realizzare un socialismo basato sull'autoconsumo in una società dominata dai
rapporti capitalistici.
Marx ha certamente capito che sul mercato capitalistico la socializzazione
del lavoro, lo scambio delle merci ha un che di anomalo, quasi di perverso,
poiché proprio là dove s'impone la considerazione sociale del lavoro
astratto, socialmente necessario, lì si afferma anche la contrapposizione
dei soggetti, il dualismo tra produttore e consumatore. In questa
consapevolezza critica Marx supera di gran lunga tutti gli economisti
classici, per i quali il mercato era solo fonte di "uguaglianza" e non di
antagonismi sociali.
Tuttavia, con la concezione del primato del valore di scambio, Marx non è
assolutamente in grado di stabilire quando una merce ha un effettivo valore
d'uso per l'acquirente, o quando invece ha un reale valore di scambio per il
venditore. Non è in grado di stabilirlo perché è lo stesso capitalismo che
non permette di sapere con certezza se il valore d'uso di una merce sia
veramente di utilità sociale e non un pretesto o un'occasione per far
quattrini. Marx naturalmente pensava che tale possibilità esistesse solo nel
socialismo, in cui la proprietà del produttore è, in ultima istanza, la
stessa del consumatore, ma l'esperienza del cosiddetto "socialismo reale" ha
dimostrato che tale equivalenza di proprietà non è sufficiente a realizzare
la democrazia del socialismo. Perché l'equivalenza sia "reale" e non
"formale", cioè sociale e non statale, occorre partire dall'affermazione
della comunità basata sull'autoconsumo.
La relativa non-identità di vendita e acquisto riflette bene l'impossibilità
di sapere, nel capitalismo, fino a che punto una merce conservi un vero
valore d'uso. "Nessuno -dice Marx- può vendere senza che un altro acquisti
[fin qui la suddetta identità sarebbe salvaguardata]. Ma nessuno, solo
perché ha venduto, deve acquistare immediatamente [il denaro infatti ha
sostituito il baratto]. La circolazione frantuma i limiti di tempo, di
spazio e individuali dello scambio di prodotti [della comunità autarchica],
appunto perché nella contrapposizione di vendita e acquisto [merce contro
denaro] essa separa l'immediata identità presente [di vendita e acquisto in
una medesima persona] dando in cambio il prodotto del proprio lavoro e
ricevendo in cambio quello del lavoro di altri [M-D-M]"(p.123).
Marx in sostanza vuole dire che: 1) nel capitalismo non è così facile
"piazzare" una merce sul mercato; 2) l'identità di vendita e acquisto non
può essere immediata, poiché tra venditore e acquirente esiste una
polarizzazione dovuta al fatto che il primo deve vendere una merce al
secondo che deve acquistarla col denaro, ma che può anche non acquistare; 3)
anche chi riesce a vendere, non necessariamente, col denaro ottenuto,
diventa un immediato acquirente.
D'altra parte i due momenti (vendita e acquisto), pur essendo formalmente
indipendenti, "sono complementari tra loro"(ib.), nel senso che la loro
contrapposizione non può andare oltre "a un certo punto", altrimenti la loro
"unità si afferma con la violenza, attraverso una crisi"(ib.). Cioè se nel
mercato capitalistico, impostato sul valore di scambio, vi sono più vendite
che acquisti, l'unità dei due aspetti si manifesterà in maniera critica
(attraverso, p.es., la sovrapproduzione). Ma prima che questa possibilità si
trasformi in realtà -dice Marx- occorre "tutto un insieme di rapporti che
non esistono ancora dal punto di vista della circolazione semplice delle
merci"(p.124).
Marx, dopo un giro di frasi particolarmente astratto e involuto, è giunto
col fiato corto a questa conclusione. Infatti, volendo salvare l'idea del
primato dello scambio, egli non può mostrare che già nella circolazione
semplice delle merci le fondamentali contraddizioni del capitalismo si
manifestano nel loro irriducibile antagonismo. Ciò avverrà solo nella
sezione dedicata al passaggio dal denaro al capitale.
Marx, per il momento, ha cercato di rimediare a questa difficoltà con la
nota dedicata a James Mill, ove critica chi tenta di negare "le
contraddizioni del processo di produzione capitalistico, riducendo i
rapporti dei suoi agenti di produzione in semplici relazioni che sorgono
dalla circolazione delle merci"(ib.). La critica è giusta, ma Marx è caduto
nell'errore opposto, quello di voler "salvare" il capitalismo nell'ambito
della circolazione, mirando a trasformarne anzitutto gli aspetti produttivi.
Difficilmente Marx avrebbe accettato l'idea che il processo di scambio della
merce, espresso nella formula M-D-M, può essere accettato solo se il
possessore di una determinata merce non è costretto a venderla sul mercato
per acquistare il denaro con cui poter comprare un'altra merce. La necessità
del mercato, per Marx, non si può mettere in discussione: nel senso ch'essa
deve apparire assoluta. Finché resta relativa, la società agraria non può
morire e il capitalismo non può nascere. Questo significa che il denaro deve
escludere necessariamente sul mercato qualsiasi altra forma di scambio
(soprattutto deve escludere il "baratto", che di tutti gli scambi è il più
diretto).
* * *
b) La circolazione del denaro
Non si può certo negare a Marx d'aver colto nel segno quando afferma che la
cosa essenziale nel mercato capitalistico non è la circolazione delle merci
ma quella del denaro e che, in tale circolazione, il ruolo dello Stato
diventa sempre più importante. Con grandi capacità di analisi e di sintesi,
egli ha saputo anticipare quelle che saranno le caratteristiche del
capitalismo monopolistico nella fase imperialistica, ove i capitali
finanziari hanno un ruolo preminente e i monopoli si appoggiano alla
funzione protettiva dello Stato.
Relativamente alla circolazione del denaro, Marx afferma che proprio essa
permette una migliore metamorfosi della merce: naturalmente se il valore del
denaro è basso, i prezzi delle merci tendono ad aumentare, diminuiscono
invece se il valore del denaro è alto.
I problemi, in un'economia capitalistica, sorgono -dice Marx- quando vi è un
"rallentamento della circolazione del denaro"(p.133), quando cioè i due
processi della vendita e dell'acquisto entrano in una "stasi".
Giustamente Marx sostiene che "la circolazione non ci permette si
comprendere da dove provenga questa stasi: essa ci fa vedere solo il
fenomeno"(ib.). Di sicuro la crisi non può essere risolta con un puro e
semplice "aumento dei mezzi di circolazione"(p.134), né dalle "truffe
ufficiali" (delle banche centrali degli Stati) inerenti alla "regolazione
dei mezzi di circolazione"(ib.)
Tuttavia, Marx non affronta neanche lontanamente il nesso di crisi economica
e crisi generale del sistema di governo (di credibilità o legittimità), cioè
il fatto che la "stasi" della circolazione del denaro possa anche dipendere
dalla "sfiducia" che i cittadini e i lavoratori manifestano nei confronti
del governo in carica o delle istituzioni di potere o del sistema nel suo
complesso (produzione, distribuzione, consumi, servizi ecc.).
Le combinazioni elaborate da Marx, usando i fattori del movimento dei
prezzi, della massa delle merci in circolazione, della velocità di
circolazione del denaro, non tenendo mai conto dei fattori sovrastrutturali
quali la cultura, l'ideologia, i valori ecc., finiscono col sembrare un
gioco economicistico ad incastro. Se per decidere un rialzo o un calo dei
prezzi fosse sufficiente variare i termini delle combinazioni, ogni crisi
verrebbe risolta in breve tempo (anche se Marx escluderebbe tale eventualità
nel capitalismo proprio a causa della sua natura antagonistica). I fatti
dimostrano che una crisi economica non può mai essere risolta solo in chiave
economica, meno che mai quand'essa è di carattere strutturale. Ma se non si
precisa il valore della sovrastruttura si rischia di offrire al capitale gli
strumenti teorici con cui almeno regolamentare le proprie contraddizioni.
Garantire che "l'intera somma dei prezzi delle merci da realizzarsi, come
pure la massa di denaro in circolazione, resti costante"(p.135), non è cosa
per nulla facile in un sistema ove dominano i rapporti antagonistici. Marx
afferma che, anche "non tenendo conto delle gravi perturbazioni che vengono
periodicamente dalle crisi di produzione e da quelle del commercio e, più
raramente, dal mutamento nel valore stesso del denaro, abbiamo spostamenti
di quel livello medio molto più piccoli di quanto potrebbe sembrare a prima
vista"(ib.).
Ma è proprio questo il punto. Se fosse solo questione di "economia", la
consapevolezza della suddetta "costanza" dovrebbe, ad un certo punto,
garantire la ripresa dello sviluppo. In realtà non è affatto scontato che
per superare la crisi sia sufficiente aver consapevolezza che "essendo date
la somma di valore delle merci e la velocità media delle loro metamorfosi,
la quantità del denaro...dipende proprio dal suo stesso valore"(p.136). Se
bastasse questo, sarebbe impossibile stabilire quando l'inflazione dipende
da fattori di crisi o di sviluppo. Attribuire al denaro il suo giusto valore
è impossibile farlo solo in termini economici.
La crisi generale del sistema si ripercuote sul valore non solo del denaro
ma anche delle merci, pur in presenza di varie costanti nella circolazione,
nella quantità ecc. Non risulta affatto strano che il cittadino, ad un certo
punto, abbia sempre più l'impressione, man mano che la crisi generale si
acuisce, che il valore di ciò che possiede, pur aumentandone il volume,
scende costantemente, ovvero che il valore del denaro appaia inversamente
proporzionale alla sua quantità, sebbene dal punto di vista economico
permanga una proporzionalità diretta.
Da tempo tuttavia Marx ha compreso che la contraddizione fondamentale della
società capitalistica non sta tanto nella circolazione del denaro, quanto
nella contrapposizione dei soggetti che producono merci: quella è una
conseguenza di questa. In tal senso la sua critica a Owen, nella prima
importante nota al cap. III, è del tutto giusta. Owen voleva trasformare il
denaro in un mezzo che indicasse direttamente il tempo di lavoro impiegato
dall'operaio, il quale così, avendo a disposizione questo "certificato di
lavoro", poteva partecipare alla divisione del prodotto comune da
consumarsi.
Marx qui obietta che non si può "presupporre la produzione di merci e volere
nello stesso tempo sfuggire le condizioni inevitabili di essa con
sconciature monetarie"(p.100). Un lavoro privato, in una società
capitalistica, non può mai essere considerato come "direttamente
socializzato", anche se fosse organizzato in maniera collettiva. Il
socialismo era definito da Marx "utopistico" appunto perché presumeva di
poter affermare la democrazia sociale a prescindere dalla rivoluzione
politica anti-capitalistica. Naturalmente questo non significa che le idee
di Owen non avrebbero potuto trovare un'adeguata realizzazione in una
società socialista. Ma il marxismo non si è mai interessato a tale
eventualità.
c) Il segno del valore
Marx qui prende in esame il fatto che nel capitalismo "la monetazione, come
pure la definizione della scala di misura dei prezzi, è compito dello
Stato"(p.139).
L'analisi di questa forma del denaro è piuttosto carente, soprattutto perché
non si osserva lo Stato come "ente sovrastrutturale" che viene a sovrapporsi
alla società civile. A Marx non interessa il fatto che lo Stato sia sorto
dopo che il mercato aveva spazzato via la comunità agricola. L'importanza
dello Stato viene colta solo in termini economici, nel senso che solo in
forza della sua autorità è possibile "sostituire il denaro metallico, nella
sua funzione di moneta, con marche di diverso materiale, cioè con
simboli"(p.140),
quei simboli che oggi definiamo col termine di assegni circolari, cambiali
al portatore, carte di credito ecc.
In questa separazione del "contenuto nominale" (il titolo) dal "contenuto
sostanziale" (materia aurea) Marx vede la storia degli "intrighi monetari"
del Medioevo e dell'età moderna sino al sec. XVIII. Marx però non considera
"pertinente all'argomento del [Capitale] l'esame di dettagli quali il
diritto di monetaggio e altri simili cose"(p.139, in nota). Egli si limita a
costatare la "naturale tendenza del processo di circolazione", quella di
"trasformare in apparenza d'oro l'essere d'oro della moneta"(p.140). Sarebbe
stato invece di grande interesse verificare le diverse motivazioni che nel
corso dei secoli hanno portato i vari governi a promuovere tale processo di
separazione, anche perché solo nel capitalismo esso raggiunge dei livelli
così sofisticati e paradossali.
Secondo Marx la "carta moneta dello Stato a corso forzoso nasce
spontaneamente dalla circolazione metallica"(p.142). In realtà, è solo sul
piano tecnico che "la moneta di credito ha la sua naturale radice nella
funzione del denaro come mezzo di pagamento"(ib.). Sul piano più
propriamente sociale, il passaggio si verifica quando la circolazione delle
merci -che ha già assunto proporzioni notevoli- pretende di
autolegittimarsi, a prescindere dalla valutazione soggettiva dei contraenti
sul mercato.
Il denaro ha la funzione di universale equivalente nella misura in cui essa
viene decisa e gestita dalla società civile (questo naturalmente significa
che nell'economia capitalistica sono le classi mercantili che impongono la
loro volontà a tutte le altre); ma se tale funzione viene decisa d'autorità,
cioè se lo Stato si arroga la pretesa di stabilire la scala di misura dei
prezzi, di questo suo potere beneficeranno, in ultima istanza, solo le
categorie più forti dei ceti o delle classi mercantili. Uno Stato che toglie
alla società il potere di decidere la scala dei prezzi sarebbe autoritario
anche se tutta la proprietà fosse statalizzata, come è accaduto nel
"socialismo reale".
Non meno autoritario è lo Stato che pretende, da parte dei cittadini, la
fiducia che non verrà emessa una cartamoneta superiore "alla quantità nella
quale dovrebbe in effetti circolare l'oro (o l'argento) ch'essa rappresenta
simbolicamente"(p.143). Tale pretesa infatti presuppone sempre la
separazione dello Stato dalla società civile, ovvero la subordinazione di
questa a quello. Lo Stato autoritario nasce come diretta conseguenza della
necessità di regolamentare gli antagonismi irriducibili che si verificano
sul terreno della proprietà privata.
Marx non ha colto qui tale aspetto perché, secondo lui, il passaggio
dall'oro-moneta alla moneta di credito avviene in maniera "spontanea": "in
un processo che fa continuamente cambiare di mano al denaro, basta anche la
sua esistenza meramente simbolica"(p.145).
Ciò in realtà non comporterebbe, di per sé, alcuna conseguenza se nella
società dominasse il primato del valore d'uso. In una società del genere,
infatti, il lavoratore non avrebbe il timore, di fronte a una situazione di
crisi, che il suo denaro perda sostanzialmente molto valore pur continuando
ad averne tanto nominalmente. La necessità di tornare a un livello di
benessere inferiore a quello dato, a causa della crisi, potrebbe essere
affrontata più agevolmente in una comunità autarchica che non nella società
borghese, ove in cambio al disvalore del denaro non si offre altro che
miseria e disperazione.
3) Il denaro vero e proprio
Il fatto che Marx non abbia impostato subito in maniera storica la prima
sezione del Capitale ha comportato delle conseguenze piuttosto spiacevoli.
Leggendo ad es. i §§ dedicati al denaro si ha infatti l'impressione di
trovarsi in un periodo storico precedente, seppure di poco, a quello
capitalistico vero e proprio, e che solo con l'inizio della II sezione si
entri nel sec. XVI. Eppure sarebbe impossibile immaginare una consapevolezza
e un uso delle funzioni del denaro così sosfisticati e spregiudicati aldilà
del modo di produzione capitalistico.
Per Marx la trasformazione del denaro in capitale è susseguente
all'affermazione del denaro come equivalente universale, a sua volta frutto
del dominio della merce e del suo mercato sui prodotti di autoconsumo. Egli
cioè ha voluto mostrare una necessità di ordine economico nel passaggio
dalla merce al denaro e dal denaro al capitale. La storia di questo processo
è un problema secondario, nell'analisi di Marx, rispetto all'affermazione di
principio che lega i fatti secondo uno schema di causa ed effetto.
Tant'è che Marx, in realtà, non ha mai fatto una "storia" del passaggio
dalla merce al denaro e dal denaro al capitale: egli si è semplicemente
limitato alla storia dell'accumulazione originaria del capitale. D'altra
parte non esiste alcuna "storia" che ci possa indicare l'evoluzione
temporale dei suddetti passaggi: semplicemente perché essi
presuppongono -almeno per come sono stati descritti- la stessa
"accumulazione originaria".
Tuttavia, se Marx avesse mostrato, sin dall'inizio, come da tale
"accumulazione" i vari passaggi si sono intrecciati, avrebbe ottenuto un
risultato diverso da quello meramente economico. I vari passaggi infatti
andavano considerati anche e soprattutto come un processo sociale che, come
tale, include anche gli aspetti più propriamente ideologico-culturali e
politici.
I risultati, in sostanza, sarebbero stati due: 1) sin dall'inizio il primato
della merce sul bene di utile consumo è stato accompagnato dallo
sfruttamento della manodopera salariata e dalla trasformazione della cultura
pre-borghese; 2) in tale transizione al capitalismo gli uomini non hanno
agito né istintivamente né sotto costrizione, ma hanno dovuto compiere delle
scelte, anche se, dopo averle compiute, le conseguenze si sono fatte sentire
in maniera necessaria.
Se si fa coincidere la storia degli uomini con lo sviluppo della loro
attività economica, si finisce col trasformare gli uomini in marionette del
destino.
* * *
a) Tesaurizzazione
La figura del risparmiatore nasce -dice Marx- "quando s'interrompe la serie
delle metamorfosi e la vendita non è rimpiazzata da un successivo
acquisto"(pp.146-7).
"Agli inizi della circolazione delle merci -spiega Marx- solo il superfluo
di valori d'uso viene cambiato in denaro. Così oro e argento divengono vere
e proprie espressioni sociali della sovrabbondanza, cioè della ricchezza.
Questa ingenua maniera di tesaurizzazione si eternizza tra i popoli la cui
ristretta cerchia di esigenze corrisponde al modo di produzione tradizionale
e volto all'appagamento dei bisogni individuali"(p.147).
Qui Marx -che ha in mente i "popoli asiatici", specie gli "indiani"- applica
di nuovo alle formazioni sociali pre-capitalistiche uno schema di vita
desunto dalla società borghese. Nel senso che quelle formazioni paiono avere
i difetti di questa società senza però averne i pregi. L'individuo risparmia
come il borghese, ma non commercia allo stesso modo; è individualista come
il borghese, ma non si affida come lui al mercato. A Marx qui non è venuto
in mente che l'atteggiamento di questo individuo potesse essere l'effetto di
rapporti colonialistici imposti dal capitalismo o una conseguenza dei
rapporti interni di sfruttamento imposti dal feudalesimo, estranei alla
socializzazione della vita agricola fondata sul valore d'uso.
Per Marx la comunità pre-capitalistica ha una "ristretta cerchia di
esigenze"; viceversa, nella società borghese i "bisogni si rinnovano
continuamente"(p.148). Attratto dal fatto che "nel denaro è eliminata ogni
distinzione qualitativa delle merci", ovvero che il denaro "elimina ogni
distinzione"(p.149), e che "il valore della merce misura il grado della
forza d'attrazione su ogni elemento della ricchezza materiale, perciò sulla
ricchezza sociale del suo possessore"(p.150), attratto da questo, Marx
guarda con ironia l'ingenua "società antica che ritiene il denaro moneta
sovversiva della sua organizzazione economica e politica"(pp.149-150),
ovvero il fatto che "il valore, per il possessore di merci più o meno
barbaro o anche per un contadino dell'Europa occidentale, è inscindibile
dalla forma di valore, e di conseguenza un aumento del tesoro aureo o
argenteo significa per lui un aumento di valore"(p.150).
Marx non ha saputo scorgere in questo atteggiamento "barbaro" una forma di
condizionamento o addirittura di resistenza alla pressione del modo di
produzione borghese, ma ha preferito considerarlo un atteggiamento naturale,
istintivo. In realtà, Marx non ha mai spiegato in maniera convincente il
motivo per cui il risparmiatore antico, diversamente da quello moderno, non
è riuscito a diventare un capitalista.
L'immagine del "tesaurizzatore che sacrifica al feticcio oro i suoi piaceri
della carne"(p.151), cioè la soddisfazione dei consumi, è un'immagine
moderna che non può essere applicata alle società antiche. Qui semmai il
risparmio era appunto finalizzato a soddisfare i piaceri della carne! Il
denaro non costituiva certo un'astrazione fine a se stessa, cui sacrificare
la propria identità: si accumulava per realizzare concretamente un dominio
personale, non per realizzare un astratto dominio impersonale.
b) Mezzo di pagamento
Il denaro come mezzo di pagamento è quello che, separando nel tempo la
cessione della merce dalla realizzazione del suo prezzo, crea un rapporto
tra creditore e debitore: rapporto che spesso, per ovvie ragioni, diventa
conflittuale. Fin qui Marx.
In realtà tale forma di denaro porta alla lotta di classe perché già la
presuppone. Se così non fosse, il denaro non verrebbe usato per tenere
sottomessa la controparte, che nella figura del debitore è la più debole, o
comunque non verrebbe usato approfittando della sua debolezza. Rinunciando
alla scambio diretto, immediato, di merce contro denaro, dilazionando cioè
nel tempo il pagamento di quest'ultimo, il venditore di una data merce si
serve proprio del tempo per ottenere uno scambio più vantaggioso.
Ora però, proprio questo modo così antisociale di usare il denaro lascia
presupporre la fine della società contadina e la sua progressiva
sostituzione con quella borghese. In tal senso Marx non ha compreso a
sufficienza che la contraddizione maggiore rappresentata dalla suddetta
forma di denaro sta proprio nel tipo di rapporto sociale ch'essa presuppone,
e non tanto nel tipo di rapporto sociale ch'essa viene a costruire,
necessariamente, quando i termini di scadenza del contratto non sono
rispettati.
Per Marx "la contraddizione balza fuori al momento delle crisi di produzione
e delle crisi commerciali...quando il denaro si trasforma subito e senza
transizioni da figura solo ideale della moneta di conto in denaro contante.
Non si può più sostituire con merci profane. Il valore d'uso della merce è
senza valore...solo il denaro è merce!"(p.157).
In realtà l'uso del denaro come mezzo di pagamento implica già che i
rapporti sociali siano "sbilanciati" a favore del possessore di merci. La
crisi di sovrapproduzione o altre forme di crisi fanno venire alla luce una
contraddizione sociale latente, l'ha fanno cioè esplodere a livello sociale,
mentre in assenza di quella crisi essa potrebbe tranquillamente esplodere a
livello individuale, nel singolo rapporto tra creditore e debitore. Non a
caso -ed è lo stesso Marx che lo sottolinea- il pagamento dei debiti in
denaro e non in natura è sempre stato usato dalla parte sociale più forte
per assoggettare ulteriormente quella più debole.
Marx tuttavia non ha difficoltà nel sostenere che il passaggio dall'imposta
in natura all'imposta in denaro se da un lato comporta un maggiore
impoverimento dei contadini -come è avvenuto nella Francia di Luigi XIV-,
d'altro lato comporta la fine delle "misere condizioni economiche di vita
che permettono di sussistere" a un'agricoltura arretrata (p.161). Egli in
sostanza riteneva necessario il suddetto passaggio e non vedeva una diversa
alternativa alla crisi della società agraria.
Al tempo di Marx la borghesia era in ascesa. Difficilmente egli avrebbe
potuto immaginare che l'imposta in denaro o l'uso del denaro come mezzo di
pagamento sarebbero un giorno potuti servire alla borghesia soltanto per
conservare politicamente un potere economico in via di dissoluzione.
Nell'analisi di Marx il creditore appare come un possessore attivo di
denaro, in quanto produttore che ha ottenuto un profitto vendendo merci. In
realtà, nel capitalismo maturo il creditore-borghese, appoggiandosi
all'autorità dello Stato, diventa sempre più un "debitore" nei confronti del
lavoratore (operaio o contadino che sia), benché questi economicamente non
riesca a dimostrarlo, potendolo fare solo per via politico-rivoluzionaria.
c) Denaro universale (o fondo di riserva)
Per "denaro universale" Marx intende i lingotti di metalli pregiati
(ammassati nei forzieri delle banche) che nel commercio mondiale hanno la
funzione di materializzare socialmente la ricchezza in genere, ovvero di
concretizzare in abstracto il lavoro umano. In tal caso il denaro non può
mai essere sostituito, in alcun momento, da nessuna merce (a meno che -si
può oggi aggiungere- una determinata merce non abbia un valore così alto e
nel contempo così commerciale da renderlo equivalente a quello del denaro,
come nel caso della droga. Ma anche qui l'operazione verrebbe fatta allo
scopo di poter immediatamente riconvertire la droga in denaro).
Quando le riserve in lingotti sono superiori al loro livello medio è segno
che la circolazione delle merci ristagna. Questo è evidente. Tuttavia, Marx
non ha preso in considerazione l'eventualità che le riserve, se possono
apparire, all'interno di una nazione, superiori al necessario, a livello
internazionale invece, esse possono essere usate da quella stessa nazione
per imporre a tutte le altre, dotate di minori riserve, il corso forzoso
della propria moneta o il dominio mondiale del proprio commercio. Va però
precisato che ai tempi di Marx vigeva il sistema aureo, basato cioè sulla
moneta aurea coniata.
IL CAPITALE (IV)
Passando dalla I alla II sezione, Marx mostra la trasformazione del denaro
in capitale, ma sarebbe un errore ritenere che un uso "borghese" del
denaro -così come è stato delineato nel cap. III- non presupponga già
un'accumulazione di tipo capitalistico, per quanto lo stesso Marx affermi a
chiare lettere che tutte le particolari forme del denaro, descritte in quel
capitolo, non necessitano di una circolazione delle merci molto sviluppata
(p.201).
In effetti, solo ora si viene a sapere da Marx che non era per nulla
assodato che nel cap. III (ma anche in quelli precedenti) si fosse in
presenza di una formazione capitalistica, che -a suo giudizio- nasce
anzitutto sul terreno della produzione e non dello scambio: il plusvalore
nasce "dietro le spalle della circolazione", in maniera "invisibile"(p.194).
Tuttavia, nel cap. III non era certo stato descritto l'uso del denaro nella
società schiavista o in una qualunque società commerciale pre-capitalistica.
Marx ha sempre avuto come punto di riferimento privilegiato il sistema
mercantile quale s'è venuto formando a partire dal sec. XVI. Nell'ouverture
del Capitale Marx parla esplicitamente di "modo di produzione
capitalistico"(p.25)
e all'inizio della II sezione di "secolo XVI" come punto di partenza
(p.169). Ciò sta appunto a significare che l'uso del denaro descritto nel
cap. III è un uso specifico, tipicamente borghese, benché alcune sua
modalità possano ritrovarsi in altre società commerciali.
La causa di questa difficoltà è dipesa dal modo astratto e non storico con
cui Marx ha trattato l'argomento. In ogni caso s'egli avesse parlato
dell'uso del denaro di una qualunque società commerciale, ora non avremmo,
al cap. IV, la sua trasformazione in capitale, poiché questa è specifica del
modo di produzione capitalistico.
Esiste quindi nella II sezione una contraddizione latente, che solo ora
viene alla luce, ed è la seguente: da un lato, nessuna forma fenomenica del
denaro può portare, di per sé, al capitale che si autovalorizza, la cui
nascita avviene nel campo della produzione; dall'altro, senza il grande
sviluppo commerciale del sec. XVI non si sarebbe formato alcun capitale.
Dunque, come mai solo adesso si parla della trasformazione del denaro in
capitale, visto e considerato ch'essa in realtà è un presupposto di un uso
borghese del denaro? Risposta (plausibile): perché per Marx la società
borghese non va rifiutata come società mercantile, ma solo come società
capitalistica (si badi: non come società industriale, ma come società che
forma un capitale privato). Per Marx non è in discussione il primato del
mercato, del valore di scambio, della merce ecc., ma il primato del
capitale, il quale presuppone lo sfruttamento della forza-lavoro. L'idea
"rivoluzionaria" del Marx del Capitale è semplicemente quella di abolire il
capitale per abolire lo sfruttamento del proletariato, conservando tutto il
resto.
Rivediamo meglio in cosa consiste questa contraddizione di Marx. Egli parla
di "nascita del capitale" in seguito alla "produzione delle merci" e
soprattutto alla loro "circolazione sviluppata, ossia il commercio"(ib.). Il
capitale si forma solo "a un certo grado di sviluppo"(ib.) della società
mercantile, quando la divisione del lavoro ha già separato il valore d'uso
da quello di scambio (p.200). Nel senso che se è vero che il capitalismo
nasce sul terreno della produzione, è anche vero ch'esso ha bisogno di un
considerevole sviluppo del commercio. "E' impossibile che il capitale derivi
dalla circolazione [altrimenti si sarebbe formato anche nel mondo
greco-romano o bizantino], ma è ugualmente impossibile ch'esso non derivi
dalla circolazione"(p.195).
Questa impostazione storica relativa alla nascita del capitalismo è di tipo
economicistico e quindi sostanzialmente errata (essa peraltro non sfugge
alla tautologia): sia perché il capitale non può sorgere spontaneamente da
una società di tipo mercantile, sia perché la società mercantile nata nel
sec. XVI era già capitalistica. Marx, in sostanza, non ha saputo spiegare il
passaggio dalla società feudale a quella capitalistica perché non l'ha
affrontato in termini culturali.
Se l'avesse fatto, avrebbe compreso che la nascita del capitalismo è
strettamente legata, da un lato, non solo all'affermazione della libertà
individuale, ma anche, dall'altro, alla contemporanea affermazione della
"schiavitù" di chi insieme alla libertà individuale non ha una proprietà
personale. Perché si affermi la schiavitù occorre che il soggetto da
"schiavizzare" sia convinto che può effettivamente diventare "libero",
emancipandosi da una precedente condizione sociale in cui si sentiva
asservito. Marx ha saputo spiegare in che modo questo individuo s'è
trasformato socialmente o economicamente in lavoratore salariato, ma non ha
spiegato il motivo per cui ha accettato di diventarlo. Non è che Marx non si
renda conto del problema, è che non può preventivare una soluzione del
genere senza rimettere in discussione il primato concesso allo scambio
sull'autoconsumo. Non avendo colto il momento della libertà o della scelta,
egli è stato costretto ad attribuire allo scambio un ruolo sproporzionato,
che nei fatti non poteva avere.
Non a caso egli stesso scrisse, riferendosi alla sua opera, che "il meglio"
stava nell'aver attribuito al valore d'uso un'importanza particolare,
strettamente legata a quella di valore; e quindi nell'aver saputo
distinguere, nell'analisi della merce, i due tipi di lavoro, astratto e
concreto. Marx cioè riteneva d'aver superato l'economia classica sul suo
stesso terreno, lasciando così credere che, con le sue potenti forze
produttive, il capitalismo, se fosse stato regolamentato da un piano (previa
la socializzazione dei mezzi produttivi), avrebbe funzionato mille volte
meglio di quanto non riuscisse a fare con la borghesia (cfr. Lettera a
Engels del 24.08.1867 e Note su Wagner del 1883). L'obiettivo di Marx era
semplicemente quello di conciliare il contenuto del valore d'uso con la
forma del valore di scambio, eliminando non il profitto in sé ma solo il
plusvalore estorto all'operaio con una forza mascherata dal diritto.
In sintesi, nell'analisi di Marx il capitale sorge necessariamente dallo
sviluppo della società mercantile non perché questa abbia concesso il
primato alla merce, al mercato, al valore di scambio ecc., quanto perché
essa ha sviluppato tale primato nell'affermazione della libera proprietà
privata, dalla quale è rimasto escluso l'operaio.
Tale forma di proprietà -secondo Marx- ha dovuto necessariamente svilupparsi
per superare i limiti della proprietà feudale e della società agricola, ma
ora essa stessa rivela i suoi propri limiti, in quanto non è in grado di far
sviluppare ulteriormente le forze produttive che ha promosso. L'alternativa
sta nella proprietà socializzata, in virtù della quale è possibile
realizzare una pianificazione della produzione.
Marx, come non vede alternative -oltre quella borghese- alla crisi della
società feudale, così non ne vede alla crisi della società capitalistica,
oltre quella della mera socializzazione dei mezzi produttivi. Egli non
avrebbe mai accettato che in nome del "piano" scomparisse il "mercato", come
poi è accaduto nei paesi est-europei. Ma l'esperienza di questi paesi ha
appunto dimostrato che se si vuole realizzare la pianificazione
dell'economia, senza tornare all'autoconsumo, il mercato scompare, almeno
quello ufficiale, mentre si sviluppa quello clandestino o "nero".
L'autoconsumo invece permette la realizzazione di un mercato per i beni
necessari, il cui prezzo (o il cui scambio) è liberamente contrattato, in
quanto la libertà è data dalla reciproca e sostanziale autonomia economica.
Per "autonomia economica" non si deve intendere l'"assoluta autarchia", la
quale non solo non è mai esistita, ma non è neppure auspicabile, in quanto,
paradossalmente, sarebbe troppo dispendiosa per le forze produttive in loco.
* * *
Il denaro, per Marx, è il "prodotto ultimo della circolazione delle merci" e
insieme "la prima forma fenomenica del capitale"(p.169). Già abbiamo detto
che questo modo di vedere le cose è, nel Capitale, di tipo logico non
storico. Nessuna circolazione delle merci, per quanto sviluppata sia,
porterebbe mai al denaro come "equivalente universale" se a livello
culturale non si fosse già affermata la "logica" del capitale. Non è la
prima volta che Marx applica al passato criteri di vita del suo presente.
La circolazione delle merci quindi non è "il punto di partenza del
capitale"(ib.),
più di quanto questo non lo sia di quella. Il limite nell'impostazione
metodologica di Marx non dipende tanto da una scarsa storicità degli
avvenimenti, quanto da una posizione ideologica che privilegia il momento
strutturale (economico) su quello sovrastrutturale (culturale), senza
cercare il loro trait d'union.
"Il capitale, considerato storicamente, si contrappone in ogni luogo alla
proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio di denaro,
capitale commerciale e capitale usuraio"(p.170). Questa definizione che Marx
ha dato del capitale è vera ma generica, irrilevante. Il capitale così come
è sorto a partire dal sec. XVI è molto di più del capitale commerciale e
usuraio (che sono sempre esistiti): è denaro investito nella forza-lavoro
che, formalmente libera, produce plusvalore. Ma attenzione: non è che Marx
non si renda conto di questo, è che non riesce a spiegarsi il motivo per cui
l'espressione storica determinata del capitale, quella assolutamente
originale, cioè senza precedenti, debba essere vincolata alla falsa libertà
del lavoratore.
Marx ha perfettamente capito che esiste una forma di ipocrisia tra
l'uguaglianza affermata in sede giuridica e la disuguaglianza de facto in
sede economica, ma non ha capito quale cultura o ideologia ha fatto nascere
questa ipocrisia e in che modo essa s'è rapportata al fattore della
struttura.
Decisiva resta la sua critica del formalismo giuridico borghese, che osserva
il capitalismo solo dal punto di vista del mercato o dello scambio di merci,
ove appare che il borghese imprenditore e l'operaio salariato siano "spinti
solo dalla loro libera volontà"(p.209). Marx ha giustamente messo in luce il
fatto che è assurdo parlare di "libera volontà" in riferimento a un
soggetto -l'operaio- che, non disponendo di proprietà privata, può solo
vendere la propria forza-lavoro. E tuttavia Marx non ha afferrato il
concetto che l'ideologia della "libera volontà" doveva essersi affermata
anche nella coscienza dell'operaio, se questi, invece di ribellarsi
politicamente al monopolio della proprietà privata, vi si adeguò o con
rassegnazione, pensando che in futuro la "divina provvidenza" avrebbe tutto
sistemato, o con l'aspirazione di poter un giorno diventare proprietario di
qualcosa che non fosse semplicemente la sua capacità lavorativa.
Qui peraltro sta il senso del superamento di Marx da parte di Lenin, il
quale affermò in Che fare? che la coscienza rivoluzionaria all'operaio che
non comprende la necessità di superare globalmente il sistema, poteva essere
data solo "dall'esterno", cioè da colui che ha capito che aldilà di questa
necessità vi è solo il tentativo di "riformare" il sistema. In tal senso il
problema che Lenin dovrà affrontare sarà un altro, quello di come impedire
che la trasmissione "esterna" della coscienza rivoluzionaria non si
trasformi in una manipolazione ideologica o in una imposizione politica.
* * *
La diretta forma della circolazione delle merci: M-D-M, cioè vendere per
acquistare, così come si manifesta nella società mercantile, non avrebbe
senso se non esistesse il suo opposto: D-M-D, cioè acquistare per vendere.
Marx invece le presenta come due forme parallele, "sostanzialmente
diverse"(ib.),
la seconda conseguente alla prima, e non strettamente legate, ab ovo. Marx
tende a salvare la prima forma e a negare la seconda, poiché quella
presuppone la libertà dei produttori privati, questa lo sfruttamento del
proletariato. Naturalmente la prima non avrebbe portato alla seconda se i
produttori non avessero affermato un monopolio della proprietà privata, ma
Marx aggiunge, a tale considerazione, che senza la pretesa proprietà privata
non sarebbe crollata l'antiquata comunità agricola.
La formula più esatta della circolazione capitalistica delle merci e del
denaro dovrebbe dunque essere la seguente: D-M-D'-M-Dn, dove il primo Denaro
è il capitale investito, dove la Merce fondamentale è la forza-lavoro, dove
il secondo Denaro è il capitale valorizzato col plusvalore estorto, dove il
terzo Denaro è il capitale che si valorizza all'infinito se la forza-lavoro
non reagisce politicamente. "Il movimento del capitale infatti non ha
limiti"(p.177).
L'altra formula di Marx: M-D-M, se considerata astrattamente, al massimo può
andar bene per quelle società pre-capitalistiche che conoscevano l'uso del
denaro. D'altronde lo stesso Marx ad un certo punto è costretto ad affermare
che il fine ultimo del ciclo M-D-M "è il consumo, appagamento di bisogni, in
altri termini è valore d'uso"(p.174). Ciò sebbene Marx abbia descritto tale
ciclo, nei precedenti capitoli, facendo esplicitamente riferimento alla
società mercantile, ove, per definizione, domina il primato del valore di
scambio. Valore che invece qui è la ragion d'essere del ciclo opposto:
D-M-D. Se dovessimo accettare questo modo d'impostare le cose, dovremmo
anche sostenere che la società mercantile, che Marx fin qui ha descritto,
non è mai esistita; è una società "ideale" ch'egli ha voluto contrapporre
alla progressiva, inevitabile, degenerazione cui essa stessa va incontro.
Da notare che Marx ancora non ha mostrato che tale infinita "valorizzazione
del valore"(p.177) dipende dallo sfruttamento del proletariato. Egli sta
semplicemente mostrando la caratteristica fondamentale del capitalista: "il
perenne succedersi del guadagnare"(p.178). "Il movente delle sue azioni è
una crescente appropriazione della ricchezza astratta"(ib.), astratta perché
il fine è in se stessa e non nel consumo. La differenza tra il capitalista e
il tesaurizzatore -dice Marx- è che questi accumula togliendo il denaro
dalla circolazione, mentre quello, al contrario, accumula reinvestendolo di
continuo.
Per Marx -e ciò per un determinista è davvero singolare- si tratta
semplicemente di maggiore "furbizia" o "razionalità"(p.179). In realtà, dopo
la storia della società agraria (conclusasi in occidente con il crollo del
feudalesimo), la possibilità di continuare la logica dello sfruttamento
poteva esprimersi solo ad una condizione: quella di far credere al
lavoratore che l'unico modo di diventare libero nella comunità agraria non
era semplicemente quello di vincere il servaggio, ma quello di vincerlo
uscendo dalla comunità. Il capitalista investe il proprio capitale
scommettendo che il lavoratore ci crederà. Naturalmente tale scommessa
implicava la fiducia indispensabile nel valore di una determinata cultura,
quella borghese e protestante.
Marx invece pensa che la produzione del plusvalore, essendo completamente
estranea al valore d'uso, dipenda da un "impellente desiderio di
arricchimento"(pp.178-9). Di nuovo qui si passa da considerazioni di tipo
economico a considerazioni di tipo psicologico. Paradossalmente, proprio
mentre ha cercato di dare una definizione storica del capitale, Marx è
andato a cercare in autori come Aristotele, A. Genovesi, Th. Chalmers, Mac
Culloch ecc., quella definizione astratta di capitale applicabile ad ogni
epoca storica. Questo suo atteggiamento è una diretta conseguenza del fatto
ch'egli, nel Capitale, non ha immediatamente legato il plusvalore allo
sfruttamento della manodopera salariata.
Portando all'estremo l'analisi di Marx si sarebbe costretti ad affermare
esattamente il contrario di ciò che lui voleva sostenere, e cioè che il
proletariato è, in definitiva, una merce che il capitalista trova
casualmente sul mercato e che sfrutta per ottenere plusvalore: cosa che però
avrebbe ottenuto ugualmente, anche se non avesse incontrato la forza-lavoro.
E questo perché Marx non riesce a trovare le ragioni culturali che fanno
nascere il plusvalore proprio nel secolo XVI e non prima.
Il capitalismo quindi non sarebbe nato in questo secolo, ma p.es. ai tempi
di Aristotele, il quale lo chiamava col termine di "crematistica", secondo
cui non esiste "alcun limite alla proprietà e alla ricchezza"(p.127 in
nota). Se nel sec. XVI si è imposto un volume notevolissimo di plusvalore,
ciò è dipeso da fattori contingenti, quali ad es. i commerci mondiali, che
ai tempi di Aristotele erano solo mediterranei. La differenza, quindi, fra
il capitalismo moderno e quello antico sarebbe solo quantitativa.
E' la stessa lunga citazione di Aristotele che sta a dimostrare come Marx
non sia riuscito a cogliere la peculiarità del capitalismo moderno, rispetto
a quello antico. L'arricchimento assoluto, illimitato, non rende affatto
uguali le due forme di accumulazione, né la loro fondamentale diversità
riposa nel modo tecnico, meccanico, di ottenere plusvalore. La somiglianza
non dipende dall'atteggiamento psicologico, né la diversità dipende dalle
forme dell'accumulazione.
Non avendo collegato subito l'autovalorizzazione del capitale con lo
sfruttamento del proletariato, Marx arriva a considerare il valore in modo
magico, come un "soggetto automatico"(p.179) che valorizza se stesso anche
senza volerlo, semplicemente usando le merci come "mezzi miracolosi per fare
più denaro dal denaro"(p.180). Il capitalismo, nell'analisi della II
sezione, appare, ad un certo punto, contro le stesse intenzioni di Marx,
come l'esito dell'adeguamento di una posizione psicologica individuale a un
meccanismo economico oggettivo. Per Marx insomma non vi è differenza, stante
la sua definizione astratta di capitale, tra capitale commerciale,
industriale e usuraio: tutti e tre possono ottenere plusvalore, acquistando
per vendere più caro. Marx -e questa è davvero una novità- non vede nel
capitale industriale la modalità principe di estrazione del plusvalore.
* * *
Tutto ciò però va spiegato meglio. Per Marx, nella circolazione semplice
delle merci, espressa dalla formula M-D-M, non si forma plusvalore, poiché
"il valore delle merci è espresso nei loro prezzi prima che esse si
immettano nella circolazione"(p.184). Non c'è "alcun cambiamento della
grandezza di valore"(ib.), proprio perché di tratta di uno scambio "allo
stato puro"(p.185), "da un punto di vista astratto"(p.184). Nel senso che se
alle "leggi immanenti" della circolazione delle merci non si sovrappone un
particolare atteggiamento individuale di uno dei due contraenti, lo scambio
dovrebbe comportare un vantaggio reciproco.
Inutile qui ricordare come questo modo d'impostare le cose sia, da parte di
Marx, "troppo astratto" per essere vero. E la ragione è molto semplice: la
società mercantile qui descritta non è mai esistita sul piano storico (e non
perché si dia per scontato che lo scambio sia solo tra "equivalenti", poiché
più avanti si parlerà anche di quello tra "non-equivalenti").
Marx fa "funzionare" il suo modello teorico di società mercantile facendo
astrazione dal fatto che la libera proprietà privata dei produttori
indipendenti è stata sin dall'inizio il frutto di sanguinose lotte di
classe, che hanno portato a una redistribuzione non democratica ma
"classista" della proprietà. Il quadro da lui dipinto potrebbe trovare una
qualche attendibilità in una società basata sull'autoconsumo, ove la
proprietà sia un diritto collettivo acquisito, e il commercio un'esigenza
regolamentata dalla comunità. Ma un'eventualità del genere Marx sarebbe il
primo a rifiutarla.
Il plusvalore non si forma nella circolazione semplice delle merci perché
qui, secondo Marx, tende a prevalere il valore d'uso su quello di scambio.
Marx, in sostanza, voleva attribuire a una società mercantile
pre-industriale quella facoltà che in realtà possedeva solo la società
agricola che sul mercato scambiava il surplus. Egli così non si è reso conto
che tale società mercantile, finché il plusvalore non si è formato, non era
ancora prevalentemente "mercantile", e quando il plusvalore si è formato,
essa era già prevalentemente "industriale". La facoltà che il capitale
commerciale e usuraio hanno di estorcere plusvalore dipende direttamente,
nel capitalismo, da quella che ha il capitale industriale.
La critica di Marx a Condillac risente, in tal senso, del pregiudizio nei
confronti della società contadina. Marx non s'accorge che criticandolo
d'aver attribuito "a una società a produzione sviluppata di merci una
situazione in cui il produttore produce da solo i suoi mezzi di sussistenza
e immette nella circolazione solo l'eccedente del suo fabbisogno, il
superfluo"(p.186), non s'accorge che questo modello di società è quello
stesso che potrebbe far funzionare il modello astratto, "puro", di società
mercantile da lui stesso prima tratteggiato. Solo che Marx non accetterebbe
mai il presupposto che l'autoconsumo abbia un primato sullo scambio. Ciò
infatti è in netta contraddizione coll'idea di società mercantile
sviluppata, la quale, anche nell'analisi di Marx e non solo nell'ideologia
borghese, vuole essere un superamento positivo della società agricola. A
parte questo, Condillac andava criticato, poiché attribuiva dei criteri
borghesi di vita (in primis l'esigenza di ottenere un valore maggiore da uno
minore) ad una società pre-borghese.
Anche quando Marx ammette che "in pratica le cose non avvengono allo stato
puro"(p.187), nel senso che lo scambio è spesso "tra non equivalenti"(ib.),
egli non riesce mai ad uscire dall'astrazione. La posizione ideologica che
fa dell'economia il deus ex-machina gli impedisce d'immergersi completamente
nella storia.
Non è infatti sufficiente affermare che nella realtà lo scambio è spesso
"tra non equivalenti" per dimostrare una maggiore storicità delle cose. Marx
ha ragione quando sostiene che non sorge alcun plusvalore "neanche
scambiando non-equivalenti"(p.192), ma non riesce a trovare le ragioni
culturali per cui ad un certo punto sul piano della produzione sorge il
plusvalore. Di qui il suo affidarsi alla realtà del commercio mondiale.
Le ragioni di questo limite metodologico sono a monte, nella concezione
stessa che Marx ha della società mercantile, che a sua volta è frutto di un
pregiudizio nei confronti della società agraria. Marx parte da un
presupposto sbagliato, e cioè che "sul mercato delle merci sono contrapposti
solo possessore di merci e possessore di merci; il potere che queste persone
possono esercitare reciprocamente è soltanto il potere delle loro
merci"(p.187).
In realtà nella società mercantile questa è solo una delle polarizzazioni, e
nemmeno la più importante, poiché essa può sussistere solo se
contemporaneamente se ne afferma un'altra: quella fra produttore individuale
di merci e comunità di autoconsumo (ovvero fra capitalista e
contadino-artigiano in via di proletarizzazione). Lo scontro tra queste due
realtà si può esprimere secondo diverse modalità: esso p.es. può diventare
cruento se il valore della comunità è alto o incruento se basso, ma un
valore troppo alto o troppo basso renderebbe inspiegabile la natura dello
stesso scontro. Dal quale comunque deve uscire -secondo Marx- la
subordinazione del contadino espulso dalla comunità e dell'artigiano espulso
dalla corporazione al borghese imprenditore. Marx però non accetta il
principio secondo cui non esiste un momento in cui i due produttori di merci
si contrappongono senza che nel contempo non vi sia la polarizzazione
sociale tra borghesia e proletariato. Il Marx del Manoscritti del '44, in
questo senso, era più realista.
Certo, dal punto di vista del mercato il potere di questi due possessori è
quello delle "merci", ma dal punto di vista della produzione il loro potere
è quello della proprietà privata dei mezzi produttivi. E questa proprietà
sarebbe impensabile senza la distruzione della comunità di autosussistenza e
la conseguente proletarizzazione della classe contadino-artigiana. Se non si
parte da questo presupposto si finisce col sostenere che dei due possessori
di merci ha la meglio quello che, essendo più dotato di "spirito
capitalistico", riesce a ridurre a manodopera salariata gli
ex-contadini-artigiani.
Marx parla della "differenza materiale delle merci" quale "causa materiale
dello scambio"(p.187), senza rendersi conto che tale causa poteva trovare
una ragion d'essere nel sistema basato sull'autoconsumo, e non certo in
quello mercantilistico, ove il leit-motiv dello scambio è il profitto.
La reciproca dipendenza dei possessori di merci -di cui parla Marx- è cosa
del tutto relativa, che si verifica unicamente sul mercato, poiché sul piano
della produzione ogni imprenditore pretende un'indipendenza assoluta da ogni
altro produttore (che poi riesca effettivamente ad ottenerla, è un altro
discorso). Non a caso l'obiettivo principale del proletariato dev'essere
quello di ripristinare la dipendenza del produttore di merci dalle esigenze
e dalla volontà della comunità sociale (anzitutto locale).
Il grande merito di Marx, in questa sezione, è stato quello di aver
dimostrato che il plusvalore non si può formare nell'ambito della
circolazione semplice delle merci. Infatti, sia che i venditori vendano la
merce a un valore più alto, sia che gli acquirenti l'acquistino a un valore
più basso, non si può pensare che una classe acquisti soltanto senza
vendere, ovvero consumi senza produrre. Tuttavia, Marx non ha spiegato il
motivo per cui se questa classe avesse acquistato vendendo o consumato
producendo, in un'epoca pre-capitalistica, non sarebbe ugualmente nato il
plusvalore.
Per Marx il plusvalore non può nascere nella circolazione delle merci non
tanto perché se potesse nascere sarebbe nato prima del sec. XVI, quanto
perché non può esistere plusvalore là dove esistono solo produttori di merci
indipendenti. "L'insieme della classe dei capitalisti di un paese non può
sfruttare se stessa"(p.191). Il che, anche come ipotesi, è di per sé
assurda, poiché non esiste "capitalista" senza "operaio".
Marx aggiunge che se i produttori di merci non fossero indipendenti -come ad
es. le città dell'Asia Minore che erano tributarie dell'antica Roma-, il
plusvalore non si formerebbe ugualmente, poiché al tributo che Roma imponeva
con la forza, quelle città rispondevano aumentando i prezzi delle loro
merci. Esiste quindi plusvalore solo là dove una classe usa del denaro che
estorce col diritto o con la forza a un'altra classe, senza che questa abbia
la possibilità di riprenderselo.
Sembra che Marx, a questo punto, abbia dato una definizione convincente di
plusvalore: in realtà è entrato in un vicolo cieco. Se il plusvalore è ciò
che si ottiene "senza scambio e gratis"(p.190), questa definizione potrebbe
applicarsi tranquillamente a qualunque formazione sociale basata sul
servaggio o, meglio ancora, sullo schiavismo. Là dove esiste sfruttamento di
manodopera (schiava o servile), lì dovrebbe esistere un plusvalore.
In realtà la caratteristica del plusvalore capitalistico è un'altra, che
Marx peraltro conosce perfettamente ma che non può mettere al primo posto,
altrimenti se ne dovrebbe chiedere la ragione culturale: quella di
realizzarsi, da un lato, in virtù della libertà personale del lavoratore, e
dall'altro, in virtù del macchinismo. Non dobbiamo infatti dimenticare che
la rivoluzione industriale (a partire dalla manifattura) è stata una
conseguenza della fine della comunità autarchica. Alle sicurezze che offriva
tale comunità, la borghesia ha voluto contrapporre quelle nuove offerte dal
macchinismo.
Per un verso quindi Marx sostiene, giustamente, che nel capitale commerciale
non si forma plusvalore tra produttori di merci, specie se vige lo scambio
degli equivalenti. Il capitale commerciale "appare ricavabile solo dal
duplice sopruso fatto ai danni dei produttori di merci che acquistano e
vendono da parte del mercante che s'intromette tra di essi come un
parassita"(p.193), nel senso che il mercante alza il prezzo della merce
all'acquirente e lo abbassa al venditore. Mentre invece nel capitale usuraio
"la forma D-M-D' è abbreviata e ridotta ai diretti estremi D-D', denaro che
si scambia con più denaro"(ib.).
Un plusvalore realizzato in questi due modi non sarebbe in grado di
determinare "l'organizzazione economica della società moderna"(p.192),
soprattutto perché "la formazione del capitale [e cioè del plusvalore] deve
poter avvenire anche se il prezzo delle merci è uguale al valore delle
merci"(p.195 in nota), cioè anche se non c'è frode, dolo, usura ecc.
Per un altro verso invece Marx afferma che il plusvalore dipende dal valore
d'uso d'una merce particolare, la forza-lavoro, che è "particolare" perché,
pur essendo valore d'uso, essa è anche fonte di valore. La particolarità
della formazione del plusvalore è tutta qui. Il possessore di denaro può
autovalorizzare il proprio denaro in quanto ha la "fortuna" di trovare, sul
mercato, una merce che crea valore.
L'incontro è pressoché casuale, in quanto la forza-lavoro appartiene a un
individuo non meno "libero" del possessore di denaro. "Il possessore della
forza lavorativa, perché possa venderla come merce, deve poterne disporre,
perciò deve essere libero proprietario della propria capacità di lavoro,
della propria persona"(p.197). "Egli incontra sul mercato il possessore di
denaro..."(ib.).
Qui Marx non spiega assolutamente il motivo per cui la forza-lavoro è già
forza-lavoro, cioè il motivo per cui essa deve presentarsi sul mercato solo
per vendere la propria merce. Marx dice che sul mercato questi due
possessori di merci (forza-lavoro e denaro) sono "persone uguali
giuridicamente"(ib.). Ma egli non sottolinea con altrettanta precisione che,
al di fuori del mercato, queste due persone sono già socialmente diverse.
Sul mercato non avviene un incontro casuale ma obbligato, almeno fintantoché
il proletariato non vi si oppone politicamente. E' un incontro "libero" solo
nella misura in cui il contadino-artigiano è convinto, entrando nel mercato,
di potersi emancipare dal servaggio; ma resta "obbligato" nella misura in
cui lo stesso contadino non ha di fronte a sé una forma diversa di
alternativa al servaggio.
A Marx non interessa mostrare che il proprietario della forza-lavoro è
costretto, a causa della dissoluzione della comunità agricola, a
proletarizzarsi. Anzi, ciò che appare nella sua analisi è semplicemente il
fatto che la forza-lavoro preferisce alienarsi "soltanto per un tempo
stabilito"(p.197), proprio per non doversi trasformare in merce tout-court.
Sembra essere una volontà del proletario quella di non diventare come uno
schiavo.
Marx naturalmente afferma che il proletariato è costretto a vendere come
merce la sua forza-lavoro, non potendo vendere nient'altro, perché privo di
mezzi di produzione e di sussistenza. Però è singolare ch'egli consideri
come "seconda" questa condizione, quando in realtà essa è la prima.
Marx infatti non ha capito che la forza-lavoro ha accettato l'uguaglianza
giuridica, pur essendo alienata economicamente, perché sul piano culturale
l'ideologia le prometteva un'emancipazione anche economica. Cioè a dire, il
capitalista non ha incontrato sul
"mercato-delle-persone-giuridicamente-uguali" quella disuguale sul piano
economico, ma, dopo aver creato l'ideologia dell'uguaglianza giuridica,
sulla base della propria autonomia economica, se n'è poi servito per
ingannare il contadino-artigiano che, uscendo privo di tutto dalla comunità
agricola, doveva convincersi sull'effettiva possibilità di emanciparsi
economicamente in virtù della libertà "borghese".
Il ragionamento di Marx invece è capovolto. "Al possessore di denaro, che
trova il mercato del lavoro come particolare reparto del mercato delle
merci, non interessa affatto il problema del perché quel libero lavoratore
gli compaia dinanzi nella sfera della circolazione. E a questo punto non
interessa neanche a noi. Noi, dal punto di vista teorico, ci atteniamo al
dato di fatto, come fa il possessore di denaro dal punto di vista
pratico"(pp.199-200).
Il che è sintomatico: Marx, che pur ha capito l'origine sociale della
proletarizzazione, finisce coll'approdare a una conclusione che può far
comodo alla borghesia, invece di risalire al rapporto genetico e drammatico
di quella proletarizzazione con la dissoluzione della comunità agricola.
Nell'illusione di poter offrire un giudizio di fatto inconfutabile, Marx ha
involontariamente espresso un giudizio di valore chiaramente opinabile.
Egli si è limitato ad affermare che il rapporto tra possessori di merci o
denaro da un lato, e possessori di forza lavorativa dall'altro, "non risulta
dalla storia naturale né da quella sociale ed esso non è comune a tutti i
periodi della storia"(p.200). Esso è "il prodotto di molte rivoluzioni
economiche..."(ib.). Così dicendo, Marx non riesce a spiegarsi la ragione
della nascita del capitalismo. Infatti, stando alla sua ideologia, le
"rivoluzioni economiche", che pur sono "sociali", cioè essenzialmente frutto
della "libertà", rappresentano unicamente un "processo di storia naturale",
come vien detto nella Prefazione alla I ed. (p.6).
Alla domanda "quando nasce il capitalismo?", Marx dà questa risposta: "per
poter rappresentare il prodotto come merce [in quanto finalizzato unicamente
al mercato] occorre una divisione del lavoro all'interno della società che
sia così sviluppata da essersi già effettuata la separazione tra valore
d'uso e valore di scambio..."(p.200).
Sembra essere questa la ragione di fondo, ma poi Marx aggiunge, rendendosi
forse conto d'aver chiamato in causa un fattore semplicemente tecnico:
"questo grado di sviluppo è però comune a formazioni sociali economiche le
più diverse tra loro"(pp.200-201). Le quali non tutte, anzi nessuna, eccetto
una, è diventata capitalistica.
Analogo fattore tecnico è quello del denaro, le cui particolari forme (mezzo
di circolazione e di pagamento ecc.) possono coesistere con "una
circolazione delle merci relativamente poco sviluppata"(p.201).
Il cerchio quindi si chiude: alla domanda "come ha fatto il capitalismo a
nascere?", Marx non ha saputo trovare una risposta soddisfacente. Egli ha
certamente capito, meglio di qualunque economista precedente, che il
capitale "sorge solo dove il possessore di mezzi di produzione e di
sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore in veste di venditore
della propria forza lavorativa..."(ib.). Ma altre spiegazioni non ne ha
date.
Il motivo di ciò sta nel fatto che, essendosi limitato a un'analisi
fenomenologica della nascita del plusvalore, Marx non ha saputo affrontare a
livello storico né il processo di dissoluzione della comunità agricola, con
i suoi drammi e le sue tragedie, né la formazione della cultura vincente,
quella borghese e protestante, che ha legittimato quel processo, rendendolo
ineluttabile.
IL PLUSVALORE (V)
Soltanto nell'ed. francese del Capitale si trova il § 1 dedicato al
"processo lavorativo" ovvero alla "produzione dei valori d'uso". E' un §
strano, che sarebbe stato meglio inserire nel § 2 della I sezione, laddove
si parla del "duplice carattere del lavoro", benché qui l'interesse
prevalente di Marx sia già rivolto al lavoro "astratto".
Messo invece nella III sezione, questo § ha un senso che si fatica alquanto
a comprendere. Ormai infatti il lavoro finalizzato al valore d'uso è stato
surclassato dal denaro trasformato in capitale, il quale privilegia il
lavoro salariato, volto alla produzione per il mercato.
Un § di questo tipo non avrebbe neppure avuto senso se collocato nella
sezione dedicata al salario, poiché esso parla del "processo lavorativo
indipendentemente da ogni determinata forma sociale"(p.211).
Dunque la ragione che deve aver spinto Marx a inserirlo in questa sezione
non può aver nulla a che vedere con lo schema generale dell'opera, con
l'organicità della divisione delle sezioni e dei capitoli. Esso, in effetti,
sembra più che altro costituire una sorta di risposta (filosofica, o meglio,
antropologica) a una inevitabile obiezione che già la I sezione suscitava
relativamente alla poca chiarezza con cui Marx aveva saputo distinguere, nel
lavoro umano, la parte "istintiva" da quella "consapevole".
Marx qui esordisce sforzandosi di precisare ciò che differenzia l'uomo
dall'animale. Nelle prime due sezioni, infatti, essendo dominate dal primato
del valore di scambio, tale differenza si era persa di vista. L'uomo
appariva come succube di un meccanismo oggettivo, indipendente dalla sua
volontà, cui doveva adeguarsi anche facendo leva sul proprio istinto. Qui
invece Marx punta su concetti di tipo filosofico, come "fine", "coscienza",
"ideale"...
"Innanzi tutto il lavoro è un processo che avviene tra l'uomo e la
natura..."(ib.). E' già un inizio sbagliato. Parlare del lavoro a
prescindere "da ogni determinata forma sociale"(ib.) è come parlare del
lavoro di un singolo separato da altri singoli: il che è antistorico.
L'uomo che "media, regola e controlla con la sua azione il ricambio organico
tra sé e la natura"(ib.), è per Marx una sorta di Robinson che vive in
un'isola deserta dopo essersi emancipato dalla sua "rozza" comunità
primitiva. "Qui infatti non dobbiamo considerare -dice Marx- le prime forme
di lavoro, animalesche e istintive"(p.212).
L'uomo delle comunità primitive viene considerato da Marx alla stregua di un
"animale" incapace di trasformare se stesso. Singolare è il fatto che,
secondo Marx, quest'uomo ha smesso d'essere primitivo proprio rapportandosi
alla natura: "coll'agire tramite questo movimento sulla natura esterna e col
trasformarla, egli trasforma allo stesso tempo la sua propria natura"(ib.).
Cioè in pratica l'uomo primitivo può trasformare se stesso non tanto
rapportandosi alla natura, quanto, nel rapportarsi alla natura, uscendo
dalla comunità primitiva, quella stessa comunità che, pur avendo l'identico
rapporto con la natura, non riesce a rendere "umano" l'uomo. Infatti, se vi
riuscisse, sarebbe impossibile spiegarsi, nell'ideologia marxiana, come,
rapportandosi alla natura, l'uomo ad un certo punto smetta d'essere
istintivo e diventi consapevole di sé.
Per Marx il lavoro consapevole non è quello che nello stesso tempo si
rapporta alla natura e al collettivo, ma quello che supera i limiti di
quest'ultimo valorizzando i pregi del singolo, il quale si rapporta in modo
individuale alla natura.
Il pregio fondamentale del singolo è il seguente: "al termine del processo
lavorativo vien fuori un risultato che, al suo inizio, era già implicito
nell'idea del lavoratore, che perciò era già presente idealmente"(ib.).
L'uomo collettivo non "pensa", ma agisce istintivamente, al pari degli
animali. Solo separandosi dal collettivo, l'uomo si differenzia
dall'animale.
A parte questo, Marx non riesce assolutamente a spiegare come, rapportandosi
alla sola natura, e non anche al collettivo, l'uomo giunga ad avere
coscienza di sé, visto e considerato che è proprio sulla base di tale
autoconsapevolezza che l'uomo "non opera soltanto un mutamento di forma
dell'elemento naturale [al pari dell'animale], ma contemporaneamente
realizza in questo il proprio fine, di cui ha coscienza, che determina come
legge la maniera del suo agire..."(ib.).
Qui non si tratta di risolvere il problema dell'uovo e della gallina. Ciò
che è grave è che Marx ha omesso di precisare che il concetto di "fine"
trova la sua ragion d'essere, in prima e ultima istanza, nel rapporto
sociale tra uomo e uomo, aldilà del quale non è assolutamente possibile non
solo distinguere l'aspetto istintivo da quello consapevole, nell'essere
umano, ma neppure l'attività umana da quella animale.
Non c'è nessun "ricambio organico" tra uomo e natura che possa sostituire o
produrre il rapporto sociale tra uomo e uomo. E' in questo e solo in questo
rapporto che si può cogliere la differenza tra uomo e animale. Differenza
che -come già più volte si è detto- riposa sul concetto di libertà.
Viceversa, per Marx, come per B. Franklin (che viene citato), l'uomo è "un
animale che fabbrica strumenti"(p.215). "L'impiego e la creazione di mezzi
di lavoro, sebbene in germe si trovino in alcune specie animali,
caratterizzano lo specifico processo lavorativo umano..."(ib.). La
differenza, in sostanza, è solo quantitativa, anche se per Marx -sulla scia
dell'idealismo hegeliano- le determinazioni quantitative ad un certo punto
portano a una nuova "qualità".
Peraltro, se si afferma che lo specifico dell'attività umana (che si suppone
lavorativa) è il lavoro, si cade nella tautologia. E' giusto affermare che
"le epoche economiche si distinguono non per quello che viene prodotto, ma
per come, con quali mezzi di lavoro, viene prodotto"(ib.). Ma è sbagliato
precisare che "i mezzi di lavoro...servono pure ad indicare i rapporti
sociali nel cui ambito è effettuato il lavoro"(ib.).
In realtà è vero il contrario: sono i rapporti sociali e il senso del valore
in cui essi si manifestano (che non è solo per un uso socio-economico:
sussistenza, riproduzione ecc., ma per un uso vitale più globale) a farci
capire il "come" generale della vita lavorativa e il "perché" la scelta sia
caduta su determinati mezzi e strumenti lavorativi.
Questo naturalmente significa che quando una formazione sociale o un'epoca
economica viene tragicamente distrutta, nei suoi rapporti sociali, da
un'altra epoca o formazione, diventa molto difficile risalire al contenuto
di valore ch'essa viveva partendo dagli strumenti produttivi che si sono
conservati e che successivamente sono stati raccolti e depositati in qualche
museo. Il passato può essere capito solo se il presente, pur mutando i mezzi
di lavoro ereditati, ha conservato, in qualche modo, lo "spirito" di cui
essi erano espressione.
In caso contrario è utopico pensare che un processo lavorativo possa
conservare i valori d'uso prodotti da "precedenti processi
lavorativi"(p.217).
Non è per nulla vero che "l'unico mezzo per conservare questi prodotti di
lavoro passato e per realizzarli come valori d'uso..." sia quello di
metterli a contatto "con il vivo lavoro"(p.219). La memoria del valore d'uso
non dipende semplicemente dal lavoro, ma dalle scelte che l'uomo compie in
riferimento al senso generale della sua vita e soprattutto al modo
particolare di vivere il valore della libertà.
Per distinguere l'uomo dall'animale non è neppure sufficiente puntare sul
fatto che il prodotto del processo lavorativo "è un valore d'uso, materiale
naturale reso conforme a bisogni umani per mezzo del mutamento di
forma"(p.216).
Forse che gli animali non hanno dei "bisogni"? Forse che essi, sulla base di
questi bisogni, non si costruiscono dei "valori d'uso"? Si può forse
affermare che il loro lavoro è un semplice "mutamento di forma" e che quando
incontrano dei problemi su questa strada non riescono con la loro
intelligenza a trovare nuove soluzioni?
Marx, pur rendendosi conto che per recuperare la differenza tra uomo e
animale doveva sottolineare l'importanza della produzione di valori d'uso,
poiché essa presuppone un "fine consapevole", ha fallito il suo tentativo,
anche perché, essendo partito, nella I sezione del Capitale, dal
riconoscimento del primato del valore di scambio, egli non poteva più
ritrovare la memoria del valore d'uso, che è sempre legata a una formazione
sociale determinata, storicamente situata e certamente di tipo
pre-capitalistico.
Non a caso Marx tenta di recuperare il valore d'uso solo in maniera
astratta, cioè nel rapporto generico che l'uomo ha con la natura, e
tralascia completamente la possibilità di reperire dei valori d'uso nella
comunità di autosussistenza. Per Marx la produzione di valori d'uso
sganciata da quella per il mercato, appartiene all'epoca "animalesca"
dell'uomo.
Naturalmente Marx è consapevole che l'individuo non coincide sic et
simpliciter con il lavoro che svolge. Ad un certo punto egli non può fare a
meno di accennare alla differenza tra "consumo produttivo" (il quale
"consuma i prodotti come mezzi di sussistenza del lavoro, vale a dire della
forza lavorativa in atto dello stesso individuo"), e "consumo individuale"
(il quale "consuma i prodotti come mezzi di sussistenza dell'individuo
vivente")(p.219).
Con ciò in pratica Marx ribadiva la differenza tra individuo biologico e
sociale, ovvero che il concetto di esistenza non può essere inteso solo in
quell'aspetto che accomuna l'uomo all'animale. Ciononostante egli non riesce
a spiegare, se non dandolo per scontato, il motivo per cui "il risultato del
consumo individuale è il consumatore stesso"(pp.219-20). Di fatto, se c'è
una cosa che non fa l'interesse del consumatore è proprio il consumo
"individuale", separato da quello "sociale", separato soprattutto dal
significato collettivo del consumo sociale.
A forza di analizzare il processo lavorativo "nei suoi semplici ed astratti
movimenti"(p.220), Marx è finito col cadere, contro le sue stesse
intenzioni, in una serie di ingenuità davvero singolari: 1) il lavoro -egli
afferma- "è l'attività che ha per fine la produzione di valori d'uso"(ib.),
mentre nel capitalismo la produzione principale è quella di valori di
scambio; 2) il lavoro è "adattamento degli elementi della natura ai bisogni
dell'uomo"(ib.), mentre nel capitalismo tanto la natura quanto i bisogni
sono finalizzati unicamente al profitto, per cui non solo si alimentano
"falsi bisogni", ma si trasforma anche la natura in un mero "oggetto di
consumo"; 3) il lavoro è "condizione generale del ricambio organico tra uomo
e natura"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è così alienato dalla
natura che il ricambio organico dell'uomo avviene solo attraverso il
"macchinismo", cioè tramite tutti quegli strumenti artificiali che mediano
il suo rapporto con l'ambiente; 4) il lavoro è "perenne condizione naturale
dell'umano esistere"(ib.), mentre nel capitalismo il lavoro è vissuto nelle
condizioni più "innaturali", poiché per taluni è "dolce far niente", per
molti è "duro sfruttamento", per altri è "tragica emarginazione", infine per
non pochi è dovere di conservare con la "forza" questo stato di cose.
E' stato un errore non aver considerato "il lavoratore in rapporto ad altri
lavoratori"(ib.), poiché se è vero che "non ci si accorge dal sapore del
grano chi l'ha coltivato"(ib.), è anche vero che chi conosce, come Marx, le
leggi dello sfruttamento, non si mette a tavola prima d'aver saputo da dove
proviene il grano che mangia.
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