Ormai la teoria del plusvalore, elaborata da Marx, è diventata la cosa meno
importante del marxismo, e non perché -come direbbe un popperiano- essa non
è suscettibile di confutazione, ma proprio perché, nell'ambito del
capitalismo, la sua confutazione è impossibile. E' come se in campo
astronomico si avesse la pretesa di rimettere in discussione la teoria
copernicana.
La teoria del plusvalore, che mette in luce l'oggettività scientifica dello
sfruttamento capitalistico, era già stata elaborata in Per la critica
dell'economia politica; la stessa redazione delle Teorie sul plusvalore,
considerata come il IV volume del Capitale, precede quella del I volume.
Durante la stesura del Capitale, Marx era così padrone di questa teoria che
già alla fine della II sezione l'anticipa completamente nelle sue linee
essenziali, mentre nella III sezione la espone in modo dettagliato. Con una
precisione sconosciuta all'economia classica, Marx afferma che il plusvalore
è prodotto dall'operaio perché il costo della sua forza-lavoro (la capacità
lavorativa) non corrisponde al suo valore d'uso.
Come ogni altra merce infatti, la forza-lavoro ha un costo stabilito "in
base alla quantità di lavoro incorporato nel suo valore, al tempo di tempo
socialmente necessario alla sua produzione"(pp.223-4). Quindi il
capitalista, sul mercato, al momento della contrattazione, paga il prezzo
che occorre solo alla riproduzione della forza-lavoro, ovvero paga
unicamente "il valore giornaliero della forza lavorativa"(p.222),
riservandosi nello stesso tempo la facoltà di usarla in fabbrica oltre il
prezzo pattuito. Egli sa bene infatti che "lo specifico valore d'uso di
questa merce è quello di essere sorgente di valore e di un valore più grande
di quanto ne possieda essa stessa"(p.232).
"Il fatto che occorre una mezza giornata lavorativa per farlo vivere
ventiquattro ore, non impedisce per niente all'operaio -dice Marx- di
lavorare per un'intera giornata. Perciò il valore della forza lavorativa e
la sua valorizzazione nel processo lavorativo sono due grandezze
diverse"(ib.).
E' la stessa differenza che passa tra il suo valore di scambio (sul mercato)
e il suo valore d'uso (in fabbrica).
Il plusvalore quindi è un furto legalizzato sul valore d'uso della
forza-lavoro: "il fatto che il valore creato in una giornata dall'uso [della
forza-lavoro] superi del doppio il suo stesso valore giornaliero, questa è
una fortuna particolare per l'acquirente, ma non è per niente una
ingiustizia nei confronti del venditore"(p.233).
Ora, il problema fondamentale che questa teoria suscita non sta tanto nella
fondatezza dello sfruttamento economico che si verifica in fabbrica, e che
si verificherebbe anche se a livello sociale (previdenza, assistenza, sanità
ecc.) l'operaio fruisse di particolari servizi, quanto piuttosto sta nel
fatto che Marx dà per scontato che il capitalista, sul mercato del lavoro,
paghi effettivamente la spesa per produrre la forza-lavoro: cosa che se non
avvenisse -lascia intendere Marx- si ritorcerebbe contro gli interessi dello
stesso capitalista.
Non avendo messo in discussione il primato del mercato, del valore di
scambio, della merce ecc., ora Marx non può che limitarsi a considerare
giusta la contrattazione e ingiusto il lavoro salariato, nel quale si genera
un plusvalore non pagato. Lo sfruttamento della forza-lavoro avviene, per
Marx, nel momento in cui l'operaio entra "nell'opificio del
capitalista"(p.222).
Il lavoro salariato viene rifiutato solo dal punto di vista del plusvalore,
o meglio: solo perché esiste un'appropriazione privata del plusvalore che
non è quella del lavoratore.
Per Marx "la trasformazione del modo di produzione tramite la subordinazione
del lavoro al capitale..."(p.221), non è un presupposto ma una conseguenza
del lavoro salariato. Naturalmente Marx non ha mai sostenuto che la
contrattazione sul mercato del lavoro potrebbe anche avvenire senza lavoro
salariato, però il suo ragionamento porta a questa conclusione. Che poi è
stata, in un certo senso, la conclusione del "socialismo reale", il quale,
statalizzando l'intera proprietà, aveva impedito la formazione di un mercato
del lavoro capitalistico, anche se, nei fatti, non aveva potuto eliminare la
necessità di tenere bassi i salari. La contrattazione stava nel fatto che in
cambio di questi salari lo Stato garantiva la gratuità di certi servizi o il
blocco di molti prezzi. L'esperimento è fallito anche per questa ragione
economica: il plusvalore realizzato nella proprietà statale non tornava al
lavoratore che in misura ridotta.
Qui Marx si limita ad affermare che "in un primo momento il capitalista deve
prendere la forza lavorativa come la trova sul mercato, e così deve prendere
anche il lavoro che essa ha portato a termine, come s'era sviluppato in un
periodo in cui non esistevano ancora capitalisti"(ib.).
Il che in pratica vuol dire: anzitutto, che il costo della forza-lavoro,
cioè il tempo di lavoro "socialmente necessario" per riprodurla, è
determinato dalla consuetudine, ovvero dalla tradizione lavorativa di una
determinata società: cosa di cui il capitalista deve prendere atto; in
secondo luogo, anche le modalità operative dell'operaio non possono essere,
nell'immediato, completamente modificate dal capitalista: "la natura
generale del processo lavorativo non muta certo perché l'operaio l'effettua
per conto del capitalista invece che per conto proprio"(ib.).
Marx, tuttavia, non si rende conto di fare delle considerazioni alquanto
astratte. Parlare di "tempo di lavoro socialmente necessario alla
riproduzione della forza lavoro" potrebbe andare bene in una società basata
sull'autoconsumo, dove l'elemento "sociale" o "socializzante" è deciso da
tutta la collettività. Viceversa nel capitalismo il tempo di lavoro è
"sociale" solo nella misura in cui coincide con gli interessi del capitale.
Non è un tempo deciso dalla collettività. Al massimo è un tempo deciso dal
mercato, ma qui -come noto- sono gli interessi privati del proprietario dei
mezzi produttivi che dettano legge. Ciò che Marx con qualche difficoltà
ammetterebbe, poiché nella sua ideologia il mercato è superiore
all'autoconsumo. Se vogliamo, al capitalista la riproduzione della
forza-lavoro ai livelli della sussistenza indispensabile non interessa più
della mera esistenza della stessa forza-lavoro: gli è infatti sufficiente
questa per rimpiazzare la forza-lavoro incapace di riprodursi o quella la
cui riproduzione non è così indispensabile.
Se il capitalista fosse preoccupato di garantire la minima riproduttività
alla forza-lavoro, considerata in senso lato, non sarebbe un capitalista,
ma, ai propri occhi, un "benefattore dell'umanità". Di fatto, la
riproduzione è un diritto che il lavoratore, soprattutto in regime di
monopolio, deve rivendicare ogni giorno, altrimenti il capitalista tenderà a
ridurre il costo della manodopera salariata anche al di sotto del minimo
vitale di sussistenza. E tanto più lo farà quanto più il mercato del lavoro
offrirà la possibilità di sostituirla (vedi del cap.XXIII la parte relativa
al cosiddetto "esercito industriale di riserva").
Sotto tale aspetto va detto che il capitalista è unicamente interessato alla
riproduzione della forza-lavoro di livello superiore, che esercita un lavoro
più complesso, di una maggiore importanza specifica. Tesi, questa, che Marrx
rifiuta categoricamente, poiché, a suo giudizio, la "superiorità" di una
forza-lavoro del genere non comporta un aumento assoluto del plusvalore ma
solo un aumento proporzionato al costo della manodopera.
In realtà il valore di questa manodopera, in una società a capitalismo
avanzato, è altissimo, e almeno per tre ragioni: 1) è difficilmente
sostituibile, poiché il sistema scolastico-formativo dello Stato non è in
grado di produrre operai o intellettuali qualificati: sia perché
l'istruzione nazionale è separata dalla produzione industriale, sia perché
l'istruzione di massa serve anche per contenere la disoccupazione; 2) è la
stessa concorrenza intercapitalistica che impone un tasso elevato di
know-how: la concorrenza avviene a livelli sempre più elevati e i primi
monopoli ad impiegare le scoperte nel settore "sviluppo e ricerca" sono
quelli che realizzano maggiori profitti; 3) i costi di una manodopera
specializzata vengono facilmente ammortizzati in un regime di monopolio.
Naturalmente qui si dà per scontato che la richiesta di manodopera
qualificata parta da imprese le cui merci siano per un vasto mercato,
altrimenti avrebbe ragione Marx allorché afferma che nell'Inghilterra del
suo tempo il lavoro di un muratore occupava "un posto molto più alto di
quello di un tessitore di damaschi"(p.239 in nota).
Lo sfruttamento quindi non avviene solo dentro la fabbrica, ma anche sul
mercato, al momento della contrattazione salariale. Infatti, nel contratto
(oggi sindacale) l'imprenditore, essendo l'unico a disporre di proprietà,
esercita un ruolo predominante, a livello economico, rispetto a quello di
ogni operaio che non si oppone politicamente al proprio stato di soggezione.
Il valore di scambio della forza-lavoro non è mai effettivamente
corrispondente al costo dei mezzi di sussistenza che le occorrono per
riprodursi. Tant'è che il "proletariato", per sopravvivere, è continuamente
costretto ad abbassare il proprio tenore di vita, a lottare contro l'aumento
dei prezzi, a cercare forme di sfruttamento clandestine, parallele a quelle
contrattate ufficialmente, ad accettare modalità integrative del salario che
spesso sconfinano nell'illecito, nell'illegale, nell'immorale ecc.
Che tutto ciò poi si verifichi di più tra le fila del proletariato
"occidentale" o tra quelle del proletariato o sottoproletariato
"terzomondista", soggetto a sfruttamento coloniale e neocoloniale, la
sostanza non cambia. Quanto più il proletariato occidentale rivendica un
maggior valore di scambio della propria forza-lavoro, tanto più il
capitalismo sfrutterà il valore d'uso della forza-lavoro terzomondista. E
quanto più sfrutterà il valore d'uso di questa forza-lavoro, tanto più
rischierà la disoccupazione quella forza-lavoro di livello medio e
medio-basso che in occidente rivendicherà maggiore potere contrattuale.
L'impostazione metodologica di Marx è dunque così astratta che con essa si
rischia di dimostrare il contrario di quanto s'era prefisso, e cioè che il
plusvalore non è intenzionale ma casuale, in quanto solo in fabbrica il
capitalista, ad un certo punto, si accorgerebbe di poterlo realizzare. "Fino
a che gli affari vanno bene -dice Marx-, il capitalista è troppo preso a
fare plusvalore per accorgersi di questa gratuita proprietà del
lavoro"(p.249),
cioè di "conservare valore aggiungendo valore"(ib.). In realtà il
capitalista sa sin dall'inizio che lo sfruttamento di un lavoratore
giuridicamente libero (nei cui confronti egli non abbia alcun obbligo, né
legale né morale) è in grado di produrre plusvalore. Ciò che non sa
è -almeno fino a Marx- come esattamente avvenga questo processo.
Allo stesso modo, il processo lavorativo tradizionale, allorché la
forza-lavoro appare come merce sul mercato, è già stato ampiamente
modificato. Proprio la trasformazione del lavoratore in operaio salariato,
sta ad indicare l'avvenuto trionfo del capitalismo sull'autoconsumo. Un
capitalista non acquisterebbe mai sul mercato una forza-lavoro se non
sapesse in anticipo di poterle estorcere arbitrariamente ma legalmente un
plusvalore. Se così non fosse non sarebbero mai nati né il capitalismo né
l'industrializzazione, e il capitale si sarebbe fermato sulla soglia delle
due forme tradizionali: commerciale e usuraia.
Ciò significa che se l'imprenditore ritiene che per produrre migliori o
maggiori filati, occorre adoperare dei fusi d'oro invece che di ferro, col
tempo questi saranno inevitabilmente sostituiti da quelli, e in tutte le
fabbriche, nella ovvia consapevolezza di poter così aumentare il saggio del
plusvalore. Il taylorismo rappresenta la dimostrazione più convincente che
per il capitalista non esiste "il grado medio di abilità, di rifinitura e di
celerità", ovvero "l'usuale misura di sforzo" in cui viene impiegata la
forza-lavoro di una determinata società (p.236). L'obiettivo del capitalista
è proprio quello di modificare costantemente tale "grado d'intensità" (oggi
diremmo di "flessibilità", poiché l'automazione ha un ruolo prevalente) a
vantaggio del plusvalore.
Paradossalmente, tuttavia, rivalutando il valore d'uso della forza-lavoro,
Marx, senza volerlo, ha riaperto la strada alla valorizzazione
dell'autoconsumo. Infatti, è solo passando attraverso il valore d'uso che si
scopre la presenza (in sé necessaria) di una proprietà personale
generalizzata. Nel capitalismo tale proprietà è monopolio di pochi; la
maggioranza possiede soltanto la proprietà della propria forza-lavoro
(fisica o intellettuale), di cui però non può disporre liberamente, non
possedendo l'oggetto su cui e con cui applicarla. L'operaio ha una proprietà
che è costretto a vendere quotidianamente alle condizioni del capitalista,
finché non reagisce politicamente. Il plusvalore infatti non può essere
eliminato né lottando per la riduzione dell'orario lavorativo, né esigendo
un maggiore salario. La dimostrazione dell'oggettività del plusvalore è
diventata, nel Capitale, la dimostrazione dell'impossibilità di superare
tale oggettività restando sul terreno della rivendicazione contrattuale.
Capitale costante e variabile
Nel capitolo VI, intitolato "Capitale costante e capitale variabile", Marx
torna a parlare del valore d'uso della forza-lavoro, riprendendo la
terminologia della I sezione, riferita al valore d'uso della merce. Essendo
ora in gioco la forza-lavoro non sarà inutile cercare, anche da parte
nostra, di specificare meglio il senso della nozione di "valore d'uso".
Per Marx il valore d'uso d'una merce è dato dal tempo di lavoro occorso per
produrla. Dev'essere però un tempo "socialmente necessario", cioè
riconosciuto come tale dalla collettività, secondo una media standard di
dispendio di energie. Un lavoro è concreto, cioè utile, se prima è astratto,
cioè "sociale lavoro in genere"(p.242). Marx dà per scontato che il valore
d'uso di una merce sia sempre determinato dalla considerazione astratta e
generale della collettività (che si esprime, per Marx, non nella comunità ma
sul mercato) relativamente alla durata del tempo impiegato per produrla.
Se il tempo di lavoro per produrre una merce subisce una modificazione (nel
caso p.es. di un cattivo raccolto), "si verifica -dice Marx- una reazione
sulla vecchia merce [nel senso che il suo prezzo si modifica], che conta
sempre e soltanto come unico esemplare della propria specie, e il suo valore
viene misurato sempre in base al lavoro socialmente necessario, ossia
necessario sempre, anche nelle attuali condizioni sociali"(p.253).
L'operaio "aggiunge una data grandezza di valore non in quanto il suo lavoro
ha uno specifico contenuto utile, ma in quanto dura un certo tempo"(ib.). La
qualità di un prodotto dipende dalla quantità di tempo (generalmente
riconosciuta) necessaria per fabbricarlo. Naturalmente Marx non affermerebbe
mai che un oggetto ha tanto più valore quanto più grande è stato il tempo
per realizzarlo. Il tempo in questione è una grandezza media, il che
presuppone che la collettività sappia, per esperienza, cioè anche prima che
sia costruito un determinato bene di utilità sociale, quanto dispendio
occorra a livello psico-fisico e intellettuale. Il valore d'uso d'una merce
specifica presuppone il valore generale delle merci riconosciuto dalla
collettività sul mercato.
Ebbene, questo modo di vedere le cose oggi appare limitato e come tale va
superato. Spieghiamone la ragione con un esempio. Marx impiegò vent'anni a
scrivere il Capitale. E' un'opera monumentale, certamente la più importante
di tutte quelle che lui ha scritto. Contiene un'infinità di dati, di
osservazioni, esprime una notevolissima cultura ed è strutturata in maniera
molto organica. Inoltre rappresenta il superamento definitivo dell'economia
politica classica.
Lenin invece scrisse Che fare? in pochi mesi, riflettendo non solo sulla
società capitalistica ma anche sul movimento rivoluzionario. Sono due opere
completamente diverse. Ma se uno oggi dovesse scegliere quale delle due lo
potrebbe aiutare di più a superare i limiti del capitalismo, non potrebbe
certo scegliere il Capitale. Relativamente all'esigenza di una transizione
al socialismo, il Che fare? di Lenin ha ancora oggi un valore enorme, che
non può essere paragonato con nessun altro libro della sinistra
rivoluzionaria.
Dunque, ciò che dà valore al Che fare? è qualcosa che riguarda, molto da
vicino, la coscienza o la cultura del soggetto che vuole uscire dal
capitalismo. Se i due libri vengono messi a confronto, sotto tale aspetto, e
lo possono essere, visto che entrambi gli autori desideravano la stessa
transizione, il valore di Che fare? è decisamente superiore, e lo resterà
fino a quando il socialismo non si sarà realizzato.
Qui naturalmente l'ideologo della borghesia potrà obiettare che il valore di
Che fare? è relativo alla coscienza del lettore, cioè non è oggettivo. Da
questo punto di vista però nessun libro lo sarebbe, neppure il Capitale né
lo Zum Abschluss des Marxschen Systems con cui E. von Böhm-Bawerk ha dato il
via alla critica del Capitale. E' vero che l'importanza di Che fare? può
essere colta solo da una particolare coscienza soggettiva, ma questo non
significa che il suo valore sia "soggettivo". Certo, non si può stabilire a
priori se una cosa ha un valore oggettivo o soggettivo, ma a posteriori lo
si può dedurre. In tal senso è sufficiente costatare l'importanza che la
storia (non solo dell'Europa ma del mondo intero) ha attribuito a quel
libro, benché non tutto il mondo ne sia stato e ne sia ancora oggi
consapevole.
L'esempio surriportato ci insegna due cose: 1) il mercato non è un criterio
sufficiente per esprimere il valore delle cose; esso è un criterio per
esprimere il valore di scambio delle merci, ma solo in termini di uso
pratico, sociale, immediato. Il mercato, astrattamente parlando, dovrebbe
limitarsi a riconoscere un valore che gli preesiste; esso al massimo può
trasferire il valore da una merce all'altra, ma non può creare alcuna forma
di valore. Il mercato che pretende di stabilire il valore d'uso delle merci
a partire dal loro valore di scambio, compie un abuso (anche se questo fatto
può riflettere la crisi di un sistema sociale), e alla fine impone un valore
artificioso, irreale. Il valore di scambio deve dipendere dal valore d'uso,
il quale si forma al di fuori del mercato.
Prima e dopo del mercato c'è la comunità, che può decidere il valore d'uso
dei propri beni solo se è fondata sull'autoconsumo. Una comunità che
producesse solo valori di scambio, anche se fosse fortissima sul piano
finanziario, sarebbe debolissima su quello strutturale, in quanto
completamente soggetta al trend del mercato mondiale. Molto più forte invece
è quella comunità che indirizza verso il mercato solo l'eccedenza dei propri
valori d'uso. Naturalmente una comunità del genere non potrebbe sussistere
se non fosse in grado di proteggere la propria autonomia, specie nei
confronti della produzione straniera per il mercato.
2) Il valore non può dipendere solo dal lavoro, astratto o concreto che sia,
poiché il lavoro è una determinazione dell'attività umana che non esprime di
per sé il valore delle cose, se non in termini strettamente economici, cioè
funzionali alla sussistenza e alla produzione e riproduzione. Il valore
delle cose è dato in primo luogo dalla "cultura" della comunità che
autoproduce, cioè dal valore ontologico che la comunità vive in rapporto al
significato della vita in genere. Le cose hanno un valore (anche pratico) in
quanto ha valore il contesto in cui vengono collocate e usate. Non è
sufficiente il tempo di lavoro socialmente necessario, occorre che le cose
abbiano un'anima, in virtù della quale possano suscitare negli esseri umani
il senso della libertà.
La categoria del valore si deve pertanto "spiritualizzare". Questo perché il
giorno in cui avremo risolto, nell'ambito del capitalismo, il problema dello
sfruttamento sociale che evidenzia la produzione economica del plusvalore,
resterà ancora un problema da affrontare: quello di creare nuovi valori
culturali nella società socialista.
Da un lato quindi occorre rovesciare politicamente il primato del valore di
scambio ripristinando il primato del valore d'uso; dall'altro bisogna
estendere il concetto di "valore" a tutto ciò che non riguarda
immediatamente la materialità della vita. Quando la merce non costituirà più
l'oggetto del contendere umano, forse gli uomini conosceranno altre
contraddizioni antagonistiche il cui oggetto sia necessariamente più
spirituale, ma può anche darsi che i valori della libertà avranno raggiunto
un tale livello di profondità da rendere facilmente smascherabile ogni
antagonismo.
* * *
Parlando del processo di valorizzazione del capitale, Marx fa una precisa
distinzione tra "capitale costante"(fattore oggettivo del processo
lavorativo) e "capitale variabile"(fattore soggettivo). Il primo è quella
"parte del capitale che si trasmuta in mezzi di produzione, ossia in materia
prima, materie ausiliarie e mezzi di lavoro"; questa parte "non altera la
propria grandezza di valore nel processo di produzione"(p.252). Nel senso
che essa non aumenta il proprio valore, ma si limita a trasferirlo nei beni
prodotti.
"Nel processo lavorativo -dice Marx- si verifica un trapasso di valore dal
mezzo di produzione al prodotto solo perché il mezzo di produzione perde,
oltre il suo indipendente valore d'uso, anche il suo valore di
scambio"(p.244).
Ciò in quanto la sua "originaria grandezza di valore [è determinata] dal
tempo di lavoro occorrente alla sua stessa produzione"(p.248); "se non
avesse avuto valore prima di entrare nel processo, non trasmetterebbe al
prodotto alcun valore"(ib.).
Oggettivamente, la perdita di valore è dovuta al "logorio di tutti i mezzi
di lavoro"(p.245). Ovviamente "un mezzo di produzione non trasmette mai al
prodotto un valore maggiore di quanto ne perda..."(ib.). Calcolare la
perdita è relativamente facile: "l'esperienza ci dice quanto dura in media
un mezzo di lavoro..."(ib.).
Il capitale variabile invece è "la parte del capitale trasformata in forza
lavorativa [che] muta il proprio valore nel processo di produzione. Essa
riproduce il proprio equivalente e in più un'eccedenza, il plusvalore, che
per suo conto può variare..."(p.252). Questo significa che "un mezzo di
produzione entra tutto nel processo lavorativo, ma solo in parte nel
processo di valorizzazione"(p.246), poiché questo secondo "processo" viene
sostanzialmente gestito dalla forza-lavoro, la quale ha la "proprietà
naturale [di] conservare valore aggiungendo valore"(p.249). Per Marx solo il
riciclo degli scarti permette a questi di "entrare per intero nel processo
di valorizzazione, pur facendo parte solo parzialmente del processo
lavorativo", a condizione però che tali scarti -egli aggiunge- non vengano
usati per formare "nuovi mezzi di produzione, e perciò nuovi valori d'uso
indipendenti"(p.247).
Dopo aver lasciato chiaramente intendere che un modo di produzione basato
anzitutto sul valore di scambio è superiore a un modo di produzione basato
anzitutto sul valore d'uso (dice infatti a p.244: "pur essendo importante
per il valore esistere in qualche valore d'uso, gli è ugualmente
indifferente in quale esso possa esistere..."), Marx, a p.250, con un giro
di frasi piuttosto involuto, cerca di spiegare la differenza tra valore
d'uso e di scambio nei mezzi produttivi capitalistici. In tali mezzi -egli
afferma- non si consuma il valore di scambio (non essendo essi permutati con
alcunché), ma solo quello d'uso (a causa del logorio). Perciò il valore di
scambio non può essere riprodotto, propriamente parlando, nella merce (con
un aumento di valore), ma solo conservato così com'è (dal mezzo produttivo
alla merce), a differenza del valore d'uso, che invece si trasferisce dalla
macchina al prodotto, diventando un nuovo valore d'uso, con capacità di
scambio. Il vecchio valore di scambio dei mezzi produttivi, che si era
conservato, è riapparso alla fine del processo produttivo, nel nuovo valore
d'uso creato.
Così è dimostrato che l'incapacità di creare "valore", da parte dei mezzi
produttivi, dipende sia dal fatto ch'essi non possono trasferire più valore
d'uso di quanto ne perdano, sia dal fatto ch'essi riproducono il loro valore
di scambio solo "apparentemente" o "incidentalmente", poiché in realtà lo
trasmettono perdendolo. Dunque chi crea vero nuovo valore (d'uso e di
scambio) è solo la forza-lavoro, che riproduce "realmente" il proprio
valore, ed anzi produce anche un'eccedenza, il plusvalore, che il
capitalista non paga.
Da notare che per Marx la "scambialità" di una merce può essere verificata
solo a posteriori, cioè sul mercato. Egli non poteva immaginare che in un
regime di monopolio essa è un "a priori" di quell'impresa che non produce
semplicemente per vendere (rischiando cioè l'invenduto), ma produce quel che
sa in anticipo di poter vendere. Naturalmente la convinzione di poter
realizzare determinati profitti presuppone l'investimento d'ingenti
capitali.
Ma il difetto principale nell'analisi di Marx è che egli tendeva a
considerare in maniera separata la macchina dall'operaio, giacché per lui
anzitutto esistevano i mezzi produttivi offerti dalla tradizione lavorativa,
i quali successivamente venivano modificati dalle esigenze di profitto del
capitalista, il quale costringeva l'operaio ad adeguarsi sic et simpliciter
alle capacità della macchina.
Questo modo di vedere le cose, causato da uno scarso affronto culturale
della transizione dal feudalesimo al capitalismo, è all'origine del
linguaggio poco chiaro ("filosofico") visto sopra. In realtà i mezzi
produttivi capitalistici sono nati, sin dall'inizio, in netta antitesi al
modo precedente di usarli, al punto che il plusvalore prodotto dall'operaio
sarebbe stato impensabile, ai livelli raggiunti nel capitalismo, senza
l'apporto straordinario del macchinismo, frutto, a sua volta, di una grande
rivoluzione culturale. Successivamente, nel capitalismo monopolistico i
mezzi produttivi vengono creati in toto dagli stessi operai che li usano, il
cui apporto intellettuale è sempre più rilevante: tra operaio e macchina vi
è una connessione molto stretta, che contrasta ancora di più con
l'appropriazione privata del plusvalore.
La tesi di Marx secondo cui la facoltà di creare "valore addizionale" è
tipica della forza-lavoro in ogni momento del processo produttivo, è giusta
appunto perché nel capitalismo i mezzi produttivi permettono all'operaio
questa facoltà. Negli altri sistemi produttivi il lavoratore trasforma
valori già dati (dalla natura), non crea nuovi valori, proprio perché il
valore di scambio non ha un primato su quello d'uso.
Marx dice che se anche l'operaio lavorasse il tempo necessario alla propria
riproduzione, egli trasmetterebbe comunque alla merce "una nuova creazione
di valore"(p.251), che i mezzi produttivi, da soli, non saprebbero fare. Con
il suo "lavoro concreto", l'operaio crea valore d'uso e con il suo "lavoro
astratto" crea "nuovo valore", che va ad aggiungersi a quello già esistente.
Tuttavia, se il processo finisse qui -aggiunge Marx, senza accorgersi che il
vero limite è un altro-, il valore della merce rappresenterebbe "un semplice
equivalente del valore della forza lavorativa"(ib.), in quanto l'operaio
avrebbe unicamente rimpiazzato il denaro anticipato dal capitalista per
acquistare la forza-lavoro. La nascita del plusvalore avviene quando il
capitalista obbliga l'operaio a lavorare "oltre il punto in cui si
riprodurrebbe"(ib.). Il plusvalore rappresenta la valorizzazione solo del
capitale variabile.
Marx cioè non si è reso conto di un limite ancora più grave del modo di
produzione capitalistico, che prescinde in un certo senso dalla realtà dello
sfruttamento, e che riguarda inevitabilmente anche il sistema socialista,
democratico o burocratico che sia. E' il limite della stessa produzione
industriale e del primato del valore di scambio, che uccidono in maniera
irreparabile la prassi dell'autoconsumo, il primato del valore d'uso, la
tutela dell'ambiente, le tradizioni agricolo-artigianali, il senso
dell'autogestione...
* * *
Marx distingue anche i "materiali da lavoro" dai "mezzi di lavoro". I primi
sono p.es. le materie prime, il carbone con cui si riscalda la macchina,
l'olio con cui si lubrifica l'asse della ruota, una macchina in riparazione
ecc. (sono esempi di Marx). Il capitale investito in questi materiali e che
si consuma in un solo processo produttivo e che quindi entra tutto nel nuovo
prodotto, è detto "circolante". I "mezzi di lavoro" propriamente detti sono
invece quelli "produttivi": uno strumento, una macchina, l'edificio d'una
fabbrica, un recipiente ecc. Il capitale qui impiegato, che trasmette nel
prodotto solo la parte consumata (vedi le cosiddette "quote di
ammortamento"), è detto "fisso".
La differenza sta nel fatto che i mezzi di lavoro "sono utili nel processo
lavorativo solo fino a che mantengono la loro forma originaria e tornano
domani nel processo lavorativo nella medesima forma che avevano
ieri"(pp.244-5).
I "materiali da lavoro" invece servono solo a conservare intatti e utili i
mezzi produttivi. Generalmente i materiali da lavoro scompaiono nel processo
produttivo; Marx qui aggiunge, ancora ignaro dei problemi dell'inquinamento:
"senza lasciar traccia"(p.244). Viceversa, "i cadaveri di macchine, di
attrezzi, di opifici ecc. continuano ad esistere separati dai prodotti che
avevano concorso a formare"(p.245).
Per Marx era inconcepibile l'idea che nel capitalismo vi fossero degli
sprechi. A p.247 fa l'esempio delle grandi fabbriche di macchine di
Manchester che riciclano "montagne di scarti di ferro". Il riciclaggio degli
"escrementi del processo lavorativo" è una caratteristica tipica del
capitalista, che vuole risparmiare su tutto. Marx non poteva neppure
sospettare che proprio quei "cadaveri di macchine" rappresentavano la
testimonianza più eloquente delle leggi dell'entropia.
Ciò che Marx non avrebbe mai accettato è l'idea che in una moderna società
industriale si possano produrre solo valori d'uso e non anche, nello stesso
tempo, valori di scambio. L'unità dei due valori, per Marx, non solo è
inevitabile in una società in cui i prodotti escono da aziende
capitalistiche (e su questo nulla da obiettare), ma sarebbe anche giusta se
i prodotti uscissero da aziende socializzate.
Per lui è del tutto "naturale" che un mezzo produttivo perda
progressivamente il proprio valore d'uso per trasmetterlo, insieme a quello
di scambio, ai prodotti del lavoro. "Se non avesse da perdere alcun
valore...non trasmetterebbe alcun valore al prodotto. Esso servirebbe a
formare valori d'uso, senza servire a formare valori di scambio: questo è il
caso di ogni mezzo di produzione fornito dalla natura, senza che intervenga
l'uomo, terra, vento, acqua, ferro nel filone, legname nella foresta vergine
ecc."(pp.245-6).
Cioè per Marx il rapporto artificiale dell'uomo con la natura è
sostanzialmente da preferirsi a quello meramente naturale: il problema sta
semmai nel potenziarlo secondo una regolamentazione sociale e razionale. Per
lui quindi non è in discussione la formazione originaria del capitale
costante, cioè la nascita dei moventi dell'industrializzazione e il sorgere
della legittimità del suo primato sull'agricoltura e sull'artigianato, ma è
in discussione la mera distribuzione del capitale variabile. Significativo è
il fatto che dopo il cap. VI Marx parli del saggio del plusvalore e non
dell'assurdità del sistema capitalista, che è costretto, per sopravvivere, a
rivoluzionare continuamente i propri mezzi produttivi. L'analisi del
capitalismo fatta nel Manifesto era, in tal senso, più indovinata.
In ogni caso questo modo di vedere le cose, alla luce delle moderne teorie
sul degrado ambientale e sull'entropia, va ampiamente rivisto.
* * *
Che cos'è dunque il plusvalore? E' una parte di lavoro non pagata. Nel
capitalismo, come in ogni altro sistema antagonistico, è sinonimo di
"sfruttamento". In nessun capitolo della III sezione Marx ha mai pensato di
criticare la formazione in sé del plusvalore; egli si è semplicemente
preoccupato di dimostrare che nel capitalismo la sua formazione avviene a
spese del lavoratore. Infatti, il problema per Marx era unicamente quello di
distribuire in modo equo i frutti del plusvalore. Questo, in sintesi, il
significato della sezione in oggetto.
Fino ad oggi la critica borghese ha cercato di confutare l'oggettività del
plusvalore scoperto da Marx, ma -bisogna ammetterlo- tutti i tentativi sono
falliti. La stessa esigenza degli imprenditori di automatizzare sempre più
la produzione nasce proprio dalla necessità di realizzare plusvalore
estromettendo la forza-lavoro (che mal sopporta tale sfruttamento) dal
processo produttivo.
Tuttavia, la resistenza della teoria del plusvalore alle critiche degli
economisti non sta di per sé a significare ch'essa vada considerata come un
dogma. Vi sono, in effetti, degli aspetti che vanno approfonditi e altri da
sviluppare ex-novo, poiché Marx non li ha neppure presi in considerazione.
Il primo aspetto che bisogna assolutamente affrontare è di natura culturale,
ed è inerente alla genesi storica del plusvalore capitalistico. Non dovrebbe
essere difficile dimostrare che se non ci fosse stata la possibilità di
creare un plusvalore diverso da quello che il feudatario realizzava con i
suoi contadini-servi, non sarebbe mai nata alcuna rivoluzione industriale.
Essa infatti rappresenta il tentativo (riuscito) di ricostituire, in forme
diverse, quello sfruttamento cui il lavoro era fatto oggetto nel sistema
feudale, e in cui -a ben guardare- si è sempre caratterizzato dalla fine del
comunismo primitivo.
Ma perché ciò potesse avvenire con successo, occorreva che il lavoratore
avesse l'illusione della libertà. Cioè da un lato occorreva che il
capitalista fosse convinto al 100% che sfruttando la forza-lavoro avrebbe
realizzato un profitto di molto superiore al capitale investito; dall'altro
occorreva una forza-lavoro disposta a credere che, emancipandosi dallo
sfruttamento feudale, non sarebbe ricaduta in uno peggiore.
Gli strumenti con cui realizzare il plusvalore non sono stati solo quelli
socio-economici e tecnico-scientifici connessi all'uso della proprietà
privata, del capitale, del macchinismo ecc., ma anche quelli di tipo
culturale, strettamente legati all'ideologia e ai valori borghesi emergenti
(che altro non erano se non una laicizzazione di precedenti valori
religiosi). Se non ci fossero stati questi strumenti "invisibili", nessun
imprenditore avrebbe mai impiegato ingenti capitali col rischio di ottenere
soltanto la loro conservazione originaria, senza ulteriore valorizzazione.
Certo, la rivoluzione industriale sarebbe potuta nascere anche in una
società non antagonistica, ma ciò, se lo fosse stato, sarebbe avvenuto in
maniera molto più lenta, senza stravolgere il precedente modo di produzione,
e soprattutto senza lo sfruttamento della forza-lavoro (né le risorse
naturali sarebbero state saccheggiate, né il colonialismo sarebbe mai nato
ecc.). La novità della produzione di tipo "capitalistico" è consistita
proprio in questo, che si è voluta costruire una società antitetica in tutto
e per tutto a quella del passato, conservando però la prassi della
sfruttamento del lavoro altrui.
La conseguenza è stata che in virtù del macchinismo si è potuto realizzare
un plusvalore assolutamente imparagonabile con quello delle epoche
precedenti. Questo fatto da Marx non viene mai problematizzato a fondo. Nel
Capitale (ma già nel Manifesto era così) l'industrializzazione viene
considerata come uno dei fattori oggettivi di progresso che ha permesso
all'uomo di emanciparsi dalla tradizione agraria pre-capitalistica. Marx non
ha colto il fatto che il plusvalore che l'operaio, attraverso la macchina,
trasferisce alla merce e di conseguenza al profitto del capitalista, viene
in un certo senso "pagato", oltre che dallo sfruttamento della forza-lavoro,
anche da una progressiva svalorizzazione della macchina, per la cui
costruzione era stato speso un certo capitale (risorse materiali e naturali,
energie psico-fisiche e intellettuali) che alla resa dei conti ha comportato
un impoverimento delle condizioni generali dell'ambiente naturale e quindi
un'instabilità e una precarietà sempre più crescente nelle condizioni
generali di vita della stessa società umana.
Oggi, dopo aver costatato che nell'esperienza del "socialismo reale" il
primato concesso all'industria comporta degli squilibri socio-ambientali
anche in assenza della "logica" del capitale, siamo arrivati al punto da
doverci chiedere: è veramente necessario produrre plusvalore? In teoria esso
serve ad aumentare il livello del benessere; nel capitalismo -come noto- ciò
è alquanto relativo, poiché il benessere è accompagnato dallo sfruttamento
più o meno "selvaggio" delle risorse umane e naturali e quindi da
un'appropriazione privata del plusvalore. Quando tale sfruttamento
garantisce in Occidente, nei paesi a capitalismo avanzato, un livello medio
o medio-alto di benessere, ciò significa che nel Terzo mondo esiste uno
sfruttamento già molto intenso.
In una società senza antagonismi di classe, sarebbe ancora necessario il
plusvalore? Ovverosia, cosa dobbiamo intendere con la parola "benessere"? La
qualità della vita è forse una grandezza che dipende dalla quantità di beni
che possediamo? Cos'è più importante: che l'uguaglianza sociale sia
garantita o che la produzione aumenti di continuo? Le due cose infatti
paiono escludersi a vicenda.
Probabilmente l'uomo, spinto in questo dalle stesse contraddizioni
irrisolvibili del sistema capitalistico, è giunto ad una svolta epocale, in
cui è costretto a prendere delle decisioni storiche, che dovranno
necessariamente mutare lo scenario del suo futuro. Occorre dunque chiedersi:
è preferibile limitarsi all'autoconsumo e alla semplice riproduzione dello
standard di vita che garantisce a tutti libertà e proprietà, oppure dobbiamo
puntare sullo scambio, sulla produttività in serie, sullo sfruttamento della
natura, sulla ristrutturazione tecnologica, ovvero su tutto ciò per cui
alcuni fruiscono di elevati livelli di benessere e altri (la maggioranza)
non ne fruiscono affatto?
Naturalmente le alternative, nella pratica, non sono mai così nette come le
formuliamo: sia perché non si può togliere all'uomo la speranza di poter
umanizzare o democratizzare un sistema di vita basato sull'uso della
tecnologia più avanzata; sia perché non si può togliere all'uomo il diritto
di produrre più di quanto abbia effettivamente bisogno.
In questo caso però (che per noi è quello di maggiore interesse), se
volessimo considerare positivamente la produzione di plusvalore, si dovrebbe
affermare con certezza ch'essa, in una società democratica, non può essere
né vietata né imposta. Nel senso che la produzione del plusvalore va
lasciata alla libera volontà dei cittadini, i quali però devono essere
consapevoli che l'autoconsumo produce meno entropia e che il plusvalore va
regolamentato con un'efficacia maggiore di quella che occorre per
l'autoconsumo.
Ciò che alla comunità locale dovrebbe importare più di tutto è la
riproduzione del valore. Il plusvalore non si giustifica col fatto che il
capitale costante è soggetto a logorio. E' l'idea stessa d'investire del
capitale per produrre solo plusvalore che va superata. Certo, se si dovesse
guardare alla possibilità di produrre di più spendendo di meno, ogni
innovazione tecnologica, utile allo scopo, dovrebbe essere ben accetta,
anche se essa comportasse una contrazione del numero degli operai per ogni
unità produttiva, o altri aspetti negativi.
Ma il problema oggi non è più semplicemente quello della maggiore efficienza
(la cosiddetta "qualità totale"), del maggior risparmio e così via: sotto
quest'unico aspetto sarà difficile contestare le ragioni dei capitalisti,
eternamente angosciati, anche nella fase monopolistica, dal problema di
battere la concorrenza. In realtà oggi il problema è diventato quello di
mettere in discussione la necessità di produrre beni di consumo attraverso,
anzitutto, i mezzi industriali, che da almeno 500 anni vengono considerati
prioritari rispetto a quelli agricolo-artigianali, al punto che la scomparsa
progressiva di quest'ultimi viene ritenuta come un fenomeno non solo
inevitabile ma anche legittimo e segno di vero progresso.
Il macchinismo, che avrebbe dovuto garantire ordine e razionalità, ha
prodotto invece disordine e arbitrio. Si sono persi i cicli della vita
naturale, contadina; usiamo prevalentemente risorse non rinnovabili; i costi
economici, per produrre plusvalore, sono sempre maggiori; ogni nuova
applicazione tecnologica, fin dal suo inizio, presenta degli effetti
secondari imprevedibili, che sono più disastrosi dell'assenza di quella
nuova tecnologia, e ai quali, per giunta, si cerca di porre rimedio con
un'altra tecnologia, ancora più sofisticata, e tutto ciò in omaggio al fatto
che la tecnica non è più un semplice "strumento di lavoro", ma è addirittura
diventata un "modello di vita". Il lavoro viene sempre più vissuto come una
condanna anche da coloro che fruiscono di una vita relativamente agiata.
Ecco perché l'idea che oggi deve affermarsi è quella di una produzione del
plusvalore solo in casi limitati, di stretta necessità. L'eccedenza di beni
di consumo deve diventare la risultante naturale, spontanea, del processo
produttivo, a meno che essa non nasca da un'esigenza particolare della
collettività, soddisfatta la quale tutto deve tornare come prima.
Il difetto del capitalismo, in sostanza, non sta tanto nel voler produrre
una merce il cui valore sia in eccesso rispetto al valore consumato nel
processo produttivo, quanto piuttosto sta nel voler fare solo questo e ad
ogni costo: "la produzione di plusvalore -dice Marx- è il fine specifico
della produzione capitalistica"(p.278). Ciò è potuto accadere perché,
storicamente parlando, il problema di creare plusvalore si è imposto come
esigenza di una persona singola, ostile all'interesse comunitario di
"conservare" il valore: ieri questi "singoli" erano gli schiavisti e i
feudatari, oggi sono i capitalisti (e nel socialismo amministrato i
burocrati dello Stato). In virtù dell'attività imprenditoriale del
capitalista, noi oggi diamo per scontato che la produzione di plusvalore sia
indispensabile, ma la comunità dovrebbe opporsi a questa cultura
rivendicando non solo, come chiede il marxismo, la socializzazione del
plusvalore, ma anche quella della sua riduzione al minimo indispensabile.
* * *
Torniamo ora alla domanda iniziale: che cos'è il plusvalore? Se la
produzione fosse completamente automatizzata ci sarebbe ugualmente il
plusvalore?
Marx non si pone questa domanda non solo perché ai suoi tempi l'ipotesi era
ancora inverosimile, ma anche perché l'avrebbe considerata mal posta. In
effetti, una produzione automatizzata non rappresenta mai un'autoproduzione:
le macchine, solo per il fatto di esistere, dimostrano la loro dipendenza
dagli operai, dai tecnici, dagli ingegneri o dai progettisti; inoltre esse
vanno periodicamente controllate, revisionate, perfezionate, sostituite...
Una macchina non è in grado di migliorare, oltre un certo limite, la qualità
della propria produzione. Quindi il plusvalore è inevitabile.
Naturalmente un'impresa del genere -che ai tempi di Marx non esisteva-
realizza plusvalore più con gli operai intellettuali che non con quelli
manuali (almeno nell'area del capitalismo avanzato), e quindi più nel
momento della progettazione e del controllo della macchina, che non nel
momento della trasformazione della materia prima, ove la manovalanza è
ridotta al minimo essenziale.
Tuttavia, in questo caso il plusvalore può essere realizzato a una
condizione ben precisa: che le altre imprese non abbiano acquisito il
medesimo livello di automazione, ovvero ch'esse impieghino manodopera
salariata, senza la quale sarebbe impossibile acquistare le merci
dell'impresa automatizzata. Non a caso quest'ultima, per evitare la
sovrapproduzione, per realizzare alti profitti e per non costringere le
altre imprese -che rischiano d'essere rovinate dalla concorrenza dei suoi
prezzi- ad automatizzarsi nella stessa maniera, deve necessariamente puntare
sull'export. Se tutte le imprese di una nazione sono automatizzate e
l'export non garantisce uno sbocco sicuro, la crisi è inevitabile, poiché la
macchina, di per sé, è nulla senza il lavoro vivo dell'operaio.
Un'impresa automatizzata realizza il massimo risparmio sul costo del lavoro
(a parte quello intellettuale) con il massimo di efficienza (per quanto la
produzione in serie non garantisca di per sé una maggiore flessibilità), ma
realizza anche, indirettamente, il massimo di sfruttamento possibile della
manodopera salariata delle altre imprese, divenendo così altamente
parassitaria nell'ambito del capitalismo. La sostituzione dell'operaio con
la macchina avrebbe senso se l'operaio fosse riciclato in un'altra mansione,
meno faticosa, meno rischiosa, più gratificante ecc. Ma questo nel
capitalismo sarebbe possibile (peraltro relativamente) solo se nel Terzo
mondo lo sfruttamento della manodopera salariata avesse raggiunto livelli
particolarmente elevati.
Se invece la proprietà della fabbrica fosse statale, si produrrebbe
ugualmente pluvalore? Il plusvalore non è solo relativo allo sfruttamento
capitalistico, esso è anche oggettivo, a causa della particolare modalità
con cui s'investe il capitale costante, finalizzato alla valorizzazione
della tecnologia e all'acquisizione di un profitto che incrementi il
capitale investito. Questa modalità può avvenire anche in una società
socialista.
Se non ci fosse lo sfruttamento, ci sarebbe ugualmente il plusvalore, ma
esso, nel socialismo, non sarebbe una parte di lavoro non pagata. In questo
senso il cosiddetto "socialismo reale" è fallito anche perché ha preteso di
gestire in modo democratico il plusvalore attraverso gli organi statali.
Proprio la presenza dello Stato, che deteneva un ruolo egemonico sulla
società civile, impediva di garantire un'equa ridistribuzione del plusvalore
a livello nazionale.
Se invece la proprietà fosse sociale non ci sarebbe alcun plusvalore
"forzato", poiché l'operaio sarebbe pagato per quello che effettivamente
produce. Il plusvalore potrebbe esserci solo in forma "liberamente
accettata". Ovviamente l'operaio dovrebbe contribuire con le proprie tasse
a che la comunità locale disponga di tutte le strutture e i servizi
necessari.
Proprietari della fabbrica sono coloro che vi lavorano: essi sono i
responsabili ultimi della sua gestione, benché il collettivo dell'impresa,
in una società veramente democratica, non possa decidere per suo conto né il
tipo delle merci, né la loro quantità e, anche per quanto riguarda la
qualità, esso dovrebbe tener conto degli interessi e delle esigenze di tutti
i consumatori.
In una società socialista occorrerebbe che tutti avessero consapevolezza che
la macchina non può trasmettere al prodotto un valore superiore al proprio,
per cui non è indispensabile produrre macchine sempre più sofisticate,
costose, capaci di "grandi prestazioni": quanto più s'impiegano macchine di
questo tipo, tanto più velocemente esse cedono il proprio valore d'uso al
prodotto e quindi tanto prima diventano "cadaveri di macchine". Il
capitalismo, che induce, a causa della concorrenza, a perfezionare sempre
più la propria tecnologia, finisce col cadere in un circolo vizioso, poiché
per integrare i costi coi profitti è costretto ad acuire al massimo le
proprie contraddizioni.
Ciò che conta, in definitiva, è solo il "capitale umano", cioè il lavoro
vivo dell'operaio, che, se vissuto in un contesto sociale significativo
(ontologico), sa conservare l'uso delle macchine in modo conforme alle
necessità dell'uomo.
* * *
Il capitolo dedicato al saggio del plusvalore è la parte più tecnica di
tutta la III sezione, e quindi è anche la meno interessante. Tuttavia, essa
era indispensabile nell'impostazione metodologica di Marx, il quale, nel
Capitale, ha voluto dimostrare l'oggettività dello sfruttamento partendo non
dalle conseguenze sociali del lavoro salariato (come ha fatto, p.es., nel
Manifesto), ma dalle contraddizioni matematiche intrinseche allo stesso
processo produttivo (di lavoro e di valorizzazione del capitale).
Marx in sostanza ha svolto questo ragionamento: 1) nel capitalismo -come in
altre società basate sullo sfruttamento del lavoro- si produce plusvalore;
2) fine ultimo del capitalismo -a differenza delle altre società
antagonistiche- è la mera produzione di plusvalore: "la misura del grado
della ricchezza -dice Marx- non è dato dalla grandezza assoluta del
prodotto, bensì dalla grandezza relativa del plusprodotto"(p.278), che
rappresenta il plusvalore. Solo nel capitalismo il plusprodotto -che pur si
trova in ogni tipo di società- diventa portatore materiale di plusvalore.
Ciò è reso possibile dal fatto che qui diventa merce anche la forza-lavoro
dell'individuo; 3) il plusvalore è dunque fonte di sfruttamento perché non
pagato a chi lo produce; 4) superare il capitalismo vuol dire socializzare
il plusvalore.
Marx non mette mai in discussione il plusvalore come tale, ma solo la sua
destinazione privata. Egli non ha mai espresso alcun interesse circa la
possibilità di creare un socialismo democratico che si limitasse alla pura e
semplice riproduzione del valore.
La parte più difficile da accettare, nel modo di quantificare il saggio del
plusvalore, è l'attribuzione di una valore = 0 al capitale costante ("c").
Come noto, per "capitale costante" Marx intende "il valore dei mezzi di
produzione consumati" nella produzione (p.256), cioè intende quella
quota-parte del capitale complessivo investito che, logorandosi, si
trasferisce nella merce.
Ora, Marx sostiene che se "c" fosse = 0 (e ciò è possibile se il capitalista
utilizza solo materiali esistenti in natura, come ad es. le risorse
rinnovabili, e forza-lavoro), il plusvalore ("p") ottenuto "resterebbe della
medesima grandezza che se "c" stesse a indicare la somma massima di
valore"(p.257).
Questo perché il plusvalore non è prodotto dalla macchina ma dalla
forza-lavoro. (Da notare che a Marx non interessa minimamente l'ipotesi di
un c = 0, senza formazione di plusvalore).
Se invece il plusvalore fosse = 0, cioè se la forza-lavoro avesse prodotto
un valore equivalente al suo prezzo, il capitale anticipato non si sarebbe
valorizzato (e -si può aggiungere- il capitalismo non sarebbe mai nato).
Ciò che a Marx interessa mostrare è che, per comprendere l'entità esatta del
plusvalore, l'economista deve considerare solo le trasformazioni di valore
che avvengono in una porzione del capitale variabile (trasformato in
forza-lavoro), e deve fare astrazione dal valore del capitale costante. Il
plusvalore infatti non si forma col trasferimento di valore del capitale
costante al prodotto, neppure aggiungendo tale valore a quello che crea la
forza-lavoro.
Ecco perché è necessario che "c" sia posto = 0, altrimenti si avrà che, a
causa dell'aumento del capitale variabile ("v"), alla fine sarà aumentato
anche il capitale complessivo anticipato. Il che -secondo Marx- è un modo
sbagliato di vedere le cose, essendo il plusvalore un'eccedenza estorta con
l'inganno del contratto, per il quale non si paga il "lavoro" bensì la sola
"forza-lavoro". Se nel calcolo del plusvalore si conteggia anche il capitale
costante, sarà poi impossibile individuare il momento esatto dello
sfruttamento; si tenderà infatti a pensare che il plusvalore sia ottenuto in
proporzione al capitale anticipato o ch'esso serva a coprire le spese.
Marx non nega l'importanza del capitale costante; qui si limita
semplicemente a dire -rimandando al III libro un'esposizione più
dettagliata- che se delle "proporzioni" esistono, queste non sono tra
capitale costante e plusvalore, ma da un lato tra capitale costante e
capitale variabile: "per far che funzioni il capitale variabile, è
necessario che venga anticipato capitale costante in corrispondenti
proporzioni..."(p.258); dall'altro, tra capitale variabile e plusvalore, nel
senso che la grandezza proporzionale del plusvalore, cioè "la proporzione in
cui il capitale variabile si è valorizzato, è chiaramente determinata dal
rapporto del plusvalore col capitale variabile"(pp.259-60) -il che appunto
costituisce il "saggio del plusvalore".
L'altro rapporto che indica la proporzione tra "p" e "v" è quello tra
pluslavoro (col quale l'operaio produce plusvalore nel tempo di valoro
superfluo alla riproduzione del valore della sua forza-lavoro) e lavoro
necessario (alla riproduzione del suo valore).
Marx insomma ha voluto dimostrare che il saggio del plusvalore è molto più
grande di quello che il capitalista vuol fare apparire mettendo nel conto il
valore del capitale costante. Nelle equazioni di Marx "il lavoratore impiega
più della metà della sua giornata lavorativa per produrre un plusvalore che
diverse persone si ripartiscono tra loro con vari pretesti"(pp.265-6). Tali
persone sono tutte quelle non direttamente coinvolte nel processo di
valorizzazione del capitale (politici, burocrati, militari, insegnanti ecc.,
inclusi ovviamente gli stessi capitalisti!).
Quindi il plusvalore rappresenta la valorizzazione del solo capitale
variabile. Esso naturalmente aumenta coll'aumentare del grado di
sfruttamento. Negli odierni paesi capitalisti avanzati il saggio del
plusvalore è del 300% e oltre. Il tempo necessario per riprodurre il costo
della forza-lavoro si è ridotto, in talune imprese automatizzate, a meno di
un'ora.
* * *
E' una contraddizione in termini quella di sostenere che il valore di una
merce "è determinato dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(p.279).
Questa legge non è contraddittoria semplicemente perché sul mercato
capitalistico esistono merci che hanno un valore di scambio del tutto
sproporzionato al loro effettivo valore d'uso, o perché esistono merci
costosissime pur essendo prodotte in tempi assai limitati (fenomeno, questo,
che con l'automazione si va sempre più accentuando): la legge del valore non
diventa inattendibile solo perché sul mercato si verificano delle assurdità.
Essa, nelle intenzioni di Marx, voleva più che altro indicare una linea di
tendenza generale, un "dover essere" astratto.
Tuttavia -è ciò è davvero un paradosso- proprio a causa dei particolari e
acuti antagonismi che si verificano in ambito capitalistico, quella legge
pare essere formulata apposta per essere applicata in una società che certo
capitalistica non può essere. Gli economisti borghesi si sono serviti di
questa incongruenza per sostenere che va superato non il capitalismo ma la
stessa legge del valore e quindi l'idea di una transizione al socialismo. In
tal modo essi non sono riusciti a cogliere i limiti veri di quella legge,
che vanno aldilà della semplice sfera economica.
In effetti, dire che il "valore" di una merce è determinato dal "tempo"
occorso per produrla, è come dire, in pratica, che il "tempo" rappresenta un
"valore". Ora, se c'è una cosa che di per sé non ha valore, questa è proprio
il tempo, che può scorrere con una durata più o meno lunga a seconda di chi
lo vive. Naturalmente Marx risponderebbe a questa obiezione che il tempo cui
occorre riferirsi è quello "socialmente necessario", non quello
"soggettivamente arbitrario".
Ma cosa significa "socialmente necessario"? Se il tempo cui ci si riferisce,
per determinare il valore di una cosa, è un tempo collettivo, socialmente
condiviso, allora esso non ha un valore proprio, ma dipendente dalla
collettività che lo vive, e quindi dalla cultura di questa collettività e
dalla coscienza con cui essa vive la propria cultura. Il tempo quindi ha un
valore solo nella misura in cui qualcuno glielo conferisce. E questo
qualcuno deve vivere in un determinato "spazio" (categoria, questa, che nel
Capitale viene riempita di pochi contenuti, nel senso che la storicità
dell'opera appare più "verticale" e meno "orizzontale").
Stando le cose in questi termini, il valore di un oggetto (di uso comune)
non può essere determinato semplicemente dal "suo" tempo, se non in senso
"tecnico", "economicistico", ma deve essere determinato anche dal contesto
semantico in cui esso è collocato, e quindi in ultima istanza dalla cultura
significativa di una determinata comunità, la quale, a sua volta, dà senso
alla dimensione del tempo (e dello spazio) in cui vive.
Ma se è l'uomo, come essere sociale, a dare un valore alle cose, il valore
di queste cose può anche oltrepassare i limiti della dimensione specifica
del tempo (e dello spazio), così come il valore de Il Capitale può crescere
o diminuire a seconda della coscienza di quanti, nel corso dei secoli, lo
leggono. Marx non riusciva a comprendere perché al suo tempo il Capitale
avesse più fortuna fra gli intellettuali progressisti della Russia zarista
che non tra le fila del proletariato industriale dell'Europa occidentale. La
ragione tuttavia era semplice, anche se, ovviamente, non afferrabile con gli
strumenti dell'economia: è la coscienza rivoluzionaria che dà il valore
giusto alle cose di valore, che crea cose il cui valore è destinato a
rimanere nel tempo, a disposizione di una qualunque altra coscienza in grado
di riconoscerlo. Cos'è in fondo la "lotta di classe" se non la testimonianza
che di fronte a cose analoghe si possono dare valutazioni opposte?
Ora, se tutto ciò è vero, lo è anche in senso contrario, e cioè in
riferimento al fatto che nel capitalismo la legge del valore è continuamente
contraddetta dalla "legge dei prezzi", che è quella cui i capitalisti sono
più interessati. In tutta la III sezione Marx non ha mai preso in
considerazione l'ipotesi del prezzo di una merce che per la sua scarsità o
novità sul mercato, sale alle stelle, permettendo al capitale costante di
realizzare un valore di scambio della merce di molto superiore al suo valore
d'uso, e quindi di acquistare, indirettamente, un valore addizionale
particolare, relativo alla favorevole congiuntura o circostanza. Nella nota
a p.266 Marx afferma di aver supposto "che i prezzi siano uguali ai valori.
Nel terzo libro -egli aggiunge- vedremo come tale uguaglianza non si
verifica in maniera così semplice neanche per i prezzi medi".
La differenza tra valore e prezzo obbligherà Marx a rivedere la sua teoria
sul plusvalore e a ricomprenderla in quella più generale di profitto,
all'interno della quale si opera una rivalutazione del ruolo del capitale
costante. In questa sezione Marx rifiuta a priori l'idea di considerare il
plusvalore come una necessità per ammortizzare i costi iniziali dovuti
all'acquisto non solo di forza-lavoro, ma anche, e soprattutto, di materie
prime, macchinari ecc. Di plusvalore "netto", in effetti, si può parlare
solo dopo aver "coperto" le spese iniziali.
Naturalmente il capitalista sosterrà sempre che i costi non possono mai
essere ammortizzati definitivamente, in quanto il macchinario, essendo
soggetto a logorio, necessita di essere periodicamente sostituito o
ristrutturato, senza parlare delle necessità di riconversione industriale
cui ogni capitalista si sente obbligato a causa della concorrenza altrui.
Marx tuttavia non ha cercato, in questa sezione, di uscire da questo vicolo
cieco portando il ragionamento sulle modalità con cui l'imprenditore ha
potuto accumulare così ingenti capitale da poterli investire in una grande
impresa capitalistica. Egli non è interessato a questo discorso per due
ragioni: 1) l'accumulazione originaria non deve mettere in discussione la
giustezza della transizione dal feudalesimo al capitalismo; 2) il limite di
fondo del capitalismo consiste semplicemente nella gestione antisociale del
plusvalore.
Di fatto però la formazione di plusvalore non dipende solo dal capitale
variabile ma anche da quello costante, poiché, se è vero che lo sfruttamento
sta nel plusvalore, è anche vero che il plusvalore capitalistico è di tipo
particolare, in quanto può essere accumulato all'infinito. E questa
particolarità non è offerta al capitalista unicamente dal valore della
forza-lavoro, ma anche dal macchinismo, nel senso che se il capitale
costante non altera la propria grandezza di valore, rende però possibile un
plusvalore inedito, senza precedenti storici. E' proprio il capitalismo che
costringe il tradizionale capitale costante a trasformarsi in una diversa
grandezza di valore, che comporta un mutamento qualitativo di tutta
l'attività produttiva.
L'originaria grandezza di valore del capitale costante, nell'ambito del
capitalismo, non sta più nel "tempo di lavoro necessario" alla sua
produzione, poiché nel capitalismo il concetto di "tempo necessario" non ha
più il riferimento oggettivo della socializzazione produttiva. L'unico
riferimento (fatto passare per "oggettivo") è quello del mercato, ove
dominano gli interessi dei proprietari privati, i quali vogliono realizzare
un profitto il più possibile sproporzionato rispetto agli iniziali costi di
produzione sostenuti.
Ciò significa che nel costruire il capitale costante il tempo è "necessario"
solo nel modo in cui l'intende la classe capitalistica nel suo complesso. La
macchina, in tal senso, non ha solo un tempo limitato dal suo progressivo
logorio, ma ha pure un tempo "nascosto", che scorre assai più velocemente e
che quindi è più corto di quello "ufficiale": è il tempo che le impone una
macchina concorrente. Quindi è un tempo "psicologico". L'introduzione del
macchinismo ha rivoluzionato la dimensione del tempo, che, nel capitalismo,
ha assunto tratti patologici, dovuti appunto allo stress della competizione.
Il capitalista della macchina "A" sa, in anticipo, cioè prima ancora di
farla funzionare, di avere meno tempo a disposizione di quello che gli
concederà la sua stessa macchina, poiché sa che da un'altra parte esiste un
capitalista che, con la sua macchina "B", farà di tutto per rovinarlo o, in
attesa di averla, per carpirgli i suoi segreti industriali. Ecco perché il
capitalista della macchina "A" non aspetterà ch'essa si logori, prima di
ristrutturla, ma farà in modo di farla lavorare al massimo, nel periodo
iniziale (senza preoccuparsi della sovrapproduzione), mentre nei periodi
successivi cercherà, appena saprà di poterne trarre un certo utile, di
sostituirla o di modificarla prima ch'essa ne abbia "fisicamente" bisogno.
Il bisogno di ristrutturare il capitale costante non dipende tanto dal
logorio di quest'ultimo, quanto piuttosto dalla necessità che il capitalista
ha d'incrementare continuamente il plusvalore. Ad un certo punto, infatti,
la necessità di accumulare plusvalore non dipende più dall'esigenza
d'imporsi sul modo di produzione precedente, sui consumi tradizionali della
gente ecc.: orami questi obiettivi sono stati sufficientemente acquisiti, e
il regime monopolistico-statale garantisce una relativa sicurezza.
L'esigenza invece è quella di difendersi da altri monopoli che, ostili al
protezionismo e favorevoli al libero mercato, minacciano di rovinarlo.
Ecco, in tal senso, si può affermare che nel momento in cui il capitalista
introduce una nuova macchina, il valore di quest'ultima è maggiore rispetto
a quello che si ottiene dalla divisione del tempo necessario al suo logorio,
così come è diverso il prezzo dal valore della merce. Un'innovazione
tecnologica permette all'inizio un plusvalore maggiore di quello che si
ottiene con la stessa macchina, in buone condizioni, quando la concorrenza
si è dotata di una macchina equivalente. Di qui la crescente importanza,
soprattutto nell'ambito intellettualizzato dell'automazione, dello
spionaggio industriale. Questo significa che il capitale costante non può né
essere separato da quello variabile né posto = 0.
D'altra parte ha un che di singolare il fatto che da un lato Marx consideri
il capitale costante = 0, quando tale condizione si verifica solo nelle
società agrarie basate sull'autoconsumo; e dall'altro pretenda di valutare
l'entità del plusvalore, quando tale grandezza presuppone il superamento di
quel tipo di società. Marx ha bisogno di credere nel concetto di "tempo di
lavoro socialmente necessario" per determinare l'entità esatta (matematica)
del capitale costante e soprattutto del plusvalore, e non s'accorge che
proprio quel tipo di capitale e di plusvalore, nell'ambito del capitalismo,
vanificano l'applicazione del suddetto concetto.
Inoltre, non avendo analizzato in questa sede l'importanza del capitale
costante nella formazione del plusvalore, Marx offre l'immagine di un
operaio che sembra avere in sé una forza "magica" con cui creare
continuamente valore aggiunto.
In realtà è solo nel capitalismo che il valore aggiunto appare nello stesso
processo lavorativo; in tutte le altre formazioni esso o non appariva,
oppure appariva in un'altra fase del processo lavorativo: quella "forzata"
della coercizione extra-economica.
Il lavoratore ha il compito di "riprodurre il valore", o meglio, quello di
"trasformarlo riproducendolo", non ha il compito di "aumentarlo", né, tanto
meno, quello di "crearlo". Il valore non può essere creato ex-novo, né può
essere aumentato più di quanto non possa essere riprodotto, come d'altra
parte è impossibile riprodurre un essere umano che abbia caratteristiche
sovrumane.
Se nel capitalismo si può costatare un aumento del valore, ciò avviene a
scapito della possibilità stessa di riprodurlo usando la medesima energia:
questa infatti, nel capitalismo, dev'essere sempre più "potente" perché si
possa riprodurre il valore.
Per non parlare delle ricadute negative di questo processo sulla sfera
etica. Col macchinismo ci si è illusi che all'aumento del valore economico
potesse corrispondere l'aumento del valore etico (intendendo col termine
"etica" tutta la sfera sovrastrutturale). Invece il valore dell'etica ha
subìto un deprezzamento inversamente proporzionale al valore dell'economia.
L'esigenza del plusvalore -come metodo sistematico di creare valore- può
nascere solo in una società antagonistica, dove gli interessi di pochi
singoli sono in contrasto con quelli della grande maggioranza. Il singolo,
nei confronti della collettività, non potrebbe sussistere limitandosi a
riprodurre il valore: egli ha necessariamente bisogno di un'eccedenza che lo
tuteli, per ottenere la quale è disposto ad ogni cosa.
La particolarità del plusvalore capitalistico, in tal senso, è offerta,
proprio dal fatto ch'essa è sorta dopo la formazione sociale feudale. Il
capitalista non poteva tornare allo schiavismo tout-court: là dove l'ha
fatto (in Africa e in Americalatina), o le culture locali erano troppo
deboli per poterlo impedire, oppure non esisteva ancora quella cristiana, la
quale, nella veste cattolico-protestante, tollera sul piano pratico e
condanna su quello teorico.
* * *
Il presupposto di Marx secondo cui "la forza lavorativa è acquistata e
venduta al suo valore"(p.279), nel senso che il suo valore "è determinato
dal tempo di lavoro che occorre per produrla"(ib.), è un presupposto che
avrebbe senso, al limite, in una società dove il valore avesse un senso: non
può certo averne in una società dove ciò che ha veramente valore è solo il
prezzo di una merce.
Nella società capitalistica tutte le merci sono "equivalenti", cioè senza
valore specifico: ciò che le differenzia, in ultima istanza, è solo il
prezzo, poiché in virtù di questo ogni merce può essere acquistata. Non
esiste alcuna merce che "non abbia prezzo", il cui valore cioè sia "senza
prezzo", assolutamente incommensurabile. Nel capitalismo ciò che ha un
valore personale (affettivo, sentimentale ecc.), in realtà non ha un vero
valore, poiché non viene riconosciuto socialmente. Ciò che ha vero valore è
soltanto ciò che sul mercato ha un prezzo, e, paradossalmente, è proprio
questo modo di "valutare" che toglie alle cose il loro valore specifico,
quello che può essere determinato non dal mercato ma dal contesto sociale
che usa quelle cose secondo un preciso significato.
Quindi il presupposto che nel capitalismo la forza-lavoro venga acquistata
al suo valore, non si verifica mai, meno che mai spontaneamente. E' solo
attraverso la lotta di classe che la forza-lavoro può sperare di essere
acquistata al proprio valore, per quanto una lotta di classe che si
limitasse a tale rivendicazione, non uscirebbe -direbbe Lenin- dai limiti
del "tradunionismo".
Infatti, il vero valore della forza-lavoro non può essere deciso nella
contrattazione, poiché la riduzione dell'uomo a "lavoratore" risente già dei
limiti della cultura borghese. E' il capitalismo che costringe l'uomo a far
valere il prezzo della propria forza-lavoro, al fine di non essere sfruttato
economicamente. Ma ognuno si rende conto da sé che, superati i limiti del
capitalismo, non avrà più senso misurare il "valore della forza-lavoro" in
termini matematici, poiché questo valore non è misurabile, come non può
esserlo quello del coraggio, dell'onore, dei principi ecc.
Il valore dell'essere umano non può essere quantificato, se non facendo
astrazione dall'individuo specifico: il che è un controsenso. Il valore
dell'uomo può solo essere costatato, osservando con quali capacità ed
energie l'essere umano in senso lato (uomo o donna che sia, "produttivo" o
"improduttivo", maggiorenne o minorenne ecc.) riesce a realizzare una
società democratica, fondata sulla libertà e sulla giustizia.
Una società la cui forza-lavoro ha un altissimo valore, non ci dice nulla
sul "valore" dei suoi cittadini. Nella futura società socialista nessun
indice economico potrà di per sé indicare il potenziale "etico" di una
popolazione. Nessuno è in grado d'individuare quale tipo di libertà vive una
nazione, limitandosi ad esaminare i suoi indici produttivi, di consumo ecc.
Peraltro, se si parte dal presupposto che la forza-lavoro venga acquistata
al suo valore, si finisce col considerare il plusvalore come una conseguenza
accessoria della contrattazione, che con una buona rivendicazione salariale
potrebbe essere risolta. Questo anche se esplicitamente si sostiene che fine
del capitalismo è accumulare plusvalore.
In realtà, occorre evitare l'illusione di credere che, eliminato il problema
del plusvalore, il capitalismo sia, nel complesso, un sistema accettabile. E
soprattutto non si deve alimentare questa illusione facendo credere che sul
mercato la forza-lavoro possa essere acquistata al suo giusto prezzo. Il
capitalista non parte mai da questo presupposto. Sin dall'inizio, il tempo
che occorre alla forza-lavoro per riprodursi appare al capitalista
sufficiente anche quando non lo è affatto.
* * *
Nel cap. VIII, dedicato alla giornata lavorativa, Marx prende in esame la
possibilità da parte del capitalista di estorcere all'operaio un plusvalore
assoluto.
Come già visto, Marx è partito dal presupposto che la forza-lavoro viene
acquistata e venduta al suo valore. Ciò significa che una parte della
giornata lavorativa è caratterizzata dal tempo di lavoro necessario alla
riproduzione della forza-lavoro.
Il plusvalore si realizza nell'altra parte della giornata, quella in cui la
forza-lavoro crea un valore superiore al proprio e di cui non può
beneficiare. Marx fa l'esempio che se a un operaio occorrono 6 ore per
riprodurre il proprio valore, le altre 6 ore costituiscono plusvalore al
100%. Per ottenere un plusvalore superiore a questa percentuale, al
capitalista basta prolungare la giornata di lavoro.
Il cap. VIII ha appunto lo scopo di dimostrare che la formazione del
plusvalore assoluto può avvenire solo entro un limite massimo di
tollerabilità, fisica e morale, relativo all'esigenza di riproduzione della
forza-lavoro, altrimenti il capitalismo finisce coll'autodistruggersi,
sebbene di questo non si preoccupino affatto i singoli capitalisti, che al
massimo sono interessati alla possibilità di sostituire la forza-lavoro
logorata con altra in esubero.
Se l'operaio si oppone al prolungamento della giornata di lavoro, il
capitalista potrà giocare un'altra carta per estorcere plusvalore superiore
al 100%: quella dell'intensificazione del lavoro, con la quale cercherà di
costringere l'operaio a riprodurre il proprio valore non in 6 ore, ma ad es.
in 4 o in 2. Questo plusvalore è detto relativo, ma col termine di
"intensificazione del lavoro" Marx non intende qui che la riduzione del
tempo di lavoro necessario e non anche l'uso della rivoluzione
tecnico-scientifica applicata alla produzione (vedi ad es. la catena di
montaggio). Di questo egli parlerà nel cap. X.
"Il capitale -dice Marx- non ha inventato il pluslavoro. In ogni luogo in
cui una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione,
il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro
necessario al proprio mantenimento un tempo di lavoro eccedente per la
produzione dei mezzi di sussistenza del possessore dei mezzi di
produzione"(p.285).
Infatti, l'assurdità dei sistemi antagonistici è che proprio chi detiene il
monopolio dei mezzi produttivi è il più "improduttivo" e deve farsi
mantenere dal lavoro forzato di chi è nullatenente.
"Ma è evidente -prosegue Marx, e questo è veramente importante- che se in
una formazione sociale prevale il valore d'uso del prodotto più che il suo
valore di scambio, il pluslavoro è allora limitato ad una quantità più o
meno grande di bisogni, ma dal carattere stesso della produzione non sorge
alcun insaziabile bisogno di pluslavoro"(ib.), cioè lo sfruttamento trova un
limite nella capacità di consumo dello stesso sfruttatore.
E' appunto questo che, in ultima istanza, fa la differenza tra una
formazione sociale antagonistica pre-capitalistica e una capitalistica. Che
nella prima prevalga il valore d'uso non significa, ovviamente, che non sia
conosciuto e apprezzato il valore di scambio, ma è solo nel capitalismo che
questo valore ha una priorità assoluta. Prima del capitalismo il denaro
veniva accumulato per acquisire potere politico, economico ecc. Col
capitalismo il denaro viene accumulato per se stesso, cioè anche dopo che si
è ottenuto il potere politico, economico ecc. Il denaro diventa "padrone" di
colui che lo possiede. Non sono tanto i beni acquistati col denaro che
vengono accumulati, ma è il denaro stesso che viene accumulato. Il suo
potere di astrazione raggiunge, nel capitalismo, la vetta suprema.
"Perciò -dice ancora Marx- nell'antichità il lavoro eccessivo appare in
maniera incredibile dove si deve ottenere il valore di scambio nella sua
indipendente forma di moneta, ossia nella produzione di oro e di argento. In
questo caso, la forma ufficiale del lavoro eccessivo è lavorare sotto
costrizione fino a che si muoia"(ib.). Nelle formazioni schiavistiche i
metalli pregiati servivano per acquistare, ovvero per soddisfare bisogni di
varia natura (materiali, di prestigio, di vanità ecc.); nel capitalismo
invece servono per investire in attività produttive (o anche solo
finanziarie) con le quali si possono accumulare capitali.
Marx ha colto bene le differenze fenomeniche, ma non ha compreso la causa
culturale che le ha generate. Il passaggio da una formazione antagonistica
pre-capitalistica a una capitalistica, è dipeso -a suo giudizio- dalla
spinta "verso un mercato internazionale"(ib.), cioè dalla costatazione che
la vendita dei prodotti all'estero poteva comportare maggiori profitti. Per
Marx il capitalismo è nato a causa di un allargamento della sfera
commerciale, la quale, a sua volta, presuppone una forte divisione del
lavoro ecc. Non ci sono altre spiegazioni genetiche.
Se Marx si fosse preoccupato di analizzare in modo culturale l'origine delle
diverse forme dei sistemi antagonistici, non avrebbe considerato la
transizione al capitalismo come un evento necessario, ineluttabile. Inoltre
avrebbe evitato di mettere sullo stesso piano "l'orrore barbarico della
schiavitù, della servitù della gleba ecc." con "l'orrore civilizzato
dell'eccesso di lavoro"(p.286). La differenza infatti non sta semplicemente
nel diverso tipo di sfruttamento, ma anche e soprattutto nel diverso tipo di
civiltà.
Marx non trae alcuna positiva conseguenza dal fatto che "nella forma della
corvée il pluslavoro è separato completamente dal lavoro necessario"(p.287).
In altre parole, a un lavoro chiaramente "forzato" in una metà della
giornata e "libero" nell'altra metà, egli preferisce un lavoro "forzato" per
tutta la giornata, poiché ciò, a conti fatti, toglie ogni illusione al
lavoratore e lo costringe a reagire.
Tuttavia, la figura dell'operaio risulta alquanto controversa nell'analisi
del Capitale. Da un lato l'operaio sa sin dall'inizio che il capitalista
compra la sua forza-lavoro per sfruttarla al massimo (poiché la forza-lavoro
è una merce che crea un valore più grande di quanto essa stessa costi);
dall'altro però l'operaio si ribella non tanto alla contrattazione sul
mercato e neppure al primato dell'industria sull'agricoltura e
l'artigianato, quanto piuttosto al fatto che la distribuzione del plusvalore
è ingiusta perché privata, cioè si ribella solo quando s'accorge che il
capitalista, per ottenere sempre più plusvalore, fa di tutto per prolungare
la giornata lavorativa. "La voce dell'operaio, che s'era zittita nel turbine
incalzante del processo di produzione, d'un tratto sorge" -dice Marx
(p.282).
Il pregiudizio di Marx nei confronti del mondo contadino-feudale è ben
visibile laddove egli parla della servitù della gleba e delle corvées nei
principati danubiani. Il pregiudizio non era dovuto solo a una scarsa
cognizione scientifica della formazione feudale (l'unico testo citato è
quello di E. Regnault sulla Storia politica e sociale dei principati
danubiani), ma anche e soprattutto alla convinzione che il mondo contadino,
ostile di per sé alla transizione verso il capitalismo, non avrebbe mai
potuto collaborare con gli operai per realizzare il socialismo, la cui
transizione -secondo Marx ed Engels- presupponeva necessariamente lo
sviluppo del capitalismo.
In una nota alla terza edizione, Engels ha evidenziato il proprio
pregiudizio riconoscendo che il contadino tedesco, nel sec. XV, era sì
obbligato alle corvées, ma per il resto era libero, de facto e, in certi
territori, anche de jure. Engels mise questa nota per mostrare che la
libertà goduta dai contadini danubiani non era molto diversa da quella dei
contadini tedeschi. E tuttavia egli esprime questo giudizio sostenendo che i
contadini tedeschi persero la loro libertà a causa della guerra contro i
nobili, per cui essi non avrebbero potuto in alcun modo costituire
un'alternativa al capitalismo.
Engels qui ha dimenticato di aggiungere che la sconfitta dei contadini,
intenzionati a realizzare un comunismo agricolo, fu determinata, in primo
luogo, non tanto dalla resistenza dei nobili, quanto piuttosto dall'appoggio
che questi ottennero da parte della borghesia. In Germania la borghesia non
riuscì a trovare nei contadini un potente alleato contro la nobiltà, perché
sapeva che le loro rivendicazioni erano, sin dall'inizio, anche
anti-borghesi.
Inoltre Engels non voleva ammettere la possibilità che, ai suoi tempi, in
Russia il movimento anticapitalistico potesse trovare nel mondo rurale la
sua base sociale prioritaria. Il pregiudizio stava appunto nel fatto che per
Engels se i contadini tedeschi, che pur erano liberi, non riuscirono ad
opporsi né alla nobiltà né alla borghesia, per quale ragione i contadini
russi -per lui meno liberi di quelli tedeschi- avrebbero potuto costituire
un'eccezione alla regola?
Per Marx il modo di produzione feudale delle province rumene era
"primitivo",
ma non come quello della "forma slava o addirittura indiana", che
conoscevano solo la "proprietà comune"(p.288) e che, per questo, impedivano
all'uomo di formarsi come individuo libero. Tale giudizio era condiviso
anche da Engels.
Per Marx non esiste libertà senza proprietà privata. Nelle province rumene
"una parte delle terre era coltivata in forma indipendente dai membri della
comunità, quale libera proprietà privata..."(ib.). Era questa proprietà che
rendeva "liberi" e non quella "lavorata in comune" per avere un "fondo di
riserva", in caso di cattivi raccolti, o una sorta di "tesoro pubblico" col
quale sostenere "le spese della guerra, della religione e di altri bisogni
della comunità"(ib.).
La crisi di queste comunità sorse -secondo Marx- solo nel momento in cui
"dignitari militari ed ecclesiastici usurparono la proprietà comune e allo
stesso tempo i servizi che le erano connessi"(ib.). Per Marx la
differenziazione della libera proprietà privata dalla proprietà comune non
era un indice di regresso della comunità bensì di progresso.
Il pregiudizio di Marx nei confronti dei popoli slavi s'accentua proprio
laddove egli afferma che fino a quando la "Russia liberatrice del mondo"
(detto con ironia) non arrivò nei Balcani, la servitù della gleba era solo
di fatto e non di diritto. Fu appunto "col pretesto di abolire la servitù
della gleba [che essa] la sollevò a legge"(ib.).
In realtà, rispetto al feudalesimo turco e persiano, quello russo era
sicuramente meno devastante, più sviluppato sul piano economico-culturale:
non a caso fu accolto, almeno in un primo momento, dai contadini asserviti,
come un evento liberatorio. E comunque la Russia intervenne solo in seguito
alle sollevazioni dei contadini danubiani.
Quanto alle riforme del conte P.D. Kisilev, proprio con esse si voleva
impedire uno sfruttamento dei contadini assolutamente arbitrario, come
appunto avveniva nell'impero turco e persiano. Non solo, ma al conte
Kisilev, ch'era ministro del demanio statale, si devono far risalire i
tentativi, non riusciti, di mediare le esigenze della nobiltà feudale con
quelle dell'emergente ceto dei contadini ricchi, che riceveva dall'erario
crediti e aiuti agrotecnici.
Dovendo scegliere fra il Regolamento organico del conte Kisilev e i Factory
Acts inglesi, Marx non ha dubbi: "queste leggi frenano l'impulso del
capitale a sfruttare oltre misura le forze lavorative, tramite la
limitazione della giornata lavorativa imposta in nome dello
Stato..."(p.290),
limitazione -precisa Marx- "imposta dalla necessità", quella di permettere
alla forza-lavoro di riprodursi.
Ovviamente sarebbe assurdo sostenere che un qualunque "codice feudale" possa
essere considerato più "democratico" di una qualunque legislazione statale
sulla regolamentazione dell'orario di lavoro nelle fabbriche capitalistiche;
e tuttavia non è meno insensato sostenere che mentre attraverso il
Regolamento organico si faceva di tutto per "sfruttare" il contadino,
attraverso i Factory Acts invece si cercava d'impedire lo sfruttamento
selvaggio degli operai inglesi.
E' davvero singolare che uno storico come Marx non abbia compreso come nel
primo caso l'osservatore deve dare per scontata la "libertà" dei contadini,
mentre nel secondo caso deve dare per scontata la "schiavitù" degli operai.
I nobili infatti non avrebbero cercato di fare l'impossibile pur di
sfruttare i contadini se questi non avessero goduto di una relativa libertà.
Viceversa, nei confronti degli operai tutto il possibile i capitalisti già
l'avevano fatto, per cui agli operai non restava che lottare per avere un
minimo di libertà.
Di fatto, il tipo di sfruttamento cui veniva sottoposto il contadino non ha
mai conosciuto analoghe forme alienanti, oppressive e distruttive come
quelle in cui si caratterizzò lo sfruttamento dell'operaio inglese (poi
europeo, americano ecc.) agli albori del capitalismo. Si pensi solo
all'impiego massiccio in fabbrica dei bambini, alle tante malattie
professionali, alla fame causata dalla disoccupazione, alla breve durata
della vita media, ma anche alla stessa intensità della giornata lavorativa,
che praticamente conosceva solo le pause previste per il mangiare e il
dormire. Le condizioni degli operai inglesi, "liberi cittadini" della loro
nazione, non erano molto diverse da quelle degli antichi schiavi del mondo
romano o delle civiltà pre-colombiane al tempo di Cortès e Pizarro.
Marx, peraltro, parlando dei Factory Acts, li presenta come se fossero nati
da un'idea spontanea del governo inglese e non come il frutto della
rivendicazione del movimento operaio. La "voce dell'operaio" -sorta a p.282,
per far notare al capitalista, non senza un certo fair-play, che la
forza-lavoro è una merce che, creando valore aggiunto, va comprata a un
prezzo equo e usata in un tempo di lavoro ragionevole - s'è di nuovo spenta
nel corso dell'analisi delle inumane condizioni di lavoro delle fabbriche
inglesi.
Praticamente, secondo Marx, è stato "nell'interesse stesso del capitale
adottare una giornata lavorativa normale"(p.328), poiché esso s'è accorto
che "il prolungamento della giornata di lavoro non produce solo il
deperimento della forza lavorativa dell'uomo, derubato delle sue normali
condizioni fisiche e morali, di sviluppo e di realizzazione. Essa produce
anche l'esaurimento e il precoce spegnersi della forza lavorativa
stessa"(p.327).
Il che, per un capitalista -dice Marx-, dovrebbe essere un controsenso. E'
vero che "al capitale non interessa nulla quanto duri la vita della forza
lavorativa"(ib.), ma è anche vero che se questa vita dura troppo poco "si
rende necessario un più celere rimpiazzamento degli operai esauriti, perciò
si rendono necessari maggiori spese per l'esaurimento della forza lavorativa
che si deve riprodurre"(p.328).
In che cosa consistano queste "maggiori spese" Marx non lo dice chiaramente.
Esse non stanno, in effetti, nel salario, poiché fino a quando esiste una
sovrappopolazione di ex-contadini ed ex-artigiani, i salari saranno tenuti
sempre bassi. Esse neppure si riferiscono alla professionalità acquisita
dall'operaio nel corso dell'attività lavorativa, poiché Marx aveva già
escluso in precedenza la possibilità che esistano all'interno della fabbrica
operai più importanti di altri, il cui plusvalore sia decisamente superiore.
Le "maggiori spese" non consistono neppure nel fatto che se la forza-lavoro
muore troppo velocemente, al capitalista restano invendute le merci con le
quali essa dovrebbe riprodursi: infatti le merci del capitale inglese
venivano allora vendute prevalentemente all'estero. Come avrebbero potuto
acquistarle coloro che avevano salari da fame?
Secondo Marx le suddette spese si riferiscono semplicemente al fatto che con
uno sfruttamento eccessivo si genera "un inevitabile spopolamento"(p.333),
anche se di questo il singolo capitalista non si preoccupa affatto. Le
condizioni del neonato capitalismo erano così dure che la rovina più grave
era anzitutto quella dell'annientamento fisico dei lavoratori. Oggi
condizioni del genere si ritrovano solo in certe zone del Terzo mondo.
In realtà, la riduzione della giornata lavorativa, oltre ad essere stata
l'esito di molte battaglie sindacali, è nata anche dal fatto che i
capitalisti inglesi non potevano comportarsi in Europa come i loro colleghi
negli Stati americani del sud, ove gli schiavi (già al tempo degli spagnoli)
potevano essere tranquillamente rimpiazzati dalle riserve africane. La
cultura euroccidentale, per quanto cinica fosse, non avrebbe permesso un
trattamento analogo sui propri cittadini, anche se poi, alla resa dei conti,
tra lo sfruttamento del libero operaio inglese e quello dello schiavo negro
afro-americano la differenza era minima.
Viceversa, per Marx l'adozione di una giornata lavorativa normale è dipesa
principalmente dal fatto che la "libera concorrenza" dei capitalisti ha
determinato "un intervento coercitivo dello Stato", nel senso che alla
volontà dei singoli capitalisti di sfruttare ad libitum, si sono opposte "le
leggi immanenti della produzione capitalistica come leggi coercitive
esterne"(p.334). Cioè a dire, quelle stesse ragioni che avevano portato il
capitalista a distruggere il genere umano, per realizzare un profitto, lo
hanno altresì portato a conservarlo per realizzare il medesimo profitto. A
questo punto però diventa pura retorica sostenere -come fa Marx- che "lo
stabilirsi della giornata lavorativa normale è il risultato di una lotta di
più secoli tra capitalista e operaio"(p.335).
Dalla sua analisi si può dedurre solo una motivazione alla nascita dei
Factory Acts: evitare la strage dei lavoratori, o quanto meno che dalla loro
degenerazione psico-fisica si abbiano delle ricadute negative sul piano del
profitto economico. Una motivazione, questa, che appare chiaramente di
ripiego, conseguente al fatto che i capitalisti inglesi non potevano
sfruttare la manodopera salariata con la stessa libertà dei piantatori di
cotone americani.
Considerare la legislazione sulle fabbriche inglesi del sec. XIX come più
"democratica" rispetto agli statuti del lavoro inglesi dei secoli XIV-XVIII,
semplicemente perché qui si cercava di "prolungare" la giornata lavorativa,
mentre là di cerca di "abbreviarla", significa non avere un elevato senso di
storicità (cioè di obiettività) delle cose.
Nei secoli XIV-XV avvenne in Inghilterra, a causa della nascita dei rapporti
mercantilo-monetari, il tentativo da parte del ceto feudale e
imprenditoriale di costringere i contadini e gli operai salariati a produrre
più corvées o ad accettare bassi salari. Cioè la coercizione extra-economica
era dettata da fattori esogeni, che non dipendevano dall'economia feudale in
sé, per quanto proprio le contraddizioni del servaggio inducessero molti a
cercare delle alternative nei commerci e nell'attività imprenditoriale a
scopo di lucro.
Viceversa, nel secolo di Marx il capitalismo è stato costretto a diminuire
il tempo della giornata di lavoro a causa degli squilibri ch'esso stesso
aveva provocato, e non perché da qualche altra parte esisteva un modo di
produzione alternativo che con tutti i mezzi cercava di farsi strada.
"Occorrono dei secoli -dice Marx-, affinché il "libero" lavoratore, in
seguito allo sviluppo del modo di produzione capitalistico, si adatti di
propria volontà, cioè affinché sia socialmente costretto a vendere per il
prezzo dei suoi normali mezzi di sussistenza tutto il periodo attivo della
propria vita..."(p.335). Ciò è vero, ma è singolare che qui Marx faccia
coincidere la necessità sociale di vendere sul mercato la propria
forza-lavoro con la libera volontà di farlo. E' forse mai esistito un
momento, nella storia del capitalismo, in cui la forza-lavoro si sia venduta
sul mercato soddisfatta di sé, cioè nella consapevolezza che in tal modo
essa avrebbe sicuramente e definitivamente superato i limiti del modo di
produzione pre-capitalistico? Limitandosi ad osservare la resistenza degli
operai al capitalismo, Marx non è mai riuscito ad accorgersi di quella del
mondo contadino.
"Non appena la classe operaia, frastornata dal fracasso della produzione,
cominciò in qualche maniera a riaversi, dette inizio alla sua
resistenza..."(pp.346-7).
"Frastornata dal fracasso della produzione"? In realtà il contadino era
diventato operaio dopo che per secoli aveva disperatamente lottato contro il
capitale. Sì, era "frastornato", ma per essere uscito pesantemente sconfitto
da quella guerra. Sconfitta dovuta -qui ha ragione Marx- al proprio
"isolamento": "il lavoratore isolato, il lavoratore quale "libero" venditore
della propria forza lavorativa, soccombe irrimediabilmente quando la
produzione capitalistica è giunta a un certo livello di maturità"(p.375).
Solo che tale "isolamento" -e questo Marx non l'avrebbe mai ammesso- non era
affatto una caratteristica della società agricola, ma una conseguenza del
capitalismo (nelle campagne).
Il fatto che, dopo essersi "riavuto", il contadino, in qualità di "operaio",
abbia ricominciato a lottare contro il capitale, esigendo almeno una
giornata lavorativa normale, ci aiuta senz'altro a capire lo scarso livello
di consapevolezza politica del "mondo" che aveva lasciato, ma non ci
autorizza a pensare che non vi fu alcuna forma di "resistenza" prima del
lavoro in fabbrica. Non foss'altro perché proprio questo tipo di
rivendicazione viene considerata, dallo stesso Marx, come il primo esempio
di lotta operaia contro il capitale.
Ciò che più stupisce però è che Marx, dopo aver fatto un elenco incredibile
di casi in cui il capitalismo mostra tutta la propria disumanità, considera
l'adozione di una giornata lavorativa normale (il Bill delle 10 ore del
movimento cartista) come una misura convincente per la risoluzione del
problema dello sfruttamento capitalistico, quando tale riduzione -a detta
dello stesso Marx- tornava utile proprio al capitalismo! Marx qui sembra
farsi portavoce non degli interessi del proletariato, ma della borghesia
imprenditoriale più progressista o più illuminata, la cui "scienza
economica" aveva superato i limiti individualistici dell'economia politica
classica (che portavano alla figura del "capitalista-vampiro").
Quale borghesia, infatti, non ha accettato il Bill delle 10 ore? Quella più
ottusa e rapace, quella che si è difesa riducendo i salari del 10%,
ripristinando il lavoro notturno, eliminando gli intervalli legali per i
pasti ecc., quella che ha provocato la disfatta del partito cartista,
mettendo al bando la classe operaia: in sostanza quella stessa borghesia che
alla fine ha dovuto adattarsi all'inevitabile, mettendosi "l'animo in
pace"(p.371).
La prima edizione del Capitale è stata scritta nel 1867. Marx può qui
costatare che dopo il 1860 "la forza di resistenza del capitale s'andava
gradualmente indebolendo, mentre allo stesso tempo la forza d'urto della
classe operaia s'ingradiva col numero degli alleati che s'era procurata
negli strati della società che non erano interessati direttamente"(p.371). E
così "si verificò un progresso relativamente rapido"(ib.).
Senza saperlo, Marx stava assistendo al passaggio del capitalismo dalla fase
concorrenziale a quella monopolistica e imperialistica. Purtroppo egli non
s'era reso conto come al miglioramento delle condizioni lavorative degli
operai inglesi, dopo il 1860, avesse fatto seguito il netto peggioramento
delle condizioni lavorative del sottoproletariato delle colonie inglesi. A
suo parere, il progresso era avvenuto perché il capitale aveva accettato i
propri limiti, permettendo alla lotta di classe di conseguire i suoi
obiettivi. Infatti, anche se negli Stati Uniti il movimento operaio stava
già lottando per una giornata lavorativa di 8 ore, il problema di far
passare una posizione di principio il proletariato europeo l'aveva risolto:
"è impossibile riuscire a compiere ulteriori avanzamenti verso la riforma
della società, se dapprima non viene limitata la giornata lavorativa e non
viene imposta obbligatoriamente l'osservanza della limitazione
stabilita"(parole
dell'ispettore di fabbrica inglese, R.J. Saunders, fatte proprie da Marx,
p.379).
In sé la considerazione era giusta. Il guaio però è che l'analisi di Marx,
in questo capitolo, si ferma qui, lasciando così credere che la transizione
al socialismo potesse avvenire in maniera graduale, di riforma in riforma.
Con ciò, in sostanza, non si riesce a intravedere la consapevolezza che le
riforme solo utili solo se aiutano gli operai ad acquisire quella maturità
politica sufficiente a capire che una riforma senza rivoluzione non fa che
perpetuare, razionalizzandola, la loro condizione di schiavitù salariata.
* * *
Marx conclude la III sezione, dedicata al plusvalore assoluto, sintetizzando
nel cap. IX i risultati fin qui raggiunti. L'argomento in questione è il
saggio e la massa del plusvalore. La determinazione del saggio del
plusvalore, partendo dal valore costante della forza-lavoro, nonché dalla
grandezza costante della giornata lavorativa, appare, nell'analisi di Marx,
come un'operazione matematica relativamente facile, ed in effetti lo è, se
si considera la forza-lavoro e la giornata lavorativa in una maniera
astratta.
In realtà, né l'una né l'altra sono costanti, ma sempre soggette a un
movimento reciprocamente opposto. Il capitalismo è come un letto di Procuste
che incessantemente cerca di diminuire il valore della forza-lavoro e di
allungare il tempo di lavoro per estorcere plusvalore. In tal senso,
stabilire con gli strumenti della matematica un saggio regolare del
plusvalore è quanto di più inutile si possa fare. Il calcolo razionale,
economico, può avere una qualche ragione scientifica solo in un contesto
sociale ove la produzione sia tenuta sotto controllo dagli stessi produttori
e consumatori.
Anche nei confronti della massa del plusvalore, Marx è costretto a
ipotizzare un valore medio della forza-lavoro, ovvero un operaio medio, che
nella realtà non esiste. Si può parlare di "valore medio" in riferimento a
una singola unità produttiva, ove gli operai fanno cose equivalenti. Ma
appena ci si allontana dalle mansioni prevalentemente manuali e ci si
avvicina a quelle intellettuali, ecco che il concetto di "valore medio"
perde di ogni significato, e non solo mettendo a confronto le due diverse
mansioni, ma anche all'interno della mansione intellettuale, ove la
possibilità, per un tecnico, di distinguersi da un collega è assai maggiore
di quella che può avere un operaio nei riguardi di altri operai. Persino tra
quest'ultimi la possibilità di distinguersi è strettamente correlata
all'applicazione di un ragionamento logico-funzionale a mansioni
standardizzate, cioè ripetitive, al fine di modificarle in maniera creativa.
La possibilità di modificare il valore delle cose, trasformandolo, è
prerogativa della forza-lavoro appunto in questo senso, che è poi quello che
frena il desiderio del capitalista di sostituire in toto l'operaio con la
macchina.
Ciò ovviamente non significa ch'esiste la possibilità, nell'ambito del
capitalismo, di pagare l'operaio o il tecnico per il plusvalore che produce.
La forza del capitalismo sta proprio nella capacità che ha di estorcere un
plusvalore maggiore sfruttando le doti intellettuali dei lavoratori.
Dunque è impossibile determinare il saggio medio del plusvalore nel lungo
periodo. Non solo per le ragioni viste sopra, ma anche perché, sotto il
capitalismo, nessun imprenditore può mai controllare al 100% le condizioni
del mercato. Un capitalista avrebbe tutto l'interesse ad avere valori
costanti che gli permettessero di realizzare un determinato profitto
costantemente, ma siccome sa quanto ciò sia relativo, egli preferisce, anche
in regime di monopolio, fidarsi dei risultati immediati, per i quali l'uso
di ogni mezzo gli pare giustificato. Temendo l'incostanza del plusvalore,
egli cerca di estorcerne, nel breve periodo, quanto più possibile.
Con la sua analisi economica, Marx ha offerto al capitalista l'illusione di
poter razionalizzare il processo produttivo, evitando sprechi e investimenti
sbagliati. Ma in tal modo egli non ha fatto che insegnare ai capitalisti
come sfruttare al meglio gli operai. A forza di parlare dei "limiti tecnici"
della produzione capitalistica, egli ha finito col proporre delle soluzioni
che gli stessi capitalisti non potevano trovare che alquanto vantaggiose.
In tal senso, le tre leggi ch'egli delinea nel cap. IX, e che qui non val
neppure la pena di esaminare, relativamente ai rapporti tra saggio e massa
del plusvalore, numero degli operai e grandezza della giornata lavorativa,
fanno certo più "comodo" al capitalista che all'operaio. Quale operaio,
infatti, potrà esultare sapendo che "la offerta di lavoro che il capitale
può estorcere diviene indipendente dalla offerta di operai"(p.384)? Quale
operaio potrà mai consolarsi sapendo che tale estorsione non può avvenire
oltre "certi limiti"? Non si fa forse un favore al capitalista spiegandogli
nel dettaglio il modo in cui può ovviare al peso di questi "limiti"? Non è
singolare che sia stato proprio Marx a mostrare ai capitalisti come per
ottenere maggiore plusvalore bisogna puntare di più sul capitale variabile e
meno su quello costante?
All'operaio, in sostanza, non resta che prendere atto di un'amara verità:
"non è più l'operaio che adopera i mezzi di produzione, ma sono i mezzi di
produzione che adoperano l'operaio. Piuttosto che essere consumati da lui
come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui
come fermento del loro processo vitale, e il processo vitale del capitale
non è altro che il suo movimento di valore che valorizza se stesso"(p.392).
A questo punto, come non rimpiangere quell'epoca in cui "le corporazioni
medievali cercavano d'impedire con la forza la trasformazione del maestro
artigiano in capitalista, limitando a un massimo assai ristretto il numero
dei lavoratori che il singolo maestro aveva il diritto di occupare"(p.390)?
Qui però Marx ha ragione: piuttosto che un capitalismo "strozzato" è meglio
un capitalismo "libero", anche perché il primo sarebbe destinato con
certezza ad essere superato dal secondo. Il fatto è che Marx, ogni volta che
mette a confronto capitalismo e feudalesimo, riporta sempre degli esempi a
favore del capitalismo. Questo accade perché egli intende riferirsi sempre
al "basso Medioevo", allorché le pressioni del capitalismo commerciale erano
già così forti da indurre, ad es., le autorità corporative a reagire con la
forza. Marx non vede in tale "reazione" il tentativo di salvare un ideale,
ma il tentativo di comprimere la libertà.
Marx non ha mai analizzato il momento di passaggio dall'alto al basso
Medioevo, cioè la transizione dall'economia di autoconsumo alla lotta di
tale economia contro quella basata sullo scambio. Non a caso egli considera
la nascita del capitalismo come una semplice conseguenza della possibilità,
da parte del possessore di denaro o di merci, di anticipare una somma minima
per la produzione, che superasse di molto il massimo medievale consentito. E
qui Marx si avvale della legge hegeliana, secondo cui "variazioni meramente
quantitative, giunte ad un certo grado, si riducono a differenze
qualitative"(p.390). Legge che, in ultima istanza, rifiuta di prendere in
considerazione proprio il valore della libertà.
Esiste forse qualche legge cieca della storia "che obbliga la classe operaia
ad effettuare un lavoro maggiore di quello che richiede la ristretta cerchia
dei suoi bisogni essenziali"(p.392)? Marx ovviamente risponderebbe di no, ma
perché allora considerare "ristretti" i "bisogni essenziali"? Forse grazie
al fatto che il capitalismo "supera in energia, smodatezza ed efficacia
tutti i precedenti sistemi di produzione basandosi sul diretto lavoro
forzato"(ib.), i suddetti bisogni si sono fatti meno "ristretti"?
IL PLUSVALORE RELATIVO
Il cap. X apre la IV sezione, invece di chiudere la III, come avrebbe
tranquillamente potuto fare senza danneggiare l'architettura del Capitale,
proprio perché questo capitolo ha la funzione d'introdurre il discorso sul
macchinismo e la rivoluzione tecnologica e industriale vera e propria.
Il plusvalore relativo è infatti quello estorto sulla base della
modificazione del processo lavorativo, in senso strutturale, e non più sulla
base del prolungamento della giornata lavorativa: cosa, quest'ultima, che
nell'analisi di Marx non implica un mutamento sostanziale nell'uso della
tecnologia tradizionale. "In un primo momento il capitale sottomette il
lavoro nelle condizioni tecniche, date dallo svolgimento storico, in cui lo
trova. Per questo non modifica subito il modo di produzione"(p.392).
Già abbiamo detto, a tale proposito, che, a nostro avviso, non si può
parlare di "capitalismo moderno" se non si presuppone un diverso modo di
usare la "figura tramandata storicamente" del processo lavorativo (p.399).
Il capitalismo non nasce solo come trasformazione del denaro in capitale, ma
anche, contemporaneamente, come trasformazione del lavoratore in uno
strumento "vivo" che deve innestarsi in altri strumenti tecnici lavorativi.
Per Marx invece la "rivoluzione nelle condizioni di produzione"(p.398),
ovvero l'aumento della forza produttiva del lavoro, avviene solo dopo che il
capitalista ha costatato l'impossibilità (a causa della legislazione
statale) di prolungare la giornata lavorativa.
Il sorgere del plusvalore relativo è in realtà una conseguenza delle lotte
operaie per la riduzione della giornata lavorativa; è cioè uno dei modi del
capitale di riprendersi quello che era stato costretto a cedere in
precedenza. Marx non la vede così, perché nella sua analisi il plusvalore
relativo è soltanto un altro modo che il capitalista ha di sfruttare
l'operaio. E' anzi il modo più intelligente, più razionale, poiché nel
mentre si potenzia la forza produttiva del lavoro, si diminuisce il valore
della forza-lavoro.
Il valore della forza-lavoro -Marx non si stanca mai di ripeterlo- è pari al
tempo di lavoro necessario che occorre per riprodurlo. "Supponendo che
un'ora di lavoro si esprime nella massa d'oro di mezzo scellino, ossia 6
pence, e che il valore della forza lavorativa è di 5 scellini per ogni
giorno, l'operaio deve lavorare 10 ore al giorno per rimpiazzare questo
valore giornaliero della sua forza lavorativa pagatagli dal capitale..."(p.396)
Quanto poco "valore" abbia la definizione di Marx circa il "valore" della
forza-lavoro, in un contesto capitalistico, è determinato, in questo caso,
anche dall'esempio astratto ch'egli ha proposto. In effetti, se la
forza-lavoro fosse pagata "in natura", sarebbe immediatamente evidente la
corrispondenza reale o illusoria tra il suo valore e il salario ricevuto.
Siccome però essa viene pagata in denaro, tale corrispondenza diventa
automaticamente molto relativa (anche prescindendo dal plusvalore non
retribuito).
L'uso del denaro come equivalente universale, imposto dalla classe
capitalistica, comporta una forma ulteriore di sfruttamento della manodopera
salariata. Nel senso che solo astrattamente noi possiamo ipotizzare che col
salario ricevuto la forza-lavoro è in grado di riprodursi. Concretamente
infatti il "salario reale" è cosa assai diversa da quello "nominale", poiché
il capitalista può sempre far leva, più o meno arbitrariamente, sul rincaro
dei prezzi dei beni di prima necessità. Dice Marx: "qualora sia determinato
il valore dei mezzi di sussistenza, è determinato anche il valore della
forza lavorativa"(p.396). Ebbene, se nel capitalismo c'è qualcosa di
altamente "indeterminato", questo è proprio il valore dei mezzi di
sussistenza.
Paradossalmente, neppure l'operaio sa quale sia l'esatto valore della sua
forza-lavoro, poiché non può fare riferimento, sul mercato, a una stabilità
di lunga durata dei prezzi che maggiormente gli interessano. Egli, in
sostanza, al momento della contrattazione, può decidere solo in maniera
approssimativa il salario da chiedere. E se è abituato a prendere bassi
salari, egli, adeguando la propria vita a quelli già ricevuti, si convincerà
che per sopravvivere non ha bisogno di un salario molto più elevato. Tale
convinzione ovviamente viene meno quando i prezzi lo portano ai limiti della
sopravvivenza.
Gli stessi prezzi rincarati, tuttavia, pur non portando un impiegato statale
verso la medesima soglia di povertà, indurranno quest'ultimo a chiedere
l'aumento dello stipendio, anche se, prima della richiesta, esso fosse già
il doppio del salario dell'operaio. Dunque, pur con due retribuzioni molto
diverse, sia l'operaio che l'impiegato lotterranno, a livello sindacale,
perché la propria forza-lavoro venga pagata al suo valore, cioè per non
scendere al di sotto che quello che entrambi, con due metri di misura
diversi, considerano il "minimo vitale".
Ecco perché una politica che si limita alla contrattazione sindacale lascia,
alla lunga, il tempo che trova. Non foss'altro che per una ragione: gli
aumenti retributivi che i sindacati riescono a strappare in favore di una
categoria sociale, vengono pagati con i bassi salari di un'altra categoria
sociale (ivi incluse quelle del Terzo mondo). Non solo, ma se gli operai
prendono dei salari da fame, mentre le altre categorie di lavoratori,
rispetto a quei salari, prendono degli stipendi discreti o almeno
sufficienti, sul mercato i prezzi si rapportano a questi stipendi e non a
quei salari, per cui la classe operaia non viene sfruttata solo dai
capitalisti, ma, indirettamente, anche dagli impiegati.
Per Marx, al contrario, "contruibuiscono al ribassamento del valore della
forza lavorativa l'aumento della forza produttiva e la conseguente riduzione
di prezzo delle merci nelle industrie che forniscono gli elementi materiali
del capitale costante, vale a dire i mezzi e i materiali di lavoro per la
produzione dei mezzi di sussistenza necessari"(p.399). Cioè a dire, il
valore della forza-lavoro diminuisce se calano i prezzi dei beni di prima
necessità e i prezzi dei mezzi produttivi che occorrono per questi beni.
Il ragionamento di Marx, di tipo matematico, ha valore solo in quanto
astratto. Se le merci calano di valore perché per produrle occorre meno
tempo di lavoro, è per lui una conseguenza logica che cali di valore anche
la merce per eccellenza che le produce: la forza-lavoro. Anche se il salario
"nominale" resta uguale, il capitalista realizza un maggiore plusvalore,
poiché è diminuito il salario "reale".
Qui non si discute il valore di questo ragionamento, ma semplicemente il
fatto che il valore della forza-lavoro diminuisca solo perché diminuisce il
valore delle merci di prima necessità e dei mezzi per produrle. Il realtà il
valore della forza-lavoro diminuisce anche perché, dopo essersi conquistato
un mercato più grande in virtù della riduzione dei prezzi di quelle merci
necessarie, il capitalista, ottenuto il monopolio, si sente libero di alzare
i prezzi delle merci (necessarie e facoltative) mantenendo inalterato il
salario nominale dell'operaio. Cioè egli cercherà di strappare il massimo
guadagno possibile facendo leva, in un secondo momento, proprio sul rincaro
dei prezzi, tenendo sotto pressione i salari e gli stipendi con i quali i
lavoratori devono comunque essere in grado di acquistare determinate merci.
Inoltre Marx, insistendo nell'equiparare il valore della forza-lavoro al
valore dei mezzi necessari alla sua riproduzione, non si rende conto che nel
capitalismo questa equiparazione, alla lunga, non ha alcun significato,
poiché in assoluto non può essere vero che "l'aumento della forza produttiva
non modifica affatto il valore della forza lavorativa nei rami della
produzione che non forniscono né mezzi di sussistenza necessari, né mezzi di
produzione adatti alla loro fabbricazione"(p.399).
L'uso di un'analisi astratta ha portato Marx a credere che nel capitalismo
l'imprenditore sia indotto a dare più peso alle cose necessarie alla
riproduzione della forza-lavoro, che è poi quella che gli permette di
realizzare il plusvalore. In realtà, una convinzione del genere il
capitalista può averla solo agli albori del capitalismo. Infatti, appena
egli si è impadronito, non tanto come individuo singolo ma come classe
sociale, dei mezzi che producono i beni di prima necessità, il suo
interesse, questa volta di individuo singolo (che può permettersi di fare
certi investimenti, anche con l'aiuto dello Stato), verte prevalentemente su
quelle merci che gli permettono il massimo valore aggiunto. Tanto è vero che
la produzione dei beni di prima necessità viene affidata alle aziende
minori, o addirittura trasferita dal capitalismo metropolitano verso la
periferia coloniale (a meno che un'azienda non sia così grande da gestire
rami produttivi di genere completamente diverso).
Di conseguenza l'operaio che produce merci non strettamente necessarie ma di
alto valore tecnologico (ad es. un automobile o un computer), pur avendo, in
proporzione al valore della sua merce, un salario assai ridotto, risulterà
comunque un "privilegiato" rispetto all'operaio che produce altri beni,
inclusi quelli cosiddetti "necessari" alla sua riproduzione, benché questo
operaio prenda un salario più proporzionato al valore dei beni prodotti.
Marx non poteva immaginare che il capitalismo, una volta diventato "sistema
dominante", sarebbe caduto in contraddizioni sempre più assurde; però poteva
evitare di perdere del tempo prezioso ad analizzare delle contraddizioni che
per essere risolte devono soltanto essere superate politicamente.
Il valore sociale di una merce, nel capitalismo maturo, non è più costituito
"dal tempo di lavoro necessario socialmente per la sua produzione"(p.402),
bensì dalla volontà del capitalista, che detiene il monopolio in un ramo
industriale, di trasformare in "sociale" il valore individuale di una
determinata merce. Per farlo egli si avvale della forza produttiva del
lavoro, la quale, potenziandosi o specializzandosi ulteriormente, può
ridurre i costi di una singola merce, poiché "il valore delle merci è in
ragione inversa della forza produttiva del lavoro"(p.404). Ma, una volta
realizzata tale riduzione, al capitalista non resta che innescare quei
meccanismi di persuasione (pubblicità ecc.) utili a far diventare un
prodotto individuale di costo medio o medio-basso un prodotto sociale a
costo elevato.
In regime di monopolio il costo effettivo di certe merci fabbricate con
tecnologie sofisticate è di molto inferiore a quello che l'imprenditore
realizza sul mercato. Perché il costo di queste merci si ribassi occorre che
sul mercato si affacci un altro monopolista di forza equivalente. Ma anche
in questo caso la nozione di "tempo lavorativo socialmente necessario"
continua a non avere senso, poiché la necessità si riduce qui a un confronto
di due colossi, non avendo nulla a che fare con le esigenze reali dei
consumatori.
Il capitalista quindi, nella fase monopolistica, non sente affatto
"l'obbligo di vendere la propria merce a un valore minore di quello
sociale..."(p.404), per realizzare (col maggior numero di merci vendute) un
profitto maggiore. La sua esigenza in realtà è un'altra: quella di diminuire
il valore individuale della merce aumentandone nel contempo, in maniera
arbitraria, finché gli è possibile, il suo valore sociale. Questo perché "il
valore assoluto della merce, considerato in se stesso, è indifferente al
capitalista che la produce. A lui non interessa altro che il plusvalore
racchiuso nella merce e che può realizzare con la vendita"(p.405).
Marx non ha saputo trarre le conseguenze più estreme da questa sua pur
giusta conclusione. Se al capitalista interessa unicamente il plusvalore,
egli cercherà di realizzarlo non solo nel momento della produzione, ma anche
in ogni altra fase del processo economico (dall'acquisizione della materia
prima alla distribuzione del prodotto finito).
Quindi, quel capitalista che, "intento unicamente alla produzione di valori
di scambio, cerca in continuazione di far scendere il valore di scambio
delle merci"(pp.405-6), sarebbe uno stupido se, dopo essersi in tal modo
creato uno spazio sul mercato, non alzasse il valore di scambio delle sue
merci. Infatti, dal momento in cui egli ha cercato d'imporsi al momento in
cui vi è riuscito, egli si sarà dotato di mezzi sufficienti per difendersi
dalle rivendicazioni operaie di maggiori salari.
Sarà stato lo stesso operaio che, non avendo reagito subito, politicamente,
al proprio sfruttamento, avrà dato al capitalista la possibilità di
potenziare economicamente le proprie risorse, parte delle quali potranno
essere spese per allestire un sistema poliziesco con cui tenere sotto
controllo il movimento operaio.
Ecco perché l'operaio, nel momento stesso in cui accetta una riconversione
tecnologica dei mezzi produttivi, dovrebbe esigere, nello stesso momento
(come minimo), un aumento sostanzioso del proprio salario, evitando di
lasciarsi intrappolare nel ricatto del capitale per il quale con gli aumenti
salariali non ci può essere ristrutturazione e senza questa c'è
disoccupazione. Di fronte al persistere di un ricatto del genere, l'operaio
dovrebbe reagire non sindacalmente ma politicamente.
A volte insomma si ha l'impressione che il capitalista descritto da Marx sia
un individuo tenuto a rispettare le regole di un proprio galateo (beninteso
"da vampiro"), ovvero che la "libera concorrenza" sia una legge che,
rispettando certe condizioni, potrebbe anche funzionare. In realtà, il
capitalista non si sente tenuto a rispettare altra regola che quella del
massimo profitto col minimo sforzo.
Con un ultimo esempio cercheremo di dimostrarlo. Il capitalista, sapendo
benissimo che, oltre un certo limite di tempo, la macchina, a causa del
logorio, non può più trasmettere lo stesso valore alla merce, non si pone
soltanto il problema di come sfruttare meglio la forza-lavoro nel momento
della produzione, ma si pone anche il problema di come sfruttarla meglio nel
momento della commercializzazione del prodotto. La macchina cioè deve essere
sfruttata al massimo anche per "ingannare" il mercato (il che può comportare
dei rischi sono se non si fruisce di una posizione monopolistica). Ingannare
il mercato significa appunto produrre falsi bisogni, beni che hanno solo un
valore effimero, apparente, o il cui valore di scambio è del tutto
sproporzionato al loro effettivo valore d'uso. Oggi questa è una strada non
meno praticata di quella che vede le aziende produrre beni di qualità,
limitando al massimo le rivendicazioni salariali.
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