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CARLO MARX - LA LEGGE DEL VALORE

RIVOLUZIONE INDUSTRIALE - KARL MARX E LA LEGGE SUL VALORE
 

TRE FASI NELLO SVILUPPO DELLA PRODUZIONE CAPITALISTICA (VI) Analizzando la produzione del plusvalore relativo, Marx delineò le tre fasi storiche fondamentali che hanno caratterizzato l'aumento della produttività del lavoro nel capitalismo e che quindi hanno portato all'aumento del plusvalore relativo: 1) cooperazione semplice, 2) manifattura, 3) macchine e grande industria. 1) La produzione capitalistica ha inizio nel momento in cui un solo capitalista occupa contemporaneamente, secondo un piano, più operai che fanno lavori simili, in uno stesso processo produttivo o in processi differenti ma connessi. è la cooperazione semplice. Questa forma di cooperazione del lavoro era conosciuta anche nelle società schiavistica e feudale. La differenza -dice Marx- stava, per il contenuto materiale, nelle dimensioni. Nel senso cioè che il grande volume di capitali impiegati permetteva di assumere nello stesso tempo un'ingente massa di forza-lavoro, di concentrare fortemente i mezzi produttivi e di realizzare un notevole volume di produzione. Mentre, per quanto riguarda il contenuto socioeconomico, la differenza stava nel ricorso alla manodopera salariata: il che presuppone la libertà giuridica del lavoratore. La cooperazione da un lato si basa sulla divisione del lavoro, dall'altro essa ne accentua le forme. Infatti il lavoro individuale di ogni operaio diventa una frazione minima del lavoro complessivo: è appunto così che il lavoro, divenendo sociale, aumenta la propria produttività. L'aumento dipende anche dal fatto che tra operai salariati si sviluppa l'emulazione, la competizione. Altri vantaggi della cooperazione (che, sotto il capitalismo, riguardano anzitutto l'imprenditore privato) sono: si risparmia sui mezzi produttivi impiegati in modo congiunto; si riduce il tempo di lavoro necessario per produrre una merce; si abbassa il valore della forza-lavoro, poiché il tempo dell'apprendistato è minimo. La cooperazione del lavoro è esistita anche nel comunismo primitivo, ma qui i mezzi produttivi appartenevano a tutti i lavoratori, per cui la cooperazione era libera e i suoi frutti erano equamente divisi. Marx non indica un periodo preciso in cui si svolge la cooperazione semplice capitalistica, perché, se l'avesse fatto, sarebbe stato facilmente contestato sul piano dell'analisi storica. Egli infatti contrappone tale cooperazione al lavoro isolato, individualistico, dell'artigiano, che in realtà non è mai esistito, essendo esso piuttosto il frutto di una società già fondamentalmente "borghese". Nel Basso Medioevo l'artigiano poteva anche essere relativamente isolato sul piano economico, in quanto, al massimo, egli poteva disporre di apprendisti e garzoni ma certo non di un'officina di grandi dimensioni. Tuttavia questo isolamento era il frutto di una "decisione comune", che serviva per impedire la concorrenza sleale e la formazione dei monopoli. L'artigiano medievale viveva il senso del collettivo sia in maniera professionale (oggi diremmo "sindacale"), attraverso le corporazioni di arti e mestieri, sia in maniera politica, partecipando attivamente alla vita della città, sia in maniera sociale, tenendosi costantemente in contatto con l'ambiente rurale. La corporazione difendeva l'artigiano persino sul piano militare. Parlando della cooperazione semplice, Marx ha tralasciato quella della manifattura sparsa, cioè del lavoro a domicilio che vari artigiani svolgevano su commissione di un commerciante che dava loro la materia prima ed acquistava il prodotto finito. 2) Diversamente dalla semplice cooperazione, la manifattura può essere datata in modo preciso, perché essa ha riguardato contemporaneamente molti Paesi euroccidentali: dalla metà circa del XVI sec. alla seconda metà del XVIII. Con questo termine s'intende una cooperazione capitalistica in un'officina di lavoratori di diverse specialità, legati da operazioni consecutive, nel fare un prodotto relativamente complesso, ma s'intende anche la cooperazione in un'officina di artigiani della stessa specialità le cui operazioni vengono suddivise fra diversi lavoratori. L'operaio si specializza in un'operazione definita, particolare, e si trasforma così in operaio parziale, impossibilitato a produrre in modo autonomo una merce, ma capace di affinare le proprie abilità. La differenza dalla cooperazione semplice sta nel fatto che ora gli strumenti di lavoro sono differenziati e perfezionati: il che permette una diminuzione di tempo nel passaggio da un'operazione all'altra. L'operaio però s'impoverisce intellettualmente, perché svolge mansioni noiose e ripetitive, si affatica di più. Compaiono i primi elementi tecnico-scientifici della produzione meccanizzata. Gli artigiani vanno in rovina, anche se non completamente, almeno fino a quando la produzione non sarà del tutto meccanizzata. In questo senso si potrebbe dire che il vero capitalismo, quello che rende irreversibile il modo di produzione capitalistico (se non interviene un fattore politico contrario), è solo quello manifatturiero, cioè quello che costringe definitivamente il lavoratore autonomo ad abbandonare i suoi mezzi produttivi per diventare operaio salariato all'interno di una fabbrica (qui s'intende la manifattura centralizzata, non quella sparsa, che è esistita anche in Italia). Finché non esiste questa forma di capitalismo, il futuro del capitalismo non è economicamente assicurato. Lo dimostra quanto è accaduto in Italia dopo il '500. Il paese più ricco del mondo, sul piano del capitalismo commerciale, è diventato, di fronte al capitalismo manifatturiero di altre nazioni europee, il più povero, a testimonianza che la semplice emancipazione dei servi della gleba non è una garanzia sufficiente per il successo del capitalismo: occorre anche che il lavoratore indipendente venga rovinato dalla concorrenza dei prodotti industriali e costretto a trasformarsi in salariato. Nessuno può contestare il fatto che dopo lo sviluppo della manifattura mai alcun Paese è tornato "indietro", neanche quelli che con le due guerre mondiali subirono delle spaventose devastazioni. Naturalmente non ci si può dimenticare di sottolineare che lo sviluppo della manifattura è andato di pari passo con quello della tecnologia. Il capitalismo ha potuto definitivamente vincere il feudalesimo solo perché seppe concentrare i suoi massimi sforzi nella realizzazione di potenti macchinari, il cui uso permetteva una produzione estremamente vantaggiosa. I Paesi est-europei che passarono dal capitalismo al socialismo, pur avendo a che fare immediatamente con la fase del capitalismo industriale avanzato, riuscirono a liberarsene perché non avevano sperimentato per secoli la fase del capitalismo commerciale e manifatturiero. La resistenza morale e materiale del feudalesimo era stata troppo forte. Inoltre essi, superando politicamente il capitalismo industriale, lo fecero coll'intenzione di andare "avanti", verso una società che avrebbe utilizzato la scienza e la tecnica occidentali, i capitali e i macchinari a vantaggio dell'intera collettività. Nessuno dei Paesi est-europei pensò di restare "feudale", anche perché la stessa formazione del capitalismo, in questi Paesi, era di per sé un segno che il feudalesimo, come sistema sociale, aveva esaurito il proprio ruolo storico. Oggi tuttavia ci si è resi conto, in questi Paesi, che la costruzione del socialismo non può assolutamente avvenire utilizzando le forme del capitalismo seppur svuotate del loro contenuto antagonistico (ciò che d'altra parte il Capitale suggeriva di fare). Ad es. il primato concesso all'industria (specie a quella pesante) ha portato tutte le società socialiste al fallimento. (La Cina ha saputo evitare questo rischio, ma solo perché, con il maoismo, aveva imposto il primato dell'agricoltura. Oggi l'illusione cinese, dopo il fallimento del maoismo, è quella di poter controllare politicamente uno sviluppo economico che in parte si vuole capitalistico. Ancora una volta l'obiettivo del socialismo democratico, in politica e in economia, resta lontano). In Occidente il crollo del capitalismo non è avvenuto perché il colonialismo e il neocolonialismo hanno saputo scongiurarlo, ma è solo questione di tempo. La minaccia del crollo del capitalismo occidentale sarà tanto più forte quanto più forte sarà l'emancipazione economica dei Paesi del Terzo Mondo. Un socialismo veramente democratico non può non impegnarsi attivamente per l'affermazione dell'agricoltura, per l'autogestione della produzione e per l'unificazione di città e campagna. * * * Se si guarda lo sviluppo del capitalismo, pensando, con soddisfazione, che in virtù delle contraddizioni scaturite da tale sviluppo, è potuto nascere il socialismo, si farà sempre un grave torto alle formazioni pre-capitalistiche, e soprattutto non ci si potrà mai mettere nella condizione giusta per poter capire il movimento storico della libertà umana, la quale, se vogliamo, non è mai stata e non potrà mai essere destinata -come vuole il marxismo- da una spontanea e naturale "necessità storico-materialistica" a scegliere un'alternativa piuttosto che un'altra. Così facendo il marxismo è ricaduto nella metafisica che diceva di combattere. Non si può giustificare la nascita del capitalismo col dire che la produzione di tipo artigianale del mondo feudale era di molto inferiore e che lo sviluppo tecnico si era ad un certo punto bloccato. I criteri per cui sia legittimo parlare di "sviluppo" non possono essere unicamente quelli "economici", in quanto non è per nulla scontato che uno sviluppo della produzione comporti anche un maggior benessere sociale, una migliore democrazia politica, una più sentita convivenza civile. L'economico va subordinato alla dimensione del "sociale". Il socialismo non si è mai nascosto i limiti dello sviluppo capitalistico, ovvero il fatto che le contraddizioni antagonistiche avrebbero prima o poi portato il capitalismo al suo superamento, ma tale costatazione, censurando l'apporto contestativo delle civiltà pre-capitalistiche nei confronti della società borghese, restò di fatto viziata da un pregiudizio di fondo, quello secondo cui l'anticapitalismo può essere condotto solo da quelle forze sociali che si sono completamente emancipate dalla cultura religiosa. Nel criticare il capitalismo, il socialismo marxista non ha mai cercato di capire e di apprezzare positivamente, tra le ragioni dell'anticapitalismo feudale, quelle che meritavano di confluire nell'alternativa socialista, senza per questo rischiare d'essere fagocitate o strumentalizzate. Se il socialismo avesse compreso le ragioni dei contadini, da tempo in Europa occidentale il capitalismo sarebbe stato superato. Naturalmente sarebbe altrettanto sciocco sostenere che lo sviluppo produttivo non deve esserci, se si vuole conservare l'uguaglianza sociale. L'uno e l'altra non sono di per sé antitetiche, anche se la storia ha dimostrato che là dove esiste un forte sviluppo produttivo esiste anche oppressione e ingiustizia. E' probabile (ed è forse una legge di natura) che la tutela dell'uguaglianza sociale comporti una limitazione dell'espressione individuale, nel senso che laddove vige il collettivismo, anche libero, le possibilità individuali di manifestare il proprio talento sono relativamente minori, proprio perché si deve anzitutto tener conto degli interessi collettivi. D'altra parte l'identità di un individuo può essere colta solo nell'ambito di un collettivo. L'ideale naturalmente sarebbe che l'espressione dell'individuo fosse in sintonia con quella di tutto il collettivo, che cioè le esigenze dell'uno non debbano essere scavalcate dalle esigenze dell'altro. Ma resta comunque molto difficile garantire un'intesa del genere quando la produttività è elevata. Resta comunque indubbio il fatto che in Europa occidentale si è definitivamente persa l'occasione di recuperare la memoria del pre-capitalismo. Ora non ci resta che sviluppare il desiderio di una transizione al socialismo, che sappia tener conto del pre-capitalismo ancora presente nei Paesi del Terzo Mondo. * * * La merce può essere il presupposto della genesi del capitalismo solo se la società in cui si produce il valore d'uso ha già attribuito al valore di scambio un'importanza maggiore di quella che dovrebbe avere, cioè se ha permesso che nel mondo agricolo le contraddizioni socio-economiche si acuissero, offrendo così al mercante -che s'introduce come un cuneo tra quelle contraddizioni- la possibilità di un'autonomia prima impensabile. Non chiarendo che il capitale può nascere dalla merce in virtù di ragioni culturali (quanto consapevoli è difficile stabilirlo), Marx fa risalire la genesi del capitalismo a fattori naturali del tutto spontanei. Marx in sostanza non ha delineato lo sviluppo storico del capitale ma solo quello fenomenologico, perché quello storico implica le varianti possibili della libertà umana. Quello fenomenologico invece dà per scontata l'evoluzione del processo, e attribuisce al soggetto un'importanza marginale. Marx è stato grande come economista e come filosofo dell'economia, ma uno storico dell'economia deve saper tener conto del "se ipotetico", cioè del come sarebbero potute andare a finire le cose se gli uomini avessero scelto una diversa strada. Per Marx, in sostanza, la differenza tra capitalismo e pre-capitalismo sta unicamente nel fatto che qui la merce è un prodotto "parziale", accanto al valore d'uso, che è dominante, mentre là è il prodotto principale, necessario, a cui il valore d'uso dipende completamente. La differenza è quantitativa, anche se ciò comporta, a lungo andare, una diversa qualità della vita. Ora, nessuno mette in dubbio che merce e denaro siano i presupposti del capitale, né il fatto che essi, di per sé, non possano presupporre il capitalismo, in quanto merce e denaro si trovano anche in forme sociali pre-borghesi. Qui però si mette in dubbio che il passaggio dalla merce e dal denaro al capitalismo (come modo produttivo) possa avvenire in maniera spontanea e naturale, come una logica conseguenza delle cose. Marx è chiaro nell'affermare che il capitalismo non potrebbe sussistere se l'operaio non fosse costretto a vendere la propria forza-lavoro come merce. Ma non è altrettanto chiaro quando delinea il passaggio dal contadino soggetto al servaggio o dall'artigiano soggetto a un perenne apprendistato alla figura sociale dell'operaio salariato. Si può pensare a un'evoluzione spontanea dallo schiavismo al servaggio, benché tale evoluzione potesse avvenire -e di fatto è avvenuta- solo in un periodo di crisi (in cui il mercato degli schiavi s'era ristretto), e benché il servaggio abbia caratterizzato la fine del mondo antico e l'inizio del feudalesimo. In fondo tra lo schiavo e il servo della gleba è esistito il colono. In ogni caso non ci poteva essere pacifica evoluzione dal feudalesimo al capitalismo: il passaggio implicava una rottura traumatica col passato comunitario, per quanto esso fosse caratterizzato dal servaggio. Se si accetta l'idea della pacifica evoluzione, allora si dovrebbe spiegare perché il capitalismo non si è evoluto dallo schiavismo, ovvero perché il capitalismo ha potuto evolversi dallo schiavismo solo nel Terzo Mondo, a partire dal 1492. Il capitalismo in realtà s'è formato, e non a caso, solo dopo il feudalesimo, perché tra schiavismo e feudalesimo s'era posto un nuovo elemento, che prima non esisteva: il cristianesimo. Solo in virtù del cristianesimo si poteva ripristinare in forme diverse l'antica schiavitù (e queste forme sono state tanto più diverse quanto più il cristianesimo, pur tradendo le sue origini, se n'era allontanato di meno). Solo illudendo il cittadino sul valore della sua libertà personale (giuridica e filosofica: si veda il cogito cartesiano), lo si poteva indurre ad accettare la schiavitù sociale salariata. Senza questo esplicito riferimento alla libertà personale (di cui il cristianesimo, pur con tutti i suoi tradimenti, è stato un grande cultore), non ci poteva essere la grande mistificazione del capitalismo. Ovviamente se ciò in Occidente è potuto accadere, il motivo risiede nel fatto che il cattolicesimo-romano aveva subìto un'involuzione molto profonda, più profonda di quella dell'ortodossia, ma non così profonda da accettare la sua morte naturale nel protestantesimo. Marx non ha mai offerto spiegazioni convincenti sul motivo per cui il capitalismo non è nato in epoca romana. Infatti, se il denaro a un certo punto deve trasformarsi in capitale, perché ciò non è avvenuto nel mondo antico? Per quale ragione in questo mondo si accumulava per spendere, mentre nel capitalismo si accumula per accumulare? Perché nel capitalismo appare come segno di potenza e di libertà ciò che nel mondo antico sarebbe apparso come segno di follia? Insomma, per quale motivo il mondo antico non ha potuto far nascere il capitalismo dalla schiavitù, cioè non ha potuto concedere allo schiavo la libertà personale trasformandolo in operaio salariato? Non stava forse accadendo questo nel momento in cui l'impero entrò in crisi? Cosa ha impedito di continuare l'esperimento del colonato? Forse l'intervento dei barbari? Ma non poteva proprio il colonato rendere più forte l'impero? Il fatto è che senza il cristianesimo non si può creare l'illusione della libertà. Il capitalismo è nato in virtù di una mistificazione: quella per cui si può essere liberi anche se non si possiede nulla. Questa mistificazione sarebbe stata impensabile nel mondo pagano. Per Marx invece il passaggio dallo schiavismo al capitalismo non è potuto avvenire a causa di semplici determinazioni quantitative. Infatti, per realizzare il capitalismo occorrono grandi capitali, ingenti mezzi produttivi, un certo numero di operai salariati ecc. Una delle caratteristiche più singolari del feudalesimo, che avrebbe meritato ben altra considerazione, fu che la piccola proprietà contadina poteva coesistere più o meno tranquillamente accanto alla grande azienda signorile basata sulle corvées dei servi della gleba. Questa coesistenza diventa tanto più difficile (ovviamente per la piccola proprietà) quanto più il signore feudale, pressato dalle esigenze borghesi che vanno emergendo, ha bisogno di ampliare i propri domini o di ristrutturarli in senso capitalistico. Il capitalismo infatti non può affermarsi finché non è stato completamente distrutta l'economia agricola del Medioevo. In seguito, a capitalismo realizzato, la piccola proprietà viene costantemente minacciata dalla grande. Se vogliamo, la grande proprietà capitalistica è stata una risposta efficace, seppur negativa, al persistere delle contraddizioni antagonistiche nell'economia feudale. Invece di risolvere quelle contraddizioni in modo politico e sociale, la borghesia ha cercato di superarle in modo economico e individuale. La nascita della borghesia è stata una conseguenza dell'incapacità del contadino di liberarsi dal giogo del servaggio. La borghesia cercò sul terreno economico-individuale quella emancipazione che, quand'era "contadina", non era riuscita ad ottenere, nella vita rurale, sul piano socio-politico. Perché non s'è formata la borghesia nell'Europa dell'est? 1) Perché qui l'antagonismo nel sistema feudale era meno forte (nello stesso periodo); 2) perché qui il cristianesimo aveva conservato un'idealità maggiore, per cui avrebbe tollerato di meno la nascita di rapporti borghesi. Il fatto che il capitalismo non sia nato nell'Europa dell'est sta appunto ad indicare la sua anomalia storica e nient'affatto la sua necessità. * * * Il marxismo ha addebitato ai mutamenti tecnologici la causa prima della genesi del capitalismo. In tal modo però esso non ha spiegato: 1) il motivo per cui avvengono "forti" mutamenti tecnologici (a differenza di molte civiltà, in cui ciò non avviene), ovvero il legame fra tali mutamenti e l'ideologia ad essi sottesa; 2) il motivo per cui da tali mutamenti si passa a una transizione così "radicale", ovvero il motivo per cui si cambia ideologia. Se si considera che, per certi versi, il mondo antico, rispetto a quello feudale, aveva conosciuto una tecnologia più sofisticata, non si spiega il motivo per cui non sia nato il capitalismo in epoca romana o greca. * * * Un'altra domanda a cui il marxismo non ha saputo dare una risposta convincente è questa: perché lo sviluppo della borghesia s'è verificato anzitutto in Italia? Risposte del marxismo: 1) perché qui le città romane non vennero completamente distrutte dai barbari, o almeno non lo furono come negli altri Paesi europei; 2) perché l'Italia godeva di un'ottima posizione geografica per i commerci con l'Oriente e il Nordafrica. Ora, queste due risposte non possono essere sufficienti a spiegare l'incredibile ritardo commerciale degli altri Paesi europei, né il fatto che questi Paesi divennero commerciali grazie soprattutto allo sviluppo del Protestantesimo, e neppure il fatto che la Spagna cattolica -situata anch'essa nel Mediterraneo- non abbia mai conosciuto (neppure dopo il 1492) un vero sviluppo capitalistico. La risposta quindi dev'essere un'altra. Ed è questa: in Italia, negli ultimi tre secoli del Basso Medioevo, s'è verificata la progressiva separazione dei cattolici dagli ortodossi (sanzionata definitivamente nel 1054). Ciò è stato determinato da un'involuzione etico-ideale del cattolicesimo e, in seguito, tale involuzione s'è approfondita. La chiesa romana, inevitabilmente, ha dovuto concedere più spazio alle forze sociali borghesi. Quando poi queste forze, con lo sviluppo comunale, pretesero maggiori poteri, la chiesa istituzionale intervenne con la Riforma gregoriana, che è stata appunto il tentativo di recuperare "politicamente" un potere "morale" perduto. Ormai tuttavia era tardi: la chiesa non riuscirà, sino al Rinascimento incluso, a impedire lo sviluppo borghese dell'Italia. Vi riuscirà solo con l'aiuto di una forza esterna: la Spagna, che non aveva mai conosciuto alcuno sviluppo borghese. L'Italia dunque aveva sostenuto il peso maggiore della rottura col mondo bizantino, era cioè stata la principale protagonista dell'affermazione della cattolicità occidentale, ma i frutti di questa rottura alla fine li ottennero altri Paesi, quelli nord-europei, cioè quelli più lontani dalle tradizioni bizantine. LA COOPERAZIONE (VII) La prevalenza che Marx ha sempre concesso alla quantità rispetto alla qualità (seguendo, in ciò, la lezione hegeliana) la si può riscontrare anche nel cap. XI, dedicato alla Cooperazione. Per Marx "il punto di partenza della produzione capitalistica è costituito, sotto l'aspetto storico e concettuale, dall'operare di un numero abbastanza elevato di operai che avviene nello stesso tempo e nel medesimo luogo (o, se si vuole, nel medesimo campo di lavoro), volto a produrre, sotto il comando di un medesimo capitalista, uno stesso genere di merci"(p.407), su scala quantitativamente molto elevata. Questo modo di spiegare la genesi del capitalismo può aver valore sul piano fenomenologico, ma non su quello ontologico. Come spiegazione storica e concettuale, essa resta senza dubbio insufficiente. Dire che "all'inizio la differenza [tra capitalismo e corporazioni medievali] è meramente quantitativa"(ib.), è come dire, implicitamente, che tra corporazione e capitalismo non vi è mai stata una vera rottura socio-economica, ma solo il passaggio obbligato da una formazione meno produttiva a una più produttiva. Difficilmente Marx avrebbe ammesso che pur in presenza delle suddette condizioni "formali" per il sorgere del capitalismo, la corporazione avrebbe potuto continuare a restare corporazione per secoli e secoli. Difficilmente egli avrebbe ammesso che quelle condizioni non sussistevano nelle corporazioni artigiane appunto perché la ragione culturale che supportava la corporazione era di tipo pre-capitalistico, cioè "voluta" e non "casuale". La fabbrica capitalistica non è nata semplicemente perché "l'officina del mastro non ha fatto che ingrandirsi"(ib.): anche là dove ciò fosse avvenuto, avrebbe dovuto per forza maturare, ad un certo punto, la consapevolezza che si stava costruendo qualcosa di radicalmente diverso dal tradizionale modo di produzione. La transizione dal feudalesimo al capitalismo è stata anzitutto il frutto di una libera scelta, più o meno consapevole, o comunque non più obbligata in un senso di quanto non lo fosse in un altro. La necessità storica dell'affermazione del capitalismo è stata, se vogliamo, una diretta conseguenza del fallimento di una possibile alternativa democratica alla crisi del sistema feudale. L'esigenza del capitalista di riunire in un medesimo campo di lavoro il maggior numero possibile di operai, riflette, già di per sé, l'esigenza di dare più peso alla quantità di ciò che si produce che non alla qualità di come lo si produce: il che implica l'assegnazione di un primato al valore di scambio rispetto a quello d'uso. Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale. L'interesse per il lavoro sociale medio, nell'ambito del capitalismo, implica la fine del lavoro creativo, di qualità, del singolo artigiano o dell'équipe di artigiani attorno a un medesimo manufatto, e la nascita del lavoro meccanizzato, di quantità. Anche nel Medioevo c'era l'esigenza di determinare il lavoro sociale medio: infatti si parlava di "giusto prezzo". Solo che tale esigenza non era finalizzata alla determinazione matematica del profitto. Il "giusto prezzo" era una garanzia soprattutto per il consumatore: una garanzia di tipo etico-giuridico, per quanto proprio la necessità di stabilire un "giusto prezzo" riflettesse, indirettamente, un abuso economico da parte dei produttori. Al di fuori di tale esigenza, la determinazione di una giornata lavorativa sociale media, nel feudalesimo, non avrebbe mai potuto portare a un'esatta determinazione del prezzo di una merce, per la semplice ragione che, quando vige il principio della qualità del lavoro, taluni oggetti, in realtà, non hanno prezzo, e lo scambio avviene su basi che non sono strettamente economiche. Nel senso che se si pone uno scambio di equivalenti, esso non va inteso in modo matematico (o finanziario), ma etico: due oggetti possono essere equivalenti anche se il loro valore monetario è diversissimo. E' la coscienza dei contraenti che decide l'equivalenza. La visione economicista di Marx potrebbe avere un qualche significato se si partisse dal presupposto che lo sviluppo storico non è altro che il continuo e necessario superamento di determinate condizioni negative di esistenza materiale. Ma anche in questo caso (che è già di per sé inverosimile) sarebbe tutto da dimostrare -e Marx naturalmente non lo fa- che ogni superamento, per quanto limitato sia, costituisca sempre una fase progressiva rispetto alla situazione precedente. Marx cade in un semplicismo disarmante quando fa chiaramente intendere che il capitalismo, proprio perché ha superato il feudalesimo, rappresenta la positività nei confronti della negatività. O, peggio ancora, quando lascia intendere che il socialismo rappresenta la positività nei confronti del capitalismo, proprio perché il futuro è sempre migliore del presente. Uno dei difetti principali dell'analisi economica di Marx è quello di voler applicare al sistema feudale dei criteri interpretativi che, al massimo, sono validi solo per il sistema borghese. Quando Marx afferma, p.es., che nel feudalesimo il saggio generale del plusvalore, a causa del modo individuale di lavorare, era impossibile determinarlo all'interno delle varie botteghe del mastro artigiano, in quanto s'imponevano di continuo, e necessariamente, delle differenze tra un operaio e un altro, nel medesimo lavoro, egli, così dicendo, fa astrazione completa dal "vero feudalesimo" e si crea, su misura, una sorta di para-feudalesimo che risulti di molto inferiore al capitalismo. Per Marx infatti la compensazione economica delle differenze individuali degli operai, si otteneva, nel feudalesimo, solo a livello dell'intera società, "non per il singolo mastro artigiano"(p.410). Questo svantaggio individuale è stato superato dall'imprenditore capitalista proprio con la sua volontà d'essere "borghese" sino in fondo, con estrema coerenza. Marx non sospetta neanche lontanamente che la suddetta compensazione a livello dell'intera società feudale potesse avere della ricadute positive sullo stesso mastro artigiano. Cioè che l'eventualità di lavorare in perdita, in un determinato caso, non pregiudicasse di per sé un feed-back positivo sulla propria attività, in termini non strettamente o non esclusivamente economici (si pensi p.es. alla sicurezza sociale). Per Marx il mastro artigiano concepisce se stesso in antitesi alle esigenze della società - proprio come il borghese sotto il capitalismo. La differenza sta nella scelta dei mezzi con cui affermare tale contrapposizione. Dice Marx a p.412: "l'economia nell'uso dei mezzi di produzione non proviene che dal loro consumo comune nel processo lavorativo di molte persone". Qui sta la differenza tra artigiano e capitalista. In realtà le cose non sono così semplici, altrimenti tale economia -si può pensare- si sarebbe potuta verificare anche nel feudalesimo, senza che per questo vi fosse il pericolo di far nascere il capitalismo. Un'altra, più profonda, ragione riposa invece nella volontà di ottenere un profitto economico individuale contro l'interesse sociale della collettività. Paradossalmente è proprio tale ragione a far sì che l'uso "comune" dei mezzi lavorativi sia "sociale" solo in apparenza, essendo esso, di fatto, costrittivo per la totalità dei lavoratori. Mentre, all'opposto, il carattere "individuale" del lavoro feudale -sostenuto da Marx- è in realtà solo presunto, in quanto la maggioranza dei lavoratori, pur soggetta alle regole del servaggio, vive un relativo senso della collettività, conformemente anche all'ideologia religiosa di tipo cattolico e soprattutto di tipo ortodosso. Fa specie che un attento economista come Marx non si sia accorto dell'esistenza di una forte socializzazione del lavoro anche nell'ambito del feudalesimo. E' singolare ch'egli non sia arrivato alla conclusione che se nel Medioevo il lavoro aveva un carattere meramente individuale, il capitalismo non avrebbe impiegato così tanti secoli prima di affermarsi. Non faremmo forse un torto all'intelligenza dell'uomo medievale, allorché lasciassimo intendere che gli occorrevano molti secoli prima di capire che un lavoro socialmente organizzato produce di più e meglio di un lavoro individuale? D'altra parte, se il problema di un maggior benessere socio-economico stava solo in questa migliore organizzazione produttiva, c'era forse bisogno di far nascere il capitalismo? Ma la cosa più stupefacente nell'analisi di Marx, la sua contraddizione più macroscopica sta proprio nel fatto che mentre da un lato egli afferma che la transizione dal feudalesimo al capitalismo era inevitabile, dall'altro sostiene che le condizioni di lavoro per l'operaio della fabbrica sono diventate, nel capitalismo, molto più disumane che nel feudalesimo. Infatti, "contrapponendosi per conto proprio le condizioni di lavoro all'operaio, anche la loro economia [leggi: nel senso di "risparmio"] si presenta come operazione particolare a lui assolutamente estranea..."(p.412). Cioè per Marx il capitalismo è nato a prescindere dalla volontà del lavoratore: esso è stato subìto, come prima lo erano il servaggio e lo schiavismo. Il vero protagonista attivo è stato solo il capitalista, il quale, a sua volta, non ha fatto che adeguarsi a un processo storico immanente. Volendo, l'analisi di Marx potrebbe essere considerata giusta se la si applicasse a quella fase di passaggio del capitalismo da commerciale a industriale. Dice infatti alle pp.416-17: "A causa della mancanza di tale cooperazione, nell'Ovest degli Stati Uniti si spreca ogni anno una grande massa di grano, e nelle parti delle Indie Orientali in cui il dominio inglese ha tolto di mezzo l'antica comunità, si spreca ogni anno una grande massa di cotone". Tuttavia, anche in questo caso bisognerebbe precisare che nella fase del capitalismo meramente commerciale, il modo di produzione dominante (nell'Europa occidentale, con tutte le sue colonie) restava quello feudale, poiché solo quando si realizza la rivoluzione industriale, il feudalesimo scompare definitivamente. Ciò significa che anche laddove s'era affermato il capitalismo commerciale, il passaggio a quello industriale non può mai essere considerato come "automatico". Il macchinismo e la cooperazione sono stati una risposta ai limiti del capitalismo commerciale, ma tali limiti potevano essere superati abolendo il servaggio e democratizzando la vita rurale, per quanto proprio la nascita del capitalismo commerciale fosse una diretta testimonianza che nel feudalesimo vi erano forze intenzionate a conservare lo status quo. In tutto ciò comunque la categoria della necessità può essere evocata soltanto dopo aver costatato che con la libertà gli uomini non sono stati capaci di trovare delle risposte adeguate ai loro problemi. * * * Per Marx la cooperazione di tipo capitalistico ha superato i limiti del capitalismo commerciale, perché ha saputo organizzare in maniera collettiva un lavoro ch'era individuale. Ora "molte persone prendono parte a un medesimo processo produttivo o a processi differenti ma connessi"(p.412). E all'interno di questa attività sorge ciò che, per Marx, nel feudalesimo non esisteva: l'emulazione. "Il solo contatto sociale -egli afferma- fa sorgere nella maggior parte dei lavori produttivi un'emulazione e uno specifico eccitamento degli spiriti animali... che accrescono la possibilità di rendimento individuale dei singoli..."(p.413). Per Marx questo è del tutto naturale! "Ciò deriva dal fatto che l'uomo è per natura un animale se non politico, come ritiene Aristotele, almeno sociale"(p.414). In altre parole, il capitalismo avrebbe superato il feudalesimo perché avrebbe saputo valorizzare meglio la natura sociale dell'uomo! Marx si lascia completamente suggestionare dall'alta produttività del capitalismo e non si chiede affatto quale prezzo ciò possa comportare sulla salute (sul benessere) psico-fisico del lavoratore. Anzi per lui proprio la cooperazione capitalistica ha permesso all'operaio di scoprire il meglio di sé, le proprie intrinseche potenzialità. Cioè l'operaio si sente in competizione con altri operai non perché la cultura individualistica del capitalista ve lo obbliga, ma perché nella cooperazione egli avverte l'insopprimibile bisogno di produrre di più e meglio. A quale cooperazione fa riferimento Marx? Come tutti sanno, agli albori del capitalismo gli operai distruggevano le fabbriche, quando lottavano contro gli imprenditori privati. Nel capitalismo maturo, invece, gli imprenditori devono di continuo incentivare gli operai per ottenere in cambio i frutti dell'emulazione. A parte questo, chi l'ha detto che nel feudalesimo non esisteva l'emulazione? Certamente non esisteva un'emulazione fondata sul profitto, né una in virtù della quale si poteva emarginare dalla vita sociale il collega di lavoro. L'emulazione era, se vogliamo, una forma di "gioco", una gara ludica in cui il vincitore, al massimo, poteva aspirare a una maggiore considerazione sociale. Pur di non voler ammettere l'inferiorità etico-sociale del capitalismo rispetto al feudalesimo, Marx è stato disposto a ritenere come "naturali" gli istinti "animali" di emulazione e di reciproca concorrenza (cosa che, peraltro, nessun animale possiede). Come se il problema di fondo, nella produzione degli oggetti, sia sempre quello di produrre di più in minor tempo! Come se questa necessità non faccia già parte di una cultura di tipo "borghese"! Ma di queste ambiguità il Capitale è pieno. Dice Marx ad es. a p.418: "La giornata lavorativa combinata produce una quantità di valori d'uso più grande...". Da un lato egli usa un concetto di tipo "capitalistico", come quello di "giornata lavorativa combinata" (per quanto -a ben guardare- tale concetto possa applicarsi anche al feudalesimo); dall'altro egli usa un concetto, "valore d'uso", che si applicherebbe meglio al feudalesimo che non al capitalismo, dove la cooperazione è finalizzata unicamente alla produzione di merci, le quali hanno un valore d'uso solo in quanto ne hanno uno di scambio. Prendiamo un altro esempio. "Nella cooperazione pianificata con altri -dice Marx nella stessa pagina- l'operaio si libera dei suoi limiti individuali ed esplica le proprietà della sua specie". Qui vi è la stessa ambiguità di prima, dovuta a un modo troppo astratto e ideologico di affrontare i processi storici. Da un lato Marx parla della "cooperazione pianificata" come di un successo del lavoratore (mentre -si sa- nel capitalismo essa è una forma della sua condanna); dall'altro contrappone un inesistente lavoratore isolato all'esperienza del collettivo operaio. Un altro esempio ancora. Dice Marx: "All'inizio il capitalista, quando il suo capitale ha raggiunto quella grandezza minima che sola può dare inizio alla produzione capitalistica..."(p.422). Qui la causa viene confusa con l'effetto. Da un lato Marx dice che per far nascere il capitalismo bisogna essere capitalisti; dall'altro però non spiega come si possa diventare capitalisti in un sistema pre-capitalistico. Infatti, se bastasse il possesso di un capitale minimo, il capitalismo sarebbe nato assai prima del XVI sec. e, in ogni caso, avrebbe potuto nascere anche fuori dell'Europa occidentale. Marx potrebbe avere ragione solo in un caso, allorché dimostra che il lavoro dell'artigiano o del contadino privato è, nel capitalismo, molto meno produttivo di quello dell'operaio di fabbrica. Ora però, a parte il fatto che nella distribuzione generale del reddito, la differenza tra l'una e l'altra categoria di lavoratore non capitalista, non è poi così rilevante, ciò di cui Marx non vuole rendersi conto è che il lavoratore isolato non rappresenta affatto l'alternativa al lavoratore collettivo, ma semmai il simbolo del processo di disgregazione di un modo di produzione obsoleto. L'artigiano isolato è il residuo di un sistema in via di dissoluzione. Dice Marx: "in qualità di persone indipendenti gli operai sono dei singoli, che stabiliscono un rapporto col capitale senza stabilire tra loro un rapporto sociale reciproco. Essi iniziano a cooperare solo nel processo lavorativo, ma in questo processo non sono più proprietari di se stessi"(pp.423-4). Questo modo di vedere le cose è decisamente limitato, poiché porta a dare per scontata la vittoria (nel momento iniziale) del capitalista, il quale non è altri che un singolo agiato contrapposto a singoli liberi ma nullatenenti. Situazione, questa, che non si è mai verificata da nessuna parte, proprio perché il processo di superamento del feudalesimo è stato molto più complesso di quel che non si creda, essendo entrati in gioco dei fattori (quale ad es. la libertà umana) che sfuggono ad un'analisi meramente economica. Marx non ha saputo resistere alla tentazione di attribuire al capitalismo, sul piano tecnico-scientifico, un progresso senza confronti, benché, nel contempo, non abbia potuto fare a meno di costatare che è soprattutto il capitalista ad appropriarsi dei benefici di tale progresso. Sull'altare della tecnologia Marx ha voluto sacrificare tutto quanto c'era di positivo nel sistema feudale. La grandissima alienazione sociale era un prezzo che l'operaio doveva pagare per il bene del progresso scientifico, per liberarsi "dei suoi limiti individuali ed esplicare le proprietà della sua specie"(p.418). La diversità tra Marx e gli economisti borghesi non sta in questa analisi, ma solo nell'accento ch'egli ha posto sul rapporto di sfruttamento tra capitale e lavoro. Infatti, l'economista borghese si limita ad affermare che, essendo il capitalismo un sistema produttivo molto potente, è bene che l'operaio svolga il suo ruolo senza opporre eccessive resistenze. Marx invece è dell'avviso che le forze produttive del capitalismo potrebbero meglio svilupparsi se si passasse al socialismo. Né l'uno né gli altri mettono in discussione il principio dell'incessante progresso scientifico e tecnologico, ovvero il rapporto di dominio e di sfruttamento che l'uomo moderno ha realizzato nei confronti della natura. Nella concezione "positivista" di Marx il socialismo non è altro che una tecnica per far funzionare meglio il potere dell'industria, risolvendo una volta per tutta la questione dei conflitti sociali. Cioè è una tecnica che può funzionare solo se si presume la fine dello sfruttamento proletario. Se gli operai potessero pianificare per conto proprio la loro produzione, otterrebbero -a suo giudizio- risultati assai più positivi di quelli che il capitalista consegue con la propria limitata pianificazione. Marx naturalmente è sempre stato convinto che il socialismo avrebbe superato il capitalismo in tutti gli indici produttivi. Nel Capitale gli è completamente estranea l'idea che nel socialismo si possano o addirittura si debbano abbassare alcuni indici strettamente economici (ad es. il PIL) a vantaggio di altri di carattere sociale (ad es. previdenza, assistenza ecc.). Oggi in realtà va decisamente superata l'idea che il socialismo possa essere la continuazione del capitalismo dal punto di vista della classe operaia. La tecnologia non è mai stata una cosa "neutrale", il cui effetto sull'ambiente dipende dalla "buona" o "cattiva" volontà di chi la usa. Essa è sempre stata il frutto (più o meno consapevole) di una determinata scelta culturale, di carattere etico e ontologico. Il mutamento radicale del sistema capitalistico comporterà inevitabilmente un uso diverso della tecnologia, ma anche, molto probabilmente, una diversa tecnologia, cioè non solo un uso più sociale, meno legato al profitto individuale, ma anche, in virtù di ciò, una nuova creazione tecnologica. Sotto questo aspetto non dovrebbe affatto preoccupare l'ipotesi di un futuro sistema socialista dotato di scarsa tecnologia (rispetto agli attuali parametri occidentali), ma dotato, in compenso, di un'alta democrazia, e quindi di una tecnologia adeguata alle esigenze dell'intera collettività. Il ridimensionamento delle pretese tecnico-scientifiche: questo sì che può essere un prezzo che la democrazia può tranquillamente pagare! * * * Solo alla fine del capitolo Marx ammette che la cooperazione non è una prerogativa del capitalismo, in quanto è sempre esistita. Ma lo fa semplicemente per ribadire la superiorità di quella capitalistica. In Marx le conoscenze delle civiltà non-capitalistiche sono sempre state approssimative, anche perché gli studi critici, allora, erano piuttosto scarsi. Tuttavia, in lui emerge un pregiudizio che vanifica un'obiettiva valutazione del passato. Anzitutto Marx ha sempre escluso a priori la possibilità dell'esistenza, nelle civiltà pre-capitalistiche, di una cooperazione sociale al di fuori dei rapporti di servaggio o di schiavitù. "Nel mondo antico, nel medioevo e nelle moderne colonie -dice a chiare lettere a p.425- l'uso sporadico della cooperazione a grande scala si basa su rapporti diretti di signoria e servitù, e in quasi tutti i casi si basa sulla schiavitù". La cooperazione, quindi, non era -secondo Marx- tra persone libere, come invece è accaduto -sempre a suo giudizio- nell'ambito del capitalismo. "La forma capitalistica presuppone sin dall'inizio l'operaio salariato libero, che vende al capitale la propria forza lavorativa"(ib.). Ovviamente per Marx non può esistere libertà né nel servaggio né nello schiavismo. E tuttavia per lui non ne esiste neppure nella tribù o comunità primitiva, laddove era in vigore la "proprietà comune delle condizioni di produzione"(ib.). Qui non c'è libertà perché c'è dipendenza, e là dove c'è dipendenza, non c'è cooperazione produttiva su larga scala, poiché il lavoratore non è libero di vendere al mercato la propria forza-lavoro, e quindi non è libero di muoversi come meglio crede (o a seconda delle esigenze del capitale). Marx ha sempre dato una grande importanza al concetto di libertà individuale. Non ci sarebbe capitalismo senza questa libertà. Tuttavia, nella sua analisi il concetto di libertà giuridica si confonde spesso con quello di libertà sociale. Di fatto il cittadino che chiede di lavorare in una fabbrica capitalistica (anche agli albori del capitalismo) è sempre stato libero giuridicamente, senza mai esserlo sul piano sociale. Le due forme di libertà, se coincidevano nel borghese, non coincidevano affatto nell'operaio. Marx non è che si nasconda questa evidenza. Solo che, quando parla dell'operaio libero, non specificando che la sua libertà era meramente giuridica, lascia intendere ch'egli avesse accettato volontariamente, cioè in piena libertà, un rapporto lavorativo di tipo salariato: il che non è mai successo. Perché questa ambiguità? Per la semplice ragione che Marx non vuole ammettere l'idea che in una società non-capitalistica l'uomo potesse sentirsi giuridicamente dipendente e socialmente libero (o comunque più libero del lavoratore salariato). Per Marx l'uomo pre-capitalistico era socialmente schiavo o servo, e quindi totalmente non-libero. Non era libero neppure l'uomo primitivo che non aveva "ancora strappato il cordone ombelicale che lo legava alla tribù o alla comunità"(ib.). La libertà, per Marx, sta nella contrapposizione del singolo alla comunità. In tal senso la cooperazione capitalistica è la migliore forma di cooperazione, perché garantisce alla libertà individuale il massimo di possibilità espressive. Il libero contadino o l'artigiano indipendente perdono la loro battaglia nei confronti della cooperazione capitalistica, perché si rendono conto ch'essa è più forte, più potente sul piano produttivo. A Marx non interessa assolutamente esaminare il tipo di resistenza "etica" che la società feudale (meno individualistica di quella borghese) ha messo in atto nei confronti del capitalismo. L'opposizione esaminata da Marx era solo quella di tipo "politico" e ritenuta sempre di carattere "regressivo". Marx non avrebbe mai accettato l'idea di considerare il conflitto tra Medioevo ed Epoca Moderna come il conflitto tra un modo di produzione "sociale" (benché anch'esso antagonistico) e un modo di produzione "individuale", in cui la cooperazione era utilizzata dal capitalista solo come mezzo per arricchirsi meglio. Il pregiudizio ha portato Marx sia a sottovalutare le ragioni culturali sottese alla genesi del capitalismo, sia a formulare delle ragioni di tipo "psicologico" che non possono trovare un vero riscontro nella storia dei fatti. "Da un lato -egli afferma- il modo di produzione capitalistico appare come una necessità storica per la trasformazione del processo lavorativo in processo sociale" [trasformazione quindi avvenuta -com'egli stesso più sopra dice- "spontaneamente e in maniera naturale"]; "d'altro lato questa forma sociale del processo lavorativo appare come un metodo usato dal capitale per sfruttare con maggior profitto quello stesso processo tramite l'aumento della sua forza produttiva"(p.426). Da un lato quindi Marx ragiona come un economista borghese, che non si chiede il perché delle cose ma solo il come; dall'altro egli ragiona come un economista socialista, che vede nel come una palese ingiustizia e propone un modo per risolverla. Paradossalmente a Marx fa difetto proprio la nozione di libertà individuale. Estrapolando il singolo dal contesto sociale, egli ha creduto di renderlo più libero; invece è accaduto che il singolo si sia lasciato dominare da una cieca fatalità storica, nell'illusione che fra le leggi di questa necessità e le proprie soggettive non vi fosse una vera contraddizione. LA MANIFATTURA (VIII) Parlando della manifattura (nel cap XII), cioè di quel tipo di cooperazione che è durato "all'incirca dalla metà del secolo XVI fino all'ultimo terzo del XVIII"(p.428), Marx non ha dubbi nell'affermare ch'essa consiste in un "evolversi dal lavoro artigianale"(p.430), per cui, rispetto a questo, essa rappresenta un grado superiore di organizzazione del lavoro. Infatti, "da un lato -dice Marx- essa ha per punto di partenza la combinazione di mestieri di diverso genere, autonomi, che son ridotti a dipendenza e unilateralità fino al punto da non essere ormai che operazioni parziali e complementari del processo di produzione di un'unica e medesima merce"(pp.430-31). Nel senso che con la manifattura singoli e diversi mestieri artigianali, fatti in autonomia, divengono un semplice anello, cioè un'operazione particolare, di una catena di lavoro sotto la direzione di un unico capitalista in un medesimo luogo: l'officina. "D'altro lato -prosegue Marx- essa [manifattura] parte dalla cooperazione di artigiani di ugual genere, decompone uno stesso mestiere individuale nelle sue diverse operazioni particolari, isolandole e rendendole indipendenti fino al punto che ognuna di esse diviene funzione esclusiva d'un particolare operaio"(p.431). Nel senso che un singolo artigiano non svolge più tutte le operazioni necessarie in tempi diversi, ma ne svolge una sola, mentre nello stesso tempo un'altra operazione viene svolta da un altro artigiano. Nel primo caso si uniscono artigiani divisi, che lavorano separatamente; nel secondo si divide un mestiere "unito", in sé completo, appartenente a un unico lavoratore. Marx è contrario al lavoro individuale dell'artigiano: lo fa capire chiaramente. Nella manifattura l'artigiano perde, "insieme all'abitudine, anche la capacità di esercitare il suo antico mestiere in tutta la sua estensione. Ma d'altra parte la sua attività unilaterale riceve ora in questa sfera d'azione più ristretta [cioè nella manifattura] la forma più idonea al fine del proprio lavoro"(p.429). "La manifattura infatti genera il virtuosismo dell'operaio parziale..."(p.432), oltre al fatto che la merce prodotta è il frutto di un lavoro sociale, in quanto nessun operaio singolo può produrla. Su questo tuttavia, nel § 5 Marx dirà esattamente il contrario, com'è d'altra parte nel suo stile, in virtù del quale egli esalta il capitalismo nel momento in cui parla del feudalesimo e lo contesta quando deve giustificare il socialismo. La manifattura -dirà alle pp.461-62- intacca "alle radici la forza lavorativa individuale. Essa deforma l'operaio in qualcosa di mostruoso, promuovendone come in una serra le abilità di dettaglio, tramite la soppressione d'una quantità di disposizioni e d'istinti produttivi... Non soltanto vengono suddivisi tra vari individui gli specifici lavori parziali, ma viene diviso l'individuo stesso, lo si trasforma in motore automatico d'un lavoro parziale". * * * Spesso Marx pone il lettore di fronte a un tipo di artigianato che in realtà non è mai esistito. Non a caso ad un certo punto egli mette tra parentesi l'eventualità che l'artigiano lavori "con l'aiuto di uno o due garzoni"(p.430). Cerchiamo di spiegarci. Nel Medioevo lo sviluppo autonomo dell'artigianato, come professione a sé, è stato il frutto di una progressiva decadenza della vita rurale, troppo soggetta agli abusi del servaggio. In origine era lo stesso contadino (uomo o donna che fosse) a svolgere il mestiere dell'artigiano, insieme a quello del contadino e dell'allevatore. Se esisteva un artigianato separato dall'agricoltura, esso non lo era definitivamente, o comunque non si poneva in antitesi all'agricoltura. Per cui non ha molto senso sostenere -come vuole Marx- che "in origine l'operaio vende al capitalista la propria forza lavorativa in quanto gli mancano i mezzi materiali per la produzione d'una merce"(p.462). Tale mancanza non è casuale, ma voluta dallo stesso sviluppo del capitalismo. I mezzi li avrebbe (quelli tradizionali), ma il capitalismo glieli toglie. Marx non considera, in questo capitolo, la forma più semplice di artigianato, ma solo la sua specializzazione individuale. Per lui la divisione del lavoro che si ottiene con la manifattura è in grado di offrire il prodotto sociale di un'équipe di artigiani, in luogo del prodotto individuale offerto dall'unità del lavoro del singolo artigiano. Cioè a dire, mentre con la manifattura la socializzazione della merce è garantita dalla divisione sistematica del lavoro, con l'artigianato invece l'unità del lavoro riusciva a garantire solo un prodotto individuale. Marx, in altre parole, non vede la socializzazione del lavoro nel Medioevo. Per lui tutti i prodotti pre-capitalistici sono o individuali (del singolo artigiano, più o meno capace) o insignificanti (perché valori d'uso che si dissolvono nell'autoconsumo). Il suo ragionamento, per semplificare, è di questo tipo: l'artigiano ha fatto bene a staccarsi dal contadino (come la città dalla campagna), ma ora deve rassegnarsi a trasformarsi in operaio salariato, perché sul mercato esiste un capitalista in grado di comprargli la sua forza-lavoro. La socializzazione dell'operaio viene vista positivamente da Marx, benché essa, sin dall'inizio, sia in funzione dell'appropriazione privata del profitto. A Marx sfugge completamente il significato di quel periodo storico in cui l'artigianato non era ancora staccato dall'agricoltura o, se lo era, continuava però a dipendere dalla vita rurale, mentre in questa dipendenza (che pur gli artigiani, col tempo, cercheranno di ridurre al minimo) si realizzava quella forma di socializzazione del lavoro che non aveva bisogno, per definirsi tale, di "rinchiudersi" in un'officina ove le mansioni erano completamente parcellizzate. Non era certo un puro e semplice "spazio fisico" a determinare il carattere di socializzazione del lavoro. (E non si dica che Marx non è interessato a questo perché il suo obiettivo è quello di descrivere la nascita del capitalismo: tantissime volte -incluso questo capitolo- egli fa digressioni sull'epoca classica, greco-romana, o sulla comunità primitiva dell'India). A parte ciò, l'artigiano non ha mai lavorato da solo, ma sempre in una corporazione di più artigiani e garzoni, per cui il suo lavoro non era meno "sociale" di quello dell'operaio salariato. Questo artigiano ha forse combattuto contro il capitalismo con meno convinzione del contadino, ma certamente non l'ha fatto in maniera individuale. L'artigiano isolato, descritto da Marx, è un'immagine fittizia, usata per dimostrare la superiorità della manifattura (superiorità, peraltro, che Marx misura solo in termini strettamente economici, tralasciando volutamente quelli etico-sociali). Marx non è preoccupato più di tanto quando costata, con occhi da "socialista", che la superiorità produttiva della manifattura è stata ottenuta a prezzo di una profonda alienazione del lavoratore. "Un operaio, effettuando vita natural durante sempre l'unica e medesima operazione semplice, trasforma tutto il proprio corpo nello strumento, automatico e unilaterale, di tale operazione..."(p.431). In questo starebbe forse il suo "virtuosismo"? E' forse un vantaggio dell'operaio quello di dover "impiegare per il suo lavoro solamente il tempo necessario"(p.440)? E' forse un suo guadagno dover lavorare con "continuità...uniformità...regolarità...ordine...intensità..." (ib.)? Si vive forse per lavorare? Oppure Marx vuole sostenere che lo sviluppo della manifattura, portando inevitabilmente alla nascita del macchinismo e della grande industria, ha favorito la fine della fatica fisica, in quanto ha praticamente reso inutile l'intervento manuale dell'operaio? E' forse vero questo e, se lo fosse, non sarebbe ancor più insensato sostenere che il lavoro serve per realizzare la personalità umana? In realtà la manifattura avrebbe potuto avere la sua ragion d'essere se fosse stata una scelta consapevole e democratica dell'intera collettività, ovviamente per produrre di più in un tempo minore, ma a seconda delle necessità del momento. Una scelta quindi che avrebbe dovuto essere tenuta sotto controllo collettivo, col quale si sarebbe dovuta garantire al singolo operaio l'esigenza della reversibilità, cioè la possibilità in ogni momento di tornare al modo tradizionale di produzione. La manifattura avrebbe avuto senso se fosse stata considerata come parte integrante di un sistema produttivo di tipo "socialista". Viceversa, per Marx la nascita della manifattura è parte di un processo storico inevitabile, come nella triade hegeliana l'antitesi usciva da una tesi "formalizzata", che per potersi veramente affermare aveva prima bisogno di negarsi. "Questo processo di scissione -dice a p.463- ha inizio nella cooperazione semplice, in cui il capitalista rappresenta di fronte ai singoli operai l'unità e la volontà del corpo lavorativo sociale". Marx, in altre parole, non si chiede come nasce il capitalista, ne costata semplicemente l'esistenza, nonché la sua indiscussa superiorità rispetto alle figure sociali del passato. E' strano ch'egli non si renda conto che la necessità di "trasformare il lavoro parziale nel mestiere a vita d'un uomo"(p.432) -come accadeva nella caste, nelle corporazioni medievali ecc.- rispecchiava una forma di società in cui le differenze di classe erano già notevoli. Se la manifattura può essere considerata un'"evoluzione" dell'artigianato, non può certo essere considerata come un'alternativa positiva all'"involuzione" dell'artigianato verso il privilegio di classe o di casta o di corporazione. Al contrario, la manifattura può essere considerata come una risposta negativa alla mancata soluzione della crisi dell'artigianato. * * * Il Marx del Capitale dà continuamente per scontato che un'appropriazione adeguata del significato della vita dipenda anzitutto e soprattutto da un aumento della produttività, ovvero dal benessere di tipo materiale. Sono relativamente pochi i momenti in cui egli parla come un economista "socialista" e, dove lo fa, le conclusioni politiche sono sempre di scarso rilievo. Prendiamo ad es. le pp.447-48. Marx sa bene che nella manifattura "cala il valore della forza lavorativa", in quanto si risparmiano le spese d'apprendistato dell'operaio, essendo sufficiente anche un operaio senza abilità. Naturalmente chi trae i maggiori vantaggi da tutto ciò è il capitalista. Ebbene, l'analisi di Marx, in sostanza, si ferma qui. Al massimo egli invoca la necessità della rivoluzione politica, al fine di sostituire l'imprenditore privato con uno collettivo, ma non arriva mai a chiedersi se per caso il precedente modo di produzione non avesse degli aspetti positivi da non meritare d'essere completamente distrutti dal capitalismo. Marx giustifica questo suo profondo scetticismo verso i modi di produzione pre-capitalistici semplicemente perché li ritiene responsabili della nascita del capitalismo: non in senso etico (poiché Marx esclude il ruolo della libertà nella transizione da una formazione all'altra), ma in senso economico, in quanto il "passato" è necessariamente responsabile del "presente". Dunque, se il capitalismo esiste è perché non si è stati capaci d'impedirne la nascita, e quindi esso è necessario. Per capire questa tesi di Marx basta leggersi il § 4 di questo capitolo, laddove egli parla, con grande forza sintetica e dialettica, della differenza tra la divisione del lavoro nella manifattura e quella nella società. * * * Quando scrive il Capitale, Marx ha una conoscenza molto approssimata della comunità primitiva, non solo perché gli studi di allora erano scarsi, ma anche perché lo stesso Marx non vi aveva attribuito un'importanza particolare ai fini della stesura della sua opera. Engels si sentirà in dovere, nella terza edizione del Capitale, di sottolineare in una nota questa lacuna, anche se neppure egli saprà trarne le dovute conseguenze. Queste conseguenze sono importanti perché, nella lotta politica contro il capitalismo -se non si tiene in dovuta considerazione il potenziale contestativo delle forze pre-capitalistiche- si rischia di assumere degli atteggiamenti settari, ideologici, che le stesse forze del capitale possono facilmente neutralizzare. Oggi naturalmente è impossibile recuperare queste forze nell'ambito dell'Occidente industrializzato. Tutta l'agricoltura è stata intaccata dal capitalismo. Il pregiudizio di Marx (che è in fondo di derivazione hegeliana) nei confronti di queste forze, lo si nota anche nel suo modo di considerare la tribù come una conseguenza logica, naturale, dello sviluppo della famiglia. Il determinismo con cui Marx considera "necessarie" tutte le formazioni economiche della società, ognuna delle quali costituisce un progresso rispetto all'epoca che l'ha preceduta e un limite rispetto a quella che le subentrerà, risente in modo palese dell'influenza dell'hegelismo. Lo stesso Marx d'altra parte non ha mai nascosto che quanto al "metodo di lavoro" egli si serviva a piene mani della Logica di Hegel. Marx ha ragione quando afferma che nelle comunità primitive la divisione del lavoro aveva "un fondamento meramente fisiologico"(p.449), essendo basata sulle "differenze di sesso e d'età"(ib.). Ed ha anche ragione quando afferma che, in origine, lo scambio dei prodotti avveniva tra famiglie, tribù ecc., reciprocamente indipendenti, e non tra persone private. "L'ambiente naturale offre alle diverse comunità diversi mezzi di produzione e diversi mezzi di sussistenza"(ib.). Tuttavia, egli ha torto quando sostiene che questa economia "spontanea e naturale"(ib.) era destinata a evolvere, in maniera altrettanto "spontanea e naturale", verso il capitalismo. Solo un economista che non si preoccupa di conoscere motivazioni culturali sottese ai processi socio-economici può sostenere un determinismo così assoluto. In realtà, è difficile pensare che una comunità antica, basata sull'autoconsumo, giungesse, ad un certo punto, nel commercio con altre comunità, a negare la propria autonomia per affermare l'interdipendenza "d'una produzione generale sociale"(ib.) tra diverse comunità. Il passaggio dal prodotto alla merce non è affatto spontaneo, come non è affatto naturale che dalla divisione fisiologica del lavoro si passi alla progressiva decomposizione degli "organi particolari"(ib.) della singola comunità. Certo, se la comunità fosse composta da individui singoli, se la tribù non fosse che la somma di tante famiglie, sarebbe inevitabile la disgregazione degli elementi singoli dopo aver affermato la divisione del lavoro. Il fatto è però che nella comunità antica, molto più forte della divisione del lavoro, era il legame culturale (assiologico, normativo) che teneva uniti i suoi vari componenti. Difficilmente si sarebbe permesso che una semplice attività economica potesse stravolgere "spontaneamente" i principî fondamentali su cui si reggeva l'intero edificio comunitario. E' dunque assurdo pensare che "la produzione e la circolazione delle merci [siano] il presupposto generale del modo di produzione capitalistico"(p.451). E' vero anzi il contrario, che senza "spirito borghese" non c'è produzione di merci, ma solo scambio di prodotti. Ecco perché dobbiamo necessariamente credere che in origine lo scambio dei prodotti non andasse mai oltre un certo livello: non tanto perché le comunità erano limitate sul piano economico, quanto piuttosto perché esse erano gelose della loro autonomia sul piano sociale e culturale (anche se la cultura non era scritta). In questo senso la separazione tra città e campagna va considerata come una delle più grandi disgrazie dell'umanità, a cui è difficile pensare che le varie comunità siano giunte -come invece vuole Marx- a causa di un semplice aumento della densità della loro popolazione (p.450). * * * Per Marx il passaggio dalla società pre-capitalistica a quella capitalistica (manifatturiera) non è che il passaggio da un modo di produzione individuale e indipendente a un modo di produzione sociale e dipendente. "La divisione del lavoro nella manifattura presuppone la concentrazione dei mezzi di produzione nelle mani di un unico capitalista, la divisione del lavoro nelle società [leggi: pre-capitalistiche] presuppone la dispersione dei mezzi di produzione tra molti produttori di merci che sono reciprocamente indipendenti"(p.454). Paradossalmente, seguendo con coerenza questo ragionamento, si dovrebbe finire col sostenere che la produzione di merci va intesa in senso lato e, in questo senso, essa va considerata presente anche in civiltà non-capitalistiche: tant'è che il capitalismo si forma solo se la divisione del lavoro si trova "già a un certo grado di maturità"(p.451). Per dimostrare la tesi dell'"evoluzione", in antitesi a quella del "salto" o della "rottura", tra una formazione economica e l'altra, Marx finisce col delineare una storia dell'umanità che da uno stadio primitivo di capitalismo è passata a forme di capitalismo sempre più sofisticate. Il "pre-capitalismo" non sarebbe che un aspetto rozzo e primitivo della manifattura, con cui inizia il capitalismo vero e proprio. In questo quadro il Medioevo, dopo il "capitalismo commerciale" del mondo greco-romano, rappresenta una sorta di gigantesco "buco nero", meritevole d'essere analizzato solo in quella parte che tratta dello sviluppo comunale e delle corporazioni. Ma questo per dire, ancora una volta, che la manifattura, grazie alla "rivoluzione degli strumenti di lavoro"(p.467), ha saputo superare la fissità dei mestieri tradizionali delle corporazioni, i quali, pur essendo basati sulla divisione del lavoro, offrivano sul piano produttivo risultati assai modesti. Marx può avere ogni ragione quando cerca di legittimare la transizione dal capitalismo commerciale a quello industriale, ma non ne ha alcuna quando cerca di legittimare la transizione dalle società pre-capitalistiche a quella capitalistica. Anzi, a ben guardare, la sua stessa immagine di "capitalismo commerciale" andrebbe rivista, poiché sia questa che quella delle società pre-capitalistiche sembrano essere delineate unicamente allo scopo di giustificare la transizione al capitalismo e, di conseguenza, da questo al socialismo, il quale altro non è -nell'ottica marxiana- che un sistema sociale (al pari del capitalismo) e indipendente (nel senso che il lavoro dipende solo da se stesso e non dal capitale). * * * Anche quando parla della comunità antica, Marx (che ha in mente soltanto quella "indiana" delle caste) non fa che giustificare il superamento di questa organizzazione da parte di un'altra di tipo capitalistico. Nel Capitale Marx non riesce assolutamente a equiparare (simbolicamente s'intende!) il futuro socialismo col socialismo delle comunità antiche, pre-schiavistiche. Per lui la comunità antica ("indiana", nella fattispecie) era sì caratterizzata dalla socializzazione del lavoro, ma in maniera costrittiva, cioè esisteva sì la "proprietà comune della terra", una "diretta connessione tra agricoltura e mestiere artigiano", nonché "una stabile divisione del lavoro"(p.456), ma anche un forte autoritarismo statale. Al cospetto di questa forma di autoritarismo Marx ha sempre preferito l'affermazione del singolo, che recide il "cordone ombelicale" che lo lega alla comunità. Delineato il quadro in questi termini, Marx purtroppo si è precluso la possibilità di apprezzare adeguatamente gli "organismi di produzione autosufficienti"(p.457), ovvero il fatto che in tali comunità "la gran massa dei prodotti sorge per l'appagamento degli immediati bisogni della comunità..."(ib.). Per Marx è limitativo il fatto che solo "l'eccedenza dei prodotti"(ib.) si trasformi in merce. In queste condizioni la manifattura non può sorgere non tanto perché lo impediscono la cultura, i valori, lo stile di vita, quanto perché il mercato è troppo ristretto. Si tratta di una causa meramente estrinseca, quantitativa, incidentale. Non ci può essere manifattura che là dove lo scambio delle merci ha raggiunto un certo livello di estensione. Anche qui Marx riprende la legge hegeliana del passaggio dalla quantità alla qualità. A un sistema di vita dove tutto si riproduce "costantemente nella medesima forma"(p.458), Marx ha sempre preferito il continuo rivolgimento dei mezzi e delle condizioni produttive che si verifica sotto il capitalismo. A tale proposito, tuttavia, è bene precisare che le società asiatiche -cui Marx si riferisce- non erano affatto così "immutabili" dal punto di vista economico. Egli infatti è convinto che tale immutabilità non abbia nulla a che vedere con "la continua ricostituzione degli Stati asiatici e col perenne alternarsi delle dinastie"(p.459). In realtà politica ed economia erano strettamente legate anche nell'antica Asia. Con una differenza però, rispetto alle regioni occidentali dell'Europa e degli USA, che si può capire ponendosi una semplice domanda. Posto che in Asia i rivolgimenti politici erano, come in Occidente, il frutto di contraddizioni socio-economiche (anche se Marx parla delle società asiatiche come se fossero prive di lotte e di conflitti di classe), per quale ragione in Asia, in seguito alle lotte di classe, non è nato il capitalismo? A questa domanda Marx non è stato in grado di dare una risposta convincente proprio perché egli aveva concentrato tutti gli studi sull'economia e non anche sulla cultura (filosofia, religione, ideologia politica, arte dei Paesi orientali). Se l'avesse fatto si sarebbe accorto di due cose: 1) che per l'Oriente l'uomo è parte della natura, per cui non avrebbe mai potuto esserci uno sviluppo tecnologico particolarmente forte o un'esigenza di sistematico sfruttamento delle risorse naturali; 2) che la mancata diffusione della religione cristiana non ha permesso ai popoli asiatici di sviluppare il senso profondo della libertà umana. L'Oriente asiatico, essendo più vicino al modo di produzione pre-capitalistico, è rimasto fedele alla socializzazione del lavoro, ma, non avendo accettato il cristianesimo, non è riuscito a sviluppare il lato storico della personalità umana. Le lotte di classe quindi c'erano, ma avevano appunto lo scopo di conservare lo stile di vita culturale, naturale e pre-schiavistico contro il potere di coloro che invece puntavano ad accentuare gli aspetti del servaggio (che in Oriente si è sempre manifestato come "servaggio di Stato"). Non a caso l'Asia (fa eccezione, in parte, l'India, perché qui lo sviluppo delle caste è sempre stato molto forte) è passata dalla crisi del feudalesimo al socialismo (quanto democratico o autoritario non è qui il luogo per discuterlo. Interessante comunque resta il fatto che proprio attraverso il socialismo europeo l'Asia ha acquisito, indirettamente, i contenuti fondamentali del cristianesimo, laicizzati appunto dal socialismo. Grazie a questa acquisizione si può parlare, per la prima volta, di "storia universale dell'uomo"). Il giudizio di autoritarismo (politico) che Marx ha rivolto alle società asiatiche, vale, a suo parere, anche per il feudalesimo. Parlando delle corporazioni di arti e mestieri, ciò che Marx non sopporta è appunto la costrizione cui esse erano sottoposte. "Le leggi delle corporazioni...impedivano sistematicamente la trasformazione del mastro artigiano in capitalista, limitando il più possibile il numero dei garzoni ch'egli potesse impiegare"(p.459). Detto altrimenti: là dove esiste costrizione, lì, per Marx, esiste dittatura, per cui, in luogo all'artigiano, è preferibile il "capitalista commerciale", l'unico veramente libero, nel Medioevo, di "acquistare il lavoro come merce"(ib.). Il ragionamento di Marx non è sbagliato quando afferma che là dove c'è costrizione non c'è democrazia e quindi la costrizione è inutile, perché, prima o poi, il sistema verrà rovesciato. Ma è sbagliato quando aggiunge che, affinché gli uomini capiscano l'importanza della democrazia, occorre ch'essi si liberino dal peso di tutte le costrizioni sociali e che sviluppino la loro individualità. In seguito, dalle contraddizioni che emergeranno, a causa dell'anarchia produttiva, della sfrenata concorrenza e dell'autoritarismo in fabbrica, i lavoratori comprenderanno che la società capitalistica deve necessariamente passare al socialismo. Purtroppo è proprio sulla base di questo ragionamento che noi dobbiamo addebitare al socialismo marxista (non meno che al liberalismo borghese) la responsabilità della fine immeritata di tutti gli aspetti positivi che esistevano nel sistema feudale. Non era forse positivo il fatto che "generalmente l'operaio e i suoi mezzi di produzione rimanevano nel complesso congiunti tra di loro..."(p.460)? Il socialismo non chiede forse la stessa cosa? Il crollo del cosiddetto "socialismo reale" non è forse stata la più lampante dimostrazione che le teorie di Marx, in questo campo, erano sbagliate? * * * Ora bisogna fare un'osservazione sul concetto di "divisione del lavoro". Essere contrari, in assoluto, alla divisione del lavoro, sarebbe come porsi fuori della storia. Tuttavia, Marx ha torto quando afferma che "la cooperazione basata sulla divisione del lavoro, ossia la manifattura, è originariamente una creazione spontanea e naturale"(p.467); ha torto perché la manifattura già rientra nello "spirito capitalistico". Egli potrebbe aver ragione se si considerasse la divisione del lavoro in senso lato, come un'attività che ha riguardato qualunque comunità sociale, anche quelle più antiche. E' incredibile che un uomo del "sospetto" come Marx, abituato a vedere la realtà con grande criticità e disillusione, non si sia accorto come il passaggio da una semplice cooperazione fondata sulla divisione del lavoro alla manifattura vera e propria, abbia comportato una rottura traumatica fra il vecchio e il nuovo. Dire che "allorché [la cooperazione] ha raggiunto un certo grado e una certa consistenza, diviene la forma consapevole, metodica e sistematica del modo di produzione capitalistico"(ib.), è come dire che gli uomini (ad eccezione naturalmente dei capitalisti) erano così ciechi che soltanto dopo molto tempo avrebbero potuto capire i grandi limiti del capitalismo, cioè che in origine la transizione venne accettata nella consapevolezza di realizzare un aumento del benessere per tutta la collettività! Marx quindi è nel giusto quando afferma che la manifattura è "un raffinato e civilizzato mezzo di sfruttamento"(p.468), ossia "un particolare metodo per procurarsi plusvalore relativo, cioè per accrescere a spese degli operai l'autovalorizzazione del capitale"(ib.). Ma è nel torto quando sostiene che la manifattura "appare come un progresso storico e un momento necessario dell'evoluzione del processo di formazione economica della società"(ib.). Dunque, è vero, non ha senso essere contro la divisione del lavoro, ma solo a condizione di evitare ogni determinismo storico, poiché con questo si finisce col giustificare una qualunque divisione del lavoro, inclusa quella capitalistica. Gli uomini possono anche specializzarsi in un determinato settore produttivo (se vogliono), ma non debbono sentirsi obbligati a farlo. Essi cioè devono sempre restare liberi di non abbandonare quelle condizioni che permettono loro di sentirsi moralmente soddisfatti anche se non sanno produrre alla perfezione alcun oggetto particolare. In ogni caso è assurdo pensare che debba esserci una divisione del lavoro che un pugno di capitalisti impone a tutta la collettività. Si possono fare lavori diversi se i diversi lavoratori si riconoscono reciprocamente nel loro ruolo, cioè se assegnano liberamente un valore ai loro rispettivi lavori. Il valore di un lavoro non può essere imposto con la forza, neanche se questa forza è di tipo economico e non fisico, come nell'antichità. A proposito di "antichità", Marx sbaglia anche quando afferma che "gli scrittori dell'antichità classica...considerano esclusivamente la qualità e il valore d'uso"(p.469). Egli infatti non s'accorge che per gli antichi greci, romani ed egizi il concetto di "valore d'uso" (che può essere applicato solo alle comunità autarchiche) era in antitesi a quello di "qualità". Essendo il loro un regime schiavistico, il concetto di "valore d'uso" non aveva alcun vero contenuto democratico. Lo dimostra appunto il fatto che un oggetto aveva tanto più valore d'uso quanto più forte era la divisione del lavoro, e quindi quanto meno era d'uso sociale. In una società schiavistica un oggetto aveva un grande valore d'uso solo per i ceti benestanti. In tal senso non esisteva il moderno concetto di "valore di scambio" semplicemente perché non esisteva ancora quella spersonalizzazione volontaria e consapevole dell'individuo post-cristiano, che sola può permettere, attraverso l'uso delle macchine, di ottenere ricchezza puntando sulla quantità (e quindi sui bassi prezzi) invece che sulla qualità (cioè sugli alti prezzi). L'uomo classico non avrebbe mai potuto attribuire a una "macchina" la fonte della sua ricchezza, né avrebbe mai accettato di sacrificare la sua vita per accumulare capitali. A parte questo, il concetto di "valore d'uso" delle società schiavistiche non era molto diverso dal concetto moderno di "valore di scambio": la differenza stava nel fatto che allora lo scambio poteva avvenire solo fra un numero ristretto di persone (quello di "qualità" poi fra un numero assai esiguo). Naturalmente anche nel mondo classico si usava la spersonalizzazione del lavoratore per accumulare capitali (non dimentichiamo che lo schiavo era una "cosa parlante"). Tuttavia la spersonalizzazione era imposta dalla classe dominante alle masse, non era una caratteristica della stessa classe al potere. Il potere economico anzi serviva per affermare il primato della individualità. Nel capitalismo invece il capitalista sacrifica la propria individualità a vantaggio del capitale, che è diventato un'entità a se stante. "Platone -dice Marx nella nota 80 di p.470- spiega la divisione del lavoro...con l'unilateralità delle inclinazioni spontanee degli individui", cioè in realtà la spiega con una "falsità" dettata dai suoi interessi di classe, quegli stessi interessi che lo portarono ad affermare "che l'operaio -sono ancora parole di Marx- deve conformarsi al lavoro e non il lavoro all'operaio"(stessa nota). Singolare che Marx non abbia nulla da dire in merito a questa "coercizione economica", ma ciò si spiega pensando che anch'egli ha tutto l'interesse a far vedere come già nell'antichità classica il concetto di "divisione del lavoro" era acquisito, per cui tra una formazione economica e l'altra non c'è alcuna soluzione di continuità. Infelice infine è la conclusione del capitolo. Resosi conto probabilmente delle patenti contraddizioni fra ciò che di positivo la manifattura sembrava volesse dare al lavoratore e ciò che di negativo di fatto essa ha dato, Marx cerca di ridimensionare il peso dei suoi limiti, sostenendo che: 1) "sebbene essa...conduca allo sfruttamento produttivo di donne e bambini, tale tendenza generalmente non raggiunge lo scopo, scontrandosi con le abitudini e con la resistenza degli operai maschi adulti"(p.473). (Marx tuttavia non spiega se la resistenza dipenda dall'indignazione morale o dalla paura della concorrenza sul mercato del lavoro); 2) "sebbene la decomposizione dell'attività di tipo artigiano faccia diminuire le spese d'apprendistato e di conseguenza il valore dell'operaio, per certi lavori più complessi si richiede necessariamente un periodo di tirocinio più lungo..."(ib.). (Marx però non aggiunge che tali lavori appartenevano a una ristretta categoria di persone); 3) "il capitale si trova a dover lottare in continuazione con l'insubordinazione degli operai"(ib.). (E' la prima volta che Marx, in questo capitolo, ne parla. A p.464 aveva invece parlato di "degrado intellettuale" dell'operaio parcellizzato, arrivando persino a ricordare che "intorno alla metà del sec. XVIII in alcune manifatture s'impiegavano preferibilmente per certe operazioni semplici dei mezzo idioti..."(ib.). Dunque quali operai si ribellavano alla manifattura?). Marx in realtà afferma tutto questo non per sottolineare l'importanza della lotta di classe, ma per dimostrare i limiti della manifattura, ovvero l'esigenza storica ch'essa fosse superata dalla "grande industria". "Quando ebbe raggiunto un certo grado di sviluppo, la sua ristretta base tecnica entrò in contraddizione con i bisogni di produzione che essa stessa aveva generato"(p.474). Qui insomma siamo da capo. Il macchinismo è subentrato per superare i difetti strutturali della manifattura, e nessuno s'è accorto che in realtà esso peggiorava la condizione non solo dell'operaio, ma, questa volta, dell'intera società! IL SENSO DELLA MANIFATTURA La manifattura implica un diverso concetto del lavoro, una diversa cultura della vita lavorativa: non si lavora più per vivere, ma perché obbligati da un contratto, per permettere all'imprenditore di accumulare capitali. Se non ci fosse questa nuova cultura (borghese e schiavistica allo stesso tempo, che il cristianesimo cattolico e protestante ha legittimato), non ci sarebbe neppure la necessità di trasformare il lavoratore in uno strumento del lavoro, da usare il massimo possibile. Il fatto di poter produrre di più in un tempo minore nel capitalismo costituisce la regola non l'eccezione, nel senso cioè che questo modo di produrre non viene fatto in previsione di una particolare avversità (ad es. la carestia), ma viene fatto allo scopo d'incrementare quanto più possibile il capitale investito, a prescindere dalle condizioni esterne (ambientali) del lavoro. Questa riduzione dell'operaio a "strumento di lavoro" era possibile nel mondo antico perché si partiva dal presupposto che lo schiavo, non avendo i diritti del cittadino, potesse essere trattato come una "cosa". Questo modo di vedere il lavoro era stato sottoposto a critica dal cristianesimo, il quale poneva liberi e schiavi sullo stesso piano di fronte a dio. Il servo della gleba non voleva essere considerato un "oggetto" del feudatario, e lottava -come lo schiavo dell'epoca romana- per la propria emancipazione. La differenza stava nel fatto che lo schiavista romano (almeno finché non divenne cristiano) preferiva uccidere lo schiavo piuttosto che concedergli dei diritti; il feudatario invece, di fronte alle dure rivendicazioni dei contadini, poteva anche scendere a compromessi. Era cambiata la cultura. Nel capitalismo, paradossalmente, l'operaio appare più vicino allo schiavo che non al servo della gleba, poiché risulta essere un mero strumento lavorativo, e tuttavia in tale condizione l'operaio salariato non finisce perché "catturato in guerra" o perché ha accettato consapevolmente, non avendo alternative, di rinunciare a una parte dei propri diritti e di vivere un rapporto di dipendenza personale, ma vi finisce nella pienezza della propria libertà, anzi a causa di questa stessa libertà. Sotto il capitalismo infatti il lavoratore diventa schiavo del capitale dopo che ha acquisito la piena libertà giuridica, cioè i diritti civili e politici. Egli è personalmente libero, anche se questa libertà non è supportata da alcuna forma di proprietà: è una libertà "totale", ma solo perché "da tutto". Quindi solo una particolare cultura poteva accettare un dualismo così netto tra libertà formale e schiavitù sostanziale: questa cultura non poteva essere che il cristianesimo e, in modo particolare, il protestantesimo. LA LEGGE DEL VALORE Quando il marxismo dice che la sostanza del valore delle cose (oggetti d'uso e beni in generale) è il lavoro, non si rende conto che questo principio non può di per sé intaccare l'ideologia del capitalismo. Il marxismo ha usato il concetto di "lavoro" contro quello di "capitale", il quale, a sua volta, è strettamente legato a quello di "plusvalore", che rappresenta l'espressione economica dello sfruttamento del lavoratore. In realtà, la vera opposizione al capitalismo va fatta all'interno dello stesso concetto di "lavoro", poiché non esiste alcun lavoro che, di per sé, dia significato alle cose. Persino il valore economico di un bene di consumo, acquista il suo vero significato aldilà del lavoro puro e semplice. Si badi, qui non si tratta di sostenere il principio secondo cui il valore dipende dal lavoro e il lavoro dipende da qualcos'altro. Qui si vuole sostenere che questo "quid" dà significato non solo alle cose ma anche allo stesso lavoro che le produce, al punto che, quand'esso viene a mancare, le cose acquistano un valore fittizio, proprio perché il lavoro presume di dare ad esse un valore che in realtà non è in grado di dare. Ogniqualvolta si sostiene che il significato della vita sta nella dignità che il lavoro può dare, si fa del lavoro uno strumento per impedire che le cose abbiano il loro vero valore. Quando ci si accontenta di dare alle cose un valore meramente economico, in virtù appunto del lavoro, si è già tolto alle cose un altro valore, quello "spirituale", e con ciò si è fatto del lavoro un'operazione prima ideologica e poi puramente meccanica, che non ha nulla di creativo, di piacevole, di artistico... Se nelle cose si va a cercare solo il lato materiale, il lavoro che le produce sarà necessariamente alienante, perché frutto di una dicotomia tra significato ontologico della vita e primato dell'esigenza economica. L'aspetto contraddittorio di questo indebito primato sta nel fatto che da un lato il capitalismo riconosce al lavoro la fonte del valore (questa -come noto- non è stata una scoperta del marxismo), e dall'altro fa di tutto per ridurre il tempo di lavoro necessario per produrre una merce. Tale riduzione non dipende solo -come vuole il marxismo- dall'oggettiva necessità che il capitale ha di estorcere plusvalore all'operaio, ma dipende anche dal fatto che quando si concede il primato al lavoro, nulla può ad un certo punto impedire che glielo si tolga. Se il lavoro è strumentale al profitto, può esserlo a maggior ragione la macchina, che, riducendo il tempo di lavoro al minimo, permette all'imprenditore profitti supplementari. Compito dell'operaio, quindi, non deve soltanto essere quello di "impadronirsi della macchina", di metterla al suo servizio, di lavorare il meno possibile (in quanto il lavoro comporta stress, fatica, pericolosità ecc.), di dedicare quanto più tempo libero possibile alla propria fantasia creativa, alla propria originalità di "inventore" o di ideatore. Compito dell'operaio deve essere anche quello di riscoprire il significato della vita, poiché è una grande ingenuità pensare che l'operaio potrà riscoprire il lato creativo, artistico del lavoro solo dopo che avrà espropriato il capitalista. L'operaio deve sapere che il capitalista (quale figura simbolica, non specifica) ha usato lo strumento del lavoro per emanciparsi come individuo, contro gli interessi della collettività. Attraverso il lavoro, il capitalista ha dato alle cose un valore diverso da quello che prima avevano. E' appunto questo valore perduto che va recuperato. Ma, per poterlo fare, all'operaio non basta espropriare il capitalista, né basta garantire il lavoro a tutti: occorre anche dare un senso spirituale alla vita e quindi, secondariamente, al lavoro che si svolge. Non ha senso rivendicare una transizione al socialismo solo per garantire ai lavoratori una maggiore organizzazione (o pianificazione) del loro lavoro. Il cittadino non è anzitutto un "lavoratore", ma un "essere umano", che ha bisogno, per vivere, non solo di lavorare, ma anche e soprattutto di essere, cioè di avere un significato per cui esistere. Non ha veramente senso pensare che lo sviluppo delle forze produttive possa dipendere dal risparmio del tempo di lavoro: questa forma di "sviluppo" non garantisce assolutamente nulla circa lo sviluppo della qualità della vita. LA LEGGE DEL VALORE - NOTE IN MARGINE Secondo Marx i prezzi delle merci sono in contraddizione col loro valore appunto perché si tratta di merci capitalistiche, soggette al tipico antagonismo di capitale e lavoro. La deviazione dei prezzi delle merci dal loro effettivo valore è considerata naturale o legittima dal punto di vista del capitale, ma questa deviazione viene pagata molto cara da chi non possiede mezzi di produzione: non solo perché, in ultima istanza, risulta impossibile un controllo sui prezzi, ma anche perché la stessa forza-lavoro (che è merce al pari di altre) viene venduta a un prezzo molto più basso del valore che poi produce. Alla tesi borghese secondo cui nessuna merce capitalistica ha un vero valore che non sia il suo prezzo e che la deviazione di tale prezzo dall'effettivo valore di una merce è parte costitutiva del gioco della domanda e dell'offerta, Marx rispose cercando di dare un fondamento scientifico alla teoria del valore e pensò di averlo trovato nel concetto di tempo socialmente necessario: valore e prezzo possono coincidere dal punto di vista del valore se esiste un collettivo che sappia attribuire un tempo socialmente necessario alla produzione di una determinata merce (è il cosiddetto lavoro astratto). E' noto che la teoria marxiana del valore ha bisogno di una rivoluzione politica per realizzarsi: una rivoluzione che sostituisca lo spontaneismo anarchico dell'economia capitalistica con una programmazione razionale della produzione collettivizzata. Oggi questa soluzione (leninista), dopo il fallimento del socialismo reale, non è più ritenuta sufficiente. Tuttavia, il fatto di non aver cercato delle alternative praticabili al leninismo (se si esclude la parentesi della perestrojka) ha portato a questa situazione paradossale: tutte le teorie d'ispirazione socialista sembra abbiano la funzione di porsi come mero correttivo agli eccessi del capitale. Quanto a questa strumentalizzazione delle teorie socialiste abbia contribuito lo stesso Marx è documentato dal fatto ch'egli era convinto della possibilità di una conduzione "normale" della concorrenza in cui domanda e offerta coincidono: il socialismo altro non avrebbe dovuto fare che garantire detta "coincidenza", del tutto impossibile nel sistema capitalistico. Come noto, gli economisti borghesi si sono serviti di queste tesi per istituire il cosiddetto "Welfare State", col quale si voleva porre un argine agli abusi del "laissez faire" (che portarono alle due guerre mondiali). Lo Stato assistenziale si pone come una sorta di socialismo filantropico per quelle categorie di cittadini che non riescono a sopportare gli antagonismi sociali e che per questa ragione potrebbero trasformarsi in un fattore destabilizzante per l'economia. Tuttavia il capitale tenta continuamente di smantellare le forme di assistenzialismo ch'esso stesso si è dato dietro la pressione popolare. L'altra soluzione del capitale è di regola il ricorso a conflitti bellici contro paesi terzi. Spesso Marx ha dato l'impressione di avere come punto di riferimento una sorta di capitalismo teorico o primordiale, antecedente alla rivoluzione industriale del XVIII sec. Un capitalismo che nei confronti del feudalesimo aveva tutte le ragioni per imporsi e che però, per svilupparsi in maniera adeguata, avrebbe avuto bisogno di correttivi in senso sociale. La sua stessa teoria del valore, se si prescinde dalle esigenze di una rivoluzione politica, sembra trovare un qualche riscontro in quel periodo storico di transizione dal feudalesimo al capitalismo in cui effettivamente il borghese cercava di dare al proprio lavoro un valore superiore a quello che nel feudalesimo si stabiliva sulla base della rendita fondiaria. La legge di Marx sembra necessitare, per la sua attuazione, di una sorta di onestà di fondo da parte del produttore. E' come se presupponesse uno stile di vita pre-capitalistico (in cui dominava il valore d'uso!) in condizioni sociali capitalistiche. Marx in sostanza voleva far capire agli economisti borghesi che se non fosse stato possibile stabilire una legge del valore, il capitalismo si sarebbe autodistrutto, in quanto nessuna società può reggersi sulle fondamenta del più assoluto arbitrio, e che se quella possibilità si fosse realizzata, il capitalismo si sarebbe trasformato in socialismo. Marx aveva tutte le ragioni nel criticare gli economisti borghesi quando sosteneva che se il valore di una merce è determinato, in ultima istanza, solo dal suo prezzo, al punto che solo il prezzo è indice del suo effettivo valore, allora tutto è affidato al caso, poiché in una società fondata sul mero profitto i prezzi sono quanto di più volatile esista. E il mercato, in tal senso, non ha la forza sufficiente per regolare la vita sociale: se così appare nelle società capitalistiche è perché oltre al mercato interno esse possono avvalersi delle migliori condizioni per sfruttare i mercati esteri delle colonie. Tuttavia Marx non è andato oltre questa critica e i suoi epigoni non hanno contribuito a svilupparla in profondità. Noi sappiamo che un bene di consumo deve essere preso in esame sotto un duplice aspetto: come bene materiale (costi di produzione, tempo di lavoro occorso, prezzo di mercato ecc.) e come bene culturale (valori personali e collettivi, tradizioni di usi e costumi ecc.). Un bene può avere un grande valore materiale e non per questo suscitare da parte di chi lo possiede sentimenti di natura privatistica, appunto perché vanno considerati anche i valori culturali. I beni di consumo, le merci, gli oggetti in generale, hanno un loro determinato valore materiale, ma l'uomo deve sempre assicurarsi di possedere la facoltà di attribuire a quelle stesse cose un valore diverso, connesso a condizioni o situazioni immateriali dell'esistenza. L'uomo deve poter essere libero di usare le cose a prescindere dal loro valore materiale. In un lager un pezzo di pane può avere un grandissimo valore, ma non ne ha nessuno (dal punto di vista materiale) per la persona che lo regala per il bene di un'altra persona. I valori spirituali - se sono puri, spontanei, genuini - sono infinitamente superiori a quelli materiali, ed essi non possono essere misurati né sulla base dei costi produttivi, né sulla base del tempo lavorativo. Un valore spirituale (p.es. amicizia, affetto, riconoscenza...) può rendere preziosa una cosa apparentemente insignificante, poiché le imprime un carattere simbolico, e, viceversa, può rendere superflua, inutile, una cosa che sul mercato può avere un grande valore commerciale. Una cosa ha valore per l'uso che se ne fa, ma, oltre a questo, essa ha il valore che l'uomo, in quel momento, le attribuisce. Se le cose hanno un valore che non dipende dalla volontà degli utilizzatori, questi sono inevitabilmente schiavi delle merci. Se un uomo non sa apprezzare il valore simbolico di un oggetto, allora egli è schiavo della mentalità che attribuisce alle cose solo un valore materiale. Persino il capitale fa di tutto per creare valori simbolici (tramite la pubblicità, le mode, i capi firmati ecc.) con cui realizzare maggiori profitti. Spesso a cose insignificanti si attribuiscono grandi valori simbolici, proprio per il fine immateriale che a loro attribuiamo. Domanda: Marx avrebbe accettato l'idea che il prezzo di un bene di consumo potesse essere determinato da fattori extra-economici, e potesse quindi anche essere inferiore al suo effettivo valore? Si badi, qui non stiamo pensando ai fattori coercitivi del socialismo di stato, dove i prezzi e le tariffe erano tenuti volutamente bassi per favorire il bene comune: cosa che Marx forse non avrebbe condiviso. Affinché il valore immateriale di un bene sia riconosciuto da una collettività, occorre la presenza di una storia comunitaria, di tradizioni condivise, consolidatesi nel tempo. Un valore è davvero spirituale non quando viene deciso dal singolo, ma quando è riconosciuto da una collettività. Ed è solo in presenza di questa collettività, fondata sui valori culturali, che si può attribuire alle cose il loro vero valore materiale. Ecco perché non ha senso sostenere che nel capitalismo la misura del valore di una merce è data dal tempo di lavoro socialmente necessario. Il lavoro astratto presume che la vita collettiva (l'unica in grado di decidere il tempo socialmente necessario) sia gestita dalla collettività stessa e non da pochi individui proprietari dei mezzi produttivi, che alla fine del processo decidono i prezzi che vogliono. Un capitalista cercherà sempre e in ogni caso di ottenere il massimo investendo il minimo, anche a costo di minare la salute o la sicurezza del lavoratore e dell'ambiente in cui vive. Se la collettività credesse in un tempo di lavoro "oggettivo", perché appunto "socialmente necessario", ogni abuso privato che violasse questo principio verrebbe punito. Un singolo non può violare una legge (scritta o non scritta) contro gli interessi della collettività. Se si vuole, il capitalismo è nato proprio nel momento in cui la comunità non era più in grado di tutelarsi da chi aveva messo in discussione la possibilità di stabilire un tempo di lavoro socialmente necessario, cioè da chi, in sostanza, si era preso la libertà di decidere, per la produzione di determinati beni, un tempo diverso, usando mezzi diversi. Ecco perché il capitalismo non sarebbe mai potuto nascere senza una contestuale rivoluzione culturale e un'altra di tipo tecnico-scientifico. Se si unisce la proprietà privata dei mezzi produttivi con la rivoluzione tecnologica ci si accorge facilmente che il tempo di lavoro socialmente necessario per produrre un determinato bene di consumo varia di continuo, anche contro gli interessi dello stesso capitalista. Infatti, è la legge della concorrenza che impedisce al capitalismo di "avere pace", cioè di poter fare affidamento su leggi oggettive "positive". Una volta innestato il meccanismo individualistico della concorrenza, ogni stabilità è perduta. E anche quando s'instaura il regime di monopolio, la concorrenza non è mai completamente abolita, poiché, essendosi il mercato esteso a livello mondiale, è molto facile che si formino nuovi concorrenti in aree geografiche insospettate. La concorrenza permane tra monopoli di rami diversi, all'interno di uno stesso paese, perché l'uno teme che l'altro possa estendere il proprio monopolio in nuovi settori; permane altresì tra monopoli di rami analoghi, presenti in paesi diversi, perché una nazione cercherà sempre, favorendo i propri monopoli, d'indebolire la nazione concorrente; la concorrenza inoltre si crea quando paesi non tradizionalmente capitalisti, decidono - con costi spaventosi - di diventarlo, come sempre più spesso succede nell'area del Terzo mondo. Ogniqualvolta un paese del Terzo mondo recide il cordone ombelicale che lo lega all'occidente, e comincia a pretendere una certa autonomia politica ed economica, la concorrenza tanto temuta dai monopoli occidentali costringe a fare assegnamento su tutte le risorse finanziarie e tecnologiche disponibili per poterla fronteggiare (prima di ricorrere ai mezzi estremi di tipo bellico). Insomma furono i troppi pregiudizi nei confronti del mondo rurale che impedirono a Marx di considerare il fatto che là dove domina il principio del valore d'uso e là dove un bene è riconosciuto dalla collettività come assolutamente fondamentale per la propria sopravvivenza, il suo prezzo non può essere determinato né dalla volontà del produttore, né dalla contrattazione che si verifica sul mercato. Qui devono entrare in gioco fattori extra-economici di tipo naturale, come p.es. una tradizione consolidata nell'uso di quel bene; il valore che una determinata collettività attribuisce per tradizione a quel particolare bene comune; la volontà politica del governo in carica di tutelare i cittadini dalle possibili forme di speculazione su di esso, ecc. Il socialismo reale è fallito anche perché non è andato a cercare tali fattori nel mondo rurale, ma ha cercato di imporne altri in maniera artificiale, desumendoli dall'organizzazione industriale tipica del capitalismo. Quando domina il valore d'uso, l'economia è sempre tenuta sotto controllo dalla politica. Una concorrenza "pura", "onesta", che prescinda dalla politica, non è mai esistita. E quando la politica esiste, tale concorrenza non è mai possibile o comunque è molto difficile su quei beni di largo consumo, che assicurano la sopravvivenza di una determinata popolazione. In una società pre-capitalistica il valore economico delle cose è sempre influenzato (e, in un certo senso, tenuto sotto controllo) dal valore culturale che una determinata collettività assegna, per tradizione, alle cose. Certo, ci può essere concorrenza anche quando il produttore abbassa volontariamente il prezzo di una merce oltre il suo valore abituale, onde acquisire una maggiore clientela e possibilmente rovinare altri concorrenti. Ma se domina il valore d'uso, questa tattica non ha ragione di esistere, poiché essa presuppone già il primato del valore di scambio (e infatti per molti secoli non è mai esistita nel Medioevo). Nessuno volontariamente produce in perdita; se e quando lo fa, è perché sa che altri stanno facendo per lui (cioè per il suo bisogno di sopravvivenza) esattamente la stessa cosa - ma questo implica, ancora una volta, il primato del valore d'uso. Dunque il prezzo può essere inferiore al valore di una merce di uso comune quando il produttore sa che la sua sopravvivenza non dipende dalla vendita di quella merce, ma dalla volontà dell'intero collettivo. Ecco perché il socialismo scientifico deve studiare molto di più i criteri produttivi del sistemi pre-capitalistici. Oggi le contraddizioni del capitalismo sono diventate così stridenti e complesse che se si volesse vendere un prodotto al suo valore, sarebbe meglio scambiarlo con un altro ritenuto di valore equivalente (non a caso il baratto è durato per migliaia di anni). Questo perché nessuno, neppure il capitalista, è in grado di stabilire il vero valore di una merce né quindi la corrispondenza tra valore e prezzo, e anche se fosse in grado di farlo la sua tentazione principale sarebbe quella d'imporre un prezzo di monopolio. Cioè se si vuole sostenere -come fanno gli economisti borghesi- che il valore delle merci non può essere determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario a produrle, allora bisognerebbe eliminare lo scambio delle merci sulla base di un prezzo monetario. Lo scambio dovrebbe avvenire unicamente sulla base dell'uso e in una forma non molto diversa da quella dello scambio in natura. Questo sarebbe l'unico modo per ridare una qualche oggettività all'azione economica. Non ha senso sostenere che, poiché nel capitalismo una merce non coincide quasi mai col suo valore effettivo, la teoria del valore di Marx non ha nulla di scientifico. Se non può esistere, in generale, una teoria scientifica del valore, allora nel capitalismo le uniche leggi oggettive sono di natura "negativa": la sovrapproduzione, la concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani di pochi monopolisti, la crescente disoccupazione, la caduta tendenziale del saggio di profitto, il continuo sfruttamento delle colonie, il crescente primato degli aspetti finanziari su quelli produttivi, la tendenza a militarizzare l'economia, l'autoritarismo sempre più forte degli Stati ecc. Invece di fare l'apologia di un sistema irrazionale, che pur basandosi sul primato dell'economia, non riesce neppure a far coincidere prezzo con valore, bisognerebbe arrivare a dire che la legge marxiana del valore può trovare la sua piena attuazione solo in una società dove i contraenti sono effettivamente liberi e quindi entrambi in grado di decidere se un prezzo è congruo al valore delle cose. Questa libertà contrattuale, nel capitalismo, non è mai esistita. Infatti, se c'è una cosa che il capitalista, sul piano pratico, non sopporta è proprio l'equivalenza tra domanda e offerta (che invece viene sbandierata come un dogma sul piano teorico). Egli in realtà vuole che la domanda resti sempre più alta dell'offerta, al fine di poter realizzare il massimo profitto. E questo nonostante che, proprio a causa della contraddizione tra capitale e lavoro, egli ottenga esattamente il contrario, e cioè di produrre più di quanto possa vendere. Proprio a causa della proprietà privata dei mezzi produttivi, e quindi della concorrenza, normalmente si ha che l'offerta superi la domanda e che quindi si finisca, periodicamente, nelle cosiddette crisi di sovrapproduzione, che i lavoratori, di regola, pagano col licenziamento. Il sogno del capitalista è sempre quello di poter mettere alle proprie merci un prezzo di molto superiore al loro effettivo valore; il suo incubo è quello di vedere come, proprio a causa dello sfruttamento perpetrato ai danni dei lavoratori, questi non sono in grado di acquistare le merci (da essi stessi prodotte) al prezzo che il capitalista impone. Ecco perché diciamo che quando si parla di "vendita" si presuppone, di per sé, l'uso del denaro e quindi la possibilità di un guadagno che vada al di là del valore effettivo di una merce. Chi "vende" non lo fa solo per ottenere, attraverso il denaro, dei beni che non riesce a produrre (o che non trova conveniente produrre), ma lo fa anche per realizzare un guadagno. Normalmente tale guadagno viene concepito come garanzia di sicurezza per la propria vita. L'uso del denaro, infatti, è tipico dei regimi antagonistici. Laddove è stata distrutta la comune proprietà dei mezzi produttivi, esiste sempre l'esigenza di sostituire una sicurezza venuta meno: quella offerta dalla comunità, con una nuova sicurezza: quella offerta dal denaro. Per ottenere il quale ogni mezzo viene considerato più o meno lecito: tant'è vero che in forza di tale accumulazione si giustifica lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Ora, come si può parlare di "giustizia" quando i prodotti che si vendono (proprio perché si vendono) sono la conseguenza di uno sfruttamento? Perché ci fosse veramente uno scambio di equivalenti occorrerebbe anzitutto abolire la vendita qua talis o comunque la sua necessità: in tal caso tutta la valutazione del valore verrebbe affidata alle parti in causa dello scambio, sulla base di esigenze comuni e condivise, appartenenti a collettività differenti. Quando i conquistadores scambiavano perline e specchietti contro l'oro degli indios, i contraenti erano entrambi soddisfatti della transazione avvenuta, anche se i primi avevano cercato d'ingannare i secondi. Evidentemente per gli indios l'oro non aveva altro valore che quello che si può attribuire a un ornamento estetico (è infatti un prodotto durevole e praticamente incorruttibile). Importante era la libera scelta della contrattazione, che, come noto, durò allora assai poco. Ora, perché si possa realizzare e conservare nel tempo tale libera scelta, occorre che le parti in causa restino prevalentemente autonome. E' ovvio: se c'è bisogno di contrattazione commerciale, l'autonomia è relativa, poiché una comunità può aver bisogno dell'altra, almeno per determinati prodotti. L'importante è che una comunità non debba dipendere da un'altra per le sue esigenze vitali (come il mangiare, il bere, il dormire, il vestirsi, il riprodursi...). Non si possono sottoporre a contrattazione beni di uso quotidiano, la cui mancanza, anche temporanea, metterebbe in pericolo la sussistenza di una comunità. Certo, il sale e le spezie, nel Medioevo, erano di uso quotidiano, anche se venivano comprati sul mercato, ma una comunità non minacciava di scomparire se venivano meno quei due condimenti. Almeno non tanto quanto avveniva nel caso in cui la si privava della terra da coltivare per trasformarla in pascolo o in monocolture per il mercato. In realtà il socialismo scientifico deve tornare a riflettere sul concetto di valore d'uso, che in sostanza significa "autoconsumo" e quindi indipendenza dalle fluttuazioni del mercato, dalle speculazioni dei produttori privati, dalle deviazioni verso l'alto dei prezzi delle merci, rispetto al loro effettivo valore, ecc. Il commercio per il (o sul) mercato deve ridiventare un aspetto secondario dell'attività economica di un collettivo. Avendo sempre fatto coincidere "valore di scambio" con "forma sociale" del rapporto produttivo, il marxismo non è mai riuscito a vedere nel "valore d'uso" altro che un mero "contenuto materiale", cioè l'espressione di un interesse contingente o specifico. Per Marx il valore d'uso, in sé, esprimeva qualcosa di rozzo, di arretrato, persino di individualistico, perché così gli appariva la vita rurale. Viceversa, il valore di scambio gli appariva come qualcosa di evoluto, progressivo, addirittura di "socializzante". Il marxismo non ha mai visto il valore d'uso come espressione economica di un valore culturale (etico metafisico ontologico) molto più grande. E così è caduto nell'ingenuità di pensare che si potesse salvaguardare il migliore capitalismo (p.es. il primato dell'industria sull'agricoltura o della città sulla campagna), senza lo sfruttamento dei lavoratori. Oggi invece bisogna affermare, nello stesso tempo, che non ci potrà essere la fine dello sfruttamento del lavoro senza la fine del capitalismo e che questo non implica soltanto (come nel leninismo) la fine della proprietà privata dei mezzi produttivi, ma anche la fine del primato dell'industria sull'agricoltura, della città sulla campagna, del lavoro intellettuale su quello manuale, del valore di scambio su quello d'uso, dell'uomo sulla natura, del maschio sulla femmina e così via. Già il semplice fatto che sotto il capitalismo si "deve" produrre per il mercato, nel senso che non si è liberi di voler fare qualcosa che non sia un obbligo per le esigenze del mercato, cioè il semplice fatto di dover produrre anzitutto per il mercato e non per se stessi o per il collettivo cui si appartiene, è indice sicuro di un'alienazione sociale. L'alienazione sta proprio nel fatto che si finisce col produrre cose la cui quantità e qualità, il cui valore e prezzo vengono decisi altrove, da terze parti. E' giusto produrre cose per un uso collettivo, è giusto considerare di valore cose che hanno soprattutto una finalità del genere, ma tra il collettivo e l'individuo vi dev'essere un'intesa stretta, in modo che ognuno possa dire la sua sul prodotto che vende o che compra. La sicurezza di ogni singolo individuo può dipendere solo dalla comunità di appartenenza, e in questa comunità egli deve poter produrre ciò di cui ha bisogno, oppure deve poter acquistare agevolmente ciò che gli permette di sopravvivere, offrendo, nella misura in cui gli è possibile, qualcosa in cambio. La sicurezza non può essere garantita dal mercato, che è sempre molto fluttuante nei prezzi, nella disponibilità delle merci, nel valore effettivo delle cose... Inoltre quando esistono dei monopoli produttivi, la libertà del mercato è praticamente vanificata. Oggi molto più di ieri. La trasformazione dei prezzi di produzione in prezzi di monopolio è un dato di fatto incontrovertibile e irreversibile. Il mercato non solo è per sua natura instabile, ma in presenza dei monopoli diventa persino pericoloso, perché manda facilmente in rovina i piccoli produttori, obbliga a scelte indesiderate, fa pagare queste scelte a milioni di persone... Poter consumare ciò che si produce è una forma di sicurezza che mai nessun mercato potrà dare. Ancora più grande è la soddisfazione di sapere che la comunità si preoccuperà di soddisfare i nostri bisogni anche nei momenti di maggiore difficoltà personale. Quando esiste autoconsumo si sopportano meglio le possibili ingiustizie che avvengono nello scambio dei prodotti. La garanzia di sopravvivenza all'interno di un collettivo permette di attutire meglio gli inevitabili abusi generati dallo scambio. Il problema quindi non è semplicemente quello di eliminare il primato del valore di scambio o l'uso della moneta o di ridurre gli scambi favorendo l'autoconsumo: è quello piuttosto di come ricostruire un collettivo i cui i singoli produttori e consumatori capiscano che il perseguimento dei loro interessi personali non è in contraddizione con quelli dell'intero collettivo. Si tratta quindi di tornare al Medioevo, senza servaggio né clericalismo. Questo obiettivo è alla portata dell'Europa occidentale? o degli Stati Uniti? o del Giappone? Non è forse passato troppo tempo perché i lavoratori possano recuperare la memoria del valore d'uso? Per poter riaffermare il primato del valore d'uso su quello di scambio, il primato del lavoro sul mercato, del valore sul prezzo, ecc. occorre che tutti gli uomini ripensino il modello generale della loro società, il significato stesso della parola "sviluppo". Marx, partendo nel Capitale dal concetto di "merce", ha voluto far capire che il primato concesso dal capitale al valore di scambio si opponeva agli interessi del lavoratore soltanto perché questi era un salariato al servizio del capitalista, e non anche perché un qualunque primato concesso al valore di scambio, ai danni del valore d'uso, porta il lavoratore a non essere mai libero. In tal senso dobbiamo francamente dire di non credere che "la prima legge economica" risieda nella tendenza insita nell'impiego del lavoro umano di "risparmiare il tempo" al fine di produrre determinati beni. E' vero che le innovazioni che alleviano il lavoro riducono il tempo di lavoro per unità di prodotto e in tal modo ne elevano la produttività. Ma questa non è una tendenza naturale. Per una mentalità "naturale" ciò che conta è poter consumare ciò che produce o di poter ottenere dei beni di consumo in maniera relativamente agevole o sicura, e non tanto di far ciò nel minor tempo possibile, a meno che non lo richieda una necessità immediata, improvvisa, contingente. Chi fa del "risparmio di tempo" un presupposto della produttività, già vive un rapporto alienato con la realtà. Non è il tempo infatti che appartiene all'uomo, ma il contrario. Quando si dice che il risparmio del tempo di lavoro è la molla dello sviluppo delle forze produttive, non si dice nulla circa la "qualità" di questo sviluppo. Non dovrebbe essere molto difficile capire che uno sviluppo quantitativo delle forze produttive può non implicare affatto uno sviluppo della qualità della vita. E, viceversa, uno sviluppo della qualità della vita può anche non implicare quello delle forze produttive. Le innovazioni che alleviano il lavoro e che riducono il tempo, nascono già da una vita che considera il lavoro come un peso insopportabile. E se il lavoro viene concepito come tale, allora significa che in quella società esistono dei rapporti sociali basati sull'antagonismo. Nel capitalismo la tecnologia si sviluppa per migliorare la produttività, ma più si sviluppa la produttività e più occorre nuova tecnologia per superare l'alienazione del lavoro. E' un circolo chiuso. Gli operai lottano per avere migliori condizioni di lavoro e non si accorgono che quanto più lottano tanto più rischiano di essere sostituiti dalle macchine. Invece di combattere contro il sistema in generale, combattono i suoi singoli difetti, risolti i quali il sistema, dopo un certo tempo, diventa ancora più invivibile.

 
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