MARX E LA TEORIA DEL VALORE
E' la legge del valore che determina i prezzi di produzione - Marx
Introduzione
Nonostante si discuta da sempre, nell'ambito del marxismo di teoria del
valore, rimangono alcuni punti non del tutto chiariti. A livello generale,
la struttura della teoria appare definita, così come il suo ruolo euristico,
le sue conseguenze politiche e le sue debolezze tecniche; tuttavia ci sono
ancora diverse incertezze su quanto andare in là nella critica alle
specifiche scelte compiute da Marx nella trattazione di questi temi. Qui ne
discuteremo alcuni; nell'appendice citeremo brevemente dei lavori ad essi
relativi, a partire dalla sezione del III libro del Capitale dedicata a
questo punto.
La teoria del valore è il cuore dell'analisi economica del capitalismo
condotta da Marx e dai marxisti dopo di lui. Sulla base di questa teoria, il
marxismo ha analizzato le tendenze di fondo del sistema capitalistico,
dedicandosi soprattutto a studiare i legami tra economia e lotta di classe e
l'esito che le lotte operaie possono avere sulla possibilità di sostituire
all'attuale modo di produzione un sistema di pianificazione cosciente del
processo produttivo. Nei testi introduttivi di economia marxista si legge
spesso che il valore delle merci è la somma del lavoro direttamente e
indirettamente impiegato per crearle e che questo vale anche per la merce
che produce tutte le altre, la forza-lavoro, il cui valore (il salario) può
essere concepito a sua volta come insieme di merci. Il profitto del
capitalista deriva dalla proprietà peculiare che ha la merce forza-lavoro di
valorizzare il capitale investito producendo più valore di quello in essa
incorporata; questa proprietà è il riflesso di una condizione storica, per
cui alla classe lavoratrice è impedito l'accesso dei mezzi di produzione, e
che la costringe dunque a vendersi alle condizioni stabilite dalla
controparte. Si spiega anche che ai fini della determinazione del valore
conta esclusivamente il lavoro astratto (cioè la capacità lavorativa
genericamente in possesso di ogni lavoratore) e solo per il tempo di lavoro
socialmente determinato (ovvero, nelle condizioni tecniche medie di
produzione). Le diverse merci si scambiano sulla base della comparazione
delle diverse grandezze di valore, ovvero del lavoro complessivo necessario
per produrle.
Questa sommaria descrizione contiene in sé elementi corretti, e permette di
capire molti aspetti del capitalismo, ma allo stesso tempo rischia di
fuorviare e nascondere altrettanti aspetti centrali. Affrontando le
debolezze di questa visione riduttiva della teoria economica marxista,
cercheremo di fornire un quadro di questa teoria più vicino al suo spirito e
al suo compito.
Valore, natura e società
Occorre cominciare questa indagine dal problema della specificità o meno
della legge del valore nell'ambito del modo di produzione capitalistico.
Come vedremo meglio dopo, alcuni autori, di cui il più noto è forse Lippi,
accusano Marx di "naturalismo", cioè di ridurre la formazione dei prezzi in
questa società all'applicazione di leggi naturali, alla cosiddetta
"produzione in generale".. A nostro giudizio, Marx ritiene che esista
realmente una legge generale della produzione: essa è la modalità con cui
ogni formazione sociale provvede alla riduzione del tempo di lavoro
necessario.
Più in generale, il materialismo storico spiega che la creazione e la
gestione dei mezzi di produzione sono la base della comprensione di ogni
periodo storico e devono perciò costituire il fulcro di ogni spiegazione
dello sviluppo sociale. I rapporti di produzione plasmano le epoche
storiche.
A ciò si aggiunge la fondamentale osservazione di Marx sul rapporto tra
successione delle epoche, sviluppo delle tendenze del processo produttivo e
chiarificazione teorica. Il capitalismo rappresenta il culmine di tutti i
processi sociali, di tutte le tendenze operanti con gradi diversi di
profondità e rilevanza nelle altre epoche storiche (storiche, cioè venute
dopo la nascita della proprietà privata). Per questo è il modo di produzione
più dinamico, più contraddittorio e più rivoluzionario della storia. Più che
della produzione in generale occorre dunque parlare della produzione al suo
culmine. Il capitalismo è come uno specchio che ingrandisce, ma insieme
deforma, le relazioni sociali come anche il funzionamento della legge del
valore di ogni altra epoca, consentendo di analizzare tutto ciò con molta
più chiarezza, ma in forma rovesciata. Il primo rovesciamento sta proprio
nel contenuto della legge che sembra incentrata sullo scambio, mentre
rappresenta determinate relazioni nel processo produttivo, sembra delineare
un quadro di uguaglianza mentre scava nella realtà brutale dello
sfruttamento.
Occorre dunque partire da questo: la legge del valore (lo scambio di merci)
è una relazione sociale fra le classi. In particolare è la forma che la
divisione sociale del lavoro tra le classi prende in una società in cui la
produzione si svolge in unità indipendenti non coordinate ma concorrenti tra
loro.
Per Marx la grandezza di valore è sempre e solo il lavoro incorporato, la
sostanza il lavoro astratto. Ma questa posizione non è né "fisicalista" né
"additiva". Ci spieghiamo.
Questa posizione non è basata tanto su aspetti fisici (solo il lavoro umano
accresce la ricchezza materiale), infatti non ci volle nessun lavoro per
creare giacimenti di minerali, né è il lavoro umano che produce l'energia
solare, le maree, i venti ecc. Più in generale, non esiste alcun ramo dell'industria
(o dell'agricoltura) che non abbia componenti "naturali" nel senso di non
create dal lavoro umano diretto. Il lavoro umano dunque, non ha l'esclusiva
della creazione fisica del valore. Allo stesso modo, questa posizione non si
basa sull'addizione del valore delle merci. La direzione non è dalla singola
merce alla società, ma dal lavoro sociale alla singola merce. E' il velo che
la produzione mercantile fa calare sulla scienza, che conduce a ritenere che
il senso della connessione tra le unità produttive vada dal singolo al
tutto. Seguendo questa idea, la scuola classica di teoria economica
ragionava così per spiegare il valore delle merci: la sintesi che il mercato
compie dell'operare delle unità produttive trasforma il lavoro speso nella
produzione da ciascuna di esse in un valore sociale (il tempo di lavoro
sociale, o, a questo livello dell'analisi è lo stesso, il prezzo di
produzione). Le unità produttive meno efficienti della media scompaiono,
quelle più efficienti si espandono e in questo modo si sviluppano i diversi
settori della produzione.
Sebbene questa prospettiva contenga elementi di verità, parte da un punto di
osservazione errato per spiegare le cose. Questo perché anche gli economisti
borghesi migliori rimangono impigliati alla superficie dei fenomeni e non
riescono a penetrarne l'arcano. Così, in questo campo, arrivano a negare, o
comunque a trascurare, l'inevitabile natura sociale della produzione solo in
quanto questa socialità non è immediata, non è visibile in superficie, di
più, perché la superficie dei fenomeni (il mercato) nega la forma sociale
della produzione. In realtà, il valore non si produce fondamentalmente per l'aggregazione
dei valori individuali ma per la scomposizione del valore sociale
complessivo.
Secondo Marx il valore è una relazione sociale. Sotto il piano delle merci
vi sono le necessità di riproduzione del sistema che si esprimono attraverso
lo scambio di merci non sono scambio di merci. Nel valore si esprime una
qualità sociale, precedente allo scambio di quella singola merce e delle
merci tout court. Questa qualità sociale è la capacità lavorativa, il lavoro
inteso come mezzo di appropriazione della ricchezza esistente da parte della
specie umana. Il lavoro non crea tutta questa ricchezza, ma la mette a
disposizione della società. Senza il lavoro umano potrebbe esistere la
ricchezza in sè, ma non esisterebbe per l'uomo, proprio come i giacimenti di
carbone, d'oro e di petrolio esistevano da millenni ma non costituivano
alcunché di utile prima che il lavoro umano li conducesse nell'orbita del
processo produttivo[1].
Questa considerazione vale per ogni epoca storica. La legge del valore non è
che la forma assunta dal metodo di appropriazione di ogni ricchezza nelle
società mercantili. Non esiste dunque nient'altro che lavoro nelle merci
perché l'uomo non ha altri modi di produrre le condizioni della propria
esistenza che tramite il lavoro. Per far questo, l'uomo si serve di
strumenti (che in determinati contesti divengono capitale), ma questi
strumenti non mutano se non l'efficacia con cui il lavoro umano produce. Il
feticismo derivante dalla produzione di merci rovescia questo rapporto e
rende questi strumenti produttivi in sé, fa dell'uomo il carburante per la
produzione di questi mezzi. Ora, è anche vero che i mezzi di produzione sono
opera del lavoro umano e di altri mezzi di produzione e così via sino al
solo lavoro. Ma non è in questo senso "filologico" che la teoria del valore
fornisce una spiegazione della divisione sociale del lavoro nel capitalismo.
E' ovvio che sia il lavoro umano a produrre tutto. O si trovano forse alberi
di computer?, di automobili?, di mattoni?, ma non è questo il cuore dell'analisi
del valore. L'aspetto vitale non è la creazione fisica di nuovi beni ma il
modo con cui le classi producono e si appropriano tali beni.
Contrariamente all'idea di Lippi e altri, in Marx, nel materialismo storico,
non c'è traccia di "naturalismo", se con questo termine s'intende la
tendenza a considerare una certa condizione naturale, normale e valutare le
altre per differenza. Al cuore dell'analisi marxista c'è una visione
dialettica della realtà.. Questa visione ci consente di dire che il
capitalismo è e non è la continuazione storica delle epoche precedenti, lo è
in una forma rovesciata ed insieme estremizzata. Utilizzando la logica
classica, dobbiamo dire che una forma è la continuazione delle precedenti o
ne è la negazione (5 più 5 fa dieci e dieci è l'addizione dei due elementi a
sinistra dell'equazione, nient'altro). Ma la storia non funziona così. Il
materialismo storico riconosce la profonda contradditorietà dello svolgersi
concreto della storia e sottolinea questa legge: la forma di sviluppo
superiore conserva e insieme nega la forma precedente. Non ci sono
contrapposizioni assolute, ma un passaggio rivoluzionario (e per inciso,
questa legge di sviluppo vale anche per le teorie scientifiche). Il
capitalismo sta alle epoche storiche precedenti come la pianta al seme: per
crescere ha dovuto negare le sue forme precedenti (i semi che restano semi
non diventano piante), ma ne è anche la continuazione rivoluzionaria[2].
Se si accetta questa impostazione dialettica e rivoluzionaria dello sviluppo
storico non si ha difficoltà a comprendere che nella legge del valore, in
tutte le sue diverse realizzazioni concrete, è conservata e insieme negata
la realtà della produzione sociale. D'altra parte, le leggi che si impongono
all'uomo, che esso non controlla, cioè le leggi di movimento della
produzione capitalistica, possono essere definite leggi di natura solo all'interno
di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. La legge del
valore esprime le necessità di sviluppo delle forze produttive ed è solo in
questo senso che è "naturale". Così nella Grecia classica era "naturale" la
schiavitù e oggi è "naturale" il lavoro salariato. La sostanza comune di
questa naturalità sta nella divisione sociale del lavoro e nell'appropriazione
dei risultati di questo lavoro. E' in questo senso che Marx parla di "leggi
di natura".
Al contrario, gli economisti borghesi utilizzano l'idea del "naturalismo"
come forma di apologetica (la storia è sempre stata così, dunque non c'è da
lamentarsi, oppure, rovesciando questa idea per arrivare agli stessi
risultati spiegano: il capitalismo è del tutto diverso dalle società
precedenti ecc.). Queste due visioni metafisiche, ugualmente inconcludenti,
definiscono per differenza la posizione teorica marxista.
Lo si vede chiaramente nella distinzione tra valore di scambio e valori d'uso.
Contro gli economisti borghesi, occorre spiegare che il valore d'uso è
totalmente subordinato alle leggi di scambio basate sul tempo di lavoro
necessario. Ma contro metafisici di altro genere occorre ribadire che il
valore d'uso è ineliminabile da ogni scambio umano e che per quanto si possa
deprecare il concreto uso che si fa di un bene, l'appropriazione umana
avviene se e solo se è rivolta a un qualsivoglia uso di quel bene. La legge
del valore nega (in quanto subordina) il valore d'uso ma insieme lo conserva
(perché questo è ineliminabile). Si tratta di una concezione "naturalista"?,
non pensiamo lo sia più di quella che riconosce l'uomo come un essere
vivente che è passato attraverso l'evoluzione biologica al pari di ogni
altro. Non si può negare che l'evoluzione specifica dell'uomo abbia posto
capo a fatti straordinariamente nuovi, almeno per questo angolo di universo,
come la coscienza, il linguaggio ecc., ma questo non può farci cadere in una
posizione "isolazionista" (che sarebbe il preludio inevitabile di una
visione metafisica religiosa del tipo l'uomo è diverso perché ha l'anima o
cose del genere). Possiamo dire che il capitalismo sta alla storia come l'uomo
alla natura. Proprio come l'uomo per vivere deve rispettare talune leggi
biologiche, così vale per il capitalismo. Anche in un raffinato ristorante
alla moda, l'uomo assume proteine e lipidi come un leone che divora una
preda nella savana, seppur senza contorno di sangue e ruggiti. Un raffinato
corteggiamento fatto di fiori, sguardi e passione pone capo comunque alla
riproduzione generazionale della specie, proprio come per ogni altro
mammifero. Se si nega questa semplice constatazione, ci resta come unica
alternativa il primo capitolo della Genesi.
Tutto questo dà senso alla nota affermazione di Marx nella lettera a
Kugelmann: le leggi di natura non possono essere abolite. Possono invece
mutare forma secondo le modalità specifiche di ogni epoca. Questa è la
produzione in generale. Perché possiamo adoperare il concetto di valore per
analizzare ogni società mercantile? Per la stessa ragione per cui le leggi
dell'evoluzione spiegano la sorte di ogni animale. Dire che l'ameba, l'elefante
e il delfino si evolvono sulla base delle stesse leggi non significa dire né
che dunque sono la stessa cosa, né implica negare che ognuno ha una propria
storia biologica specifica, che merita di essere studiata e descritta. Alle
leggi dell'evoluzione è dedicato il primo libro del Capitale, alla storia
specifica del capitalismo il resto dell'opera. E qualcuno ciancia di
contraddizione tra primo e terzo volume...
Valore e lavoro
Se si comprende il senso della "produzione in generale", si comprende anche
il senso del rapporto tra valori e prezzi. Partiamo da questa domanda: nel
capitalismo esistono i valori? O esistono solo i prezzi? Farsi questa
domanda equivale a chiedersi: esistono gli animali o esistono le specie
animali? Detto altrimenti, implica una confusione di piani euristici. Se d'altra
parte il valore è una categoria che ha una portata generale, ha anch'esso
una vita piuttosto breve sul piano storico (5-7.000 anni, propone Engels
nella prefazione al terzo libro del Capitale). C'è invece una categoria che
è ancor più generale. Infatti, prima della nascita della produzione di
merci, i beni non hanno valore; vengono appropriati direttamente dalla
società. La famosa immagine ricardiana dei cacciatori che si scambiano le
rispettive prede in base al lavoro contenuto non ha ovviamente senso, perché
richiede appunto l'esistenza di scambi generalizzati, una fase successiva
della storia umana.
Ma anche prima dello scambio non si potrà negare che esistesse il lavoro
umano. Come infatti poteva l'uomo appropriarsi dei frutti (suoi e della
natura) se non tramite lavoro? Persino la terra più fertile deve essere
seminata, anche l'animale più lento va catturato e ucciso. Il lavoro precede
dunque lo scambio di merci. Anzi, storicamente parlando, la porzione di
storia "senza merci" costituisce gran parte della storia umana. Il punto è:
esistevano leggi di funzionamento di queste economie? Ovvero, in sostanza,
esistevano dei metodi sulla base dei quali i membri della società
suddividevano compiti e risultati? Basandoci sulle conoscenze storiche e
antropologiche disponibili non possiamo che rispondere affermativamente: in
queste società esiste una divisione seppur rudimentale del lavoro e del
prodotto. Si tratta di una divisione collettiva, regolata, e non si basa
sullo scambio di merci ma sul lavoro collettivo e immediatamente sociale di
tutto il gruppo, che poi divide al suo interno i risultati di questo lavoro.
Anche in queste epoche il lavoro è alla base della produzione sociale (nel
senso spiegato). Non si può dunque identificare valore e lavoro; occorre
invece comprendere che il lavoro è una modalità generale con cui l'uomo si
appropria della ricchezza e che il valore è la forma che quella modalità
assume nelle società mercantili, con delle ulteriori diverse specificità
storiche (come i prezzi di produzione). "Teoria del valore-lavoro" è dunque
una definizione assai imprecisa, sviante della concezione marxista. Una
formulazione più corretta sarebbe quella di teoria del lavoro. Il lavoro è l'elemento
decisivo, il valore è la a forma presa dal lavoro per un breve tratto
storico. Non si tratta qui di lavoro salariato vis à vis capitale, non si
tratta della questione se il capitale sia produttivo o lo sia solo il lavoro
(nel senso del lavoro degli operai salariati), una questione ben più
limitata in sede storica. Si tratta della forma universale di contatto tra
uomo e natura[3]. A dimostrazione che Marx dava importanza decisiva a questo
aspetto e non già al micragnoso calcolo del lavoro fisicamente incorporato
nella singola merce sta l'affermazione nella nota lettera a Kugelmann in cui
difende la teoria del valore con questo argomento: quando la classe operaia
sciopera un paese si ferma e con ciò si ferma tutto, la valorizzazione del
capitale e la possibilità per tutta la società di produrre alcunché. Ecco il
senso del rapporto tra lavoro e valore, è un senso sociale. La teoria, anche
metodologicamente parlando, va dal sociale al particolare, dai rapporti tra
le classi al prezzo relativo e non viceversa. Non è l'aggregazione di
migliaia di ore di lavoro contenute nelle singole merci a darci l'idea della
produzione sociale, è il lavoro collettivo della classe lavoratrice che
costituisce il fondo da cui ogni capitale attinge e da cui, alla fine di
tutte le beghe tra capitalisti, emergono i prezzi relativi.
Il lavoro è la sostanza del valore delle merci in quanto è il mezzo di
appropriazione di ogni ricchezza materiale o meno, "naturale" o "sociale"[4]..
Per poter essere efficace come mezzo di appropriazione, esso deve essere
diviso in modo efficiente. Le diverse realizzazioni storiche della legge del
valore sono altrettanti casi concreti con cui si sviluppa la divisione del
lavoro in una certa epoca. A ogni livello di sviluppo delle forze produttive
corrisponde un metodo di divisione del lavoro. Quello specifico metodo
incorpora il funzionamento dei rapporti di produzione dell'epoca, ovvero, in
ultima analisi, il livello raggiunto dalle forze produttive. Incorpora
inoltre lo specifico operare delle leggi di funzionamento dell'appropriazione
sociale della ricchezza, leggi specifiche di ogni epoca come l'uniformità
del saggio del profitto ecc., che però possiamo compendiare anche qui con
una legge: la legge del risparmio del tempo di lavoro. Essendo il lavoro la
sostanza di ogni rapporto uomo-natura, il suo uso e il suo risparmio
costituiscono l'essenza di ogni sistema economico. Come diceva Marx, il
risparmio di lavoro è l'essenza dell'economia.
Come si vede, noi proponiamo l'estensione del rapporto lavoro-produzione ben
oltre l'ambito della società mercantile, ritenendo il lavoro la fonte non
solo e non tanto dei prezzi delle merci ma della possibilità stessa della
produzione e dell'appropriazione dei prodotti.
Con il generalizzarsi degli scambi, la società deve trovare un metodo di
divisione sociale e tecnica del lavoro coerente con lo sviluppo della
produzione delle merci. Poiché il modo di distribuzione e di scambio
rappresenta la realizzazione del processo produttivo, nello scambio non
possono che essere verificate e convalidate le leggi della produzione. La
legge del valore rappresenta questo passaggio. Essa ci parla infatti dello
scambio (spiegando come avvengono gli scambi di merci) per rappresentare in
realtà le leggi di movimento della produzione. La legge del valore dunque è
solo superficialmente una teoria degli scambi, mentre è nella sostanza una
teoria dello sviluppo storico dell'epoca della proprietà privata. L'inversione
scambio-produzione non è casuale, rappresenta invece fedelmente quanto
avviene da un punto di vista storico, reale. Quando i prodotti nascono come
merci, la loro produzione è effettuata con il fine dello scambio. Lo scambio
realizza la produzione, la produzione è indirizzata allo scambio. Se uno
scambio avviene liberamente, senza coercizione, è perché si scambiano
equivalenti. Su un mercato impersonale avvengono scambi di equivalenti
sociali. Marx spiega all'inizio del Capitale che cosa ci sia di equivalente
in due merci diverse: il lavoro astratto in esse contenuto. Occorre
sottolineare che il metodo prescelto per questa "dimostrazione" è assai
problematico (una sorta di eliminazione successiva). A nostro giudizio,
sarebbe stato meglio spiegare più semplicemente il ruolo del lavoro nel
processo storico complessivo, sottolineando che il modo con cui la società
scambia i prodotti non può essere separato dal modo in cui li produce, dal
modo di produzione dominante. Un determinato rapporto di produzione
determina il carattere di un'epoca e dunque, tra le altre cose, il metodo
con cui si scambiano le merci. Questo implica che anche prodotti posti al di
fuori della sfera dominante sono ricondotti ad essa. Se, ad esempio, una
determinata società ha raggiunto il grado di sviluppo che prevede uno
scambio di merci, anche la produzione non mercantile verrà attratta
ineludibilmente da queste leggi:
"In seno ad una società dominata dalla produzione capitalistica, anche il
produttore non capitalista è dominato dalle idee capitalistiche." (Marx, Il
capitale III, p. 65)
Ecco perché il movimento cooperativo non è mai stato alternativo alla
società esistente, ma ne ha invece riprodotto le logiche, ecco perché lo
sviluppo del capitalismo comporta la rovina della piccola azienda a
conduzione familiare ecc. La legge del valore rappresenta un certo grado di
sviluppo sociale dell'umanità, non il lavoro che fisicamente è contenuto in
una merce e nemmeno nell'insieme delle merci.
Il sovrappiù
Per sopravvivere, una società (ma anche una specie), deve trovarsi almeno
nelle condizioni che Marx chiama di riproduzione semplice. Che trovi queste
condizioni, come succede a piante e animali, o che le crei, come fa l'uomo,
poco importa. La riproduzione richiede talune condizioni biologiche
inevitabili, come la disponibilità di cibo, condizioni climatiche e così
via. Questo vale per tutti gli animali, compreso l'uomo. La riproduzione
semplice richiede che non mutino le condizioni in cui si svolge il processo.
Lo stato di riproduzione semplice per la specie umana - che non trova le
condizioni della propria esistenza nell'ambiente, ma le crea - richiede che
la produzione avvenga con le medesime tecniche, con l'impiego delle
identiche quantità e qualità di lavoro ecc. Ovviamente, lo stato di
riproduzione semplice implica l'assenza di ogni sviluppo. Se si dà uno
sviluppo, anche solo quantitativo, è perché la riproduzione ha superato lo
stadio dell'equilibrio e produce o si appropria di più risorse di quante ne
consumi. Questa eccedenza, che può essere in termini fisici o monetari,
costituisce il fondo da cui la società preleva per lo sviluppo ulteriore.
Proprio come per ogni altra parte del prodotto sociale, questo sovrappiù
seguirà le leggi prevalenti di quell'epoca. Se la produzione avviene in modo
direttamente collettivo tramite l'appropriazione di gruppo dei beni, l'eventuale
sovrappiù verrà utilizzato collettivamente per lo sviluppo del benessere del
gruppo ecc.
La nascita del sovrappiù ha avuto effetti sconvolgenti sulla storia umana,
che da allora diviene la lotta per l'appropriazione di questo sovrappiù. Per
molto tempo il sovrappiù viene appropriato da una classe o casta che se ne
serve per migliorare le proprie condizioni materiali distaccandosi al
contempo dalla partecipazione al lavoro materiale. In ogni modo di
produzione il sovrappiù costituisce il motore dello sviluppo storico,
rappresenta l'efficienza con cui quel modo di produzione è in grado di
svilupparsi nel tempo. Questa verità, che vale anche per i tempi antichi,
non poteva però essere compresa al tempo. Sebbene i padroni degli schiavi
estraessero sovrappiù sotto forma di lavoro coatto dalla massa degli schiavi
e con questo sovrappiù vivessero meglio di questi ultimi, l'impiego del
sovrappiù nella produzione, pure ovviamente presente, non ne costituiva il
fine. Avveniva e basta. Senz'altro, i padroni delle miniere e i latifondisti
capivano che frustrando di più gli schiavi potevano estrarne più lavoro, ma
non era questo il punto chiave, come anche dimostra le scarse interazioni
tra la scienza e la produzione. Questo dipendeva dalla profonda socialità
nelle condizioni di vita della classe dominante nelle epoche
precapitalistiche. I patrizi romani non erano in competizione tra loro sotto
il piano economico. C'erano, ovviamente, degli scontri tra questa o quella
cricca, ma questi scontri non concernevano la lotta per i mercati di
produttori indipendenti.
La contraddizione del capitalismo è che i singoli capitalisti sono insieme
nemici e alleati l'un l'altro. Sono nemici per i mercati e sono alleati
rispetto alla classe lavoratrice. Il singolo schiavista non avrebbe ricavato
che benefici marginali dallo sviluppo di nuove tecniche produttive, senza
contare che era molto più semplice procurarsi nuovi schiavi. Questo rendeva
la società molto più statica. Il sovrappiù galleggiava, finendo spesso in
usi del tutto improduttivi. Il capitalismo è sorto quando l'accumulazione di
capitale, cioè del sovrappiù del passato iscritto nelle nuove forme
produttive, ha raggiunto un tale livello da produrre cambiamenti
qualitativi, non solo nella produzione, ma nella coscienza delle classi. La
lotta per il sovrappiù è divenuta cosciente. L'economia politica classica
rappresenta al meglio la coscienza della natura e del ruolo di questo
sovrappiù.
Nelle epoche precedenti, la lotta per il sovrappiù aveva altre forme. Così,
i contadini che durante tutto il Medioevo combattevano contro i feudatari
non pensavano di lottare per avere meno obblighi di lavoro gratuito, ma per
cause morali, religiose. Le loro opinioni individuali però, nulla ci dicono
sulle reali ragioni per cui si determinarono questi conflitti. Nel
capitalismo la lotta per il sovrappiù diviene la motivazione dietro a ogni
azione umana. La massimizzazione dei profitti non è solo lo scopo dell'uomo
in quanto proprietario dei mezzi di produzione, ma legittima ogni attività
umana. L'arte, la scienza, i rapporti personali si reggono sulla capacità di
valorizzare il capitale. L'utile diviene misura di tutte le cose. L'uomo
viene ridotto a un automa che massimizza la propria utilità, cioè i
profitti, in ogni frangente. La lotta accanita per il plusvalore, cioè la
forma monetaria del sovrappiù, diviene il motore scoperto della storia, con
il suo riflesso: la lotta di classe. Il capitalismo così ricapitola e
chiarifica tutta la storia umana e Marx può dire, alla luce dello sviluppo
capitalistico, che tutta la storia è storia di lotta delle classi.
Così, lavoro e sovrappiù costituiscono le pietre angolari di un determinato
processo produttivo. Possiamo dire che un rapporto di produzione è in ultima
analisi un metodo sociale di ripartizione del lavoro e del sovrappiù tra le
classi. La legge del valore assolve precisamente questo ruolo: ci spiega
come vengono suddivisi il lavoro e il plusvalore nella società mercantile.
Il lavoro produttivo
Per completare la discussione sul presunto "naturalismo" di Marx ci rimane
da discutere della concezione di lavoro produttivo. Anche in questo caso
dobbiamo ricorrere alle leggi di sviluppo della produzione: il lavoro
produttivo nel capitalismo è una forma specifica di lavoro produttivo che
rende macroscopica e insieme rinnega l'essenza del lavoro produttivo in
generale. Esiste un lavoro produttivo prima del valore? Ovviamente sì, dato
che il sovrappiù esiste anche prima dello scambio di merci e il lavoro
produttivo è il lavoro che accresce il sovrappiù. In una società di
cacciatori e raccoglitori, è produttivo il lavoro di un uomo che raccoglie
dieci chili di frutta consumandone solo cinque, mentre è improduttivo il
lavoro di un tizio che viene nutrito per elevare preghiere agli animali
totemici perché facilitino la caccia. Trattandosi di una società in cui il
lavoro è direttamente sociale, il lavoro è anche facilmente distinguibile
per la sua natura di lavoro produttivo o meno. La cosa è molto meno chiara
nel capitalismo, a causa dell'operare delle leggi della concorrenza. Un
capitalista vale esclusivamente in base alla propria quota di capitale e
null'altro. Che il capitale abbia una determinata composizione o determinate
qualità concrete, nulla toglie alla parità di trattamento che ogni
capitalista deve ricevere. Questa legge, che è essenziale per il
funzionamento del capitalismo, nega ma insieme conserva la realtà del lavoro
produttivo. Questo significa, in concreto, che essa opera a danno di alcuni
capitalisti ma a favore della classe capitalista tutta. Marx spiega che nel
capitalismo è produttivo il lavoro che valorizza il capitale,
indipendentemente dalla sua caratteristica di lavoro effettivamente
produttivo. Senza questa contraddizione il capitalismo non funzionerebbe.
Eppure nemmeno il capitalismo può violare le "leggi di natura". Per
argomentare la posizione appena descritta possiamo descrivere un esempio
molto chiaro. Poniamo la situazione di un capitalista che affitta
determinati attrezzi a dei ladri che se ne servono per rapinare banche. Il
capitalista spende una somma di denaro per acquistare questi mezzi di
produzione e ne ricava una somma maggiore. Il lavoro dei ladri accresce il
suo capitale ed è dunque produttivo. Ma questo lavoro accresce il sovrappiù
sociale? Naturalmente no, il furto non fa che traslare il valore del bene
sottratto, non lo moltiplica. Un altro esempio del tutto analogo è il gioco
d'azzardo. E' sin troppo ovvio che lotterie e giochi sono semplici movimenti
di denaro, non creazione di nuovo valore, eppure il croupier o l'addetto
alla ricezione delle schede del lotto sono produttivi, assai produttivi in
effetti, per i loro padroni. Prendiamo ora il caso del sistema creditizio.
Ai tempi di Lutero l'idea che un tizio potesse ricavare un profitto
semplicemente prestando a interesse soldi altrui era ritenuta immorale e
fonte di corruzione. Effettivamente non si vede quale contributo dia il
semplice prestito di denaro alla produzione. D'altra parte, le banche
potrebbero obiettare di essere fondamentali selezionando i progetti
imprenditoriali, fornendo servizi di liquidità e dunque regolarizzando il
processo produttivo ecc. Se poi entriamo nel settore della circolazione
delle merci, distinguere quale lavoro accresca il sovrappiù sociale e quale
no è difficile a dirsi, anche perché la forma produttiva capitalistica fa
sembrare produttivo e necessario del lavoro che non lo è (si pensi al
personale addetto alla difesa delle merci e della proprietà privata in
genere, agli addetti al marketing ecc.). Ad ogni modo persino il capitalismo
riesce a capire quali siano i lavori davvero produttivi e come spiegò Baran:
"sebbene non esiste una netta linea divisoria tra il lavoro produttivo e
improduttivo eseguito nella società capitalistica ma piuttosto uno spettro
che corre dal lavoro completamente improduttivo da un lato al lavoro
completamente produttivo dall'altro, in periodi di emergenza, questo
problema è risolto più o meno felicemente. I lavoratori improduttivi sono
arruolati nell'esercito mentre i lavoratori produttivi ottengono il rinvio."
(Baran P., Saggi marxisti, Einaudi, Torino 1976).
Il punto è che comunque esiste una differenza teorica e anche reale tra
lavoro produttivo e lavoro produttivo in senso capitalistico. Di nuovo, la
differenza è una negazione-continuazione. Ogni società ha il lavoro
produttivo più idoneo al suo sviluppo. Nel capitalismo, l'applicazione della
legge del lavoro produttivo "diretto" sarebbe nefasta, distruttiva e
peraltro anche concettualmente impossibile, perché la produzione e il lavoro
nel capitalismo non sono direttamente sociali. E' il confronto con il
mercato, dunque la trasformazione del lavoro in valore, che dimostra se e
quanto il lavoro erogato e la produzione effettuata sono socialmente
necessari.
Lo stesso ragionamento valido per il lavoro produttivo e improduttivo si
applica al lavoro complesso. Tecnicamente, è facile concepire il lavoro
complesso come multiplo del lavoro semplice e descrivere questo multiplo con
una matrice di coefficienti di produzione. In un'economia pianificata, le
risorse che la società mette a disposizione di ogni mestiere sono già quelle
finali e dunque sono immediatamente quantificabili, consentendo una
computabilità dei coefficienti ex ante. Ma nel capitalismo, la validazione
sociale delle merci, comprese le diverse forze-lavoro, dipende dal mercato.
Se uno ha speso dieci anni per diventare medico ma poi rimane disoccupato e
deve accettare il lavoro di operaio generico, che ne è del "multiplo"? Se
gli idraulici sono introvabili e dunque si fanno pagare salati, di nuovo,
che ne è del loro "vero" coefficiente? La divisione del lavoro, che è
anarchica, rende il calcolo dei coefficienti impossibile e soprattutto
inutile, perché, per riprendere l'esempio visto prima, il medico divenuto
operaio non può pretendere, sulla base dei costi effettivamente sostenuti
per la propria istruzione, di essere pagato più dei suoi colleghi. Poiché
questi "errori" influenzano la produzione di tutte le merci, l'eventuale
cognizione dei costi storicamente sostenuti per produrre lavoro qualificato
nulla ci dice sul suo effettivo valore, proprio come succede per tutte le
altre merci.
La teoria del valore
La quantità di lavoro non ha un valore, non è una merce, ma è ciò che
trasforma le merci in valore - Marx
A questo punto dovrebbe essere chiaro che il materialismo storico non è
affatto "naturalista", e che il rapporto contraddittorio che c'è tra legge
di funzionamento e sua forma storicamente specifica non implica una società
astratta, ideale a cui rapportare per differenza questa o quell'esperienza
storica. Il capitalismo è invece l'epoca in cui le leggi di funzionamento
sono più visibili proprio per il loro operare distorto, rovesciato.
Possiamo ora finalmente porci questa domanda: che cos'è che dà valore a una
merce? La risposta del marxismo è che la domanda è sbagliata. Il processo
individuale di valorizzazione di un singolo prodotto (mettiamo un pezzo di
ferro che diviene un motore di automobile) è solo un processo tecnico. Si
dimostra, e in un certo senso diviene, un processo sociale quando è connesso
al processo generale della produzione capitalistica. Che cos'è che permette
questa connessione? Il mercato. Per questo il tempo di lavoro oggettivamente
contenuto in una merce non ci dice nulla sul suo prezzo. Questa differenza
tra valori e prezzi a livello individuale viene riconosciuto da tutti senza
problemi. La trasformazione consisterebbe proprio nel passaggio del singolo
valore al singolo prezzo sulla base del mantenimento, a livello sistemico,
del valore creato. Ora, sebbene questa idea vada già della direzione
corretta (un'analisi sistemica), è da considerarsi ancora imprecisa, ancora
incentrata sulla logica "aggregativa" anziché sociale. La connessione del
mercato ha lo scopo di verificare il livello di sviluppo tecnico della
produzione. Ma la produzione nel capitalismo non è produzione di oggetti in
sé ma produzione di più denaro con meno denaro per mezzo del lavoro umano.
La produzione di una certa merce ha impiegato obiettivamente una determinata
serie di materie prime e di lavori. Questo valore speso obiettivamente per
una merce è però una questione ancora tecnica (i coefficienti di produzione
alla Leontiev). La merce viene condotta sul mercato e confrontata
innanzitutto con le condizioni tecniche degli altri produttori (si crea così
una sorta di coefficiente medio di produzione, che premia i capitalisti più
innovativi) e in secondo luogo si confronta la produzione con la domanda. La
domanda per quella merce determina il valore che la società ritiene "giusto"
spendere per la sua produzione. Poiché tale valore ex post coincide solo per
caso con l'effettivo valore speso, una quota di risorse spese materialmente
per la produzione di un bene sono di troppo. In altri casi, una merce
particolarmente richiesta creerà valore "dal nulla" per i suoi venditori. Ad
esempio, quando un produttore introduce sul mercato una merce
particolarmente ambita, può rifarsi più rapidamente dei costi di ricerca
vendendola a prezzi molto elevati, anche perché di solito questa merce
interessa la fascia più ricca della popolazione. E' inutile dire che a
livello aggregato, non c'è nessuna creazione dal nulla: se una merce viene
venduta ben oltre i propri costi di produzione significa che alcuni
produttori stanno vendendo sotto costo. Questa ovvia osservazione non
implica però alcun equilibrio. Proprio perché il capitalismo è anarchico, l'idea
che questi flussi da una merce all'altra si pareggino è del tutto illusoria.
L'equilibrio è impossibile anche perché la composizione "ottima" della
produzione è legata alla distribuzione del reddito. Gli operai non comprano
limousine, comprano utilitarie; è perciò lecito attendersi una riduzione
della vendita di limousine e un aumento della vendita di utilitarie all'aumentare
dei salari. L'andamento della contrattazione salariale è dunque decisivo per
discutere di domanda e offerta. Ma non basta, perché l'esito finale della
distribuzione del reddito dipende anche dalle scelte di politica economica.
Se ad esempio il governo aumenta la tassazione sul capitale per pagare i
servizi sociali, oppure se la banca centrale aumenta l'offerta di moneta per
tenere alti i profitti, muta la distribuzione del reddito. E' da tutto il
complesso dei rapporti tra le classi che discende la divisione della
ricchezza prodotta e dunque la domanda di ogni singola merce. Poiché l'esito
finale di questa serie di relazioni non è conoscibile a priori, la
produzione capitalistica soffre sempre di problemi di proporzioni. Ma
soprattutto, quando lo sviluppo dei nuovi settori si conclude nel
sovrainvestimento, producendo una recessione, questa sproporzione esplode
con violenza. E' in questi frangenti che si vede come nonostante le sue
peculiarità, anche il capitalismo è sottoposto alle leggi della produzione
in generale[5].
Il senso della trasformazione: tecnologia e conflitto sociale
Nel terzo libro del Capitale, Marx espone un'analisi complessiva del
processo produttivo capitalistico e tenta di portare l'analisi condotta fino
a quel punto in termini astratti (cioè di merci, di valori) dentro il
concreto funzionamento di questa società. Cerca così di trasformare l'analisi
dei valori in analisi dei prezzi. Ora, cerchiamo di capire il perché di
questa operazione. Che cosa aggiunge l'uso dei prezzi all'analisi marxiana?
Serve per "dimostrare" l'esistenza dello sfruttamento? Certamente no, lo
sfruttamento non è peculiare del modo di produzione capitalistico; quello
che è peculiare è che è nascosto dallo scambio di merci; l'uso dei prezzi
serve invece a spiegare quali specificità introduce la concorrenza
capitalistica (cioè la forma contraddittoria con cui si relazionano l'un l'altro
i proprietari dei mezzi di produzione) nella legge del valore. Già nel
Manifesto, Marx ed Engels spiegavano che il capitalismo non può sopravvivere
se non rivoluzionando continuamente i mezzi di produzione; l'analisi dei
prezzi di produzione serve a chiarire questa intuizione: l'appropriazione da
parte dei capitalisti più innovativi di plusvalore proveniente dai rami e
dai capitalisti meno innovativi. Questo è il ruolo della teoria dei prezzi
di produzione. La trasformazione ha senz'altro anche una connotazione
storica, nel senso che ci sono state epoche in cui le merci non si
scambiavano in base alla legge del saggio uniforme del profitto (perché la
mobilità dei capitali era troppo bassa ecc.), ma come detto, anche in quelle
epoche non avevamo di fronte il valore sans phrase ma sue specifiche forme
storiche, seppure di minore complessità rispetto ai prezzi di produzione. Ad
ogni modo questa visione storica della trasformazione non è certo quella che
interessa l'analisi. Il capitalismo trasforma l'operare di tutte le leggi
economiche, per renderle conformi alle proprie necessità specifiche.
La trasformazione ha soprattutto un aspetto analitico, nel senso che nel
terzo libro si passa a un altro livello di analisi del processo produttivo,
si passa dall'astratto al concreto. Secondo noi, la trasformazione non ha un
senso reale in cui i valori e i prezzi coesistono in fasi diverse della
produzione (come valori individuali e sociali) e vengono poi connessi dalla
ridistribuzione del plusvalore (che rappresenterebbe dunque il processo di
trasformazione reale). Che avvenga una ridistribuzione del plusvalore è
indubbio, ma in quale fase del processo esisterebbero nella realtà i valori?
Anche l'azienda più isolata del mondo utilizza strumenti acquistati sul
mercato e i lavoratori verranno pagati al salario monetario prevalente sul
mercato. Dove sarebbero i valori?
Se non ha senso dunque discutere di valori reali (occorre invece
considerarli come rappresentazione astratta della divisione sociale del
lavoro in società mercantili), lo stesso può dirsi per il plusvalore. Il
lavoro non pagato degli operai si esprime in merci e in null'altro. Le merci
hanno un prezzo ancor prima di nascere. Che differenza c'è tra le merci che
costituiscono il lavoro pagato e quelle che costituiscono il lavoro non
pagato? Nessuna, si tratta di prodotti aventi un prezzo di produzione ab
origine. La somma del plusvalore prodotto dalla classe operaia è un insieme
di merci. Questo insieme di merci avrà un valore complessivo somma dei
prezzi per le quantità. A quale stadio i valori "diventerebbero" prezzi? Il
motivo per cui Marx distingue tra plusvalore e profitto è perché il
profitto, in quanto forma specifica e rovesciata del plusvalore, risulta
inintellegibile se non a partire dalla categoria astratta di pluslavoro.
Sarebbe certo possibile calcolare il lavoro non pagato in ogni singola
branca produttiva, ma questa somma di ore non ha significato nel capitalismo
se non sotto forma di merci, è rappresentata da merci. Questa, appunto, è l'essenza
del feticismo delle merci, che i rapporti di subordinazione tra le classi si
esprimono in denaro, attraverso il prezzo di prodotti in cui è incorporato
del lavoro che i capitalisti non hanno mai comprato.
Avrebbe senso occuparsi di queste ore di lavoro? Che esistano è inevitabile
(senza lavoro non c'è produzione), quante siano dipende dal grado di
sviluppo delle forze produttive, ma la loro esistenza reale ha la forma di
merce. Allo stesso modo, per usare l'esempio di Marx, il peso di un oggetto
non esiste separato dall'oggetto medesimo. Tutti gli oggetti hanno un peso,
ed è possibile classificarli tramite questo parametro, così come è possibile
immaginare il peso come misura astratta di ogni cosa, ma il "peso" non si
vede, non c'è. Il peso è l'oggetto che abbiamo di fronte. E quando lo
compariamo (ad esempio su una bilancia), lo compariamo sempre ad altri
oggetti (un pezzo di piombo, ad esempio) e non a una forma generale di peso,
che, per quanto detto, è un'astrazione necessaria ma invisibile, e dunque
inesistente, per chi, come l'economista, si ferma alle cose che vede
immediatamente davanti a sé. La trasformazione, intesa in senso analitico, è
il passaggio ad un'analisi concreta dell'operare della legge del valore. Si
tratta della trasformazione, del rovesciamento, delle leggi della produzione
causato dall'operare della concorrenza. Come si svolge, nel concreto, la
trasformazione? Si svolge trascurando l'estrazione fisica di sovrappiù del
singolo produttore (cioè ignorando la composizione organica individuale) e
remunerando allo stesso modo ogni capitale di eguale dimensione. Nell'illuminante
analogia di Marx, ogni padrone è l'azionista di una immane società per
azioni, da cui trae un dividendo pari alla quota che detiene del capitale
sociale. Quale sia la forma concreta della sua quota di capitale sociale è
indifferente. Proprio come un azionista che ha il 10% di una società, ha il
10% di tutto (macchinari, edifici, contanti ecc.), così ogni capitalista è
come se possedesse una quota di tutte le aziende, sue e dei propri
concorrenti. La dimensione del proprio capitale decide di quanta parte del
risultato finale della produzione finirà nelle sue tasche. Questo meccanismo
(che si realizza nella realtà, ad esempio in borsa) rende indifferente, per
il singolo capitalista, la composizione organica del proprio capitale,
mentre lo spinge ad investire nei settori più innovativi, dove il saggio del
profitto è maggiore. Il punto nodale è che la ridistribuzione del plusvalore
sulla base del capitale posseduto avviene senza l'intervento della
"trasformazione dei valori in prezzi".. I valori, anzi, non compaiono mai,
per il semplice fatto che le merci nel capitalismo possiedono un prezzo
prima ancora di venire alla luce: è il prezzo dei mezzi di produzione e
della forza-lavoro mediamente necessari per produrle, trasportarle e
distribuirle. In nessuna fase del processo di produzione di questa epoca
osserviamo i valori diventare prezzi. Osserviamo, se mai, un processo
continuo di investimento e disinvestimento che, avendo di mira la
massimizzazione del profitto, produce il suo livellamento attorno alla
media. Se si vuole fornire una sintesi aritmetica del problema della
trasformazione, la si deve cercare qui: nel passaggio dalla estrazione
"tecnica", "fisica" del plusvalore, alla sua distribuzione sociale.
Sotto il profilo evolutivo, la trasformazione (cioè la ridistribuzione del
profitto) è necessaria per la sopravvivenza del sistema, e se a ogni
capitalista rimanesse in mano l'effettivo controvalore delle ore non pagate
estorte nelle proprie aziende, il capitalismo non potrebbe esistere. Detto
diversamente, quando la società mercantile raggiunge il grado di sviluppo e
di dinamicità insiti nel capitalismo, la legge del valore deve tramutarsi
nella legge del rendimento uniforme del capitale investito.
L'innovazione tecnologica è attuata allo scopo di ridurre il costo
individuale della merce. Se l'introduzione di una nuova macchina avvenisse
sempre contemporaneamente ad opera di ogni produttore, l'innovazione non
converrebbe mai a nessuno. E' proprio perché uno fa la prima mossa che
costringe gli altri a seguirlo. Come può una macchina ridurre il costo
individuale di produzione? Perché produce di più nello stesso tempo, ad
esempio meccanizzando processi prima manuali, rendendo più veloci alcuni
processi, suddividendoli in più fasi e così via. In definitiva aumenta la
produzione consentendo di automatizzare e standardizzare dei processi (la
routine di cui parlava già Smith). E' del tutto ovvio che il singolo
produttore si serve del nuovo macchinario se il costo complessivo dell'innovazione
consente un risparmio di lavoro e dunque una riduzione del valore delle
merci prodotte. Sul mercato arrivano le merci prodotte con i diversi metodi;
se escludiamo differenze qualitative (cioè ipotizziamo che tutti i metodi
produttivi producano merci identiche), sul mercato si formerà un unico
prezzo per ogni singola merce, a prescindere dai metodi produttivi con qui
viene prodotta questa o quella sua proporzione. Ogni produttore riceverà lo
stesso controvalore indipendentemente dall'effettiva struttura produttiva
prescelta. Se l'automobile è prodotta da cento robot e un uomo o da cento
uomini e un robot, avrà lo stesso prezzo. Il fatto che il padrone dei cento
uomini abbia il merito storico di aver estratto lavoro non pagato a cento
persone è cosa che non riguarda il mercato. Sono fatti suoi. Il mercato gli
riconoscerà un prezzo derivante dal metodo di produzione dominante. Se l'uso
di robot consente un risparmio di costi (e se no perché introdurli?), il
prezzo che si forma sul mercato premierà l'innovatore. Ovviamente, nessun
capitalista accetterebbe di vedersi pagare meno il proprio capitale, come
avverrebbe al capitalista dei cento operai (che pure aveva originariamente
estratto più ore non pagate). Quel signore acquisterebbe immediatamente
robot, o si ritirerebbe da quel settore. In ogni caso, nel tempo, si arriva
ad una situazione in cui tutti i produttori adottano metodi produttivi
simili e a quel punto ce n'è già uno che sta introducendo un nuovo metodo.
L'innovazione rappresenta l'operare della concorrenza tra i singoli
capitali. La concorrenza sembra ed è la realtà immanente del sistema e tutto
ruota attorno ad essa. Ma essa non è che la forma con cui si presenta la
legge del valore. La concorrenza non può creare valore dal nulla, proprio
come nessun mago è davvero in grado di produrre il coniglio che estrae dal
cappello. Per accettare i diversi piani su cui operano la legge del valore e
le leggi della concorrenza si deve essere pronti ad ammettere la storicità
del capitalismo. Non è un problema di "naturalismo", quanto, se mai, di
senso storico. Se si accetta che il capitalismo è una fase storica al pari
delle altre, che ha avuto un inizio e avrà una fine, si può distinguere
produzione di plusvalore e distribuzione del profitto, lavoro produttivo in
senso capitalistico e vera creazione di nuovo valore. Se si rifiuta questa
posizione, si deve accettare l'apparenza per realtà, negando ogni validità
scientifica a quello che esiste dietro ai prezzi, dietro alla concorrenza.
Il senso della trasformazione, che è insieme un processo storico che
ripercorriamo analiticamente, e un metodo scientifico, consiste nel
rappresentare il modo con cui nel capitalismo si sviluppa il processo
produttivo, descrivere le sue leggi di movimento specifiche.
Nel capitalismo i valori assumono la forma di prezzi. Questo significa che i
valori non esistono nel capitalismo se non sotto forma di prezzi.
Perché allora Marx non introduce subito nella discussione il concetto di
prezzo? Perché le specificità che il prezzo attribuisce alla legge del
valore possono essere inquadrate correttamente solo avendo presente la legge
nel suo funzionamento astratto. In poche parole si tratta della discesa dall'astratto
al concreto che attraversa tutte le elaborazioni teoriche di Marx.
Innanzitutto occorre spiegare come opera la legge del valore, poi si può
passare alle modificazioni che essa subisce per lo sviluppo del
capitalismo[6].
La trasformazione, tuttavia, non deve essere intesa come il processo per cui
dal valore si passa, a un dato momento, ai prezzi. Sarebbe come dire che da
una società mercantile astratta si passa al capitalismo, o anche che dall'animale
si passa all'uomo. Un essere vivente "animale" non è mai esistito, l'antenato
dell'uomo non è un generico animale ma una specifica forma di animale, il
cui sviluppo ha dato origine all'uomo. Prima dei prezzi non c'erano dunque i
valori, ma c'era un'altra determinazione storica dei valori. I valori in
quanto tali stanno dietro a ogni specificazione storica (compresa quella dei
prezzi di produzione) ma non compaiono all'evidenza empirica in nessuna di
esse. Sono su un piano logico diverso, proprio come "animale" e "uomo"..
Molti hanno invece interpretato, sulla scorta di una tesi engelsiana, valore
e prezzo come antenato e successore (anche se in quel brano di Engels è meno
ingenuo di quanto si possa credere)[7]..
Marx parla del valore come forma astratta, generale, assunta dal lavoro
nella società mercantile. Introducendo questa forma, si è in grado di
comprendere ogni singola epoca storica. Marx spiega, però, che oltre alla
legge generale occorre ridiscendere al concreto, arricchendo l'analisi
generale dei particolari di quel concreto modo di produzione. Nello
specifico, questo significa che la legge del valore nel capitalismo deve
passare attraverso la concorrenza, cioè attraverso l'uguaglianza del
capitale di fronte alla distribuzione del plusvalore. La trasformazione è
dunque sia una singolarità storica data una volta per sempre, sia è un
processo che realmente si dà nel capitalismo in ogni singolo momento. Questo
si può comprendere partendo dalla distinzione che abbiamo fatto tra lavoro
produttivo e lavoro improduttivo nel capitalismo. Ipotizziamo che esistano
solo due tipi di capitalisti: i proprietari delle industrie in cui si
producono le merci "normali" e i proprietari di bordelli e case da gioco in
cui operai e capitalisti lasciano parte consistente del loro reddito. Se i
due settori sono in concorrenza, il saggio del profitto sarà uniforme.
Guardando alla catena capitale-prezzi-profitto, questi due tipi di
imprenditori sono identici. Per le leggi del capitalismo sono
indistinguibili. Se però ci fermiamo qui, dobbiamo concludere che la
roulette e il furto aumentano il sovrappiù sociale, il che appare
semplicemente un'assurdità. Guardando ai valori, scopriamo che il sovrappiù
sociale viene aumentato solo dal settore realmente produttivo (l'industria,
l'agricoltura, i trasporti, ecc.) e che gli altri imprenditori si
appropriano di una quota di questo sovrappiù né più né meno che se
rapinassero i loro colleghi pistola alla mano. D'altronde, questi ultimi non
hanno di che lamentarsi, perché le leggi della concorrenza impongono che
tutti i capitalisti siano trattati allo stesso modo, a parità di capitale
posseduto. Nel caso del lavoro produttivo, l'operare della ridistribuzione
intersettoriale è piuttosto chiaro. La trasformazione si applica con la
stessa logica relativamente alla diversa composizione organica del capitale.
Il fatto che solo il lavoro vivo possiede la qualità di valorizzare il
capitale (in quanto manifestazione del rapporto lavoro-natura di cui si è
detto) nulla può contro le leggi di sviluppo del capitalismo, o meglio, in
queste leggi la verità eterna deve rappresentarsi nella forma rovesciata,
necessaria allo sviluppo di questo sistema. La concorrenza è indifferente
alla natura viva o morta del capitale. Questa indifferenza, sta qui il punto
centrale, è necessaria allo sviluppo del capitalismo. In quanto consente di
non distinguere tra le composizioni dei diversi capitali, è un invito all'innovazione
tecnologica, alla sostituzione del lavoro vivo con quello morto. In questo
modo realizza, in modo del tutto inconsapevole, ad una velocità mai vista
prima, la legge del risparmio del tempo di lavoro. Il singolo capitalista
trae un vantaggio dall'aumento della composizione organica del suo capitale,
appropriandosi di pluslavoro estratto, in verità, ai lavoratori dei suoi
concorrenti più pigri.
E' possibile una rappresentazione matematica di questo processo? Ha senso
che in una stessa equazione ci siano valori e prezzi? Non è un po' come un'equazione
di questo tipo: somma del numero di cavalli, cani, gatti, scimmie,
delfini...=somma del numero dei mammiferi? L'idea che avevano i primi
economisti neo-ricardiani (Dmitriev, Bortkiewicz, per intenderci) è che i
valori esistono realmente presso la singola unità produttiva e che sarebbe
teoricamente possibile farne una somma per calcolare il valore (e il
plusvalore) complessivo prodotto dalla società in un dato periodo (come
somma del lavoro diretto e indiretto necessario alla riproduzione delle
condizioni sociali di esistenza della società in quell'istante). A questo
punto, sulla base della diversa composizione organica, i singoli valori si
muterebbero nei singoli prezzi di produzione, mantenendo inalterato il
valore complessivo pari alla somma totale dei prezzi. Qualunque siano le
difficoltà tecniche dell'operazione, "i conti devono tornare", secondo l'espressione
di Marx, e peraltro, le difficoltà tecniche sono state superate. Ma
inutilmente. E' solo se si concepiscono il valore e il prezzo come due
concetti aventi la stessa natura epistemologica, solo a diverso stadio del
processo complessivo della produzione, se, cioè, si rimane all'impostazione
ricardiana della misura invariabile del valore, questa soluzione è
accettabile. Ma si è detto che non è questa l'idea marxiana.
A nostro giudizio, l'errore di Marx non consiste nel formulare malamente
questa o quella equazione, ma nel tentativo di schiacciare la
rappresentazione in valori (e dunque astratta) da cui parte l'analisi, sulla
rappresentazione in prezzi (e dunque concreta) a cui si arriva. La cosa
colpisce perché lo stesso Marx, presentando i diversi esempi della
trasformazione, spiega che non è possibile partire dai valori e finire ai
prezzi, per il semplice fatto che nel capitalismo i valori non compaiono
mai, essendo ogni merce scambiata al suo prezzo ab origine. Questa
osservazione impedisce ogni meccanismo aritmetico in cui vengano posti da
una parte dell'equazione i valori e dall'altra i prezzi. Ripetiamo che se
fosse così, questo implicherebbe l'esistenza reale del valore. Il sistema
dei valori sarebbe determinabile a prescindere da quello dei prezzi. Così un
economista potrebbe "vedere" i valori con un'indagine dei coefficienti di
produzione di ogni merce. Ma pensiamoci un attimo: questi coefficienti hanno
una struttura fisica (come nei bilanci materiali dell'Urss, o nell'esempio
grano-porci-ferro di Sraffa), che però nulla ci dice sui loro valori, così
come gli ingredienti di una torta non ci dicono nulla sul costo della torta.
Non appena passiamo a valutare l'effettivo costo di ogni merce dobbiamo
sostituire alle quantità fisiche i loro prezzi. Di nuovo, i valori non
compaiono mai. Dalle quantità fisiche si passa alla valutazione sociale di
tali quantità, e la valutazione sociale che il capitalismo fa di queste
merci ha la forma di prezzo. E' solo l'indagine dell'analista, la marxiana
"forza dell'astrazione", che scova dietro e dentro ai prezzi i valori, cioè
il lavoro, la subordinazione della classe operaia ai proprietari dei mezzi
di produzione.
Il motivo per cui Marx, pur consapevole dell'impossibilità di eguagliare
epistemologicamente prezzi e valori, indirizzò l'analisi successiva per
quella strada è che temeva di lasciare aperta la strada a un'interpretazione
del plusvalore diversa dal lavoro non pagato alla classe operaia. E'
innegabile che gli economisti borghesi abbiano usato le aporie della teoria
del valore per giustificare il ruolo necessario, benefico, del capitalista
nella produzione. Ma non è risolvendo matematicamente questo punto che si
evitano le critiche. Le critiche sarebbero rimaste, semplicemente si
sarebbero aggrappate ad altro; in compenso non si sarebbe fatta avanti l'idea
che una certa conformazione di una matrice possa "dimostrare" la validità
del marxismo.
Le preoccupazioni di Marx erano comunque legittime, soprattutto se si
considera che la teoria dello sfruttamento ha una base immediata reale (il
lavoro erogato dalla classe operaia che non viene remunerato), ma non si
ferma a questa visione meramente fisica, proprio perché si basa sulla
visione di una teoria generale del lavoro del tipo di quella delineata poc'anzi.
Lo stesso Marx nei Grundrisse, nel famoso passo sul macchinismo, spiega che
non è solo in quanto fisicamente creatore del plusprodotto che il lavoro
umano è produttivo, è sfruttato, è alienato; al contrario, il furto di ore
di lavoro appare una base produttiva ben misera in confronto alle scoperte
della scienza (quante ore di lavoro ci vogliono, ad esempio, per costruire
una bomba atomica in grado di annientare un intero continente?); il problema
è che queste scoperte, la "natura" in senso lato, si connette all'umanità
solo in quanto passa per il lavoro, ovvero entra a far parte della divisione
sociale del lavoro. Per quanto il vento sia "gratis", le centrali eoliche
consumano una quota di forza-lavoro sociale e di altre merci a cui la
società deve far fronte se vuole usufruire del dono della natura. La legge
del valore ci spiega come la società può appunto far fronte a queste
esigenze. La ridistribuzione del plusvalore sulla base del saggio del
profitto uniforme ci spiega come la legge del valore si modifica per
permettere lo sviluppo del capitalismo.
I capitalisti sfruttano i lavoratori estraendo da essi lavoro non pagato ed
estorcendo loro la capacità, che solo essi hanno, di mettere in grado la
società di appropriarsi di ogni tipo di ricchezza, anche quelle
originariamente prodotte dalla natura. Per consentire l'ordinato sviluppo
del capitalismo, la distribuzione dei risultati dello sfruttamento avviene
sulla base della dimensione relativa del rispettivo capitale e non sulla
base del lavoro non pagato da ogni singolo padrone ai propri dipendenti. Il
problema della trasformazione è, in ultima analisi, il problema dell'analisi
delle condizioni di sfruttamento della classe operaia nelle condizioni poste
dal capitalismo. Ai critici che vorrebbero eliminare le sofisticherie del
valore per limitarsi al mondo feticistico dei prezzi non possiamo che
rispondere che si fanno paladini di una scienza inutile, in cui sostanza e
superficie delle cose sono uguali. Pensando invece a quegli studiosi che non
comprendono perché il terzo libro del Capitale venga dopo il primo, non si
può che concordare con Marx: questi signori vorrebbero si desse la scienza
prima della scienza.
La riproduzione allargata del problema della trasformazione
Nella sua forma storica, la trasformazione implica il progressivo
allargamento delle condizioni capitalistiche di produzione. L'allargamento
riguarda i diversi settori (agricoltura, industria, ecc.), le diverse aree
geografiche e le diverse categorie di produttori (piccola produzione, grande
industria ecc.). Tale allargamento prende essenzialmente la forma di lotta
per il profitto, anzi si svolge per questo. Un'azienda entra in un settore,
apre una fabbrica in questo o quel paese, modifica le tecniche produttive
ecc., perché ritiene di ottenere un più alto saggio di profitto. Poiché
anche tutti gli altri concorrenti fanno lo stesso, l'esito finale, dopo la
ridistribuzione operata dal mercato del plusvalore prodotto nella
produzione, è un aggravamento delle condizioni di accumulazione
capitalistica per il futuro.
Storicamente parlando, la lotta per il profitto, e dunque la trasformazione,
nasce all'interno di una particolare industria tra i diversi metodi
produttivi. Si allarga ai vari settori industriali con diverse composizioni
organiche e anche al rapporto tra capitale industriale e altre forme di
capitale (commercio, sistema creditizio e finanziario, ecc.). Infine, si
arricchisce del rapporto tra paesi avanzati e colonie. La cosa interessante
è che se svolgiamo le tendenze di fondo in questi processi emerge un'analoga
necessità politica: l'imperialismo. Che sia per la caduta tendenziale del
saggio di profitto, che sia per lo sproporzionamento dei diversi rami
produttivi, che sia per l'anarchia, tutti questi processi ci parlano della
crisi e anche del tentativo di uscirne manu militari.
Una "soluzione"?
Centinaia di economisti, matematici e altri scienziati si sono concentrati
sull'idea di fornire una "soluzione" (nel senso dell'algebra matriciale) al
problema della trasformazione. Per noi questi tentativi non hanno senso. Il
motivo per cui possiamo escludere l'utilizzo di un metodo matematico che
permetta il passaggio dai valori ai prezzi deriva dal fatto che questo
passaggio non esiste nella realtà del capitalismo. Il passaggio è già
avvenuto con il definitivo dominio del capitalismo sul mondo intero. In
quale fabbrica, settore, paese esisterebbero i valori accanto ai prezzi di
produzione? In nessuna concretamente, in tutte analiticamente. La
trasformazione è un processo storico dinamico, che sta ad indicare le
tendenze immanenti della produzione capitalistica e dunque della lotta di
classe in questa epoca.
Sottolineando il furto di plusvalore che avviene ai danni dei capitalisti
meno innovativi (sia tra settori, sia tra paesi, sia all'interno dello
stesso settore) si spiega la spinta costante a rivoluzionare i metodi di
produzione. In questa corsa rimangono indietro i capitalisti che non hanno
sufficienti capitali da gettare nella competizione. Il sistema finanziario,
e in particolare la borsa, consentendo una circolazione estremamente rapida
del denaro, cioè dell'esito finale del processo di produzione capitalistico,
rendono il furto, cioè la ridistribuzione, tecnicamente efficiente. Questa
efficienza non è però un'efficienza assoluta, ma un'efficienza che rimane
nel perimetro capitalistico. Ciò significa che non sempre conduce ad una
effettiva riduzione del tempo di lavoro necessario. Nonostante le
raffinatezze della finanza, occorre perciò un metodo più brutale per
ricondurre l'anarchia della produzione alle leggi di natura che non possono
essere annullate. Questo metodo è la crisi. Durante le crisi (economiche ma
anche politiche e sociali) si regolano bruscamente i conti tra capitalisti.
Interi settori vengono spazzati via, i produttori più inefficienti vengono
comprati o distrutti, guerre commerciali o scontri militari veri e propri
distruggono forze produttive e insieme rami secchi. Insomma, le sproporzioni
tra i vari settori, l'anarchia con cui si sviluppa il sistema, vengono
ricondotte alle necessità dello sviluppo generale in uno scontro violento,
in una guerra di tutti contro tutti che si svolge non solo tra classe
operaia e capitalisti, ma anche tra paesi e tra settori. Non a caso le
grandi crisi del capitalismo sono periodi in cui sorgono nuove branche della
produzione, e insieme sono periodi di guerre, rivoluzioni e
controrivoluzioni. Qual è dunque la "soluzione" cui il capitalismo ricorre
per ricondurre i prezzi ai valori, se così vogliamo dire, cioè per eliminare
le distorsioni più patenti del sistema? La crisi economica.
Ogni crisi sviluppa su scala più ampia le caratteristiche intrinseche del
capitalismo: concentra i mezzi di produzione in meno imprese, aumenta la
composizione organica del capitale, allarga la divisione internazionale del
lavoro. Le crisi, ovviamente, non risolvono che in modo provvisorio l'anarchia
della produzione, rinviandola semplicemente al futuro, come un debitore che
continua a rimandare i propri debiti contraendo altri debiti.
In tutto questo, quale ruolo rimane al problema dei prezzi relativi? Questo
sembra al centro dell'attenzione di buona parte della letteratura su questi
temi. Secondo noi, invece, è un ruolo alquanto secondario, del tutto
dipendente dai problemi di sviluppo economico anarchico che si sono
descritti. In sintesi, l'andamento dei prezzi relativi riflette lo sviluppo
diseguale dell'innovazione tecnologica tra i vari settori, e dunque, in
ultima analisi, la velocità con cui ogni settore accumula e investe. Non c'è
altro che rilevi su questo punto.
Conclusioni
La teoria del valore spiega lo sviluppo di un sistema produttivo anarchico,
in cui la divisione del lavoro deriva dall'incontro sul mercato di
produttori indipendenti anziché dalla pianificazione cosciente. I diversi
lavori sono sussunti dai valori delle merci. Storicamente, il valore si è
manifestato in diverse forme, corrispondenti alle peculiarità delle
specifiche epoche storiche. Nel capitalismo i valori esistono sotto forma di
prezzi; hanno cioè un'esistenza monetaria che elimina, se si rimane alla
superficie del fenomeno, il legame con il lavoro sociale. La scienza ha
invece il compito di svelare il doppio piano di esistenza dei prezzi. Tale
duplicità deriva dal fatto che il lavoro, nel capitalismo, non è
direttamente sociale. E' il mercato che trasforma in sociale il lavoro (e
dunque il valore) individuale. Il denaro, in quanto merce delle merci,
astrazione per eccellenza, fa scomparire qualsiasi legame tra lavoro e
valore. Qualunque sia la sua origine il denaro vale lo stesso. Così, con il
denaro, il tempo di lavoro necessario scompare dalla superficie e dunque
dall'analisi economica borghese. Perdendo di vista la duplicità del valore
monetario (cioè dei prezzi), ci si impedisce di comprendere le leggi di
funzionamento del capitalismo. La duplicità di valori e prezzi è una
duplicità analitica, non "industriale". Non si tratta di contrapporre valori
e prezzi come entità esistenti, rispettivamente, prima e dopo il passaggio
per il mercato. I valori hanno forma di prezzi, ma i prezzi non esauriscono
la spiegazione economica necessaria per comprendere la dinamica economica,
poiché nascondono l'origine del profitto: il lavoro sociale. La
trasformazione in Marx è la spiegazione dell'operare specifico della
concorrenza sulla legge del valore, un operare che implica il rovesciamento
e insieme l'ipostatizzazione delle caratteristiche precipue della teoria del
valore. Nella maggior parte degli interpreti, invece, il problema della
trasformazione è un problema di algebra matriciale dovuto ad alcuni disguidi
aritmetici negli schemi del Marx delle "tavole" della trasformazione del III
libro. Se si concepisce il rapporto tra valori e prezzi come un diverso
livello di analisi (riflesso, in ultima analisi, di un progresso reale delle
forze produttive, dello sviluppo del capitalismo a livello mondiale), la
"soluzione" del problema risiede nelle modalità concrete con cui il
capitalismo è condotto a risolvere violentemente i suoi squilibri più
patenti, ovvero le crisi economiche. Attraverso il meccanismo del ciclo
economico, i prezzi, il denaro, e le altre forme fenomeniche di esistenza
dei valori vengono ricondotte all'operare della legge del valore, le cui
dinamiche, seppure solo in ultima istanza, si impongono sulle tendenze di
ogni epoca storica, comprese quelle indotte dalla concorrenza capitalistica.
Il problema della trasformazione ci parla dello sviluppo del capitalismo e
dei suoi riflessi sulla lotta di classe.
Bibliografia
Bohm-Bawerk E., Hilferding R. e altri, Economia borghese ed economia
marxista, La Nuova Italia, Firenze,
Carandini G., Lavoro e capitale nella teoria di Marx, Einaudi, Torino,
Lippi M., Marx. Il valore come costo sociale reale, Etas, Milano,
Lunghini G., Saggi di economia politica, Unicopli,
Marx K., Il capitale, Editori Riuniti, Roma,
Marx K., Critica al programma di Gotha, Editori Riuniti, Roma,
Marx K., Lettere a Kugelmann, Editori Riuniti, Roma,
Marx K., Grundrisse, La Nuova Italia, Firenze,
Medio A., Profits and Surplus-Value: Appeareance and Reality in Capitalist
Production, in a cura di Hunt e Scwhartz, "A critique of Economic Theory"
Rosdolsky R., Genesi e struttura del "capitale" di Marx, Laterza, Bari, 19
Sweezy P. M., e altri La teoria dello sviluppo capitalistico, Boringhieri,
Torino,
Vigodsky V., Introduzione ai "Grundrisse" di Marx, La Nuova Italia, Firenze,
Appendice
1. L'origine marxiana del problema, il III libro del Capitale
Marx si occupa di prezzi soprattutto discutendo della trasformazione del
plusvalore in profitto. Che tra la discussione sulla legge in generale (il I
libro) e la sua forma capitalistica (il III libro), ci sia una
contraddizione (almeno nell'apparenza fenomenica della discussione) è Marx
il primo ad osservarlo, tanto è vero che, introducendo il saggio medio del
profitto, scrive:
"Sembra quindi che la teoria del valore sia in questo caso inconciliabile
con la reale fenomenologia della produzione, che bisogna perciò rinunciare a
comprendere" (Marx, Il capitale. Libro III, p. 193)
Il profitto, che è la forma che il pluslavoro assume quando il capitale è
"ricompensato" uniformemente, dà l'impressione che tutto il capitale sia
parimenti produttivo, nascondendo l'origine del sovrappiù che va dunque
scoperto per mezzo dell'analisi. L'economia borghese spiega che non esiste
altro che la forma fenomenica e così esclude ogni possibilità di comprendere
le leggi di movimento del capitalismo. Purtroppo, anche alcune correnti di
economisti radicali hanno suggerito una simile "correzione" al marxismo.
L'origine del plusvalore non è nascosta solo dall'uniformità del saggio del
profitto, ma anche dal fatto che, poiché il pluslavoro non è pagato, la
diversa composizione organica non può entrare come elemento di
discriminazione nel processo di ridistribuzione del plusvalore tra i
capitalisti. La legge fenomenica di funzionamento del capitalismo, la parità
di trattamento tra possessori di capitale, nasconde alla vista la legge del
valore, cosicché il lavoro produttivo, ma non pagato, non si vede, il
capitale improduttivo ma remunerato si vede. Poiché ai capitalisti non
interessa che la loro società, che anzi eternano ideologicamente,
estendendone l'esistenza in ogni tempo passato e futuro, per loro esiste
solo il livello fenomenico, solo il profitto:
"...in realtà è il saggio del profitto che storicamente ha costituito il
punto di partenza. Plusvalore e saggio del plusvalore sono, in senso
relativo, l'invisibile, l'essenziale da scoprire, mentre il saggio del
profitto e quindi il profitto, forma del plusvalore, si mostrano alla
superficie del fenomeno." (Ibidem, p. 69, corsivi aggiunti)
Come si vede da questa citazione, Marx concepisce il profitto come la forma
capitalistica del plusvalore. Il plusvalore nel capitalismo esiste come
profitto. Vediamo un altro passo che conferma questa interpretazione:
"il profitto è non di meno una forma mutata del plusvalore, una forma in cui
viene dissimulata e cancellata l'origine del plusvalore...in realtà il
profitto è la forma fenomenica del plusvalore, il quale ultimo deve essere
enucleato dal primo mediante un processo di analisi." (Ibidem, p. 74,
corsivi aggiunti)
Quest'idea è perfettamente simmetrica a quella che indica nel prezzo la
forma fenomenica del valore. In questo modo nel capitalismo non esisterebbe
che il binomio profitto-prezzo, potendosi discernere la loro forma "reale"
(plusvalore-valore) solo con un'analisi scientifica.
Ci si potrebbe allora chiedere a che cosa servano gli schemi della
trasformazione, in cui Marx pone valori e prezzi sullo stesso piano. Mi
sembra che si debba arguire che Marx vuole mantenere distinti i due piani
proprio per non confondere le leggi di funzionamento specifico del
capitalismo con la legge del valore in generale. Esiste una differenza e
questa differenza spiega come il capitalismo si muove giorno per giorno, ma
anche perché esso è ricondotto violentemente alla realtà della legge del
valore (tramite le crisi). Che però la trasformazione sia anche un processo
storico è indubbio, leggiamo infatti:
"Nei libri I e II abbiamo studiato soltanto i valori delle merci...mentre
assistiamo allo sviluppo di una nuova forma del valore, il prezzo di
produzione della merce" (Ibidem, p. 204)
E in un altro passaggio Marx sembra dare ragione all'idea esposta da Engels
nell'introduzione al III libro e osserva che lo scambio ai valori richiede
un grado di sviluppo inferiore di quello richiesto dai prezzi di produzione.
Sembrerebbe dunque che la forma storica che ha preceduto i prezzi, se non
proprio rappresentata da valori tout court, fosse comunque assai più vicina
all'idea di lavoro socialmente necessario.
Quando si forma il saggio medio del profitto (analiticamente e
storicamente), profitto e plusvalore e non solo il loro saggio "sono
grandezze effettivamente differenti". E così il processo di produzione del
valore è del tutto nascosto e rovesciato. Con lo sviluppo della produttività
del lavoro, diviene difficile capire il fatto che il valore delle merci è
determinato dal lavoro in esse contenuto. Negarlo non significa solo
accettare per buono il feticismo capitalistico, negando l'esistenza della
realtà della produzione, ma soprattutto significa negarsi la possibilità di
comprendere i processi basilari di sviluppo del capitalismo, le sue
caratteristiche più importanti, prima fra tutte le sue crisi cicliche. Alla
scienza occorre l'essenza e il fenomeno, il I e il III libro.
Sebbene questa sia la ragione per cui, secondo noi, Marx discute delle
tabelle, occorre ribadire che l'idea delle somme totali è incompatibile con
i passi sui prezzi di produzione come forma ultima dei valori. Marx
costruisce le tabelle per istituire un ponte tra essenza e fenomeno e scrive
che il livellamento al saggio medio provoca:
"...la tendenza a fare dei prezzi di produzione semplicemente forme
trasformate del valore o a trasformare i profitti in semplici parti del
plusvalore, che però non sono distribuite in proporzione al plusvalore
prodotto in ogni particolare sfera della produzione, ma in proporzione alla
massa di capitale impiegato in ciascuna di esse." (Ibidem, p. 216, enfasi
aggiunta)
Ovvero, se la trasformazione è anche un processo storico (la sussunzione
reale della forza-lavoro, l'astrazione come forma concreta dello sviluppo
tecnologico) esistono solo i prezzi di produzione; il saggio di profitto
uniforme esiste come tendenza immediata del capitalismo, perché le merci
hanno forma di prodotti di capitale e questo è più e diverso che essere
merci e basta.
L'ultima parte di questa sezione del III libro è dedicata da Marx a
discutere dell'influenza del mercato. Che ruolo hanno domanda e offerta nel
muovere i prezzi di produzione; se concepiamo i redditi come merci, il
paniere di merci consumato a diversi livelli di reddito è concepibile come
un insieme di semilavorati atti a produrre quella particolare forza-lavoro.
Per questo, quando varia il rapporto salari/profitti, muta anche la
composizione della produzione (e i prezzi relativi). La composizione e il
livello della domanda dipende dalla distribuzione del reddito (Marx ce lo ha
insegnato egregiamente con gli schemi di riproduzione). Senz'altro, possiamo
accogliere l'idea di non occuparsi delle oscillazioni, l'importante è capire
che la lotta di classe spiega la distribuzione del reddito e la domanda, è
la connessione tra produzione e domanda. Per questa via, il conflitto
sociale entra anche nella spiegazione del problema della trasformazione.
2. Marxisti sraffiani e sraffiani
Il contributo di Sraffa è stato letto, da alcuni, come l'ultimo chiodo sulla
bara della teoria del valore di Marx, da altri come un suo positivo
sviluppo. La cosa interessante è che nonostante le diversità teoretiche e
ideologiche di queste due scuole (chiamiamole: marxisti sraffiani e
sraffiani), i loro strumenti analitici sono pressoché identici (riducendosi
poi all'algebra matriciale).
Uno dei lavori più noti e incisivi, pur nella sua sinteticità, è
rappresentato dall'articolo di A. Medio "Profits and Surplus-Value:
Appeareance and Reality in Capitalist Production".
Questo lavoro si basa sull'idea che il valore è una relazione sociale con i
mezzi di produzione e che il lavoro è il contributo dell'uomo alla
produzione. La teoria del valore di Marx non è perciò una teoria dei prezzi
relativi né un lamento morale per il furto di lavoro non pagato, è il
tentativo di spiegare le leggi di funzionamento delle società produttrici di
merci, a partire da quella di esse più evoluta. La caratteristica precipua
di queste società è che le relazioni sociali acquistano la forma di scambio
di merci: per il mercato passano anche i rapporti di produzione.
I neo-ricardiani risolvono il problema matematico di far derivare dal
rapporto salari-profitti i prezzi relativi ma non spiegano perché nel
capitalismo è possibile per la classe che detiene i mezzi di produzione
trarre un profitto. Se partiamo dalla considerazione vista prima (il mercato
come luogo in cui si scambiano merci come rapporti sociali) capiamo che la
teoria del valore è una teoria dello sfruttamento: lo scambio di merci
nasconde lo sfruttamento di una classe da parte di un'altra. La specificità
del capitalismo è che lo sfruttamento non assume forme scoperte, dirette, ma
assume la forma di merce, lo sfruttamento si concreta in un insieme di
merci.
A questo punto, Medio introduce il suo modello matematico (che poi non è
altro che il "settore tipo") partendo da due proposizioni di Marx:
a) i prezzi di produzione e il saggio uniforme del profitto possono essere
determinati come funzioni dei valori delle merci;
b) esiste una merce "media" il cui prezzo corrisponde al valore per ogni
saggio del profitto.
Ora, la proposizione b), secondo me, è un trucco algebrico per risolvere l'annosa
questione di Ricardo della misura invariabile (non per nulla Marx diceva che
il Capitale, in quanto lavoro analitico, era la continuazione necessaria
dell'analisi dei classici), un trucco peraltro piuttosto carente, come
spiegherà Sraffa. La proposizione a) non è una proposizione che possa essere
inserita in un'equazione più di quanto lo possa l'idea che l'evoluzione
animale dipende dalla lotta per la sopravvivenza.
A dimostrazione che la proposizione a) non ha senso matematico vediamo come
questo filone procede per trasformare i valori in prezzi. Parte da
coefficienti simili a quelli della matrice tecnica di Leontiev. Ci dice
cioè: per produrre un'unità del bene i ci vuole un tot di quantità di merci
1,2,...n; una certa quantità di lavoro e infine il paniere di merci
ricomprese nel salario. Ma queste quantità sono quantità fisiche, il cui
valore non può che essere espresso in un prezzo, tanto è vero che l'impresa
potrebbe comprare la merce sul mercato piuttosto che fabbricarla
autonomamente. Che senso ha dunque parlare di queste cose in termini di
valore, per poi, con qualche ingegnoso meccanismo, passare ai prezzi? Il
valore della forza-lavoro nel capitalismo non esiste, esiste il suo prezzo
di produzione. La dimostrazione che è possibile scovare una merce "media" e
un settore "medio", da usare come leva per la trasformazione, ci dice solo
che è possibile dimostrare matematicamente che in un sistema di prezzi
relativi salari e profitti sono inversamente correlati. E' un risultato
importante, che estende l'intuizione di Ricardo valida in un'economia con un
solo settore, ma non ci dice nulla sul funzionamento dinamico del
capitalismo. Il ruolo della legge del valore è ben altro.
Sul versante degli sraffiani potremmo citare i lavori di Garegnani, Steedman
e altri. Ma qui è d'uopo invece concentrarsi sul libro di M. Lippi "Marx. Il
valore come costo sociale reale", per il suo legame con i temi trattati
prima.
Lippi parte dal concetto di costo sociale reale inteso come la misura
necessaria alla produzione di un bene in quanto prodotto, cioè a prescindere
dai costi che in esso sono incorporati in quanto merce. Il problema di
questo concetto è che alcune spese sono senz'altro facili da "eliminare"
(marketing, stipendi delle guardie e dei manager ecc.), ma nel capitalismo
vi sono intere branche inutili, senza contare che l'inutilità è qualcosa che
muta nel tempo. Qual è il costo sociale reale di una Rolls-Royce? O di uno
yacht? O di uno spot che pubblicizza uno yacht?
Ad ogni modo si coglie l'essenza del programma di Marx: dietro alle diverse
forme assunte dal valore effettivo di scambio delle merci sta il lavoro
sociale, i prezzi ridistribuiscono il plusvalore.
In questo senso, Lippi dice che la conservazione delle quantità ha un ruolo
centrale (come il passaggio delle forme di energia). Secondo noi, invece,
occorre tenere distinti i piani: l'aspetto centrale è la fonte del nuovo
valore, non la conservazione degli stessi. Se il programma riesce:
"il prezzo di produzione e il profitto vengono mostrati come modi in cui il
lavoro e il pluslavoro si manifestano nella produzione capitalistica."
(Marx. Il valore come costo sociale reale, p. 12)
Con il che, scompare la possibilità che si manifesti anche un'altra forma di
valore (se non forse in altri regimi storici). E qui Lippi propone la sua
idea che la teoria del valore di Marx "è dominata, in tutte le sue
ramificazioni, da un elemento 'naturalistico'" che va eliminato. Di questo
presunto elemento naturalistico si è già detto sopra, e non ci torniamo in
sede di critica. Lippi giunge a questa conclusione analizzando il problema
del lavoro produttivo. O è produttivo tutto il lavoro che si scambia con
capitale (e allora non ha senso distinguere tra lavori produttivi di un tipo
e dell'altro), o esiste una forma naturale di lavoro produttivo da cui per
differenza emerge la forma capitalisticamente distorta della stessa. Come
detto, appare agevole distinguere quelli che Marx chiama i costi puri della
circolazione (ma lo stesso vale per le funzioni del capitale bancario). Ma
nello specifico della produzione, la cosa è assai più difficile. Ad esempio,
è produttivo l'impianto che produce acciaio che serve per scopi legati ai
costi puri di circolazione? E' produttivo il lavoro impiegato a costruire un
palazzo che ospiterà una banca? Partendo dall'aspetto della singola
operazione non ne usciremo mai. L'unica soluzione è concepire la legge del
valore come un rapporto sociale.
"...vi sono in Marx due concetti di 'falso costo': falso costo in relazione
ad una data merce, il lavoro speso direttamente e indirettamente per la pura
circolazione di quella merce; e falso costo in generale, nel senso di
dispendio di lavoro che è inerente alla società capitalistica, come tale, ma
non è necessariamente imputabile, come falso costo, ad una merce
particolare." (Ibidem, p. 26)
Che è un'analisi che si avvicina all'idea del valore come rapporto sociale.
Lippi analizza poi la ben nota lettera a Kugelmann in cui Marx parla appunto
di legge di natura e spiega che attraverso il lavoro necessario, gli uomini
non fanno che distribuirsi il lavoro sociale, e, occorre aggiungere, i
risultati di tale lavoro. Non si tratta però di "legalità naturale" come
dice Lippi, bensì di materialismo storico e dialettico, di analisi dello
sviluppo delle formazioni sociali in cui si è evoluta la storia umana.
Parlando del noto passaggio sul ruolo dello sviluppo del macchinismo, Lippi
spiega il problema della necessità eterna della misurazione delle merci
tramite lavoro:
"Marx sostiene che, essendo il valore la forma in cui il costo in lavoro si
presenta entro la produzione di merci, la misura in lavoro dei prodotti
continua a svolgere un ruolo centrale, a causa del permanere della
produzione di merci, anche quando la produttività del lavoro è divenuta tale
da rendere del tutto inutile la considerazione sociale di quel costo."
(Ibidem, p. 63)
La conclusione che si trae dall'analisi matematica della trasformazione è
che le due uguaglianze non possono essere mantenute e che dunque la teoria
del valore-lavoro è da buttare. Ma niente paura, ci assicurano gli
sraffiani, con i nostri modelli si mantiene l'origine del profitto nel
plusvalore e così la nozione di sfruttamento. L'errore della costruzione
marxiana starebbe nello "sfondo naturale della produzione" da cui parte; nel
capitalismo prevalgono solo leggi capitalistiche; per questo possiamo
servirci dei prezzi senza nemmeno nominare i valori. Il lavoro incorporato
nelle merci ci dice ormai poco del loro prezzo di mercato. Ma Marx è anche
il teorico della crisi e dell'anarchia capitalistica:
"Marx è il solo tra gli 'economisti' che abbia posto la crisi al centro
della rappresentazione. E ciò è perché pensa la società capitalistica, al
contempo, come manifestazione e come negazione della produzione in
generale." (Ibidem, p. 152)
3. Prezzi come forma del valore
L'opera che forse meglio rappresenta l'interpretazione del III libro
corrispondente a quella adottata nella presente ricerca, è cioè che i prezzi
sono la forma monetaria del valore, è "Lavoro e capitale nella teoria di
Marx" di G. Carandini. In particolare, nell'appendice che tratta del
problema della trasformazione, l'autore spiega che nel sistema capitalistico
le merci si scambiano ai loro prezzi. La situazione è perciò questa:
"per scoprire l'essenza della "forma concreta" realmente operante negli
scambi di merci prodotte capitalisticamente, che è il prezzo di produzione,
Marx ha dovuto mettersi alla ricerca della sua originaria "forma astratta".
Pervenuto per via di analisi fino all'elemento più semplice, più astratto,
cioè alla merce e al suo valore di scambio, ha dovuto poi spiegare come il
tempo di lavoro necessario dal punto di vista sociale, che ne costituisce la
misura, in un sistema produttivo fondato sulla divisione non pianificata del
lavoro, si manifesti contraddittoriamente nella opposizione dialettica di
valore-lavoro individuale e valore-lavoro sociale, la quale si estrinseca
nella opposizione reale di merce e denaro." (Lavoro e capitale nella teoria
di Marx, p. 260)
E ancora:
"la legge del valore si afferma...con tanto maggiore forza quanto più
diviene dominante la legge del capitale che ne costituisce la negazione"
(Ibidem, p. 68)
Marx, per cercare di non recidere il legame tra forma concreta e astratta
"ha compiuto una operazione illegittima ipotizzando, nel procedimento della
trasformazione, che possano coesistere due forme concrete del rapporto di
scambio reciprocamente incompatibili.", con ciò indirizzando i suoi
successori verso Ricardo, anziché verso la dialettica. Così, l'idea dei
conti che devono tornare è di nuovo errata, perché "la composizione della
domanda non è...in generale indipendente dal valore delle merci e viceversa".
Possiamo accettare che in società precapitalistiche la forma concreta fosse
più simile al valore di quanto accada nel capitalismo, ma questo non rende
vera l'idea che sia esistito un tempo in cui il valore era la forma
fenomenica del reale. Invece l'astrazione è il procedimento logico con cui
possiamo scoprire sotto i fenomeni la loro realtà essenziale.
"se i valori di scambio sono la verità nascosta dei prezzi di produzione, e
se i primi sono conoscibili solo per via di astrazione, la loro esistenza
reale non può essere accertata ponendoli sullo stesso piano dei secondi. In
quanto categoria astratta i valori di scambio sono infatti gli "elementi
semplici" della complessa realtà del mercato capitalistico." (Ibidem, p.
270)
Per cercare di mantenere la verità che il valore si crea nella produzione,
Marx da l'avvio a un problema senza soluzione. In proposito, vale la pena
citare anche il lavoro di Lunghini contenuto in Saggi di economia politica
che è un incisivo racconto della storia del problema della trasformazione.
Spiega Lunghini:
"Il lavoro, in generale, è la principale attività materiale con la quale l'uomo
si pone in rapporto con la natura, al fine di cavarne valori d'uso. Per Marx
il processo capitalistico di produzione è però una forma storicamente
determinata del processo di produzione sociale in generale." (Saggi..., p.
35)
Questi passi chiariscono il rapporto che c'è tra valore e prezzo e anche la
completa inutilità di procedere ad una loro trasformazione aritmetica. L'unico
processo che, pur nella sua banalità, può essere interessante rappresentare
in modo formale è il passaggio dalla produzione materiale di plusvalore alla
distribuzione sociale dello stesso. L'ultima sezione di questo lavoro sarà
dedicata ad illustrare matematicamente questo processo.
4. Plusvalore privato, profitto pubblico, una rappresentazione matematica
della metafora marxiana del serbatoio
Anche se non riteniamo che la rappresentazione matematica di un processo
economico sia dirimente né che sia superiore, per oscure ragioni
ontologiche, ad altre forme euristiche (siano esse una descrizione in
narrativa, in poesia o tramite disegni cubisti), riteniamo utile proporre
questo semplice modello che descrive la nota metafora di Marx sul passaggio
dal plusvalore al profitto in forme aritmetiche. Partiamo proprio dalla
notissima figura marxiana introdotta nella discussione sulla trasformazione:
"Sebbene i capitalisti delle diverse sfere di produzione ritraggano i
valori-capitale consumati nella produzione delle loro merci dalla vendita
delle merci stesse, non ritirano però il plusvalore, e quindi anche il
profitto, prodotto nella loro propria sfera durante la produzione di queste
merci, ma soltanto il plusvalore, e quindi il profitto, corrispondente a
quella parte di plusvalore complessivo o di profitto complessivo (prodotti
dal capitale complessivo della società in un determinato periodo di tempo
nel complesso di tutte le sfere di produzione) che, per effetto di una
eguale ripartizione, tocca a ogni aliquota del capitale complessivo. Ogni
capitale anticipato, qualunque sia la sua composizione, ritrae in un anno o
altro periodo di tempo la percentuale di profitto che è in esso prodotta da
un'aliquota 100 del capitale complessivo. Per quanto riguarda il profitto i
vari capitalisti si trovano nelle condizioni di semplici azionisti di una
società per azioni in cui le quote di profitto sono egualmente ripartite per
100, e differiscono quindi per i vari capitalisti solo a seconda dell'entità
del capitale con cui ciascuno di essi ha concorso al complesso dell'impresa:
cioè a seconda della loro proporzionale partecipazione all'impresa stessa,
ossia del numero delle loro azioni." (Il capitale. Libro III, p.199)
Alla stessa conclusione Marx giunge in tutt'altra parte della sua opera, a
dimostrazione che questo punto è centrale ben oltre la teoria dei prezzi:
"La classe dei capitalisti distribuisce dunque in una certa misura il
pluslavoro globale, in modo da parteciparvi, in una certa misura,
uniformemente secondo il rapporto di grandezza del suo capitale anziché
secondo i plusvalori realmente creati dai capitali nelle singole branche
della produzione." (Grundrisse, vol. II, p. 49)
Questo processo ha delle conseguenze politiche di primaria importanza. Come
osservò Rosa Luxemburg:
"l'odierno capitalista industriale è una persona collettiva, composta da
centinaia, e magari da migliaia di persone. la stessa categoria dei
"capitalisti" nella cornice della economia capitalistica è diventata una
categoria sociale, si è socializzata." (R. Luxemburg, Riforma sociale o
rivoluzione?, p. 86)
E questo significa che ogni tentativo di distinguere una categoria di
capitalisti "sani", "democratici" da contrapporre ai "parassiti", agli
"speculatori" non ha nessun appiglio nella realtà dell'economia
capitalistica.
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