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LA LEGGE DEL VALORE

LEGGE DEL VALORE - KARL MARX (CARLO MARX)
 
Il processo di ridistribuzione si può rappresentare in formule come segue.

Abbiamo:

w: i salari

m: i macchinari

p: il profitto prodotto materialmente

r: il saggio di profitto

p: il profitto “finale”

k: i costi di produzione (cioè w+m)

A questo punto, definiamo il saggio di profitto del singolo settore come:

Questo è il saggio di profitto “materiale”, quello che prevarrebbe se ogni settore fosse isolato dagli altri. Se invece consideriamo assieme tutti i settori, otteniamo il saggio di profitto aggregato:

A questo punto manca l’esito finale della ridistribuzione:

Il settore i ha prodotto materialmente il profitto p(i), ma ottiene in realtà p(i).. Il senso della ridistribuzione diviene chiaro se ipotizziamo, come fa Marx, che il profitto si produce materialmente in misura del lavoro vivo consumato (p=w). Fatta questa ipotesi, si capisce che il flusso della ridistribuzione va dal capitalista meno innovatore a quello più innovatore.

Facciamo un banale esempio numerico a due settori.

Il settore I è molto meccanizzato:

Ne deriva:

Il settore II è meno meccanizzato è ha dimensioni maggiori (è come se rappresentasse il resto dell’economia):

Ne deriva:

Per ipotesi, il settore più meccanizzato produce meno profitti e ha costi medi maggiori, perciò ha un saggio materiale di profitto minore. L’equalizzazione del saggio di profitto conduce verso questo settore profitti creati materialmente altrove. Il saggio di profitto medio è:

E al settore I andrà:

Come è ovvio, la dimensione della ridistribuzione dipende dalla proporzione dei capitali, mentre la sua direzione dipende dalla composizione organica dei diversi settori: tanto più un settore pesa sul totale dell’economia tanti più profitti gli spettano. Tanto più un settore è meccanizzato, tanti più profitti estorcerà agli altri settori (o produttori o paesi).


[1] Questa è la ragione per cui il lavoro animale non produce valore seppure, ovviamente, produce ricchezza. Sarebbe possibile dimostrare che una coppia di buoi che tira l’aratro, ad esempio, mangia meno calorie di quelle che aiuta a produrre. Fisicamente, l’uomo estrae dunque un sovrappiù da questi buoi (se no non li utilizzerebbe), ma questa ricchezza entra nel computo della ricchezza sociale solo in quanto vi sono degli uomini che se ne appropriano. I buoi, al pari di ogni altro mezzo di produzione, non valorizzano il capitale, non sono che strumenti della divisione sociale del lavoro, la loro ricchezza appartiene all’uomo.

[2] A questa posizione, che è appunto storica e dialettica, non “naturalista”, potremmo contrapporre, quale alternativa, l’idea che il capitalismo ha prodotto una tale frattura nello sviluppo sociale da creare nuove leggi di funzionamento della società, senza alcun rapporto con le leggi del passato. In questo senso, si potrebbe dare l’idea che in passato c’era sfruttamento (d’altronde la sua visibilità rende difficile negarlo) e oggi non c’è più ecc. Questa frattura si sarebbe originata, presumiamo, con il sorgere delle condizioni della produzione capitalistica (essenzialmente l’espropriazione dei contadini), dato che altri aspetti del capitalismo non sono nuovi nella storia (il mercato, la democrazia, ecc.).

[3] Non discuteremo oltre di questa tesi, peraltro ben nota ed esposta, ad esempio, nell’Ideologia tedesca. D’altra parte, ci sentiamo di dire che l’onere della prova di una possibile altra forma di contatto spetta a chi nega questa posizione.

[4] Poniamo questi termini tra virgolette perchè, per quanto andiamo spiegando, non c’è nessuna divisione tra queste specificazioni. Se una tribù primitiva entra in una valle dove mai uomo ha messo piede e inizia a cibarsi dei frutti che pendono dagli alberi trasforma queste ricchezze (certo non create dal lavoro umano) in ricchezza sociale per l’appunto nell’atto di appropriarsene. Allo stesso modo, anche il settore più “umano” della produzione si basa su leggi naturali non inventate dall’uomo.

[5] Le bolle speculative che ricorrono sui mercati finanziari esprimono questa tendenza al suo meglio. Le prospettive di profitti futuri conducono i titoli “caldi” a schizzare verso l’alto, anche se il valore effettivamente creato da questi è spesso ancora ridotto se non nullo. Ad esempio, tra il 1998 e il 2000, i titoli azionari legati a Internet sono aumentati del 2-300%, mentre i profitti di queste aziende rimanevano bassi o addirittura diminuivano. Alla fine, il tracollo dei corsi azionari ha ricondotto, ancora una volta, le fantasie alla realtà.. Anche in questi casi, è una ricomposizione violenta a connettere valori e prezzi, nulla che rientri nell’armonia ottimizzante della teoria ortodossa dell’equilibrio economico generale.

[6] Molti processi economici possono essere compresi discutendo solo di valori e non già di prezzi, come mostra in modo lampante il caso degli schemi di riproduzione:

“il “grossolano” modello marxiano in cui le merci si scambiano ai loro valori coglie assai più profondamente la dinamica del sistema che non il più “raffinato” modello in cui le merci si scambiano ai loro prezzi…la decisione marxiana di partire dal livello di astrazione secondo il quale le merci si scambiano ai loro valori non è frutto di ingenuità nel maneggiare le categorie economiche, o di ignoranza dell’algebra delle matrici, ma una precisa scelta…delle condizioni ottimali in grado di mettere in evidenza l’origine del profitto, e perciò la natura del processo di accumulazione del capitale.” (M. Cini, Marx un secolo, p. 71)

[7] Engels tratta infatti del problema della complessità crescente della forma valore nella sua concreta realizzazione fenomenica, una considerazione di per sé corretta.

 

 
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