Il processo di ridistribuzione si può
rappresentare in formule come segue.Abbiamo:
w: i salari
m: i macchinari
p: il profitto prodotto materialmente
r: il saggio di profitto
p: il profitto “finale”
k: i costi di produzione (cioè w+m)
A questo punto, definiamo il saggio di profitto del singolo settore
come:
Questo è il saggio di profitto “materiale”, quello che prevarrebbe se
ogni settore fosse isolato dagli altri. Se invece consideriamo assieme
tutti i settori, otteniamo il saggio di profitto aggregato:
A questo punto manca l’esito finale della ridistribuzione:
Il settore i ha prodotto materialmente il profitto p(i), ma ottiene
in realtà p(i).. Il senso della ridistribuzione diviene chiaro se
ipotizziamo, come fa Marx, che il profitto si produce materialmente in
misura del lavoro vivo consumato (p=w). Fatta questa ipotesi, si capisce
che il flusso della ridistribuzione va dal capitalista meno innovatore a
quello più innovatore.
Facciamo un banale esempio numerico a due settori.
Il settore I è molto meccanizzato:
Ne deriva:
Il settore II è meno meccanizzato è ha dimensioni maggiori (è come se
rappresentasse il resto dell’economia):
Ne deriva:
Per ipotesi, il settore più meccanizzato produce meno profitti e ha
costi medi maggiori, perciò ha un saggio materiale di profitto minore.
L’equalizzazione del saggio di profitto conduce verso questo settore
profitti creati materialmente altrove. Il saggio di profitto medio è:
E al settore I andrà:
Come è ovvio, la dimensione della ridistribuzione dipende dalla
proporzione dei capitali, mentre la sua direzione dipende dalla
composizione organica dei diversi settori: tanto più un settore pesa sul
totale dell’economia tanti più profitti gli spettano. Tanto più un
settore è meccanizzato, tanti più profitti estorcerà agli altri settori
(o produttori o paesi).
[1] Questa è la ragione per cui il lavoro animale non produce valore
seppure, ovviamente, produce ricchezza. Sarebbe possibile dimostrare che
una coppia di buoi che tira l’aratro, ad esempio, mangia meno calorie di
quelle che aiuta a produrre. Fisicamente, l’uomo estrae dunque un
sovrappiù da questi buoi (se no non li utilizzerebbe), ma questa
ricchezza entra nel computo della ricchezza sociale solo in quanto vi
sono degli uomini che se ne appropriano. I buoi, al pari di ogni altro
mezzo di produzione, non valorizzano il capitale, non sono che strumenti
della divisione sociale del lavoro, la loro ricchezza appartiene
all’uomo.
[2] A questa posizione, che è appunto storica e dialettica, non
“naturalista”, potremmo contrapporre, quale alternativa, l’idea che il
capitalismo ha prodotto una tale frattura nello sviluppo sociale da
creare nuove leggi di funzionamento della società, senza alcun rapporto
con le leggi del passato. In questo senso, si potrebbe dare l’idea che
in passato c’era sfruttamento (d’altronde la sua visibilità rende
difficile negarlo) e oggi non c’è più ecc. Questa frattura si sarebbe
originata, presumiamo, con il sorgere delle condizioni della produzione
capitalistica (essenzialmente l’espropriazione dei contadini), dato che
altri aspetti del capitalismo non sono nuovi nella storia (il mercato,
la democrazia, ecc.).
[3] Non discuteremo oltre di questa tesi, peraltro ben nota ed
esposta, ad esempio, nell’Ideologia tedesca. D’altra parte, ci
sentiamo di dire che l’onere della prova di una possibile altra forma di
contatto spetta a chi nega questa posizione.
[4] Poniamo questi termini tra virgolette perchè, per quanto andiamo
spiegando, non c’è nessuna divisione tra queste specificazioni. Se una
tribù primitiva entra in una valle dove mai uomo ha messo piede e inizia
a cibarsi dei frutti che pendono dagli alberi trasforma queste ricchezze
(certo non create dal lavoro umano) in ricchezza sociale per l’appunto
nell’atto di appropriarsene. Allo stesso modo, anche il settore più
“umano” della produzione si basa su leggi naturali non inventate
dall’uomo.
[5] Le bolle speculative che ricorrono sui mercati finanziari
esprimono questa tendenza al suo meglio. Le prospettive di profitti
futuri conducono i titoli “caldi” a schizzare verso l’alto, anche se il
valore effettivamente creato da questi è spesso ancora ridotto se non
nullo. Ad esempio, tra il 1998 e il 2000, i titoli azionari legati a
Internet sono aumentati del 2-300%, mentre i profitti di queste aziende
rimanevano bassi o addirittura diminuivano. Alla fine, il tracollo dei
corsi azionari ha ricondotto, ancora una volta, le fantasie alla
realtà.. Anche in questi casi, è una ricomposizione violenta a
connettere valori e prezzi, nulla che rientri nell’armonia ottimizzante
della teoria ortodossa dell’equilibrio economico generale.
[6] Molti processi economici possono essere compresi discutendo solo
di valori e non già di prezzi, come mostra in modo lampante il caso
degli schemi di riproduzione:
“il “grossolano” modello marxiano in cui le merci si scambiano ai
loro valori coglie assai più profondamente la dinamica del sistema che
non il più “raffinato” modello in cui le merci si scambiano ai loro
prezzi…la decisione marxiana di partire dal livello di astrazione
secondo il quale le merci si scambiano ai loro valori non è frutto di
ingenuità nel maneggiare le categorie economiche, o di ignoranza
dell’algebra delle matrici, ma una precisa scelta…delle condizioni
ottimali in grado di mettere in evidenza l’origine del profitto, e
perciò la natura del processo di accumulazione del capitale.” (M. Cini,
Marx un secolo, p. 71)
[7] Engels tratta infatti del problema della complessità crescente
della forma valore nella sua concreta realizzazione fenomenica, una
considerazione di per sé corretta.