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LA LEGGE SUL VALORE - ACCUMULAZIONE ORIGINARIA

LEGGE SUL VALORE E ACCUMULAZIONE ORIGINARIA - RIVOLUZIONE INDUSTRIALE
 

LA TEORIA DEL VALORE DEL XXI SECOLO Introduzione Del problema della trasformazione si discute da oltre un secolo, con il ritorno ciclico dello stesso dibattito e rari veri passi avanti. Negli ultimi anni, la discussione si è incentrata meno sull'algebra matriciale, su cui comunque si è scritto, e più su due aspetti: la teoria del valore come teoria monetaria della produzione e il ruolo del tempo come concettualizzazione. Questi due aspetti dovrebbero consentire di respingere il "simultaneismo" in tutte le sue varianti ideologiche. Da quello che si è visto sinora, la teoria della moneta in senso stretto appare la parte meno sviluppata e organica. In particolare risulta assai tenue la disamina di aspetti quali il ruolo delle banche centrali, lo sviluppo della finanza ecc. Dire che "al fondo" il capitalismo funziona sempre allo stesso modo è come dire che siccome ogni guerra è la continuazione della politica con altri mezzi, allora è indifferente se il nemico ha dei fucili o ha la bomba atomica. Il nostro compito è pertanto di compiere una ricognizione il più possibile ampia di questo dibattito (sostanzialmente grazie al sito dell'IWGVT e degli autori ad esso collegati) e poi fornire alcuni contributi proprio nelle aree più deboli. Moneta e circolazione del capitale[1] Quale ruolo deve giocare la moneta nel processo produttivo capitalistico? La moneta è l'equivalente generale, ovvero è la forma del valore indipendente dalle specifiche qualità fisiche assunte dal bene. In quanto serve come equivalente, e quindi come strumento per socializzare i lavori (e i valori) privati, assume il ruolo di mezzo di pagamento, riserva di valore ecc., ma non bisogna confondere queste funzioni tecniche con il suo ruolo sociale che la rende indispensabile. La moneta non è il circolante. Così, si può ben dare il caso di un paese talmente avanzato che fa a meno del circolante, in cui il ruolo di tesaurizzazione (hoarding) di valore assunto dalla moneta non è "fisico" (perché inefficiente), ma pure la moneta esiste. Pensiamo alla fase della nascita della moneta: la fine del baratto. Quando emerge una merce che comincia a porsi come equivalente in ogni atto di scambio (ovvero il lavoro è sussunto dal capitale), esistono magari due o dieci monete (l'oro, le pecore, le stoffe). Ora, quando il bestiame cessa di servire per lo scambio (perché scomodo), la moneta non scompare perché si modifica la sua realizzazione concreta. Allo stesso modo, un assegno, o una disposizione di pagamento attraverso Internet (che non implicano uso di banconote) rimangono moneta. C'è poi la questione della moneta di credito (e dunque, se vogliamo, del moltiplicatore dei depositi). Quando una banca utilizza le disponibilità dei clienti e accorda un fido ad un capitalista, sta creando moneta? La risposta è sì sta creando moneta ma nessuno può sapere quanta ne sta creando effettivamente. Lo stesso vale per le banche centrali, che introducono liquidità sul mercato senza poter stabilire quanta di questa liquidità si trasformerà in vera moneta e quanta in inflazione. Facciamo questo esempio. Poniamo che le fiches di un casinò deperiscano ogni giorno e debbano essere pertanto prodotte e consumate in giornata. Il responsabile della produzione di questo mezzo di scambio deve decidere quante fiches produrre. Una volta che le fiches sono prodotte, a prescindere dall'effettivo valore contro cui si scambieranno, devono essere consumate tutte (dato che altrimenti si distruggono). Se oggi si sono prodotte n fiches e arrivano m banconote (supponiamo tutte dello stesso taglio e velocità di circolazione delle fiches pari a 1), ogni fiches dovrà valere m/n (questa è l'equazione quantitativa della moneta e non, si badi bene, la teoria quantitativa della moneta). Nel tempo, il casinò fa delle statistiche e impara a prevedere con un certo grado di previsione m, ma rimane il fatto che nel capitalismo m=n avviene per caso. Questo esempio astrae, o meglio non introduce, difficoltà ancora maggiori come l'innovazione tecnologica, la lotta di classe, il ciclo degli investimenti, i cicli borsistici, ma penso sia sufficientemente chiaro. Significa questo che la moneta non ha un valore intrinseco? Al contrario, la moneta ha necessariamente un valore intrinseco, sono le banconote a non averlo. Nell'esempio delle fiches: il valore complessivo delle fiches ha un valore determinato dai clienti che arrivano. E' la singola fiches che, a priori, avrà un valore indeterminato. Quando si sente dire che la moneta è una creazione arbitraria dello Stato, occorre perciò fare attenzione: nella sua qualità di mezzo di circolazione, la moneta può essere creata a piacimento, basta aumentare il ritmo di lavoro delle stamperie. Ma il ruolo di equivalente generale della moneta non c'entra da questa "libertà", come si evidenzia nella variazione del livello dei prezzi. La moneta emerge spontaneamente e necessariamente dallo sviluppo del processo produttivo capitalistico. Tale sviluppo porta al monopolio nella creazione di moneta legale da parte dello Stato. E' l'oro tuttora alla base della circolazione monetaria? Sì e no, in un certo senso i metalli preziosi sono come il lavoro: una base misera ma necessaria allo sviluppo del capitalismo. Di per sé il sistema del credito è una scommessa, un'opzione call, sull'andamento della produzione futura, ovvero, in ultima analisi, sulla relazione delle classi negli anni a venire. Molti non hanno capito la teoria della moneta di Marx e si sono così condannati a pescare altrove. Partiamo da questo: nella teoria economica marxista le categorie analitiche rappresentano relazioni sociali tra classi nel processo produttivo. Questo vale anche per la moneta. Come dice Marx, la moneta à il mezzo materiale con cui si manifesta la ricchezza astratta, ovvero sociale. In quanto rappresenta un rapporto, la moneta non può essere un puro segno. Il valore è il legame sociale che connette produttori indipendenti in condizioni di proprietà privata dei mezzi di produzione e divisione del lavoro. Perché nel capitalismo non possiamo misurare direttamente in lavoro le merci? Perché il lavoro individuale, se non passa per il mercato, ovvero se non diventa moneta, non rappresenta alcunché. La moneta rimane comunque una merce, che ha un valore, diretto all'inizio, complessivo nel nostro secolo. La difficoltà è che nel capitalismo la moneta, che pure gli preesiste, viene subordinata al capitale. Il capitale è un rapporto più avanzato, e dunque determina la vita di tutti gli altri, ma allo stesso tempo il capitale, alla fine di tutto il turbinio della produzione, torna ad essere moneta, si esprime in moneta. L'emergere del capitale, così, non distrugge il ruolo della moneta, ma lo subordina a sé. Un'altra difficoltà risiede nello sviluppo del sistema del credito. Il credito nasce quando una certa istituzione accentra i depositi monetari dei diversi soggetti (richiede dunque un certo grado di sviluppo dell'economia). La disponibilità di questo tesoro, inattivo, stimola subito il capitalista banchiere a farlo rendere, prestarlo cioè al capitalista industriale perché attivi nuove forze produttive e divida con lui il frutto di questa attività. La moneta di credito è una nuova forma di esistenza della moneta che va oltre e rompe il suo ruolo di mezzo di pagamento. Alla circolazione monetaria, si affianca il sistema del credito, con le sue potenzialità ma anche con le sue distorsioni, che alla fine spingono lo Stato a farsi monopolista dell'uno e controllore dell'altro. Ma la moneta, anche ai tempi dell'e-banking e delle opzioni esotiche, mantiene un valore. Facciamo un esempio. 100 persone vanno a un teatro e lasciano i cappotti nel guardaroba, pagando una piccola somma in cambio della quale ricevono una contromarca. In condizioni normali, circoleranno 100 contromarche, il cui valore non è il costo di produzione (praticamente nullo), né il prezzo pagato (molto basso), ma la merce che rappresentano. Ora, mettiamo che uno si metta a fabbricare contromarche e ne stampi altre 100. Quanti cappotti ci sono nel guardaroba? Sempre 100. Ecco che il valore sociale del mezzo adibito a "controprova" della ricchezza appare chiaro. Questo spiega anche perché prima di questo secolo l'inflazione era un fenomeno rarissimo. Il progetto marxiano di derivare la moneta dalla teoria del valore si è rivelato un fallimento? Si tratta di un tema cruciale. L'idea di Marx è che le funzioni che la moneta ha da giocare nel capitalismo dipendono dalla specifica forma di divisione sociale del lavoro che vi prevale, una divisione del lavoro che passa per forme impersonali, il mercato. Il lavoro diviene sociale solo nello scambio di merci; la moneta ha il ruolo di connettere lavori individuali e tempo di lavoro sociale. La forma immediata con cui il capitale si manifesta è nel rapporto merce-moneta. Niente classi, niente valore, solo quantità di denaro e quantità di merci. Il ruolo della moneta è indispensabile perché il capitalismo non è un sistema coscientemente regolato. Da qui l'inevitabile fallimento di ogni utopia proudhoniana di eliminazione della moneta a favore di un uso diretto del tempo di lavoro. Marx parte da questa forma fenomenica e svolge le forme del capitale dalla moneta alla fabbrica. La moneta è l'equivalente generale. Diviene tale espellendo ogni altra merce da questa funzione. La generalizzazione della moneta è possibile solo quando gli scambi sono talmente frequenti e decisivi per la società da rendere necessario l'uso di una sola merce quale controparte di tutte le compravendite. Per i classici e per Marx la moneta è una merce che, per una serie di ragioni storiche, sviluppa la funzione peculiare di mezzo di pagamento. Da qui acquisisce le funzioni connesse alla conservazione del valore e alla circolazione monetaria. In quanto equivalente generale, la moneta diviene misura del valore e mezzo di circolazione. Da qui emergono poi le "qualità" della moneta come volano della crescita (sistema del credito) permesso dall'accumularsi dell'equivalente generale presso una specifica tipologia di aziende (le banche). Così le banche, come la moneta, si sostituiscono ad ogni altra azienda nelle funzioni di tramite dei pagamenti, come tesaurizzatrici di denaro ecc. Più il capitalismo si sviluppa, meno può accontentarsi della moneta "vera" (l'oro) e più si accresce il ruolo dello Stato anche nella circolazione monetaria. Nasce la politica monetaria. La nascita della moneta è anche la nascita della crisi. Dividendo l'acquisto e la vendita, separando produzione e consumo, la moneta è intrinsecamente legata alle crisi. La crisi non è esogena alla moneta (come in Say e nei neoclassici). Lo sdoppiamento sociale tra lavoro concreto e lavoro astratto, la validazione ex post del lavoro tramite il mercato rende la moneta il veicolo delle ricorrenti crisi di sovrapproduzione. La moneta è insieme mezzo di scambio e misura del valore. Queste due funzioni, che pure si alimentano a vicenda, in determinate circostanze entrano in contraddizione: il valore incorporato nella moneta non è più quello "giusto" rispetto alla distribuzione del reddito nella società. L'accumulazione di moneta, come detto, è la base per la nascita del sistema bancario e dunque della moneta creditizia che si sviluppa in capitale fittizio e dunque in un'amplificazione dell'attività economica ma anche delle sue crisi. In generale, il valore contenuto nella moneta non rappresenta il tempo di lavoro necessario. Tuttavia, la teoria deve partire facendo finta che questa situazione casuale sia la normalità e derivarne le crisi. La disputa sulla trasformazione. Falsi amici, nemici frettolosi e feticismo per tutti[2] Il problema della trasformazione è nato con l'uscita del III volume del Capitale e soprattutto con l'acritica accettazione di temi ricardiani nell'ambito della teoria marxista. Tra i primi commentatori del problema, ci furono infatti alcuni pre-neoricardiani che hanno criticato la coerenza logica dei procedimenti adottati da Marx, proponendo una soluzione che, sebbene sembrasse in superficie rispettare le premesse teoretiche di Marx, ne negava la sostanza. Il più famoso di questi è senz'altro Bortkiewicz, che ha proposto la prima soluzione aritmo-morfica del problema con il suo modello a tre settori. Questa scuola, che Kliman e altri hanno definito "physical quantities approach" (e la cui versione di sinistra è lo sraffismo) si è poi ulteriormente sviluppata in diverse direzioni (si pensi ai teorici giapponesi come Okishio, ai modelli alla Von Neumann ecc.). Alcuni autori che si consideravano marxisti, dimenticandosi della dialettica tra strumenti e fini, hanno ritenuto in buona fede di poter rispondere alle critiche utilizzando lo stesso apparato tecnico (il caso di Medio è il più eclatante, come si è visto a suo tempo in "Ancora una volta."). La storia della soluzione matematica è nota, ma non completamente, almeno alle sue origini. Oggi sappiamo che Dmitriev aveva proposto una soluzione che anticipava Sraffa (il quale possedeva l'unica copia del suo libro, in russo, nel mondo occidentale); ma conosciamo anche altri modelli molto simili. L'idea comune di questi modelli è che tra il mondo dei valori e il mondo dei prezzi non vi siano connessioni e che il profitto dipenda dallo stato della tecnologia. Tecnicamente, queste conclusioni richiedono il metodo delle equazioni simultanee. Si elimina così il tempo (e dunque la dialettica), si eliminano le classi e si rimane con quantità fisiche in entrata e in uscita. Le critiche alla relazione valore-prezzo proposta da Marx si legavano anche alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Autori come Von Charasoff, Moskovska, Croce e Tugan-Baranovskij cominciarono un fuoco di fila di obiezioni alla legge. Saranno seguiti nel tempo da Shibata, Okishio, Roemer, Samuelson, Sweezy ecc. Li accomuna, di nuovo, l'uso di sistemi di equazioni simultanee e la visione totalmente reificata della teoria del valore. Nella visione di Marx, il valore di una merce è determinato, prima facie, dal tempo di lavoro necessario a riprodurlo. L'analisi del livello fenomenico serve a spiegare come l'economia capitalistica, non pianificata, anarchica, è costretta a distorcere questa legge universale per continuare a sopravvivere. Bortkiewicz fu il primo a "dimostrare" che la teoria del valore di Marx falliva sulle proprie premesse, ovvero che era incoerente. Lo aiutarono in questo lavoro Komorzynsky, Muhlport e altri. A queste critiche Kliman obietta fondamentalmente questo: i prezzi non rimangono fermi, mentre nella logica della riproduzione, i prezzi degli output in un periodo sono quelli degli input del successivo. Insomma, questi signori, dopo aver trasformato Marx in un ricardiano, lo hanno facilmente trovato in fallo e debitamente corretto. E' interessante osservare che Bortkiewicz, in particolar modo, era un fervente ammiratore di Walras e la sua idea era proprio riscrivere il Capitale sub specie dell'EEG. E' merito di Sweezy aver portato al dibattito internazionale questa prima fase del dibattito, ma i contributi pure decisivi di May, Seton e persino Sraffa sarebbero rimasti lettera morta se l'ondata di radicalizzazione degli anni '70 non avesse spinto centinaia di economisti a sinistra e dunque verso la teoria del valore di Marx. Samuelson fu così costretto a "rispondere" a questo trend con il suo attacco del '71 a Marx. Il simultaneismo si è arricchito di un'interessante variante con la procedura iterativa proposta da Brody, Shaikh e altri, oppure correlando prezzi e valori, cercando cioè una scorciatoia "empirica". Alla fine, molti di questi economisti abbracciarono lo sraffismo. All'inizio degli anni '80 si è fatta strada la "nuova interpretazione" (Dumenil, Foley e altri) che, in modi differenti, interpreta il valore della forza-lavoro come la somma ricevuta dai lavoratori come salari, anziché come paniere di merci di sussistenza. Con ciò si perde l'uguaglianza di prezzi e valori aggregati. Vi è poi un'ulteriore variante, la cosiddetta interpretazione TSS (sistema singolo temporale) che tiene buone le due equivalenze originali. Le nuove interpretazioni che si sono affermate negli ultimi decenni mettono al centro del loro lavoro di ricostruzione teorica il ruolo della moneta, il capitalismo come economia monetaria di produzione, prendono cioè sul serio, il rifiuto della teoria quantitativa operato da Marx. Rifocalizzare l'analisi sulla moneta significa anche ripensare la categoria di lavoro astratto. Fino agli anni '60, soprattutto grazie a Sweezy e Dobb, il lavoro astratto era concepito come una semplice generalizzazione mentale compiuta dallo studioso nell'analisi del processo lavorativo capitalistico. Fu Colletti tra i primi (e forse il solo in Italia) a spiegare che l'astrazione è un processo reale che ha luogo concretamente nell'oggettività capitalistica. I diversi lavori privati sono riconosciuti come sociali, e dunque, feticisticamente sono sociali, solo attraverso la mediazione del mercato, sono eguagliati sul mercato, ritraendone una rappresentazione reificata. Questo significa che l'uguagliamento dei diversi lavori avviene attraverso una separazione reale, anche giuridica, del lavoro dagli individui reali che lo prestano. Questo processo, permesso dalla generalizzazione degli scambi, ha come presupposto il dominio del capitale e la creazione di una classe spossessata dei mezzi di produzione. Generalizzazione degli scambi significa sviluppo di un equivalente generale (il baratto è improponibile in questi casi, non fosse altro perché il prezzo delle merci ha basi locali, agli albori del capitalismo). Pertanto, nella teoria marxiana lavoro astratto e denaro sono categorie strettamente connesse: il denaro è il risultato della produzione, potere generale d'acquisto in cui si incarna la ricchezza generale. Il denaro segnala che il valore è ormai slegato dal lavoro concreto e diviene una misura esterna, universale in cui si riconosce lo scambio del tempo di lavoro. Occorre sottolineare che qui si parla di lavoro morto, già svolto (verrebbe da dire "agito"), dunque già cristallizzato in merci da vendere. L'acquisto della forza-lavoro, cioè della capacità di valorizzare il capitale, è alle spalle di tutto ciò, è già avvenuta, terminata. Sul mercato quello scambio non arriva e non conta. L'unico legame tra lavoro morto e forza-lavoro esistente è il fatto che la forza-lavoro è incorporata di necessità nei suoi portatori, la classe lavoratrice. In sintesi, lavoro astratto significa lavoro sfruttato, alienato. Sotto il profilo dello sviluppo teorico, a Marx fu possibile superare il feticismo, pure ricco di significato, della teoria classica solo in quanto era nato il moderno movimento operaio. A sua volta, la teoria di Marx permise al movimento di svilupparsi enormemente. Questa è la dialettica storica di teoria e prassi. Sotto il profilo metodologico, l'idea "classica" (Dobb e altri) che il I volume costituisca una prima approssimazione è stata messa in crisi da Sraffa, che ha mostrato come la seconda approssimazione, in quel contesto teoretico, sussuma del tutto la prima. Così, lo sfruttamento deriva solo o da una sottrazione rozza tra input e output, oppure da un'analisi puramente qualitativa, politica della produzione. La nuova interpretazione dice che occorre partire dal fatto che a livello aggregato il nuovo valore scambiato sul mercato traduce in forma monetaria il lavoro diretto che è intervenuto nei diversi processi produttivi. La concreta legge dello scambio adottata ad un determinato grado di sviluppo della produzione muta le regole di distribuzione del plusvalore e del lavoro sociale. La teoria del valore del I libro ha la funzione di fornire una spiegazione teorica della genesi del plusvalore, cioè di spiegare come si produce capitale senza presupporre il capitale medesimo, cioè come si esplica il comando sul lavoro. Il lavoro è la categoria generale, il capitale quella particolare. Gli economisti rovesciano questo rapporto, rendendo eterna la propria società. Il principio del valore che ci dice che le merci sono coagulo di lavoro astratto è l'astrazione necessaria a comprendere il funzionamento del capitalismo. C'è anche chi ha tentato di mostrare che il problema della trasformazione deve leggersi in nuovi termini alla luce degli scritti di Marx ora ritrovati. In un lavoro di Ramos si evidenzia che la selezione fatta da Engels degli appunti relativi alla procedura della trasformazione non fu particolarmente felice. Dal canto suo, Bortkiewicz alterò profondamente l'evidenza testuale per ridurre la teoria del valore di Marx al problema di Ricardo. Da queste nuove evidenze appare chiaro che Marx aveva ben presente il fatto che la trasformazione comprende anche gli input, ovvero che la generalizzazione degli scambi nasconde la fonte del valore sotto l'uguaglianza dei saggi del profitto, facendo apparire lavoro necessario (cioè pagato) quello rappresentato dalla forma monetaria del valore: il prezzo di produzione. Il fatto che la forma di valore preesista a quella di prezzo non la rende automaticamente quella più "importante" ai fini dello sviluppo di quel particolare sistema. Il rapporto tra Marx e Ricardo è dialettico. Marx sviluppò la teoria non tanto negli aspetti tecnici (qui i contributi sono abbastanza secondari) ma sotto l'aspetto propriamente storico e di metodo, fornendo alla teoria una specie di coscienza, facendo comprendere che cos'è nel suo profondo il valore. I classici non potevano e non volevano discutere di questi aspetti. Ovviamente questa presa di coscienza ha conseguenze profonde. La teoria del valore cessa di funzionare come una teoria dei prezzi relativi e diviene una teoria dei rapporti di produzione. Il valore è una relazione sociale tra classi e la moneta rappresenta lo scambio generalizzato, la nascita del mercato del lavoro, la circolazione del capitale, in una parola la società dove si svolge il rapporto tra lavoratori e capitalisti. Il concetto di lavoro astratto non si basa solo sul processo di dequalificazione del lavoro (come spiegano Rosdolsky e La Grassa). Questo processo, che pure è presente, non deve però confondersi con il fatto che tutti i lavori nel capitalismo sono astratti nella misura in cui entrano in contatto con la società (tramite il mercato, cioè la moneta). La moneta, il valore di scambio è l'unica realtà sensibile del valore, è la giusta rappresentazione reificata di un mondo reificato. La moneta è il mezzo di accrescimento e circolazione del capitale, o almeno, in quanto rappresenta la seconda diviene anche la prima agli occhi dei capitalisti. La moneta nega la propria essenza, cioè la sua qualità di cristallizzazione del lavoro umano. Di nuovo, rovesciamento e reificazione sono la stessa cosa: la moneta è lavoro umano astratto, ma alla superficie della società non può essere così, il capitalismo non potrebbe sopravvivere senza negare questo processo, senza rendere autonoma la moneta dalla sua origine. Ancora sulla "nuova interpretazione"[3] Quando già sembrava che l'interpretazione fisicalista, sraffiana, della teoria del valore fosse trionfatrice, ecco arrivare una nuova interpretazione monetaria, che concepisce il capitale come un rapporto che genera da un quid di moneta più moneta e la moneta come lavoro astratto. I punti centrali sono dunque buoni: - la moneta rappresenta il lavoro socialmente necessario (dunque i valori nel capitalismo sono solo monetari) - le grandezze sociali sono determinate prima di quelle individuali che vi sono subordinate l'essenza della teoria del valore di Marx è: come il capitalista riesce ad accrescere il suo denaro tramite la produzione? Valutazioni quantitative di prezzi e valori[4] Per cercare di uscire dalle secche del problema della trasformazione, alcuni hanno pensato bene di "dimostrare" il legame tra prezzi e valori attraverso strumenti statistici (la correlazione). In generale, ci sono diverse scuole (Shaikh, Dunne e altri) che partono dai dati statistici, li trasformano more marxiano e poi li utilizzano per ritrovare le grandezze che interessano (sembra che tali procedimenti siano nati ancora nel '24 con Terashima). Sebbene lo sforzo sia importante (soprattutto nella distinzione di settori produttivi e improduttivi) e ottenga alcuni successi, rimane una divergenza di fondo che si può riassumere così. Loro pensano che "value is quite distinct from the price, and the difference is a quantitative one". Al contrario, per noi non è affatto così. Prezzi e valori non stanno tra di loro come due matrici "raccordabili" da un vettore che sommi a uno. Sono concetti posti su diversi piani. I valori non si "vedono" per il semplice fatto che nel capitalismo, nell'epoca dello scambio generalizzato e della sussunzione reale del lavoro, e dunque della moneta e dei prezzi, i valori si inverano appunto in prezzi e denaro. Gli ultimi sviluppi[5] Dopo la complessiva critica compiuta da Marx all'economia politica classica, la scienza è stata rifondata su altre basi, che mostrano ormai una sterilità ossificata. Il punto è: a quali domande dovrebbe rispondere la teoria economica? Smith voleva che la teoria spiegasse la ricchezza delle nazioni e la teoria del valore aveva questo scopo. Per Ricardo, la teoria del valore fornisce l'immagine della totalità determinata della produzione di valore nelle sue parti componenti. Per Marx, il problema è di esporre le forze portanti della storia. L'essenza del capitalismo è il monopolio delle forze produttive principali in capo ad una classe, le strutture del mercato, la necessità dell'innovazione tecnologica. Marx spiegò che il sistema dello scambio di merci nella loro forma monetaria è anche necessariamente un sistema per la distribuzione del lavoro sociale. Per questo la teoria del valore è anche una teoria del ruolo della moneta come vernice coprente dello sfruttamento. Leggendo i primi capitoli del I volume del Capitale si possono fare varie ipotesi sul procedimento di Marx (essenzialmente sulla teoria dell'astrazione utilizzata). Nei fatti ha prevalso l'interpretazione quantitativista che riteneva di eliminare un'incoerenza matematica sostituendo alla dialettica le equazioni. Un'altra strada è quella cominciata da Shaikh e altri che hanno compiuto studi partendo dall'input-output analysis per dimostrare la validità empirica della teoria del valore. Alla fine degli anni '70 è arrivata la nuova interpretazione di Dumenil e Foley che ha sottolineato l'importanza del rapporto tra moneta e tempo di lavoro. Il punto centrale della nuova interpretazione (a proposito, è un nuovo paradigma?) è che propone un metodo operativo e chiaro per misurare l'espressione monetaria del tempo di lavoro. Marx e la divisione del lavoro[6] Lavori pieni di errori grossolani. C'è una totale incapacità di comprendere che cosa sia il lavoro astratto e che gioco ruoli nel capitalismo. Più in generale c'è una visione penosa della suddivisione del lavoro tra filosofia ed economia. Secondo loro, la teoria del valore fornisce un buon quadro della determinazione dei prezzi ma contraddice il "carattere duplice" del lavoro. Non solo, ma l'opposizione tra lavoro privato e sociale è riconducibile ad aspetti solo quantitativi. Ora, inevitabilmente la comparazione avviene tramite moneta (dunque un aspetto quantitativo). Ma la contraddizione rimane. Ed è intrinseca al capitalismo. La teoria del ciclo[7] La teoria del ciclo è la parte della teoria economica dove Marx era più avanti rispetto ai suoi tempi (e lo è tuttora, ma per ragioni diverse). Nell'Ottocento, i classici non avevano una teoria della crisi (la legge di Say la impediva anche ipoteticamente); Jevons proponeva teorie basate sulle macchie solari. Nel XX secolo, a parte Schumpeter, la situazione non è migliorata. L'idea di fondo (anche con la RBC) è sempre che la crisi è dovuta a fattori esogeni, è estrinseca al sistema. Certo, si ripropone ciclicamente, ma perché le cause esterne sono anch'esse cicliche. Che questa sia una situazione quantomeno insoddisfacente lo ha notato anche Arrow. Ma rimane il fatto che ne escono. Certo, le critiche di Fritsch a Kalecki (il suo modello aveva ipotesi ad hoc nella quantificazione dei parametri), ma l'idea dello stesso Fritsch sulla distinzione tra impulso e propagazione venne distrutta dall'arrivo della rivoluzione keynesiana. [1] Campbell, Germer. [2] Kliman, Bellofiore, Ramos. [3] Moseley. [4] Freeman e altri. [5] Foley. [6] Benetti, Cartelier. [7] Dibeh. LA TEORIA DEL VALORE IN UNA LETTERA DI MARX A KUGELMANN La teoria del valore è alla base della spiegazione marxista del funzionamento del capitalismo. Marx la approfondisce soprattutto all'inizio del Capitale e nei lavori preparatori ad esso (Per la critica dell'economia politica, Grundrisse, ecc.) tutte opere ben note. Non molto noto è invece un contributo - sulla teoria del valore - che Marx diede in una lettera scritta a Kugelmann (11 luglio del 1868), suo amico medico in Germania[1]. Analizzeremo qui il brano tratto da quella lettera suddividendolo in paragrafi in modo da poterlo analizzare più in dettaglio. l'analisi dei rapporti reali, data da me, conterrebbe la prova e la dimostrazione del reale rapporto di valore anche se nel mio libro non vi fosse nessun capitolo sul "valore". Questo dimostra che secondo lo stesso Marx non c'è bisogno del primo capitolo del Capitale per definire e comprendere la teoria del valore. Questo capitolo ha un ruolo introduttivo, metodologico, ma l'essenza del valore permea tutto il Capitale. Questo perché l'idea di spiegare il metodo di una scienza al di fuori del suo svolgimento è in qualche modo antidialettica e antimaterialista. Per questo Marx tolse da Per la critica dell'economia politica la famosa Introduzione del '57 che, nelle sue parole, "disturbava", in quanto sintetizzava risultati non ancora esposti. Il metodo scientifico, tolte alcune considerazioni di ordine generale sulla dialettica, non è altro che la generalizzazione del procedere stesso della scienza. Il cianciare sulla necessità di dimostrare il concetto di valore è fondato solo sulla più completa ignoranza, sia della cosa di cui si tratta, sia del metodo della scienza. Che sospendendo il lavoro, non dico per un anno, ma solo per un paio di settimane ogni nazione creperebbe, è una cosa che ogni bambino sa. Questo è un punto centrale. Innanzitutto Marx ribadisce che non c'è nemmeno bisogno di sottolineare l'importanza del lavoro nel processo produttivo, tanto è evidente che senza lavoro umano non c'è movimento dei mezzi di produzione e dunque non c'è produzione alcuna. Ma in secondo luogo Marx spiega che la valorizzazione del capitale non è un processo aggregativo, ma sociale. La classe operaia in quanto classe valorizza il capitale. I rapporti di produzione esistono a livello di classe, non di fabbrica. La funzione necessaria del lavoro come elemento di valorizzazione del capitale non deriva solo dalle ore non pagate, pure ovviamente necessarie, ma da tutte le ore lavorate. Senza lavoro, come detto, non c'è movimento dei mezzi di produzione, non c'è produzione, non c'è capitalismo. Questo ha implicazioni decisive anche sul modo con cui la classe operaia deve combattere il capitalismo: lo sciopero generale diviene l'aspetto decisivo del conflitto, incarnando la questione del potere. In quell'occasione viene posto di punto in bianco il problema dei problemi: quale classe comanda? Quale classe produce? Quale classe è davvero necessaria allo sviluppo storico? E ogni bambino sa pure che la quantità di prodotti, corrispondenti ai diversi bisogni, richiedono quantità diverse, e qualitativamente definite, del lavoro sociale complessivo. Una determinata composizione del prodotto sociale non è altro che una determinata divisione del lavoro. Il lavoro complessivo ha una composizione qualitativa, riflesso della composizione qualitativa dei bisogni sociali. Che questa necessità della distribuzione del lavoro sociale in proporzioni definite, non è affatto annullata dalla forma definita della produzione sociale, ma solo può cambiare il suo modo di apparire, è self evident. E la connessione tra composizione del prodotto sociale e lavoro vale in ogni società. Ciò implica che l'analisi della domanda o della distribuzione del reddito sono la stessa cosa e sono entrambe derivate dal processo di valorizzazione del capitale Che la produzione sociale necessiti di una composizione qualitativa data dei mezzi di produzione e della forza lavoro è ovvio. Altrimenti non vi potrebbe essere divisione del lavoro o scambio di merci. In questo senso si tratta di una legge universale delle società umane. Ma questa legge ha una forma specifica diversa in ogni società. La legge del valore è una legge universale, che assume una forma storicamente definita, un modo di apparire diverso, nelle diverse epoche. Ecco il segreto della produzione in generale che "ci risparmia una ripetizione", come dice Marx nell'Introduzione del '57. La produzione in generale non è altro che la legge del valore nelle sue diverse forme storiche. Le leggi di natura non possono mai essere annullate. Ciò che può mutare in condizioni storiche diverse non è che la forma in cui questa distribuzione proporzionale del lavoro si afferma, in una data situazione sociale nella quale la connessione del lavoro sociale si fa valere come scambio privato dei prodotti individuali del lavoro, è appunto il valore di scambio di questi prodotti. Trattandosi di una legge di natura, la legge del valore esiste da quando esiste la produzione sociale. Nel capitalismo essa si afferma in modo rovesciato, indiretto, attraverso lo scambio di prodotti individuali, frutto della proprietà privata dei mezzi di produzione. Per aversi questo scambio, le merci devono possedere un valore di scambio. La legge del valore dunque muta la sua forma e si presenta sotto forma di circolazione di merci. Ma la circolazione di merci, in ultima analisi, non è che circolazione di qualità e quantità di ore lavorate. Attraverso le merci, in realtà, si scambia tempo. L'appropriazione privata dei risultati della produzione oscura alla vista del ricercatore superficiale ma non elimina la socialità della produzione medesima. Produzione sociale, appropriazione privata, ecco il segreto della contraddizione della società capitalistica. La scienza consiste appunto in questo: svolgere come la legge del valore si impone. Se dunque si volessero "spiegare" a priori tutti i fenomeni apparentemente contrastanti con la legge, bisognerebbe dare la scienza prima della scienza. La teoria economica ha questo come suo principale oggetto di analisi: studiare lo sviluppo della legge del valore. Sotto il profilo del metodo non è possibile partire dalle eccezioni, ma dalla legge generale. Una volta che questa è posta (il primo libro del Capitale), si possono spiegare i fenomeni storici che sembrano apparentemente contrastarla (la concorrenza, i prezzi, la rendita). Rovesciare questo modo di esposizione significa porre le conclusioni al posto delle premesse, iniziare dalla fine. Qui Marx tocca un aspetto di metodo: sotto il profilo metodologico occorre partire dal funzionamento astratto della legge (la "produzione in generale", la teoria del valore) e poi scendere nelle sue determinazioni storiche concrete (la concorrenza, la rendita, ecc.). Partire invece da questi fenomeni specifici significa rovesciare la comprensione del reale. Si tratta di una falsa e superficiale concretezza, che non conduce alla scoperta del nocciolo del problema. Il senso della società borghese consiste appunto in questo, che a priori non ha luogo nessun cosciente disciplinamento sociale della produzione. Ciò che è razionale è necessario per la sua stessa natura, si impone soltanto come una media che agisce ciecamente. La legge del valore nel capitalismo si manifesta ciecamente, a posteriori, alle spalle dei produttori. Non c'è nessuna divisione del lavoro ex ante, cosciente. La legge si impone ai produttori come una legge di natura. Questo imporsi cieco si riflette nell'ideologia dominante dove, appunto, ciò che esiste viene presentato come razionale e necessario. La legge del valore imponendosi ciecamente crea una natura umana dell'imposizione cieca, un'ideologia sociale dell'imposizione cieca, del dominio di forze sconosciute sul volere dell'uomo. La legge del valore rappresenta la religione naturale del capitalismo, la sua essenza ideologica. Come gli antichi Greci erano preda dei capricci degli dei dell'Olimpo, come gli antichi Egizi erano schiavi dei flussi e riflussi del dio Nilo, gli uomini moderni sono schiavi della legge del valore, la divinità più sanguinaria della storia, cui sono dedicati templi (che chiamano banche), altari (che chiamano crisi) e sacerdoti (che chiamano economisti). E poi l'economista volgare crede di fare una grande scoperta se, di fronte alla rivelazione del nesso interno, insiste sul fatto che le cose nel loro apparire hanno un altro aspetto. Infatti egli è fiero di attenersi all'apparenza e di considerarla definitiva. A che serve allora una scienza? Che cosa rimane allora alla scienza borghese? Impigliata nelle apparenze, rinuncia a spiegare la radice dei processi sociali e rimane alla superficie, alla contraddizione. La legge del valore non si pone come oggetto immediato della conoscenza. Così la ignorano e si accontentano dei prezzi, della domanda e dell'offerta, dell'utilità. Dell'operare cieco della legge prendono solo la cecità stessa, l'impossibilità di fornirne una spiegazione razionale se non addentrandosi oltre il suo apparire fenomenico. Ma qui la faccenda ha ancora un altro sfondo. Assieme alla introspezione nel nesso crolla, di fronte alla rovina pratica, ogni fede teorica nella necessità permanente delle condizioni esistenti. Qui vi è dunque l'assoluto interesse delle classi dominanti di perpetuare la spensierata confusione. La confusione di metodo e di sostanza degli economisti non è solo un problema di reificazione scientifica, che conduce i sacerdoti del capitale a rimanere istintivamente impigliati nella superficie dei fenomeni. È anche un problema politico. Scoprire il funzionamento della legge del valore al di sotto della superficie della società borghese significa scoprire il segreto dell'evoluzione storica e dunque anche della caducità, della contingenza di questa società. Una cosa inaccettabile per la borghesia. Che dunque preferisce mantenere la confusione in cui vivono i suoi rappresentanti scientifici. Perisca la scienza ma sia salvo il profitto! Come si vede Marx affronta in questo breve brano gli aspetti salienti della teoria del valore. Occorre sottolineare, contro ogni deformazione della concezione marxista dell'economia, che le analisi e le prospettive politiche dei marxisti sono strettamente connesse all'analisi della legge del valore. Come l'esempio del rapporto tra lavoro e valorizzazione del capitale mostra acutamente, la politica dei marxisti è in ultima analisi dettata dalle contraddizioni del funzionamento del capitalismo sintetizzate dalla legge del valore. Non a caso per attaccare il marxismo i suoi nemici scientifici e sociali sono sempre partiti dalla teoria del valore. Una volta accettata la teoria del valore, il resto, dalla teoria delle crisi alla necessità della rivoluzione socialista, viene da sé, quasi per svolgimento logico dell'analisi del valore. [1] L'importanza del carteggio con Kugelmann è testimoniata dal fatto che Lenin ne fece preparare una ristampa di cui volle scrivere l'introduzione. Peraltro, come spesso è accaduto, la socialdemocrazia tedesca, dominata dai riformisti, aveva cercato di far emergere in modo distorto il pensiero dei fondatori del marxismo, alterandone gli scritti all'atto della pubblicazione. In questo caso Kautsky aveva omesso 13 lettere su 59, tagliandone molte altre. Che Marx stesso ritenesse importante il carteggio lo dimostra il fatto che nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale spiega la peculiare esposizione della forma di valore contenuta nel I capitolo proprio con l'intervento del suo amico: "osservo di passaggio che quella duplice esposizione era dovuta al mio amico L. Kugelmann di Hannover". COMMENTO AL CAPITOLO VI DEL LIBRO I DEL "CAPITALE" K. Marx, Risultati del processo di produzione immediato, Editori Riuniti, Roma 1984 (Il "Commento" avrà come scopo soltanto quello di verificare la fondatezza di alcune tesi espresse nell'analisi del I libro del Capitale). Sin dall'inizio del capitolo, Marx cade nel circulus vitiosus secondo cui la merce va considerata come "presupposto per la genesi del capitale" e nel contempo come suo "prodotto"(p.49). Questa tautologia si rifletterà più avanti, nel modo di vedere il rapporto tra capitalista e salariato nell'ambito della circolazione del capitale. "Nella circolazione il capitalista e l'operaio stanno l'uno di fronte all'altro solo come venditori di merci..."(p.93): la merce dell'operaio è -come noto- la sua stessa forza-lavoro. E si rifletterà anche nella differenza che Marx pone tra sussunzione formale e reale del lavoro sotto il capitale (cfr pp.125ss.). Marx si rende conto che esiste una certa diversità fra la merce come "presupposto" e la merce come "prodotto", ma non riesce a spiegarsene la ragione culturale. E' questa la tesi che vogliamo dimostrare. Egli afferma: "in precedenti stadi di produzione i prodotti assumono parzialmente la forma della merce. Invece il capitale produce necessariamente il suo prodotto come merce"(p.50). Detto altrimenti: i due presupposti fondamentali per la nascita del capitalismo sono, secondo Marx: 1) "che i membri concorrenti della società si fronteggino come persone che si stanno davanti solo in quanto possessori di merci e che solo in quanto tali entrano reciprocamente in contatto (ciò esclude la schiavitù, ecc.)"; 2) "che il prodotto sociale sia prodotto come merce. (Ciò esclude tutte le forme in cui, per i produttori immediati, il valore d'uso è lo scopo principale, e tutt'al più si trasforma in merce l'eccedenza del prodotto, ecc.)"(p.81). Come si può notare, la differenza, fra un sistema e l'altro, è per Marx meramente quantitativa, anche se ciò comporta, ad un certo punto, una diversa qualità delle cose. Infatti, nessun sistema pre-capitalistico è in grado di produrre necessariamente delle merci. Marx lo dice esplicitamente a p.129: "ciò in cui il processo lavorativo sussunto anche solo formalmente sotto il capitale si differenzia sin da principio...pur sulla base del vecchio modo di lavoro tramandato, è la scala sulla quale questo processo lavorativo viene eseguito; quindi, da una parte, la massa dei mezzi di produzione anticipati, dall'altra il numero dei lavoratori comandati dallo stesso imprenditore". Per Marx dunque il passaggio da un sistema pre-capitalistico a uno capitalistico avviene secondo i parametri dell'evoluzionismo, secondo la logica hegeliana della necessità storica. "L'autovalorizzazione del capitale... -dice Marx- è soltanto impulso e scopo razionalizzati del tesaurizzatore"(p.95). Il "modo di produzione specificamente capitalistico...si sviluppa...con il progredire della produzione capitalistica..."(p.128). Questo naturalmente non significa ch'egli non abbia compreso la natura antagonistica del sistema capitalistico, ovvero l'ingiustizia di un'appropriazione privata del plusvalore. Ciò che dell'analisi marxiana si mette in discussione è l'affermazione secondo cui il capitale che all'inizio esiste solo come denaro, debba inevitabilmente valorizzarsi in direzione del capitalismo (cfr p.79). Marx spiega questo "destino" riferendosi alla grandezza, in perenne crescita, del capitale (cfr p.80), nel senso che non si potrebbe accumulare del denaro se non si avesse intenzione di accumularne sempre più. Ma, come si può facilmente notare, questa spiegazione, che dovrebbe giustificare la genesi del capitalismo, è di tipo psicologico, certo non culturale. Essa non ha un fondamento propriamente storico e pertanto ha scarso valore epistemologico. Stando ad essa infatti il capitalismo è nato casualmente in Europa occidentale, e altrettanto casualmente esso poteva nascere in qualunque altra regione del mondo ove i commerci fossero discretamente sviluppati. In pratica Marx non solo non vede "rotture" o "salti" da un sistema all'altro, ma vede persino "evoluzione" dal comunismo primitivo (che per lui coincide, almeno in questi anni, con la "comunità naturale" dell'India classica) al sistema schiavistico. "I momenti generali del processo lavorativo...sono determinazioni indipendenti da ogni carattere storico e specificamente sociale del processo di produzione, e determinazioni che rimangono ugualmente valide per tutte le sue possibili forme di sviluppo; di fatto, condizioni naturali immutabili del lavoro umano...non appena questo si sia spogliato del suo carattere puramente animale"(p.128). Naturalmente, essendo un economista, Marx cerca di spiegare la differenza fra un sistema e l'altro anche dal punto di vista fenomenologico (che è anzi quello da lui privilegiato). In tal senso la sua osservazione è giusta: "la trasformazione del denaro in capitale...può aver luogo soltanto quando la capacità di lavoro sia trasformata, per l'operaio stesso, in una merce..."(p.50), cioè quando l'operaio stesso, con la sua forza-lavoro, si trasforma in una merce. In nessun sistema pre-capitalistico s'era mai visto un potere economico che usa la libertà giuridica del lavoratore per farlo diventare socialmente schiavo lasciandolo libero! Su questo Marx avrà sempre una ragione in più rispetto agli economisti borghesi. Tuttavia, ciò ch'egli non riesce a spiegare è il motivo per cui il lavoratore ha accettato questa mistificazione, ovverosia qual è stata l'ideologia che ha indotto il lavoratore, illudendolo, ad accettare la mistificazione (quali sono stati gli argomenti persuasivi). Qui il lavoro da fare era nell'ambito della sovrastruttura, la cui importanza è sempre stata sottovalutata da Marx. * * * Per Marx "la produzione capitalistica supera la base della produzione di merci, la produzione isolata e indipendente e lo scambio tra possessori di merci o lo scambio di equivalenti"(p.52). Questo significa che il capitalismo, in quanto sistema produttivo finalizzato anzitutto al valore di scambio, va considerato superiore a qualunque altro sistema ove la produzione di merci avvenga in maniera "isolata e indipendente", tanto più dove si produce "per l'immediato consumo personale"(ib.). Pur senza dirlo (ma è probabile che lo faccia inconsciamente), Marx tende sempre a confrontare due forme di capitalismo: quella commerciale e quella industriale. La forma commerciale -come noto- si trova anche nel sistema schiavistico. Qui la divisione del lavoro è "casuale"(p.51) e l'agricoltura non è interamente dominata dal capitale. "La trasformazione dei prodotti in merci si verifica solo in singoli punti, si estende solo all'eccedenza della produzione, o solo a sue singole sfere (prodotti manifatturieri) ecc."(p.54). "Il capitale mercantile -dice a p.130-...è la forma dalla quale si è sviluppato il moderno rapporto capitalistico, e che qui e là costituisce tuttora la transizione al vero e proprio rapporto capitalistico". Ora, guardando le cose dal punto di vista dell'efficienza produttiva, Marx non ha difficoltà nel ritenere il moderno capitalismo di molto superiore a ogni altro sistema produttivo. Una società basata sull'"immediato consumo personale" è -per Marx- quasi sinonimo di barbarie o quanto meno di primitivismo semi-animalesco. Marx è stato così affascinato dalla potenza del capitalismo che non ha avuto nemmeno l'accortezza di precisare, in questo capitolo, che quando si parla di "lavoro produttivo" bisogna sempre mettersi nei panni del capitalista, per il quale qualunque lavoro finalizzato al "valore d'uso" è necessariamente "improduttivo"; ed evitare di dire che ogniqualvolta il lavoro "è consumato per il suo valore d'uso, non in quanto generatore di valore di scambio, è consumato improduttivamente..."(p.148). Si può forse definire "produttivo" un lavoro finalizzato al plusvalore e non al benessere della società? Anche solo dal punto di vista capitalistico: si può veramente considerare "improduttivo" un lavoro che produce "servizi" invece che beni materiali? Certo Marx non ha la pretesa di dire, come gli economisti borghesi, che "il capitale è un momento necessario del processo lavorativo umano in generale, a prescindere da ogni forma storica di questo processo; il capitale è qualcosa di eterno, qualcosa di condizionato dalla natura del lavoro umano"(p.86). Né che "il processo lavorativo in quanto tale, in tutte le forme sociali, sia necessariamente processo lavorativo del capitale"(ib.). Egli sa bene che "la logica che conclude: poiché il denaro è oro, l'oro è di per sé denaro; poiché il lavoro salariato è lavoro, ogni lavoro è necessariamente lavoro salariato"(ib.), è una logica antistorica. Tuttavia, Marx non è mai riuscito a dimostrare sul piano storico-culturale come questa logica sia antistorica. Persino sul piano strettamente economico, Marx non ha preso in sufficiente considerazione il fatto che fino a quando non s'è imposto il capitalismo industriale, il ramo in cui s'è esercitato, in prevalenza, il lavoro umano è stato quello dell'agricoltura - anche nella fase del capitalismo commerciale. I suoi studi sulla rendita fondiaria sono limitati a un singolo aspetto del sistema feudale, quello che non a caso mette più in luce i limiti del feudalesimo. Paradossalmente il Marx "evoluzionista" non è mai stato in grado di spiegare il motivo per cui l'autarchico feudalesimo va considerato un "progresso" rispetto allo schiavismo commerciale del mondo greco-romano. Ora, sostenere -come lui sostiene- che nei sistemi pre-capitalistici la produzione era "isolata e indipendente", può avere un senso solo se ci si riferisce all'attività commerciale del mercanti di città, ma, in tal caso, si sarebbe dovuto specificare che si trattava di una minoranza di lavoratori. Infatti, la stragrande maggioranza (anche, p.es., nell'Italia comunale) continuava a svolgere un'attività in agricoltura, in forma né "isolata" né "indipendente". Nel settore agricolo la produzione "isolata e indipendente" era patrimonio di poche unità familiari (patriarcali), in quanto la stragrande maggioranza dei lavoratori viveva "associata" (nelle comunità di villaggio) e "dipendente", in un modo o nell'altro, dalla forma economica del servaggio. Persino l'artigianato urbano non è mai stato, per tutto il Medioevo, un'attività condotta in maniera "isolata e indipendente". Se tale è divenuto, ciò è dipeso dal condizionamento del capitalismo commerciale, il quale, in seguito, ha approfittato dell'indipendenza dell'artigiano sempre più isolato e debole per trasformarlo in operaio salariato. Si badi, qui non si mette in discussione il fatto -come vuole Marx- che il rapporto di capitalista e operaio salariato sia subentrato "al posto di una precedente autonomia nel processo di produzione, come p.es. nel caso di tutti i contadini autosufficienti, dei farmers che dovevano pagare solo una rendita in profitti vuoi allo Stato vuoi al proprietario fondiario, oppure al posto dell'industria sussidiaria rurale-domestica o dell'artigianato autonomo...[ovvero] al posto del maestro delle corporazioni, dei suoi lavoranti e apprendisti"(p.135). Qui si mette in discussione: 1) l'assolutezza di questa autonomia, in quanto nel sistema pre-capitalistico essa era piuttosto relativa. Marx stesso ricorda come nei "modi di produzione antichi, precedenti, i magistrati cittadini, ecc., proibivano p.es. delle invenzioni per non ridurre alla fame i lavoratori, perché il lavoratore in quanto tale valeva come scopo a sé, e la sua occupazione aveva il valore di un privilegio al cui mantenimento era interessato l'intero ordinamento tradizionale"(p.157); 2) la naturalezza del passaggio da questa autonomia al "rapporto di sovraordinazione e subordinazione" tra capitalista e salariato, in quanto senza "rivoluzione culturale" è impossibile una transizione a un sistema così violento come quello capitalista, il cui carattere antagonistico -come dice Marx- "appare ad esso immanente"(p.166). Nessuna contraddizione, per quanto macroscopica fosse, di alcun sistema pre-capitalistico avrebbe potuto portare naturalmente, cioè per via diretta, senza un radicale rivolgimento nei modi di pensare e di agire, alla formazione capitalistica, che è quanto di più disumano gli uomini abbiano potuto inventare, dove lo "svuotamento" del lavoratore e la "pienezza" del capitalista "si corrispondono, vanno di pari passo"(p.169). Per giustificare la transizione al capitalismo industriale, Marx s'è sentito indotto a delineare i contorni socio-economici di un sistema pre-capitalistico che in realtà non è mai esistito. Il suo modo di vedere l'evoluzione del capitale è analogo al modo hegeliano di vedere la formazione dell'idea. In origine vi è il "denaro", ovvero il capitale "in potenza"; poi, in virtù del valore di scambio e della produzione commerciale che si allarga sempre di più, nasce il lavoro salariato: il denaro così si nega trasformandosi in capitale, che si autovalorizza producendo plusvalore; infine il capitale si riproduce in un moto circolare praticamente perfetto, infinito, dove il plusvalore non è altro che un aspetto di un sistema molto più complesso. La realtà invece è questa -dal nostro punto di vista-, che nessun lavoratore libero si può porre davanti al capitalista con l'obbligo (non giuridico, ma sociale) di vendergli la propria forza-lavoro, se già il capitalismo (manifatturiero) non s'è affermato come sistema. Ciò significa che il capitalismo vero e proprio non nasce anzitutto quando un lavoratore libero si trasforma in operaio, ma quando l'operaio che già lavora in fabbrica (e che in precedenza faceva il servo della gleba o il garzone a vita) obbliga, indirettamente, anche il lavoratore libero a seguire la stessa strada, proprio a causa del rapporto di sfruttamento ch'egli operaio ha col capitalista. In altre parole, il libero incontrarsi sul mercato del capitalista coll'operaio -quale fattore di realizzazione del capitale produttivo-, in realtà non è mai avvenuto all'inizio del capitalismo. Esso non presuppone altro che un capitalismo già realizzato. Un capitalista in potenza non potrebbe mai diventare effettivo, tramite il suddetto rapporto "libero", se nella società non ci fossero già altri capitalisti effettivi. Questo per dire che la scelta della società di acconsentire ai metodi capitalistici deve necessariamente precedere la possibilità di continuare tali metodi attraverso un rapporto libero sul mercato. In questo senso si può tranquillamente affermare che per il servo della gleba c'è stato, nell'illusione ovviamente di migliorare la propria condizione, un passaggio meno traumatico da un padrone all'altro, di quanto non sia avvenuto per il lavoratore libero, il quale, non senza drammi interiori (poiché l'alternativa avrebbe potuto essere un'altra), deve essersi deciso a rinunciare alla propria libertà personale, quella libertà che appunto poggiava sulla proprietà dei mezzi produttivi. Qui si potrebbe citare una frase di T.R. Edmonds, ripresa da Marx in nota: "il motivo che spinge un uomo libero al lavoro è molto più violento di quello che spinge uno schiavo: un uomo libero deve scegliere tra il duro lavoro e l'inedia per sé e la sua famiglia; uno schiavo deve scegliere tra il duro lavoro e una buona frustata"(p.134). Edmonds però, e con lui Marx, non s'è accorto che: 1) la coscienza della libertà è stata possibile in virtù del cristianesimo (anche se il cristianesimo ha vissuto la libertà in maniera parziale e riduttiva); 2) sulla base di questa libertà, l'alternativa, per il cittadino "obbligato" a lavorare come schiavo, poteva anche essere un'altra (p.es. il superamento democratico, a livello politico e sociale, del servaggio); 3) il carattere "violento" dello schiavismo era più "fisico" che "morale", proprio perché l'ideologia dominante (religiosa e/o politica) era scarsamente democratica, e poco rilevanti erano le alternative a questa ideologia. Viceversa, il carattere "violento" del capitalismo è sia "fisico" che "morale", benché esso appaia assai più mistificato, in quanto, per doversi imporre, ha dovuto fare i conti con un'ideologia, quella cristiana, che, almeno sul piano dei princìpi, pretendeva d'essere molto democratica. Per Marx "l'operaio risulta costretto a vendere, al posto di una merce, la sua propria capacità di lavoro come merce, appunto perché tutti i mezzi di produzione, tutte le condizioni oggettive del lavoro, e parimenti tutti i mezzi di sussistenza, gli stanno di fronte come proprietà estranea... Si presuppone ch'egli lavori come non-proprietario..."(p.108). Ma in queste condizioni non c'è bisogno di un vero e proprio mercato del lavoro: è sufficiente che con un provvedimento legislativo le autorità politico-civili liberino giuridicamente dal servaggio i contadini per costringerli, in maniera indotta, a trasferirsi nelle fabbriche capitalistiche. Se le autorità hanno questo potere, il capitalismo c'è già; se invece non l'hanno, il capitalismo non può formarsi a partire dalla sfera della "circolazione delle merci", almeno non può farlo automaticamente. Su questo però Marx non transige: "è solo in quanto possessore delle condizioni lavorative che il compratore porta qui il venditore alla sua dipendenza economica; non sussiste alcun rapporto politico e socialmente fissato di sovraordinazione e subordinazione"(p.132). Questo è il tipico modo ingenuo di vedere le cose di chi subordina la politica all'economia. Marx ha sempre considerato -a torto- i rapporti economici come più "immediati", più "diretti", più "evidenti" di quelli che avvengono nella sfera politica o ideologica. Questo gli impedito di scorgere le influenze della sovrastruttura sulla struttura. In realtà, nei confronti di un "nullatenente" non è necessario, da parte del capitale, dare l'impressione che "le condizioni materiali necessarie per la realizzazione del lavoro...si presentino come feticci dotati di propria anima e volontà"(p.108). Questa illusione è necessaria per il lavoratore libero, proprietario dei suoi mezzi produttivi, che però non riesce a fronteggiare la concorrenza del grande capitale. E' appunto lui che deve credere nella realtà di questi feticci, e non-credere nella sua capacità di distruggerli. Insomma, un vero "scambio di equivalenti" può essere percepito da entrambi i contraenti (compratore e venditore) solo in una società dove esiste il primato del valore d'uso e quindi l'esigenza di commerciare il surplus rimasto dopo l'autoconsumo. Al di fuori di questo contesto lo "scambio degli equivalenti" è solo un'illusione propinata dal capitale che il lavoratore libero non può che cogliere immediatamente come tale. Il problema, per questo lavoratore, semmai è un altro: come reagire all'illusione. Marx ha tutte le ragioni di questo mondo quando sostiene che non ci sarebbe capitalismo se l'operaio non fosse costretto a vendere la sua forza-lavoro per vivere, ma non può sostenere che la compravendita della forza-lavoro "costituisce il fondamento assoluto del processo di produzione capitalistico"(p.110). E' un "fondamento assoluto" dal punto di vista fenomenologico, ma da quello ontologico il fondamento va ricercato nell'ideologia, e in particolare in quella religiosa. Finché non si individua questo "fondamento" non si uscirà mai dal circolo vizioso che considera come "cause" ciò che in realtà non sono che ulteriori "effetti". * * * Quando Marx delinea, con la maestria che gli è solita, il passaggio dal rapporto corporativo medievale al rapporto capitalistico, non v'è dubbio che se ci si limitasse, fenomenologicamente, ad esso, le cose non avrebbero potuto che seguire quella direzione. Val la pena anzi riprendere in dettaglio quella descrizione per mostrare meglio le incongruenze dell'analisi marxiana. Marx dice che "il rapporto corporativo medievale...si è sviluppato, in forma analoga, anche in Atene e Roma, e che in Europa risultò d'importanza così decisiva da un lato per la formazione dei capitalisti, dall'altro per quella di un libero ceto operaio..."(pp.135-6). Si noti subito come Marx non riesca a spiegarsi il motivo per cui il capitalismo non sia nato già nelle grandi civiltà schiavistiche del mondo greco-romano, pur avendo esse analoghe forme di corporazioni artigiane. Ma procediamo. Tale rapporto corporativo, per Marx, "è una forma limitata, non ancora adeguata, del rapporto di capitale e lavoro salariato"(p.136). I motivi di questo li vediamo dopo. Qui si noti soltanto come Marx osservi il feudalesimo o, se si vuole, lo sviluppo artigianale nei Comuni europei più avanzati, non con gli occhi dello storico che considera il Medioevo dall'interno, ma con quelli dell'economista che si serve di alcune caratteristiche del Medioevo per dimostrare il valore delle proprie tesi sul capitalismo. Il Medioevo cioè viene visto dall'esterno, a partire dalla "verità" di ciò che lo ha superato: il capitalismo. In tal modo la deformazione della realtà, viziata da un'interpretazione fortemente ideologizzata, è inevitabile. Marx non solo sbaglia nel considerare il corporativismo artigianale un'anticipazione limitata del capitalismo, ma sbaglia anche nel considerare tale anticipazione come quella che assolutamente avrebbe portato, prima o poi, al capitalismo. Già si è detto che la sua importanza viene ritenuta "decisiva". "Il modo di produzione capitalistico ha inizio con la libera impresa artigiano-corporativa"(p.141). In realtà il corporativismo artigianale può anche essere stato una prefigurazione del capitalismo, ma non fu certamente solo questo, anzi non fu anzitutto questo quand'esso nacque, anche se, bisogna ammetterlo, nel modo in cui viene descritto da Marx, esso non poteva che portare al capitalismo. Vediamo ora in che senso la prefigurazione è "limitata". L'impresa artigiana medievale -secondo Marx- nasce con lo "spirito capitalistico", perché essa ha come fine il profitto individuale del maestro, il quale è proprietario delle condizioni lavorative e paga un salario a persone "libere", o comunque ha come fine il profitto dei maestri associati in una corporazione di arte e mestiere. L'impresa va considerata "limitata", rispetto al capitalismo, perché il garzone e l'apprendista hanno col maestro un rapporto di subordinazione gerarchica, in forza della sua specifica competenza professionale: nel senso che il maestro può vendere il prodotto solo quando l'apprendista produce un "capolavoro", cioè un ottimo "valore d'uso". Quando poi l'apprendista diventa maestro, egli può realizzare dei profitti -come il suo maestro precedente- solo nel ramo professionale in cui s'è specializzato. Al maestro è vietato "andare aldilà di un certo numero di lavoranti, in quanto la corporazione deve garantire a tutti i maestri un'aliquota di guadagno del loro mestiere"(p.137). I prodotti, che devono rispettare determinati criteri di qualità, non possono essere venduti a prezzi concorrenziali, perché la corporazione va difesa in quanto tale. Tutti i metodi di lavoro sono stabiliti non solo dall'esperienza del maestro, ma anche dalle regole della corporazione di appartenenza. L'ampiezza di valore del capitale impiegato, in sintesi, non può andare mai aldilà di un certo livello. Marx dice che "la trasformazione puramente formale dell'impresa artigiana in impresa capitalistica, dove inizialmente il processo tecnologico rimane ancora lo stesso, consiste nell'abolizione di tutti questi limiti..."(p.137). Marx vede dei "limiti" là dove esistevano dei "vantaggi" per tutta la collettività. Egli non s'è accorto che la suddetta trasformazione presuppone la fine di regole stabilite in maniera collettiva, presuppone cioè l'affermazione di un arbitrio individuale in contrasto con una prassi sociale che, seppur entrata in crisi, poggiava su fondamenti teorici socialmente rilevanti e pubblicamente riconosciuti. Per Marx il "passaggio" da un sistema all'altro è avvenuto semplicemente perché è bastata una "repentina espansione del commercio e quindi della domanda di merci da parte del ceto mercantile..."(p.138). In altre parole esso è avvenuto perché risultava essere una contraddizione insostenibile il fatto che da un lato si mirasse al profitto e dall'altro non si riuscisse a realizzarlo (in quanto si dovevano produrre valori d'uso, la produzione era determinata dal consumo ecc.). Lo "spirito capitalistico" dell'impresa artigiana aveva bisogno di darsi delle forme più libere per esprimersi al meglio. In sostanza, Marx non vede l'artigianato in simbiosi con l'agricoltura, ma in antagonismo, sin dal suo sorgere; ed anche quando tale antagonismo è reale, egli non riesce a scorgere le motivazioni ideologiche che lo supportano. Il "passaggio", per Marx, è stato necessario non solo dal punto di vista del mastro artigiano, ma anche da quello dell'apprendista. Singolare, tuttavia, che qui Marx dimentichi la possibilità che l'apprendista aveva di diventare maestro, e che paragoni l'operaio salariato dell'impresa capitalistica non all'apprendista artigiano bensì allo "schiavo"! Certo, rispetto allo schiavo il lavoro diventa "più produttivo, perché più intenso, dal momento che lo schiavo lavora soltanto dietro la spinta di una paura esterna, ma non per la sua esistenza, che non gli appartiene e che comunque è garantita"(p.138). Sul piano dell'efficienza produttiva, a dir il vero, il lavoro dell'operaio salariato è superiore anche a quello dell'apprendista artigiano (se si lega la "superiorità" alla mera "quantità" e al "macchinismo"): non c'era bisogno di risalire allo schiavo romano (per quanto oggi non poche persone sarebbero disposte a dubitare, dopo aver visto le ricadute del progresso scientifico e industriale sull'ambiente e sugli stessi rapporti umani, che il capitalismo sia sicuramente un sistema migliore di quello schiavistico o feudale). Ma la domanda qui è un'altra: perché Marx ha messo a confronto l'operaio salariato con lo schiavo nel mentre parlava dei limiti della corporazione artigiana? Risposta: proprio perché se avesse messo a confronto l'operaio salariato con l'apprendista artigiano non avrebbe trovato motivazioni sufficienti per legittimare in modo assoluto la transizione al capitalismo. Questa transizione è stata voluta, fra gli altri soggetti, da singoli mastri artigiani che volevano arbitrariamente superare i limiti imposti dalla corporazione d'appartenenza. Ma resta singolare che Marx non abbia sottolineato quante battaglie abbiano dovuto sostenere garzoni e apprendisti per non diventare salariati a vita! "Il libero lavoratore -dice Marx- è spinto dai suoi bisogni. La coscienza (o piuttosto la rappresentazione) della libera autodeterminazione, della libertà, e il connesso sentimento (consapevolezza) di responsabilità..."(p.138), fanno del salariato un individuo migliore dello schiavo. Qui Marx fa completa astrazione dalla storia e usa la dialettica alla maniera hegeliana. Stando infatti alla sua analisi, pare addirittura che garzoni e apprendisti abbiano acconsentito volontariamente a diventare salariati dell'impresa capitalistica! Solo perché potevano aspirare a un salario maggiore! Solo perché potevano dimostrare la loro professionalità individuale! Solo perché avevano la possibilità di cambiare continuamente lavoro, o meglio la possibilità di scegliersi il capitalista al quale sottomettersi! Solo perché, a forza di risparmiare sul salario, potevano illudersi di diventare un giorno come il loro imprenditore! (cfr pp.138-141) In un certo senso è incredibile che uno storico dell'economia come Marx ritenga che "la trasformazione di servi della gleba o di schiavi in liberi operai salariati [costituisca] un'elevazione nel grado sociale"(p.140), quando nello schiavo un'emancipazione del genere sarebbe stata impossibile senza una forte consapevolezza della libertà (che solo il cristianesimo poteva dargli); quando nel servo della gleba un'emancipazione del genere ha comportato un peggioramento sensibile e irreversibile delle sue condizioni di vita. Significativo è anche il fatto che Marx metta sullo stesso piano "schiavo" e "servo della gleba", senza rendersi conto che se la condizione del "libero" operaio salariato è evidentemente migliore di quello dello schiavo (per quanto una libertà "giuridica" senza una libertà "sociale" alla fine diventi un peso insopportabile), non la stessa cosa si può dire mettendo a confronto il salariato capitalistico col contadino medievale (rovinato, quest'ultimo, più che dal servaggio, dalla penetrazione del capitalismo nelle campagne). Tuttavia, la cosa che Marx non ha assolutamente capito è che lo schiavismo risulta, tra i sistemi economici di sfruttamento, di gran lunga quello più immediato, più spontaneo e naturale: in un certo senso il più efficace, non tanto per la produzione quanto piuttosto per la "coscienza", proprio perché con esso si evita alla radice di tener conto di qualunque ideologia umanistica. Non a caso a partire dal colonialismo, gli europei lo ripristinarono, diffondendolo subito su vasta scala, nelle regioni ignare del cristianesimo, rinunciando, in un primo momento, non solo al servaggio ma anche al rapporto salariato, che è indiscutibilmente più vantaggioso per il capitalista. Ciò comunque significa che nel passaggio dallo schiavismo al servaggio e dal servaggio al capitalismo, il cristianesimo ha giocato un ruolo decisivo, al punto che nei territori segnati dalla presenza di questa religione, un semplice ritorno ai vecchi metodi di produzione sarebbe stato impossibile. Il capitalismo riflette dunque una sofisticazione culturale, un approfondimento qualitativo -seppure in negativo- della religione cristiana. L'approfondimento in positivo è costituito dal socialismo democratico. * * * Correlata a questo modo di vedere le cose è l'idea, da Marx sempre ribadita, che "inizialmente la sottomissione del processo lavorativo al capitale non cambia nulla nel modo di produzione effettivamente reale"(p.116). La rivoluzione tecnologica vera e propria avviene solo quando si ha "sussunzione reale del lavoro sotto il capitale". Marx deve per forza affermare un principio del genere, poiché ha posto la compravendita della forza-lavoro come presupposto assoluto del capitalismo. S'egli ammettesse che il capitalismo si afferma anzitutto come modo di produzione diverso dal precedente, la legge che regola lo scambio delle merci assumerebbe un'importanza relativa. Cioè il lavoratore non penserebbe mai di essere libero nel mercato delle merci e schiavo nel mercato del lavoro. Il capitalismo non è giusto nella circolazione delle merci e ingiusto nella produzione di plusvalore. Il suo carattere antagonistico si esprime a tutti i livelli, seppur in modo più o meno mascherato. D'altra parte lo dice anche Marx: "con ciò svanisce anche l'apparenza..., secondo cui nella circolazione, nel mercato delle merci, si fronteggiano possessori di merci, dotati di eguali diritti, che si distinguono l'uno dall'altro, come tutti gli altri possessori di merci, solo per il contenuto materiale delle loro merci..."(p.169). Solo che Marx non arriva mai a chiedersi come si sia potuta formare un'apparenza del genere: di qui i suoi limiti nell'analisi storica e culturale del capitalismo. (L'ultima parte del cap.VI è quella da cui bisognerebbe partire per approfondire il marxismo sul versante culturale). In tal senso è da escludere categoricamente che lo sviluppo del capitalismo abbia potuto favorire "una maggiore continuità e intensità del lavoro e una maggiore economia nell'impiego delle condizioni lavorative"(p.133), senza mutare, contemporaneamente, le condizioni tecnologiche della produzione. Dire che "considerato tecnologicamente, il processo lavorativo si svolge esattamente come prima, solo che adesso si svolge in quanto processo lavorativo subordinato al capitale"(ib.), è dire una frase senza senso, poiché o con essa ci si riferisce al capitalismo mercantile, e allora non è il caso di parlare di passaggio "automatico" al capitalismo industriale (in ogni caso Marx intende riferirsi alla "sussunzione formale del lavoro sotto il capitale", e quindi non al capitalismo mercantile), oppure con essa ci si riferisce al capitalismo industriale (o manifatturiero che dir si voglia), e allora bisogna ammettere che senza progresso tecnologico tale capitalismo non sarebbe mai nato, o non si sarebbe mai sviluppato come poi ha fatto. In altre parole, Marx, evitando l'esame sovrastrutturale delle cause che hanno generato il capitalismo, non è stato in grado di determinare le ragioni culturali che hanno portato l'uomo del XVI sec. a modificare completamente il proprio apparato tecnologico, ovvero il proprio rapporto con la natura e con l'ambiente sociale. Con gli occhi del "fenomenologo", Marx ha saputo cogliere la contraddizione antagonistica del sistema capitalistico, ma non l'origine culturale del formarsi di tale contraddizione. E' vero, il capitalismo "risolve il rapporto tra il possessore delle condizioni lavorative e il lavoratore stesso in un puro e semplice rapporto di compravendita, o rapporto monetario, e separa il rapporto di sfruttamento da ogni mistione patriarcale e politica o anche religiosa"(p.133). Ma questa "separazione", in realtà, è solo formale, in quanto, nella sostanza, è stata proprio la religione (specie quella protestante) a offrire alle forze produttive il pretesto, la giustificazione teorica per originare una nuova formazione sociale. Quando le condizioni di lavoro stanno "di fronte all'operaio come persone autonome, poiché il capitalista in quanto possessore di esse è soltanto la loro personificazione..."(p.123), ciò significa che, nei suoi fondamenti, il capitalismo s'è già compiutamente realizzato. L'operaio non scopre questa "personificazione" solo nel momento in cui entra in fabbrica, ma già nel momento in cui vende la propria forza-lavoro, ed è tanto più convinto di questa "personificazione" quanto più, prima di diventare operaio, svolgeva un lavoro servile. In pratica Marx ha equiparato arbitrariamente l'economico col sociale, togliendo a questa dimensione la ricchezza della valenza culturale e la profondità delle scelte esistenziali, assiologiche che gli uomini possono compiere. Dal punto di vista "sociale" si sarebbe dovuto sostenere che, fino a quando il capitalismo non modifica il modo di produzione tradizionale, non è neanche il caso di parlare di "capitalismo", ma solo di attività mercantile, ovvero di attività artigianale (o anche agricola) intaccata dall'esigenza di un mero profitto commerciale: un'attività che di per sé non è affatto in grado di creare un "libero mercato delle merci" e che in presenza di una forte volontà politica democratica potrebbe essere facilmente smantellata. Il capitalismo, per potersi imporre, ha avuto bisogno di una rivoluzione culturale, quella del protestantesimo, e anche di una rivoluzione tecnologica, quella del macchinismo. Senza il macchinismo il protestantesimo ha prodotto, nella Germania di Lutero e di Hegel, una grande libertà di pensiero, ma non ha saputo generare il capitalismo. Il capitalismo nasce quando, fra le altre cose, "le condizioni del lavoro -come dice Marx-, con lo sviluppo del macchinario, si presentano anche tecnologicamente come dominatrici del lavoro e, nello stesso tempo, lo sostituiscono, lo schiacciano e lo rendono superfluo nelle sue forme autonome"(p.163). Dunque i primati della quantità sulla qualità, del lavoro astratto su quello concreto, del lavoro morto su quello vivo, dello scambio sull'uso e così via, potevano essere affermati sul mercato e nella società civile solo dopo che si fossero imposti (anche tecnologicamente) nella produzione e nella...coscienza religiosa! * * * Paradossalmente Marx ha creduto di ravvisare nel capitalismo industriale (che è il sistema più individualistico della storia, e lo può essere in virtù della tecnologia) un carattere di "socialità" assai superiore a tutti i modi di produzione pre-capitalistici. Ma è forse un segno di "socialità" il fatto che la merce capitalistica faccia "comparire come qualcosa di completamente casuale, indifferente ed inessenziale la sua relazione immediata, in quanto valore d'uso, con il soddisfacimento del bisogno del produttore"(p.53)? Il primato assoluto del valore di scambio non è forse indice di un assoluto individualismo? Certo, se si mette a confronto il capitalismo individualistico del mercante medievale (o dell'usuraio o della singola corporazione artigiana) con il capitalismo "sociale" dell'imprenditore privato, che impiega quanti più operai possibile (salvo poi decidere che un certo, esiguo, numero di operai è sufficiente per realizzare un determinato plusvalore...), nessuno può dubitare che il capitalismo industriale sia, nello sviluppo non solo delle forze produttive ma anche dell'antagonismo sociale, un passo avanti rispetto al capitalismo mercantile. Tuttavia, Marx dimentica di dire che i guasti che ha procurato il mercantilismo all'insieme della società feudale sono stati minori rispetto a quelli dell'industrialismo, semplicemente perché allora esisteva un'economia agricola che, essendo basata sull'autoconsumo, sapeva (naturalmente fino a un certo punto) attutire il peso di certe contraddizioni e di certi conflitti sociali. Viceversa, il capitalismo avanzato oggi ha ancora bisogno di sfruttare l'80% dell'umanità per poter sopravvivere. Naturalmente Marx sa bene che il "sociale" del lavoro "si contrappone all'operaio in modo non solo estraneo, ma ostile e antagonistico, e come oggettivato e personificato nel capitale"(p.131). Persino "il lavoro produttivo, in quanto produttore di valore, sta sempre di fronte al capitale come lavoro di operai isolati, quali che siano le combinazioni sociali in cui questi operai entrano nel processo di produzione"(p.164). Tuttavia, è singolare come Marx non si sia accorto che un individualismo del genere poteva essere affermato solo in contrapposizione a un'esperienza di socializzazione entrata in crisi, a un'esperienza cioè il cui lato "sociale", peraltro indubitabile, non era stato politicamente usato per risolvere le contraddizioni antagonistiche del sistema feudale (o lo era stato solo in maniera insufficiente). Ancora più paradossale è il fatto che proprio nel momento in cui Marx si avvicina a comprendere la natura antagonistica del sistema capitalistico, con la medesima intensità egli si allontana da una reale comprensione della sua genesi storica. Si legga ad es. questo significativo passo: "il dominio del capitalista sull'operaio è il dominio della cosa sull'uomo, del lavoro morto sul lavoro vivo, del prodotto sul produttore... Storicamente considerata, questa inversione si presenta come il punto di passaggio necessario [!] per promuovere coercitivamente, a spese della maggioranza, la creazione della ricchezza in quanto tale, lo sviluppo inesorabile [!] di quelle forze produttive del lavoro sociale che sole possono costituire la base materiale di una libera [!] società umana. E' necessario [!] passare attraverso questa forma antagonista proprio come è necessario [!] che, inizialmente, l'uomo si raffiguri in modo religioso, di fronte a sé, le sue forze intellettuali come potenze indipendenti. E' il processo di estraneazione del suo proprio lavoro"(p.94). Il lato "positivo" del capitalismo -dice Marx- è il fatto che i "limiti della produzione" vengono costantemente oltrepassati (p.144). Qui Marx riprende i temi giovanili già delineati nei Manoscritti del '44, inclusa la critica di Feuerbach alla religione. Ma la dipendenza dall'hegelismo è netta, forse più adesso che allora, seppure qui l'hegelismo sia stato trasformato radicalmente in chiave fenomenologica. La dipendenza la si nota soprattutto laddove Marx considera il capitalismo come una formazione "necessaria", "inesorabile", per la creazione della ricchezza. Infatti non ci può essere "libera società umana" -dice Marx- senza sviluppo delle forze produttive, che ne costituiscono la base materiale. Qui, sinteticamente, è concentrata tutta la filosofia dell'economia di Marx, la quintessenza della sua visione deterministica della storia (che è filo-hegeliana proprio per l'uso della categoria della necessità, non, ovviamente, per aver considerato "necessario" il capitalismo. Hegel -come noto- era un conservatore del sistema feudale). Il parallelo che Marx fa con l'alienazione religiosa non viene approfondito, né qui né altrove, semplicemente perché Marx ha sempre considerato l'alienazione religiosa un riflesso di quella economica. Marx pensò di superare l'antropologismo psicologistico di Feuerbach dal punto di vista storico, ma vi riuscì, in parte, solo fino a quando assegnò un certo primato alla politica (in pratica sino al Manifesto): quando invece cominciò a subordinare la politica all'economia, la sua dipendenza da Feuerbach nell'analisi della religione fu netta. In sostanza a Marx è mancato il momento dell'analisi culturale del fenomeno religioso: quello che gli avrebbe permesso: 1) di vivere la politica rivoluzionaria in maniera più democratica e non settaria; 2) di dare un vero senso storico agli studi di economia; 3) di superare non solo Feuerbach ma anche Hegel. In altre parole Marx non è riuscito a cogliere la reciproca influenza che caratterizza i rapporti tra economia e religione, né, tanto meno, il fatto che la religione sia, sul piano culturale, una delle cause storiche in grado di giustificare determinati processi socio-economici. Marx supera certamente l'hegelismo quando afferma, diversamente dalla dialettica servo/padrone, che "fin da principio l'operaio si trova in una posizione superiore rispetto al capitalista, perché quest'ultimo affonda le sue radici in quel processo di estraneazione e vi trova il suo assoluto soddisfacimento, mentre l'operaio, in quanto vittima di quel processo, rimane da sempre in un rapporto di ribellione verso di esso e lo esperimenta come processo di asservimento"(p.94). Tuttavia Marx ricade nell'hegelismo proprio quando considera come "inevitabile" questo "processo di asservimento", ovvero quando non assegna esplicitamente al "rapporto di ribellione" il compito di por fine, con la rivoluzione politica, allo sfruttamento capitalistico, ancor prima che il sistema abbia esaurito tutte le proprie potenzialità produttive. * * * Marx era così influenzato dal metodo della Logica hegeliana che ne usava, anche durante la stesura del Capitale, taluni concetti, come ad es., in questo caso, quello di "sussunzione". Parlando della "sussunzione formale" del lavoro sotto il capitale -che è quella decisiva, in quanto "condizione e presupposto della sussunzione reale"(p.133)- Marx ribadisce il suo punto di vista deterministico ed evoluzionistico, che già abbiamo visto nelle considerazioni su esposte. "E' nella natura delle cose [!] -egli afferma- che la sussunzione del processo lavorativo sotto il capitale subentri proprio sulla base di un processo lavorativo esistente, sorto prima di questa sussunzione...e configuratosi sulla base di precedenti e differenti processi produttivi...p.es., il lavoro artigiano o il tipo di agricoltura corrispondente alla piccola, autonoma economia contadina"(p.127). Infatti, "se il rapporto di sovraordinazione e subordinazione [tra capitalista e operaio salariato] subentra al posto della schiavitù, servitù della gleba, vassallaggio, di forme patriarcali ecc., di subordinazione, si verifica solo un cambiamento nella sua forma. La forma diviene più libera, poiché essa rimane soltanto di naturale materiale, formalmente volontaria, puramente economica"(p.135). Marx rifiuta categoricamente l'idea che in questo passaggio vi siano dei mutamenti, già all'inizio, di tipo sostanziale. Considerando il presente migliore del passato e il futuro migliore del presente, Marx non può che vedere le cose in maniera naturalistica: la differenza dall'ideologia borghese sta nel fatto che la sua considera "naturali" i drammi e le tragedie connesse allo sfruttamento capitalistico, perché proprio essi hanno permesso -a suo giudizio- di rendere più evidenti le contraddizioni del sistema e più pressante la necessità di superarle. In ogni caso Marx non si rende conto che la "naturalità" della transizione al capitalismo avrebbe potuto verificarsi ben prima del sec. XVI (come, in effetti, accadde nell'Italia comunale, senza che però si verificasse il passaggio del capitalismo da "mercantile" a "industriale"). Oppure avrebbe potuto verificarsi, nello stesso secolo XVI, in altre regioni del globo, certo non meno avanzate, sul piano commerciale, dell'Europa occidentale: si pensi p.es. alla Cina o al mondo arabo che dominava i traffici nel Mediterraneo e nell'oceano Indiano. Perché qui il capitalismo non è mai nato spontaneamente, ma solo come sistema imposto dall'esterno o comunque importato contro le tradizioni nazionali delle popolazioni? Perché l'India, nonostante la presenza di "interessi colossali" tratti dal "capitale usuraio" -come dice Marx- non ha sperimentato "la sussunzione formale del lavoro sotto il capitale"? In India il capitalismo è stato imposto dalla potenza coloniale inglese e, dopo la liberazione politica, esso continua a restare un corpo estraneo nel complesso della società civile para-feudale: perché? E' solo un "limite" dell'India o piuttosto un segno della sua "forza morale"? "La produzione per la produzione - produzione come scopo a sé..."(p.144), ovvero la capacità che gli euroccidentali hanno avuto di passare dal possesso di schiavi a quello della terra (il feudo), sino a quello di capitali (il plusvalore), è stato davvero un segno di "progresso"? nel bene o nel male? Non è forse il caso di dire che queste forme sempre più sofisticate di sfruttamento dell'uomo sono in realtà dei tentativi di reagire, negativamente, alla domanda di libertà, di verità e di autenticità che il cristianesimo ha introdotto nella civiltà europea? E che laddove questi tentativi non sono nati spontaneamente, lì esisteva anche una consapevolezza limitata della grandezza dell'uomo, ossia di ciò che l'uomo è in grado di fare? Considerare il capitale "come personificazione e rappresentante, figura cosalizzata delle forze produttive sociali del lavoro o delle forze produttive del lavoro sociale"(p.164), sarebbe stato possibile senza il cristianesimo? Se Marx avesse puntato l'attenzione sui processi ideologici e culturali che portano una determinata formazione sociale a trasformarsi in un'altra, spesso di segno opposto, avrebbe evitato di parlare di "naturalità delle cose" o almeno l'avrebbe considerata in modo relativo. Non è "naturale" che la scala della produzione venga determinata non sulla base di "bisogni reali", ma sulla base del modo di produzione stesso, finalizzato unicamente al profitto (p.144). E' evidente, infatti, che qualsiasi modo di produzione nasce sulle fondamenta di quello precedente, a meno che non siano avvenute delle catastrofi di tipo naturale o degli eventi di natura politico-militare così sconvolgenti da obbligare gli uomini a ripensare totalmente la loro esistenza. In questo senso si può affermare che mentre in Europa occidentale la nascita del capitalismo non è stata particolarmente ostacolata dal feudalesimo (se non nel momento in cui le forze borghesi, consolidatesi sul piano economico, cominciavano a rivendicare un potere politico), nell'Europa orientale invece (specie in quella di religione ortodossa), il capitalismo, anche sul piano economico, ha sempre incontrato una forte resistenza da parte delle forze feudali (comunità di villaggio ecc.). E quando esso, approfittando delle contraddizioni feudali, ha cercato d'imporsi sul piano economico, sono nate più o meno immediatamente, nuove forze sociali che vi si sono opposte in maniera politica, costringendo il capitalismo a operare subito la transizione verso il socialismo. In questo tentativo, purtroppo, tali forze hanno fatto affidamento più che in loro stesse, sulle teorie socialiste (marxiste in particolare) elaborate in Europa occidentale, cioè su quelle teorie che hanno sempre tenuto in scarsa considerazione il feudalesimo, il mondo contadino, le comunità di villaggio ecc. Sicché l'Europa dell'est ha sperimentato su di sé tutti gli effetti negativi della realizzazione delle teorie marxiste, risparmiandoli così all'Occidente, il quale, però, dal canto suo, continua a sperimentare su di sé (e a far sperimentare soprattutto sul Terzo Mondo) tutti gli effetti negativi delle teorie borghesi del capitalismo. Ora, se da un lato l'Europa dell'est ha capito gli errori del marxismo, dall'altro l'Europa dell'ovest non ha ancora capito gli errori del liberalismo borghese. La democrazia occidentale oscilla continuamente fra due poli opposti: il laissez-faire e il Welfare State, e non s'accorge che in realtà sono due facce di una stessa medaglia, quella appunto del capitalismo. COMMENTO ALLE FORMEN Le Formen fanno parte, come Appendice, dei Fondamenti della critica dell'economia politica, scritti nel biennio 1857-58, e notoriamente conosciuti col nome di Grundrisse. Sia questi che le Formen sono il risultato di circa 15 anni di ricerche, e precedono immediatamente la stesura del Capitale. L'Appendice non era assolutamente destinata alla pubblicazione, per cui si presenta in maniera molto sintetica, astratta, spesso involuta. Ma la cosa più curiosa è che quasi tutti temi in essa presenti non sono stati ripresi nel Capitale. Anzi, l'unico vero momento in cui Marx cercò di approfondire il discorso sul processo pre-capitalistico fu quello occasionato dal rapporto epistolare ch'egli ed Engels tennero coi populisti russi, i quali, cercando una via che impedisse alla Russia di riprodurre il modello avanzato del capitalismo occidentale, credettero di trovarla nella ripresa della comune agricola (obscina). Il populismo russo voleva un socialismo senza rivoluzione proletaria (non ritenendola indispensabile), e quindi senza rivoluzione industriale: un socialismo che partisse da una democratizzazione progressiva della vita rurale e che qui si fermasse. [Questo argomento necessita di essere affrontato a parte, esaminando anche il rapporto tra leninismo e populismo. Esso, dopo il fallimento del socialismo amministrato, è diventato di particolare interesse]. * * * Nelle Formen Marx esordisce con una osservazione che, se fosse stata adeguatamente sviluppata, avrebbe portato a un'elaborazione ben diversa del Capitale. Egli infatti afferma che se uno dei presupposti classici del capitalismo è la presenza del "lavoro salariato" (non schiavo né servile), e quindi la possibilità di comprare la forza-lavoro come "merce" sul mercato, un altro presupposto, ancora più anteriore, che si pone in un certo senso all'origine del precedente presupposto, sta nella "separazione del lavoro libero dalle condizioni oggettive della sua realizzazione - dal mezzo di lavoro e dal materiale di lavoro"(p.69). In pratica Marx sostiene che au fond del capitalismo c'è una divisione organica, strutturale, del lavoratore dalle condizioni che gli permettono di essere "libero". E' il tema della "alienazione", o "estraneazione", o "espropriazione", già trattato nei Manoscritti del '44. Marx ha in mente due forme antiche di economia in cui il lavoratore di sentiva "realizzato" come tale: la "piccola proprietà fondiaria libera", di tipo occidentale, costituita da "singole famiglie"(p.70) e la "proprietà fondiaria collettiva fondata sulla comunità orientale"(p.69). L'autorealizzazione del lavoratore stava appunto nell'"unità naturale del lavoro coi suoi presupposti materiali"(ib.). Cioè ogni membro della comunità si sentiva "proprietario" in forma o individuale o collettiva. Da un lato Marx aveva intuito che in origine la libertà stava nell'unità delle cose, nel senso che "il lavoratore ha un'esistenza oggettiva indipendentemente dal lavoro..., è in rapporto con se stesso come proprietario, come padrone delle condizioni della sua realtà"(ib.). Dall'altro però aveva compiuto due grossolani errori, in parte giustificati dall'arretratezza degli studi antropologici di allora: 1) non aveva capito che la "piccola proprietà fondiaria", nel momento in cui s'era formata (qui Marx pensa all'Europa occidentale, cioè alle comunità immediatamente precedenti le civiltà schiavistiche greco-romane), coesisteva già col lavoro servile o addirittura schiavistico; 2) non aveva capito che la "comunità orientale" (asiatica, indiana) rientrava già nel modo di produzione di tipo feudale (seppure in forme meno antagonistiche di quelle occidentali). Marx non fa mistero di prediligere la piccola proprietà delle singole famiglie, che lui immagina essere tale non per "poche" ma per "tutte" le famiglie di una collettività. Egli ancora non suppone neanche lontanamente che il concetto di "famiglia" o di "piccola proprietà" sia già il frutto di un sistema sociale antagonistico, fondato sulla separazione tra lavoro "libero" e lavoro "servile". Che Marx prediliga la proprietà delle piccole famiglie, è chiaro laddove egli afferma che la "proprietà comune, un tempo assorbiva tutto e tutto comprendeva"(p.70), cioè essa non permetteva all'individuo di emergere nella propria individualità. Quando finalmente vi riuscirà, con la nascita della piccola proprietà privata (per tutte le unità familiari), quella antica proprietà collettiva starà "accanto ai molti proprietari fondiari privati"(ib.) come ager publicus. Marx insomma intendeva qui riferirsi ai tempi "migliori" (più democratici) della Roma repubblicana. Molto suggestiva è l'affermazione secondo cui lo scopo di questo lavoro libero era anzitutto "il mantenimento del singolo proprietario e della sua famiglia, come di tutta la comunità"(ib.), e non la creazione di valore, nel senso capitalistico del termine. Laddove prevale il valore d'uso sul valore di scambio (scambio dei prodotti eccedenti), il lavoratore resta padrone di se stesso e non è obbligato a "vivere per produrre". "Il porsi dell'individuo come lavoratore, nella sua forma nuda, è esso stesso un prodotto storico"(ib.). Marx ha pienamente ragione, anche se questa sua affermazione non può trovare un adeguato riscontro storico nelle due formen da lui scelte. In quanto "storico", Marx resta qui un dilettante. Egli d'altra parte è nato "filosofo" e questa sua forma mentis lo condizionerà per tutta la vita, anche quando comincerà a trattare gli argomenti concreti dell'economia. * * * Può sembrare paradossale sostenere che il fondatore del "socialismo scientifico" sia stato il sostenitore non dell'economia statalizzata -come si è verificato nei Paesi est-europei-, bensì dell'economia individuale, di piccoli gruppi autonomi, liberi, indipendenti: un'economia pianificata (cioè scientifica) sì, ed anche autogestita (perché autonoma), ma certo non centralizzata né burocratizzata. Può sembrare paradossale, ma è così, e per una semplice ragione: Marx era figlio del suo tempo e soprattutto della Germania luterana e dell'Europa capitalista, in una parola dell'Occidente individualistico. Persino nella sua famiglia d'origine, l'individualismo doveva necessariamente caratterizzare il padre di religione ebraica, che accettò di cambiare religione proprio perché riusciva a sopportare meglio l'individualismo in quanto "protestante" che in quanto "ebreo". Ma il problema è un altro. Il fatto che il marxismo in Europa orientale si sia realizzato nella forma statalistica, non deve farci pensare a un "tradimento" delle idee di Marx. E' stato proprio il fallimento del marxismo in Europa occidentale a dimostrare che sulla strada dell'individualismo non si sarebbe mai potuto realizzare il superamento del capitalismo. L'Europa dell'est ha tentato la via del collettivismo scegliendo la strada più "istintiva", più "immediata", quella della statalizzazione o nazionalizzazione dei mezzi produttivi, della proprietà ecc. Col risultato che il lavoratore era padrone di tutto solo "in astratto", in quanto, nel concreto, non era padrone di nulla. Il leninismo capì una cosa di fondamentale importanza: per realizzare la transizione al socialismo, occorre una rivoluzione politica fondata su un partito organizzato e sul consenso delle masse. Fin qui il leninismo può essere considerato un passo avanti rispetto al marxismo, il quale invece aspettava che le masse popolari insorgessero da sole, sollecitate da una critica radicale del sistema capitalistico fatta dall'intellettuale progressista. In questo senso si può tranquillamente affermare che se anche il leninismo avesse tenuto conto dell'individualismo del marxismo occidentale, non avrebbe saputo evitare le storture della statalizzazione (che potevano essere evitate solo democratizzando il collettivismo). Probabilmente non avrebbe mai creato alcuna forma di socialismo. Il marxismo infatti comprende la necessità del socialismo, ma non sa come realizzarla concretamente. Lo dimostra l'involuzione della II Internazionale. Solo il leninismo è stato in grado di farlo (le rivoluzioni socialiste extra-europee hanno dovuto necessariamente tener conto della lezione del leninismo). Il limite del leninismo sta nel non aver saputo dare il giusto rilievo alle questioni inerenti al "fattore umano", cioè alla progressiva democratizzazione e umanizzazione del socialismo. Il leninismo ha dato giustamente più importanza al fattore "politico" che a quello "economico", ma non è riuscito (non ne ha avuto il tempo) a realizzare adeguatamente il primato dell'uomo sulla politica (a tale scopo probabilmente occorreva non solo più tempo ma anche una sensibilità più forte). Il primato dell'uomo non sussiste neppure nel marxismo, ove l'individuo è addirittura subordinato al processo economico. Se il leninismo avesse cercato di realizzare il marxismo così come Marx l'aveva formulato, cioè senza preoccuparsi di modificarlo in direzione del collettivismo, probabilmente avrebbe costruito un socialismo militarizzato, non molto lontano da quello che Trotski avrebbe voluto. Solo così infatti si sarebbero potute concretizzare le idee individualistiche del Marx "socialista". Da questo punto di vista la vittoria di Stalin su Trotski rappresenta la vittoria di un individualismo più "storico", più "realistico", in quanto più capace di tener conto dell'importanza del leninismo (Stalin si contrapporrà decisamente al leninismo solo dopo aver preso il potere). Lo stalinismo fu un prodotto deforme del leninismo, cioè fu l'esito di un'incapacità: quella di democratizzare e umanizzare ulteriormente il socialismo collettivista. Nel senso che senza questa democratizzazione, il leninismo può rischiare di trasformarsi in stalinismo. Se in Lenin ciò non è avvenuto, non è dipeso dalle sue "teorie", ma dalla sua "personalità". Il che è troppo poco per salvaguardare la democrazia. In ogni caso se lo stalinismo fu incapace di tale democratizzazione, il trotskismo lo era ancora di più. Esso infatti, molto più dello stalinismo, era condizionato dall'individualismo dell'Europa occidentale. Il trotskismo è l'applicazione più istintiva del marxismo qua talis. I suoi limiti sono ben evidenti nel fallimento della rivoluzione russa del 1905. Ma sono evidenti anche in tutti i fallimenti del marxismo occidentale. Non a caso in Europa occidentale il marxismo dogmatico si è sempre manifestato, sul piano pratico-politico, come trotskismo e non come leninismo (cioè nelle forme dei piccoli gruppi o partiti settari, filo-terroristici o estremisti). Il marxismo gramsciano rappresenta sì il superamento del trotskismo, ma anche la rinuncia alla rivoluzione politica. Singolare però è il fatto che il marxismo, per potersi realizzare come trotskismo, avrebbe dovuto negare le sue teorie sulla piccola proprietà fondiaria, sulle unità familiari indipendenti, ecc. Infatti, in nome di questi princìpi non si sarebbe mai realizzato alcun socialismo, il quale, per superare il capitalismo, avrebbe avuto bisogno di ricorrere alla forza politico-militare della dittatura proletaria. Ecco perché molto "socialismo" presente nel marxismo ha un valore meramente teorico, di speculazione astratta. * * * Marx ha perfettamente ragione quando sostiene che "la comunità tribale, la collettività naturale, appare non come risultato, ma come presupposto dell'appropriazione collettiva (temporanea) e dello sfruttamento collettivo del suolo"(p.70). Marx ha messo tra parentesi la parola "temporanea" perché riteneva che la prima forma di esistenza sociale in cui si espresse nel passato il concetto di "gregarietà" fosse il nomadismo (in particolare nella veste della pastorizia), soggetto ad essere rimpiazzato dalla stanzialità solo quando i terreni (per l'agricoltura) erano particolarmente fertili. [Questo aspetto va verificato]. Egli però compie un errore clamoroso laddove considera la "famiglia" il nucleo fondamentale della tribù. Il concetto di "famiglia", in realtà, è anch'esso il risultato della progressiva frantumazione della comunità tribale, o meglio, delle sue regole comunitarie. L'uomo pretende di avere un dominio sulla propria donna e sui propri figli nel momento stesso in cui si stacca dalle tradizionali norme collettivistiche e impone alla comunità un rapporto autoritario del tipo "servo/padrone" o "suddito/sovrano". Per Marx il collettivismo non è che un aggregato di diversi individualismi, una sorta di "contratto sociale" in cui si stabiliscono i diritti/doveri reciproci, al fine di salvaguardare il bene più prezioso: la libertà dell'individuo. Nella sua prospettiva, la comunità tribale era destinata ad essere superata, proprio perché non garantiva a sufficienza la possibilità di espressione individuale della libertà. Infatti -dice Marx- "l'effettiva appropriazione attraverso il processo del lavoro avviene sulla base di questi presupposti, che non sono essi stessi prodotto del lavoro, ma appaiono come suoi presupposti naturali o divini"(p.71). La comunità tribale ha "un rapporto ingenuo"(ib.) con la terra. Non è una comunità che "fa la storia", poiché è completamente determinata dal suo rapporto con la "natura". Questo modo di vedere le cose -in sé sbagliato- è sempre stato presente nell'ideologia di Marx: l'uomo comincia a prendere consapevolezza di sé nella misura in cui recide il cordone ombelicale che lo lega alla tribù, ovvero comincia a "fare storia" nel momento in cui si stacca dal suo rapporto ingenuo e primitivo con la natura. Marx ha sempre escluso la possibilità che nelle formen pre-capitalistiche vi fosse non conflitto ma compatibilità tra: 1) natura e storia. Marx accetta la compatibilità solo nel senso di attribuire al processo "storico" degli uomini la caratteristica di un processo "naturale", cioè di un processo che doveva avvenire così e non altrimenti che così, proprio come nella natura vi sono leggi che non dipendono dalla volontà o dalla coscienza degli uomini; 2) individuo e comunità. Per Marx l'individuo nasce come tale solo quando abbandona la comunità, cioè quando sviluppa la propria creatività senza la protezione che lo fagocita e lo deresponsabilizza. Non c'è possibilità che l'individuo acquisti consapevolezza di sé in quanto membro di una collettività. Questa, come tale, non può prendere consapevolezza della propria differenza dalla natura e, nel rapporto con la natura, dal mondo animale; 3) comunità e ateismo. Per Marx l'emancipazione dell'individuo dalla comunità comporta anche la sua emancipazione dalla religione. Oggi invece la scienza è arrivata a dimostrare il contrario, e cioè che la preponderanza dell'elemento religioso nell'ambito della comunità è legata alla dissoluzione dei rapporti collettivistici, ovvero all'affermazione del primato dell'individuo sul gruppo. Se nelle comunità tribali esistevano forme di religiosità collettiva, esse non venivano mai ad assumere un ruolo determinante rispetto ad altri fattori. comunanza di sangue, di lingua, di tradizioni, di attività produttive e di proprietà. Marx quindi non ha compreso che il rapporto ancestrale della tribù con la natura era sì "ingenuo" ma anche democratico, egualitario, alla portata di ogni individuo, sostanzialmente umano ed estraneo a qualunque uso "oppiaceo" della religione o dei suoi surrogati. Non solo ma egli neppure si avvede che esiste una sostanziale differenza tra le comunità primitive e quelle che si sono realizzate nel modo di produzione asiatico. Cioè che quest'ultime rappresentano già un'evoluzione individualistica dell'antica comunità tribale (seppure l'individualismo sia una prerogativa esclusiva dei capi della comunità). Marx infatti da un lato ha capito che nelle "forme principali asiatiche, l'unità complessiva, che sta al di sopra di tutte queste piccole comunità appaia come il proprietario supremo, o l'unico proprietario, sicché le comunità effettive appaiono solo come possessori ereditari"(p.71); cioè ha capito che in quelle formen esisteva una netta divisione tra il "despota" più o meno divinizzato (a capo della comunità) e le molte comunità particolari. Ma dall'altro lato egli non ha capito che questa forma di socializzazione del lavoro, della proprietà, dei mezzi produttivi ecc., in realtà altro non era che un comunismo imposto con la forza, ben diverso dal libero collettivismo delle comunità tribali. Marx non ha colto la differenza perché l'ha esaminata solo dal punto di vista economico. Qui in effetti le differenze sono minime: nella comunità tribale il prodotto eccedente apparteneva a tutti, in quelle asiatiche invece appartiene al desposta, solo il quale può disporre di una proprietà privata. Praticamente la comunità asiatica è un'evoluzione di quella tribale entrata in crisi, come quella feudale è un'evoluzione della comunità asiatica, divenuta incapace di risolvere le proprie contraddizioni antagonistiche: dalla comunità asiatica al servaggio il passo è relativamente breve. Significativo però resta il fatto che Marx, molto più della prassi dell'autoconsumo presente in tutte le comunità basate sul valore d'uso, si sia interessato di mettere a confronto queste comunità autosufficienti (da lui giudicate limitate) con quelle che avevano come punto di riferimento non la campagna ma la città.

 
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