Proudhon non faceva altro che ereditare quelle concezioni borghesi
inserendole in un quadro piccolo-borghese, cioè nel quadro di una
trasformazione pacifica e graduale del capitalismo verso il socialismo, il
quale conserverebbe, di quello, solo i lati positivi. La piccola
borghesia -disse Marx ad Annenkov- "è abbagliata dalla magnificenza della
grande borghesia e simpatizza con le miserie del popolo". Proudhon ad es.
sosteneva che lo scambio di merce senza denaro e il credito a basso
interesse o gratuito fosse sufficiente, pur senza intaccare la proprietà
privata, a eliminare lo sfruttamento e le crisi del capitalismo.
Viceversa, Marx si preoccupò di evidenziare che nella storia tutte le forme
produttive e i relativi rapporti sociali, incluse le riflessioni
ideologiche, sono soggetti a mutamenti sostanziali appena le forze
produttive si scontrano con relazioni sociali inadeguate. Là dove esiste
l'antagonismo di classe non ci può essere evoluzione sociale (come vorrebbe
Proudhon) senza rivoluzione politica. E' -come si può vedere- una tesi
dell'Ideologia tedesca, ma questa volta Marx l'applica concretamente alla
storia economica e all'economia politica, e in maniera così incisiva che -a
detta dello stesso Marx- il Capitale sarà appunto il tentativo di
approfondire in maniera sistematica le tesi di Miseria della filosofia.
Nel '47, dopo che la Lega dei Giusti di Londra aveva rotto col "Vero
socialismo" e con gli utopisti, Marx ed Engels decisero di entrare nelle
file dell'associazione. Dalla collaborazione coi comunisti tedeschi di
Londra nacque il Manifesto del partito comunista. Si tenne infatti a Londra
il Congresso della Lega: Marx, a causa di difficoltà materiali, non poté
parteciparvi, ma era presente Engels, quale delegato del gruppo parigino.
Il Congresso rinunciò alla tattica cospirativa e organizzò la Lega in
comunità, circoli, organi centrali e congresso. Da allora si chiamò Lega dei
comunisti. Essa rinunciò al precedente motto, troppo astratto: "Tutti gli
uomini sono fratelli", per adottare quello più rivoluzionario: "Proletari di
tutti i paesi, unitevi!". Furono eliminati il rituale misticheggiante
dell'ammissione dei membri, l'eccessiva centralizzazione e la concentrazione
dei poteri nelle mani dei dirigenti. Il Congresso adottò l'Abbozzo di
professione di fede comunista, steso da Engels in forma catechistica, con
domande e risposte, com'era d'uso allora tra gli operai. Tale Abbozzo doveva
essere inviato alle comunità di base per eventuali rettifiche o aggiunte,
dopo di che il progetto sarebbe stato sottoposto all'approvazione del
secondo congresso della Lega.
Subito dopo il primo congresso, Engels, insoddisfatto dell'Abbozzo, redasse
in forma catechistica alcune tesi note come I principi del comunismo. Alla
fine del '47 le spedì a Marx chiedendogli di rivederle in modo
storico-politico intitolandole con la parola Manifesto. I principi di Engels
sono molto importanti, in quanto ad es. egli non esclude che la rivoluzione
possa avvenire in maniera pacifica, anche se afferma che tale eventualità
dipenderà da come reagirà la borghesia all'espropriazione della proprietà
privata, la quale peraltro non potrà essere abolita di colpo con la
rivoluzione. Inoltre egli sostiene che ai fini della rivoluzione le congiure
(i colpi di stato) non servono, poiché le rivoluzioni non si possono fare
quando mancano i presupposti reali, oggettivi. Una volta conquistato il
potere, il proletariato non dovrà abolire immediatamente lo Stato, ma
instaurare una costituzione statale democratica, ove sia affermato il
predominio politico del proletariato. La rivoluzione comunista, infine, può
essere solo internazionale, cioè deve avvenire simultaneamente almeno in
Inghilterra, America, Francia e Germania. Essa poi eserciterà un influsso
sugli altri paesi, accelerando il corso del loro sviluppo.
Intanto Marx a Bruxelles organizza nel '47 una sezione della Lega comunista
e crea un comitato direttivo. Viene anche fondata una Società operaia
tedesca sul modello di un'associazione culturale operante a Londra dal 1840.
Alla fine del '47 Marx tiene in questa Società una serie di lezioni di
economia politica, che nel '49 saranno pubblicate nella "Nuova rivista
renana", col titolo Lavoro salariato e capitale. La tesi fondamentale è che
salario e profitto si trovano tra loro in rapporto inverso: infatti, sebbene
a causa della crescita delle forze produttive e della produttività del
lavoro, il salario possa a volte aumentare, nel complesso i profitti dei
capitalisti crescono con una velocità assai maggiore. Vi è dunque una
contraddizione antagonistica, inconciliabile fra le due classi fondamentali
della società borghese.
Sentendo avvicinarsi un clima di maturazione rivoluzionaria (per il
rovesciamento dei regimi monarchici assoluti, l'eliminazione della proprietà
feudale della terra, la liberazione dai gioghi stranieri, la fondazione di
singoli Stati nazionali), Marx ed Engels, non disponendo di mezzi per creare
un efficace organo di stampa, stabiliscono legami con la
Deutsche-Brüsseler-Zeitung, che usciva dal '47. Marx e altri comunisti
cominciarono a collaborare scrivendo articoli contro il governo prussiano.
Dopo pochi mesi, seppure non ufficialmente, il giornale era diventato
l'organo della Lega dei comunisti. Marx ed Engels erano convinti che la
borghesia tedesca non sarebbe riuscita da sola a compiere una rivoluzione
democratica, per cui ritenevano indispensabile l'alleanza del proletariato
(operai e contadini) colla piccola-borghesia. Per la Germania essi
prevedevano una rivoluzione non socialista ma democratico-borghese, nella
prospettiva però di una più ampia rivoluzione permanente, a capo della quale
avrebbe dovuto porsi il proletariato.
Al secondo congresso della Lega vennero sostanzialmente accolti tutti i
Principi elaborati da Engels e rifiutato il progetto di Professione di fede
stilato da Hess. Il congresso incaricò Marx ed Engels di redigere il
Manifesto. A Londra essi parteciparono ad un incontro internazionale
organizzato dalla Fraternal Democrats, in occasione dell'anniversario
dell'insurrezione polacca del '30. Qui affermarono che la vittoria del
proletariato sulla borghesia è in pari tempo la vittoria sui conflitti
nazionali, in quanto una nazione non può diventare libera e continuare ad
opprimere altre nazioni.
Il Manifesto del partito comunista (1848) è il primo documento programmatico
del comunismo scientifico. In esso è delineata una teoria della lotta di
classe quale forza motrice dello sviluppo delle società basate
sull'antagonismo di classe. Il primo capitalo esordisce con la frase: "La
storia di ogni società sinora esistita è storia di lotta di classe"
(nell'edizione inglese del 1888 Engels aggiungerà che tale principio vale
per la "storia scritta", cioè non per la storia della comunità primitiva).
Questa lotta è sempre finita o con una trasformazione rivoluzionaria di
tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta. L'epoca della
borghesia si distingue dalle precedenti per aver semplificato i contrasti
fra le classi, che in pratica sarebbero due: borghesia e proletariato.
La società capitalista viene analizzata nella sua genesi e nel suo sviluppo,
a grandi linee, come risultato della necessaria dissoluzione della società
feudale: in tal senso si riconosce alla borghesia un ruolo progressista
(essa ad es. ha internazionalizzato la produzione e il consumo, ha superato
i limiti nazionali e l'autosufficienza, ha rivoluzionato di continuo gli
strumenti della produzione...). Tuttavia, una volta preso il potere, la
borghesia s'è trasformata in classe conservatrice. Essa, pur avendo
concentrato nelle sue fabbriche milioni di operai, dando alla produzione un
carattere sociale, non vuole socializzare né la proprietà né i profitti
della produzione (anzi ha "abolito" la proprietà privata per la maggioranza
assoluta dei cittadini). La mancata abolizione della proprietà privata
borghese impedisce una regolamentazione dell'economia e quindi il
perpetuarsi di un'anarchia produttiva, basata su una esasperata
concorrenzialità intercapitalistica. Di qui le periodiche crisi. Il
proletariato è la classe più rivoluzionaria perché è la più sfruttata. Esso
è l'unica classe della storia che, liberando se stessa, libera tutta la
società e tutta l'umanità da qualunque sfruttamento.
Nel secondo capitolo, Marx ed Engels esprimono la necessità di affermare un
partito politico proletario che faccia valere gli interessi comuni
dell'intero proletariato mondiale, indipendentemente dalle nazionalità. Non
quindi un partito politico specifico, cioè non un organismo disciplinato, ma
una corrente di idee e di interessi da far valere nella vita politica. E' il
proletariato come classe che deve fare la rivoluzione (nella versione
dell'88 Engels sostituirà però le parole "classe nazionale" con "classe
dirigente della nazione"). Il proletariato deve arrivare al potere politico,
socializzare la produzione (così il libero sviluppo di ciascuno è condizione
per il libero sviluppo di tutti): il che non vuol dire eliminare la piccola
proprietà (quella ottenuta col proprio lavoro), ma solo quella che permette
di sfruttare il lavoro altrui. Una volta abolite le classi, il potere
pubblico perderà il carattere politico e lo Stato sarà superato.
Nel terzo capitolo gli autori criticano le varie concezioni socialiste del
tempo: il socialismo reazionario che vuole tornare a forme preborghesi di
economia; il socialismo conservatore o borghese (rappresentato da Proudhon)
che vuole la razionalizzazione dei rapporti di produzione borghesi mediante
miglioramenti amministrativi; il socialismo e comunismo critico-utopistici
di Saint-Simon, Fourier, Owen... che, pur avendo svolto un ruolo positivo,
ora non sa riconoscere al proletariato nessuna funzione storica autonoma.
Nel quarto capitolo si precisano i rapporti dei comunisti coi vari partiti
di opposizione. I comunisti appoggiano ogni movimento progressista contro il
feudalesimo e lo sfruttamento borghese, e lavorano all'intesa dei partiti
democratici di tutti i paesi.
Sulla scia della sommossa repubblicana parigina del febbraio '48, scoppiano
dei moti rivoluzionari dalla Germania all'Austria, dall'Ungheria all'Italia.
Per aiutare l'armamento degli operai francesi, Marx non mancò di destinare
una parte notevole dell'eredità paterna appena ricevuta. La sua partenza dal
Belgio fu accelerata dal governo belga che, spaventato dalla crescita del
movimento repubblicano, si diede alla repressione dei democratici. Anche
Marx fu costretto a lasciare il Belgio. Il Comitato direttivo di Bruxelles
prese la decisione di trasferire la sede del C.C. a Parigi. Prima che ciò
avvenisse Marx e la moglie vennero arrestati per violazione della scadenza
dei termini di espatrio. Solo in virtù delle numerose proteste contro
l'azione di polizia, i due coniugi furono liberati, anche se dovettero
lasciare immediatamente Bruxelles senza prendere con loro nemmeno lo stretto
necessario. Marx formò a Parigi un nuovo C.C. Intanto a Parigi la Società
democratica tedesca aveva iniziato a formare una legione militare tedesca
allo scopo di suscitare in Germania una rivoluzione dall'esterno. Marx ed
Engels vi si opposero e attraverso un club di operai tedeschi da loro
istituito intervennero contro l'avventuristica idea della esportazione della
rivoluzione, cercando di convincere gli operai a tornare in patria
singolarmente.
Come piattaforma politica dei comunisti tedeschi, Marx ed Engels elaborarono
Rivendicazioni del partito comunista di Germania, ove si chiedeva: 1) la
formazione di una Germania repubblicana, unica e indivisibile, 2) il diritto
elettorale generale per tutti i maschi che avessero compiuto i 21 anni, 3)
la retribuzione dei deputati eletti in parlamento, 4) l'armamento generale
del popolo, 5) la gratuità dei procedimenti giudiziari, 6) la separazione di
Stato e chiesa, 7) l'istruzione generale e gratuita del popolo, ecc.
Sul piano economico si chiedeva: 1) la fine della proprietà privata
fondiaria (base economica del dominio politico della nobiltà), 2)
l'annullamento senza indennizzo di tutti i vincoli feudali contadini, 3) il
passaggio nelle mani dello Stato di tutte le terre feudali, miniere, cave,
ecc., 4) la centralizzazione di tutte le banche in un'unica banca di stato,
5) la nazionalizzazione di ferrovie, trasporti marittimi, poste, 6)
l'istituzione di opifici statali, 7) l'assicurazione statale del lavoro per
tutti gli operai, l'assistenza per gli inabili al lavoro, ecc.
Queste e altre Rivendicazioni, messe per iscritto, vennero consegnate,
insieme al Manifesto, a tutti i membri della Lega dei comunisti (circa 400)
in partenza per la Germania. Nell'aprile del '48 anche Marx ed Engels
lasciarono Parigi per recarsi a Mainz in Germania, al fine di riunificare in
un unico centro tutte le società operaie tedesche. Il tentativo però fallì a
causa del frazionamento della nazione, del carattere locale e
prevalentemente economico delle rivendicazioni operaie, dell'immaturità
politica del proletariato (in maggioranza artigiano). Allora Marx ed Engels
decisero di creare un quotidiano a Colonia, che era la città più
industrializzata della Renania, ove si era ancora conservato il codice
legislativo francese.
La Lega, che spediva emissari e propagandisti per tutto il paese, incontrava
grandi difficoltà a organizzare gli operai, sia per la dura campagna
anticomunista lanciata dalla reazione feudale alleata colla borghesia
liberale, terrorizzata dalle insurrezioni operaie francesi, sia per
l'impreparazione politica degli operai. Queste difficoltà generarono dei
contrasti in seno alla Lega: una corrente illudeva gli operai che una lotta
diretta per gli scopi del socialismo fosse possibile farla "legalmente";
un'altra accentuava l'attenzione degli operai sui bisogni materiali
quotidiani, distogliendoli dalla lotta politica vera e propria. Marx si
oppose a queste due tattiche, ma sperava che gli operai si sarebbero accorti
da soli della loro erroneità.
Tuttavia la Lega restava in Germania un mezzo troppo debole per organizzare
gli operai (scarsa consistenza numerica e insufficiente organizzazione). Per
ovviare a tale limite si favorì l'ingresso dei comunisti nelle Società
democratiche della piccola-borghesia. Fu a questo punto che il giornale di
Colonia prese il nome di "Nuova Gazzetta Renana", il cui direttore era
diventato Marx. Il giornale combatté anzitutto l'illusione diffusa tra le
masse che con le lotte del marzo '48, a risultato delle quali era giunta al
potere la borghesia liberale, la rivoluzione tedesca fosse ormai compiuta.
In realtà la borghesia al potere aveva scelto subito la via della
conciliazione col potere monarchico, nell'elaborare una Costituzione,
temendo che il proletariato francese potesse influenzare quello tedesco. A
questa forma di vergognoso compromesso Marx opponeva una sovranità popolare
ottenuta con la lotta armata. Soprattutto era evidente il tradimento della
politica borghese nei confronti dei contadini: essa non aveva avuto il
coraggio di attentare alla proprietà feudale, temendo di perdere anche la
propria. Non solo, ma la borghesia tedesca aveva continuato la politica di
oppressione della Prussia e dell'Austria nei confronti di polacchi,
ungheresi, cechi, italiani e altri popoli.
Marx ed Engels criticarono anche l'operato delle Assemblee nazionali
parlamentari di Berlino e di Francoforte, che cercavano non appoggi popolari
ma accordi di vertice con la monarchia e i ceti feudali. Engels sottolineò,
vedendo che la sinistra parlamentare non aveva una posizione definita, che
nei momenti cruciali della rivoluzione è più efficace un'azione
extraparlamentare.
Nel giugno del '48, 40.000 operai parigini insorsero, male armati, contro le
truppe, ben più numerose, del governo. Fu una tragedia. La
controrivoluzione, anche in Germania, soprattutto in Renania. ne approfittò
passando al contrattacco. Cominciarono ad essere arrestati alcuni capi della
Lega di Colonia, a Marx non si concesse il diritto di cittadinanza. Egli
tuttavia si recò lo stesso a Berlino e a Vienna per rafforzare i legami con
le organizzazioni operaie e democratiche delle due capitali più importanti,
ed anche per ottenere finanziamenti per il giornale.
Quando tornò a Colonia, nel settembre '48, la situazione era diventata più
critica: l'Asssemblea nazionale aveva preso posizione contro l'atteggiamento
reazionario degli alti ufficiali, mentre il governo prussiano, nella guerra
contro la Danimarca, aveva deciso di stipulare un armistizio impedendo alla
popolazione tedesca dello Schleswig-Holstein di ricongiungersi alla
Germania. A causa di ciò vi fu un'insurrezione isolata a Francoforte, subito
repressa dalle forze dell'ordine. Le autorità cominciarono a intraprendere
una dura campagna contro il movimento operaio e democratico di Colonia.
Engels e altri comunisti furono espulsi dalla Germania. Dopo essere stato
espulso anche dal Belgio, Engels si recò a Parigi, ma il fallimento
dell'insurrezione di giugno gli procurava un effetto deprimente. Decise
allora di recarsi in Svizzera, a Berna e da qui cominciò a spedire articoli
a Marx, criticando il provincialismo della borghesia svizzera, che voleva
prendere come modello i piccoli-borghesi tedeschi.
Intanto a Vienna nell'ottobre '48 era scoppiata l'insurrezione, perché la
popolazione si era rifiutata di appoggiare la repressione della rivolta
ungherese. Ma anche qui l'insurrezione fallì. Ciò fu il preludio della
definitiva restaurazione del re Federico Guglielmo IV, il quale era
intenzionato a sciogliere l'Assemblea nazionale. Marx si appellò ai deputati
perché ordinassero l'arresto dei ministri filo-monarchici, e dichiarassero
fuorilegge i funzionari che non si uniformavano ai deliberati
dell'Assemblea, e lanciò l'invito al popolo a non pagare le tasse e ad
armarsi. L'Assemblea però aderì solo alla proposta di non pagare le tasse,
limitandosi per il resto a un'opposizione nei limiti della legalità,
rifiutando soprattutto l'idea di una lotta armata. Essa inoltre non seppe
centralizzare il movimento democratico indirizzandolo verso un obiettivo
comune. E così nel dicembre '48 venne sciolta dal re con un colpo di stato.
Nello stesso mese Marx stilò un primo bilancio del fallimento della
rivoluzione tedesca, addebitandone la causa principalmente alla politica
traditrice della borghesia, spaventata com'era dai possibili esiti
socialisti della rivoluzione; in secondo luogo Marx metteva in evidenza le
illusione dello stesso movimento rivoluzionario, che sulla base della
"fratellanza universale" sperava di condurre una rivoluzione indolore.
Dopo il colpo di stato in Prussia si rafforzarono le persecuzioni. Agli
inizi del '49, Engels, rientrato a Colonia, dovette presentarsi, insieme a
Marx, davanti ai giudici, per sostenere alcuni processi giudiziari, che però
si risolsero in un'assoluzione. Intanto la popolarità dei due comunisti e
del loro giornale era cresciuta enormemente, al punto che si pensò di
preparare gradualmente gli operai ad una progressiva separazione dalla
democrazia piccolo-borghese, per fondare un partito proletario di massa.
Sulle caratteristiche di questo partito sorsero subito dei contrasti, poiché
Marx era convinto che in Germania sussistessero ancora le condizioni per
un'attività legale, non clandestina, dei comunisti. La sua linea ebbe la
meglio, e così i comunisti uscirono dalle Società democratico-borghesi per
fondare un partito più omogeneo.
Intanto continuava la lotta di liberazione nazionale del popolo ungherese
contro la monarchia asburgica. Marx ed Engels (quest'ultimo si stava sempre
interessando di questioni militari) speravano che questa guerra servisse da
punto di partenza per una nuova ondata rivoluzionaria in Francia, Germania e
Italia. Ma l'Italia contro l'Austria non aveva conseguito fino a quel
momento alcun successo significativo e la Germania già complottava con la
Russia per frenare la rivolta ungherese. All'interno, il governo prussiano
rifiutò di riconoscere la Costituzione pangermanica elaborata dall'Assemblea
di Francoforte, represse delle rivolte isolate in Renania e in altre
regioni, emanò un ordine di espulsione di Marx e intentò un altro
procedimento giudiziario a carico di Engels e altri comunisti. La Nuova
gazzetta renana venne chiusa nel maggio '49. Marx ed Engels si recarono a
Francoforte per esortare i deputati di sinistra a chiamare il popolo a
prendere le armi in difesa dell'Assemblea, e chiesero di dichiarare
fuorilegge tutte le monarchie tedesche, attirando dalla loro parte i
contadini con l'annullamento senza indennizzo dei vincoli feudali. Ma i
leaders di sinistra rimasero sordi a questi consigli.
Visti vanificati tutti i loro tentativi, Marx ed Engels, dopo essere stati
di nuovo arrestati e rilasciati, decisero di separarsi: il primo recandosi a
Parigi, il secondo arruolandosi come aiutante nel reparto volontario di
Willich, che copriva la ritirata dell'esercito del Baden-Palatinato. Nel
luglio '49 anche Engels abbandonò il territorio tedesco varcando la
frontiera svizzera.
A Parigi le operazioni militari intraprese dal presidente Luigi Bonaparte
contro la rivoluzionaria repubblica romana avevano provocato grande
scontento popolare. Si costituì così un comitato socialista clandestino che
propagandava l'insurrezione, pronto, in caso di vittoria, a proclamare la
Comune. Tuttavia il partito piccolo- borghese della Montagna rifiutò la
proposta e decise di organizzare una dimostrazione pacifica, che fu poi
dispersa dalle truppe governative, cui seguirono repressioni di massa.
Nell'agosto del '49 Marx decise di trasferirsi a Londra scrivendo a Engels
di raggiungerlo.
IL GIOVANE MARX
Già emigrato a Parigi (e forse proprio a causa del suo interesse per il
socialismo francese), Marx aveva chiarissima l'idea -a differenza di Bauer e
degli altri giovani hegeliani di sinistra- che tutta l'emancipazione
politica affermata dalla rivoluzione francese (culminata nella Dichiarazione
dei diritti dell'uomo) non aveva minimamente toccato il problema
dell'emancipazione sociale dei lavoratori e dei cittadini in genere.
Tuttavia il socialismo utopistico anglo-francese era arrivato alla medesima
conclusione molto prima di lui. L'arretratezza della filosofia tedesca,
nonostante l'acume di Hegel, Marx, Engels ecc., era appunto da attribuirsi
alla scarsa consapevolezza politico-democratica dei prussiani in generale, i
quali erano convinti d'aver dato il massimo contributo alla storia
dell'emancipazione umana con la riforma protestante prima e con la filosofia
idealistica dopo.
Oggi infatti dovremmo studiare molto di più le realizzazioni
teorico-pratiche del socialismo utopistico europeo, che non le astrattezze
della filosofia cattolica, aristocratica e borghese, poiché, senza di esso,
non sarebbe potuto nascere il socialismo scientifico di Marx ed Engels.
SIngolare inoltre resta il fatto che mentre Marx discuteva con Bauer della
"questione ebraica", Engels aveva già capito che i problemi principali della
società moderna erano quelli di natura economica, elaborando per primo i
Lineamenti di una critica dell'economia politica.
Ancora più singolare è il fatto che Marx, dopo aver polemizzato a
sufficienza con Bauer, dopo aver capito, attraverso Hess e soprattutto
Engels, che il problema principale era quello economico, si sia messo a
polemizzare nuovamente, e in maniera pedissequa, con Bauer e gli altri
esponenti della Sinistra hegeliana nel volume, mai pubblicato, della Sacra
famiglia, cui Engels collaborò certo malvolentieri.
A Marx era mancata, in sostanza, la capacità di coinvolgersi personalmente
col movimento socialista francese. Se l'avesse fatto non solo avrebbe saputo
approfondire immediatamente le idee di Engels (cosa che poi farà nei
Manoscritti del '44 e soprattutto in Miseria della filosofia), ma avrebbe
anche cominciato ad affrontare sul piano pratico una disciplina ancora più
importante dell'economia, e cioè la politica.
Il giovane Marx era ancora convinto che per contribuire al mutamento
generale della società borghese (e, come quella prussiana, tardo-feudale),
fosse sufficiente criticare in maniera radicale (alla stregua di Bakunin)
tutto l'esistente, a partire -appunto come lui fece- dalla filosofia
hegeliana del diritto. In tal senso, la differenza dalla posizione di Bauer
consisteva unicamente nel fatto che la critica di quest'ultimo non era
sufficientemente radicale (si trattava ancora di uno scontro tra filosofie
opposte), in quanto ferma al rapporto ateismo-religione.
Negli anni 1842-43, in qualità di redattore della Rheinische Zeitung, egli
aveva cominciato a interessarsi dei problemi economici della Prussia,
proprio partendo dalla situazione dei contadini della Mosella, situazione
per la quale egli aveva già capito che la proprietà privata era il risultato
d'una appropriazione privata, monopolizzatrice, d'un bene comune.
Tuttavia, in quegli anni Marx non nutriva particolare interesse per le idee
"comunistiche" degli ambienti contadini e artigiani. Il suo stesso
proto-socialismo si rivolgeva alla borghesia illuminata e agli intellettuali
progressisti della Prussia, anche quando in Per la critica della filosofia
del diritto di Hegel citerà per la prima volta il nome del proletariato
industriale. Sarà solo nel Manifesto che si rivolgerà esplicitamente al
proletariato industriale, rinunciando nel contempo a qualunque
identificazione geografica.
La polemica col movimento comunista di Weitling fu sempre molto forte. Nel
Manifesto parlerà addirittura di "idiotismo della vita rurale" (Engels,
riferendosi alle lotte di classe del '48, in riferimento ai contadini cechi,
slovacchi, croati, ruteni... parlerà di "popoli senza storia").
Il meglio di sé, sul piano politico, il giovane Marx lo diede fino al 1848,
con la stesura del Manifesto (che pur nell'ultima parte, quella dove avrebbe
dovuto esserci una sorta di "Che fare?" leniniano, lasciava alquanto a
desiderare). Già coi saggi storici del 1850-52, scritti a Londra, si può
notare una certa tendenza involutiva.
Con la sua prima grande opera economica, Per la critica dell'economia
politica, del 1859, il determinismo economicistico ed evolutivo prende piede
definitivamente, almeno fino a quando Marx, venendo a contatto coi populisti
russi (se si esclude la parentesi dei comunardi parigini) non comincia ad
avere dei ripensamenti. La rivoluzione socialista -questa fu la conclusione,
che verrà poi ripresa da Lenin- forse poteva avvenire anche in un paese
sostanzialmente feudale, facendo leva su quanto di meglio avesse espresso il
Medioevo russo: la comune agricola.
Ma ormai era troppo tardi, ed Engels, dal canto suo, mostrerà ancora più
perplessità di Marx sui progetti dei populisti.
Persino il giovane Lenin cadrà nell'errore di concedere il primato
all'industrializzazione capitalistica e alla volontà politica rivoluzionaria
del proletariato industriale. Nella sua polemica coi populisti egli
anteporrà, alle questioni tattiche e strategiche, una astratta filosofia
marxista!
Insomma il giovane Marx aveva delle idee così estreme sull'inutilità
dell'attività politico-parlamentare (tradizionale) ai fini della rivoluzione
sociale, ovvero sulla vacuità di uno Stato politico borghese che si pretende
"democratico" o "di diritto", che meraviglia alquanto il fatto ch'egli non
abbia dedicato tutta la sua vita -come appunto fece Lenin- a costruire
praticamente una politica rivoluzionaria alternativa.
Probabilmente egli rimase vittima dello stesso individualismo borghese che
pur egli tanto aveva criticato. Forse anzi egli s'illuse di poter superare i
limiti di tale individualismo sottoponendolo a una critica radicale, che
investisse anche i campi dell'economia, della società civile ecc., fino ad
allora considerate "indegni" di una riflessione filosofica vera e propria.
FRIEDRICH ENGELS
Era nato a Barmen, in Renania, nel 1820. Suo padre, un industriale tessile,
non gli fece neppure terminare il ginnasio per poterlo mandare a lavorare
dapprima nel suo ufficio commerciale, in seguito (nel '37) a Brema per fare
un tirocinio economico presso un console che gestiva un'importante ditta di
esportazioni. Non si iscrisse quindi all'università e venne educato in un
clima rigidamente pietistico.
A Brema si lega al movimento letterario della Giovane Germania, che subiva
l'influsso di Heine e Börne, nonché dei giovani hegeliani con le loro
discussioni sulla religione. Nel '39, sul Telegrafo per la Germania,
pubblica un articolo dal titolo Lettere dal Wuppertal, in cui descrive le
condizioni di vita miserevoli, la diffusione del misticismo e dell'alcolismo
nel suo ambiente natìo, elencando i dati sulle malattie professionali dei
tessitori, sul lavoro dei fanciulli, sull'ipocrisia pietistica degli
imprenditori, che impiegano i bambini più piccoli dando loro i salari più
bassi. Ciò che soprattutto lo infastidisce è l'oscurantismo dei pietisti e
dei mistici, che impediscono la lettura dei romanzi, la frequenza ai
concerti, lo studio della scienza e della filosofia, l'applicazione alle
arti, le simpatie per l'illuminismo...
A detta di Engels, fu proprio il direttore del Telegraph, Gutzkov, a
imprimere un carattere politico, di impegno sociale, al movimento della
Giovane Germania, sulla base delle idee liberali giusnaturalistiche e
costituzionali, della partecipazione popolare all'amministrazione dello
Stato, dell'emancipazione degli ebrei e, più in generale, della libertà di
coscienza e di religione. Nel '39, leggendo Strauss, Engels comincia a
dubitare della fede religiosa, rinunciando anche alle posizioni mistiche di
Schleiermacher. Grazie a Strauss pensa di cominciare a studiare la filosofia
hegeliana.
Agli inizi del '41 scrive un importante articolo sul Telegraph, parlando di
un certo E. Arndt, un antico oppositore di Napoleone, costretto dapprima a
fuggire dalla Germania, per poi rientrarvi al momento della guerra di
liberazione. Engels aveva considerato positivo non solo il fatto d'essersi
liberati, in quanto tedeschi, dal giogo straniero, ma anche il fatto che il
popolo si fosse ribellato senza aspettare il permesso dei sovrani, anzi
costringendo quest'ultimi a capeggiare l'insurrezione. Il miglior risultato
di quegli anni -scrive Engels- fu che, dopo la guerra, gli uomini che
avevano assunto un atteggiamento più consapevole e risoluto, parvero
alquanto pericolosi ai governanti prussiani. Engels evidenzia anche che
Napoleone aveva realizzato cose significative, come l'emancipazione degli
ebrei, l'istituzione delle giurie, l'introduzione del Codice civile, ecc.,
per cui il monarchismo indifferenziato di Arndt, secondo cui è sufficiente
che tra principi e sudditi vi sia un reciproco impegno per il benessere del
paese, appare ad Engels molto equivoco, in quanto tale impegno, perché
diventi giusto, deve essere regolato dal diritto e non dalle buone
intenzioni o dalle manifestazioni di moralità (ovviamente Engels non si
riferiva alla scuola storica tedesca del diritto, per cui il sovrano,
qualunque cosa facesse, restava inamovibile).
Alla fine del '41 Engels si reca a Berlino per prestare servizio militare.
Nel tempo libero frequenta come uditore i corsi universitari e si avvicina
al circolo dei giovani hegeliani. Pur rimproverando ad Hegel di non aver
capito la rivoluzione parigina del 1830, si entusiasma per i suoi principi
filosofici (soprattutto per la dialettica), ma ne rifiuta le conclusioni
illiberali. Accetta la filosofia baueriana dell'autocoscienza. Scrive un
articolo e due opuscoli contro Schelling. Per Engels, come per i giovani
hegeliani, Hegel aveva concluso il ciclo filosofico iniziato con Cartesio:
ora il problema era diventato quello di innalzare tutta la Germania alle
migliori conquiste dell'hegelismo. In tal senso la posizione di Schelling,
che cercava d'introdurre la fede, il misticismo, la mitologia e la fantasia
gnostica nella filosofia, andava -secondo Engels- decisamente condannata,
per evitare di riportare la filosofia ai livelli pre-hegeliani. Se il mondo
non è razionale, è il mondo che va cambiato, non la filosofia. Schelling,
secondo Engels, non ha avuto il coraggio di dirlo, portando così avanti
un'opposizione persa in partenza. Per Engels è attraverso la filosofia
dell'autocoscienza che il mondo può essere cambiato. E' con questo spirito
che dal '42 comincia a collaborare alla Gazzetta renana.
Sempre nello stesso anno scrive un saggio su Federico Gugliemo IV, re di
Prussia, pubblicato nel volume miscellaneo di Herwegh, Ventun fogli dalla
Svizzera, che uscì nel '43, con contributi di Bauer, Strauss, Hess e altri.
Engels sottolinea che l'opinione pubblica è interessata soprattutto a due
cose: la costituzione parlamentare e la libertà di stampa (ottenuta la
seconda sarà facile ottenere la prima. Ottenute entrambe sarà facile rompere
l'alleanza con la Russia).
Il '42 fu importante per Engels per altre due ragioni: la prima perché
conobbe di persona Hess alla redazione della Gazzetta renana di Colonia,
maturando, dopo quell'incontro, delle precise convinzioni comuniste; la
seconda perché si trasferì in Inghilterra per lavorare nella filanda di
Manchester di comproprietà del padre. Durante il viaggio deviò di nuovo per
Colonia, dove s'incontrò per la prima con Marx; ma, dato che Engels, durante
il suo soggiorno berlinese, era stato legato al gruppo dei "Liberi", coi
quali Marx aveva avuto serie divergenze, l'incontro ebbe carattere alquanto
distaccato.
La vita in Inghilterra diede moltissimo a Engels. Egli prese a studiare con
grande interesse la situazione degli operai, frequentando le riunioni dei
cartisti, stringendo legami con i leaders dell'ala sinistra del loro
movimento, come pure con esponenti socialisti seguaci di R. Owen, e
collaborando alla loro stampa. Conobbe inoltre i capi della sezione
londinese della Lega dei Giusti.
Studiando la struttura economica e statale dell'Inghilterra, Engels arrivò
alla conclusione che alla base delle lotte politiche vi fossero degli
interessi materiali. Egli scoprì il carattere di classe sia dei partiti
politici che dello Stato inglese, e individuò nel proletariato cosciente la
forza più progressista.
Nell'estate del '42 i cartisti avevano organizzato un grande sciopero, ma il
governo, reagendo con durezza, lo fece fallire. Questo e altri episodi
fecero maturare ad Engels la convinzione che in quella situazione una
rivoluzione pacifica era impossibile. Se a tale conclusione gli inglesi non
erano ancora arrivati, dipendeva dal fatto che consideravano lo Stato e la
legge al di sopra delle parti, ma Engels prevedeva che una generale
disoccupazione del proletariato, e quindi il timore di dover morire di fame,
avrebbe sicuramente portato a una rivoluzione sociale, non semplicemente
politica, dettata cioè da interessi concreti, materiali, non da principi
astratti, teorici, cui gli inglesi per tradizione erano refrattari. La lotta
della democrazia contro l'aristocrazia in Inghilterra era già una lotta dei
"poveri" contro i "ricchi", per cui -dice Engels- era impossibile
un'alleanza politica della borghesia col proletariato. Come si può vedere,
anche Engels, come Marx, vedeva nella rivoluzione politica un momento poco
significativo rispetto alla rivoluzione sociale. Entrambi cioè erano
convinti che il proletariato, messo di fronte a situazioni di estrema
indigenza, avrebbe trovato da solo, in se stesso, spontaneamente, la forza
per ribellarsi, senza bisogno d'essere guidato da un partito specifico.
Nei Lineamenti di una critica dell'economia politica, un lungo saggio
apparso nel numero unico degli Annali franco-tedeschi, Engels gettava le
basi di una critica scientifica dell'economia politica borghese e quindi del
capitalismo. Marx ne restò fortemente impressionato. In effetti, Engels
rilevò che la prassi della libera concorrenza teorizzata da Smith, Mill,
Malthus, Ricardo e Say, era penetrata in tutti gli aspetti della vita
inglese portando a perfezione la reciproca schiavitù degli uomini: ovvero,
lotta dei capitalisti fra loro per accaparrarsi il mercato, salario dei
lavoratori ridotto al minimo, conflitto dei lavoratori tra loro, crisi
economiche di sovrapproduzione, rovina assoluta di chi dispone di pochi
capitali, di piccoli possessi fondiari, di scarsa professionalità,
concentrazione della proprietà e formazione dei monopoli, ecc. Tutte le
contraddizioni -dice Engels- nascono dalla separazione originaria del
capitale dal lavoro, cioè dalla scissione dell'umanità in capitalisti e
lavoratori. Queste contraddizioni potrebbero essere risolte eliminando la
proprietà privata e organizzando razionalmente la produzione, in modo che i
produttori conoscano esattamente i bisogni dei consumatori.
Oltre a questo importante saggio, Engels ne aveva spedito un altro
dall'Inghilterra per gli Annali franco-tedeschi: La situazione
dell'Inghilterra, che conteneva parecchie notazioni sociologiche sulla
rivoluzione industriale. Egli inoltre evidenziava il fatto che i socialisti
inglesi conoscevano, dello sviluppo filosofico euroccidentale, solo il
materialismo francese, ignorando completamente la filosofia tedesca.
Praticamente Engels, in Inghilterra, era giunto alle stesse conclusioni di
Marx in Francia. Lui stesso ricorderà che quando, ritornando nell'estate del
'44 in Germania, fece visita a Marx a Parigi, risultò che concordavano in
tutti i campi della teoria. Da quell'incontro cominciò il loro stretto
lavoro comune.
IL GIOVANE ENGELS
Annali Franco-Tedeschi. Abbozzo di una critica dell'economia politica
Il giovane Engels era molto più severo nei confronti del capitalismo di
quanto non lo fosse nella maturità. Quando scrive negli Annali che "il
sistema delle fabbriche e la schiavitù moderna non è per nulla inferiore
all'antica per inumanità e crudeltà...", esprime senza dubbio un giudizio
etico incontestabile, ancorché non storicamente documentato.
"Dietro la farisaica umanità dei monopolisti si nasconde una barbarie che
gli antichi non conoscevano" - dice ancora.
Tuttavia, nella maturità, quand'egli avrà occasione di fondare tale giudizio
storicamente, il giudizio etico diventerà più sfumato, molto meno
categorico. L'Engels maturo considerava il capitalismo una inevitabile
barbarie, frutto di una necessaria evoluzione storica, e quindi, sotto
questo aspetto, un progresso rispetto allo schiavismo antico o al servaggio
feudale.
L'approfondimento storico portò a indebolire il giudizio etico di
riprovazione. Questo atteggiamento fu una conseguenza del fatto che il
marxismo occidentale non riuscì a organizzare alcuna rivoluzione politica.
Viceversa, ai tempi degli Annali, e fino al '48, questa speranza era stata
molto forte nei giovani comunisti tedeschi.
Va tuttavia detto che già nel giovane Engels vi era la tendenza a
considerare come necessaria una determinata evoluzione della civiltà
occidentale, in quanto che egli ha sempre visto come un progresso
indiscutibile il passaggio dal clericalismo feudale al panteismo borghese e
quindi all'ateismo comunista.
Egli cioè -e in questo trovò ampi consensi da parte di Marx- sacrificò sul
terreno del progresso ideologico quelli che potevano essere stati i meriti
del feudalesimo rispetto al capitalismo. Quanto, in questo atteggiamento
semplicistico, fu determinante il peso della tradizione luterana tedesca,
che senza volerlo aveva avviato un processo verso il superamento della
religione in sé (e non solo della religione cattolico-romana), è facile
immaginarlo.
I tedeschi dell'800, specie la sinistra hegeliana, si vantavano di essere
approdati all'ateismo esplicito, razionale - cosa che in quel momento non si
era verificata in maniera altrettanto radicale in nessun'altra parte
d'Europa, neppure nella Francia rivoluzionaria, dove alla religione
cristiana si cercò di sostituire una religione laica della ragione.
Resta comunque straordinario il fatto che Engels avesse già piena
consapevolezza dei limiti del capitalismo in età giovanissima, prima ancora
dello stesso Marx, il quale iniziò l'analisi economica solo in un secondo
momento.
Non solo, ma egli addirittura pose subito un nesso - condiviso poi da Marx -
tra economia borghese e religione cristiana: cosa che però né l'uno né
l'altro ha mai approfondito con un'analisi di tipo culturale, anche se Marx
molto meno di Engels.
Con la sua incredibile perspicacia, Engels riuscì a porre le basi di quella
che si può considerare la scienza prossima ventura, e cioè lo studio delle
motivazioni culturali (e quindi religiose) che hanno non solo giustificato
ma anche favorito il processo di transizione dall'economia schiavistica a
quella feudale e da questa a quella borghese: ed è la scienza delle
transizioni.
Uno studio approfondito di questo nesso, che è in fondo l'esame di un
intreccio non esplicito tra elementi strutturali e sovrastrutturali, deve
ancora essere fatto. Non si tratta semplicemente di una sociologia della
cultura (o della religione), poiché l'oggetto di studio principale resta
sempre la società nel suo complesso e non la cultura (o la religione, che di
tutte le manifestazioni culturali resta la più importante), e non è neppure
una scienza o una storia dell'economia, in quanto la nuova scienza escluderà
a priori l'ipotesi che possa esistere uno sviluppo autonomo dell'economia
senza un contestuale sviluppo della cultura, che di quella economia è
espressione e insieme ispirazione. Tra struttura e sovrastruttura esiste un
nesso di reciproca dipendenza.
Non è neppure una storia della civiltà, poiché la scienza delle transizioni
non potrà limitarsi ad affrontare il nesso dal punto di vista
politico-istituzionale o, al contrario, dal punto di vista del minimalismo
quotidiano.
All'ordine del giorno non devono essere posti i ruoli istituzionali della
cultura (o della religione) nei confronti dei poteri politici, siano essi
statali o no. O, al contrario, gli aspetti folcloristici, rituali della
cultura, che è quasi sempre cultura religiosa.
Ciò che va studiato è il legame causale tra riflessione culturale ed
evoluzione dei rapporti sociali. Di questi rapporti l'economia è solo un
aspetto, come la religione è un aspetto della cultura. Si tratta, beninteso,
di un legame causale reciproco.
I due campi privilegiati della nuova scienza storica dovranno essere il
sociale, che include l'economico, il tecnologico, il materiale, il rapporto
con l'ambiente, l'organizzazione della vita civile, del lavoro ecc. E il
culturale, che sta ad indicare qualunque riflessione intellettuale fatta
intorno a determinati problemi.
P.es. lo studio del dibattito sugli universali, svoltosi negli ambiti
universitari medievali, dovrà cercare di verificare quali possibili
conseguenze pratiche poteva aver quel dibattito sui rapporti sociali. E'
stato fatto uno studio del genere oppure si è preferito tenere separata
l'analisi filosofico-teologica da quella economico-sociale?
Senza considerare che il nesso di "sociale" e "culturale" va poi rapportato
al "politico", in quanto la politica trae forza da ciò che la precede, anche
se, successivamente, può determinare, col peso della sua autorità, lo
svolgimento degli aspetti socio-culturali.
Non dovrà più esistere separazione tra scienze umane e scienze esatte. Anzi,
non dovranno esistere neppure le "scienze umane", in quanto esisterà
un'unica scienza, quella dell'essere umano, che si autoconcepisce come
soggetto integro, organico, unitario.
La contrapposizione dovrà essere tra scienza unitaria e scienze separate, o,
se vogliamo, tra scienza dell'uomo e scienze dei poteri, tra scienza della
verità e scienza degli interessi (i quali trasformano la verità in
opinioni): in una parola, tra co-scienza e in-coscienza.
K. MARX, LA QUESTIONE EBRAICA (1843)
Bruno Bauer, nello scritto sulla Questione ebraica critica gli ebrei che
chiedono, in quanto ebrei, non in quanto cittadini, l'emancipazione civile e
politica, cioè quella parte di diritti (pochi in verità, ma molti rispetto
agli ebrei) che hanno i cittadini cristiani della Prussia, invece di
chiederla in quanto cittadini tedeschi e uomini, senza caratteristiche
religiose, in quanto tutti i tedeschi e non solo gli ebrei hanno bisogno
d'essere emancipati e liberati dal dispotismo dello Stato prussiano, che è
insieme cristiano e assolutista.
A suo parere chiedere, da parte degli ebrei, una parificazione di diritti
coi sudditi cristiani, che si riconoscono nella volontà assolutistica del
regime, significa "riconoscere il regime dell'asservimento generale"(p. 47).
In ogni caso tra ebrei e cristiani non ci potrà mai essere parità, in quanto
entrambe le religioni pretendono il riconoscimento di particolari privilegi.
Sulla base di una politicizzazione della religione è impossibile che ci
possa essere effettiva parità tra le religioni, e lo Stato prussiano,
essendo già ufficialmente cristiano, non può dare agli ebrei gli stessi
diritti che hanno i cristiani, proprio perché una religione, specie se
politicizzata, esclude l'altra. (Nel testo di Marx non vengono elencate le
discriminazioni di cui erano oggetto gli ebrei, ma possono essere
immaginate). Lo Stato cristiano può solo riconoscere dei privilegi agli
ebrei, non può concedere diritti agli ebrei in quanto ebrei, altrimenti non
sarebbe cristiano. L'ebreo non può chiedere allo Stato d'essere meno
cristiano, quando egli stesso, nel rivendicare i propri diritti, lo fa
accentuando il proprio ebraismo.
La soluzione di Bauer è chiara ma univoca, unilaterale, ideologica: ebrei e
cristiani devono diventare atei, cioè si devono entrambi emancipare
culturalmente per potersi sentire uguali politicamente, in quanto cittadini
tedeschi.
In sintesi le critiche di Bauer sono le seguenti: l'ebraismo
- chiede privilegi per sé e non diritti per tutti;
- si sente straniero in rapporto allo Stato prussiano;
- contrappone alla nazionalità tedesca una "nazionalità chimerica";
- contrappone alle leggi dello Stato la sua "legge illusoria";
- si isola dal contesto storico, dai movimenti di emancipazione culturale,
di liberazione politica;
- spera in un futuro "che non ha nulla in comune col futuro generale
dell'uomo";
- contrappone il popolo ebraico a quello tedesco, e considera "eletto" solo
il proprio popolo (p. 48).
Dunque non si possono concedere gli universali diritti dell'uomo agli ebrei
(p. 68), proprio perché gli ebrei non hanno fatto nulla per "guadagnarli e
meritarli"(ib.). D'altra parte neppure i cristiani hanno mai fatto nulla:
per ricevere tali diritti bisogna essere atei.
* * *
Prima di passare al commento di Marx, vogliamo fare una piccola digressione
su questa posizione di Bauer, che anteponeva le questioni ideologiche a
quelle politiche. Secondo noi nelle sue critiche si possono intravedere, in
nuce, tutte le motivazioni che un secolo dopo scateneranno la cosiddetta
"soluzione finale". Le sue concezioni sono limitate non solo nel modo in cui
Marx indicherà, ma anche da un semplice punto di vista democratico-borghese.
Quand'è che una religione vuole porsi in maniera politica? Quando rivendica
dei diritti che confliggono coi diritti degli altri cittadini. Bauer
tuttavia non poteva non rendersi conto che fino a quando esiste uno Stato
confessionale è nel diritto di tutte le religioni rivendicare dei diritti
esclusivi che diventano politici. Anche questa forma di rivendicazione è un
contributo alla democratizzazione dello Stato: uno Stato pluralista in campo
religioso è sempre meglio di uno Stato meramente confessionale. Pretendere
la privatizzazione di una fede religiosa quando sul piano politico lo Stato
difende i diritti di una particolare confessione, significa fare
indirettamente gli interessi della religione dominante.
Appoggiando le rivendicazioni particolari degli ebrei, si poteva indurre lo
Stato cristiano a diventare più laico, più equidistante nei confronti delle
religioni. Viceversa, non riconoscendo l'ebraismo agli ebrei, Bauer
rischiava di apparire da un lato antidemocratico (nonostante il suo
ateismo), dall'altro antisemita, in quanto negava i diritti al rispetto di
una religione minoritaria. Poiché gli ebrei sono ebrei -questa la
conclusione di Bauer-, qualunque loro rivendicazione politica diventa
inaccettabile. In tal modo Bauer si negava la possibilità di avere il loro
appoggio quando i cittadini (atei o religiosi) avanzavano rivendicazioni
politiche.
A dir il vero Bauer chiedeva all'ebreo di manifestarsi come cittadino (laico
o ateo) di fronte allo Stato, rivendicando diritti utili a tutti, e di
relegare l'ebraismo alla sfera privata della coscienza (p. 51). Tuttavia,
l'ebraismo, non meno dell'islam e del cristianesimo, è una religione
politica per definizione: lo si può obbligare con la forza (dello Stato)
alla privatezza della coscienza, ma non si può separare una religione dai
suoi rapporti con la società. Bauer sembra essere l'antesignano di quella
forma di "ateismo di stato" che si svilupperà in taluni paesi del
"socialismo reale".
Bauer tuttavia denunciava il limite di fondo di una posizione -quella
ebraica- che in Germania non si sentiva tedesca più di quanto non si
sentisse ebraica. Dovendo lottare come cittadino democratico (dopo aver
acquisito l'emancipazione dalla religione) contro l'assolutismo dello Stato
prussiano, egli era convinto che dagli ebrei non avrebbe potuto ottenere
alcun aiuto. A suo giudizio, infatti, la democratizzazione e la
laicizzazione dello Stato dovevano andare di pari passo.
* * *
I. Critica di Marx a La questione ebraica di Bruno Bauer (1843)
Marx affronta la questione religiosa esclusivamente da un punto di vista
politico: non gli interessano -come invece a Bauer- i rapporti culturali tra
ateismo e religione o i contrasti teologici tra ebraismo e cristianesimo o
l'essenza dello Stato cristiano (cfr. p. 49). Esattamente come Bauer, Marx
ha scelto culturalmente l'ateismo, ma non vuol fare dell'ateismo l'occasione
di una guerra di concezioni ideologiche. Non gli interessa neppure che lo
Stato confessionale diventi "laico", come invece a Bauer. Piuttosto gli
interessa che lo Stato venga subordinato alle esigenze della società civile
e che in questa società vengano superate le forme di esistenza basate
sull'egoismo dei singoli individui. L'emancipazione umana (dalle sofferenze
delle contraddizioni sociali) gli appare molto più importante
dell'emancipazione politica dalle religioni.
Marx critica Bauer di porsi come un intellettuale filosofo che vede le
contraddizioni sociali come contraddizioni culturali. Bauer ritiene siano
sufficienti la critica scientifica delle religioni, e l'ateismo in
particolare, a porre le basi per un'emancipazione generale della società,
che però, secondo Marx, nei piani di Bauer si riduce a un'emancipazione
meramente politica, non umana o sociale, in quanto per Bauer è sufficiente
che lo Stato diventi laico, perché poi diventi, quasi in maniera automatica,
anche democratico.
Marx inoltre fa capire a Bauer che un'emancipazione meramente politica dalla
religione non implica di per sé il suo superamento sociale o umano: "noi
rileviamo l'errore di Bauer nel fatto che egli sottopone a critica solo lo
"Stato cristiano", non lo "Stato in sé", che non ricerca il rapporto tra
l'emancipazione politica e l'emancipazione umana"(p. 53).
La domanda che si pone Marx è molto importante: "il punto di vista
dell'emancipazione politica ha il diritto di esigere dagli ebrei
l'abolizione del giudaismo, e dagli uomini in generale l'abolizione della
religione?"(ib.). Cioè Marx fa capire che una liberazione meramente politica
non può di per sé esigere alcunché se non vi è una contestuale liberazione
umana, la quale, quando vi è, fa sì che le cose vengano da sé, senza bisogno
d'imporle.
Marx peraltro fa notare che anche là dove l'emancipazione politica è più
matura, come nel Nord-America, essa di per sé non implica affatto una
contestuale emancipazione umana. Qui lo Stato è laico, aconfessionale,
indifferente a tutte le religioni, in quanto tutte sono state relegate alla
sfera della coscienza o comunque del privato, eppure la società continua ad
essere religiosa: questo a testimonianza che la religione non può più essere
considerata come il principale ostacolo alla formazione di uno Stato laico e
democratico. Il limite dello Stato non sta più nella religione ch'esso
rappresenta (ufficialmente, come in Germania, dove lo Stato è "teologo
ex-professo", o indirettamente come in Francia, ove si concede qualcosa in
più al cattolicesimo essendo una religione maggioritaria), ma sta nello
Stato in sé, poiché la religione non è che un semplice "fenomeno della
limitatezza mondana"(p. 55). Se lo Stato si comporta da Stato, cioè
politicamente, nei confronti della religione, e smette di comportarsi
teologicamente, allora la critica diventa "critica dello Stato politico"(p.
54) e la questione ebraica non è più una "questione teologica"(p. 53).
Qui Marx rileva già la sua diversità dalla Sinistra hegeliana, specie dalla
corrente di Feuerbach, Strauss e Bauer, ferma alla questione del rapporto
ateismo e religione. E' la "questione sociale" che più gli preme affrontare:
"affermiamo che i liberi cittadini sopprimeranno la loro limitatezza
religiosa non appena avranno soppresso i loro limiti terreni"(p. 55).
"Sopprimere" forse è un termine un po' pesante: il "socialismo reale" p.es.
s'è illuso che fosse sufficiente assicurare la proprietà statale dei mezzi
produttivi perché i cittadini smettessero d'essere credenti. Come una sorta
di neogiacobini, i bolscevichi sotto Stalin diedero per scontato
l'automatismo del processo e fu un errore colossale.
Marx aveva semplicemente detto che "la questione del rapporto tra
l'emancipazione politica e la religione, diviene per noi la questione del
rapporto tra l'emancipazione politica e l'emancipazione umana"(p. 55), dando
così per scontato, indirettamente, che i problemi religiosi dovessero
risolversi spontaneamente, senza forzature di alcun genere.
Ovviamente Marx non è ancora arrivato a capire quanto importante sia
l'economia in generale, quella capitalistica in particolare e l'economia
politica che la legittima sul piano teorico, però il passo sarà molto breve,
poiché quando parla di "emancipazione umana" egli intende riferirsi ai
rapporti sociali della società civile e non a quelli politici dello Stato.
Quando parla di "premesse" dello Stato o di "elementi terreni" o di
"costruzione terrena" intende riferirsi alle contraddizioni della società
civile e, nell'esame di questa, che pur egli non ha ancora iniziato se non
negli articoli della "Gazzetta Renana" (1842) dedicati ai furti di legna,
alla parcellizzazione fondiaria e alla libertà di commercio, egli vuole fare
"astrazione", vuole "prescindere" dalle "debolezze religiose", cioè da
questioni di "critica della religione", proprio perché ha già capito, e con
lui Engels, Hess, Weitling, Bakunin..., che "il limite dell'emancipazione
politica appare immediatamente nel fatto che lo Stato può liberarsi da un
limite senza che l'uomo ne sia realmente libero"(p. 56).
Il giovane Marx non si poneva semplicemente come intellettuale critico del
suo tempo (o come intellettuale democratico o di sinistra), ma voleva porsi
anche come politico disposto a impegnarsi per cambiare la realtà sociale e
quindi politica del suo paese. Marx può interessarsi di religione solo sul
piano politico e fino alla sua morte resterà coerente con questa posizione.
Vi resterà coerente anche quando come studioso dell'economia avrebbe invece
fatto meglio ad associare lo studio del fenomeno culturale (che nella
fattispecie era quello della teologia) con l'analisi socioeconomica del
capitalismo, al fine di scoprire meglio le origini di quest'ultimo.
* * *
Marx dà un giudizio molto negativo non solo dello Stato confessionale ma
anche dello Stato in sé. A suo parere è ancora del tutto insufficiente che
il cittadino si dichiari laico o ateo attraverso lo Stato, cioè che si
dichiari libero attraverso una mera mediazione politica. Per Marx le
contraddizioni dello Stato americano (che ai quei tempi era politicamente il
più evoluto) riguardavano i seguenti aspetti:
i cittadini erano ampiamente religiosi pur avendo scelto uno Stato
aconfessionale;
il cittadino laico o ateo si libera della religione solo in modo politico
(la sfera statale è per Marx indiretta), non anche sociale, cioè
direttamente, a livello di società civile, diventando ateo;
un'emancipazione politica dalla religione realizzata attraverso la
mediazione dello Stato non è molto diversa dall'esperienza religiosa
tradizionale, in quanto come questa essa ha comunque bisogno di una
mediazione per riconoscersi come tale: nel cristianesimo la mediazione è
Cristo, "che l'uomo carica di tutta la sua divinità"(pp. 56-57). In questo
Marx riprende la tesi della proiezione di Feuerbach.
Negli Stati americani non solo -prosegue Marx- ci si illude di aver superato
la religione rendendo laico lo Stato, ma anche di aver annullato la
proprietà privata (o comunque il potere di questa proprietà) abolendo il
censo per l'eleggibilità attiva e passiva (p. 57). Inutile rilevare
l'attualità di questa osservazione. Marx è in grado di mettere a nudo i
limiti di una liberazione esclusivamente politica, quale quella
democratico-borghese avvenuta negli Stati Uniti.
Il dualismo è evidente: politicamente "lo Stato sopprime le differenze di
nascita, di condizione, di educazione, di occupazione...", proclamando
l'uguaglianza di tutti di fronte a se stesso e alle sue leggi; tuttavia
socialmente "lascia che la proprietà privata, l'educazione, l'occupazione
operino nel loro modo... e facciano valere la loro particolare essenza"(p.
57).
Quindi lo Stato democratico non solo non abolisce le differenze sociali tra
i cittadini, ma le presuppone, in quanto concepisce se stesso solo come
Stato politico, separato dalla società, anzi in opposizione (relativa,
formale) a questa, come entità che si pone ideali astratti, in opposizione a
quelli prosaici della società e che per questa ragione deve mistificare la
realtà. Lo Stato infatti illude il cittadino che possa esistere una
democrazia sociale semplicemente limitandosi a darle una veste politica. In
tal modo i cittadini, nella vita materiale della società civile, possono
tranquillamente continuare a vivere nel loro "interesse privato", egoistico
(p. 58). Lo Stato fa esattamente per il cittadino ciò che fa la religione
per il credente: separa il politico dal sociale come il cielo dalla terra.
Membro della società civile è il bourgeois (sia egli cristiano o ebreo) di
cui il citoyen è il "travestimento politico"(p. 59).
Per Marx l'emancipazione politica non è che l'ultima emancipazione possibile
prima di quella sociale o civile; nell'emancipazione politica la religione
riveste un ruolo secondario: in America (dove lo Stato, a causa delle
continue immigrazioni, non poteva nascere che pluriconfessionale), il fatto
stesso ch'esistano tantissime religioni sta ad indicare che la religione è
stata privatizzata e dichiarata in un certo senso inutile per la conduzione
degli affari di Stato e relativa per la conduzione di quelli privati o per
la soluzione dei problemi sociali, relativa cioè alle preferenze che il
cittadino credente può manifestare. La religione non è in grado di dare
risposte sociali universalmente valide, tant'è che lo Stato ha proprie
soluzioni per le contraddizioni sociali. Negli States la religione è
questione meramente individuale o di piccole comunità e in ogni caso resta
separata dalla gestione borghese della società civile.
* * *
La scissione o scomposizione del cittadino dal credente è frutto
dell'emancipazione politica dalla religione. Il cittadino borghese è
pubblicamente laico o agnostico o può comportarsi addirittura da ateo,
mentre privatamente può essere credente, per quanto la sua fede non sia in
grado di contraddire il perseguimento di interessi del tutto privati, anzi
nella forma protestante addirittura li legittima. Se lo Stato viene generato
con la violenza da parte della società civile -dice Marx, riferendosi
implicitamente al terrore giacobino- può anche accadere che detto Stato
voglia eliminare la religione con l'uso della forza, ma il risultato finale
sarà analogo a quello che si ottiene cercando di eliminare la proprietà
privata con la "confisca" e l'"imposizione progressiva" (p. 61): cioè la
restaurazione e della religione e della proprietà.
E' interessante notare che per Marx il concetto di "Stato cristiano" è una
contraddizione in termini, in quanto il cristianesimo non può realizzarsi
come tale sul piano statale. Lo Stato è un ente astratto moderno, frutto di
una società civile di tipo borghese. Uno Stato cristiano può realizzare
principi cristiani solo nei limiti della cultura borghese. Dunque se "lo
Stato cristiano è la negazione cristiana dello Stato"(p. 62), lo Stato
moderno è il tentativo di realizzare il cristianesimo in forma umana,
mondanizzata, cioè in sostanza "non cristiana", in cui si attenua la
contraddizione fra l'ideale irraggiungibile del cristianesimo e l'egoismo
della vita privata borghese. E tra gli Stati moderni, quello confessionale è
il meno Stato di tutti, in quanto non ha il coraggio della laicizzazione e,
siccome non è comunque possibile realizzare politicamente e socialmente il
cristianesimo, esso diventa una caricatura di se stesso, un "non Stato"(p.
62).
Marx dà per scontato che non possa esistere una realizzazione statale del
cristianesimo, e lo prova il fatto che lo Stato confessionale riconosce il
cristianesimo solo come una religione e non come una forma di organizzazione
della vista sociale e civile. Lo Stato confessionale non solo non può
realizzare il cristianesimo in quanto tale, ma non può neppure realizzare
"lo sfondo umano della religione cristiana"(p. 62), come invece pretende lo
Stato laico, il quale però lo realizza in forma mondanizzata, "non
cristiana", privo di legami non solo con la religione cristiana, ma anche
con l'umanesimo in genere. Il cristianesimo laicizzato dello Stato laico può
essere compatibile solo con i principi borghesi della società civile.
Lo Stato confessionale è ipocrita perché si serve della religione per
giustificare la propria incompiutezza laico-democratica; lo Stato
aconfessionale è meno ipocrita nei confronti della religione, ma lo resta
nei confronti della società civile, perché predica la democrazia in maniera
puramente formale.
Marx fa sua la tesi di Bauer che nega la possibilità che uno Stato cristiano
possa realizzare il cristianesimo, in quanto lo Stato moderno, se seguisse i
principi del cristianesimo, dovrebbe negarsi come tale, cioè smetterla di
fondarsi su dei principi che di cristiano hanno solo il nome. Lo stesso
popolo cristiano è un "non popolo"(p. 64) in quanto non partecipa in alcun
modo all'elaborazione delle leggi che lo governano; nei confronti del
sovrano ha in sostanza un atteggiamento di fede (p. 65). I cristiani vivono
nei loro circoli, in maniera indipendente dallo Stato, isolati gli uni dagli
altri. "Nello Stato cristiano-germanico il dominio della religione è la
religione del dominio"(p. 64).
L'interpretazione che Marx e Bauer danno della religione è quella di un
fenomeno impossibilitato a realizzare i propri ideali, o comunque di un
fenomeno che non rivendica sulla terra la realizzazione dei propri ideali,
in quanto ritiene di poterli definitivamente realizzare solo nell'aldilà:
sotto questo aspetto una religione privata può esprimersi più compiutamente
come religione, per quanto sempre in forme alienate. Dunque lo Stato
cristiano o va considerato come contraddizione in termini o come mera
ipocrisia. Dopo 1800 anni di storia lo stesso cristianesimo dovrebbe essere
consapevole d'aver fallito la sua missione storica (quella di negare la
proprietà privata, fonte di ogni egoismo individuale). La frammentazione del
cristianesimo in tante confessioni, chiese, conventicole, movimenti... è la
riprova che una teologia politica della fede non ha più ragione di esistere.
Ormai nel protestantesimo l'esigenza religiosa non è più quella di
appartenere a un'esperienza cristiana, ma semplicemente quella di
appartenere a un'esperienza religiosa, qualunque essa sia. Il
protestantesimo è la definitiva negazione della possibilità di realizzare
politicamente e socialmente i principi cristiani. Sul piano sociale il
cristianesimo è arretrato di fronte alle esigenze della proprietà privata;
sul piano politico uno Stato cristiano è solo uno Stato del privilegio,
dell'arbitrio, il contrario della democrazia, e quindi il contrario del
cristianesimo.
* * *
Bauer afferma che né i cristiani né gli ebrei possono ricevere i diritti
umani universali, poiché rivendicano una religione che li fa essere diversi.
Per poterli ricevere devono diventare atei (p. 68). Non si può concedere
qualcosa di universale a un cittadino che attraverso la propria religione
rivendica un privilegio, un riconoscimento particolare.
Con le idee sull'emancipazione culturale e politica dalla religione, cioè
con le idee sulla realizzazione politica dello Stato laico e sulla
liberazione ateistica della persona, termina praticamente il contributo di
Bauer allo sviluppo della democrazia nel suo paese.
Marx invece non chiede all'ebreo di diventare ateo come condizione per
rivendicare diritti politici, anzi sostiene che l'ebreo può anche
emanciparsi politicamente restando ebreo, cioè riducendo l'ebraismo a
questione privata. Piuttosto Marx chiede all'ebreo di rendersi conto che
l'emancipazione umana (della società civile) è altra cosa rispetto a quella
politica, che si può ottenere nell'ambito dello Stato.
La critica di Marx non è rivolta solo a tutti quei credenti che vogliono
fare della loro religione uno strumento politico, ma anche a tutti quei
cittadini che, pur avendo rinunciato a questa forma d'integralismo,
s'illudono d'aver ottenuto la giustizia sociale in virtù della mera laicità
dello Stato.
A riprova della sua tesi Marx mostra che esiste una differenza di principio
tra diritti del cittadino (diritti politici o dello Stato) e diritti
dell'uomo (diritti della società civile): tra questi ultimi vi è anche
quello della libertà di coscienza che a sua volta prevede quello della
libertà di religione.
E' evidente che i diritti politici non possono essere concessi al cittadino
in quanto cristiano, poiché vengono concessi al cittadino in quanto tale, a
prescindere dal suo atteggiamento verso la religione: persino la sua non
appartenenza ad alcuna religione è irrilevante ai fini dell'adesione ai
diritti politici. "Il privilegio della fede è un diritto universale
dell'uomo"(p. 70) -dice Marx- che viene riconosciuto in tutte le
costituzioni democratico-borghesi. Quindi sotto questo aspetto la posizione
di Bauer è antidemocratica, poiché egli fa dell'ateismo una nuova religione
da imporre con la forza del potere politico borghese.
Abbiamo già visto che per Marx la società civile rappresenta l'egoismo che
va superato e lo Stato rappresenta l'idealità astratta, incapace di superare
tale egoismo. Marx contesta a Bauer di non vedere la realtà delle cose, in
quanto se anche si volessero concedere agli ebrei, previo il loro ateismo o
a prescindere da questo, tutti i diritti che vogliono, questi diritti non
sono altro che diritti a vivere un'esistenza alienata, egoista; la libertà
che si concede è semplicemente quella di non far nulla che possa nuocere
alla libertà altrui (p. 71), quindi sarebbe una libertà al negativo,
concessa a "una monade isolata e ripiegata su se stessa"(ib.).
La libertà riconosciuta e garantita è la libertà a restare "isolati"(p. 71),
rinchiusi nel privilegio della proprietà privata. "Il diritto dell'uomo alla
proprietà privata è dunque il diritto di godere arbitrariamente (à son gré),
senza riguardo agli altri uomini, indipendentemente dalla società, della
propria sostanza e di disporre di essa, il diritto dell'egoismo. Quella
libertà individuale, come questa utilizzazione della medesima, costituiscono
il fondamento della società civile. Essa lascia che ogni uomo trovi
nell'altro uomo non già la realizzazione, ma piuttosto il limite della sua
libertà"(p. 72).
Il diritto ad essere egoisti è garantito dal diritto alla proprietà privata.
Nessuno dei diritti dell'uomo oltrepassa "l'uomo egoistico"(p. 73), proprio
perché la società appare come un "limite" allo sviluppo dell'egoismo
individuale. Com'era arrivato a questa consapevolezza Marx? Dalle letture
dei socialisti francesi, che pur egli qui non cita (probabilmente per
evitare di apparire ai tedeschi come debitore di qualcosa nei confronti dei
francesi) e dalle influenze dei "radicali" e "comunisti" presenti nella
redazione della "Gazzetta Renana" (Hess, Engels, Bakunin...). A p. 78 Marx
si limita a citare Rousseau.
Scrive Marx: "L'unico legame che tiene insieme gli individui è la necessità
naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro
proprietà e della loro persona egoistica"(p. 73). Di qui il carattere
profondamente limitato delle costituzioni democratico-borghesi, col loro
dualismo tra i valori politici (democratici, interclassisti) affermati come
Stato, e i valori sociali, civili o umani (che sono borghesi, privatistici,
classisti) affermati a livello di società civile, al punto che la politica è
subordinata all'economia borghese: "il citoyen è servo dell'homme
egoista"(p. 73): "non l'uomo come citoyen, bensì l'uomo come bourgeois viene
preso per l'uomo vero e proprio"(p. 74). Le costituzioni borghesi sono una
parodia della democrazia, in quanto "la prassi rivoluzionaria della
borghesia si trova in flagrante contraddizione con la sua teoria"(p. 74).
Marx spiega molto bene il motivo di questo dualismo, che definisce
ironicamente con la parola "enigma". L'emancipazione politica borghese ha
compiuto due cose:
ha distrutto la feudalità, in cui esisteva maggiore coerenza tra vita
sociale e vita politica, in quanto "la società civile aveva immediatamente
un carattere politico, cioè gli elementi della vita civile... erano
innalzati a elementi della vita dello Stato"(p. 75). Marx però precisa che
si trattava comunque di rapporti tra "corporazioni" (non solo artigianali,
ma di una classe in sé o ceto sociale: corporazione era il modo di
distinguere i ceti privilegiati, in quanto la società feudale era divisa in
classi). Marx vuol dire che questi ceti di sentivano parte dello Stato in
quanto ceti separati da altri ceti. Non c'era proprietà sociale, ma
proprietà privata appartenente a determinati ceti. Era appunto la società
del privilegio, che insieme era economico e politico. Chi godeva di un
privilegio aveva facoltà di esercitarlo politicamente, senza dover
rivendicare alcunché. L'individuo in sé non contava nulla, ma solo in quanto
appartenente a un ceto sociale. Marx vede del Medioevo solo l'aspetto
negativo del privilegio, non vede l'aspetto positivo della comunità di
villaggio.
La gestione dello Stato è dunque "affare particolare di un sovrano, diviso
dal popolo..."(p. 76). Cioè chi garantiva l'unità statale non era l'insieme
dei ceti, ma un singolo al disopra di tutti.
La rivoluzione borghese ha invece innalzato "gli affari dello Stato ad
affari del popolo... costituì lo Stato politico come affare universale,
spezzando necessariamente tutti gli stati, corporazioni, arti, privilegi,
che erano altrettante espressioni delle separazioni del popolo dalla sua
comunità"(ib.). Ha tolto il privilegio di pochi sostituendolo col diritto di
molti. Ha tolto "il carattere politico della società civile"(ib.)
frammentato tra i diversi ceti privilegiati, e ha suddiviso la società
civile nei suoi elementi semplici fondamentali: gli individui, da un lato, e
i loro bisogni materiali e spirituali dall'altro.
Dopo aver tolto alla società civile l'identità con la sfera politica, ha
creato una nuova organizzazione politica: lo Stato, in cui ognuno,
individualmente, potesse idealmente riconoscersi.
La comunità non viene più rappresentata dalla società civile, ancorché
divisa in ceti privilegiati, ma viene rappresentata da un organo politico
universale, che appare al disopra di ogni cittadino e della stessa società
civile. Nella vita sociale e civile le attività sociali decadono "a
significato solo individuale"(ib.). C'è lo Stato da una parte, che deve
rappresentare tutti, e il singolo dall'altra, che rappresenta solo se
stesso. "La cosa pubblica in quanto tale divenne piuttosto l'affare
universale di ciascun individuo..."(ib.).
Fin qui Marx condivide la necessità del passaggio dal feudalesimo al
capitalismo.
Il rovescio della medaglia è però questo, che la società borghese ha
affermato un concetto di individuo fondamentalmente "materialista", cioè
attaccato esclusivamente al suo interesse privato, egoistico... La società
civile si è in realtà emancipata da ciò che politicamente vincolava,
conteneva lo sviluppo del suo "spirito egoista".
La rivoluzione politica borghese ha scoperto l'importanza dell'uomo sui ceti
privilegiati, ma ha scoperto anche che quest'uomo era un egoista.
Dunque paradossalmente c'era più democrazia sociale nella società del
privilegio, poiché là l'egoismo era dei singoli ceti possidenti e per questo
privilegiati (quindi una minoranza), qui invece è di tutti, almeno di
chiunque abbia un minimo di proprietà.
"L'uomo (borghese) non venne liberato dalla religione, egli ricevette la
libertà religiosa", cioè il diritto di credere nella religione che voleva;
"egli non venne liberata dalla proprietà. Ricevette la libertà della
proprietà"(p. 77), cioè non si passò dalla proprietà privata dei ceti alla
proprietà sociale di tutti, ma dalla proprietà privata di pochi alla libertà
di proprietà privata per molti. L'uomo civile, sociale, egoista, appare ora
come l'uomo naturale, i cui diritti sono naturali, dalla nascita, da sempre,
e che nessuno può toccare. I diritti naturali precedono quelli politici. La
borghesia esprime il trionfo della società civile non solo sulla monarchia
assoluta feudale, in cui pochi ceti potevano riconoscersi, ma anche il
trionfo sul proprio Stato democratico in cui teoricamente tutti dovrebbero
riconoscersi.
L'uomo politico diventa così l'uomo astratto, artificiale, allegorico,
falsamente morale. "L'uomo reale è riconosciuto solo nella figura
dell'individuo egoista..."(p. 78).
Per Marx bisogna andare oltre la democrazia politica borghese perché occorre
che l'uomo della società civile riscopra il lato sociale di se stesso, della
propria attività, nonché il lato umano di se stesso (di cui l'emancipazione
dalla religione costituisce il primo passo). Quando sociale e politico
saranno di nuovo uniti in nome del sociale e non dell'individuale egoista,
allora sarà compiuta l'emancipazione umana (p. 79).
(Da notare, en passant, che dopo 150 anni da queste riflessioni esistono
ancora oggi in Europa degli Stati confessionali: p.es. l'Inghilterra
anglicana e l'Italia cattolica [cfr l'art. 7 della Costituzione]. Svezia e
Finlandia hanno posto fine solo verso il 1997-2000 alla figura giuridica
della Chiesa di stato).
II. Critica di Marx La capacità degli ebrei e dei cristiani d'oggi di
diventare liberi (Ventun fogli dalla Svizzera), di Bruno Bauer (1843)
L'emancipazione che Bauer chiedeva agli ebrei era stata in un certo senso
l'emancipazione del padre di Marx, che era dovuto passare al protestantesimo
nel 1816 per non rinunciare alla professione, in quanto la legge prussiana
vietava agli ebrei di esercitare certi uffici. Il che in sostanza voleva
dire ch'era diventato ateo, se già non lo era prima, viste le sue idee
illuministe.
Secondo Bauer l'ebreo deve emanciparsi non solo dall'ebraismo ma anche dal
cristianesimo che l'ha superato, e cioè deve approdare all'ateismo
tout-court. Quando sarà approdato all'ateismo potrà pretendere
l'emancipazione politica, potrà lottarvi a giusto titolo, a pieno diritto,
al pari di tutti gli altri tedeschi che in quanto cittadini rivendicano i
loro diritti democratici al cospetto dello Stato assolutista. Bauer, abbiamo
detto, poneva una condizione ideologica davanti a quella politica. Peraltro
non si rendeva conto che gli altri cittadini tedeschi non avevano bisogno di
rivendicare alcunché in quanto cristiani, poiché lo Stato stesso poneva
l'eguaglianza di cittadino e cristiano.
Marx invece fa un ragionamento più pratico. Posto che "il segreto
dell'ebreo"(p. 81) non sta nella sua religione, ma nella sua attività
pratica, cioè il traffico e che il suo dio è il denaro, l'emancipazione da
questa forma di egoismo pratico diventa un obiettivo non solo per l'ebreo ma
anche per tutti i cittadini tedeschi; dunque se si eliminassero i
presupposti del traffico, la sua possibilità, l'ebreo mondano (non quello
astratto di Bauer) non esisterebbe più.
"L'emancipazione degli ebrei nel suo significato ultimo è l'emancipazione
dell'umanità dal giudaismo"(p. 82), qui considerato come metafora
dell'egoismo borghese. Marx infatti sostiene che l'ebreo si è già emancipato
in modo giudaico in quanto ha fatto dei propri traffici, dell'uso del danaro
un metro di misura dell'egoismo della società borghese. Un borghese è tanto
più borghese quanto più nella sua attività pratica assomiglia all'ebreo.
"Gli ebrei si sono emancipati nella misura in cui i cristiani sono diventati
ebrei"(p. 82), cioè sono diventati "egoisti". Nel Nord America persino la
religione è diventata oggetto di business (p. 83): "il commerciante fallito
traffica in Vangelo come l'evangelista arricchito traffica negli
affari"(ib.).
Bauer si scandalizza che gli ebrei rivendichino dei diritti in quanto ebrei,
quando già sul piano economico hanno poteri enormi (anche questo è un modo
di porre le basi dell'antisemitismo). Marx invece dice che questa
contraddizione sarebbe impossibile se fosse la politica democratica a
dirigere un'economia di tipo sociale e non l'economia borghese a dirigere
una pseudo-politica democratica.
"L'ebreo, che sta nella società civile [borghese] come membro particolare
[separato], è solo la manifestazione particolare del giudaismo [dell'egoismo
borghese] della società civile"(p. 84). Gli stessi ebrei, secondo Marx, si
comportano come se fossero già atei, in quanto il loro dio è il denaro,
esattamente come per i cristiano-borghesi.
L'ebraismo è solo una variante della prassi borghese. I paralleli sono
innumerevoli. Persino nelle forme del rispetto della legge: "il gesuitismo
giudaico "è il rapporto del mondo dell'interesse individuale con le leggi
che lo dominano, la cui astuta elusione è l'arte suprema di questo mondo"(p.
85).
"Il cristianesimo è scaturito [storicamente] dal giudaismo. Nel giudaismo
[socialmente, come espressione egoistica della vita] esso si è nuovamente
dissolto"(p. 86). Ridiventando "ebreo" il cristiano ha smesso di
"teorizzare" e ha posto la prassi individuale egoistica al disopra di
qualunque ideale, salvo trasferire quest'ultimo, in maniera formale,
nell'entità astratta dello Stato.
"Il cristianesimo -dice Marx- è il pensiero sublime del giudaismo", che non
ha saputo realizzarsi concretamente, mentre "il giudaismo è la piatta
applicazione del cristianesimo"(pp. 86-7). E questa applicazione poteva
diventare universale solo sotto il capitalismo, perché qui lo Stato politico
realizza compiutamente (anche a livello teorico) "l'autoestraneazione
dell'uomo da sé e dalla natura"(p. 87).
Non è più il dio metafisico che fa da ponte tra quel che si è e quel che si
vorrebbe essere; ora il mediatore è il denaro, potere sempre estraneo
all'uomo. Dunque "l'emancipazione sociale dell'ebreo [come individuo
religioso] è l'emancipazione della società [civile] dal giudaismo [cioè dal
dominio del denaro]".
MARX E LA RELIGIONE
Marx ha praticamente dimostrato che l'alienazione che l'operaio della
società capitalistica vive e avverte di vivere sul piano economico, trova il
suo equivalente sovrastrutturale in quello che accade al credente sul piano
religioso. Ovverosia, "l'operaio si viene a trovare rispetto al prodotto del
suo lavoro come rispetto ad un oggetto estraneo"(così nei Manoscritti
economico-filosofici, ed. Einaudi 1970, p. 72). Estraneo appunto perché, pur
essendo la merce un suo prodotto, di fatto non gli appartiene, essendo a lui
separata giuridicamente la proprietà della fabbrica.
Questa alienazione materiale trova il suo riflesso in quella spirituale
della religione, la quale recepisce e giustifica, modificando continuamente
i suoi contenuti, l'estraniazione materiale del capitalismo. E così, "quante
più cose l'uomo trasferisce in Dio, tanto meno egli ne ritiene in se
stesso"(ib.). Un legame così esplicito di capitalismo e religione sarà
ricorrente in tutta l'opera marxiana, anche se mai sviluppato in maniera
analitica.
Nel capitalismo, quindi, persino la legge naturale dello sviluppo
industriale, che dovrebbe portare direttamente, sul piano spirituale,
all'ateismo, diventa motivo di perpetuazione dell'alienazione religiosa. Nel
senso che se è vero che "i miracoli divini diventano superflui a causa dei
miracoli dell'industria"(op.cit., p. 81), è altresì vero che, col
capitalismo, i miracoli dell'industria tornano a vantaggio solo di poche
persone proprietarie, mentre al lavoratori non resta che continuare a
sperare -come vuole la religione- nei miracoli divini, almeno sino a quando
essi non si accorgeranno che "non gli dèi, non la natura, ma soltanto l'uomo
stesso può essere questo potere estraneo al disopra dell'uomo"(ib.).
Questa è una delle ragioni per cui secondo Marx "la critica della religione"
va considerata come "il presupposto di ogni critica". Cioè l'operaio può
iniziare a criticare il capitalismo partendo dalla critica della religione
(in questo Marx si mostrava erede di tutti gli studi compiuti in Germania
dalla Sinistra hegeliana. Viceversa Lenin non avrà bisogno di questo
passaggio intellettualistico, in quanto per lui il capitalismo andava
criticato per le proprie contraddizioni interne, e questo allo scopo di
organizzarne un superamento di tipo politico. La critica della religione è
sempre stata considerata da Lenin un aspetto di secondaria importanza, anche
se proprio lui pretendeva da parte del partito una propaganda
ateo-scientifica: cosa che in Europa occidentale i partiti comunisti non
hanno quasi mai fatto).
Marx assegnò all'ateismo un valore di "presupposto di ogni critica" perché
nei paesi capitalisti qualunque aspetto sovrastrutturale, in aperta
contraddizione con quelli strutturali (rivoluzione industriale, macchinismo,
dominio della natura, benessere materiale...), si è sempre caratterizzato
per il suo stretto legame con l'ideologia religiosa, o comunque con
l'illusione di matrice religiosa.
Prima del socialismo scientifico ogni morale era di origine religiosa,
persino quella del socialismo utopistico, è così ogni diritto, ogni
politica, arte o scienza. Il contenuto di tutte le scienze era costretto a
esprimersi in un involucro religioso. Riflettendo le contraddizioni
antagonistiche della loro epoca, tutte le scienze manifestavano in modo
illusorio, cioè sostanzialmente religioso, il loro tentativo di risolverle,
e questo avveniva anche quando gli uomini cercavano di emanciparsi dalla
religione. Ecco perché sino al socialismo scientifico la lotta contro la
religione altro non è stata che la lotta di alcune idee religiose contro
altre.
Oggi, sotto il capitalismo, le forme ideologiche conservano il loro
carattere illusorio pur avendo perso lo stretto legame con la religione
(legame che comunque può sempre essere ripristinato, all'occorrenza). Nei
confronti della religione la borghesia ha sempre avuto un duplice e
apparentemente contraddittorio atteggiamento: di critica, nel momento
dell'ascesa al potere economico e politico; di compromesso, nel momento
della conservazione di tale potere. Di critica per potersi emancipare dal
modo di produzione economico cui la religione era legata (quello feudale);
di compromesso (o meglio di strumentalizzazione, per quanto reciproca) per
poter impedire alla classe operaia di emanciparsi dal modo di produzione
borghese.
Nel Terzo mondo, ove la critica della religione non ha raggiunto le punte
ateistiche dell'Occidente, quando l'operaio credente abbraccia ideologie di
tipo socialista (p.es. la Teologia della liberazione) facilmente gli viene
attribuito dalla chiesa l'appellativo di "eretico" ed ovviamente lo si
minaccia di "scomunica". Un atteggiamento così autoritario, da parte della
chiesa romana, è stato tenuto in Italia e per buona parte d'Europa almeno
sino agli anni '70. Di qui la decisione, da parte degli operai credenti, di
abbandonare la religione, proseguendo in maniera laica la propria
opposizione al capitalismo.
Se la chiesa cattolica non si fosse legata così strettamente agli interessi
del capitale, probabilmente gli operai cattolici avrebbero smesso d'essere
credenti con meno facilità, o forse avrebbero contestato il capitalismo con
meno decisione.
In ogni caso questo spiega il motivo per cui nel socialismo il regime di
separazione di Stato e chiesa è un aspetto sovrastrutturale necessario alla
socializzazione dei mezzi di produzione. Certo, se la religione non si fosse
compromessa nel difendere il capitalismo (o il feudalesimo), il legame tra i
due aspetti (separazione giuridica e collettivismo economico) potrebbe anche
non essere indispensabile, ma è fuor di dubbio che là dove esistono più
religioni (senza peraltro considerare l'ateismo), il socialismo non può che
optare per il regime di separazione.
A Marx comunque non bastava l'emancipazione meramente "politica" dalla
religione (come per Bauer); voleva anche quella umana, e questo
inevitabilmente implicava il rovesciamento dei rapporti produttivi, in
quanto l'umano per lui coincideva col sociale e non solo -come per
Feuerbach- con la coscienza personale. L'atteggiamento dei confronti della
religione andava privatizzato, ma non quello nei confronti della società che
produce l'illusione religiosa.
La religione si pone sempre laddove esistono delle contraddizioni
socioeconomiche basate sui conflitti di classe. Quando le classi
antagonistiche si servono della religione politicamente (come fenomeno
sociale) o ideologicamente (come convinzione personale), esse lo fanno o per
illudersi (se sono oppresse), o per illudere (se invece opprimono). La
religione infatti è allo stesso tempo -come dice Marx- "l'espressione della
miseria reale e la protesta contro questa miseria" (ovviamente sempre
nell'ambito dell'illusione). Rovesciare i rapporti di produzione
antagonistici significa "rinunciare non solo alle illusioni sulla propria
condizione, ma anche a una condizione che ha bisogno di illusioni"(Marx).
Il proletariato -secondo Marx- sa che la sua emancipazione umana è legata al
possesso dei mezzi produttivi e se questo obiettivo riesce a conseguirlo non
può trasformarsi in un nuova classe dirigente che usa la religione in
maniera strumentale, perché vuol rendere partecipe tutta la società di
questo suo possesso.
Etica e religione
Il rapporto che Marx stabilisce tra economia borghese e protestantesimo non
è mai stato molto chiaro nelle sue opere. Da un lato infatti egli ha sempre
considerato la religione una sovrastruttura dell'economia; dall'altro però
ha spesso scorto nell'economia borghese delle caratteristiche tipicamente
religiose (che assumevano forme laicizzate).
Marx ha costatato lo stretto rapporto tra i due aspetti, ma ha scarsamente
analizzato l'evoluzione del fenomeno religioso in rapporto all'evoluzione
del contesto storico ad esso correlato. Marx in effetti non è uno storico in
senso lato, ma uno storico dell'economia o al massimo della politica.
Engels, in tal senso, ha prodotto qualcosa di significativo con gli studi
sul Cristianesimo primitivo (che però riprendono le tesi della Sinistra
hegeliana) e sulla Riforma protestante.
Marx non ha analizzato per niente il riflesso del fenomeno religioso sul
contesto socioeconomico corrispondente, ovvero i condizionamenti culturali
della religione sui rapporti sociali. Qui occorre servirsi dei lavori di
Weber -il "Marx della borghesia".
Marx e Weber
Il nesso che Marx poneva, nei Manoscritti parigini del '44, tra economia
capitalistica e religione cristiana, racchiude, in nuce, tutte le analisi
sociologiche di Weber, anche se Marx ha avuto il torto di non proseguire
quelle ricerche, essendosi dedicato esclusivamente all'analisi economica.
Weber ha proseguito quelle ricerche, ma da punto di vista borghese, cioè
mascherando le contraddizioni antagonistiche del capitalismo.
Ora bisognerebbe proseguire quelle ricerche dal punto di vista
dell'umanesimo socialista.
Pro e contro Marx
Quando si critica Marx bisogna fare dei distinguo molto importanti.
Non ha senso infatti sostenere -come fa Max Scheler- che Marx considerava
l'uomo un mero prodotto di condizioni economiche. Un limite di questo genere
può essere riscontrato nel Marx "economista", quello posteriore al
Manifesto, ma non lo si può certo riscontrare nel Marx dei Manoscritti
parigini o in quello delle Tesi su Feuerbach.
Nello stesso Capitale Marx non ha mai accettato completamente la tesi della
subordinazione della volontà umana alle condizioni economiche. In realtà
Marx non ha mai smesso di fare il politico rivoluzionario (molto importante
è stato il suo impegno nell'Internazionale).
Certamente il Marx "inglese" è stato meno rivoluzionario del Marx
"franco-tedesco". La sua sopravvalutazione del fattore economico è dipesa
appunto dal calo della tensione rivoluzionaria, nonché dalla subordinazione
del "fattore umano" a quello "politico".
Il fatto è però che individui come Max Scheler rimproverano a Marx
l'eccessivo economicismo non tanto perché lo avrebbero preferito più
rivoluzionario, quanto perché, al contrario, lo avrebbero preferito più
"idealista", più "hegeliano"...
A Marx, in realtà, si sarebbe dovuto rimproverare un'altra cosa, e cioè il
fatto che la storia non può essere creata solo dall'homo faber. La storia
non è né storia economica , né storia politica, ma è storia dell'uomo,
globalmente o integralmente inteso. E' in questa storia che per miopia o per
opportunismo si tende a privilegiare l'economia o la politica.
Dal punto di vista umano, ogni scienza, ogni attività, ogni forma di
pensiero è relativa. Gli aspetti etici o culturali non sono meno importanti
di quelli politici o economici. Gli uni senza gli altri non possono
sussistere. Quando si privilegia un fattore rispetto a un altro, le
conseguenze sono sempre devastanti, poiché sulle basi dell'unilateralismo
non si può mai costruire una società democratica.
Non si diventa più "realisti" opponendo all'ideologia filosofica o religiosa
il primato del lavoro umano. Un lavoratore non è di per sé migliore di un
prete. Finché non si affronteranno le cose in maniera globale, la diatriba
fra idealismo e materialismo non finirà mai.
Si pensi p.es. a questa assurdità: il marxismo ha sempre sostenuto che il
lavoro è "umano" soltanto quando esso dirige coscientemente le forze
naturali ad operare nell'interesse dell'uomo.
I fatti cos'hanno dimostrato? Che se l'uomo si concepisce anzitutto come
homo faber, l'impatto sulla natura è catastrofico.
Perché ciò non avvenga, la società ha bisogno di uomini che si adeguino ai
processi naturali, che rispettino sino in fondo tutte le leggi della natura
e che non compiano assolutamente, attraverso il lavoro, delle modifiche
irreversibili all'ambiente naturale. Solo così l'uomo può sperare di campare
in eterno.
Questo non per dire che la natura è più importante dell'uomo, ma per
impedire che l'uomo si evolva contro i processi della natura. Delle due
l'una: o la sua evoluzione è conforme a tali processi, e allora tra uomo e
natura ci sarà sempre un'intesa perfetta, oppure si è in presenza di una
involuzione verso la barbarie.
Dobbiamo assolutamente toglierci dalla testa l'idea che l'uomo potrà
diventare tanto più "umano" quanto più saprà coscientemente dominare la
natura. Ogni forma di "dominio" (avvenga essa sotto il capitalismo o sotto
il socialismo) porterà alla morte sia la natura che l'uomo.
Molto più importante del lavoro, in realtà, è lo spirito collettivo con cui
si vive in una determinata comunità; quello spirito che non sta a
distinguere la produttività di un lavoro da un altro, che non si fa scrupolo
di mansioni economicamente improduttive (se tutta la comunità è
consenziente), che non fa dipendere la dignità di un uomo o di una donna dal
lavoro che fa...
Il marxismo ha valorizzato il lavoro per contrastare lo sfruttamento, ma
anche la borghesia, agli inizi della sua "carriera storica", aveva
privilegiato il lavoro per combattere il parassitismo delle classi feudali.
Se si decide di privilegiare il lavoro, ad un certo punto si finirà col
creare situazioni di sfruttamento, poiché l'assenza di valori ontologici
prima o poi porta a desiderare di vivere sulle spalle degli altri. Sotto il
capitalismo è l'imprenditore (singolo o associato) che si assume il ruolo di
sfruttatore; sotto il "socialismo reale" questo ruolo è stato assunto dallo
Stato, con tutti i suoi apparati burocratico-amministrativi.
Il "socialismo reale" aveva per così dire "idealizzato" lo sfruttamento, in
quanto un ente astratto: lo Stato (che doveva personificare l'interesse
generale) aveva preso il posto di una figura soggettiva: l'imprenditore (che
nel capitalismo ha sempre anteposto gli interessi privati a quelli
pubblici).
Non è certo stato il puro e semplice primato concesso al lavoro che ha
impedito la possibilità di uno sfruttamento economico. Qui è la mentalità
che deve cambiare. Non può essere solo questione di forme o di condizioni in
cui avviene l'attività lavorativa.
Per poter realizzare delle condizioni lavorative ottimali, veramente
democratiche, occorre educare gli esseri umani a capire l'importanza del
bene comune. E questo è un lavoro di tipo etico, pedagogico, culturale,
sociale, oltre che politico e rivoluzionario.
Si tratta di un'opera di persuasione molto difficile e complessa, poiché
implica una metanoia, cioè una conversione interiore, che deve tradursi,
concretamente, in azioni esteriori, alternative a quelle dominanti.
K. MARX, PER LA CRITICA DELLA FILOSOFIA DEL DIRITTO DI HEGEL. INTRODUZIONE:
Seguace di Feuerbach e amico di Bauer e Strauss, Marx non può che dirsi
"ateo", esplicitamente, mostrando che la religione non ha alcuna utilità ai
fini dell'emancipazione umana.
La religione è alienazione, in quanto pone la realizzazione di sé nei cieli,
non sulla terra. La critica della religione (che in Germania era già
iniziata con la Critica della ragion pura di Kant, svolta, seppure in forma
ambigua da Hegel ed esplicitata dalla sua corrente di sinistra, e che in un
certo senso, può essere fatta risalire allo stesso luteranesimo) ha appurato
che non la religione fa l'uomo, ma l'uomo (alienato) fa la religione. E se è
così, allora l'uomo può anche disfarsi di ogni religione e sostituirla con
un mezzo più utile alla realizzazione di sé. Marx non ama, come Bauer e
Strauss, proseguire la critica ateistica in direzione dello studio delle
religioni. Egli si pone di fronte alla religione come un politico e, come
tale, non può trovare nell'ateismo una soluzione ai problemi sociali (gli
stessi che hanno generato le illusioni religiose). Per Marx la diatriba di
ateismo-religione è superata perché ideologicamente conclusa.
L'alternativa e alla religione e alla sua critica va cercata nella società e
deve servire a trasformare questa stessa società, poiché non ci sarebbero
state religioni se non ci fossero state le società che le hanno prodotte
(coi loro ceti e classi sociali). La religione è un prodotto alienato di
società alienate. E la critica di queste società non si fa con le armi della
critica della religione.
Marx ancora non ha scoperto l'economia politica, per quanto lo scritto di
Engels, Abbozzo di una critica dell'economia politica, apparso negli
"Annali", l'abbia sicuramente aiutato, però ha capito che la critica della
religione deve trasformarsi in critica della politica e del diritto, benché
le armi di questa critica siano ancora di tipo filosofico, sulla scia di
Hegel. Naturalmente la critica della politica e del diritto è la critica
della Germania assolutista, tardo-feudale, non solo di quella confessionale.
Ma è anche la critica di quei tentativi anacronistici di ritrovare le
libertà tedesche "nelle foreste vergini teutoniche"(p. 64), cioè fuori della
storia.
Marx è convinto che con la critica (l'indignazione, la denuncia) si possa
scuotere la coscienza assopita dei tedeschi, rimasti indifferenti ai
cambiamenti epocali avvenuti in altre nazioni (la rivoluzione inglese del
1688, la rivoluzione francese del 1789, la rivoluzione americana del 1776,
la rivoluzione industriale...). Non c'è, nel suo scritto, un piano di
agitazione tra le masse vero e proprio, coordinato da un partito politico.
Da filosofo critico della società quale egli è, Marx è convinto sia
sufficiente "rendere ancora più oppressiva l'oppressione reale con
l'aggiungervi la consapevolezza dell'oppressione..."(p. 95).
Egli vuol far sentire la Germania all'altezza dei tempi, non solo per le
conquiste teoretiche della filosofia idealistica e della critica della
religione, ma anche, paradossalmente, come paese conservatore! Infatti dice:
"lo status quo tedesco costituisce l'aperto compimento dell'ancien régime, e
l'ancien règime è la tara occulta dello Stato moderno"(p. 96). Cioè Marx
vuole infondere fiducia nei tedeschi, mostrando loro che lo Stato moderno,
borghese, non è la soluzione dei problemi dello Stato prussiano, come non lo
è stato nelle altre nazioni, dove la borghesia è stata costretta al
compromesso con le forze del passato.
Indubbiamente per Marx la Prussia è un anacronismo storico rispetto agli
Stati borghesi d'Europa, ed egli cerca di giustificare questo ritardo
dicendo che nella storia ci si libera degli errori, degli anacronismi, prima
in forma tragica, poi in forma più leggera, come la commedia. Cioè Marx
spera che la Germania non debba andare incontro alle stesse tragedie degli
altri paesi, visto appunto che sono state già compiute e non vi è bisogno di
ripeterle. "Questa serena destinazione storica noi rivendichiamo alle forze
politiche della Germania"(p. 96). (In realtà la Germania dovrà affrontare
tutte le tragedie del superamento dell'assolutismo e della costruzione dello
Stato capitalistico).
Tuttavia Marx vuole qui essere più un filosofo critico che un politico,
perché vede che la politica tedesca è di molto inferiore alla filosofia
idealistica. E fa l'esempio del modo con cui il governo prussiano vuole
regolamentare l'economia borghese: là dove, come in Francia e in
Inghilterra, si chiede di finirla coi dazi protettivi e i monopoli,
favorendo il libero scambio per ogni attività economica, in Germania invece
si fa esattamente il contrario, a testimonianza del suo ritardo storico sul
piano dell'organizzazione capitalistica dell'economia.. Per Marx, grazie
alla loro filosofia idealistica, i tedeschi "sono i contemporanei filosofici
del presente, senza esserne i contemporanei storici"(p. 98).
In particolare, di tutta la filosofia tedesca, secondo Marx quella "del
diritto e dello Stato è l'unica storia tedesca che stia al pari col moderno
presente ufficiale"(ib.). Ma siccome questa filosofia non può essere presa
così com'è, perché idealistica, occorre partire dalla sua critica per
emancipare il tedesco e aprirgli la strada alla realizzazione storica
contemporanea, che dovrà essere diversa da quella "ufficiale".
I tedeschi hanno prodotto sul piano culturale una cosa che gli altri popoli
europei non possono vantare: la filosofia idealistica (erede della Riforma).
Tale filosofia però non ha permesso ai tedeschi di realizzare la democrazia,
la giustizia sociale ecc., se non a livello di possibilità ideale, nelle
astratte speculazioni dialettiche. Marx dice che "il partito politico
pratico [il partito di governo] in Germania esige la negazione della
filosofia"(p. 99), poiché ritiene che gli ideali della filosofia siano
irrealizzabili; viceversa, Marx ritiene che per poter negare la filosofia
bisogna prima realizzarne i principi (ib.), proprio perché il meglio di sé
il popolo tedesco l'ha dato nel pensiero, non nella realtà.
Lo stesso errore, secondo Marx, ma in maniera capovolta, lo fa il "partito
politico teorico", quello nato a "sinistra" della filosofia hegeliana, il
quale ritiene che per cambiare la società tedesca sia sufficiente usare
l'arma della critica filosofica, quando, in realtà -dice Marx- la stessa
filosofia è "il completamento, sia pure ideale" del mondo tedesco che va
superato (ib.). Insomma, secondo Marx "non si può realizzare la filosofia
senza eliminarla"(p. 100), ed eliminarla significa fare una prassi
rivoluzionaria (p. 101).
Il vertice del pensiero filosofico tedesco è, secondo Marx, la filosofia del
diritto e dello Stato di Hegel, di cui questa critica vuole semplicemente
essere una "Introduzione": Hegel riuscì a fare una critica dello Stato
moderno pur non vedendolo realizzato in Prussia. Questo perché "i tedeschi
nella politica hanno pensato ciò che gli altri popoli hanno fatto"(p. 100).
Ma tra pensiero ed azione Marx non vede contraddizioni di sostanza, in
quanto i limiti pratici delle democrazie borghesi sono equivalenti ai limiti
teorici della filosofia idealistica. Entrambe le realtà non hanno mai preso
in considerazione l'uomo reale, totale (ib.).
Secondo Marx il problema cruciale per la Germania non è soltanto quello di
sapere se per mezzo di una prassi rivoluzionaria essa sarà in grado di
innalzarsi "al livello ufficiale dei popoli moderni" [che è quello
politico-istituzionale dello Stato borghese], ma anche se sarà in grado di
superare tale livello dal punto di vista umano o sociale (p. 101). "La
critica della religione finisce con la dottrina per cui l'uomo è per l'uomo
l'essere supremo, dunque con l'imperativo categorico di rovesciare tutti i
rapporti nei quali l'uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato,
spregevole..."(ib.).
Marx qui si ricollega a quella rivoluzione fallita che fu la riforma
protestante: un passato sì "rivoluzionario" ma "teorico" (p. 101), in quanto
la guerra dei contadini: "il fatto più radicale della storia tedesca"(p.
102), s'infranse contro le esigenze conservatrici della teologia. Il
parallelo tra Riforma e Rivoluzione sta nel fatto che le idee rivoluzionarie
nascono nella testa degli intellettuali, ma la differenza deve stare nella
loro applicazione, che deve riguardare le masse.
E' solo questo il vero problema, per Marx, poiché la Germania è molto
arretrata politicamente. La domanda tuttavia è lecita: è possibile che i
tedeschi si emancipino prima di rischiare una decadenza come nazione,
provocata dal capitalismo delle altre nazioni? Certamente, Marx ne è
consapevole, non verrà alcun aiuto da parte del governo prussiano, e per
quanto riguarda la società civile il rischio è quello tipico delle
rivoluzioni borghesi: cioè che venga tradita a cose fatte. (Va detto
tuttavia che per Marx non esisteva nella Prussia di allora una classe che da
sola, come p. es. in Francia, avrebbe potuto fare la rivoluzione).
Marx a questo punto fa la sua proposta politica: soggetto principale della
rivoluzione dovrà essere una classe che concentri su di sé tutte le
contraddizioni sociali, per le quali essa non possa nutrire un interesse
particolare di liberazione e che quindi la sua istanza di liberazione
coincida con quella di tutte le altre classi oppresse: questa classe è il
proletariato industriale.
Marx chiede che in Germania non si faccia una liberazione progressiva,
partendo da quella democratico-borghese per arrivare a quella socialista, ma
che si salti il passaggio e si faccia subito la rivoluzione proletaria: "in
Germania l'impossibilità della liberazione progressiva deve generare la
libertà totale"(p. 107). La sua è una posizione molto esigente.
La descrizione del proletariato industriale tedesco è così intensa che
merita d'essere riportata integralmente. La possibilità positiva
dell'emancipazione tedesca sta "nella formazione di una classe con catene
radicali, di una classe della società civile la quale non sia una classe
della società civile, di uno stato che sia la dissoluzione di tutti gli
stati, di una sfera che per i suoi dolori universali possieda un carattere
universale e non rivendichi alcun diritto particolare, poiché contro di essa
viene esercitato non una ingiustizia particolare bensì l'ingiustizia
senz'altro, la quale può fare appello non più ad un titolo storico ma al
titolo umano, che non si trova in contrasto unilaterale verso le
conseguenze, ma in contrasto universale contro tutte le premesse del sistema
politico tedesco, di una sfera, infine, che non può emancipare se stessa
senza emanciparsi da tutte le rimanenti sfere della società e con ciò stesso
emancipare tutte le rimanenti sfere della società, la quale, in una parola,
è la perdita completa dell'uomo, e può dunque guadagnare nuovamente se
stessa soltanto attraverso il completo riacquisto dell'uomo. Questa
dissoluzione della società in quanto stato particolare è il proletariato"(p.
108).
Compito fondamentale di questo proletariato è "la negazione della proprietà
privata"(p. 109). La filosofia tedesca può trasformarsi in prassi
rivoluzionaria (sulle modalità della quale, operativamente, Marx non dice
nulla) se si associa alle esigenze emancipative del proletariato
industriale. "La filosofia non può realizzarsi senza l'eliminazione del
proletariato, il proletariato non può eliminarsi senza la realizzazione
della filosofia".
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