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MARX - ENGELS - STORIA DEL COMUNISMO

STORIA DEL COMUNISMO - CARLO MARX E FRIEDRIK ENGELS
 

Quanto proletariato industriale esisteva nella Prussia di Marx? Lo sviluppo industriale della Germania cominciò ad avere un certo impulso a partire dalla seconda metà degli anni '30, soprattutto nella regione del Reno-Vestfalia, favorita dalla liquidazione degli ordinamenti feudali, già effettuata nel periodo del dominio francese. In Sassonia era molto sviluppata l'industria tessile. Berlino cominciò a diventare un centro industriale verso la metà degli anni '40: qui era concentrato 1/3 di tutta la produzione di macchine e dei cotonifici della Prussia; nel 1846, su 400.000 abitanti aveva circa 70.000 operai salariati. Nel 1847 in tutto il paese vi erano circa 1000 motori a vapore. La prima ferrovia fu inaugurata nel 1835. Nel complesso tuttavia l'industria si sviluppava a rilento e non era in grado di assorbire gli artigiani e i contadini impoveriti che affluivano nelle città, tant'è che negli anni 1846-47 furono costretti a emigrare dalla Germania circa 100.000 persone l'anno. Nella maggior parte della Germania prevaleva l'artigianato e la manifattura, specie quella sparsa. I primi moti rivoluzionari si registrarono agli inizi degli anni '30, in Sassonia, nell'Assia-Cassel e in Baviera. A Essen nel 1830 scoppiò una rivolta contadina antifeudale, che fu duramente repressa. Nel 1832 nel castello di Hambach parteciparono 30.000 persone per chiedere riforme democratiche e l'unificazione nazionale. Nel 1833 a Francoforte sul Meno un gruppo di studenti tentò un colpo di stato per proclamare la repubblica. L'anno successivo fu chiusa dal governo l'"Associazione dei diritti dell'uomo" guidata da G. Büchner e dal pastore Weidig. Nel 1845 quasi tutti i Landtag (assemblee provinciali di stati) presentano al re la richiesta di una costituzione; i liberali borghesi vogliono anche l'allargamento dell'unione doganale e la liquidazione dei privilegi di casta della nobiltà. Il professore di economia dell'Università di Tubinga, F. List, chiedeva elevate tariffe doganali sui prodotti d'importazione e predicava la conquista di un mercato mondiale da parte della Germania unificata, anche a costo di scatenare la guerra. * * * A Colonia la borghesia, delusa dalla politica di false riforme di Federico Guglielmo IV, si era alleata con la Sinistra hegeliana dando vita alla "Gazzetta renana", il primo periodico moderno della Germania, nato nel 1842. La Gazzetta viene chiusa dal governo dopo 15 mesi. La reazione degli ambienti liberali fu tiepida, in quanto non amavano gli articoli che sobillavano il popolo contro il governo. Grande la delusione dei giovani hegeliani: il 25 gennaio 1843 Marx scrive a Ruge che ha intenzione di lasciare la Germania. LA RIVOLTA DEI TESSITORI SLESIANI (1844) All'origine della rivolta vi fu una canzone, creata dai tessitori del villaggio slesiano di Peterswalden. Il 4 giugno 1844 la polizia arresta un tessitore che cantava quest'inno sotto le finestre del costruttore Zwanziger, che pagava miseri salari e che nella regione era il simbolo dello sfruttamento dei padroni. Nel pomeriggio i tessitori reagiscono all'arresto e saccheggiano gli uffici degli industriali e distruggono i libri dei debiti e le lettere di credito, senza commettere alcun furto. Il 5 giugno una folla di 3.000 tessitori marcia verso un villaggio vicino (Langebielau) dove si svolgono scene analoghe. Ma l'esercito interviene e spara sulla folla disarmata, uccidendo 11 operai e ferendone 24; la massa reagisce e a colpi di pietre e bastoni caccia i soldati dal villaggio. Il 6 giugno arrivano tre compagnie di fanteria e una batteria di artiglieria che sconfiggono la ribellione. I sopravvissuti cercano rifugiano tra le montagne e i boschi vicini, dove sono braccati dalle truppe: 38 tessitori vengono arrestati e condannati a pesanti pene e ai lavori forzati. Le ripercussioni dell'avvenimento si ebbero in tutta la Slesia, in Boemia, a Praga e anche a Berlino, dove si erano succeduti scioperi e manifestazioni operaie nei mesi estivi del 1844. cfr Heinrich Heine, I tessitori (1847) e Gerhart Hauptmann, I tessitori (1892) * * * Il 7 e il 10 agosto 1844 Marx risponde sul "Vorwärts" ("Avanti"), giornale stampato a Parigi in lingua tedesca, a due articoli anonimi, firmati da un "Prussiano", che ridimensionava di molto l'accaduto e che chiedeva di comprenderlo in nome della carità cristiana. Per Marx invece l'insurrezione dei tessitori fu un fatto così grave che lo porterà a rompere definitivamente con la Sinistra hegeliana e con Feuerbach, che a suo parere si ponevano in maniera troppo astratta nei confronti dei problemi sociali della Prussia. Marx ridicolizza il primo articolo dell'anonimo Prussiano, il quale aveva scritto che essendo un paese "non politico" la Prussia e il suo governo non potevano vedere la rivolta dei tessitori come un problema per tutto il paese e al massimo lo consideravano un problema locale, al pari di una siccità o di una carestia. Viceversa Marx fa notare che anche là dove esiste una partecipazione politica più avanzata di quella tedesca, là dove esistono parlamenti e repubbliche democratiche, l'indifferenza delle istituzioni e dei partiti nei confronti dei problemi sociali è analoga, e scrive: "Nella misura in cui la borghesia inglese ammette che il pauperismo è una colpa della politica, il whig considera il tory, e il tory il whig, come la causa del pauperismo. Secondo il whig, il monopolio della grande proprietà terriera e la legislazione protezionista contro l'importazione dei cereali è la fonte principale del pauperismo. Secondo il tory, tutto il male risiede nel liberalismo, nella concorrenza, nel sistema industriale spinto troppo avanti. Nessuno dei partiti trova il motivo nella politica in generale, bensì ciascuno di essi lo trova nella politica del proprio partito; ma ambedue i partiti non si sognano neppure una riforma della società"(p. 118). La borghesia inglese, che già vede il pauperismo non come fenomeno locale ma nazionale, è ancora più indifferente di quella tedesca a proporre dei rimedi sociali per risolverlo. E se anche il pauperismo potesse essere risolto per via amministrativa o con la beneficienza -come proponeva l'anonimo Prussiano-, Marx fa notare che l'Inghilterra emanò una legislazione apposita in tal senso, sin dai tempi della regina Elisabetta, la quale però non servì a nulla; anzi ci fu qualcuno, come p.es. Malthus, il quale sostenne che proprio quella legislazione non faceva che aumentarla: "Poiché la popolazione tende incessantemente a superare i mezzi di sussistenza, la beneficienza è una pazzia, un pubblico incitamento alla miseria. Perciò lo Stato non può far altro che abbandonare la miseria al suo destino, e al massimo rendere più facile la morte dei poveri" (p. 121). La conseguenza inevitabile di questa posizione fu molto esplicita in parlamento: "il pauperismo è la miseria di cui hanno colpa gli operai stessi, per cui non lo si deve prevenire come una sfortuna, bensì piuttosto reprimere, punire come un delitto"(p. 122). La stessa cosa d'altra parte accadde in Francia, ai tempi di Napoleone, allorché -dice Marx- si pretese di eliminare l'accattonaggio col tribunale della polizia correzionale e i penitenziari (p. 123). La critica di Marx è tutta rivolta alla concezione interclassista dello Stato che ha l'anonimo Prussiano. E' lo Stato in sé e non una certa forma di Stato ad essere incapace di risolvere i problemi sociali (p. 125). Gli Stati moderni possono ritenere la miseria una legge di natura, dovuta all'aumento sproporzionato della popolazione rispetto ai mezzi di sussistenza, possono ritenerla un effetto della cattiva volontà dei poveri, che non vogliono uscire dalla loro condizione, possono ritenerla la conseguenza dell'atteggiamento non cristiano dei ricchi, possono anche decidere, come nel periodo della Rivoluzione francese, di ghigliottinare i proprietari sospettati d'essere controrivoluzionari, ma in ogni caso gli Stati -dice Marx- non possono risolvere questo problema senza negarsi come tali (p. 126). "Lo Stato infatti poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica, sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari. L'amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa, poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina il suo potere"(p. 126). "L'impotenza è la legge di natura dell'amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo stato moderno..."(ib.). La situazione paradossale, secondo Marx, è che "quanto più potente è lo Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a ricercare nel principio dello Stato, dunque nell'odierno ordinamento della società, della quale lo Stato è l'espressione attiva, autocosciente e ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il principio generale"(p. 127). Nel secondo articolo contro il medesimo anonimo Prussiano, Marx sostiene che "nemmeno una delle rivolte degli operai francesi e inglesi possedette un carattere così teorico e consapevole quale la rivolta dei tessitori slesiani... dove il proletariato proclama il suo antagonismo con la società della proprietà privata, in modo chiaro, tagliente, spregiudicato e possente"(p. 130). E lo spiega: "Non soltanto vengono distrutte le macchine, queste rivali degli operai, ma anche i libri commerciali, i titoli di proprietà, e mentre tutti gli altri movimenti si volgevano innanzitutto contro il signore dell'industria, il nemico visibile, questo movimento si volge contemporaneamente contro il banchiere, il nemico nascosto"(p. 131). Marx inoltre considera Weitling (specie nell'opera Garanzie dell'armonia e della libertà 1) importante tanto quanto Proudhon. Proprio in virtù dell'opera di Weitling, Marx arriva ad affermare "che il proletariato tedesco è il teorico del proletariato europeo, così come il proletariato inglese ne è l'economista e il proletariato francese il politico"(p. 131). E prosegue dicendo che "si deve ammettere che la Germania possiede una tanto classica vocazione per la rivoluzione sociale quanto è incapace di una rivoluzione politica"(ib.). La Germania infatti ha una borghesia debole, ma può avere un proletariato forte. Solo che non deve lasciarsi ingannare dalla politica e dai suoi sostenitori, come appunto l'anonimo Prussiano, i quali ritengono che i problemi sociali saranno risolti quando la Germania avrà raggiunto una forte consapevolezza politica. Marx, al contrario, sostiene che "quanto più formato e generale è l'intelletto politico di un popolo, tanto più il proletariato -almeno all'inizio del movimento- consuma le sue forze in insensate, inutili sommosse soffocate nel sangue. Poiché esso pensa nella forma della politica, scorge il fondamento di tutti i mali nella volontà e tutti i mezzi per rimediarvi nella violenza e nel rovesciamento di una determinata forma statale"(p. 134). Lo Stato -secondo Marx- va eliminato, in quanto espressione di una società civile alienata, dominata dal principio della proprietà privata: quanto più questa si libera di ciò che tiene divisi i cittadini, tanto meno questi avranno bisogno dello Stato. "La comunità dalla quale l'operaio è isolato è una comunità dì ben altra realtà e di ben altra estensione che non la comunità politica. Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l'attività umana, l'umano piacere, la natura umana"(p. 135). L'uomo è più importante del cittadino, e la vita umana, sociale è più importante della vita politica (p. 136). "Una rivoluzione sociale si trova dal punto di vista della totalità perché - se pure ha luogo unicamente in un distretto industriale - essa è una protesta dell'uomo contro la vita disumanizzata, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale, perché la comunità, contro la cui separazione da sé l'individuo reagisce, è la vera comunità dell'uomo, la natura umana. L'anima politica di una rivoluzione consiste al contrario nella tendenza delle classi politicamente prive di influenza a eliminare il proprio isolamento dallo Stato e dal potere. Il suo punto di vista è quello dello Stato, di una totalità astratta, che sussiste soltanto attraverso la separazione dalla vita reale, che è impensabile senza l'antagonismo organizzato tra l'idea generale e l'esistenza individuale dell'uomo. Una rivoluzione dell'anima politica perciò, organizza anche, conformemente alla natura limitata e discorde di quest'anima, una cerchia dirigente nella società a spese della società"(p. 136). Con questo Marx non vuol dire che non occorra fare una "rivoluzione politica". Anzi lo conferma a chiare lettere, ma con una precisazione: "La rivoluzione in generale - il rovesciamento del potere esistente e la dissoluzione dei vecchi rapporti - è un atto politico. Senza rivoluzione però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa, non appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si scrolla di dosso il rivestimento politico"(p. 137). Inutile dire quanto siano ancora attuali queste considerazioni sul ruolo della politica. 1) Wilhelm Weitling (1808-1871), sarto e filosofo tedesco, il primo teorico tedesco del comunismo. Pur dipendente dal socialismo evangelico di F.R. de Lamennais, offrì un contributo importante alla formazione di una coscienza proletaria di classe. Nel 1836, recatosi a Parigi, aderisce alla "Lega dei Giusti", cui avevano aderito Karl Schapper, Heinrich Bauer, Karl Pfänder e Georg Eccarius. La "Lega dei Giusti", sostanzialmente una società di cospiratori influenzata dalle concezioni di Blanqui e di Babeuf, fu travolta dalla sconfitta toccata alla "Società delle stagioni" il 12 maggio 1839: Schapper e Bauer dovettero, dopo lunga prigionia, abbandonare la Francia e riparare a Londra. Engels definì i limiti della "Lega" nel carattere artigiano tedesco e idealmente corporativo dei suoi esponenti: cosa che impediva dal costituirsi coscientemente in partito proletario. Si credeva fermamente nell'eguaglianza, nella fratellanza e nella giustizia e si era fermamente ignoranti in fatto di economia politica. Weitling pubblica L'umanità com'è e come dovrebbe essere (1838). Nel 1839 si rifugia in Svizzera. Pubblica Garanzie dell'armonia e della libertà (1842) e Il vangelo di un povero peccatore (1843). Nel 1844, espulso dalla Svizzera, viene consegnato al governo prussiano e condannato a dieci mesi di carcere per attività sovversiva ed empietà. Emigra quindi in Inghilterra dove collabora per qualche tempo con K. Marx e F. Engels; si stabilisce infine a New York dove muore in miseria. Fu incluso da Marx ed Engels - sebbene non giungessero a citarlo espressamente nel Manifesto - nel gruppo dei "comunisti egualitari" dominato dalle idee di Babeuf. Il passo del Manifesto in cui si parla del sottoproletariato può anche essere interpretato come una velata allusione a Weitling, tant'è vero che sia questi che Bakunin vedevano nel Lumpenproletariat l'elemento più leale e sicuro della rivoluzione. Weitling non ammetteva la necessità, nel cammino verso il comunismo, di un periodo di transizione nel quale la borghesia agisca come classe dirigente, cosa che lo distanziò da Marx. Secondo lui, il modo migliore per instaurare un diverso ordine sociale consisteva nel portare il disordine sociale esistente a un livello tale da far esaurire la pazienza del popolo. Benché Marx salutasse con entusiasmo l'apparizione, nel 1842, del libro di Weitling Garanzie dell'armonia e della libertà, ruppe definitivamente con lui il 30 marzo 1846, quasi un anno prima della fondazione della "Lega dei comunisti". TESI SU FEUERBACH [I] Marx qui critica il materialismo meccanicistico, metafisico, filosofico. Egli afferma che la "realtà", da questo materialismo, è sempre stata concepita "solo sotto la forma di oggetto" (come nelle scienze applicate: ad es. la fisica) oppure di "intuizione" (come nelle scienze esatte: matematica, geometria... o nello stesso materialismo filosofico di Feuerbach). Marx, in sostanza, denuncia una visione riduttiva della realtà, indirettamente influenzata dalla religione o dalla metafisica, che hanno sempre considerato la realtà (o la natura) come un qualcosa di "dato", d'intangibile, da contemplare filosoficamente o da studiare tecnicamente (non socialmente). Ciò che è mancato a questa forma di materialismo è stata la comprensione del rapporto dialettico tra uomo e natura (o meglio, tra uomo e realtà oggettiva, materiale, ambientale: il che implica non solo la natura ma anche il rapporto sociale). In questa tesi Marx vuole rivendicare il lato "soggettivo" (creativo) del materialismo, cioè l'attività sensitiva umana -com'egli la definisce-, la prassi in grado di modificare le cose, la realtà. Giustamente egli afferma che "il lato attivo è stato sviluppato dall'idealismo" (si pensi p.es. alla scoperta della dialettica, ma anche alla stessa attività pratica delle forze sociali che si richiamano all'idealismo), semplicemente perché il materialismo non ha saputo andare al di là dell'oggettività della materia, cioè non ha saputo scorgere il legame organico tra materia e soggettività. Secondo il materialismo meccanicistico, in effetti, l'uomo non è che un elemento della materia, passivo e insignificante. L'idealismo -secondo Marx- ha sì sviluppato il lato "attivo" dell'uomo, ma qui bisogna sottintendere "in maniera astratta", poiché esso è incapace di vera attività reale sensitiva. L'idealismo è una forma d'intellettualismo (alienato, perché separato dalla realtà sociale): la sua attività resta circoscritta nell'ambito del mero pensiero. Marx, prima di queste Tesi, aveva già criticato l'idealismo hegeliano, e qui arriva a considerare il materialismo metafisico come sostanzialmente più "onesto", più "genuino" dell'idealismo, anche se a quest'ultimo riconosce una maggiore perfezione sul piano speculativo. Marx condivide con Feuerbach lo sforzo di voler superare l'idealismo (hegeliano soprattutto, che faceva dipendere il processo della realtà dal processo del pensiero). Per l'idealismo tedesco, infatti, è il pensiero che fa muovere la realtà o è comunque il pensiero che ha il compito di conciliare l'uomo con le contraddizioni della realtà. Le contraddizioni -dirà Marx- nella realtà restano, ma nel pensiero vengono risolte, per cui -per l'idealista- lo sono anche nella realtà. Tuttavia Feuerbach -dice Marx- non è riuscito a scorgere una vera "oggettività" nell'"attività umana stessa". Infatti, pur avendo con acume separato "gli oggetti sensibili realmente" dagli "oggetti del pensiero", rivendicando alla materia una certa irriducibilità alle forzature speculative (e conservatrici) dell'idealismo, pur avendo cioè riaffermato l'originalità, il primato della materia rispetto all'idea, allo spirito, al pensiero, Feuerbach è rimasto sostanzialmente un idealista, suo malgrado, o comunque un materialista tradizionale, filosofico. Il materialismo è stato sviluppato, da lui, solo in maniera teoretica, intuitiva, non pratica. Feuerbach, in effetti, non si è mai lasciato coinvolgere nell'attività politico-sociale del suo tempo, ma solo in quella teorico-culturale (vedi ad es. la critica alla religione e alla filosofia hegeliana). Marx invece tiene a precisare che uno sviluppo pratico del materialismo implica un'attività "rivoluzionaria", "pratico-critica", e non solo "critica". Feuerbach fu soltanto un intellettuale isolato, un docente universitario, uno scrittore, nel migliore dei casi un conferenziere. Da notare comunque che Marx non fa coincidere (in questo testo) l'attività rivoluzionaria con quella strettamente politica, ma con l'attività sociale in senso lato (aspetto "pratico" vero e proprio) e con quella culturale (aspetto "teoretico"). La "critica" dipende da entrambe le attività, e la politica non è che una conseguenza delle due attività. Marx era già giunto alla consapevolezza che un'attività politica staccata dall'attività socioculturale, non era che una forma di alienazione. Dopo aver scoperto (prima in Germania e poi soprattutto in Francia) l'importanza dell'attività pratica, Marx denuncia i limiti di Feuerbach. L'attività rivoluzionaria, in questo periodo, coincideva, per Marx, con l'attività sociale del proletariato e della borghesia progressista, democratica, e con l'attività politico-culturale, critico-intellettuale del filosofo di idee socialcomuniste. Per il Marx del 1845 l'attività politico-parlamentare andava nettamente rifiutata, in quanto ritenuta effetto di un'alienazione sociale e a sua volta causa di nuova alienazione (Marx, nella critica alla Filosofia del diritto di Hegel, aveva già evidenziato la separazione tra Stato e società civile: la politica -secondo lui- non aveva altro scopo che di garantire tale separazione). La politica, per il giovane Marx, era fonte di compromessi non di alternative, era "ragion di Stato", cioè opportunismo, calcolo, interesse... non "prassi rivoluzionaria". La politica "giustifica" (al pari dell'idealismo, della religione, della filosofia in generale e persino del materialismo di Feuerbach, contro le sue stesse migliori intenzioni), mentre il problema vero, per Marx, è quello di come "modificare" l'esistente. Marx scopre l'importanza della politica extraparlamentare, cioè l'importanza di un partito organizzato solo dopo il 1848, a contatto con il socialismo utopistico francese, cioè dopo il fallimento del moto spontaneo del proletariato in funzione anti-borghese. Il '48 infatti rappresenta soltanto il successo di un moto spontaneo contro l'aristocrazia e il clericalismo: la classe che erediterà i risultati migliori sarà la borghesia, che tradirà gli interessi del proletariato. [II] La critica più radicale che Marx potesse fare contro l'idealismo e il materialismo metafisico, è quella secondo cui la prassi è il criterio della verità. Naturalmente anche qui bisogna dare per scontato che Marx si riferisse alla prassi socioculturale, considerata come l'unica in grado di stabilire (e si dovrebbe aggiungere, "a posteriori") dove sta la verità o la falsità di un'idea. Questo limite di Marx, che non accetta di includere nel concetto di prassi rivoluzionaria anche la dimensione della politica, era considerato allora, da un rivoluzionario o comunque da un oppositore del sistema prussiano, un pregio, soprattutto se per attività politica s'intende solo quella parlamentare. Per la prima volta, infatti, gli intellettuali rivoluzionari davano dignità a tanta gente esclusa a priori dalla politica: essi stessi rinunciavano a carriere prestigiose (a livello politico o accademico). Per la prima volta si affermava che era più "vera", più "autentica", più "dignitosa" la prassi del popolo oppresso e sfruttato, che non quella dei politici o quella di coloro che con la politica del governo cercano sempre dei compromessi. Marx dunque tendeva a privilegiare due tipi di attività: quella pratica, spontanea, delle masse oppresse, e quella teorica, consapevole, dell'intellettuale comunista. Quanto, in questo, egli si sia lasciato influenzare dal socialismo utopistico, è facile intuirlo. La differenza fra l'utopia e la scienza, nell'ambito del socialismo europeo, stava, ai tempi di Marx, più sul piano teorico che pratico: semplicemente Marx non riteneva che il capitalismo potesse essere riformato. Il distacco di Marx da Proudhon avverrà proprio su questo punto, e purtroppo sarà un distacco non solo ideologico ma anche politico, danneggiando i rapporti che il socialismo scientifico poteva avere, nella realizzazione di determinati obiettivi programmatici, con il socialismo utopistico. [III] La prassi può essere criterio di verità quando non pone un "prima" o un "dopo" nel processo d'interazione dell'uomo con l'ambiente sociale. L'uno e l'altro devono trasformarsi contemporaneamente, influenzandosi a vicenda. Marx qui critica il materialismo del socialismo utopistico, che mirava a costruire un ambiente già "socialista" in una società ancora "capitalista". Il problema vero, per Marx, era invece quello di come conciliare, in maniera progressiva, il superamento dell'ideologia borghese con il superamento di tutta la società borghese. Detto in altri termini: il socialismo di Marx tendeva a riporre più fiducia nelle capacità di trasformazione globale dell'uomo e non s'illudeva che nella società borghese si potessero costruire delle "isole di socialismo", in cui fosse assente l'influenza del capitalismo. Oggi, in Europa occidentale, queste "isole di socialismo" esistono ancora: sono quelle create da taluni preti progressisti o quelle di certe comunità di vita per i tossicodipendenti. "Isole" che sopravvivono grazie al sostegno, più o meno diretto, di alcuni ambienti della stessa società borghese. Su questo la critica del socialismo scientifico è sempre stata giusta. [IV] Qui Marx critica quella forma di materialismo filosofico che pensa di poter superare le contraddizioni della società borghese indirizzandosi verso l'ateismo (si veda ad es. la Sinistra hegeliana). Il distacco di Marx da Feuerbach, ma anche dal socialismo anticlericale e da tutte le forme di anarchismo irreligioso alla Bakunin, è qui molto evidente. L'ateismo può mettere in luce il rapporto organico tra alienazione pratica della società borghese e illusione teoretica (costituita appunto dalla religione o da altre forme di "oppio"), ma non può assolutamente superare l'alienazione pratica, poiché questa può essere rimossa solo praticamente, in modo rivoluzionario. Marx però non spiega il modo concreto in cui la rivoluzione possa essere fatta: ancora non è maturata, in seno al materialismo dialettico, l'esigenza di un partito politico che guidi il proletariato. Quando parla di "rivoluzione", Marx pensa a un moto spontaneo delle masse più oppresse, e a un livello mondiale o comunque europeo, poiché gli paiono maturi i tempi per una sollevazione del genere. Qui sta il suo limite, anche perché così, da un lato, non si cercano rapporti politici con movimenti e organizzazioni che non si riconoscono in toto con il socialismo scientifico, e dall'altro si è costretti ad assumere, nei confronti del capitalismo, un atteggiamento passivo, in attesa che le "sofferenze", subite a causa dello sfruttamento, portino le masse a reagire. [V] Marx qui afferma che Feuerbach, al massimo, è arrivato a scoprire l'"intuizione sensibile", cioè il primato delle funzioni sensorie, mostrando che la conoscenza passa necessariamente attraverso i sensi, e che quindi il pensiero non può agire come se l'uomo fosse privo di sensibilità. Tuttavia -e Marx qui lo ribadisce- a Feuerbach è mancata la consapevolezza del lato pratico o sociale di questa sensibilità, che non può essere ridotta alla funzione fisiologica. Nel materialismo di Feuerbach l'uomo è rimasto un ente astratto, più astratto di quello hegeliano, perché ancora più isolato dal contesto sociale. Feuerbach ha rivendicato un primato della sensibilità dell'individuo singolo contro la razionalità dello Stato e della società civile prussiana: quella razionalità che tutta la Sinistra hegeliana (e quindi anche Feuerbach) riteneva ovviamente "irrazionale". [VI] In questa tesi è racchiusa la definizione più importante del materialismo dialettico: l'uomo è "l'insieme dei rapporti sociali". Non può quindi esistere una definizione astratta, univoca, di "uomo", né una definizione concreta che non tenga conto dell'ambiente in cui il singolo vive. Feuerbach ha cercato di dare dell'uomo un'interpretazione filosofica; Marx invece ne vuole dare una di tipo sociale, che riguardi l'ontologia dell'essere sociale. Se si prescinde dalla dimensione sociale, si cade -secondo Marx- in due limiti: 1) quello di considerare l'uomo come singolo, cioè astrattamente (questo era il limite di tutta la Sinistra hegeliana, soprattutto di Stirner); 2) quello di considerare l'uomo come specie, cioè naturalisticamente (le scienze applicate infatti tendono a separare l'uomo dall'ambiente o a considerare per "ambiente" solo quello della natura). Dire invece che l'uomo è "l'insieme dei rapporti sociali", significa che per comprendere un determinato individuo bisogna analizzare l'ambiente che frequenta. Ciò naturalmente non implica che si debba considerare l'uomo come un "mero prodotto" del suo ambiente, ma soltanto che, per comprenderlo in maniera adeguata, non si può prescindere dall'ambiente in cui vive. Che poi questo individuo s'impegni anche a modificare il proprio ambiente o che invece lo subisca passivamente, questo è un altro discorso. Qui Marx non parla -come alla tesi III- del fatto che "anche l'educatore va educato". [VII] Interessante è il fatto che Marx supera Feuerbach non solo nella valorizzazione del lato sociale del materialismo, ma anche (come di conseguenza) nell'interpretazione della vera natura del fenomeno religioso. Marx è stato il primo a considerare tale fenomeno come un prodotto non tanto della debolezza psicologica dell'uomo (come ha fatto Feuerbach), né della mera speculazione arbitraria del clero, politicamente ed economicamente interessata (come voleva l'illuminsimo progressista), ma piuttosto come un "prodotto sociale", di una determinata società. Ciò ha avuto delle implicazioni notevoli, di cui le principali sono state l'esclusione a priori di qualunque forma di rozzo anticlericalismo e l'esclusione di qualunque analisi superficiale, epifenomenica, della religione. Se questo non è stato fatto, nel corso dello sviluppo del socialismo scientifico, la responsabilità non può certo essere attribuita a Marx. In questa tesi per la prima volta si pongono le basi di un'analisi scientifica dell'alienazione religiosa, che parta dalle contraddizioni sociali, cui spetta, nell'ambito della conoscenza, un primato assoluto. Solo col materialismo dialettico si è, p.es., potuto capire che l'alienazione religiosa non era conosciuta in quelle tribù primitive che pur nel rapporto con la natura erano molto più deboli dell'uomo della civiltà industriale. Oggi poi si è addirittura arrivati a credere che nei confronti della natura è più debole la civiltà industrializzata, poiché lo sfruttamento massiccio delle risorse provoca conseguenze devastanti sull'ambiente. [VIII] La scoperta della prassi è stata, in realtà, la scoperta del fatto che nella prassi l'uomo si forma e con la prassi l'ambiente si trasforma. Il venir meno di questa prassi sociale, che è l'esigenza primaria dell'uomo (ciò che gli conferisce non solo una dignità ma anche la sua stessa identità), comporta sempre l'emergere del misticismo o di quelle forme d'idealismo (anche rozze) che non tengono conto della realtà. Il fatto stesso che Marx non abbia mai scritto un trattato sulla prassi o sulla dialettica, ma si sia limitato spesso -come in questo caso- a brevi e geniali intuizioni (le vere opere di analisi iniziano solo col soggiorno in Inghilterra) sta proprio ad indicare che l'uomo può vivere la prassi solo vivendola, cioè non può illudersi di viverla speculandoci sopra con l'astrazione del pensiero. La prassi come criterio della verità non è una definizione da acquisire teoricamente, una volta per tutte, ma anzi è un impegno da verificare continuamente, nei confronti di chiunque. Il pensiero più vero e originale è quello che riflette adeguatamente la realtà, che va vissuta quotidianamente, nel presente, nella sua valenza dialettica, cioè considerando tutti i nessi che la caratterizzano (sociali, culturali e politici). L'astrazione ha senso solo come momento sintetico di un'esperienza vissuta. Le Tesi su Feuerbach, in tal senso, fecero il punto dell'esperienza sociale, culturale e politica del giovane Marx in Francia. L'esperienza politica fu, delle tre, la meno significativa: lo si comprende anche dal fatto che Marx, nel fare il punto della situazione, scelse proprio Feuerbach come termine di confronto da superare. Anche L'ideologia tedesca risente dello stesso limite. [IX] Cadere nel misticismo o nell'idealismo astratto (che non è tanto quello di chi non s'impegna per realizzare i propri ideali, ma quello di chi nel realizzarli non s'accorge d'avere ideali illusori) significa giustificare lo status quo, cioè l'alienazione della società antagonistica. In tal senso, non è paradossale ma del tutto naturale che il materialismo intuizionista (cioè metafisico) si limiti a porsi come mera contemplazione di individui singoli della "società borghese". Chi si estranea dalle esigenze della prassi, che pur ha compreso, si ritrova a vivere nelle stesse condizioni (anzi in condizioni peggiori) dell'individuo "integrato" al sistema... L'osservazione che Marx ha rivolto a Feuerbach potrebbe in realtà essere riferita a tutte quelle esperienze estremistiche di sinistra, che si limitano a fare discorsi ideologici sull'alienazione sociale, senza però impegnarsi attivamente a risolverla: quelle esperienze cioè che spesso sconfinano nel terrorismo o nell'intolleranza settaria, e che attendono con impazienza che un qualche evento catastrofico le autorizzi a sentirsi legittimate nella loro azione anti-istituzionale. [X] Il criterio che discrimina il vecchio dal nuovo materialismo è per l'appunto l'esperienza, qui ed ora, di una forte umanizzazione dei rapporti sociali, contro ogni forma (non solo politica) di alienazione, verso la trasformazione globale della società. L'unica garanzia di successo che il nuovo materialismo può far valere è appunto quella di offrire, da subito, un'alternativa praticabile a livello di rapporti sociali umanizzati. [XI] Marx qui avrebbe dovuto abbandonare la filosofia e darsi completamente alla politica, che è lo strumento principale per realizzare gli obiettivi della trasformazione sociale, soprattutto nell'ambito di una società antagonistica come quella capitalistica. Quella politica, ovviamente, che non dimentica il valore e anzi la priorità dell'esperienza sociale, da cui dipende la stessa credibilità della politica. Forse Marx avrebbe dovuto tornare subito in Germania, mettendo a frutto l'esperienza francese. Lo farà, in effetti, nel 1848, ma confidando troppo nelle capacità spontanee di ribellione della piccola borghesia e del proletariato. Viceversa, le Tesi su Feuerbach, invece di essere la premessa di un immediato coinvolgimento nell'attività politica, furono la premessa involontaria dell'Ideologia tedesca, la cui importanza teoretica non è certo superiore a quella delle Tesi in oggetto. Marx perse del tempo prezioso nell'elaborare il suo definitivo distacco dalla Sinistra hegeliana (su questo Engels non lo seguì sino in fondo); sicché quando giunse il '48, il Manifesto non fu un documento sufficiente per mobilitare le masse, né quelle francesi (egemonizzate dal socialismo utopistico) né quelle tedesche (politicamente arretrate e divise). Il Manifesto, infatti, fu soprattutto carente nella parte organizzativa e operativa. Il limite del giovane Marx era ed è quello di moltissimi intellettuali occidentali del suo e del nostro tempo, i quali, mentre sul piano teoretico sono in grado di fare importanti scoperte per la trasformazione della società borghese, sul piano pratico invece non sono capaci di una vera coerenza, di un'adeguata conformità ai valori, ai principi affermati nella teoria, cioè di far passare attraverso le masse le idee rivoluzionarie. Alle origini della concezione materialistica della storia. Le "Tesi su Feuerbach" Marx scrisse le famose Tesi su Feuerbach nel 1843, durante il processo di maturazione intellettuale che condusse lui ed Engels a staccarsi dalla sinistra hegeliana e da Feuerbach stesso. Sebbene questi brevi note non fossero intese per la pubblicazione - divennero infatti pubbliche decenni dopo ad opera di Engels che le ritrovò in un quaderno dell'amico e compagno - sono diventate celebri nel movimento comunista mondiale. L'ultima tesi in particolare è ormai celeberrima: "i filosofi hanno solo interpretato diversamente il mondo si tratta di cambiarlo". Le tesi ruotano attorno a un'idea: il materialismo come filosofia non può limitarsi al piano ontologico. L'esistenza del reale indipendente dall'essere, dalla coscienza, è una posizione inutile. Il materialismo contemplativo, passivo è il materialismo dello status quo. L'essenza del materialismo non è l'esistenza di un mondo sensibile, dunque conoscibile, fuori dal soggetto. Il vero materialismo è il riconoscimento che l'azione, la prassi sono alla base della conoscenza. Solo quando l'uomo agisce l'esistenza del mondo acquista un significato, solo la pratica può dare un ruolo alla teoria. Il riconoscimento del primato della prassi, del ruolo della prassi per la stessa conoscibilità del reale è il nucleo del materialismo storico. Dice Marx: "Il difetto capitale di ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che... la realtà viene concepita solo sotto forma di oggetto... ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente. Di conseguenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione al materialismo, dall'idealismo" (Tesi I) Il materialismo dunque, rinunciando a porre la questione della prassi, slegando la conoscibilità astratta del mondo dal percorso concreto della conoscenza, ha abbandonato il campo all'idealismo. Il riconoscimento del ruolo necessario del soggetto nella conoscenza non è affatto una concessione all'idealismo. Al contrario, è proprio una posizione passiva, contemplativa che apre la strada al soggettivismo. "La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero - isolato dalla prassi - è una questione meramente scolastica." (Tesi II) Questa formulazione, presa a sé, è abbastanza acerba. Sembra quasi andare nella direzione dello strumentalismo filosofico, negando ogni ruolo indipendente ad una discussione ontologica sul reale. E' normale che Marx, venuto dopo Hegel e Feuerbach, nella formulazione del metodo del materialismo dialettico, stesse "storcendo il bastone" nel senso della prassi. Ma il significato epistemologico di questa tesi è profondo. La teoria e la prassi non sono momenti separati della conoscenza. La prassi è la via della conoscenza. Non del suo sorgere, del quale, in un certo senso ci dimentichiamo dandolo per buono, ma del suo ingresso nella vita dell'uomo. Questa posizione serve anche da antidoto al materialismo reazionario. Marx spiega nelle tesi successive che le circostanze, l'ambiente, la realtà, sono in perenne modificazione e che parte di questa modificazione è indotta dal soggetto stesso, il quale a sua volta subisce gli effetti del cambiamento. L'idea di separare l'oggetto e il soggetto della conoscenza in due mondi separati è dunque vana. La pratica del soggetto pone capo alla conoscenza, svela i misteri della conoscenza. La conoscenza è il risultato dell'interazione di oggetto e soggetto. Questo significa la fine di ogni idealismo, di ogni teoria della Idee come separate dal mondo. Le idee sono un prodotto dell'uomo, dell'evoluzione sociale dell'uomo. "Tutta la via sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi." (Tesi VIII) Le teorie non cascano dal cielo ma sono il risultato della prassi, della vita dell'uomo. La loro realtà, verità non è dunque separata dalla società stessa. Il vecchio materialismo, in quanto nega il cambiamento, è dunque una concezione reazionaria: "Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto di vista del materialismo nuovo è la società umana" (Tesi X) Il proletariato, la "società umana" come dice il giovane Marx, deve dunque dotarsi di una propria filosofia, il "nuovo materialismo". "I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo." (Tesi XI) Come si vede, troviamo in queste tesi, appena abbozzati, i principi fondamentali della concezione materialistica della storia. Il legame tra conoscenza e prassi, tra teoria e società. La pratica della trasformazione rivoluzionaria del reale come unica definitiva corroborazione di una determinata posizione scientifica. Naturalmente, non è ancora la concezione materialistica della storia. Per quella occorrerà attendere alcuni mesi di maturazione teorica (lo studio dell'economia politica inglese e dei socialisti utopisti) e di sviluppo pratico del movimento rivoluzionario. Con L'Ideologia Tedesca, Marx ed Engels disvelarono al mondo la più importante rivoluzione scientifica della storia, la concezione materialistica della storia. I MANOSCRITTI DEL '44 Nei Manoscritti economico-filosofici del '44 (ed. Einaudi) Marx non vede mai le lotte politiche condotte dai contadini contro i feudatari, ma solo il servo della gleba docilmente sottomesso al latifondista. Marx dà per scontato che se il contadino feudale non è riuscito a costituire un'alternativa al servaggio, non potrà farlo neppure nei confronti del capitalismo, tant'è che, a suo avviso, i piccoli agricoltori sono destinati a essere "divorati" dai più grandi e quest'ultimi o vengano rovinati dalla concorrenza dei capitalisti o si trasformano essi stessi in capitalisti. Non c'è nel marxismo classico la cultura storica dell'alternativa. Marx è un determinista, anche se a differenza degli economisti borghesi- vede il capitalismo come una formazione sociale transitoria. Per Marx lo scontro è tra "la volgarità aperta, cosciente di sé" del capitalista e quella "nascosta e incosciente" del nobile feudale (p. 96). I contadini sono soltanto, in questo dramma storico, delle comparse poco significative. E comunque Marx afferma chiaramente di preferire "la brama [borghese] del possesso" a quella feudale del "godimento"; anche perché il borghese è di natura "ateo" (con la sua "ragione rischiaratrice"), mentre il nobile resta "credente" (con la sua "superstizione"). Si legga ora questo pensiero, che il Marx economista maturo avrebbe dovuto sviluppare e che invece fu abbandonato: "In quanto [l'industria] è un genere particolare di lavoro [rispetto al servaggio], in quanto è una distinzione essenziale, importante, vitale, questa distinzione rimane sino a che l'industria (la vita cittadina) si costituisce avendo di fronte il possesso fondiario (la vita aristocratica del feudo) e reca ancora in se stessa il carattere feudale di questo contrasto sotto forma di monopoli, consorterie, gilde, corporazioni ecc. [da notare che per Marx i "monopoli" sono più una caratteristica del feudalesimo che del capitalismo], situazioni storiche determinate entro le quali il lavoro ha ancora un significato apparentemente sociale, ha ancora il significato della comunità reale, non è ancora arrivato sino all'indifferenza rispetto al proprio contenuto, cioè non è arrivato ancora a essere completamente indipendente, cioè ad essere astratto ad ogni altro essere e quindi anche a essere un capitale emancipato"(2^ Manoscritto). Il giovane Marx aveva in sostanza intuito che il capitalismo aveva portato alle estreme conseguenze negative l'apparente socialità della vita feudale (apparente appunto perché soggetta al servaggio). dando al lavoro un contenuto astratto (a motivo del primato del valore di scambio), rendendo così il lavoro un'attività completamente separata dalla comunità d'origine, ovvero subordinando tutto il lavoro all'interesse particolare dei singoli capitalisti. Tuttavia, invece di guardare indietro, cercando di recuperare quanto ancora di "sociale" esisteva nel Medioevo, Marx ha preferito guardare soltanto avanti, dando per scontato che nulla poteva essere salvato del passato. Probabilmente a ciò si era risolto perché aveva visto che tanti proprietari fondiari s'erano trasformati in capitalisti agrari. Marx in sostanza aveva intravisto un preciso legame tra economia borghese e religione cristiana, cioè aveva capito che le radici culturali della nascita del capitalismo andavano cercate in una negazione teorica e non solo pratica dei principi del cristianesimo (a differenza del feudalesimo, che invece pretese di affermare in sede teorica ciò che non riuscì mai a realizzare in sede pratica). Tuttavia Marx non volle mai ammettere sino in fondo che tale negazione teorica non servì affatto a recuperare l'uomo naturale e razionale. L'emancipazione teorica dalla superstizione cristiana non comportò affatto, in maniera automatica, una umanizzazione dei rapporti sociali, anzi, il capitalismo, che pur ebbe bisogno di quella emancipazione per imporsi, non fece che accentuare ulteriormente l'alienazione nella vita sociale. Quando, nel 3^ Manoscritto, Marx afferma che all'economia politica borghese "appaiono come feticisti, come cattolici, i seguaci del sistema monetario e mercantilista che considerano la proprietà privata per l'uomo come un'essenza soltanto oggettiva"(p. 101), egli aveva in sostanza capito che il capitalismo, se poteva nascere in un paese cattolico, nella forma del capitale usuraio o commerciale, di certo non avrebbe potuto svilupparsi autonomamente nella forma del capitale industriale se non in un paese protestante. Purtroppo queste acute osservazioni del giovane Marx sono rimaste lettera morta, anche nel marxismo contemporaneo. Dice ancora a p. 102: "l'uomo viene posto nella determinazione della proprietà privata, come da Lutero viene posto nella determinazione della religione". Cioè è l'uomo che deve acquistare "proprietà privata" col suo lavoro o con lo sfruttamento del lavoro altrui, per potersi definire "uomo", non è più la terra che gli conferisce onore e rispettabilità. Così è il credente con la sua fede astratta, che può dimostrare d'essere "vero cristiano", rinunciando o dimenticando tradizioni, sacramenti, gerarchia ecc. L'individualismo borghese coincide con l'individualismo protestante. Marx, tuttavia, non si lascia qui ingannare dalla rivoluzione cristiano-borghese, in quanto egli sa bene che dietro detta rivoluzione si nascondono altre forme di ipocrisia, diverse ma non meno grandi di quelle del mondo feudale. "Così, sotto l'apparenza di un riconoscimento dell'uomo, l'economia politica... non è... altro che la messa in atto conseguente della negazione dell'uomo...(p. 102), poiché se prima era la proprietà della terra che dava senso all'identità dell'uomo, ora è il profitto estorto con lo sfruttamento del lavoro salariato. Marx infatti dice che l'economia politica borghese è ipocrita in quanto pone il lavoro (e non il lavoro non pagato, cioè -come dirà il Marx maturo- il plusvalore) in antitesi alla rendita, facendo passare il capitalista per un lavoratore e il feudatario per un ozioso gaudente. Nei Manoscritti (p. 112) Marx nega che il futuro comunismo abbia qualcosa da spartire col passato comunismo (netto il suo distacco da Cabet e dagli altri socialisti utopisti franco-tedeschi). "Se mai esso [comunismo primitivo] sia qualche volta esistito -sostiene Marx-, proprio il fatto di essere esistito nel passato è in contraddizione con la pretesa di valere come essenza". Qui Marx nega un qualunque valore ontologico al comunismo primitivo, semplicemente perché non ne vede alcuna traccia nel suo presente. Se esso è scomparso significa che doveva scomparire. "Si vede facilmente la necessità che l'intero movimento rivoluzionario trovi la propria base tanto empirica che teoretica nel movimento della proprietà privata..."(p. 112). Cioè il comunismo moderno deve svilupparsi negando la moderna proprietà privata. e non tanto ripristinando quella collettiva del comunismo primitivo. La proprietà privata -secondo la concezione deterministica di Marx, che è tutta di derivazione hegeliana- è una "necessità storica"(p. 113). Marx esclude che sia il frutto di una libertà negativa: di qui il suo scarsissimo interesse a rivalutare le formazioni economiche pre-capitalistiche. Pertanto egli vuole che anche il comunismo venga considerato come una "necessità storica". "L'essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore"(pp. 116-7). La scienza naturale, in senso lato, "ha preparato l'emancipazione dell'uomo, pur avendo dovuto immediatamente condurre a compimento la sua disumanizzazione"(p. 121). Da notare che nei Manoscritti Marx intuisce perfettamente la necessità di una rivoluzione pratica o politica, che elimini la proprietà privata, ma poi, al momento di proporla, si trova nuovamente a dissertare di filosofia, o comunque, considerando che la critica dell'idealismo hegeliano è precedente agli studi di economia politica, Marx -esattamente come farà qualche anno dopo, concludendo il Manifesto con la critica dell'ideologia politica socialista (utopistica e riformistica)- sul piano organizzativo non è in grado di proporre alcunché. I Manoscritti sono comunque un libro molto importante, perché mostrano un Marx assai più risoluto di quello del Capitale. Il fatto stesso d'aver esordito parlando del salario e non della merce, è indicativo della volontà di non voler fare un trattato di economia politica ma semplicemente la denuncia di un insopportabile antagonismo sociale. K. MARX, LETTERA AD ANNENKOV (1846) Pavel Vasilevic Annenkov (Mosca 1813 - Dresda 1887): critico e pubblicista liberale russo, visse con Gogol' a Roma (che gli dettò il primo volume di Anime morte) e fu amico di Turgenev. Negli anni 1853-56, insieme a Nekrasov e Turgenev forma una specie di triumvirato che gestisce le sorti della letteratura pietroburghese, collaborando alle principali riviste del tempo: "Annali patri", "Il Contemporaneo". "Annali patri" fu il più autorevole periodico democratico e occidentalista russo, in continua polemica con i giornali conservatori slavofili. Ha scritto Puskin nell'epoca di Alessandro I (1875), Problemi storici ed estetici del romanzo "Guerra e pace" di L.N. Tolstoj (1868), Lo straordinario decennio 1838-1848 (1880, memorie). Conobbe Marx durante i suoi viaggi all'estero. Marx risponde alla lettera di Annenkov del 1 novembre 1846 (cfr. MEGA III/2, p. 316), in cui questi gli chiedeva un giudizio sull'opera di Proudhon Système des contradictions économiques. Annenkov rispose a sua volta a Marx, per ringraziarlo, con la lettera del 6 gennaio 1847 (cfr. MEGA III/2, pp. 321-322). * * * La lettera di Marx è stata scritta originariamente in francese il 28/12/1846 a Bruxelles: trattasi di un parere, un'impressione generale, sul libro di Proudhon, La filosofia della miseria, contro cui scriverà Miseria della filosofia tra la fine del 1846 e il giugno del 1847. Annenkov avrà quindi modo di vedere in anteprima le critiche di Marx al testo di Proudhon. Marx si era trasferito da Parigi a Bruxelles nel febbraio del 1845, dopo l'ennesima espulsione. Generalmente si fa risalire al 1846 l'inizio della sua e di Engels attività politica vera e propria. Infatti il Comitato di Corrispondenza comunista (la prima organizzazione politica creata da Marx ed Engels) fu costituito a Bruxelles (sede di molti rifugiati tedeschi) nel febbraio di quell'anno, allo scopo di tenere collegati tutti i comunisti europei e soprattutto quelli tedeschi. In quello stesso anno Marx romperà non solo con la Sinistra hegeliana e Feuerbach, ma anche con Weitling, Kriege e soprattutto con Proudhon (forte la critica anche contro la Lega dei Giusti, con sede a Londra). Ciò che non sopportava assolutamente erano tutte le idee di socialismo artigianale, filosofico, sentimentale, neocristiano... Marx ed Engels volevano una "rivoluzione violenta e democratica", fondata su conoscenze economiche molto approfondite, sebbene in Germania non esistesse ancora un partito organizzato e attivo. Il partito doveva nascere dal basso verso l'alto e non doveva essere una "società segreta" né qualcosa che assomigliasse al partito giacobino, favorevole a un colpo di stato. Notevoli, in tal senso, erano le simpatie nei confronti del Cartismo, specie per la sua ala radicale. Proudhon, sebbene fosse stato favorevole alla rivoluzione all'inizio degli anni '40, aveva smesso di crederci: di qui la critica di Marx. * * * Annenkov sembra essere convinto che il libro di Proudhon, Filosofia della miseria, pur essendo molto limitato sul piano filosofico, possa essere ritenuto valido su quello economico. Marx invece ribalta la cosa dicendo che Proudhon offre "una teoria filosofia assurda perché è incapace di comprendere l'odierna situazione sociale nel suo engrènement..."(p. 217), cioè nel suo "ingranaggio". Quindi Proudhon non è solo un mediocre filosofo (nella lettera a Schweitzer del 1865 Marx dirà che "Proudhon sta a Saint-Simon e a Fourier press'a poco come Feuerbach sta a Hegel"), ma anche un pessimo economista. A Marx era piaciuto, sia nella "Gazzetta Renana" che nella Sacra Famiglia, un altro libro di Proudhon: Che cos'è la proprietà?, ma già nei Manoscritti del '44 aveva iniziato a prenderne le distanze, giudicando Proudhon debitore di Fourier. Nella lettera ad Annenkov la prima critica di Marx è relativa al fatto che siccome Proudhon capisce poco di economia, è costretto a spiegare le contraddizioni più complesse ricorrendo al misticismo. Marx qui delinea molto sinteticamente la sua concezione della storia (concezione economica della storia o concezione della storia economica?). Gli uomini ereditano dalle generazioni precedenti determinate forze produttive ("energia umana pratica", "materia prima per una nuova produzione", p. 219). "La storia sociale degli uomini non è altro che la storia del loro sviluppo sociale, ne siano essi coscienti o no"(ib.). Dopodiché aggiunge: "I loro rapporti materiali sono la base di tutti i loro rapporti". In che senso la "base"? E' importante saperlo perché è "base" di tutti i rapporti. Poco sopra aveva scritto: "Scegliete stadi particolari di sviluppo della produzione e avrete un'organizzazione corrispondente della famiglia, degli ordini e classi..."(p. 218). Dunque i "rapporti materiali" sono i rapporti strettamente connessi a ciò che in ultima istanza dà un senso alla materialità della vita: la proprietà. Sulla base della tipologia e dell'uso di questa proprietà si può dedurre la tipologia della famiglia, delle classi, dei ceti... in una parola il rapporto antagonistico che gli uomini vivono nelle società, nelle civiltà. Non si può dar torto a Marx su questo: in effetti, da quando son nate le civiltà è la proprietà il criterio utile per cercare di capirle. Tuttavia Marx astrae da ciò che non è "economico". Egli infatti sostiene che sono i rapporti "materiali", quelli connessi al concetto di "proprietà", che costituiscono la "base" di tutti i rapporti. Cioè i rapporti sociali non si autorappresentano, poiché all'interno di questi rapporti Marx ha bisogno di estrapolare un aspetto particolare: quello economico, ponendolo al disopra di tutti gli altri. E non solo riduce il rapporto sociale a rapporto economico o materiale, ma isola questo rapporto dalle altre due sfere che gli sono strettamente connesse: il culturale e il politico. A dir il vero la sfera culturale (sostanzialmente la filosofia e la critica della religione) ha interessato Marx fino al maggio 1846, data in cui ha chiuso la stesura con Engels dell'Ideologia tedesca. Mentre per quanto riguarda la politica, va detto che quella attiva vera e propria lo riguarderà sino a quando emigrerà a Londra, mentre quella in senso lato lo interesserà tutta la vita. Max insomma non vede l'uomo come una sintesi dei tre aspetti, come un tutto unico e integrato, ma vede sostanzialmente solo i rapporti di proprietà, i quali danno un senso a tutto il resto. Qual è la differenza tra questa concezione e quella borghese? E' la stessa che passa tra il sistema hegeliano e il metodo hegeliano della dialettica: il primo è conservatore, il secondo è rivoluzionario. Se Hegel fosse stato coerente coi principi affermati in sede filosofica, avrebbe dovuto lottare contro lo Stato prussiano e non difenderlo sino all'ultima pubblicazione. La differenza di sostanza sta nel fatto che per la borghesia i rapporti di proprietà privata sono un totem da adorare; per Marx invece da distruggere. Egli infatti sostiene che la necessità di "mutare tutte le forme sociali tradizionali"(p. 219) serve per adeguare i rapporti produttivi alle forze produttive ed egli è altresì convinto che il modo migliore di utilizzare le forze produttive acquisite grazie al capitalismo sia quello di realizzare dei rapporti sociali ove la proprietà non sia privata ma pubblica o sociale. E' la logica dell'interesse, non quello per il profitto privato ma quello per il bene comune, che deve far scattare la rivoluzione. Ovviamente anche la borghesia fa continuamente un discorso di adeguamento dei rapporti alle forze produttive, ma lo fa senza mai mettere in discussione i limiti della proprietà privata dei mezzi produttivi. Anche la borghesia è mossa da un interesse, ma è quello privato dei profitti. Come si può notare sembra non esistere una differenza abissale tra Marx e la borghesia. La differenza sta piuttosto nella "forma sociale" con cui Marx vorrebbe che fossero gestite le forze produttive. Egli infatti non mette in discussione il valore, la legittimità, la tipologia di tali forze, ma piuttosto l'involucro in cui vengono utilizzate, che è quello dell'industria privata. Qui siamo nel '46 e da quello che dice pare che Marx voglia sperare di convincere la borghesia ad accettare in maniera indolore, come una "necessità storica", la transizione dal capitalismo al socialismo. Lui stesso d'altra parte nella lettera è disposto ad accettare come cosa necessaria la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Infatti, il feudalesimo permise, seppure in maniera nascosta, non ufficiale, l'accumulo di capitali, il commercio transoceanico, la fondazione delle colonie, e quando queste realtà si svilupparono -dice Marx-, il feudalesimo non fu più in grado di opporvisi, e se lo fece con la forza, con la forza venne distrutto (p. 220). Marx ragiona in termini hegeliani, anche se ha tolto all'hegelismo ogni sovrastruttura mistica. Proudhon non capisce l'economia perché non sa applicare ad essa la categoria hegeliana della necessità storica. Marx non ragiona mai col "se ipotetico", non si chiede mai cosa sarebbe potuto accadere se fossero state fatte scelte diverse. Lui si considera come uno scienziato che prende le cose come un dato di fatto, dopodiché le analizza a fondo sul piano economico per riuscire a proporre il modo migliore per farle funzionare. In un certo senso si comporta come uno scienziato della natura, con la differenza che l'oggetto dei suoi studi è l'homo oeconomicus. Ecco perché vede Proudhon come un hegeliano vecchia maniera, che spiega la realtà partendo dalle idee, invece di andare a cercare nella realtà stessa le ragioni del suo sviluppo. Tuttavia i metodi di Marx erano troppo radicali perché una qualunque borghesia li potesse accettare. Persino negli ambienti del socialismo utopistico risultavano inaccettabili. In effetti, di diverso tra Marx e gli ideologi borghesi (e i socialisti utopistici) è soprattutto il modo di concepire l'adeguamento dei rapporti alle forze produttive. Marx crede poco ai processi spontanei o pacifici, anche se non li esclude a priori. Anzi, il Capitale è in fondo un gigantesco tentativo di dimostrare la necessità di un processo che se fosse avvenuto in maniera spontanea sarebbe stato un bene per tutti, in quanto avrebbe fatto risparmiare innumerevoli sofferenze. Tuttavia in questo periodo (1846-49) Marx è tutt'altro che un politico tollerante e la lettera ad Annenkov lo dimostra. A suo giudizio Proudhon rappresenta in Francia la quintessenza del tradimento degli intellettuali di sinistra, che da rivoluzionari sono diventati al massimo riformisti. Ecco perché in luogo di una transizione indolore, Marx preferisce pensare a un "grande movimento storico che sorge dal conflitto tra le forze produttive già conquistate dagli uomini e le loro relazioni sociali, che non corrispondono più a queste forme produttive"; a "guerre terribili che si preparano tra le diverse classi entro ciascuna nazione e tra nazioni differenti"; all'"azione pratica e violenta delle masse che è l'unica via attraverso la quale questi conflitti si possono risolvere"(p. 229). La "violenza" rivoluzionaria come "unica via" - Marx è esplicito, e non solo in questa lettera privata, anche perché ha già sperimentato su di sé il fallimento del compromesso della Sinistra hegeliana con la borghesia liberale tedesca. Marx è stato non solo espulso dalla Germania ma anche dalla Francia. Per questo non voleva farsi illusioni. E crede fermamente nella necessità di un "movimento politico" popolare, di massa, che risolva le contraddizioni tra capitale e lavoro. Cioè non vuole più un compromesso tra proletariato e borghesia, tra società civile e Stato politico. Vuole una rivoluzione come quella francese dell'89, dove il protagonista non sia la borghesia ma il proletariato. Notevole è la sua descrizione del socialismo piccolo-borghese di Proudhon: "In una società progredita e costrettovi dalla propria situazione, il piccolo borghese diventa da un lato socialista, dall'altro economista, cioè egli è accecato dallo splendore della grande borghesia ed ha compassione per le sofferenze del popolo. Egli è borghese e popolo al tempo stesso. Nell'intimo della sua coscienza si lusinga di essere imparziale, di aver trovato l'equilibrio giusto, che avanza la pretesa di essere qualcosa di diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli non è altro che la contraddizione sociale messa in azione. Egli deve necessariamente giustificare mediante la teoria ciò che egli è nella pratica, e Proudhon ha il merito di essere l'interprete scientifico della piccola borghesia francese; e questo è un merito reale, perché la piccola borghesia sarà una parte integrante di tutte le rivoluzioni sociali che si stanno preparando"(p. 231). Quindi Marx non esclude la possibilità di un'intesa politica con la piccola-borghesia: non a caso, dopo la costituzione del Comitato di Corrispondenza comunista, Marx cercherà proprio con Proudhon di costruire, per la parte relativa alla Francia, la rete europea dei comunisti, ma dopo il ripiegamento di quest'ultimo verso posizioni moderate, la rottura sarà inevitabile e definitiva. Il giovane Marx non poteva accettare compromessi che non giustificassero la necessità della rivoluzione. Persino un "largo settore" del partito comunista tedesco -com'egli dice nella lettera ad Annenkov- lo ostacola, poiché non sopporta le sue critiche alle "utopie" e alle "declamazioni"(p. 232). Oggi tuttavia, guardando le cose col senno del poi, ci chiediamo quali garanzie di democrazia per il socialismo scientifico possa offrire una trasformazione della proprietà da privata a sociale. Marx non dice nulla su questo, almeno in questa lettera (però vedi la Critica al programma di Gotha del 1875). La trasformazione sembra essere uno slogan, o un compito da porsi non prima ma dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico. Non a caso nella Russia bolscevica si arrivò a fare coincidere "sociale" con "statale", determinando la più grande illusione di tutto il socialismo reale. Noi sappiamo che la grandezza di Marx sta nell'aver avuto il coraggio di dire, dimostrandolo concretamente, che il capitalismo non può essere considerato come una formazione sociale destinata a durare in eterno, e che le stesse categorie dell'economia politica borghese sono destinate ad essere superate, e sappiamo anche che a Marx non piaceva né la concorrenza (a questa preferiva l'emulazione tra operai o imprese), né ovviamente il monopolio (come anche in questa stesse lettera dice, cfr p. 226). Per realizzare il comunismo ci vuole un progetto che indichi, a grandi linee, non solo il modo di conquistare il potere, ma anche quello di gestirlo dopo averlo preso, perché le questioni sociali, culturali, di valore, non sono meno importanti delle strategie politiche e delle analisi economiche. Altrimenti si rischia di condividere idee che di per sé sono inaccettabili, come queste di Proudhon, che Marx riprende senza neppure criticarle: "La schiavitù diretta, la schiavitù dei negri a Surinam, in Brasile, nelle regioni meridionali del Nordamerica... è il cardine del nostro industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l'America del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese patriarcale. Si cancelli l'America del nord dalla carta delle nazioni e si avrà l'anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni. Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l'America dalla carta delle nazioni. Così pure la schiavitù, essendo una categoria economica, si trova presso tutti i popoli fin dall'inizio del mondo. Le nazioni moderne hanno saputo semplicemente mascherare la schiavitù nei loro paesi e introdurla apertamente nel Nuovo Mondo"(p. 226). * * * Oggi possiamo dire che qualunque progetto relativo al socialismo democratico non può prescindere da un riesame delle civiltà precapitalistiche e addirittura primitive. Gli intellettuali marxisti non hanno mai apprezzato il pre-capitalismo, e in questo sono figli dell'ideologia borghese, e sostanzialmente non hanno mai messo in discussione il progresso scientifico e tecnologico e quindi l'impatto ch'esso ha avuto non solo sugli uomini ma anche sulla natura. Oggi sappiamo che nelle civiltà primitive o primordiali (il "previous", come si potrebbe definire), il vero progresso stava nell'assicurarsi facilmente una riproduzione compatibile con la riproduzione della natura. E' da questo che bisogna partire. Se dovessimo decidere un criterio per determinare quando un mezzo tecnico è davvero utile, dovremmo dire ch'esso lo è, anzitutto, quando è compatibile con le esigenze riproduttive della natura, che dobbiamo conoscere preventivamente, ancor prima di decidere qualunque tipologia di formazione sociale. Questo perché il progresso economico o tecnologico non è di per sé un indice sicuro del miglioramento dello stile di vita di una società o civiltà. Noi dobbiamo abituarci a considerare l'economico come strettamente subordinato al sociale. Il "sociale" è la vera dimensione che indica il "benessere" di una collettività. Nel sociale l'economico è solo una parte, altre parti sono, oltre al già citato rispetto della natura, il rispetto di ogni persona, anche quella meno produttiva in rapporto a una media generale, anche quella del tutto improduttiva, perché impedita da qualcosa; quindi il rispetto della diversità: fisica, etnica, linguistica o di concezioni di vita. Se non si chiarisce che il sociale abbraccia molti più campi dell'economico, si finisce col formulare degli enunciati che, a motivo della loro astrattezza, genericità e ambiguità, risultano falsi in partenza o falsati nelle loro immediate applicazioni. Il discrimen che distingue una formazione sociale da un'altra è proprio il carattere umano, democratico, conforme alle esigenze della natura, che si è in grado di far valere. Una caratteristica del genere non può essere patrimonio di una singola classe sociale: o appartiene all'insieme del collettivo o è falsa. Cioè anche se è una classe che la fa valere, questa stessa classe deve avere come obiettivo qualcosa di più generale. Quando nell'antica Grecia si affermò la democrazia sull'aristocrazia o sull'oligarchia o sulla dittatura, si trattava sempre di una conquista politica ottenuta in un sistema sociale basato sullo schiavismo e sulle differenze di classe. Considerare più utile al socialismo il concetto greco di democrazia che non la democrazia praticata (non codificata da leggi scritte) dalla comunità primitiva di villaggio, significa avere un concetto di democrazia non molto diverso da quello dei teorici borghesi. E' in tal senso da escludere a priori che il socialismo possa accettare alcunché dal mondo borghese o da qualunque altra civiltà che non nasca da esigenze specifiche dello stesso socialismo, le quali non possono essere dettate dall'alto. Si può ritenere possibile che una rivoluzione possa essere condotta con l'aiuto di intellettuali professionisti o comunque di cittadini e lavoratori più disponibili o più consapevoli di altri, ma è da escludere a priori che tali soggetti, a rivoluzione compiuta, possano accampare più diritti del popolo lavoratore. E' assurdo pensare che le rivolte contadine o operaie, antiborghesi o antifeudali, dei secoli precapitalistici siano fallite perché i rivoltosi erano poco consapevoli delle contraddizioni sociali o dei loro interessi di classe. Questa mancanza di consapevolezza esiste tutt'oggi, nonostante sia notevolmente aumentato il livello culturale generale. Le rivoluzioni del passato non sono fallite perché mancava il "Capitale" di Marx. Per realizzarsi, le rivoluzioni non avevano bisogno di trattati di economia. E' vero che non può esistere "prassi rivoluzionaria" senza "teoria rivoluzionaria", ma è anche vero che senza coerenza e determinazione rivoluzionaria, da parte di intellettuali e masse oppresse, senza organizzazione e divulgazione capillare delle idee rivoluzionarie, ogni definizione di "teoria" e di "prassi rivoluzionaria" rischia di rimanere puro flatus vocis. Ecco perché il marxismo non può fare a meno del leninismo. Poiché la reazione controrivoluzionaria non si farà attendere, occorre sempre una resistenza popolare: una rivoluzione che non si sa difendere, non vale nulla, diceva Lenin. Bisognerebbe trovare una legge che indichi la proporzione tra fallimento della rivoluzione e consapevolezza rivoluzionaria necessaria per compiere la rivoluzione successiva. IL MANIFESTO Il concetto di "rivoluzione", attribuito dal marxismo alla borghesia, va rivisto, poiché non è più accettabile l'idea che una rivoluzione della vita socioeconomica (dal punto di vista materiale, tecnico e produttivo), comporti di per sé un progresso significativo sul piano dei valori umani universali. Di quale "rivoluzione" si può parlare laddove esiste il peggior sfruttamento dell'uomo e della natura che mai la storia abbia conosciuto? Certo, la borghesia è stata progressista rispetto alla classe feudale, parassitaria quanto mai, ma i difetti del sistema borghese sono infinitamente superiori ai suoi pregi, e di questo era possibile accorgersi anche prima che la borghesia acquisisse il potere politico. Probabilmente nell'Europa occidentale la borghesia è andata al potere perché la società feudale, pur accorgendosi dei limiti dell'attività economica borghese, non aveva saputo trovare valide alternative al servaggio e al clericalismo. La lotta del mondo contadino contro le illusioni religiose e la soggezione feudale non riuscì a darsi gli strumenti per superare il servaggio senza cadere nel lavoro salariato. Riconoscere una funzione rivoluzionaria alla borghesia, non può implicare, neppure indirettamente, una qualche sottovalutazione delle capacità di resistenza politica e sociale della classe contadina nei confronti non solo dell'emancipazione borghese, ma anche dello sfruttamento nobiliare. Anche perché si finirebbe col negare alla società feudale un valore socioeconomico positivo (si pensi ad es. all'autoconsumo, alla valorizzazione delle risorse locali, al primato del valore dell'uso su quello di scambio, ecc.). Non dobbiamo dimenticare che la società feudale del Basso Medioevo si è imbarbarita anche in risposta all'emergere della borghesia. Il feudalesimo ha perso la sua battaglia contro il capitalismo semplicemente perché si era limitato a difendere ad ogni costo i privilegi acquisiti. D'altra parte l'emergere della prassi borghese, in Europa occidentale, è dipeso anche dalle contraddizioni interne alla società feudale: se il servaggio non fosse stato così radicale e se la chiesa che lo difendeva non fosse stata così lontana dagli interessi delle classi popolari, probabilmente il capitalismo non sarebbe nato, o sarebbe nato con meno violenza o con più ritardo, oppure avrebbe incontrato -come nell'Europa dell'est- una resistenza diversa, basata non sulla difesa del passato (vedi ad es. il populismo) ma sulla ricerca di nuove soluzioni (socialismo scientifico). Nel Manifesto Marx afferma che la differenza tra lo sfruttamento feudale e quello borghese stava semplicemente nel fatto che il primo era "velato da illusioni religiose e politiche", mentre il secondo è "aperto, senza pudori, diretto e arido". Il motivo di ciò va ovviamente ricercato nella progressiva emancipazione dalla religione cattolica: di essa la borghesia conservò il carattere autoritario e oppressivo, ma si liberò delle forme più clericali ed ecclesiastiche. Essendo più libera di agire, la borghesia poté sviluppare il proprio atteggiamento ateistico perfezionando i mezzi produttivi sino al punto da rivoluzionare tutta la società. La vera rivoluzione della borghesia è stata quella industriale, poiché è da questa che dipende tutto il resto. Oggi stiamo costatando che lo sfruttamento borghese delle risorse naturali e umane comporta delle conseguenze molto più tragiche di quello feudale. Ecco perché non è più possibile pensare, neanche come "storici", che lo sfruttamento borghese è, nonostante tutto, da preferire a quello feudale. La scelta di superare il feudalesimo col capitalismo è stata senza dubbio molto lenta, ed è stata fatta, probabilmente, non solo nella consapevolezza di non avere valide alternative, ma anche nella speranza di poter ottenere un futuro migliore. Tuttavia, oggi possiamo volgere lo sguardo indietro e chiederci se la scelta compiuta sia stata la migliore, ovvero se le cose potevano andare diversamente. Il Manifesto non è in grado di rispondere a questa domanda. Non è neppure in grado di rispondere alla domanda -che Lenin stesso si poneva- relativa ai mezzi e modi concreti per superare la società borghese senza ricadere in quella feudale. Esso offre solo delle indicazioni molto generali. Di una cosa comunque occorre essere certi: il fatto che l'uomo della società borghese sia giuridicamente "libero", mentre quello della società feudale era soggetto a vincoli di carattere personale, non deve farci credere che, in ultima istanza, lo sfruttamento borghese sia più sopportabile di quello feudale. Marx ha detto che lo sfruttamento borghese è "senza veli": in realtà esso ne conserva uno analogo a quello che la chiesa applicava al servaggio. La chiesa garantiva la libertà nell'aldilà, la borghesia invece la garantisce da subito, ma solo per se stessa. La borghesia non è che una forma laicizzata (giuridica) dell'illusione, della mistificazione compiuta dalla chiesa sul terreno religioso. La borghesia fece un notevole progresso in direzione dell'ateismo, ma restando all'interno della logica dello sfruttamento economico, vanificò i risultati della sua emancipazione ideologica. La borghesia infatti è costretta ad ammettere lo stesso dualismo di teoria e prassi della chiesa cattolica. Marx nel Manifesto lesse il fenomeno dello sviluppo capitalistico con gli occhi del filosofo impegnato politicamente, non con quelli dello storico dell'economia (come invece farà nel Capitale). Il limite del Manifesto sta appunto nella sua impostazione: con una sorta di "filosofia della storia" il giovane Marx aveva la pretesa di sollevare le masse proletarie contro il capitalismo. Il Che fare? di Lenin è impostato in modo molto più operativo. La conseguenza quale è stata? L'astrattezza, e soprattutto una certa prevalenza dell'elemento ideologico su quello politico-organizzativo. L'importanza della classe contadina Marx la scoprirà come "storico", Lenin come "politico". Nel Manifesto si ha la netta impressione che Marx apprezzi la superiorità del capitalismo sul feudalesimo, soprattutto perché la borghesia ha saputo emanciparsi ideologicamente dal dominio della religione. Di conseguenza Marx non può mettere in discussione la scelta borghese di puntare il proprio benessere economico sullo sviluppo forzato dell'industrializzazione. L'industria infatti appare al giovane Marx come lo strumento principale per emanciparsi dal feudalesimo. Il proletariato non deve fare altro che togliere questo strumento alla borghesia, che l'ha privatizzato, e costruire una società più umana e socializzata. Marx non avrebbe mai ammesso che tra lo sfruttamento e l'ateismo borghesi da un lato, e lo sfruttamento e la religiosità medievale dall'altro, probabilmente quest'ultimi erano più "sopportabili" (meno cinici, meno brutali). Nel Manifesto Marx tende a giustificare il superamento del servaggio coll'emancipazione dal clericalismo, ma questa sua posizione è di tipo illuministico. Solo col tempo egli si renderà conto che la religione non costituisce di per sé un fattore più alienante dello sfruttamento economico. Marx tuttavia non arriverà mai a studiare in quali aspetti la religiosità medievale può essere considerata meno alienante dell'ateismo borghese (la società feudale, pur con tutti i suoi limiti, esprimeva un senso del collettivo superiore a quello della società borghese: ciò non poteva non avere un riflesso sull'ideologia). E' quindi ingiusto affermare che la borghesia "ha strappato una parte notevole della popolazione all'idiotismo della vita rustica" - come si dice nel Manifesto. Come si può sostenere che la borghesia "ha reso dipendenti dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini da quelli borghesi, l'Oriente dall'Occidente"? Cioè, come si può sostenere che il "popolo borghese" sia, solo perché più evoluto tecnologicamente, più "civile" di quello contadino, o che l'Occidente capitalistico e protestante sia più "civile" dell'Oriente feudale e ortodosso? Si può forse far coincidere strettamente "civiltà" e "sviluppo produttivo"? Si può veramente considerare più "evoluta" quella civiltà che in nome del progresso economico, della scienza e della tecnica distrugge l'ambiente, provoca squilibri ecologici, mette in forse la stessa sopravvivenza del genere umano? Peraltro, siamo veramente sicuri che sia un segno di progresso o di civiltà l'aver creato, da parte della borghesia, "una sola nazione, un solo governo, una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine doganale"? Tutto ciò è stato senza dubbio un progresso per la borghesia, ma lo è stato anche per tutte le altre classi? Sarebbe stata possibile tutta questa centralizzazione senza la soggezione della stragrande maggioranza dei lavoratori o senza lo sfruttamento selvaggio delle colonie? E' stato veramente un segno di sicuro progresso l'aver unificato tutto in nome dello sfruttamento capitalistico? Nessuno mette in dubbio che "i rapporti feudali di proprietà [ad un certo punto] non corrispondevano più alle forze produttive già sviluppate" e che pertanto bisognava spezzare quelle "catene", ma la soluzione scelta dalla borghesia era l'unica possibile? Forse per il fatto che s'è imposta dobbiamo essere indotti a credere che, in ultima istanza, essa fosse la migliore? Nell'accettare l'inesorabilità della scelta capitalistica, Marx non s'è forse lasciato influenzare eccessivamente dalla mentalità protestante? Bisogna però valutare attentamente questa frase che Engels mise in una nota del Manifesto, che aiutava a spiegare la seguente perentoria affermazione: "La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi". Scrive Engels nell'edizione inglese del 1888: "Vale a dire, tutta la storia scritta. Nel 1847, la preistoria della società - l'organizzazione sociale esistente prima della storia tramandata per iscritto - era poco meno che sconosciuta. Da allora, Haxthausen scoprì la proprietà comune della terra in Russia, Maurer dimostrò che essa era la base sociale da cui presero avvio tutte le razze teutoniche nella storia, e presto ci si rese conto che le comunità paesane erano, o erano state, dappertutto la forma primitiva della società, dall'India all'Irlanda. L'organizzazione interna di tali società comunistiche primitive venne svelata, nella sua forma tipica, dalla grande scoperta di Morgan della vera natura della gens e della sua relazione con la tribù. Con il dissolvimento di queste comunità primordiali la società iniziò a differenziarsi in classi separate e, successivamente, antagoniste. Ho cercato di ripercorrere questo processo di dissolvimento in Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Stoccarda 1886)". In realtà dunque non è mai esistito alcun conflitto di classe nel periodo, infinitamente più lungo della storia dell'uomo, chiamato impropriamente "preistoria". DIALETTICA MARXIANA ED HEGELIANA: Nel Poscritto alla IIa edizione del Capitale, Marx se la prende con coloro che avevano equiparato il suo metodo dialettico a quello hegeliano. In effetti, laddove al cap. XXIV egli afferma che "la produzione capitalistica partorisce dal suo seno, con la necessità d'un processo della natura, la propria negazione" (e cioè il proletariato), era facile scorgere un riferimento al modo d'esprimersi hegeliano. Nel Poscritto Marx reagisce all'accusa di aver plagiato Hegel dicendo, a chiare lettere, che "per Hegel il processo del pensiero... è il demiurgo della realtà, mentre la realtà è solo il suo fenomeno esteriore. Invece per me il fattore ideale è solamente il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini". Fin qui la differenza di metodo, tra i due, è evidente. Anzi, Marx, riconoscendo il valore del suo antico maestro, si vanta di aver adottato la dialettica hegeliana (ovviamente senza il "rivestimento mistico") per dimostrare che il capitalismo è solo una formazione sociale destinata -come tutte le formazioni sociali- ad essere storicamente superata. Il che dovrebbe mostrare -lascia intendere Marx- che l'uso della dialettica è più conseguente nel Capitale che non nella Scienza della logica. In realtà, se c'è un testo marxiano in cui l'uso della dialettica assomiglia di più a quello hegeliano, questo è proprio il Capitale. Non è infatti sufficiente, per essere antidealisti, sostenere che "il fattore ideale non è che il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini". Un'affermazione del genere non esclude di per sé il rischio di cadere nel materialismo metafisico. Se ad essa non si aggiunge che il "fattore ideale" può essere usato dagli uomini per opporsi al riflesso negativo sulla loro mente, prodotto dalla realtà antagonistica del capitalismo; se in luogo di questo si preferisce sostenere che il superamento del capitalismo avverrà in maniera "naturale", cioè spontanea, necessaria, inevitabile, a causa delle contraddizioni interne al sistema e non tanto a causa della lotta politica contro tali contraddizioni - allora il rischio di cadere nell'idealismo (rivestito questa volta dell'analisi economica) diventa non meno inevitabile. Per uscire veramente dai limiti dell'idealismo non è sufficiente criticare l'economia politica borghese: occorre un diverso atteggiamento nella prassi, quello politico-rivoluzionario. Il tempo impiegato nel cercare di analizzare le contraddizioni economiche del capitalismo è meglio impiegarlo per cercare di superarle politicamente, facendo leva sugli effetti ch'esse producono nella vita dei lavoratori. L'analisi economica di quelle contraddizioni potrà essere fatta dopo la rivoluzione socialista, se ve ne sarà ancora il bisogno. In questo sta la differenza tra Marx e Lenin e chiunque abbia la pretesa di dire che Lenin non ha mai avuto la profondità analitica di Marx, dimostrerebbe soltanto di non aver capito nulla del marxismo. OSSERVAZIONI SULL'IMPIEGO DELLA DIALETTICA NEL PENSIERO MARXIANO - 1 1) Da Hegel a Marx, evoluzione del metodo 2) La dialettica in Marx: a dialettica propriamente detta; la 'dialettica' come compenetrazione 3) Implicazioni della dialettica marxiana: il 'realismo' scientifico; il posto della libertà umana nella filosofia marxiana 4) Il rapporto dello storicismo marxiano con quello hegeliano 1) Da Hegel a Marx, evoluzione del metodo Il merito della scoperta del metodo dialettico va ascritto a Hegel, il quale ha interpretato il divenire storico come un procedimento di tesi-antitesi-sintesi, ovvero di: posizione, (sua) contraddizione, contraddizione della contraddizione (ovvero risoluzione della contraddizione stessa). E' questa la legge a porsi, secondo Hegel, a base del divenire storico. Egli infatti vede nell'Idea ovvero nell''astratto", il 'succo' stesso del divenire dialettico: la dialettica essendo il movimento attraverso il quale l'Idea si aliena da se stessa e, successivamente, ritorna a se stessa. Due sono perciò i punti attorno a cui ruota il pensiero hegeliano: a) il movimento dialettico; b) l'Idea che, attraverso tale movimento (di tesi-antitesi-sintesi), esce da sé (si aliena) e infine ritorna a se stessa. Tale pensiero è la somma di due concetti: quello di dialettica e quello di Spirito, Pensiero o Idea: è insomma la 'dialettica dell'Idea'. Anche il pensiero marxiano viene definito 'dialettico': e tuttavia una tale definizione non è di per sé sufficiente e richiede un'integrazione: il pensiero di Marx è infatti definito 'materialismo dialettico'. Perché materialismo dialettico? Perché in esso il binomio tra Idea e dialettica viene superato, in funzione di un altro più realistico binomio: quello tra materia (ossia il mondo, la concretezza, e in generale le reali forze che muovono il mondo e che si muovono in esso.) e dialettica. In altri termini, quello descritto da Marx non è il movimento dell'Idea nella storia, bensì quello della storia stessa, intesa come l'insieme delle forze sociali reali (in eterna trasformazione) che la costituiscono. Da una posizione ingenua, che ha tuttavia indiscutibilmente il merito di inquadrare una tale problematica (quella dialettica) a un livello astrattamente logico, si passa così a una evoluzione realistica e 'scientifica' della stessa; in questo senso il marxismo costituisce un innegabile avanzamento rispetto alla filosofia hegeliana. [Si badi però che, merito non indifferente di Hegel, è l'aver fondato un paradigma di ricerca divenuto oggi tanto indispensabile quanto spesso inconsapevole: quello che intende la verità o la ricerca su un dato argomento come comprensione del suo sviluppo storico, ovvero in una parola come lo studio della sua evoluzione. Un paradigma, quello evolutivo, che è stato fatto proprio forse più dalla ricerca scientifica che da quella filosofica: si pensi ad esempio alle moltissime discipline scientifiche che - partendo dalla psicologia per arrivare alla cosmologia - hanno fatto della problematica storica ed evolutiva il nodo essenziale, quando non fondamentale, della propria indagine.] Tornando a Marx, e allo sviluppo che nel suo pensiero ha avuto il metodo dialettico, è da notare come tale evoluzione 'materialista' implichi anche - dati i diversi presupposti che ne sono a base - un profondo cambiamento e uno 'snaturamento' di quello stesso metodo, come veniva inteso da Hegel. Oggetto di questo scritto è appunto la differenza tra i due diversi metodi nonché, ovviamente, il funzionamento peculiare della dialettica marxiana (ovvero materialistica e scientifica). 2) La dialettica in Marx: La filosofia marxiana è tanto diversa, non solo quanto a ideali politici, ma anche quanto all'uso che in essa viene fatto della metodologia di Hegel, che alcuni studiosi hanno cercato di mostrare come in realtà tale filosofia non sia veramente dialettica. Per costoro infatti, il pensiero di Hegel (con la sua visione idealistica e quindi 'astratta' del divenire) è stato solo uno spunto, quasi una traccia per Marx, il quale ha successivamente sviluppato - seppure a partire da Hegel - una concezione della storia troppo scientifica, troppo realistica per poter essere correttamente definita come una concezione dialettica (ovvero basata su tesi-antitesi-sintesi) - e ciò anche se a tale definizione si aggiunga il termine 'materialista'. Tale visione, fondamentalmente errata, di un Marx non dialettico, ha tuttavia delle basi molto solide, che riposano su alcuni elementi di ambiguità presenti nella stessa teoria marxiana. Si mostrerà infatti, qui avanti, come il pensiero di Marx (e di Engels) contenga al suo interno alcune distinzioni che ne rendono - qualora rimangano sottintese - estremamente difficile una comprensione del tutto chiara e coerente. La distinzione fondamentale che bisogna fare è quella tra due diversi modi in Marx di intendere la dialettica: quello dialettico in senso proprio, e quello tale solo in senso improprio (vedremo più avanti perché improprio, e cosa ciò implichi). a - La dialettica propriamente detta Sin dagli scritti giovanili, Marx riconosce esplicitamente il proprio debito nei confronti di Hegel (filosofo amato e quasi venerato, ma anche a tratti duramente criticato per le sue posizioni politiche), inquadrando essenzialmente tale debito nella scoperta fatta da Hegel della forza della negatività come motore della storia e del divenire. Da questo punto di vista, Marx è e resta un pensatore genuinamente dialettico. La sua visione del divenire storico infatti, implica che i differenti periodi che ne scandiscono l'evoluzione conoscano - schematicamente parlando - prima una parabola ascendente (all'interno della quale sviluppano i propri presupposti positivi) e successivamente una parabola discendente (nella quale invece le forze produttive, oramai troppo sviluppate, finiscono per superare i presupposti alla base di tale periodo, entrando in contraddizione con esso, e determinandone così la crisi). Anche qui dunque - come in Hegel - è evidente come a una fase positiva ne segua una negativa, che in sostanza contraddice la prima (ecco appunto la tesi e la sua antitesi!). Vi è poi il terzo momento, quello in cui avviene il superamento della contraddizione precedentemente delineata (quella cioè tra le 'nuove' forze produttive e quelle sovrastrutture che in una determinata società detengono, per ragioni ormai meramente storiche, il potere direttivo). E' qui riconoscibile in qualche modo l'idea hegeliana della sintesi, ovvero del superamento della contraddizione precedente (se vogliamo, la 'contraddizione della contraddizione'). In questi termini, la concezione marxiana è pienamente dialettica, con tutto ciò che questo comporta: essa infatti adombra una concezione deterministica della storia, secondo la quale l'autonomo sviluppo delle forze produttive (ovvero sociali) determina necessariamente, a un certo punto della propria maturazione, uno scollamento tra le due dimensioni che sono alla base di qualsiasi società: quella strutturale e quella sovra-strutturale (i poteri politici e le tradizioni culturali, ideologiche, ecc.) Ogni paradigma sociale è dunque destinato a generare da se stesso la propria contraddizione e successivamente il proprio superamento. E' qui chiaramente visibile il processo per tesi, antitesi e sintesi, con le sue implicazioni 'idealistiche': ovvero l'ineluttabilità del divenire storico e dei suoi passaggi, che lo rendono in qualche modo esprimibile attraverso uno schema astratto, ideale (quale può essere ad esempio la schematizzazione marxiana della storia come susseguirsi di differenti periodi: società tribale, schiavistica, feudale, ecc.). Ma vi è anche, nella filosofia marxiana, un differente uso del concetto di dialettica, che offusca quello precedente, velandone il rigore e la linearità, con la conseguenza - come abbiamo già detto - che alcuni studiosi dubitano che il suo sia un pensiero 'genuinamente' dialettico. b - La 'dialettica' come compenetrazione Finora abbiamo analizzato la parte unidirezionale del pensiero di Marx, quella che - basandosi su un processo evolutivo che culmina nell'insorgere di una contraddizione, la quale trova poi la propria soluzione nel costituirsi di una nuova organizzazione sociale - può correttamente e indiscutibilmente definirsi dialettica. Esiste tuttavia anche un altro aspetto, connesso peraltro con l'aspirazione di Marx verso la scientificità e verso il 'realismo', che tende ad attenuare tale univocità, e che - proprio per tale ragione - ha ingenerato in alcuni il sospetto che il suo non sia un pensiero veramente dialettico. Una tale componente della dottrina marxiana è effettivamente parte della metodologia dialettica, ma in modo improprio. E ciò perché, pur oltrepassando il livello puramente meccanico dell'idea di causalità - quella per la quale non esiste un rapporto di opposizione o giustapposizione, ma solo di consecuzione lineare tra cause e effetti -, essa non implica comunque la triade dei concetti (tesi, antitesi e sintesi) che caratterizzano la dialettica propriamente detta (e nemmeno, in senso stretto, la diade tesi ed antitesi). Questo secondo aspetto lo possiamo scorgere molto chiaramente nel rapporto stabilito da Marx tra i livelli differenti e concomitanti (in un certo senso, giustapposti) presenti in ogni struttura sociale. Stiamo parlando ovviamente della 'struttura' e della (o delle) 'sovrastruttura', la compresenza delle quali si articola in un'azione reciproca della prima sulla seconda e di questa sulla prima. Tale aspetto della dialettica marxiana implica appunto che vi sia un'interazione o azione reciproca tra livelli coesistenti (economici, politici, ideologici, .), l'effetto della quale dovrebbe essere per essi di reciproco sostegno (anche se, nei periodi 'di crisi', essa diviene piuttosto di reciproco ostacolo.) In quest'ambito, alla tradizionale unidirezionalità della dialettica hegeliana si sostituisce una bidirezionalità, che implica - assieme a un'azione delle strutture sulle sovrastrutture - anche una retroazione delle sovrastrutture sulle strutture, ciò che manda in crisi la linearità della dialettica classica. In altri termini, si accavallano nel pensiero marxiano due punti di vista, quello propriamente dialettico e un altro che, pur ispirandosi effettivamente alla metodologia dialettica, sarebbe più correttamente definibile come 'organicista'. E' questo secondo aspetto a confondere la linearità della deduzione marxiana della storia, togliendole almeno parte della sua originaria unidirezionalità. Attraverso di esso, forse, la teoria marxiana perde una buona dose del suo rassicurante determinismo, ma senza dubbio guadagna molto - rispetto alla semplice metodologia di Hegel - in credibilità scientifica (e ciò poiché si apre maggiormente alle molteplici sfaccettature che caratterizzano la complessità reale della storia.) Abbiamo dunque fatto il punto sulla dialettica in Marx: da una parte essa è (hegelianamente) una scienza dell'insorgere della contraddizione e della sua risoluzione a partire dalla contraddizione stessa; dall'altra invece è scienza dell'azione e retroazione esercitata tra i differenti livelli di uno stesso organismo, ed è per questo essenzialmente organicista. 3) Implicazioni della dialettica marxiana Tale osservazione ci aiuta non solo a inquadrare la diversità tra i due pensieri dialettici per eccellenza - quello marxista/marxiano e quello hegeliano - ma anche a comprendere con maggiore precisione il tipo peculiare di dialettica che sta alla base dell'intera teoria marxiana. Qui di seguito si intende prima di tutto fare una precisazione sulla concezione evolutiva di Marx delle forze produttive - ovvero su come esse possano mutare per diversi ordini di motivi, ma mai per ragioni astratte o ideali; in secondo luogo si intende parlare del ruolo assunto dalla libera azione/decisione umana nella storia - ovvero della questione, lungamente dibattuta, se e entro che limiti la filosofia di Marx sia una filosofia rigorosamente deterministica -. a - il 'realismo' scientifico Mentre la dialettica storica hegeliana ha un fondamento puramente ideale (per il quale l'evoluzione concreta di una determinata fase storica riposa sull'evoluzione di un'idea astratta, in essa incarnata, che si rovescia nell'idea opposta, ecc.), il divenire storico secondo Marx si configura come trasformazione di strutture sociali e produttive concrete che - come si è detto - finiscono, ad un certo stadio della propria evoluzione, per porsi in conflitto con un insieme di tradizioni, credenze, poteri consolidati, sviluppatisi parallelamente a quelle stesse forze, anche se in un diverso momento del loro sviluppo. In altri termini insorge, in una certa fase evolutiva, una contraddizione tra le strutture sociali e produttive e quelle politico-ideologiche, dovuta al superamento delle seconde da parte delle prime, e quindi a una separazione tra di esse. In ciò sta il nocciolo della dialettica di Marx, la 'forza della negatività' che è insita nel divenire storico. A partire da una tale osservazione, diviene utile individuare le possibili cause alla base dell'evoluzione delle strutture economiche e produttive. Questa disamina ci mostrerà inoltre più chiaramente quale differenza sussista tra il pensiero idealista di Hegel e quello materialista (e scientifico) di Marx. Non è possibile, in sostanza, individuare un unico tipo di fattore causale per i cambiamenti che - prima o poi - inevitabilmente si verificano in ogni struttura socio-economica [con tale termine si intende qui designare il tipo di organizzazione che, in un determinato contesto sociale, è alla base del complesso delle attività economiche e produttive; vi sono infatti (è bene ricordarlo) differenti paradigmi, o modi, di questa organizzazione: da quello tribale che caratterizza il periodo preistorico a quello asiatico, schiavista, feudale, capitalista, socialista, ecc.] E nemmeno si possono ricondurre a una o più categorie concettuali fisse tali mutamenti, per altro potenzialmente infiniti. Anche in questo emerge la matrice materialistica e 'realista' - contrapposta a quella idealista - del pensiero di Marx: nel suo rifiuto di imprigionare (quantomeno oltre certi limiti) il divenire storico in schemi astratti, in 'pregiudizi aprioristici' che pretendano una validità universale, a prescindere dalle circostanze contingenti che fanno da cornice agli avvenimenti via via in esame. D'altronde, se Hegel aveva attribuito ai movimenti dialettici una natura in ultima analisi sempre ideale o spirituale, Marx all'opposto attribuisce a questi una radice e un'origine sempre e solo materiale e concreta. Inoltre, se è vero che la categoria della causalità, motore della storia - cioè dell'evoluzione delle condizioni sociali della produzione: delle forze produttive, o dei presupposti economici della produzione - non può essere individuata in uno o più ordini di cause stabiliti una volta per sempre, è vero anche che queste - secondo Marx - non hanno né possono mai avere una natura meramente ideale.

 
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