Quanto proletariato industriale esisteva nella Prussia di Marx? Lo sviluppo
industriale della Germania cominciò ad avere un certo impulso a partire
dalla seconda metà degli anni '30, soprattutto nella regione del
Reno-Vestfalia, favorita dalla liquidazione degli ordinamenti feudali, già
effettuata nel periodo del dominio francese. In Sassonia era molto
sviluppata l'industria tessile. Berlino cominciò a diventare un centro
industriale verso la metà degli anni '40: qui era concentrato 1/3 di tutta
la produzione di macchine e dei cotonifici della Prussia; nel 1846, su
400.000 abitanti aveva circa 70.000 operai salariati. Nel 1847 in tutto il
paese vi erano circa 1000 motori a vapore. La prima ferrovia fu inaugurata
nel 1835. Nel complesso tuttavia l'industria si sviluppava a rilento e non
era in grado di assorbire gli artigiani e i contadini impoveriti che
affluivano nelle città, tant'è che negli anni 1846-47 furono costretti a
emigrare dalla Germania circa 100.000 persone l'anno. Nella maggior parte
della Germania prevaleva l'artigianato e la manifattura, specie quella
sparsa.
I primi moti rivoluzionari si registrarono agli inizi degli anni '30, in
Sassonia, nell'Assia-Cassel e in Baviera. A Essen nel 1830 scoppiò una
rivolta contadina antifeudale, che fu duramente repressa. Nel 1832 nel
castello di Hambach parteciparono 30.000 persone per chiedere riforme
democratiche e l'unificazione nazionale. Nel 1833 a Francoforte sul Meno un
gruppo di studenti tentò un colpo di stato per proclamare la repubblica.
L'anno successivo fu chiusa dal governo l'"Associazione dei diritti
dell'uomo" guidata da G. Büchner e dal pastore Weidig. Nel 1845 quasi tutti
i Landtag (assemblee provinciali di stati) presentano al re la richiesta di
una costituzione; i liberali borghesi vogliono anche l'allargamento
dell'unione doganale e la liquidazione dei privilegi di casta della nobiltà.
Il professore di economia dell'Università di Tubinga, F. List, chiedeva
elevate tariffe doganali sui prodotti d'importazione e predicava la
conquista di un mercato mondiale da parte della Germania unificata, anche a
costo di scatenare la guerra.
* * *
A Colonia la borghesia, delusa dalla politica di false riforme di Federico
Guglielmo IV, si era alleata con la Sinistra hegeliana dando vita alla
"Gazzetta renana", il primo periodico moderno della Germania, nato nel 1842.
La Gazzetta viene chiusa dal governo dopo 15 mesi. La reazione degli
ambienti liberali fu tiepida, in quanto non amavano gli articoli che
sobillavano il popolo contro il governo. Grande la delusione dei giovani
hegeliani: il 25 gennaio 1843 Marx scrive a Ruge che ha intenzione di
lasciare la Germania.
LA RIVOLTA DEI TESSITORI SLESIANI (1844)
All'origine della rivolta vi fu una canzone, creata dai tessitori del
villaggio slesiano di Peterswalden. Il 4 giugno 1844 la polizia arresta un
tessitore che cantava quest'inno sotto le finestre del costruttore
Zwanziger, che pagava miseri salari e che nella regione era il simbolo dello
sfruttamento dei padroni.
Nel pomeriggio i tessitori reagiscono all'arresto e saccheggiano gli uffici
degli industriali e distruggono i libri dei debiti e le lettere di credito,
senza commettere alcun furto. Il 5 giugno una folla di 3.000 tessitori
marcia verso un villaggio vicino (Langebielau) dove si svolgono scene
analoghe. Ma l'esercito interviene e spara sulla folla disarmata, uccidendo
11 operai e ferendone 24; la massa reagisce e a colpi di pietre e bastoni
caccia i soldati dal villaggio.
Il 6 giugno arrivano tre compagnie di fanteria e una batteria di artiglieria
che sconfiggono la ribellione. I sopravvissuti cercano rifugiano tra le
montagne e i boschi vicini, dove sono braccati dalle truppe: 38 tessitori
vengono arrestati e condannati a pesanti pene e ai lavori forzati.
Le ripercussioni dell'avvenimento si ebbero in tutta la Slesia, in Boemia, a
Praga e anche a Berlino, dove si erano succeduti scioperi e manifestazioni
operaie nei mesi estivi del 1844.
cfr Heinrich Heine, I tessitori (1847) e Gerhart Hauptmann, I tessitori
(1892)
* * *
Il 7 e il 10 agosto 1844 Marx risponde sul "Vorwärts" ("Avanti"), giornale
stampato a Parigi in lingua tedesca, a due articoli anonimi, firmati da un
"Prussiano", che ridimensionava di molto l'accaduto e che chiedeva di
comprenderlo in nome della carità cristiana.
Per Marx invece l'insurrezione dei tessitori fu un fatto così grave che lo
porterà a rompere definitivamente con la Sinistra hegeliana e con Feuerbach,
che a suo parere si ponevano in maniera troppo astratta nei confronti dei
problemi sociali della Prussia.
Marx ridicolizza il primo articolo dell'anonimo Prussiano, il quale aveva
scritto che essendo un paese "non politico" la Prussia e il suo governo non
potevano vedere la rivolta dei tessitori come un problema per tutto il paese
e al massimo lo consideravano un problema locale, al pari di una siccità o
di una carestia.
Viceversa Marx fa notare che anche là dove esiste una partecipazione
politica più avanzata di quella tedesca, là dove esistono parlamenti e
repubbliche democratiche, l'indifferenza delle istituzioni e dei partiti nei
confronti dei problemi sociali è analoga, e scrive: "Nella misura in cui la
borghesia inglese ammette che il pauperismo è una colpa della politica, il
whig considera il tory, e il tory il whig, come la causa del pauperismo.
Secondo il whig, il monopolio della grande proprietà terriera e la
legislazione protezionista contro l'importazione dei cereali è la fonte
principale del pauperismo. Secondo il tory, tutto il male risiede nel
liberalismo, nella concorrenza, nel sistema industriale spinto troppo
avanti. Nessuno dei partiti trova il motivo nella politica in generale,
bensì ciascuno di essi lo trova nella politica del proprio partito; ma
ambedue i partiti non si sognano neppure una riforma della società"(p. 118).
La borghesia inglese, che già vede il pauperismo non come fenomeno locale ma
nazionale, è ancora più indifferente di quella tedesca a proporre dei rimedi
sociali per risolverlo. E se anche il pauperismo potesse essere risolto per
via amministrativa o con la beneficienza -come proponeva l'anonimo
Prussiano-, Marx fa notare che l'Inghilterra emanò una legislazione apposita
in tal senso, sin dai tempi della regina Elisabetta, la quale però non servì
a nulla; anzi ci fu qualcuno, come p.es. Malthus, il quale sostenne che
proprio quella legislazione non faceva che aumentarla: "Poiché la
popolazione tende incessantemente a superare i mezzi di sussistenza, la
beneficienza è una pazzia, un pubblico incitamento alla miseria. Perciò lo
Stato non può far altro che abbandonare la miseria al suo destino, e al
massimo rendere più facile la morte dei poveri" (p. 121).
La conseguenza inevitabile di questa posizione fu molto esplicita in
parlamento: "il pauperismo è la miseria di cui hanno colpa gli operai
stessi, per cui non lo si deve prevenire come una sfortuna, bensì piuttosto
reprimere, punire come un delitto"(p. 122).
La stessa cosa d'altra parte accadde in Francia, ai tempi di Napoleone,
allorché -dice Marx- si pretese di eliminare l'accattonaggio col tribunale
della polizia correzionale e i penitenziari (p. 123).
La critica di Marx è tutta rivolta alla concezione interclassista dello
Stato che ha l'anonimo Prussiano. E' lo Stato in sé e non una certa forma di
Stato ad essere incapace di risolvere i problemi sociali (p. 125). Gli Stati
moderni possono ritenere la miseria una legge di natura, dovuta all'aumento
sproporzionato della popolazione rispetto ai mezzi di sussistenza, possono
ritenerla un effetto della cattiva volontà dei poveri, che non vogliono
uscire dalla loro condizione, possono ritenerla la conseguenza
dell'atteggiamento non cristiano dei ricchi, possono anche decidere, come
nel periodo della Rivoluzione francese, di ghigliottinare i proprietari
sospettati d'essere controrivoluzionari, ma in ogni caso gli Stati -dice
Marx- non possono risolvere questo problema senza negarsi come tali (p.
126).
"Lo Stato infatti poggia sulla contraddizione tra vita privata e pubblica,
sulla contraddizione tra gli interessi generali e gli interessi particolari.
L'amministrazione deve perciò limitarsi ad una attività formale e negativa,
poiché proprio là dove ha inizio la vita civile e il suo lavoro, là termina
il suo potere"(p. 126). "L'impotenza è la legge di natura
dell'amministrazione. Infatti, questa lacerazione, questa infamia, questa
schiavitù della società civile è il fondamento naturale su cui poggia lo
stato moderno..."(ib.).
La situazione paradossale, secondo Marx, è che "quanto più potente è lo
Stato, quanto più politico quindi è un paese, tanto meno esso è disposto a
ricercare nel principio dello Stato, dunque nell'odierno ordinamento della
società, della quale lo Stato è l'espressione attiva, autocosciente e
ufficiale, il fondamento delle infermità sociali, e ad intenderne il
principio generale"(p. 127).
Nel secondo articolo contro il medesimo anonimo Prussiano, Marx sostiene che
"nemmeno una delle rivolte degli operai francesi e inglesi possedette un
carattere così teorico e consapevole quale la rivolta dei tessitori
slesiani... dove il proletariato proclama il suo antagonismo con la società
della proprietà privata, in modo chiaro, tagliente, spregiudicato e
possente"(p. 130). E lo spiega: "Non soltanto vengono distrutte le macchine,
queste rivali degli operai, ma anche i libri commerciali, i titoli di
proprietà, e mentre tutti gli altri movimenti si volgevano innanzitutto
contro il signore dell'industria, il nemico visibile, questo movimento si
volge contemporaneamente contro il banchiere, il nemico nascosto"(p. 131).
Marx inoltre considera Weitling (specie nell'opera Garanzie dell'armonia e
della libertà 1) importante tanto quanto Proudhon. Proprio in virtù
dell'opera di Weitling, Marx arriva ad affermare "che il proletariato
tedesco è il teorico del proletariato europeo, così come il proletariato
inglese ne è l'economista e il proletariato francese il politico"(p. 131). E
prosegue dicendo che "si deve ammettere che la Germania possiede una tanto
classica vocazione per la rivoluzione sociale quanto è incapace di una
rivoluzione politica"(ib.). La Germania infatti ha una borghesia debole, ma
può avere un proletariato forte.
Solo che non deve lasciarsi ingannare dalla politica e dai suoi sostenitori,
come appunto l'anonimo Prussiano, i quali ritengono che i problemi sociali
saranno risolti quando la Germania avrà raggiunto una forte consapevolezza
politica. Marx, al contrario, sostiene che "quanto più formato e generale è
l'intelletto politico di un popolo, tanto più il proletariato -almeno
all'inizio del movimento- consuma le sue forze in insensate, inutili
sommosse soffocate nel sangue. Poiché esso pensa nella forma della politica,
scorge il fondamento di tutti i mali nella volontà e tutti i mezzi per
rimediarvi nella violenza e nel rovesciamento di una determinata forma
statale"(p. 134).
Lo Stato -secondo Marx- va eliminato, in quanto espressione di una società
civile alienata, dominata dal principio della proprietà privata: quanto più
questa si libera di ciò che tiene divisi i cittadini, tanto meno questi
avranno bisogno dello Stato. "La comunità dalla quale l'operaio è isolato è
una comunità dì ben altra realtà e di ben altra estensione che non la
comunità politica. Questa comunità, dalla quale il suo lavoro lo separa, è
la vita stessa, la vita fisica e spirituale, la moralità umana, l'attività
umana, l'umano piacere, la natura umana"(p. 135).
L'uomo è più importante del cittadino, e la vita umana, sociale è più
importante della vita politica (p. 136). "Una rivoluzione sociale si trova
dal punto di vista della totalità perché - se pure ha luogo unicamente in un
distretto industriale - essa è una protesta dell'uomo contro la vita
disumanizzata, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale,
perché la comunità, contro la cui separazione da sé l'individuo reagisce, è
la vera comunità dell'uomo, la natura umana. L'anima politica di una
rivoluzione consiste al contrario nella tendenza delle classi politicamente
prive di influenza a eliminare il proprio isolamento dallo Stato e dal
potere. Il suo punto di vista è quello dello Stato, di una totalità
astratta, che sussiste soltanto attraverso la separazione dalla vita reale,
che è impensabile senza l'antagonismo organizzato tra l'idea generale e
l'esistenza individuale dell'uomo. Una rivoluzione dell'anima politica
perciò, organizza anche, conformemente alla natura limitata e discorde di
quest'anima, una cerchia dirigente nella società a spese della società"(p.
136).
Con questo Marx non vuol dire che non occorra fare una "rivoluzione
politica". Anzi lo conferma a chiare lettere, ma con una precisazione: "La
rivoluzione in generale - il rovesciamento del potere esistente e la
dissoluzione dei vecchi rapporti - è un atto politico. Senza rivoluzione
però il socialismo non si può attuare. Esso ha bisogno di questo atto
politico, nella misura in cui ha bisogno della distruzione e della
dissoluzione. Ma non appena abbia inizio la sua attività organizzativa, non
appena emergano il suo proprio fine, la sua anima, allora il socialismo si
scrolla di dosso il rivestimento politico"(p. 137).
Inutile dire quanto siano ancora attuali queste considerazioni sul ruolo
della politica.
1) Wilhelm Weitling (1808-1871), sarto e filosofo tedesco, il primo teorico
tedesco del comunismo. Pur dipendente dal socialismo evangelico di F.R. de
Lamennais, offrì un contributo importante alla formazione di una coscienza
proletaria di classe. Nel 1836, recatosi a Parigi, aderisce alla "Lega dei
Giusti", cui avevano aderito Karl Schapper, Heinrich Bauer, Karl Pfänder e
Georg Eccarius.
La "Lega dei Giusti", sostanzialmente una società di cospiratori influenzata
dalle concezioni di Blanqui e di Babeuf, fu travolta dalla sconfitta toccata
alla "Società delle stagioni" il 12 maggio 1839: Schapper e Bauer dovettero,
dopo lunga prigionia, abbandonare la Francia e riparare a Londra. Engels
definì i limiti della "Lega" nel carattere artigiano tedesco e idealmente
corporativo dei suoi esponenti: cosa che impediva dal costituirsi
coscientemente in partito proletario. Si credeva fermamente
nell'eguaglianza, nella fratellanza e nella giustizia e si era fermamente
ignoranti in fatto di economia politica.
Weitling pubblica L'umanità com'è e come dovrebbe essere (1838). Nel 1839 si
rifugia in Svizzera. Pubblica Garanzie dell'armonia e della libertà (1842) e
Il vangelo di un povero peccatore (1843). Nel 1844, espulso dalla Svizzera,
viene consegnato al governo prussiano e condannato a dieci mesi di carcere
per attività sovversiva ed empietà. Emigra quindi in Inghilterra dove
collabora per qualche tempo con K. Marx e F. Engels; si stabilisce infine a
New York dove muore in miseria.
Fu incluso da Marx ed Engels - sebbene non giungessero a citarlo
espressamente nel Manifesto - nel gruppo dei "comunisti egualitari" dominato
dalle idee di Babeuf. Il passo del Manifesto in cui si parla del
sottoproletariato può anche essere interpretato come una velata allusione a
Weitling, tant'è vero che sia questi che Bakunin vedevano nel
Lumpenproletariat l'elemento più leale e sicuro della rivoluzione. Weitling
non ammetteva la necessità, nel cammino verso il comunismo, di un periodo di
transizione nel quale la borghesia agisca come classe dirigente, cosa che lo
distanziò da Marx. Secondo lui, il modo migliore per instaurare un diverso
ordine sociale consisteva nel portare il disordine sociale esistente a un
livello tale da far esaurire la pazienza del popolo.
Benché Marx salutasse con entusiasmo l'apparizione, nel 1842, del libro di
Weitling Garanzie dell'armonia e della libertà, ruppe definitivamente con
lui il 30 marzo 1846, quasi un anno prima della fondazione della "Lega dei
comunisti".
TESI SU FEUERBACH
[I] Marx qui critica il materialismo meccanicistico, metafisico, filosofico.
Egli afferma che la "realtà", da questo materialismo, è sempre stata
concepita "solo sotto la forma di oggetto" (come nelle scienze applicate: ad
es. la fisica) oppure di "intuizione" (come nelle scienze esatte:
matematica, geometria... o nello stesso materialismo filosofico di
Feuerbach).
Marx, in sostanza, denuncia una visione riduttiva della realtà,
indirettamente influenzata dalla religione o dalla metafisica, che hanno
sempre considerato la realtà (o la natura) come un qualcosa di "dato",
d'intangibile, da contemplare filosoficamente o da studiare tecnicamente
(non socialmente). Ciò che è mancato a questa forma di materialismo è stata
la comprensione del rapporto dialettico tra uomo e natura (o meglio, tra
uomo e realtà oggettiva, materiale, ambientale: il che implica non solo la
natura ma anche il rapporto sociale).
In questa tesi Marx vuole rivendicare il lato "soggettivo" (creativo) del
materialismo, cioè l'attività sensitiva umana -com'egli la definisce-, la
prassi in grado di modificare le cose, la realtà.
Giustamente egli afferma che "il lato attivo è stato sviluppato
dall'idealismo" (si pensi p.es. alla scoperta della dialettica, ma anche
alla stessa attività pratica delle forze sociali che si richiamano
all'idealismo), semplicemente perché il materialismo non ha saputo andare al
di là dell'oggettività della materia, cioè non ha saputo scorgere il legame
organico tra materia e soggettività. Secondo il materialismo meccanicistico,
in effetti, l'uomo non è che un elemento della materia, passivo e
insignificante.
L'idealismo -secondo Marx- ha sì sviluppato il lato "attivo" dell'uomo, ma
qui bisogna sottintendere "in maniera astratta", poiché esso è incapace di
vera attività reale sensitiva.
L'idealismo è una forma d'intellettualismo (alienato, perché separato dalla
realtà sociale): la sua attività resta circoscritta nell'ambito del mero
pensiero. Marx, prima di queste Tesi, aveva già criticato l'idealismo
hegeliano, e qui arriva a considerare il materialismo metafisico come
sostanzialmente più "onesto", più "genuino" dell'idealismo, anche se a
quest'ultimo riconosce una maggiore perfezione sul piano speculativo.
Marx condivide con Feuerbach lo sforzo di voler superare l'idealismo
(hegeliano soprattutto, che faceva dipendere il processo della realtà dal
processo del pensiero). Per l'idealismo tedesco, infatti, è il pensiero che
fa muovere la realtà o è comunque il pensiero che ha il compito di
conciliare l'uomo con le contraddizioni della realtà. Le
contraddizioni -dirà Marx- nella realtà restano, ma nel pensiero vengono
risolte, per cui -per l'idealista- lo sono anche nella realtà.
Tuttavia Feuerbach -dice Marx- non è riuscito a scorgere una vera
"oggettività" nell'"attività umana stessa". Infatti, pur avendo con acume
separato "gli oggetti sensibili realmente" dagli "oggetti del pensiero",
rivendicando alla materia una certa irriducibilità alle forzature
speculative (e conservatrici) dell'idealismo, pur avendo cioè riaffermato
l'originalità, il primato della materia rispetto all'idea, allo spirito, al
pensiero, Feuerbach è rimasto sostanzialmente un idealista, suo malgrado, o
comunque un materialista tradizionale, filosofico.
Il materialismo è stato sviluppato, da lui, solo in maniera teoretica,
intuitiva, non pratica. Feuerbach, in effetti, non si è mai lasciato
coinvolgere nell'attività politico-sociale del suo tempo, ma solo in quella
teorico-culturale (vedi ad es. la critica alla religione e alla filosofia
hegeliana).
Marx invece tiene a precisare che uno sviluppo pratico del materialismo
implica un'attività "rivoluzionaria", "pratico-critica", e non solo
"critica". Feuerbach fu soltanto un intellettuale isolato, un docente
universitario, uno scrittore, nel migliore dei casi un conferenziere.
Da notare comunque che Marx non fa coincidere (in questo testo) l'attività
rivoluzionaria con quella strettamente politica, ma con l'attività sociale
in senso lato (aspetto "pratico" vero e proprio) e con quella culturale
(aspetto "teoretico"). La "critica" dipende da entrambe le attività, e la
politica non è che una conseguenza delle due attività. Marx era già giunto
alla consapevolezza che un'attività politica staccata dall'attività
socioculturale, non era che una forma di alienazione.
Dopo aver scoperto (prima in Germania e poi soprattutto in Francia)
l'importanza dell'attività pratica, Marx denuncia i limiti di Feuerbach.
L'attività rivoluzionaria, in questo periodo, coincideva, per Marx, con
l'attività sociale del proletariato e della borghesia progressista,
democratica, e con l'attività politico-culturale, critico-intellettuale del
filosofo di idee socialcomuniste.
Per il Marx del 1845 l'attività politico-parlamentare andava nettamente
rifiutata, in quanto ritenuta effetto di un'alienazione sociale e a sua
volta causa di nuova alienazione (Marx, nella critica alla Filosofia del
diritto di Hegel, aveva già evidenziato la separazione tra Stato e società
civile: la politica -secondo lui- non aveva altro scopo che di garantire
tale separazione).
La politica, per il giovane Marx, era fonte di compromessi non di
alternative, era "ragion di Stato", cioè opportunismo, calcolo, interesse...
non "prassi rivoluzionaria". La politica "giustifica" (al pari
dell'idealismo, della religione, della filosofia in generale e persino del
materialismo di Feuerbach, contro le sue stesse migliori intenzioni), mentre
il problema vero, per Marx, è quello di come "modificare" l'esistente.
Marx scopre l'importanza della politica extraparlamentare, cioè l'importanza
di un partito organizzato solo dopo il 1848, a contatto con il socialismo
utopistico francese, cioè dopo il fallimento del moto spontaneo del
proletariato in funzione anti-borghese. Il '48 infatti rappresenta soltanto
il successo di un moto spontaneo contro l'aristocrazia e il clericalismo: la
classe che erediterà i risultati migliori sarà la borghesia, che tradirà gli
interessi del proletariato.
[II] La critica più radicale che Marx potesse fare contro l'idealismo e il
materialismo metafisico, è quella secondo cui la prassi è il criterio della
verità. Naturalmente anche qui bisogna dare per scontato che Marx si
riferisse alla prassi socioculturale, considerata come l'unica in grado di
stabilire (e si dovrebbe aggiungere, "a posteriori") dove sta la verità o la
falsità di un'idea.
Questo limite di Marx, che non accetta di includere nel concetto di prassi
rivoluzionaria anche la dimensione della politica, era considerato allora,
da un rivoluzionario o comunque da un oppositore del sistema prussiano, un
pregio, soprattutto se per attività politica s'intende solo quella
parlamentare.
Per la prima volta, infatti, gli intellettuali rivoluzionari davano dignità
a tanta gente esclusa a priori dalla politica: essi stessi rinunciavano a
carriere prestigiose (a livello politico o accademico). Per la prima volta
si affermava che era più "vera", più "autentica", più "dignitosa" la prassi
del popolo oppresso e sfruttato, che non quella dei politici o quella di
coloro che con la politica del governo cercano sempre dei compromessi.
Marx dunque tendeva a privilegiare due tipi di attività: quella pratica,
spontanea, delle masse oppresse, e quella teorica, consapevole,
dell'intellettuale comunista. Quanto, in questo, egli si sia lasciato
influenzare dal socialismo utopistico, è facile intuirlo. La differenza fra
l'utopia e la scienza, nell'ambito del socialismo europeo, stava, ai tempi
di Marx, più sul piano teorico che pratico: semplicemente Marx non riteneva
che il capitalismo potesse essere riformato.
Il distacco di Marx da Proudhon avverrà proprio su questo punto, e purtroppo
sarà un distacco non solo ideologico ma anche politico, danneggiando i
rapporti che il socialismo scientifico poteva avere, nella realizzazione di
determinati obiettivi programmatici, con il socialismo utopistico.
[III] La prassi può essere criterio di verità quando non pone un "prima" o
un "dopo" nel processo d'interazione dell'uomo con l'ambiente sociale. L'uno
e l'altro devono trasformarsi contemporaneamente, influenzandosi a vicenda.
Marx qui critica il materialismo del socialismo utopistico, che mirava a
costruire un ambiente già "socialista" in una società ancora "capitalista".
Il problema vero, per Marx, era invece quello di come conciliare, in maniera
progressiva, il superamento dell'ideologia borghese con il superamento di
tutta la società borghese.
Detto in altri termini: il socialismo di Marx tendeva a riporre più fiducia
nelle capacità di trasformazione globale dell'uomo e non s'illudeva che
nella società borghese si potessero costruire delle "isole di socialismo",
in cui fosse assente l'influenza del capitalismo. Oggi, in Europa
occidentale, queste "isole di socialismo" esistono ancora: sono quelle
create da taluni preti progressisti o quelle di certe comunità di vita per i
tossicodipendenti. "Isole" che sopravvivono grazie al sostegno, più o meno
diretto, di alcuni ambienti della stessa società borghese.
Su questo la critica del socialismo scientifico è sempre stata giusta.
[IV] Qui Marx critica quella forma di materialismo filosofico che pensa di
poter superare le contraddizioni della società borghese indirizzandosi verso
l'ateismo (si veda ad es. la Sinistra hegeliana). Il distacco di Marx da
Feuerbach, ma anche dal socialismo anticlericale e da tutte le forme di
anarchismo irreligioso alla Bakunin, è qui molto evidente.
L'ateismo può mettere in luce il rapporto organico tra alienazione pratica
della società borghese e illusione teoretica (costituita appunto dalla
religione o da altre forme di "oppio"), ma non può assolutamente superare
l'alienazione pratica, poiché questa può essere rimossa solo praticamente,
in modo rivoluzionario.
Marx però non spiega il modo concreto in cui la rivoluzione possa essere
fatta: ancora non è maturata, in seno al materialismo dialettico, l'esigenza
di un partito politico che guidi il proletariato. Quando parla di
"rivoluzione", Marx pensa a un moto spontaneo delle masse più oppresse, e a
un livello mondiale o comunque europeo, poiché gli paiono maturi i tempi per
una sollevazione del genere. Qui sta il suo limite, anche perché così, da un
lato, non si cercano rapporti politici con movimenti e organizzazioni che
non si riconoscono in toto con il socialismo scientifico, e dall'altro si è
costretti ad assumere, nei confronti del capitalismo, un atteggiamento
passivo, in attesa che le "sofferenze", subite a causa dello sfruttamento,
portino le masse a reagire.
[V] Marx qui afferma che Feuerbach, al massimo, è arrivato a scoprire
l'"intuizione sensibile", cioè il primato delle funzioni sensorie, mostrando
che la conoscenza passa necessariamente attraverso i sensi, e che quindi il
pensiero non può agire come se l'uomo fosse privo di sensibilità.
Tuttavia -e Marx qui lo ribadisce- a Feuerbach è mancata la consapevolezza
del lato pratico o sociale di questa sensibilità, che non può essere ridotta
alla funzione fisiologica.
Nel materialismo di Feuerbach l'uomo è rimasto un ente astratto, più
astratto di quello hegeliano, perché ancora più isolato dal contesto
sociale. Feuerbach ha rivendicato un primato della sensibilità
dell'individuo singolo contro la razionalità dello Stato e della società
civile prussiana: quella razionalità che tutta la Sinistra hegeliana (e
quindi anche Feuerbach) riteneva ovviamente "irrazionale".
[VI] In questa tesi è racchiusa la definizione più importante del
materialismo dialettico: l'uomo è "l'insieme dei rapporti sociali". Non può
quindi esistere una definizione astratta, univoca, di "uomo", né una
definizione concreta che non tenga conto dell'ambiente in cui il singolo
vive.
Feuerbach ha cercato di dare dell'uomo un'interpretazione filosofica; Marx
invece ne vuole dare una di tipo sociale, che riguardi l'ontologia
dell'essere sociale.
Se si prescinde dalla dimensione sociale, si cade -secondo Marx- in due
limiti: 1) quello di considerare l'uomo come singolo, cioè astrattamente
(questo era il limite di tutta la Sinistra hegeliana, soprattutto di
Stirner); 2) quello di considerare l'uomo come specie, cioè
naturalisticamente (le scienze applicate infatti tendono a separare l'uomo
dall'ambiente o a considerare per "ambiente" solo quello della natura).
Dire invece che l'uomo è "l'insieme dei rapporti sociali", significa che per
comprendere un determinato individuo bisogna analizzare l'ambiente che
frequenta. Ciò naturalmente non implica che si debba considerare l'uomo come
un "mero prodotto" del suo ambiente, ma soltanto che, per comprenderlo in
maniera adeguata, non si può prescindere dall'ambiente in cui vive.
Che poi questo individuo s'impegni anche a modificare il proprio ambiente o
che invece lo subisca passivamente, questo è un altro discorso. Qui Marx non
parla -come alla tesi III- del fatto che "anche l'educatore va educato".
[VII] Interessante è il fatto che Marx supera Feuerbach non solo nella
valorizzazione del lato sociale del materialismo, ma anche (come di
conseguenza) nell'interpretazione della vera natura del fenomeno religioso.
Marx è stato il primo a considerare tale fenomeno come un prodotto non tanto
della debolezza psicologica dell'uomo (come ha fatto Feuerbach), né della
mera speculazione arbitraria del clero, politicamente ed economicamente
interessata (come voleva l'illuminsimo progressista), ma piuttosto come un
"prodotto sociale", di una determinata società.
Ciò ha avuto delle implicazioni notevoli, di cui le principali sono state
l'esclusione a priori di qualunque forma di rozzo anticlericalismo e
l'esclusione di qualunque analisi superficiale, epifenomenica, della
religione. Se questo non è stato fatto, nel corso dello sviluppo del
socialismo scientifico, la responsabilità non può certo essere attribuita a
Marx.
In questa tesi per la prima volta si pongono le basi di un'analisi
scientifica dell'alienazione religiosa, che parta dalle contraddizioni
sociali, cui spetta, nell'ambito della conoscenza, un primato assoluto.
Solo col materialismo dialettico si è, p.es., potuto capire che
l'alienazione religiosa non era conosciuta in quelle tribù primitive che pur
nel rapporto con la natura erano molto più deboli dell'uomo della civiltà
industriale. Oggi poi si è addirittura arrivati a credere che nei confronti
della natura è più debole la civiltà industrializzata, poiché lo
sfruttamento massiccio delle risorse provoca conseguenze devastanti
sull'ambiente.
[VIII] La scoperta della prassi è stata, in realtà, la scoperta del fatto
che nella prassi l'uomo si forma e con la prassi l'ambiente si trasforma. Il
venir meno di questa prassi sociale, che è l'esigenza primaria dell'uomo
(ciò che gli conferisce non solo una dignità ma anche la sua stessa
identità), comporta sempre l'emergere del misticismo o di quelle forme
d'idealismo (anche rozze) che non tengono conto della realtà.
Il fatto stesso che Marx non abbia mai scritto un trattato sulla prassi o
sulla dialettica, ma si sia limitato spesso -come in questo caso- a brevi e
geniali intuizioni (le vere opere di analisi iniziano solo col soggiorno in
Inghilterra) sta proprio ad indicare che l'uomo può vivere la prassi solo
vivendola, cioè non può illudersi di viverla speculandoci sopra con
l'astrazione del pensiero. La prassi come criterio della verità non è una
definizione da acquisire teoricamente, una volta per tutte, ma anzi è un
impegno da verificare continuamente, nei confronti di chiunque.
Il pensiero più vero e originale è quello che riflette adeguatamente la
realtà, che va vissuta quotidianamente, nel presente, nella sua valenza
dialettica, cioè considerando tutti i nessi che la caratterizzano (sociali,
culturali e politici). L'astrazione ha senso solo come momento sintetico di
un'esperienza vissuta.
Le Tesi su Feuerbach, in tal senso, fecero il punto dell'esperienza sociale,
culturale e politica del giovane Marx in Francia. L'esperienza politica fu,
delle tre, la meno significativa: lo si comprende anche dal fatto che Marx,
nel fare il punto della situazione, scelse proprio Feuerbach come termine di
confronto da superare. Anche L'ideologia tedesca risente dello stesso
limite.
[IX] Cadere nel misticismo o nell'idealismo astratto (che non è tanto quello
di chi non s'impegna per realizzare i propri ideali, ma quello di chi nel
realizzarli non s'accorge d'avere ideali illusori) significa giustificare lo
status quo, cioè l'alienazione della società antagonistica.
In tal senso, non è paradossale ma del tutto naturale che il materialismo
intuizionista (cioè metafisico) si limiti a porsi come mera contemplazione
di individui singoli della "società borghese". Chi si estranea dalle
esigenze della prassi, che pur ha compreso, si ritrova a vivere nelle stesse
condizioni (anzi in condizioni peggiori) dell'individuo "integrato" al
sistema...
L'osservazione che Marx ha rivolto a Feuerbach potrebbe in realtà essere
riferita a tutte quelle esperienze estremistiche di sinistra, che si
limitano a fare discorsi ideologici sull'alienazione sociale, senza però
impegnarsi attivamente a risolverla: quelle esperienze cioè che spesso
sconfinano nel terrorismo o nell'intolleranza settaria, e che attendono con
impazienza che un qualche evento catastrofico le autorizzi a sentirsi
legittimate nella loro azione anti-istituzionale.
[X] Il criterio che discrimina il vecchio dal nuovo materialismo è per
l'appunto l'esperienza, qui ed ora, di una forte umanizzazione dei rapporti
sociali, contro ogni forma (non solo politica) di alienazione, verso la
trasformazione globale della società.
L'unica garanzia di successo che il nuovo materialismo può far valere è
appunto quella di offrire, da subito, un'alternativa praticabile a livello
di rapporti sociali umanizzati.
[XI] Marx qui avrebbe dovuto abbandonare la filosofia e darsi completamente
alla politica, che è lo strumento principale per realizzare gli obiettivi
della trasformazione sociale, soprattutto nell'ambito di una società
antagonistica come quella capitalistica. Quella politica, ovviamente, che
non dimentica il valore e anzi la priorità dell'esperienza sociale, da cui
dipende la stessa credibilità della politica. Forse Marx avrebbe dovuto
tornare subito in Germania, mettendo a frutto l'esperienza francese. Lo
farà, in effetti, nel 1848, ma confidando troppo nelle capacità spontanee di
ribellione della piccola borghesia e del proletariato.
Viceversa, le Tesi su Feuerbach, invece di essere la premessa di un
immediato coinvolgimento nell'attività politica, furono la premessa
involontaria dell'Ideologia tedesca, la cui importanza teoretica non è certo
superiore a quella delle Tesi in oggetto.
Marx perse del tempo prezioso nell'elaborare il suo definitivo distacco
dalla Sinistra hegeliana (su questo Engels non lo seguì sino in fondo);
sicché quando giunse il '48, il Manifesto non fu un documento sufficiente
per mobilitare le masse, né quelle francesi (egemonizzate dal socialismo
utopistico) né quelle tedesche (politicamente arretrate e divise). Il
Manifesto, infatti, fu soprattutto carente nella parte organizzativa e
operativa.
Il limite del giovane Marx era ed è quello di moltissimi intellettuali
occidentali del suo e del nostro tempo, i quali, mentre sul piano teoretico
sono in grado di fare importanti scoperte per la trasformazione della
società borghese, sul piano pratico invece non sono capaci di una vera
coerenza, di un'adeguata conformità ai valori, ai principi affermati nella
teoria, cioè di far passare attraverso le masse le idee rivoluzionarie.
Alle origini della concezione materialistica della storia. Le "Tesi su
Feuerbach"
Marx scrisse le famose Tesi su Feuerbach nel 1843, durante il processo di
maturazione intellettuale che condusse lui ed Engels a staccarsi dalla
sinistra hegeliana e da Feuerbach stesso. Sebbene questi brevi note non
fossero intese per la pubblicazione - divennero infatti pubbliche decenni
dopo ad opera di Engels che le ritrovò in un quaderno dell'amico e
compagno - sono diventate celebri nel movimento comunista mondiale. L'ultima
tesi in particolare è ormai celeberrima: "i filosofi hanno solo interpretato
diversamente il mondo si tratta di cambiarlo".
Le tesi ruotano attorno a un'idea: il materialismo come filosofia non può
limitarsi al piano ontologico. L'esistenza del reale indipendente
dall'essere,
dalla coscienza, è una posizione inutile. Il materialismo contemplativo,
passivo è il materialismo dello status quo. L'essenza del materialismo non è
l'esistenza di un mondo sensibile, dunque conoscibile, fuori dal soggetto.
Il vero materialismo è il riconoscimento che l'azione, la prassi sono alla
base della conoscenza. Solo quando l'uomo agisce l'esistenza del mondo
acquista un significato, solo la pratica può dare un ruolo alla teoria. Il
riconoscimento del primato della prassi, del ruolo della prassi per la
stessa conoscibilità del reale è il nucleo del materialismo storico. Dice
Marx:
"Il difetto capitale di ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di
Feuerbach) è che... la realtà viene concepita solo sotto forma di oggetto...
ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente. Di
conseguenza il lato attivo fu sviluppato astrattamente, in opposizione al
materialismo, dall'idealismo" (Tesi I)
Il materialismo dunque, rinunciando a porre la questione della prassi,
slegando la conoscibilità astratta del mondo dal percorso concreto della
conoscenza, ha abbandonato il campo all'idealismo. Il riconoscimento del
ruolo necessario del soggetto nella conoscenza non è affatto una concessione
all'idealismo. Al contrario, è proprio una posizione passiva, contemplativa
che apre la strada al soggettivismo.
"La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è
questione teoretica bensì una questione pratica. Nella prassi l'uomo deve
provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del
suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero - isolato
dalla prassi - è una questione meramente scolastica." (Tesi II)
Questa formulazione, presa a sé, è abbastanza acerba. Sembra quasi andare
nella direzione dello strumentalismo filosofico, negando ogni ruolo
indipendente ad una discussione ontologica sul reale. E' normale che Marx,
venuto dopo Hegel e Feuerbach, nella formulazione del metodo del
materialismo dialettico, stesse "storcendo il bastone" nel senso della
prassi. Ma il significato epistemologico di questa tesi è profondo. La
teoria e la prassi non sono momenti separati della conoscenza. La prassi è
la via della conoscenza. Non del suo sorgere, del quale, in un certo senso
ci dimentichiamo dandolo per buono, ma del suo ingresso nella vita
dell'uomo.
Questa posizione serve anche da antidoto al materialismo reazionario. Marx
spiega nelle tesi successive che le circostanze, l'ambiente, la realtà, sono
in perenne modificazione e che parte di questa modificazione è indotta dal
soggetto stesso, il quale a sua volta subisce gli effetti del cambiamento.
L'idea
di separare l'oggetto e il soggetto della conoscenza in due mondi separati è
dunque vana. La pratica del soggetto pone capo alla conoscenza, svela i
misteri della conoscenza. La conoscenza è il risultato dell'interazione di
oggetto e soggetto. Questo significa la fine di ogni idealismo, di ogni
teoria della Idee come separate dal mondo. Le idee sono un prodotto
dell'uomo,
dell'evoluzione sociale dell'uomo.
"Tutta la via sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che
trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale
nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi." (Tesi VIII)
Le teorie non cascano dal cielo ma sono il risultato della prassi, della
vita dell'uomo. La loro realtà, verità non è dunque separata dalla società
stessa. Il vecchio materialismo, in quanto nega il cambiamento, è dunque una
concezione reazionaria:
"Il punto di vista del vecchio materialismo è la società borghese, il punto
di vista del materialismo nuovo è la società umana" (Tesi X)
Il proletariato, la "società umana" come dice il giovane Marx, deve dunque
dotarsi di una propria filosofia, il "nuovo materialismo".
"I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta
di trasformarlo." (Tesi XI)
Come si vede, troviamo in queste tesi, appena abbozzati, i principi
fondamentali della concezione materialistica della storia. Il legame tra
conoscenza e prassi, tra teoria e società. La pratica della trasformazione
rivoluzionaria del reale come unica definitiva corroborazione di una
determinata posizione scientifica. Naturalmente, non è ancora la concezione
materialistica della storia. Per quella occorrerà attendere alcuni mesi di
maturazione teorica (lo studio dell'economia politica inglese e dei
socialisti utopisti) e di sviluppo pratico del movimento rivoluzionario. Con
L'Ideologia Tedesca, Marx ed Engels disvelarono al mondo la più importante
rivoluzione scientifica della storia, la concezione materialistica della
storia.
I MANOSCRITTI DEL '44
Nei Manoscritti economico-filosofici del '44 (ed. Einaudi) Marx non vede mai
le lotte politiche condotte dai contadini contro i feudatari, ma solo il
servo della gleba docilmente sottomesso al latifondista.
Marx dà per scontato che se il contadino feudale non è riuscito a costituire
un'alternativa al servaggio, non potrà farlo neppure nei confronti del
capitalismo, tant'è che, a suo avviso, i piccoli agricoltori sono destinati
a essere "divorati" dai più grandi e quest'ultimi o vengano rovinati dalla
concorrenza dei capitalisti o si trasformano essi stessi in capitalisti.
Non c'è nel marxismo classico la cultura storica dell'alternativa. Marx è un
determinista, anche se a differenza degli economisti borghesi- vede il
capitalismo come una formazione sociale transitoria.
Per Marx lo scontro è tra "la volgarità aperta, cosciente di sé" del
capitalista e quella "nascosta e incosciente" del nobile feudale (p. 96). I
contadini sono soltanto, in questo dramma storico, delle comparse poco
significative.
E comunque Marx afferma chiaramente di preferire "la brama [borghese] del
possesso" a quella feudale del "godimento"; anche perché il borghese è di
natura "ateo" (con la sua "ragione rischiaratrice"), mentre il nobile resta
"credente" (con la sua "superstizione").
Si legga ora questo pensiero, che il Marx economista maturo avrebbe dovuto
sviluppare e che invece fu abbandonato: "In quanto [l'industria] è un genere
particolare di lavoro [rispetto al servaggio], in quanto è una distinzione
essenziale, importante, vitale, questa distinzione rimane sino a che
l'industria (la vita cittadina) si costituisce avendo di fronte il possesso
fondiario (la vita aristocratica del feudo) e reca ancora in se stessa il
carattere feudale di questo contrasto sotto forma di monopoli, consorterie,
gilde, corporazioni ecc. [da notare che per Marx i "monopoli" sono più una
caratteristica del feudalesimo che del capitalismo], situazioni storiche
determinate entro le quali il lavoro ha ancora un significato apparentemente
sociale, ha ancora il significato della comunità reale, non è ancora
arrivato sino all'indifferenza rispetto al proprio contenuto, cioè non è
arrivato ancora a essere completamente indipendente, cioè ad essere astratto
ad ogni altro essere e quindi anche a essere un capitale emancipato"(2^
Manoscritto).
Il giovane Marx aveva in sostanza intuito che il capitalismo aveva portato
alle estreme conseguenze negative l'apparente socialità della vita feudale
(apparente appunto perché soggetta al servaggio). dando al lavoro un
contenuto astratto (a motivo del primato del valore di scambio), rendendo
così il lavoro un'attività completamente separata dalla comunità d'origine,
ovvero subordinando tutto il lavoro all'interesse particolare dei singoli
capitalisti.
Tuttavia, invece di guardare indietro, cercando di recuperare quanto ancora
di "sociale" esisteva nel Medioevo, Marx ha preferito guardare soltanto
avanti, dando per scontato che nulla poteva essere salvato del passato.
Probabilmente a ciò si era risolto perché aveva visto che tanti proprietari
fondiari s'erano trasformati in capitalisti agrari.
Marx in sostanza aveva intravisto un preciso legame tra economia borghese e
religione cristiana, cioè aveva capito che le radici culturali della nascita
del capitalismo andavano cercate in una negazione teorica e non solo pratica
dei principi del cristianesimo (a differenza del feudalesimo, che invece
pretese di affermare in sede teorica ciò che non riuscì mai a realizzare in
sede pratica).
Tuttavia Marx non volle mai ammettere sino in fondo che tale negazione
teorica non servì affatto a recuperare l'uomo naturale e razionale.
L'emancipazione teorica dalla superstizione cristiana non comportò affatto,
in maniera automatica, una umanizzazione dei rapporti sociali, anzi, il
capitalismo, che pur ebbe bisogno di quella emancipazione per imporsi, non
fece che accentuare ulteriormente l'alienazione nella vita sociale.
Quando, nel 3^ Manoscritto, Marx afferma che all'economia politica borghese
"appaiono come feticisti, come cattolici, i seguaci del sistema monetario e
mercantilista che considerano la proprietà privata per l'uomo come
un'essenza soltanto oggettiva"(p. 101), egli aveva in sostanza capito che il
capitalismo, se poteva nascere in un paese cattolico, nella forma del
capitale usuraio o commerciale, di certo non avrebbe potuto svilupparsi
autonomamente nella forma del capitale industriale se non in un paese
protestante. Purtroppo queste acute osservazioni del giovane Marx sono
rimaste lettera morta, anche nel marxismo contemporaneo.
Dice ancora a p. 102: "l'uomo viene posto nella determinazione della
proprietà privata, come da Lutero viene posto nella determinazione della
religione". Cioè è l'uomo che deve acquistare "proprietà privata" col suo
lavoro o con lo sfruttamento del lavoro altrui, per potersi definire "uomo",
non è più la terra che gli conferisce onore e rispettabilità. Così è il
credente con la sua fede astratta, che può dimostrare d'essere "vero
cristiano", rinunciando o dimenticando tradizioni, sacramenti, gerarchia
ecc. L'individualismo borghese coincide con l'individualismo protestante.
Marx, tuttavia, non si lascia qui ingannare dalla rivoluzione
cristiano-borghese, in quanto egli sa bene che dietro detta rivoluzione si
nascondono altre forme di ipocrisia, diverse ma non meno grandi di quelle
del mondo feudale.
"Così, sotto l'apparenza di un riconoscimento dell'uomo, l'economia
politica... non è... altro che la messa in atto conseguente della negazione
dell'uomo...(p. 102), poiché se prima era la proprietà della terra che dava
senso all'identità dell'uomo, ora è il profitto estorto con lo sfruttamento
del lavoro salariato.
Marx infatti dice che l'economia politica borghese è ipocrita in quanto pone
il lavoro (e non il lavoro non pagato, cioè -come dirà il Marx maturo- il
plusvalore) in antitesi alla rendita, facendo passare il capitalista per un
lavoratore e il feudatario per un ozioso gaudente.
Nei Manoscritti (p. 112) Marx nega che il futuro comunismo abbia qualcosa da
spartire col passato comunismo (netto il suo distacco da Cabet e dagli altri
socialisti utopisti franco-tedeschi). "Se mai esso [comunismo primitivo] sia
qualche volta esistito -sostiene Marx-, proprio il fatto di essere esistito
nel passato è in contraddizione con la pretesa di valere come essenza".
Qui Marx nega un qualunque valore ontologico al comunismo primitivo,
semplicemente perché non ne vede alcuna traccia nel suo presente. Se esso è
scomparso significa che doveva scomparire. "Si vede facilmente la necessità
che l'intero movimento rivoluzionario trovi la propria base tanto empirica
che teoretica nel movimento della proprietà privata..."(p. 112). Cioè il
comunismo moderno deve svilupparsi negando la moderna proprietà privata. e
non tanto ripristinando quella collettiva del comunismo primitivo.
La proprietà privata -secondo la concezione deterministica di Marx, che è
tutta di derivazione hegeliana- è una "necessità storica"(p. 113). Marx
esclude che sia il frutto di una libertà negativa: di qui il suo scarsissimo
interesse a rivalutare le formazioni economiche pre-capitalistiche.
Pertanto egli vuole che anche il comunismo venga considerato come una
"necessità storica". "L'essere umano doveva essere ridotto a questa assoluta
povertà, affinché potesse estrarre da sé la sua ricchezza interiore"(pp.
116-7).
La scienza naturale, in senso lato, "ha preparato l'emancipazione dell'uomo,
pur avendo dovuto immediatamente condurre a compimento la sua
disumanizzazione"(p. 121).
Da notare che nei Manoscritti Marx intuisce perfettamente la necessità di
una rivoluzione pratica o politica, che elimini la proprietà privata, ma
poi, al momento di proporla, si trova nuovamente a dissertare di filosofia,
o comunque, considerando che la critica dell'idealismo hegeliano è
precedente agli studi di economia politica, Marx -esattamente come farà
qualche anno dopo, concludendo il Manifesto con la critica dell'ideologia
politica socialista (utopistica e riformistica)- sul piano organizzativo non
è in grado di proporre alcunché.
I Manoscritti sono comunque un libro molto importante, perché mostrano un
Marx assai più risoluto di quello del Capitale. Il fatto stesso d'aver
esordito parlando del salario e non della merce, è indicativo della volontà
di non voler fare un trattato di economia politica ma semplicemente la
denuncia di un insopportabile antagonismo sociale.
K. MARX, LETTERA AD ANNENKOV (1846)
Pavel Vasilevic Annenkov (Mosca 1813 - Dresda 1887): critico e pubblicista
liberale russo, visse con Gogol' a Roma (che gli dettò il primo volume di
Anime morte) e fu amico di Turgenev. Negli anni 1853-56, insieme a Nekrasov
e Turgenev forma una specie di triumvirato che gestisce le sorti della
letteratura pietroburghese, collaborando alle principali riviste del tempo:
"Annali patri", "Il Contemporaneo". "Annali patri" fu il più autorevole
periodico democratico e occidentalista russo, in continua polemica con i
giornali conservatori slavofili.
Ha scritto Puskin nell'epoca di Alessandro I (1875), Problemi storici ed
estetici del romanzo "Guerra e pace" di L.N. Tolstoj (1868), Lo
straordinario decennio 1838-1848 (1880, memorie).
Conobbe Marx durante i suoi viaggi all'estero. Marx risponde alla lettera di
Annenkov del 1 novembre 1846 (cfr. MEGA III/2, p. 316), in cui questi gli
chiedeva un giudizio sull'opera di Proudhon Système des contradictions
économiques. Annenkov rispose a sua volta a Marx, per ringraziarlo, con la
lettera del 6 gennaio 1847 (cfr. MEGA III/2, pp. 321-322).
* * *
La lettera di Marx è stata scritta originariamente in francese il 28/12/1846
a Bruxelles: trattasi di un parere, un'impressione generale, sul libro di
Proudhon, La filosofia della miseria, contro cui scriverà Miseria della
filosofia tra la fine del 1846 e il giugno del 1847. Annenkov avrà quindi
modo di vedere in anteprima le critiche di Marx al testo di Proudhon.
Marx si era trasferito da Parigi a Bruxelles nel febbraio del 1845, dopo
l'ennesima espulsione. Generalmente si fa risalire al 1846 l'inizio della
sua e di Engels attività politica vera e propria.
Infatti il Comitato di Corrispondenza comunista (la prima organizzazione
politica creata da Marx ed Engels) fu costituito a Bruxelles (sede di molti
rifugiati tedeschi) nel febbraio di quell'anno, allo scopo di tenere
collegati tutti i comunisti europei e soprattutto quelli tedeschi.
In quello stesso anno Marx romperà non solo con la Sinistra hegeliana e
Feuerbach, ma anche con Weitling, Kriege e soprattutto con Proudhon (forte
la critica anche contro la Lega dei Giusti, con sede a Londra). Ciò che non
sopportava assolutamente erano tutte le idee di socialismo artigianale,
filosofico, sentimentale, neocristiano... Marx ed Engels volevano una
"rivoluzione violenta e democratica", fondata su conoscenze economiche molto
approfondite, sebbene in Germania non esistesse ancora un partito
organizzato e attivo. Il partito doveva nascere dal basso verso l'alto e non
doveva essere una "società segreta" né qualcosa che assomigliasse al partito
giacobino, favorevole a un colpo di stato. Notevoli, in tal senso, erano le
simpatie nei confronti del Cartismo, specie per la sua ala radicale.
Proudhon, sebbene fosse stato favorevole alla rivoluzione all'inizio degli
anni '40, aveva smesso di crederci: di qui la critica di Marx.
* * *
Annenkov sembra essere convinto che il libro di Proudhon, Filosofia della
miseria, pur essendo molto limitato sul piano filosofico, possa essere
ritenuto valido su quello economico. Marx invece ribalta la cosa dicendo che
Proudhon offre "una teoria filosofia assurda perché è incapace di
comprendere l'odierna situazione sociale nel suo engrènement..."(p. 217),
cioè nel suo "ingranaggio". Quindi Proudhon non è solo un mediocre filosofo
(nella lettera a Schweitzer del 1865 Marx dirà che "Proudhon sta a
Saint-Simon e a Fourier press'a poco come Feuerbach sta a Hegel"), ma anche
un pessimo economista.
A Marx era piaciuto, sia nella "Gazzetta Renana" che nella Sacra Famiglia,
un altro libro di Proudhon: Che cos'è la proprietà?, ma già nei Manoscritti
del '44 aveva iniziato a prenderne le distanze, giudicando Proudhon debitore
di Fourier.
Nella lettera ad Annenkov la prima critica di Marx è relativa al fatto che
siccome Proudhon capisce poco di economia, è costretto a spiegare le
contraddizioni più complesse ricorrendo al misticismo.
Marx qui delinea molto sinteticamente la sua concezione della storia
(concezione economica della storia o concezione della storia economica?).
Gli uomini ereditano dalle generazioni precedenti determinate forze
produttive ("energia umana pratica", "materia prima per una nuova
produzione", p. 219). "La storia sociale degli uomini non è altro che la
storia del loro sviluppo sociale, ne siano essi coscienti o no"(ib.).
Dopodiché aggiunge: "I loro rapporti materiali sono la base di tutti i loro
rapporti". In che senso la "base"? E' importante saperlo perché è "base" di
tutti i rapporti.
Poco sopra aveva scritto: "Scegliete stadi particolari di sviluppo della
produzione e avrete un'organizzazione corrispondente della famiglia, degli
ordini e classi..."(p. 218). Dunque i "rapporti materiali" sono i rapporti
strettamente connessi a ciò che in ultima istanza dà un senso alla
materialità della vita: la proprietà.
Sulla base della tipologia e dell'uso di questa proprietà si può dedurre la
tipologia della famiglia, delle classi, dei ceti... in una parola il
rapporto antagonistico che gli uomini vivono nelle società, nelle civiltà.
Non si può dar torto a Marx su questo: in effetti, da quando son nate le
civiltà è la proprietà il criterio utile per cercare di capirle.
Tuttavia Marx astrae da ciò che non è "economico". Egli infatti sostiene che
sono i rapporti "materiali", quelli connessi al concetto di "proprietà", che
costituiscono la "base" di tutti i rapporti. Cioè i rapporti sociali non si
autorappresentano, poiché all'interno di questi rapporti Marx ha bisogno di
estrapolare un aspetto particolare: quello economico, ponendolo al disopra
di tutti gli altri.
E non solo riduce il rapporto sociale a rapporto economico o materiale, ma
isola questo rapporto dalle altre due sfere che gli sono strettamente
connesse: il culturale e il politico. A dir il vero la sfera culturale
(sostanzialmente la filosofia e la critica della religione) ha interessato
Marx fino al maggio 1846, data in cui ha chiuso la stesura con Engels
dell'Ideologia tedesca. Mentre per quanto riguarda la politica, va detto che
quella attiva vera e propria lo riguarderà sino a quando emigrerà a Londra,
mentre quella in senso lato lo interesserà tutta la vita.
Max insomma non vede l'uomo come una sintesi dei tre aspetti, come un tutto
unico e integrato, ma vede sostanzialmente solo i rapporti di proprietà, i
quali danno un senso a tutto il resto.
Qual è la differenza tra questa concezione e quella borghese? E' la stessa
che passa tra il sistema hegeliano e il metodo hegeliano della dialettica:
il primo è conservatore, il secondo è rivoluzionario. Se Hegel fosse stato
coerente coi principi affermati in sede filosofica, avrebbe dovuto lottare
contro lo Stato prussiano e non difenderlo sino all'ultima pubblicazione.
La differenza di sostanza sta nel fatto che per la borghesia i rapporti di
proprietà privata sono un totem da adorare; per Marx invece da distruggere.
Egli infatti sostiene che la necessità di "mutare tutte le forme sociali
tradizionali"(p. 219) serve per adeguare i rapporti produttivi alle forze
produttive ed egli è altresì convinto che il modo migliore di utilizzare le
forze produttive acquisite grazie al capitalismo sia quello di realizzare
dei rapporti sociali ove la proprietà non sia privata ma pubblica o sociale.
E' la logica dell'interesse, non quello per il profitto privato ma quello
per il bene comune, che deve far scattare la rivoluzione.
Ovviamente anche la borghesia fa continuamente un discorso di adeguamento
dei rapporti alle forze produttive, ma lo fa senza mai mettere in
discussione i limiti della proprietà privata dei mezzi produttivi. Anche la
borghesia è mossa da un interesse, ma è quello privato dei profitti.
Come si può notare sembra non esistere una differenza abissale tra Marx e la
borghesia. La differenza sta piuttosto nella "forma sociale" con cui Marx
vorrebbe che fossero gestite le forze produttive. Egli infatti non mette in
discussione il valore, la legittimità, la tipologia di tali forze, ma
piuttosto l'involucro in cui vengono utilizzate, che è quello dell'industria
privata.
Qui siamo nel '46 e da quello che dice pare che Marx voglia sperare di
convincere la borghesia ad accettare in maniera indolore, come una
"necessità storica", la transizione dal capitalismo al socialismo. Lui
stesso d'altra parte nella lettera è disposto ad accettare come cosa
necessaria la transizione dal feudalesimo al capitalismo. Infatti, il
feudalesimo permise, seppure in maniera nascosta, non ufficiale, l'accumulo
di capitali, il commercio transoceanico, la fondazione delle colonie, e
quando queste realtà si svilupparono -dice Marx-, il feudalesimo non fu più
in grado di opporvisi, e se lo fece con la forza, con la forza venne
distrutto (p. 220).
Marx ragiona in termini hegeliani, anche se ha tolto all'hegelismo ogni
sovrastruttura mistica. Proudhon non capisce l'economia perché non sa
applicare ad essa la categoria hegeliana della necessità storica.
Marx non ragiona mai col "se ipotetico", non si chiede mai cosa sarebbe
potuto accadere se fossero state fatte scelte diverse. Lui si considera come
uno scienziato che prende le cose come un dato di fatto, dopodiché le
analizza a fondo sul piano economico per riuscire a proporre il modo
migliore per farle funzionare. In un certo senso si comporta come uno
scienziato della natura, con la differenza che l'oggetto dei suoi studi è
l'homo oeconomicus.
Ecco perché vede Proudhon come un hegeliano vecchia maniera, che spiega la
realtà partendo dalle idee, invece di andare a cercare nella realtà stessa
le ragioni del suo sviluppo.
Tuttavia i metodi di Marx erano troppo radicali perché una qualunque
borghesia li potesse accettare. Persino negli ambienti del socialismo
utopistico risultavano inaccettabili.
In effetti, di diverso tra Marx e gli ideologi borghesi (e i socialisti
utopistici) è soprattutto il modo di concepire l'adeguamento dei rapporti
alle forze produttive. Marx crede poco ai processi spontanei o pacifici,
anche se non li esclude a priori. Anzi, il Capitale è in fondo un gigantesco
tentativo di dimostrare la necessità di un processo che se fosse avvenuto in
maniera spontanea sarebbe stato un bene per tutti, in quanto avrebbe fatto
risparmiare innumerevoli sofferenze.
Tuttavia in questo periodo (1846-49) Marx è tutt'altro che un politico
tollerante e la lettera ad Annenkov lo dimostra. A suo giudizio Proudhon
rappresenta in Francia la quintessenza del tradimento degli intellettuali di
sinistra, che da rivoluzionari sono diventati al massimo riformisti. Ecco
perché in luogo di una transizione indolore, Marx preferisce pensare a un
"grande movimento storico che sorge dal conflitto tra le forze produttive
già conquistate dagli uomini e le loro relazioni sociali, che non
corrispondono più a queste forme produttive"; a "guerre terribili che si
preparano tra le diverse classi entro ciascuna nazione e tra nazioni
differenti"; all'"azione pratica e violenta delle masse che è l'unica via
attraverso la quale questi conflitti si possono risolvere"(p. 229).
La "violenza" rivoluzionaria come "unica via" - Marx è esplicito, e non solo
in questa lettera privata, anche perché ha già sperimentato su di sé il
fallimento del compromesso della Sinistra hegeliana con la borghesia
liberale tedesca. Marx è stato non solo espulso dalla Germania ma anche
dalla Francia. Per questo non voleva farsi illusioni. E crede fermamente
nella necessità di un "movimento politico" popolare, di massa, che risolva
le contraddizioni tra capitale e lavoro. Cioè non vuole più un compromesso
tra proletariato e borghesia, tra società civile e Stato politico. Vuole una
rivoluzione come quella francese dell'89, dove il protagonista non sia la
borghesia ma il proletariato.
Notevole è la sua descrizione del socialismo piccolo-borghese di Proudhon:
"In una società progredita e costrettovi dalla propria situazione, il
piccolo borghese diventa da un lato socialista, dall'altro economista, cioè
egli è accecato dallo splendore della grande borghesia ed ha compassione per
le sofferenze del popolo. Egli è borghese e popolo al tempo stesso.
Nell'intimo della sua coscienza si lusinga di essere imparziale, di aver
trovato l'equilibrio giusto, che avanza la pretesa di essere qualcosa di
diverso dal giusto mezzo. Un piccolo borghese del genere divinizza la
contraddizione, perché la contraddizione è il nucleo del suo essere. Egli
non è altro che la contraddizione sociale messa in azione. Egli deve
necessariamente giustificare mediante la teoria ciò che egli è nella
pratica, e Proudhon ha il merito di essere l'interprete scientifico della
piccola borghesia francese; e questo è un merito reale, perché la piccola
borghesia sarà una parte integrante di tutte le rivoluzioni sociali che si
stanno preparando"(p. 231).
Quindi Marx non esclude la possibilità di un'intesa politica con la
piccola-borghesia: non a caso, dopo la costituzione del Comitato di
Corrispondenza comunista, Marx cercherà proprio con Proudhon di costruire,
per la parte relativa alla Francia, la rete europea dei comunisti, ma dopo
il ripiegamento di quest'ultimo verso posizioni moderate, la rottura sarà
inevitabile e definitiva. Il giovane Marx non poteva accettare compromessi
che non giustificassero la necessità della rivoluzione. Persino un "largo
settore" del partito comunista tedesco -com'egli dice nella lettera ad
Annenkov- lo ostacola, poiché non sopporta le sue critiche alle "utopie" e
alle "declamazioni"(p. 232).
Oggi tuttavia, guardando le cose col senno del poi, ci chiediamo quali
garanzie di democrazia per il socialismo scientifico possa offrire una
trasformazione della proprietà da privata a sociale. Marx non dice nulla su
questo, almeno in questa lettera (però vedi la Critica al programma di Gotha
del 1875). La trasformazione sembra essere uno slogan, o un compito da porsi
non prima ma dopo la conquista rivoluzionaria del potere politico. Non a
caso nella Russia bolscevica si arrivò a fare coincidere "sociale" con
"statale", determinando la più grande illusione di tutto il socialismo
reale.
Noi sappiamo che la grandezza di Marx sta nell'aver avuto il coraggio di
dire, dimostrandolo concretamente, che il capitalismo non può essere
considerato come una formazione sociale destinata a durare in eterno, e che
le stesse categorie dell'economia politica borghese sono destinate ad essere
superate, e sappiamo anche che a Marx non piaceva né la concorrenza (a
questa preferiva l'emulazione tra operai o imprese), né ovviamente il
monopolio (come anche in questa stesse lettera dice, cfr p. 226).
Per realizzare il comunismo ci vuole un progetto che indichi, a grandi
linee, non solo il modo di conquistare il potere, ma anche quello di
gestirlo dopo averlo preso, perché le questioni sociali, culturali, di
valore, non sono meno importanti delle strategie politiche e delle analisi
economiche.
Altrimenti si rischia di condividere idee che di per sé sono inaccettabili,
come queste di Proudhon, che Marx riprende senza neppure criticarle: "La
schiavitù diretta, la schiavitù dei negri a Surinam, in Brasile, nelle
regioni meridionali del Nordamerica... è il cardine del nostro
industrialismo attuale proprio come le macchine, il credito ecc. Senza
schiavitù niente cotone. Senza cotone niente industria moderna. Solo la
schiavitù ha conferito alle colonie il loro valore, solo le colonie hanno
creato il commercio mondiale e il commercio mondiale è la condizione
necessaria della grande industria meccanizzata. Così le colonie, prima della
tratta dei negri, fornivano al vecchio mondo pochissimi prodotti e non
cambiarono in modo percepibile il volto del mondo. Perciò la schiavitù è una
categoria economica della massima importanza. Senza la schiavitù l'America
del nord, che è il paese più progredito, si trasformerebbe in un paese
patriarcale. Si cancelli l'America del nord dalla carta delle nazioni e si
avrà l'anarchia, la decadenza totale del commercio e della civiltà moderni.
Ma fare scomparire la schiavitù vorrebbe dire cancellare l'America dalla
carta delle nazioni. Così pure la schiavitù, essendo una categoria
economica, si trova presso tutti i popoli fin dall'inizio del mondo. Le
nazioni moderne hanno saputo semplicemente mascherare la schiavitù nei loro
paesi e introdurla apertamente nel Nuovo Mondo"(p. 226).
* * *
Oggi possiamo dire che qualunque progetto relativo al socialismo democratico
non può prescindere da un riesame delle civiltà precapitalistiche e
addirittura primitive. Gli intellettuali marxisti non hanno mai apprezzato
il pre-capitalismo, e in questo sono figli dell'ideologia borghese, e
sostanzialmente non hanno mai messo in discussione il progresso scientifico
e tecnologico e quindi l'impatto ch'esso ha avuto non solo sugli uomini ma
anche sulla natura.
Oggi sappiamo che nelle civiltà primitive o primordiali (il "previous", come
si potrebbe definire), il vero progresso stava nell'assicurarsi facilmente
una riproduzione compatibile con la riproduzione della natura. E' da questo
che bisogna partire.
Se dovessimo decidere un criterio per determinare quando un mezzo tecnico è
davvero utile, dovremmo dire ch'esso lo è, anzitutto, quando è compatibile
con le esigenze riproduttive della natura, che dobbiamo conoscere
preventivamente, ancor prima di decidere qualunque tipologia di formazione
sociale.
Questo perché il progresso economico o tecnologico non è di per sé un indice
sicuro del miglioramento dello stile di vita di una società o civiltà.
Noi dobbiamo abituarci a considerare l'economico come strettamente
subordinato al sociale. Il "sociale" è la vera dimensione che indica il
"benessere" di una collettività. Nel sociale l'economico è solo una parte,
altre parti sono, oltre al già citato rispetto della natura, il rispetto di
ogni persona, anche quella meno produttiva in rapporto a una media generale,
anche quella del tutto improduttiva, perché impedita da qualcosa; quindi il
rispetto della diversità: fisica, etnica, linguistica o di concezioni di
vita.
Se non si chiarisce che il sociale abbraccia molti più campi dell'economico,
si finisce col formulare degli enunciati che, a motivo della loro
astrattezza, genericità e ambiguità, risultano falsi in partenza o falsati
nelle loro immediate applicazioni.
Il discrimen che distingue una formazione sociale da un'altra è proprio il
carattere umano, democratico, conforme alle esigenze della natura, che si è
in grado di far valere. Una caratteristica del genere non può essere
patrimonio di una singola classe sociale: o appartiene all'insieme del
collettivo o è falsa. Cioè anche se è una classe che la fa valere, questa
stessa classe deve avere come obiettivo qualcosa di più generale.
Quando nell'antica Grecia si affermò la democrazia sull'aristocrazia o
sull'oligarchia o sulla dittatura, si trattava sempre di una conquista
politica ottenuta in un sistema sociale basato sullo schiavismo e sulle
differenze di classe. Considerare più utile al socialismo il concetto greco
di democrazia che non la democrazia praticata (non codificata da leggi
scritte) dalla comunità primitiva di villaggio, significa avere un concetto
di democrazia non molto diverso da quello dei teorici borghesi.
E' in tal senso da escludere a priori che il socialismo possa accettare
alcunché dal mondo borghese o da qualunque altra civiltà che non nasca da
esigenze specifiche dello stesso socialismo, le quali non possono essere
dettate dall'alto.
Si può ritenere possibile che una rivoluzione possa essere condotta con
l'aiuto di intellettuali professionisti o comunque di cittadini e lavoratori
più disponibili o più consapevoli di altri, ma è da escludere a priori che
tali soggetti, a rivoluzione compiuta, possano accampare più diritti del
popolo lavoratore.
E' assurdo pensare che le rivolte contadine o operaie, antiborghesi o
antifeudali, dei secoli precapitalistici siano fallite perché i rivoltosi
erano poco consapevoli delle contraddizioni sociali o dei loro interessi di
classe. Questa mancanza di consapevolezza esiste tutt'oggi, nonostante sia
notevolmente aumentato il livello culturale generale.
Le rivoluzioni del passato non sono fallite perché mancava il "Capitale" di
Marx. Per realizzarsi, le rivoluzioni non avevano bisogno di trattati di
economia. E' vero che non può esistere "prassi rivoluzionaria" senza "teoria
rivoluzionaria", ma è anche vero che senza coerenza e determinazione
rivoluzionaria, da parte di intellettuali e masse oppresse, senza
organizzazione e divulgazione capillare delle idee rivoluzionarie, ogni
definizione di "teoria" e di "prassi rivoluzionaria" rischia di rimanere
puro flatus vocis. Ecco perché il marxismo non può fare a meno del
leninismo.
Poiché la reazione controrivoluzionaria non si farà attendere, occorre
sempre una resistenza popolare: una rivoluzione che non si sa difendere, non
vale nulla, diceva Lenin.
Bisognerebbe trovare una legge che indichi la proporzione tra fallimento
della rivoluzione e consapevolezza rivoluzionaria necessaria per compiere la
rivoluzione successiva.
IL MANIFESTO
Il concetto di "rivoluzione", attribuito dal marxismo alla borghesia, va
rivisto, poiché non è più accettabile l'idea che una rivoluzione della vita
socioeconomica (dal punto di vista materiale, tecnico e produttivo),
comporti di per sé un progresso significativo sul piano dei valori umani
universali. Di quale "rivoluzione" si può parlare laddove esiste il peggior
sfruttamento dell'uomo e della natura che mai la storia abbia conosciuto?
Certo, la borghesia è stata progressista rispetto alla classe feudale,
parassitaria quanto mai, ma i difetti del sistema borghese sono
infinitamente superiori ai suoi pregi, e di questo era possibile accorgersi
anche prima che la borghesia acquisisse il potere politico.
Probabilmente nell'Europa occidentale la borghesia è andata al potere perché
la società feudale, pur accorgendosi dei limiti dell'attività economica
borghese, non aveva saputo trovare valide alternative al servaggio e al
clericalismo. La lotta del mondo contadino contro le illusioni religiose e
la soggezione feudale non riuscì a darsi gli strumenti per superare il
servaggio senza cadere nel lavoro salariato.
Riconoscere una funzione rivoluzionaria alla borghesia, non può implicare,
neppure indirettamente, una qualche sottovalutazione delle capacità di
resistenza politica e sociale della classe contadina nei confronti non solo
dell'emancipazione borghese, ma anche dello sfruttamento nobiliare. Anche
perché si finirebbe col negare alla società feudale un valore socioeconomico
positivo (si pensi ad es. all'autoconsumo, alla valorizzazione delle risorse
locali, al primato del valore dell'uso su quello di scambio, ecc.). Non
dobbiamo dimenticare che la società feudale del Basso Medioevo si è
imbarbarita anche in risposta all'emergere della borghesia. Il feudalesimo
ha perso la sua battaglia contro il capitalismo semplicemente perché si era
limitato a difendere ad ogni costo i privilegi acquisiti.
D'altra parte l'emergere della prassi borghese, in Europa occidentale, è
dipeso anche dalle contraddizioni interne alla società feudale: se il
servaggio non fosse stato così radicale e se la chiesa che lo difendeva non
fosse stata così lontana dagli interessi delle classi popolari,
probabilmente il capitalismo non sarebbe nato, o sarebbe nato con meno
violenza o con più ritardo, oppure avrebbe incontrato -come nell'Europa
dell'est- una resistenza diversa, basata non sulla difesa del passato (vedi
ad es. il populismo) ma sulla ricerca di nuove soluzioni (socialismo
scientifico).
Nel Manifesto Marx afferma che la differenza tra lo sfruttamento feudale e
quello borghese stava semplicemente nel fatto che il primo era "velato da
illusioni religiose e politiche", mentre il secondo è "aperto, senza pudori,
diretto e arido". Il motivo di ciò va ovviamente ricercato nella progressiva
emancipazione dalla religione cattolica: di essa la borghesia conservò il
carattere autoritario e oppressivo, ma si liberò delle forme più clericali
ed ecclesiastiche. Essendo più libera di agire, la borghesia poté sviluppare
il proprio atteggiamento ateistico perfezionando i mezzi produttivi sino al
punto da rivoluzionare tutta la società. La vera rivoluzione della borghesia
è stata quella industriale, poiché è da questa che dipende tutto il resto.
Oggi stiamo costatando che lo sfruttamento borghese delle risorse naturali e
umane comporta delle conseguenze molto più tragiche di quello feudale. Ecco
perché non è più possibile pensare, neanche come "storici", che lo
sfruttamento borghese è, nonostante tutto, da preferire a quello feudale. La
scelta di superare il feudalesimo col capitalismo è stata senza dubbio molto
lenta, ed è stata fatta, probabilmente, non solo nella consapevolezza di non
avere valide alternative, ma anche nella speranza di poter ottenere un
futuro migliore.
Tuttavia, oggi possiamo volgere lo sguardo indietro e chiederci se la scelta
compiuta sia stata la migliore, ovvero se le cose potevano andare
diversamente. Il Manifesto non è in grado di rispondere a questa domanda.
Non è neppure in grado di rispondere alla domanda -che Lenin stesso si
poneva- relativa ai mezzi e modi concreti per superare la società borghese
senza ricadere in quella feudale. Esso offre solo delle indicazioni molto
generali.
Di una cosa comunque occorre essere certi: il fatto che l'uomo della società
borghese sia giuridicamente "libero", mentre quello della società feudale
era soggetto a vincoli di carattere personale, non deve farci credere che,
in ultima istanza, lo sfruttamento borghese sia più sopportabile di quello
feudale. Marx ha detto che lo sfruttamento borghese è "senza veli": in
realtà esso ne conserva uno analogo a quello che la chiesa applicava al
servaggio. La chiesa garantiva la libertà nell'aldilà, la borghesia invece
la garantisce da subito, ma solo per se stessa.
La borghesia non è che una forma laicizzata (giuridica) dell'illusione,
della mistificazione compiuta dalla chiesa sul terreno religioso. La
borghesia fece un notevole progresso in direzione dell'ateismo, ma restando
all'interno della logica dello sfruttamento economico, vanificò i risultati
della sua emancipazione ideologica. La borghesia infatti è costretta ad
ammettere lo stesso dualismo di teoria e prassi della chiesa cattolica.
Marx nel Manifesto lesse il fenomeno dello sviluppo capitalistico con gli
occhi del filosofo impegnato politicamente, non con quelli dello storico
dell'economia (come invece farà nel Capitale). Il limite del Manifesto sta
appunto nella sua impostazione: con una sorta di "filosofia della storia" il
giovane Marx aveva la pretesa di sollevare le masse proletarie contro il
capitalismo. Il Che fare? di Lenin è impostato in modo molto più operativo.
La conseguenza quale è stata? L'astrattezza, e soprattutto una certa
prevalenza dell'elemento ideologico su quello politico-organizzativo.
L'importanza della classe contadina Marx la scoprirà come "storico", Lenin
come "politico".
Nel Manifesto si ha la netta impressione che Marx apprezzi la superiorità
del capitalismo sul feudalesimo, soprattutto perché la borghesia ha saputo
emanciparsi ideologicamente dal dominio della religione. Di conseguenza Marx
non può mettere in discussione la scelta borghese di puntare il proprio
benessere economico sullo sviluppo forzato dell'industrializzazione.
L'industria infatti appare al giovane Marx come lo strumento principale per
emanciparsi dal feudalesimo. Il proletariato non deve fare altro che
togliere questo strumento alla borghesia, che l'ha privatizzato, e costruire
una società più umana e socializzata.
Marx non avrebbe mai ammesso che tra lo sfruttamento e l'ateismo borghesi da
un lato, e lo sfruttamento e la religiosità medievale dall'altro,
probabilmente quest'ultimi erano più "sopportabili" (meno cinici, meno
brutali). Nel Manifesto Marx tende a giustificare il superamento del
servaggio coll'emancipazione dal clericalismo, ma questa sua posizione è di
tipo illuministico. Solo col tempo egli si renderà conto che la religione
non costituisce di per sé un fattore più alienante dello sfruttamento
economico.
Marx tuttavia non arriverà mai a studiare in quali aspetti la religiosità
medievale può essere considerata meno alienante dell'ateismo borghese (la
società feudale, pur con tutti i suoi limiti, esprimeva un senso del
collettivo superiore a quello della società borghese: ciò non poteva non
avere un riflesso sull'ideologia).
E' quindi ingiusto affermare che la borghesia "ha strappato una parte
notevole della popolazione all'idiotismo della vita rustica" - come si dice
nel Manifesto. Come si può sostenere che la borghesia "ha reso dipendenti
dai popoli civili quelli barbari e semibarbari, i popoli contadini da quelli
borghesi, l'Oriente dall'Occidente"? Cioè, come si può sostenere che il
"popolo borghese" sia, solo perché più evoluto tecnologicamente, più
"civile" di quello contadino, o che l'Occidente capitalistico e protestante
sia più "civile" dell'Oriente feudale e ortodosso? Si può forse far
coincidere strettamente "civiltà" e "sviluppo produttivo"? Si può veramente
considerare più "evoluta" quella civiltà che in nome del progresso
economico, della scienza e della tecnica distrugge l'ambiente, provoca
squilibri ecologici, mette in forse la stessa sopravvivenza del genere
umano?
Peraltro, siamo veramente sicuri che sia un segno di progresso o di civiltà
l'aver creato, da parte della borghesia, "una sola nazione, un solo governo,
una sola legge, un solo interesse nazionale di classe, un solo confine
doganale"? Tutto ciò è stato senza dubbio un progresso per la borghesia, ma
lo è stato anche per tutte le altre classi? Sarebbe stata possibile tutta
questa centralizzazione senza la soggezione della stragrande maggioranza dei
lavoratori o senza lo sfruttamento selvaggio delle colonie? E' stato
veramente un segno di sicuro progresso l'aver unificato tutto in nome dello
sfruttamento capitalistico?
Nessuno mette in dubbio che "i rapporti feudali di proprietà [ad un certo
punto] non corrispondevano più alle forze produttive già sviluppate" e che
pertanto bisognava spezzare quelle "catene", ma la soluzione scelta dalla
borghesia era l'unica possibile? Forse per il fatto che s'è imposta dobbiamo
essere indotti a credere che, in ultima istanza, essa fosse la migliore?
Nell'accettare l'inesorabilità della scelta capitalistica, Marx non s'è
forse lasciato influenzare eccessivamente dalla mentalità protestante?
Bisogna però valutare attentamente questa frase che Engels mise in una nota
del Manifesto, che aiutava a spiegare la seguente perentoria affermazione:
"La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte
di classi".
Scrive Engels nell'edizione inglese del 1888: "Vale a dire, tutta la storia
scritta. Nel 1847, la preistoria della società - l'organizzazione sociale
esistente prima della storia tramandata per iscritto - era poco meno che
sconosciuta. Da allora, Haxthausen scoprì la proprietà comune della terra in
Russia, Maurer dimostrò che essa era la base sociale da cui presero avvio
tutte le razze teutoniche nella storia, e presto ci si rese conto che le
comunità paesane erano, o erano state, dappertutto la forma primitiva della
società, dall'India all'Irlanda. L'organizzazione interna di tali società
comunistiche primitive venne svelata, nella sua forma tipica, dalla grande
scoperta di Morgan della vera natura della gens e della sua relazione con la
tribù. Con il dissolvimento di queste comunità primordiali la società iniziò
a differenziarsi in classi separate e, successivamente, antagoniste. Ho
cercato di ripercorrere questo processo di dissolvimento in Origine della
famiglia, della proprietà privata e dello Stato, Stoccarda 1886)".
In realtà dunque non è mai esistito alcun conflitto di classe nel periodo,
infinitamente più lungo della storia dell'uomo, chiamato impropriamente
"preistoria".
DIALETTICA MARXIANA ED HEGELIANA:
Nel Poscritto alla IIa edizione del Capitale, Marx se la prende con coloro
che avevano equiparato il suo metodo dialettico a quello hegeliano. In
effetti, laddove al cap. XXIV egli afferma che "la produzione capitalistica
partorisce dal suo seno, con la necessità d'un processo della natura, la
propria negazione" (e cioè il proletariato), era facile scorgere un
riferimento al modo d'esprimersi hegeliano.
Nel Poscritto Marx reagisce all'accusa di aver plagiato Hegel dicendo, a
chiare lettere, che "per Hegel il processo del pensiero... è il demiurgo
della realtà, mentre la realtà è solo il suo fenomeno esteriore. Invece per
me il fattore ideale è solamente il fattore materiale trasferito e tradotto
nella mente degli uomini".
Fin qui la differenza di metodo, tra i due, è evidente. Anzi, Marx,
riconoscendo il valore del suo antico maestro, si vanta di aver adottato la
dialettica hegeliana (ovviamente senza il "rivestimento mistico") per
dimostrare che il capitalismo è solo una formazione sociale destinata -come
tutte le formazioni sociali- ad essere storicamente superata. Il che
dovrebbe mostrare -lascia intendere Marx- che l'uso della dialettica è più
conseguente nel Capitale che non nella Scienza della logica.
In realtà, se c'è un testo marxiano in cui l'uso della dialettica assomiglia
di più a quello hegeliano, questo è proprio il Capitale. Non è infatti
sufficiente, per essere antidealisti, sostenere che "il fattore ideale non è
che il fattore materiale trasferito e tradotto nella mente degli uomini".
Un'affermazione del genere non esclude di per sé il rischio di cadere nel
materialismo metafisico.
Se ad essa non si aggiunge che il "fattore ideale" può essere usato dagli
uomini per opporsi al riflesso negativo sulla loro mente, prodotto dalla
realtà antagonistica del capitalismo; se in luogo di questo si preferisce
sostenere che il superamento del capitalismo avverrà in maniera "naturale",
cioè spontanea, necessaria, inevitabile, a causa delle contraddizioni
interne al sistema e non tanto a causa della lotta politica contro tali
contraddizioni - allora il rischio di cadere nell'idealismo (rivestito
questa volta dell'analisi economica) diventa non meno inevitabile.
Per uscire veramente dai limiti dell'idealismo non è sufficiente criticare
l'economia politica borghese: occorre un diverso atteggiamento nella prassi,
quello politico-rivoluzionario. Il tempo impiegato nel cercare di analizzare
le contraddizioni economiche del capitalismo è meglio impiegarlo per cercare
di superarle politicamente, facendo leva sugli effetti ch'esse producono
nella vita dei lavoratori. L'analisi economica di quelle contraddizioni
potrà essere fatta dopo la rivoluzione socialista, se ve ne sarà ancora il
bisogno.
In questo sta la differenza tra Marx e Lenin e chiunque abbia la pretesa di
dire che Lenin non ha mai avuto la profondità analitica di Marx,
dimostrerebbe soltanto di non aver capito nulla del marxismo.
OSSERVAZIONI SULL'IMPIEGO DELLA DIALETTICA NEL PENSIERO MARXIANO - 1
1) Da Hegel a Marx, evoluzione del metodo
2) La dialettica in Marx:
a dialettica propriamente detta;
la 'dialettica' come compenetrazione
3) Implicazioni della dialettica marxiana:
il 'realismo' scientifico;
il posto della libertà umana nella filosofia marxiana
4) Il rapporto dello storicismo marxiano con quello hegeliano
1) Da Hegel a Marx, evoluzione del metodo
Il merito della scoperta del metodo dialettico va ascritto a Hegel, il quale
ha interpretato il divenire storico come un procedimento di
tesi-antitesi-sintesi, ovvero di: posizione, (sua) contraddizione,
contraddizione della contraddizione (ovvero risoluzione della contraddizione
stessa). E' questa la legge a porsi, secondo Hegel, a base del divenire
storico. Egli infatti vede nell'Idea ovvero nell''astratto", il 'succo'
stesso del divenire dialettico: la dialettica essendo il movimento
attraverso il quale l'Idea si aliena da se stessa e, successivamente,
ritorna a se stessa.
Due sono perciò i punti attorno a cui ruota il pensiero hegeliano: a) il
movimento dialettico; b) l'Idea che, attraverso tale movimento (di
tesi-antitesi-sintesi), esce da sé (si aliena) e infine ritorna a se stessa.
Tale pensiero è la somma di due concetti: quello di dialettica e quello di
Spirito, Pensiero o Idea: è insomma la 'dialettica dell'Idea'.
Anche il pensiero marxiano viene definito 'dialettico': e tuttavia una tale
definizione non è di per sé sufficiente e richiede un'integrazione: il
pensiero di Marx è infatti definito 'materialismo dialettico'.
Perché materialismo dialettico? Perché in esso il binomio tra Idea e
dialettica viene superato, in funzione di un altro più realistico binomio:
quello tra materia (ossia il mondo, la concretezza, e in generale le reali
forze che muovono il mondo e che si muovono in esso.) e dialettica. In altri
termini, quello descritto da Marx non è il movimento dell'Idea nella storia,
bensì quello della storia stessa, intesa come l'insieme delle forze sociali
reali (in eterna trasformazione) che la costituiscono.
Da una posizione ingenua, che ha tuttavia indiscutibilmente il merito di
inquadrare una tale problematica (quella dialettica) a un livello
astrattamente logico, si passa così a una evoluzione realistica e
'scientifica' della stessa; in questo senso il marxismo costituisce un
innegabile avanzamento rispetto alla filosofia hegeliana.
[Si badi però che, merito non indifferente di Hegel, è l'aver fondato un
paradigma di ricerca divenuto oggi tanto indispensabile quanto spesso
inconsapevole: quello che intende la verità o la ricerca su un dato
argomento come comprensione del suo sviluppo storico, ovvero in una parola
come lo studio della sua evoluzione. Un paradigma, quello evolutivo, che è
stato fatto proprio forse più dalla ricerca scientifica che da quella
filosofica: si pensi ad esempio alle moltissime discipline scientifiche
che - partendo dalla psicologia per arrivare alla cosmologia - hanno fatto
della problematica storica ed evolutiva il nodo essenziale, quando non
fondamentale, della propria indagine.]
Tornando a Marx, e allo sviluppo che nel suo pensiero ha avuto il metodo
dialettico, è da notare come tale evoluzione 'materialista' implichi anche -
dati i diversi presupposti che ne sono a base - un profondo cambiamento e
uno 'snaturamento' di quello stesso metodo, come veniva inteso da Hegel.
Oggetto di questo scritto è appunto la differenza tra i due diversi metodi
nonché, ovviamente, il funzionamento peculiare della dialettica marxiana
(ovvero materialistica e scientifica).
2) La dialettica in Marx:
La filosofia marxiana è tanto diversa, non solo quanto a ideali politici, ma
anche quanto all'uso che in essa viene fatto della metodologia di Hegel, che
alcuni studiosi hanno cercato di mostrare come in realtà tale filosofia non
sia veramente dialettica.
Per costoro infatti, il pensiero di Hegel (con la sua visione idealistica e
quindi 'astratta' del divenire) è stato solo uno spunto, quasi una traccia
per Marx, il quale ha successivamente sviluppato - seppure a partire da
Hegel - una concezione della storia troppo scientifica, troppo realistica
per poter essere correttamente definita come una concezione dialettica
(ovvero basata su tesi-antitesi-sintesi) - e ciò anche se a tale definizione
si aggiunga il termine 'materialista'.
Tale visione, fondamentalmente errata, di un Marx non dialettico, ha
tuttavia delle basi molto solide, che riposano su alcuni elementi di
ambiguità presenti nella stessa teoria marxiana.
Si mostrerà infatti, qui avanti, come il pensiero di Marx (e di Engels)
contenga al suo interno alcune distinzioni che ne rendono - qualora
rimangano sottintese - estremamente difficile una comprensione del tutto
chiara e coerente.
La distinzione fondamentale che bisogna fare è quella tra due diversi modi
in Marx di intendere la dialettica: quello dialettico in senso proprio, e
quello tale solo in senso improprio (vedremo più avanti perché improprio, e
cosa ciò implichi).
a - La dialettica propriamente detta
Sin dagli scritti giovanili, Marx riconosce esplicitamente il proprio debito
nei confronti di Hegel (filosofo amato e quasi venerato, ma anche a tratti
duramente criticato per le sue posizioni politiche), inquadrando
essenzialmente tale debito nella scoperta fatta da Hegel della forza della
negatività come motore della storia e del divenire. Da questo punto di
vista, Marx è e resta un pensatore genuinamente dialettico.
La sua visione del divenire storico infatti, implica che i differenti
periodi che ne scandiscono l'evoluzione conoscano - schematicamente
parlando - prima una parabola ascendente (all'interno della quale sviluppano
i propri presupposti positivi) e successivamente una parabola discendente
(nella quale invece le forze produttive, oramai troppo sviluppate, finiscono
per superare i presupposti alla base di tale periodo, entrando in
contraddizione con esso, e determinandone così la crisi). Anche qui dunque -
come in Hegel - è evidente come a una fase positiva ne segua una negativa,
che in sostanza contraddice la prima (ecco appunto la tesi e la sua
antitesi!).
Vi è poi il terzo momento, quello in cui avviene il superamento della
contraddizione precedentemente delineata (quella cioè tra le 'nuove' forze
produttive e quelle sovrastrutture che in una determinata società detengono,
per ragioni ormai meramente storiche, il potere direttivo). E' qui
riconoscibile in qualche modo l'idea hegeliana della sintesi, ovvero del
superamento della contraddizione precedente (se vogliamo, la 'contraddizione
della contraddizione').
In questi termini, la concezione marxiana è pienamente dialettica, con tutto
ciò che questo comporta: essa infatti adombra una concezione deterministica
della storia, secondo la quale l'autonomo sviluppo delle forze produttive
(ovvero sociali) determina necessariamente, a un certo punto della propria
maturazione, uno scollamento tra le due dimensioni che sono alla base di
qualsiasi società: quella strutturale e quella sovra-strutturale (i poteri
politici e le tradizioni culturali, ideologiche, ecc.)
Ogni paradigma sociale è dunque destinato a generare da se stesso la propria
contraddizione e successivamente il proprio superamento.
E' qui chiaramente visibile il processo per tesi, antitesi e sintesi, con le
sue implicazioni 'idealistiche': ovvero l'ineluttabilità del divenire
storico e dei suoi passaggi, che lo rendono in qualche modo esprimibile
attraverso uno schema astratto, ideale (quale può essere ad esempio la
schematizzazione marxiana della storia come susseguirsi di differenti
periodi: società tribale, schiavistica, feudale, ecc.).
Ma vi è anche, nella filosofia marxiana, un differente uso del concetto di
dialettica, che offusca quello precedente, velandone il rigore e la
linearità, con la conseguenza - come abbiamo già detto - che alcuni studiosi
dubitano che il suo sia un pensiero 'genuinamente' dialettico.
b - La 'dialettica' come compenetrazione
Finora abbiamo analizzato la parte unidirezionale del pensiero di Marx,
quella che - basandosi su un processo evolutivo che culmina nell'insorgere
di una contraddizione, la quale trova poi la propria soluzione nel
costituirsi di una nuova organizzazione sociale - può correttamente e
indiscutibilmente definirsi dialettica.
Esiste tuttavia anche un altro aspetto, connesso peraltro con l'aspirazione
di Marx verso la scientificità e verso il 'realismo', che tende ad attenuare
tale univocità, e che - proprio per tale ragione - ha ingenerato in alcuni
il sospetto che il suo non sia un pensiero veramente dialettico.
Una tale componente della dottrina marxiana è effettivamente parte della
metodologia dialettica, ma in modo improprio. E ciò perché, pur
oltrepassando il livello puramente meccanico dell'idea di causalità - quella
per la quale non esiste un rapporto di opposizione o giustapposizione, ma
solo di consecuzione lineare tra cause e effetti -, essa non implica
comunque la triade dei concetti (tesi, antitesi e sintesi) che
caratterizzano la dialettica propriamente detta (e nemmeno, in senso
stretto, la diade tesi ed antitesi).
Questo secondo aspetto lo possiamo scorgere molto chiaramente nel rapporto
stabilito da Marx tra i livelli differenti e concomitanti (in un certo
senso, giustapposti) presenti in ogni struttura sociale. Stiamo parlando
ovviamente della 'struttura' e della (o delle) 'sovrastruttura', la
compresenza delle quali si articola in un'azione reciproca della prima sulla
seconda e di questa sulla prima.
Tale aspetto della dialettica marxiana implica appunto che vi sia
un'interazione o azione reciproca tra livelli coesistenti (economici,
politici, ideologici, .), l'effetto della quale dovrebbe essere per essi di
reciproco sostegno (anche se, nei periodi 'di crisi', essa diviene piuttosto
di reciproco ostacolo.)
In quest'ambito, alla tradizionale unidirezionalità della dialettica
hegeliana si sostituisce una bidirezionalità, che implica - assieme a
un'azione delle strutture sulle sovrastrutture - anche una retroazione delle
sovrastrutture sulle strutture, ciò che manda in crisi la linearità della
dialettica classica.
In altri termini, si accavallano nel pensiero marxiano due punti di vista,
quello propriamente dialettico e un altro che, pur ispirandosi
effettivamente alla metodologia dialettica, sarebbe più correttamente
definibile come 'organicista'.
E' questo secondo aspetto a confondere la linearità della deduzione marxiana
della storia, togliendole almeno parte della sua originaria
unidirezionalità. Attraverso di esso, forse, la teoria marxiana perde una
buona dose del suo rassicurante determinismo, ma senza dubbio guadagna
molto - rispetto alla semplice metodologia di Hegel - in credibilità
scientifica (e ciò poiché si apre maggiormente alle molteplici sfaccettature
che caratterizzano la complessità reale della storia.)
Abbiamo dunque fatto il punto sulla dialettica in Marx:
da una parte essa è (hegelianamente) una scienza dell'insorgere della
contraddizione e della sua risoluzione a partire dalla contraddizione
stessa;
dall'altra invece è scienza dell'azione e retroazione esercitata tra i
differenti livelli di uno stesso organismo, ed è per questo essenzialmente
organicista.
3) Implicazioni della dialettica marxiana
Tale osservazione ci aiuta non solo a inquadrare la diversità tra i due
pensieri dialettici per eccellenza - quello marxista/marxiano e quello
hegeliano - ma anche a comprendere con maggiore precisione il tipo peculiare
di dialettica che sta alla base dell'intera teoria marxiana.
Qui di seguito si intende prima di tutto fare una precisazione sulla
concezione evolutiva di Marx delle forze produttive - ovvero su come esse
possano mutare per diversi ordini di motivi, ma mai per ragioni astratte o
ideali; in secondo luogo si intende parlare del ruolo assunto dalla libera
azione/decisione umana nella storia - ovvero della questione, lungamente
dibattuta, se e entro che limiti la filosofia di Marx sia una filosofia
rigorosamente deterministica -.
a - il 'realismo' scientifico
Mentre la dialettica storica hegeliana ha un fondamento puramente ideale
(per il quale l'evoluzione concreta di una determinata fase storica riposa
sull'evoluzione di un'idea astratta, in essa incarnata, che si rovescia
nell'idea opposta, ecc.), il divenire storico secondo Marx si configura come
trasformazione di strutture sociali e produttive concrete che - come si è
detto - finiscono, ad un certo stadio della propria evoluzione, per porsi in
conflitto con un insieme di tradizioni, credenze, poteri consolidati,
sviluppatisi parallelamente a quelle stesse forze, anche se in un diverso
momento del loro sviluppo.
In altri termini insorge, in una certa fase evolutiva, una contraddizione
tra le strutture sociali e produttive e quelle politico-ideologiche, dovuta
al superamento delle seconde da parte delle prime, e quindi a una
separazione tra di esse. In ciò sta il nocciolo della dialettica di Marx, la
'forza della negatività' che è insita nel divenire storico.
A partire da una tale osservazione, diviene utile individuare le possibili
cause alla base dell'evoluzione delle strutture economiche e produttive.
Questa disamina ci mostrerà inoltre più chiaramente quale differenza
sussista tra il pensiero idealista di Hegel e quello materialista (e
scientifico) di Marx.
Non è possibile, in sostanza, individuare un unico tipo di fattore causale
per i cambiamenti che - prima o poi - inevitabilmente si verificano in ogni
struttura socio-economica [con tale termine si intende qui designare il tipo
di organizzazione che, in un determinato contesto sociale, è alla base del
complesso delle attività economiche e produttive; vi sono infatti (è bene
ricordarlo) differenti paradigmi, o modi, di questa organizzazione: da
quello tribale che caratterizza il periodo preistorico a quello asiatico,
schiavista, feudale, capitalista, socialista, ecc.] E nemmeno si possono
ricondurre a una o più categorie concettuali fisse tali mutamenti, per altro
potenzialmente infiniti.
Anche in questo emerge la matrice materialistica e 'realista' - contrapposta
a quella idealista - del pensiero di Marx: nel suo rifiuto di imprigionare
(quantomeno oltre certi limiti) il divenire storico in schemi astratti, in
'pregiudizi aprioristici' che pretendano una validità universale, a
prescindere dalle circostanze contingenti che fanno da cornice agli
avvenimenti via via in esame.
D'altronde, se Hegel aveva attribuito ai movimenti dialettici una natura in
ultima analisi sempre ideale o spirituale, Marx all'opposto attribuisce a
questi una radice e un'origine sempre e solo materiale e concreta.
Inoltre, se è vero che la categoria della causalità, motore della storia -
cioè dell'evoluzione delle condizioni sociali della produzione: delle forze
produttive, o dei presupposti economici della produzione - non può essere
individuata in uno o più ordini di cause stabiliti una volta per sempre, è
vero anche che queste - secondo Marx - non hanno né possono mai avere una
natura meramente ideale.
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