Sia che alla base del divenire delle strutture vi siano ragioni
'tecnologiche' (ad esempio, lo sviluppo di nuovi macchinari, o magari di
nuove tecniche agricole, che sconvolgono i meccanismi alla base della
produzione in una data società), oppure ragioni interne o sociali (lo
sviluppo di una vasta classe 'antagonista', o di contraddizioni che,
elidendo dall'interno un dato contesto sociale, lo portano gradualmente a
modificare la propria struttura e quindi la propria fisionomia), o ragioni
esterne o in ogni caso accidentali (un classico, soprattutto per le società
antiche, sono le incursioni/invasioni di popoli stranieri; ma vi possono
essere anche motivazioni quali una crescita o un calo demografico, oppure
pestilenze, malattie, ecc.), o altre ragioni ancora - come anche tutti o
parte di questi fattori che agiscono assieme -, il motore dell'evoluzione
storica non può mai essere di natura puramente ideale, cioè ideologica.
La storia, nella visione marxiana, non è mai il prodotto delle idee, bensì
piuttosto di concrete esigenze a livello produttivo, ed eventualmente delle
contraddizioni e dei conflitti che queste possono determinare a livello
sociale.
Semmai è vero dunque il contrario, e cioè che cambiamenti a livello
strutturale creano inevitabilmente altri cambiamenti di tipo 'ideologico',
ingenerando differenti aspettative politiche e culturali negli individui che
compongono la società.
Ma lasciamo a questo proposito parlare lo stesso Marx, laddove ad esempio
egli dice: "A un dato punto del loro sviluppo, le forze produttive materiali
della società entrano in contraddizione con i rapporti di produzione
esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne sono soltanto
l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per l'innanzi s'erano
mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si
convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di rivoluzione
sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge più o meno
rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura."
E' chiaro ora come quello che abbiamo definito il pensiero 'realista' di
Marx, implichi un'assoluta preminenza dei fattori materiali (i quali - si
badi bene - non vanno sempre e necessariamente identificati, quantomeno in
prima istanza, con i fattori sociali, potendo al contrario identificarsi con
invenzioni o scoperte piuttosto che con malattie, carestie, ecc.) nel
determinare quelle contraddizioni che sono alla base del divenire dialettico
della storia.
[Questa impostazione, basata su una preminenza pressoché assoluta dei
fattori economici strutturali nella determinazione del divenire sociale, è
stata da alcuni studiosi e storici successivi - ad esempio da Weber, il
quale per altro si muove pur sempre in un ambito di ricerca materialistico e
scientifico - fortemente mitigata.]
b - Il posto della libertà umana nella filosofia marxiana
L'idea di un'assoluta preminenza dei fattori materiali su quelli politici e
culturali rimanda a un'altra questione, centrale e molto dibattuta nel
pensiero di Marx, soprattutto tra i continuatori della sua filosofia.
E' la discussione riguardo alla possibilità per l'uomo di determinare o
influenzare - anziché per così dire esserne un attore inconsapevole, o un
esecutore involontario - la dialettica storica.
Io credo che si possa affermare, anche a partire da quanto si è
precedentemente detto, che la capacità dell'uomo di modificare attivamente
il corso storico, ovvero di determinarne o influenzarne concretamente il
movimento dialettico, riposi fondamentalmente su due tipi di intervento:
da una parte vi è la possibilità di determinare e di porre in essere,
attraverso azioni materiali o contingenti (quali ad esempio nuove scoperte,
eventi bellici, azioni militari, ecc.), degli eventi o dei fattori che in
seguito si riveleranno la base (o una delle basi) di sviluppi storici;
dall'altra, vi è la possibilità di esercitare azioni a livello
sovrastrutturale - vale a dire ideologico, culturale o politico - che
modifichino dall'interno la società: azioni cioè che abbiano conseguenze
sostanziali sulle sue stesse strutture (anche se bisogna ricordare come per
Marx una tale eventualità, pur non essendo da escludere in modo assoluto,
sia estremamente remota, essendo sempre le sovrastrutture un prodotto delle
strutture, una loro espressione sul piano giuridico o ideale, trovandosi
quindi rispetto a esse in una posizione di debolezza e di dipendenza.)
Secondo Marx dunque, il ruolo dell'uomo e della libera iniziativa umana
nella storia è sì reale, e tuttavia è anche complessivamente marginale
(oltre che, ovviamente, quasi sempre inconsapevole), e in ogni caso spesso,
soprattutto quando agisca a livello culturale o politico, difficilmente
accertabile.
4) Il rapporto dello storicismo marxiano con quello hegeliano
In conclusione, bisogna osservare come nella sua visione storicistica
entrino in gioco anche fattori di natura contingente, cui spesso capita di
avviare o di porre in essere (quantomeno in parte) cambiamenti a livello
strutturale, i quali in seguito si dimostreranno all'origine delle
"rivoluzioni sociali".
Oltre che per i fattori materiali, nella teoria marxista si affaccia così un
certo spazio, come motore attivo del divenire storico, per il fattore della
casualità, uno spazio che le è invece totalmente negato all'interno della
filosofia hegeliana (nella quale appunto, 'materia' è sinonimo di
alienazione, ovvero di casualità e disordine, elementi contingenti che nulla
hanno da spartire col 'filo rosso' della dialettica storica, ossia coi
passaggi dialettici alla base della storia dello Spirito: si veda a tale
proposito la Fenomenologia dello Spirito).
Possiamo concludere questa breve disamina del pensiero materialista e
dialettico di Marx, rilevando come esso abbia raccolto effettivamente sul
piano metodologico l'eredità della dialettica hegeliana (nonostante, per
svariati ordini di motivi, alcuni studiosi tendano a dubitare di ciò o a
attenuare tale influenza), ma sottolineando anche come di questa egli abbia
conservato soltanto quegli aspetti che non costituiscono un ostacolo, e che
anzi favoriscono e rendono possibile, una comprensione materialistica - e
scientifica - dei processi storici.
MARX E I GRÜNDRISSE
La rivoluzione scientifica compiuta da Marx nell'economia politica era stata
preparata sin dagli anni 1840 44. Ma solo gli ultimi dieci anni di questo
duro lavoro furono particolarmente fecondi.
Marx elaborò copiosi manoscritti nel 1857-59, 1861 63 e 1864 65: tra questi
i Gründrisse occuparono senz'altro il posto principale, in quanto è in essi
che per la prima volta si elabora a grandi linee la teoria del plusvalore,
nonché il punto d'avvio dell'analisi del modo di produzione capitalistico:
il concetto di merce.
Editi per la prima volta in versione integrale dall'Istituto Marx Engels
Lenin di Mosca nel 1939-41, i Gründrisse divennero accessibili in Occidente
negli anni '60 e all'inizio dei '70, grazie soprattutto alle traduzioni
nelle principali lingue europee e in giapponese. Essi apparvero nel circuito
scientifico internazionale nel momento in cui i problemi dell'umanesimo,
dell'alienazione e dello sviluppo della libertà umana - così come sono
affrontati nelle opere di Marx - erano largamente dibattuti in Occidente. In
particolare, speculando sul carattere un po' equivoco di talune espressioni
dei Manoscritti del '44, i sostenitori del "neornarxismo" cercarono di
opporre il giovane Marx (quello umanista) all'autore del Capitale,
considerando questo marxismo umanista come il più autentico e genuino.
L'apparizione dei Gründrisse , che documentava il rapporto reale fra le idee
dei giovane Marx e la teoria economica sviluppata nel Capitale, avrebbe
dovuto por fine al perpetuarsi della falsificazione del pensiero di Marx.
Ciò in quanto i Gründrisse costituiscono una specie di ponte fra gli anni
'40 e gli anni '60-70 del XIX sec., cioè fra i Manoscritti del'44 e il
Capitale.
Ma così non è stato, almeno per quei critici che, pur riconoscendo ai
Gründrisse un trait d'union fra la critica marxiana della società borghese,
condotta a livelli meramente filosofici, e lo studio economico-politico
sistematico delle leggi tendenziali interne al capitalismo (come appare nel
Capitale), sostengono che i manoscritti in questione costituiscono il
vertice dell'opera marxiana e che la loro pubblicazione ha rivelato al mondo
un "Marx sconosciuto" (cfr. le tesi di M. Nicolaus e D. McLellan). Il che
portava a dedurre, più o meno esplicitamente, che soltanto la conoscenza dei
Gründrisse autorizzasse l'autentica comprensione della dottrina filosofica
ed economica del marxismo.
L'influenza di questa parziale e riduttiva interpretazione dei manoscritti
economici del 1857-59 si è fatta sentire anche su alcuni teorici marxisti
occidentali, i quali hanno creduto sulla scia di Nicolaus di superare
definitivamente sia l'unilateralità dei panegirici sul "giovane Marx", sia
le concezioni della scuola di Althusser che, nella polemica col
revisionismo, era arrivato, pur partendo da posizioni diverse, alla medesima
conclusione quanto alla esistenza d'una "rottura epistemologica" tra il
giovane Marx e quello maturo.
Costituendo l'anello mancante, i Gründrisse in effetti rappresentano la
continuità del pensiero marxiano. Tuttavia, se essi apparentemente appaiono
più ricchi del Capitale, di fatto, sul piano sostanziale e teorico,
risultano più poveri.
I marxisti borghesi e i revisionisti mettono soprattutto l'accento sul fatto
che i manoscritti economici del 1857-58 trattano tutta una serie di
questioni assenti o appena accennate nel Capitale. E. Hobsbawm e E. Mandel
sottolineano la dialettica del tempo libero sotto il capitalismo e nel
socialismo, la tendenza alla trasformazione della scienza in una forza
produttiva diretta e quella della produzione meccanizzata in azienda
automatizzata, l'analisi delle forme precapitalistiche, le premesse delle
crisi di sovrapproduzione nel capitalismo, ecc; Mandel allunga la lista
rilevando che certe questioni legate alla proprietà fondiaria, al lavoro
salariato, al commercio estero e al mercato mondiale non hanno trovato alcun
riflesso nel Capitale.
E' anche vero che l'importante analisi della duplice natura della merce e
quindi della genesi del denaro non è presente che a livello embrionale nei
Gründrisse , mentre il problema del costo della produzione non è neppure
posto, benché la nozione di profitto sia stata dedotta dallo studio del
plusvalore.
Proprio per queste ragioni R. Rosdolsky, J. E. Elliot, A. Oakley e altri
hanno ridimensionato alquanto l'originalità dei Gründrisse rispetto al
Capitale. E' assurdo contrapporre in modo meccanico questo a quelli: si
tratta di tappe differenti di un medesimo processo di conoscenza teorica del
capitalismo.
Questa strumentale contrapposizione cela però un disegno più vasto: quello
di "ristrutturare" il marxismo in modo da privarlo del suo nucleo centrale.
Si tratta di un'operazione tutt'altro che scientifica, tesa a suffragare
surrettiziamente una "nuova" interpretazione del marxismo, forse un po' più
sofisticata, ma avente sempre lo stesso obiettivo: togliere al marxismo il
suo potenziale rivoluzionario.
La specificità dei Gründrisse risiede piuttosto nel fatto che in essi è
evidente la necessità di passare dalla scoperta della legge del plusvalore
alla costruzione d'un sistema categoriale del modo di produzione
capitalistico. Un sistema che qui appare come l'intelaiatura del Gründrisse.
Nel senso cioè che se Marx ha rinunciato nel Capitale a esaminare taluni
problemi, è stato unicamente perché essi non avevano un rapporto diretto,
immediato, con l'oggetto specifico, malgrado l'importanza che in sé
potessero avere. Non dimentichiamo inoltre in quali incredibili difficoltà
economiche ha vissuto Marx e la sua famiglia proprio mentre elaborava la
stesura dei Gründrisse e del Capitale: gran parte del suo tempo doveva
dedicarlo a risolvere problemi tutt'altro che teoretici.
Questo spiega il motivo per cui è impossibile comprendere pienamente
l'originalità dei Gründrisse separandoli dal Capitale. La teoria economica
di Marx può essere efficacemente rappresentata come un movimento ascendente,
lineare e continuo.
Ma c'è un altro aspetto che i teorici borghesi e i revisionisti amano
sottolineare: la presunta dipendenza del metodo di Marx dalla "logica" di
Hegel. In particolare essi credono di ravvisare nei Gründrisse una stretta
correlazione con la hegeliana Filosofia del diritto (vedi le tesi di S.
Avineri, specialista israeliano di storia del marxismo e di N. Fischer,
neohegeliano americano).
Questo problema, in verità, era già stato sollevato da R. RosdoIsky,
l'autore della prima fondamentale opera sui manoscritti del 1857-59; e verrà
ripreso negli anni 1960-70 in Francia e in Italia (vedi J. Potier, Lectures
italiennes de Marx 1883-1983, Lyon 1986).
Senonché il rapporto tra Marx ed Hegel è quanto mai controverso. La nozione
di "capitale in generale" non ha nulla a che vedere col concetto metafisico
di Allgemeine Begriff. La categoria marxiana esprime non solo delle
caratteristiche generali astratte, inerenti a qualunque capitale, ma anche
il rapporto universale concreto "in opposizione ai capitali particolari
reali". Il capitale sociale globale è un'immagine reale del capitale in
generale.
Il ricercatore russo A. Kogan è riuscito a dimostrare che il metodo di Marx
era così dialettico che, a differenza di Hegel, non riusciva a sopportare
alcuno schema astratto arbitrariamente imposto. Il Capitale, in questo
senso, non è che uno sviluppo del contenuto della nozione di "capitale in
generale". E' cioè un'opera finalizzata ad approfondire un argomento
ritenuto di fondamentale importanza. In modo particolare, è la produzione
del plusvalore al centro del suo interesse, la fonte principale di tutte le
ingiustizie della società borghese, moderna e contemporanea.
IL RECUPERO DEI CLASSICI DEL MARXISMO
Una delle cose più sorprendenti quando si leggono i testi del marxismo
classico è vedere come in certi aspetti di natura sociale la consapevolezza
che si aveva era infinitamente superiore a quella odierna. Basta
considerare - solo per fare un esempio - come veniva trattato il tema della
giustizia sociale in rapporto a quello dell'uso della proprietà.
Oggi, in occidente, pochissimi tra i politici mettono in discussione il
diritto alla proprietà privata, quella mediante cui si può vivere sfruttando
il lavoro altrui.
E tuttavia, se da un lato sarebbe giusto riprendere quel modo realistico di
vedere le cose, dall'altro sarebbe un errore grossolano non tener conto dei
progressi culturali e politici che la democrazia ha compiuto in altri
settori.
Si pensi solo alla consapevolezza che oggi abbiamo dei limiti della scienza,
sempre più proiettata, contro le sue stesse migliori intenzioni, verso la
creazione di mostri d'ogni genere (clonati, robotizzati, biotecnologizzati)
e quindi di malattie o disfunzioni del tutto inedite; oppure pensiamo al
disastro ambientale determinato da una industrializzazione selvaggia.
Purtroppo il crollo del comunismo ci ha indotti a buttare via l'acqua sporca
col bambino, passando così da un estremismo all'altro. Tant'è che oggi
l'occidente non sembra essere in grado neppure di pensare a qualcosa che
faccia progredire in qualche modo l'umanità verso una maggiore democrazia.
Probabilmente il meglio di sé l'occidente l'ha dato con la rivoluzione
francese, almeno dal punto di vista politico. L'occidente ha anche elaborato
le teorie rivoluzionarie dell'ateismo scientifico e del socialcomunismo. Ma
sul piano pratico le realizzazioni sono state molto deludenti. E' venuta
meno la forza della coerenza.
Taluni storici sostengono che tale incoerenza ha fatto risparmiare
all'occidente milioni di morti, in quanto ha impedito lo scatenamento di
sanguinose guerre civili all'interno delle singole nazioni.
Tuttavia è fuor di dubbio che la mancata risoluzione di problemi cruciali,
come p.es. quello della proprietà privata, è stata fatta pagare al
cosiddetto Terzo Mondo, sottoponendolo a incredibili saccheggi.
Anche la Russia bolscevica dovette affrontare terribili devastazioni interne
causate dalla guerra civile, però la Russia non può essere annoverata tra le
potenze neocolonialiste, a meno che non s'intenda usare questo termine anche
per indicare forme di sfruttamento indiscriminato di un qualunque
territorio, ivi incluso quello interno ai propri confini geografici.
Insomma il meglio dei classici del marxismo andrebbe ripreso, perché lì sono
le radici della critica del capitalismo, ma con la preoccupazione di
stabilire dei nessi convincenti col presente.
* * *
Verso la metà degli anni '40 del XIX sec. il marxismo classico aveva già
capito perfettamente, in nuce, non solo il modo di funzionare del sistema
capitalistico, ma anche che questo modo non poteva essere corretto o
aggiustato con delle semplici riforme, in quanto occorreva una vera e
propria rivoluzione politica.
Cioè aveva capito che il problema era strutturale e quindi politico, e che i
progressi in campo economico o le rivendicazioni sul piano giuridico (le
libertà civili) non avrebbero modificato la sostanza delle cose.
Negli Annali franco-tedeschi è evidente che sia Marx che Engels, in prima
fila, ma anche tutti gli altri, non avevano alcuna fiducia in una
progressiva democratizzazione della monarchia prussiana, tant'è che
aspiravano alla realizzazione di una repubblica costituzionale avente
caratteri di democraticità e di socialismo piuttosto avanzati per la
Germania di allora.
La rivoluzione francese li aveva troppo favorevolmente impressionati perché
potessero ancora credere nelle istituzioni tedesche. Quell'evento epocale
ebbe sugli intellettuali tedeschi della sinistra hegeliana lo stesso effetto
che la rivoluzione russa ebbe sui socialisti di tutta Europa.
Ma allora -ci si può chiedere- perché il marxismo classico ha fatto così
poca politica ai tempi di Marx ed Engels? Per quale ragione è stato condotto
in maniera prevalentemente teorica?
La ragione è molto semplice: il marxismo occidentale non ha mai cercato un
rapporto con le masse contadine, e l'appoggio che poteva avere da quelle
operaie era numericamente troppo esiguo perché si potesse realizzare con
successo una rivoluzione. Il marxismo occidentale è stato prevalentemente
ideologico.
Oggi la situazione è di nuovo cambiata in occidente, in quanto gli strati
proletari si stanno sempre più intellettualizzando: i nuovi proletari sono
quelli che lavorano davanti a un terminale. I quali si vanno ad aggiungere e
in parte a sostituire agli operai e ai contadini classici, sia che questi
operino in occidente, in condizioni relativamente sopportabili, sia che
operino nel Terzo Mondo, in condizioni alquanto precarie.
Da tempo si dice che l'occidente va verso la terziarizzazione, cioè verso la
fornitura di servizi che richiedono conoscenze intellettuali di un certo
livello, ma questo non significa affatto che si sia superata la divisione di
capitale e lavoro. Semplicemente si svolgono mansioni operaie con mezzi più
evoluti.
Struttura e sovrastruttura
Quando il marxismo classico sosteneva che la struttura determina la
sovrastruttura, non faceva che ribadire una verità borghese, che la
borghesia però preferiva tener nascosta, preferendo propinare alle masse
teorie idealistiche e religiose.
E' stato solo di fronte alle numerose critiche che il marxismo, con Engels,
ha dovuto rettificare quel postulato, sostenendo che:
1. la determinazione è valida solo in ultima istanza;
2. l'uomo può soggettivamente porsi con la propria coscienza al di sopra di
questo rapporto di dipendenza.
Infatti, se non fosse così, nessuna rivoluzione politica sarebbe mai
possibile, ovvero le rivoluzioni avverrebbero in maniera fatalistica, quando
le civiltà hanno esaurito tutta la loro forza propulsiva, e quindi in
condizioni di altissima tragicità.
Come noto, quella tesi del marxismo occidentale bloccò il processo politico
rivoluzionario del socialismo scientifico, che infatti prese a svilupparsi
nella Russia di Lenin, il quale per la prima volta fece chiaramente capire
che è nella sovrastruttura che si decidono le rivoluzioni politiche.
Tuttavia, le rettifiche non sono servite in Europa occidentale a sviluppare
una lotta politica vera e propria contro il capitalismo. Gli intellettuali
di sinistra si sono in sostanza limitati a una critica intellettuale, a
un'opposizione entro i limiti del parlamentarismo e delle leggi della
democrazia borghese.
Dal canto loro, i paesi est-europei sono ben presto finiti, a partire dallo
stalinismo, nelle secche di un'altra verità borghese: la neutralità dello
Stato. Il socialismo amministrato ha preteso di affermare la socializzazione
dei mezzi produttivi in nome della loro statalizzazione, ha cioè fatto
coincidere due realtà tra loro geneticamente opposte: "Stato" e "popolo", e
ha fallito clamorosamente.
SPONTANEISMO E DETERMINISMO IN MARX
La filosofia di Marx oscilla tra due estremi contrapposti: lo spontaneismo
(fino al Manifesto del '48) e il determinismo (a partire dagli studi di
economia svolti in Inghilterra, sino all'incontro coi populisti russi, dove
si assiste a un certo ripensamento critico in direzione del recupero delle
tradizioni rurali).
Il carattere spontaneistico dell'azione politica di Marx è visibile anche
nel Manifesto, che in un certo senso rappresenta la quintessenza dell'azione
politica del socialismo scientifico pre-bolscevico. Non esiste alcun
capitolo dedicato all'organizzazione rivoluzionaria delle masse.
Il Manifesto chiede in sostanza alle masse di "auto-organizzarsi". Marx ed
Engels non si pongono alla testa del movimento politico in quanto
"organizzatori di partito" ma solo in quanto "intellettuali critici del
sistema".
Nel Capitale si sostituirà lo spontaneismo del Manifesto col determinismo
storico: il capitalismo ha in sé delle leggi che lo portano
all'autodistruzione e il passaggio al socialismo diventa inevitabile.
L'assenza di una tattica e di una strategia per realizzare la rivoluzione
politica sembra faccia da pendant allo scarso peso dato alla sovrastruttura.
Di qui i rischi del determinismo economicistico nell'analisi della realtà e
dello spontaneismo nell'organizzazione della rivoluzione.
Da questo punto di vista il Che fare? di Lenin costituisce un decisivo
superamento del marxismo occidentale.
Marx non rappresenta solo l'analisi oggettiva del capitalismo e Lenin
l'azione soggettiva del socialismo. Marx rappresenta anche, dopo il
fallimento della rivoluzione del '48, il rischio di un'involuzione
economicistica verso il determinismo. Esattamente come Lenin rappresenta
anche il rischio di un'involuzione autoritaria verso il socialismo
amministrato.
Determinismo e spontaneismo sono due facce di una stessa medaglia: si è
tanto più "deterministi" in teoria quanto più si è "spontaneisti" nella
pratica e viceversa.
In politica il determinismo porta al riformismo, lo spontaneismo invece
porta all'estremismo, all'individualismo anarchico o anche al terrorismo. La
principale differenza tra Marx e Bakunin riguardava appunto il fatto che
Bakunin era solo uno spontaneista e un testo determinista come il Capitale
non l'avrebbe mai scritto.
Il Marx economista spesso si limita più ad un'analisi fenomenologica
dell'economia che non ad un'analisi storica vera e propria dei fatti, che
tenga conto, in pari grado, delle strutture e delle sovrastrutture.
Marx non s'è mai sottratto alla tentazione, anche quando trattava di temi
economici, di fare della "filosofia", cioè di fare delle generalizzazioni
astratte (per quanto i suoi affreschi sintetici siano assolutamente dei
capolavori), troppo astratte per poter essere verificate storicamente.
Marx spesso fa violenza alla storia, proprio allo scopo di dimostrare la
fondatezza delle sue idee economiche e politiche. La stessa pretesa di
definire "il contenuto della storia come una forma incessante di progresso",
fa parte di questa violenza ai fatti storici, e quindi di una certa violenza
al concetto di "libertà umana", che è l'elemento principe in grado di
spiegare le cause degli eventi storici.
Se un evento storico apparentemente sembra non avere una causa specifica,
ciò non può essere interpretato con la categoria della necessità, cioè con
quella categoria che, di fronte all'impossibilità di determinare con
sicurezza delle responsabilità, si affida in un certo senso all'idea di
destino. Infatti, è una caratteristica fondamentale della libertà umana
quella di non permettere una spiegazione assolutamente univoca dei fatti.
Marx è tanto "determinista" quando studia l'economia quanto "evoluzionista"
quando studia la storia. Di qui il suo grande apprezzamento per le teorie
scientifiche di Darwin.
* * *
Se la rivoluzione comunista avesse dovuto compiersi in maniera spontanea,
prendendo semplicemente consapevolezza dell'antagonismo sociale, non sarebbe
nata l'esigenza di organizzare politicamente la rivoluzione attraverso
un'avanguardia partitica.
Questo significa che la critica più corretta che, da sinistra, si poteva
muovere al marxismo, è già stata fatta dal leninismo.
Oggi il problema è quello di come fare una critica al leninismo,
salvaguardando gli interessi della rivoluzione proletaria.
Una critica di questo genere probabilmente è già stata fatta dalla
perestrojka di Gorbaciov, ma dal modo come è stata accolta vien da pensare
che in tutta l'Europa, orientale e occidentale, non vi sia più la
possibilità di un'operazione critica così profonda.
L'Europa non è sufficientemente matura per fare del fattore umano un
elemento della politica. L'Europa continua a servirsi della politica nella
maniera tradizionale, cioè per salvaguardare gli interessi di classe e non
di popolo.
* * *
Nella Prefazione alla prima edizione del Capitale, Marx dice che in Germania
(come in tutta l'Europa occidentale), rispetto all'Inghilterra, "siamo
oppressi non solo dallo sviluppo della produzione capitalistica, ma pure
dalla mancanza di tale sviluppo", poiché, laddove esso si è verificato, le
condizioni di lavoro degli operai, in seguito alle rivendicazioni sindacali,
sono migliori rispetto a quelle dove il capitalismo è agli albori.
Per questa ragione Marx fa capire che la Germania e tutta l'Europa devono
affrettarsi a "importare" il capitalismo se vogliono uscirne in fretta
(insieme all'Inghilterra). "Il paese industrialmente più sviluppato
[l'Inghilterra appunto] non fa che mostrare al meno sviluppato l'immagine
del suo avvenire".
Marx dava per scontato non solo lo sviluppo capitalistico di tutta l'Europa
(e di tutto il mondo), ma anche l'impossibilità di "recuperare" le
formazioni sociali pre-capitalistiche. La sua visione è disarmante: il
capitalismo è inevitabile e il pre-capitalismo impossibile.
Il capitalismo è talmente inevitabile ch'esso rappresenta -secondo Marx-
soltanto un "processo di storia naturale", in cui i capitalisti non sono che
"personificazioni di categorie economiche", cioè non responsabili di
rapporti da cui provengono, anche se soggettivamente possono avere un
atteggiamento critico nei confronti di tali rapporti (cosa che normalmente
non hanno).
Conclusione? Marx parla come un profeta biblico: il capitalismo è
inevitabile, ma altrettanto lo è la sua fine. Lo è per una legge interna
dovuta al suo proprio movimento. Questa legge è stata appunto scoperta dal
Capitale.
In attesa che crolli che fare? Si possono "abbreviare e attutire le doglie
del parto". Di qui l'importanza della legislazione inglese sulle fabbriche.
Nulla quindi di politico o di rivoluzionario, ma tutto e solo di sindacale e
di riformistico. Marx non solo non vuole recuperare la memoria del passato
pre-capitalistico, ma non vuole neppure stimolare una prassi di liberazione
per un presente non capitalistico.
Una delle maggiori stupidaggini del marxismo è stata quella di credere che
per l'estinzione delle classi fosse necessario il raggiungimento di un alto
grado di sviluppo delle forze produttive.
Se il marxismo si fosse limitato a dire che per estinguere le classi è
necessario socializzare la proprietà e l'uso degli strumenti produttivi,
forse si sarebbero evitate le ambiguità del riformismo, quelle per cui si
tende a rimandare sine die la realizzazione del socialismo proprio col
pretesto che non s'è ancora raggiunto un livello sufficientemente "elevato"
delle forze produttive.
Se l'obiettivo è quello di socializzare la proprietà dei mezzi produttivi,
il problema principale alla fine è soltanto quello di trovare il modo e i
mezzi per farlo. E uno dei modi principali è quello di sviluppare la
consapevolezza della necessità di realizzare tale obiettivo, coi mezzi più
democratici possibili.
In realtà non occorre alcun "alto" grado di sviluppo delle forze produttive,
anche perché, nelle condizioni del capitalismo, quanto più è "alto" questo
livello di sviluppo, tanto meno si avverte la necessità di una transizione
verso il socialismo, perché tanto maggiori sono i condizionamenti a favore
della conservazione dell'esistente.
Il marxismo ha sempre detto che se si sviluppa il livello delle forze
produttive, ad un certo punto sarà giocoforza scontrarsi con dei rapporti
produttivi inadeguati, per cui la contraddizione irrisolvibile porterà
all'esigenza della suddetta transizione.
In realtà, se è vero che può esistere un contrasto insanabile tra forze e
rapporti produttivi, in quanto, a causa della concorrenza, le forze tendono
continuamente a svilupparsi, mentre i rapporti di proprietà tra capitale e
lavoro non cambiano affatto nella sostanza, è anche vero che il capitalismo
tende a risolvere i suoi problemi di "politica interna" usando i mezzi della
"politica estera", cioè facendo scoppiare conflitti d'ogni sorta,
inventandosi nemici inesistenti ecc.
Questo senza considerare che anche internamente la propaganda del sistema è
sempre più volta a ingannare le masse e che i monopoli, invece di promuovere
le forze produttive, le ostacolano pesantemente.
Peraltro ormai è ben noto che la promozione d'uno sviluppo delle forze
produttive, nell'ambito del capitalismo, non fa che peggiorare i rapporti
col Terzo Mondo e con la natura in generale, che pagano enormemente il
prezzo del nostro benessere.
In sintesi, l'idea che si debbano sviluppare le forze produttive prima di
realizzare il socialismo, è nata proprio per il venir meno della spinta
rivoluzionaria, che avrebbe dovuto essere gestita nell'ambito della
sovrastruttura, quella dell'organizzazione politica.
Il fallimento del '48, poi della Comune di Parigi, e poi ancora della
Repubblica di Weimar e del Biennio Rosso in Italia hanno portato il marxismo
euro-occidentale su posizioni riformiste, che al massimo servono per rendere
il capitalismo meno irrazionale.
L'unica corrente ad aver capito la vera essenza del socialismo democratico è
stata il leninismo, tradito dallo stalinismo, che ha fatto coincidere
"socializzazione" con "statalizzazione" della proprietà: un unico apparato
burocratico, con una gestione verticistica del potere, che s'era andato
sostituendo non solo alle aziende private capitalistiche ma anche alla
gestione popolare delle risorse territoriali: i soviet.
MARX E IL DIRITTO PUBBLICO
E' incredibile vedere con quanta lucidità il giovane Marx avesse
perfettamente capito, nella sua Critica della filosofia hegeliana del
diritto pubblico, come il superamento del primato assoluto concesso
dall'idealismo filosofico allo Stato fosse possibile soltanto facendo della
società civile una vera e propria "società politica".
In quest'opera Marx non aveva ancora individuato quella classe sociale -il
proletariato industriale- che avrebbe potuto e dovuto guidare la rivoluzione
antiborghese; anche perché nella Prussia d'allora una rivoluzione borghese
vera e propria, analoga a quella francese, non c'era mai stata.
Il giovane Marx tendeva a contrapporre l'idea di società civile a quella di
Stato, così come l'idea di popolo a quella di nobiltà e monarchia.
All'interno del concetto di "popolo" egli non faceva ancora chiara
distinzione tra "borghesi" e "proletari". Al massimo distingueva tra
"possidenti" e "nullatenenti". E i più grandi possidenti, nella Prussia
d'allora, non erano certo i borghesi.
Se la Germania avesse aderito in tempo alle idee di Marx, probabilmente
avrebbe fatto prima la rivoluzione borghese, che coinciderà con il momento
dell'unificazione nazionale (all'incirca come in Italia) e forse non avrebbe
mai abbracciato le idee nazifasciste.
Non dimentichiamo infatti che il nazismo fu il tentativo disperato della
borghesia di recuperare il tempo perduto, i gravi ritardi accumulati nei
confronti delle altre nazioni occidentali.
Il nazismo recuperò sul piano borghese ciò che invece si sarebbe dovuto
promuovere sul piano del socialismo democratico.
La Germania non riuscì a fare ciò che seppe fare la Russia di Lenin: saltare
la fase borghese, passando direttamente dal feudalesimo al socialismo.
Probabilmente l'interruzione degli studi critici di Marx sulla filosofia
hegeliana del diritto, dipesero anche dal fatto ch'egli non riusciva a
intravedere nella Prussia di allora il modo di uscire dall'autocrazia
feudale.
Marx tuttavia non sembra rendersi conto che Hegel non poteva scrivere un
trattato di filosofia del diritto ponendo la società civile al di sopra
dello Stato. Avrebbe fatto un pamphlet rivoluzionario.
Il diritto pubblico era appunto il diritto dello Stato, anzitutto. Hegel non
poteva essere criticato per aver fatto una scelta sbagliata, cioè per non
essere un democratico, appunto perché non voleva esserlo.
La critica di Marx è un tentativo di rovesciare la filosofia hegeliana del
diritto ponendola al servizio della società civile. Ma quando egli s'è reso
conto che tale tentativo non l'avrebbe portato da nessuna parte, ha dovuto
rinunciarvi.
Solo quando Marx individua nella classe operaia il soggetto che avrebbe
dovuto sostituirsi alla borghesia nel governo della nazione, ecco che allora
la filosofia di Hegel finisce nel dimenticatoio.
La società civile, infatti, è una categoria borghese non meno di quella
dello Stato. In essa dominano i rapporti capitalistici o della proprietà
privata, che nella sua Critica egli ha appena cominciato a intravedere.
La borghesia, infatti, quando rivendica maggiori poteri a favore della
società civile, in realtà non fa che chiedere maggiore libertà di
sfruttamento.
Lo Stato borghese viene utilizzato sia per illudere le masse lavoratrici che
possa esistere un ente equidistante dai conflitti di classe, sia per
incrementare tutte le forme possibili dello sfruttamento dei lavoratori.
LA QUESTIONE DELLO STATO
NELLA TEORIA MARXISTA:
Prima di Marx e Engels e della teoria del materialismo storico, vi è stata
(a partire da Hobbes fino a Hegel) un'opinione generale e condivisa sulla
natura dell'evoluzione della società umana, secondo la quale - in linea con
i presupposti della filosofia idealista - la società pre-statale (stadio
naturale) dovesse essere caratterizzata da istinti e da passioni
incontrollati, e dalla guerra costante di tutti contro tutti.
Dall'altra parte lo Stato avrebbe rappresentato il superamento di un tale
regno, fatto d'istinti bestiali, attraverso l'instaurazione di una libertà
guidata da norme: cioè attraverso il trascendimento di quegli istinti e di
quelle passioni.
Lo Stato dunque era considerato come lo stadio finale e più alto
dell'umanità, quello nel quale veniva assunto un modo di convivenza
razionale.
Nella storia del pensiero occidentale, tutti i filosofi idealisti - da
quelli più realisti (come Machiavelli) ai sostenitori del diritto naturale
(quali Hobbes, Rousseau e Kant) che propugnavano dei modelli per una società
ideale - hanno trovato un accordo sul fatto che l'unica sfera di convivenza
razionale per l'uomo fosse appunto rappresentata dallo Stato.
Tale opinione sul ruolo centrale dello Stato per il genere umano e per la
sua storia, si basava chiaramente su quella concezione idealistica che
vedeva nella condizione pre civile (o pre statale) dell'uomo uno stadio
negativo e, viceversa, in quella civile o statale lo stadio positivo: il
risultato di un'evoluzione del genere umano e della sua coscienza.
Questa visione ebbe il suo culmine in Hegel. Questi, nella sua Filosofia del
diritto, presentava lo Stato non solo come una necessità, o un'idea guida
per la storia, ma come l'autocoscienza del movimento dialettico della
storia. In altre parole, come l'oggettivazione stessa della Ragione
universale.
Lo Stato hegeliano abbraccia per intero la sfera dei rapporti sociali e
economici (ovvero la società civile), dissolvendola in se stesso (ovvero
nella società politica): in tal modo esso viene a coincidere con la società,
divenendone l'essenza stessa.
Il che significa che esso, all'interno di tale visione, non viene
considerato come un semplice e particolare strumento d'organizzazione
politica, bensì come l'esito terminale dell'evoluzione socio-politica umana,
ed assurge perciò anche a realtà eterna!
Chiaramente tale idea era in accordo con la riflessione che dominava la
società borghese del XVIII secolo, e alla luce di quest'ultima la filosofia
del diritto hegeliana diviene essenzialmente una difesa appunto di tale
società.
Questa visione idealistica della storia (culminante in Hegel) verrà
radicalmente rovesciata dalla teoria del materialismo storico di Karl Marx.
Il suo sforzo per l'elaborazione del materialismo storico inizia infatti con
la Critica della filosofia del diritto di Hegel (1843). Continuerà poi con i
Manoscritti economico filosofici del '44 e con L'ideologia tedesca (1845/6),
culminando nella colossale opera preparatoria alla critica dell'economia
della società borghese: i Grundrisse.
a) LA SPIEGAZIONE MARXISTA DELLE RELAZIONI SOCIALI ALL'INTERNO DELLO STATO
BORGHESE
Marx iniziò col criticare la visione idealistica del legame tra la società
civile (cioè la sfera dei rapporti materiali e economici) e lo Stato (la
sfera delle relazioni politiche) proposta da Hegel.
Secondo lui quest'ultimo rovesciava infatti la realtà effettiva delle cose,
ponendo il secondo fattore come base del primo, mentre al contrario era la
società civile a condizionare e a determinare lo Stato, ovvero la società
politica.
La società civile comprende al proprio interno tutti i rapporti sociali
caratterizzanti un determinato stadio di sviluppo delle forze produttive.
Abbraccia perciò l'intera vita industriale e commerciale di un dato stadio
evolutivo, trascendendo così ogni particolare stato e ogni particolare
principio di nazionalità. Ma - d'altra parte - tale società deve affermare
se stessa anche all'esterno (ossia nelle relazioni con altri gruppi sociali)
e per fare ciò deve affermarsi come nazione; lo stesso deve poi fare al
proprio interno come Stato. 1
Secondo Marx, le condizioni che si trovano alla base della società civile
sono la famiglia e il clan (gruppo di famiglie); mentre la società civile
stessa (l'insieme dei rapporti socio economici) è la vera base e il vero
inizio della storia politica umana.
Lo Stato, ossia quella particolare formazione politica, è nato come un
prodotto diretto della divisione a livello sociale del lavoro, delle classi
e delle lotte sviluppatesi in seno alla società civile.
Esso, avendo quindi una natura secondaria rispetto alla società civile, non
è un fenomeno determinante ma determinato. Di conseguenza, non è nemmeno una
realtà conclusiva e eterna dell'evoluzione sociale, bensì una realtà
transitoria avente la sua origine in condizioni storiche ben definite (le
quali avranno a loro volta un termine).
La concezione storica di Marx e Engels si colloca in netta antitesi rispetto
alla tradizione del diritto naturale culminante in Hegel.
Essi approntarono una prima versione delle loro idee, contro le tendenze
prevalenti del pensiero borghese, ne L'ideologia tedesca. Vi trattavano temi
come la divisione del lavoro, le forme di proprietà, le classi e il dominio
di classe (attraverso lo Stato, le leggi e le ideologie) nella cornice della
loro visione materialista.
Ma il limite dell'indagine di quegli anni fu il fatto di soffermarsi
soltanto sull'evoluzione delle forme produttive e sociali del mondo
occidentale: il che limitava l'orizzonte della loro indagine.
Sempre ne L'ideologia tedesca, la formazione della società classista e dello
Stato sono spiegati in base alla divisione del lavoro, alla proprietà
privata e al cambiamento interno alle comunità primitive: fattori che ne
hanno determinato la dissoluzione e disintegrazione, e da cui sono sfociate
poi forme di convivenza organizzate in base alla divisione in classi.
Tale visione è essenziale per comprendere lo sviluppo del mondo occidentale,
ovvero l'emergere dello Stato e della società classista occidentale. In base
a essa, la presenza della proprietà privata della terra è il fondamento
della divisione del lavoro, del commercio e delle relazioni di spoliazione e
espropriazione: insomma la causa della dissoluzione dei rapporti egualitari
(comunistici) caratterizzanti le società primitive, e del passaggio allo
Stato e alle società classiste.
Anche se tuttavia, una tale visione era efficiente per descrivere l'origine
dello Stato occidentale, non lo era per descrivere quella dello Stato
orientale!
L'emergere dello Stato e delle classi dominanti (ovvero esproprianti) nel
mondo orientale avvenne infatti in condizioni storiche e sociali
estremamente diverse: non vi era difatti proprietà privata della terra, né
quindi divisione del lavoro, né economia di scambio . prova ne è il fatto
che le primitive comunità agrarie perdurano ancora adesso. Lo Stato asiatico
non si basava sulla proprietà privata e sulla spoliazione individuale, ma
sulla proprietà collettiva e sull'espropriazione in nome della stessa
comunità agraria.
Insomma si tratta di una via di sviluppo completamente diversa! Che oltre a
tutto avvenne molto prima che in occidente (circa 2500 anni prima, in Egitto
e Mesopotamia). L'occidente avrebbe seguito perciò una strada particolare,
non la strada 'universale' dello sviluppo storico.
Marx si sarebbe accorto di questa omissione negli anni tra il 53 e il 59,
mentre lavorava a uno studio più dettagliato che includesse appunto il mondo
asiatico.
Questo tentativo di esaminare l'economia politica borghese e capitalista
(Grundrisse) approdò ad un grande sviluppo alla teoria materialista di Marx,
delineando una spiegazione più accurata dello sviluppo sia dell'Occidente
che dell'Oriente, sin dai tempi più remoti.
Le conclusioni di tale ricerca si trovano nella Critica dell'economia
politica, laddove Marx dice:La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto
i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi
né per sé stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito
umano, ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali
dell'esistenza il cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo
l'esempio degli inglesi e dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di
"società civile"; e che l'anatomia della società civile è da cercare
nell'economia politica . A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che
marcano il progresso della formazione economica della società.
b) DALLA BARBARIE ALLA CIVILTA', DALLA SOCIETA' SENZA CLASSI ALLO STATO
CLASSISTA
Marx e Engels descrivono le fasi attraverso cui è passata l'umanità, dallo
stadio selvaggio fino alla civiltà, chiamandole 'preistoria'.
Mostrano come l'unità alla base di tale periodo fosse la comunità collettiva
(di stampo comunistico) primitiva, la quale non conobbe né lo Stato né
l'antagonismo di classe.
Essa, basata su criteri naturali, come la comunanza parentale, il linguaggio
o i costumi, non è ancora comunità stanziale (tribù). E la prima forma di
proprietà che si presenta in tali società senza classi è quella collettiva.
La prima forma di proprietà è proprietà collettiva (Stammeigetung).
Corrisponde a una fase primitiva dello sviluppo delle forze produttive, in
cui la comunità sopravvive grazie ad attività come la pesca e la caccia,
l'allevamento del bestiame o - nelle fasi più avanzate - l'agricoltura.
In questa fase storica evolutiva la divisione del lavoro non potrebbe
svilupparsi molto oltre: essa rappresenta difatti una semplice estensione
della divisione di quelle mansioni che sono - per natura - interne alla
famiglia.
Vi serpeggia però una forma di schiavitù non esplicita, dovuta
all'incremento della popolazione e dei suoi bisogni, e all'esplosione dei
conflitti tribali.
L'unificazione dei clan, o i matrimoni tra elementi di differenti clan
(ecc.), trasformano questa comunità primitiva in una tribù o in un'unione di
tribù.
Tuttavia una tale organizzazione non va oltre la cornice delle relazioni tra
parenti (catena parentale) e non modifica perciò neanche la struttura
primitiva di tipo collettivistico. Né all'interno del clan né della tribù vi
è posto per la proprietà privata o per classi antagonistiche, né per lo
Stato.
Proprietaria della terra sulla quale si è temporaneamente stabilita è la
comunità stessa (proprietà collettiva). I suoi membri - individui o
famiglie - non possiedono difatti privatamente la terra su cui vivono,
possono soltanto essere autorizzati dalla comunità a utilizzarla, proprio in
quanto membri di tale comunità.
Oltre che la proprietà collettiva della terra vi è, in molte comunità, anche
quella dei prodotti stessi della terra. In altri casi invece, la famiglia
porta avanti indipendentemente il proprio sostentamento attraverso la terra
assegnatale, e i prodotti eccedenti (dopo che sono state soddisfatte le
esigenze di natura comune: templi, riti, guerre, ecc.) vengono raccolti e
divisi tra i componenti della famiglia patriarcale. Tuttavia, in altri casi,
tutta la produzione [comprese le eccedenze, n.d.t.] viene impiegata per il
sostentamento dei membri del gruppo e quindi per il gruppo stesso.
Le forme più antiche, vale a dire più pure di tali comunità collettive, sono
i comuni asiatici arcaici, che caratterizzano le società orientali.
Postulando che l'origine di tutte le formazioni socio-economiche
precapitalistiche stia nelle comunità asiatiche primitive, Marx stabilisce
quanto segue riguardo all'evoluzione storica di tali comunità:
Quando finalmente esse divennero stanziali, la loro trasformazione
successiva dipese tanto da vari fattori esterni, ovvero climatici geografici
fisici ecc., quanto da fattori interni quali la loro predisposizione
particolare: il carattere di ogni clan.
Difatti, negli stadi successivi dell'evoluzione sociale, soprattutto durante
il periodo della transizione dalla barbarie alla civiltà, questa comunità
primitiva appare in forme molto differenti da quelle dalla quali è partita,
avendo subito cambiamenti strutturali notevoli.
Marx distingue tre diverse forme di proprietà e di organizzazione
comunitaria all'interno delle comunità primitive che hanno raggiunto la fase
stanziale agricola, basandosi sui tipi di relazioni intercorrenti tra gli
individui componenti il gruppo e la terra, nonché tra essi e la comunità.
La prima forma individuata è quella asiatica, nella quale la proprietà delle
terre è interamente collettiva. In secondo luogo, vi è la forma delle più
antiche comunità occidentali: essa contiene in sé tanto la proprietà
collettiva quanto quella privata. Infine vi è la forma germanica, in cui
predomina la proprietà individuale.
Ma in tutte e tre queste forme, l'individuo, se vuole reclamare un diritto
sulla terra (l'uso o il possesso vero e proprio), deve, come pre-requisito
indispensabile, appartenere alla comunità stessa.
Queste tre forme sociali rappresentano delle società egualitarie, che non
lasciano posto né a distinzioni di classe né - quindi - a forme di
espropriazione. In esse il fine della produzione è il sostentamento della
vita comunitaria: produrre ricchezza non è un fine primario. All'interno
della comunità infatti non c'è scambio o attività commerciale, poiché non
c'è divisione del lavoro.
Nonostante una prima divisione di ricchezza inizi a svilupparsi tra gli
esponenti della comunità, essa non determina ancora alcuna forma di
espropriazione. Ciò perché ogni singolo membro della società - o dell'unità
familiare - possiede le condizioni obiettive del proprio lavoro e non
dipende dal lavoro di qualcun altro per la propria produzione.
Tuttavia nei periodi storici seguenti, nel corso della transizione alla
civiltà, tali società subiscono differenti tipi di trasformazioni, che le
portano a sviluppare differenti modalità di classe e di Stato.
Una delle più importanti scoperte introdotte da Marx nella scienza storica
fu la seguente: anziché un'unica forma di transizione dalla società senza
classi a quella classista, ovvero dalla barbarie alla civiltà, ve ne furono
due.
La prima rappresenta la linea evolutiva asiatica, la seconda quella
occidentale. Ciò dimostra quindi che vi furono due modalità di sviluppo
dello Stato.
1) Le comunità urbane antiche (greche e romane) e quelle rurali tedesche
dell'inizio del Medioevo si collocano sulla linea di sviluppo occidentale, e
rappresentano quindi il tipo di passaggio verso lo Stato proprio
dell'Occidente.
Entrambe culminarono con la vittoria della proprietà privata, quindi furono
società classiste (l'una schiavista e l'altra feudale/servile), ovvero
basate sulla proprietà privata.
2) Dall'altra parte invece, le comunità agricole asiatiche, appartenenti
alla linea evolutiva dell'Est, rimasero immutate per migliaia d'anni,
essendo base della lunga tradizione del dispotismo asiatico.
Nelle zone orientali infatti, il passaggio verso la civiltà (la società
classista) non si basò sulla proprietà privata ma su quella statale
collettiva. Per primi Marx e Engels capirono che questa differente
evoluzione storica tra Est e Ovest dipendeva dalla differenza tra forme di
proprietà, rapporti produttivi e modi dell'organizzazione collettiva.
I fattori essenziali determinanti la linea evolutiva occidentale sono stati:
la proprietà privata della terra, lo svilupparsi e diffondersi della
divisione del lavoro e degli scambi commerciali, e il diffondersi della
pratica dell'espropriazione individuale (ovvero del lavoro schiavile).
A esempio di questo tipo di sviluppo Marx indica gli antichi comuni urbani
(propri dell'antica Grecia e dell'antica Roma), situati sulla linea
evolutiva occidentale, nonché rappresentazioni classiche della transizione
verso una società di tipo occidentale.
L'esempio più puro di una comunità antica e di un modo di produzione
precedente quello schiavista (e che peraltro rappresenta un momento di
transizione verso tale modalità), la troviamo nella storia di Roma.
Lì la primitiva comunità urbana (la città) non era prodotto di un processo
naturale bensì dell'unificazione delle precedenti comunità agrarie
(parecchie tribù) in una singola città, sia per accordo che per conquista.
Socialmente più vivace e organizzata secondo criteri più democratici
(partecipativi) rispetto alle società asiatiche, tale città era un
agglomerato volontario di liberi individui dotati del diritto alla proprietà
individuale.
Contrariamente che nelle regioni orientali, non vi era lì un esasperato
senso del sacro: di un'autorità suprema e di una suprema unità, che fosse
posta al di sopra della comunità cittadina, e che avesse quindi il diritto
d'appropriarsi delle eccedenze produttive.
Dopo la deduzione delle spese comuni (legate a cerimonie religiose,
costruzione di edifici sacri, di difese e preparativi bellici, ecc.) tutto
il rimanente veniva accumulato nelle mani dei liberi produttori (proprietari
delle terre su cui risiedevano).
Una tale accumulazione portò a un rapido sviluppo della divisione del lavoro
e degli scambi commerciali all'interno della comunità. Creando, da una
parte, una differenza in termini di ricchezza e di accumulazione dei beni
all'interno del gruppo dei liberi cittadini, questo processo d'altro canto
portò a un incremento del numero degli schiavi, che divennero elemento
fondante della produzione e la classe più estesa dell'intera società.
Ciò determinò la dissoluzione delle antiche tradizioni egualitarie e la
divisione della società in classi differenti: ricchi e poveri, padroni e
schiavi.
Divenuta economicamente dominante, sulla base dei nascenti rapporti di
produzione, la classe dei grandi proprietari terrieri, padroni di schiavi,
cominciò a riorganizzare la società secondo strutture favorevoli al suo
ruolo dominante.
Sebbene infatti fossero ricchi e potenti dal punto di vista economico, i
grandi proprietari costituivano in ogni caso una minoranza rispetto alla
popolazione complessiva.
Per poter quindi preservare i propri privilegi di natura economica essi
avevano bisogno, oltre che di quella economica, di un'altra struttura:
un'organizzazione che difendesse gli interessi comuni dei grandi proprietari
terrieri e dei possessori di manodopera schiavile, assicurando la continuità
del loro dominio.
Questo particolare strumento della classe dominante si chiamò Stato.
Di conseguenza, nel caso dello sviluppo occidentale, questa particolare
forma di organizzazione sociale chiamata Stato, appare come risultato
inevitabile della divisione della società in classi, divisione fondata su
quei rapporti di espropriazione il cui fondamento stava nella proprietà
privata.
In tale contesto lo Stato nell'antica Grecia e nell'antica Roma si basò sul
potere dei grando proprietari terrieri e dei proprietari di schiavi, essendo
un organo politico costruito ad hoc da quelle stessa classi per se stesse.
L'Impero romano si basò difatti sulla schiavitù e dovette organizzarsi
secondo una struttura burocratica e centralizzata.
Poiché all'origine della ricchezza dei nobili romani vi era l'espansionismo,
in queste zone le conquiste territoriali e l'agricoltura intensiva dei
latifondi, fondata sul lavoro estensivo schiavile, si svilupparono
ampiamente.
E la politica, essendo il suo ruolo quello appunto di assicurare il
mantenimento di una tale superiorità economica, necessitava di un enorme
apparato burocratico e militare.
Un altro esempio dello sviluppo - fondato sull'idea di proprietà privata -
di società classista e statalista occidentale lo si può trovare nella
nascita dei rapporti feudali all'inizio del Medio Evo, nel periodo di
dissoluzione delle antiche comunità germaniche.
Tali relazioni si formarono a causa della disintegrazione delle comunità
rurali germaniche, risultato di migrazioni e guerre, e col tempo della loro
subordinazione a una nuova classe di nobili (i capi militari), con la
perdita delle proprie terre e della propria indipendenza personale.
La proprietà della terra, all'interno di questo sistema, è monopolio dei
nobili (signori) i quali sono organizzati in base a una gerarchia di ranghi.
Questa forma di proprietà della terra inoltre, rappresenta la distanza che
sussiste tra la collettività dei signori feudali ed i semplici contadini.
Quanto a questi ultimi, essi sono decaduti a lavoratori dipendenti o servi,
schiacciati dagli obblighi che li legano ai loro signori feudali.
Il sistema feudale delle terre nel Medioevo ha creato comunità isolate e di
livello locale. L'economia feudale è un'economia naturale [ossia primitiva,
n.d.t.] con limitazioni tali da poter venire incontro solo ai bisogni dei
produttori diretti e a quelli dei signori feudali (attraverso il surplus
produttivo o il surplus di lavoro), che detengono un ruolo di comando sulle
comunità locali.
Data la propria natura essenzialmente agricola, la società feudale si
sviluppa in differenti regimi feudali (rurali) fondamentalmente indipendenti
e autonomi l'uno dall'altro.
Chiaramente tale Stato non riuscì mai a divenire uno Stato veramente
centralizzato, come invece in passato l'Impero romano, e rimase a un livello
di organizzazione così limitato da potere assicurare solo il funzionamento
delle unità socio-economiche (basate sull'espropriazione dei servi) in
funzione degli interessi dei signori feudali.
Dunque, all'interno della linea di sviluppo occidentale vediamo in primo
luogo l'emergere della proprietà privata e del commercio (relazioni di tipo
commerciale) e dipoi, su tali basi, la divisione della società in classi,
infine la nascita dello Stato come strumento di dominio a livello politico.
Tuttavia, nel caso dello sviluppo asiatico la nascita di un'elite dirigente
e dello Stato avvenne e si sviluppò in modo completamente differente, su
basi assolutamente diverse. Gli stati orientali antichi (ad esempio, Sumer,
l'antico Egitto, l'India, la Persia, ecc.) sorsero non sulla base della
proprietà privata e dei rapporti di espropriazione di carattere individuale
(ovvero su base schiavile), come appunto in Occidente, bensì piuttosto
avendo come base la proprietà collettiva e i rapporti di espropriazione
collettivi.
La classe dirigente emerse nella società orientale come risultato del fatto
che tali funzioni, inizialmente pubbliche, divennero col tempo posti di
comando, e che coloro che inizialmente erano al servizio della società
trasformarono la propria facoltà di servire in facoltà di dominare.
c) IL DISPOTISMO ORIENTALE: LA TRASFORMAZIONE DA SERVI IN PADRONI DELLA
SOCIETA'
Marx indica nel modo di produzione asiatico il fondamento economico del
Dispotismo orientale, inteso come una delle possibili forme d'esistenza
dello Stato.
Secondo Marx, tale modo di produzione emerge quando, grazie a metodi di
lavoro più evoluti, si realizza all'interno della primitiva comunità agraria
un incremento produttivo che porta all'accumulazione costante di un certo
surplus.
Esiste già, in tali comunità, un certo grado di divisione del lavoro. Ma se
l'agricoltura e i mestieri sono già distinti l'uno dall'altro, ciononostante
essi formano anche un'unità.
Questa complementarietà e questo supporto reciproco tra l'agricoltura e le
tecniche artigiane all'interno del medesimo contesto comunitario, rendono
quest'ultimo autosufficiente.
L'unità base non è qui la famiglia né il singolo individuo ma la comunità
stessa, ovvero la collettività.
Marx dimostra come queste comunità "contengano al proprio interno le
condizioni necessarie alla propria sopravvivenza e alla produzione di un
surplus", postulando che il modo di produzione asiatico si basi su questo
tipo di strutture.
Fattore unificante di tali comunità, che sopravvivono in uno stato di
costante isolamento rispetto all'esterno, è o l'assemblea dei capi famiglia,
oppure un capo unico (despota): ragion per cui l'autorità a livello sociale
può essere rispettivamente democratica o dispotica.
Secondo Marx, ". nella maggior parte delle forme asiatiche di dominio,
l'unità che è situata al di sopra delle piccole comunità appare il primo, se
non addirittura l'unico proprietario; mentre le comunità locali sono viste
soltanto come possessori ereditari."
Ciò dimostra che un'organizzazione più alta, che rappresenta l'unità di tali
comunità agricole, è già emersa prima che si sia formato un vero e proprio
Stato.
Per prima questa unità più alta (l'assemblea dei capi, o il despota),
concepita come l'unico vero proprietario, assegna le terre alle comunità
minori; queste ultime poi - a loro volta - le assegnano ai propri membri (le
singole unità familiari).
Qui l'emergere di una autorità suprema è dunque un fatto accettato anche
dalle comunità più piccole. Di conseguenza, il trasferimento di parte del
surplus prodotto da queste piccole comunità - i produttori reali -
all'autorità suprema, diviene presto un'usanza.
In Bassa Mesopotamia e nel Sumer, nel primo periodo di formazione dello
Stato, non vi erano né leggi, né apparati repressivi, né strutture di
carattere burocratico. Lo Stato infatti era quella "più alta unità" che
simboleggiava la cooperazione stessa tra le piccole comunità locali.
E se all'inizio una tale organizzazione non era ancora uno Stato in senso
proprio, era comunque l'embrione della forma orientale di esso, che di lì a
poco sarebbe sorta.
Le linee del discorso di Marx sulla formazione delle classi e dello Stato
sulla base del sistema produttivo di tipo orientale si possono trovare sia
nei Grundrisse che nel Capitale.
Ciò che caratterizza la linea dello sviluppo orientale sta nel fatto che la
formazione delle classi avvenga qui indipendentemente dall'iniziale
divisione del lavoro, ovvero sulla base dell'organizzazione dei lavori
pubblici su grande scala.
Marx pone in evidenza il fatto che gli uffici pubblici [quelli preposti ad
assolvere a funzioni di tipo organizzativo, n.d.t.], emersi inizialmente da
questa divisione del lavoro, si fossero successivamente trasformati,
portando così alla nascita di una vera e propria autorità espropriante
[ovvero dello Stato vero e proprio, n.d.t.].
Una tale trasformazione è incarnata appunto nell'organizzazione dello Stato
dispotico di tipo orientale.
Nei periodi più antichi i pubblici uffici - resi necessari dall'esigenza per
l'agricoltura di un sistema di irrigazione su larga scala - portarono come
conseguenza alla nascita di una prima e embrionale forma di Stato e di
divisione in classi (le prime civiltà), sia in Medio oriente (Sumer, Egitto)
sia nell'Est del mondo (India, Cina).
Engels si preoccupa poi, nel suo Anti-Duhring, di descrivere come tale
autorità preposta ai pubblici uffici si sia trasformata col tempo in
un'autorità espropriante, divenendo così da serva della società sua padrona.
Alla base di tale fenomeno sta il fatto che coloro i quali detenevano delle
funzioni pubbliche, le quali in qualche modo li ponevano al di sopra del
resto della società, si allearono tra loro e formarono una classe dominante.
6
Come disse Marx, l'unità più alta - ossia il gruppo dirigente - che era
sorto all'interno delle comunità agrarie asiatiche unite tra loro da un capo
supremo, mentre assolveva alla sua funzione sociale, trasformava
gradualmente la propria appropriazione del surplus produttivo (giustificata
dalle proprie funzioni pubbliche) in un'attività senza ritorno per il resto
della società, creando così una specifica forma di espropriazione.
Per poter poi perpetuare una tale posizione di dominio, tale classe dovette
rendere questa pratica d'espropriazione un fatto permanente. Per fare ciò
organizzò delle strutture di carattere politico, militare, giudiziario e
legale: cioè lo Stato.
Il fattore alla base della stabilità di questo sistema produttivo è dunque
la formazione di un tipo di Stato dispotico e centralizzato, che si pone al
di sopra delle comunità agrarie primitive, autosussitenti. Mostrandone la
formazione, Engels spiega:La forma di tale autorità politica dipende da
quella delle comunità in questione [quelle agricole, di cui appunto si è
parlato sopra, n.d.t.] Laddove, come ad esempio tra gli Ariani dell'Asia e
della Russia, questa [forma produttiva] si sviluppa - sia che i campi siano
ancora coltivati dall'intera comunità e in funzione della comunità stessa,
sia che vengano affidati solo temporaneamente a famiglie singole: ovvero
quando non vi è ancora proprietà privata della terra -, l'autorità politica
ha sempre un carattere dispotico.
Dunque il modo di produzione asiatico non si può considerare separatamente
dal potere statale, nella sua variante dispotica orientale.
Emersa dalle comunità agricole primitive, una tale modalità di produzione
non potrebbe acquisire un carattere perpetuo se non attraverso
l'instaurazione di un'autorità centrale assoluta che gode di poteri quasi
divini.
Senza quest'ultima le comunità agrarie primitive non riuscirebbero a
prevenire la propria dissoluzione e disintegrazione, che sarebbe causata
dallo svilupparsi delle proprietà privata e della divisione del lavoro,
ovvero dalle dinamiche più profonde cui esse danno luogo.
L'ostacolo che impedì lo sviluppo di questo processo naturale, mantenendo i
comuni asiatici nella loro originaria condizione per migliaia d'anni, fu
questo sistema basato sull'espropriazione di un surplus non pagato, che lo
Stato estorceva a queste comunità.
E' grazie a un tale meccanismo di incameramento, ad opera dell'autorità
centrale, che in tali società non vi è alcun surplus di prodotto o di
lavoro, che possa essere accumulato e venduto [dal singolo].
E così, mentre le comunità agricole, che non hanno accumulato alcun surplus,
"tirano avanti" senza alcun cambiamento nella propria situazione di
autosussistenza e nella propria economia ingenua, possiamo trovare - proprio
vicino ad esse - città che si innalzano verso il cielo, quasi appartenessero
ad un altro pianeta, in quanto sedi dell'autorità centrale (potere
dispotico) e dei suoi funzionari (la burocrazia di governo).
In queste città, nelle quali confluisce e si accumula il surplus produttivo
delle comuni agricole, abbiamo una divisione del lavoro molto più avanzata,
ed è vivo anche il commercio straniero che soddisfa i desideri della classe
dominante.
Le eccedenze prodotte e accumulate nelle casse dello stato vengono
introdotte sui mercati stranieri da queste città, attraverso funzionari
statali che svolgono il ruolo di mercanti.
Qui dunque il commercio non è espressione di un sistema produttivo di merci,
che avvenga all'interno della piccola comunità e sia da essa destinato al
commercio.
Divenuto proprietà dello Stato, il surplus produttivo viene utilizzato per
l'acquisto di articoli pregiati (come armi, gioielli, metalli preziosi, .),
ovvero viene usato per soddisfare le esigenze del Sovrano e della classe
egemone.
Esaminando attentamente le caratteristiche fondanti dell'organizzazione
dello Stato orientale, ci accorgiamo di quanto la conoscenza di esse sia
importante, non solamente per comprendere la storia del mondo antico, ma
anche per prendere atto di alcune caratteristiche delle moderne dittature
burocratiche, che costituiscono l'asse portante della nostra stessa
esistenza: ci sembra quindi utile porre in evidenza alcuni punti salienti
dell'argomento.
Nei regimi orientali l'unico vero proprietario è lo Stato.
I funzionari che adempiono alle funzioni pubbliche godono del diritto di
utilizzare la proprietà statale solo fino a quando ricoprono le loro
cariche.
Ma questo diritto non li rende padroni di niente a livello privato.
Essi non possono trasmettere la propria carica, né le entrate che essa
comporta, in eredità. In breve, i loro privilegi si limitano al periodo di
esercizio del proprio ufficio.
Per mantenere la stabilità del potere centrale, un tale potere deve rimanere
compatto, monolitico.
Perciò in tutti gli stati dispotici orientali, una particolare attenzione
viene dedicata alla selezione degli individui che andranno a comporre la
classe dirigente (la burocrazia civile, militare e religiosa) al di fuori
dei quadri già selezionati in precedenza.
I legami tra il funzionario che lo Stato ha prescelto e la sua classe
d'origine vengono completamente sradicati.
La storia è piena di esempi che mostrano attraverso quali meccanismi di
controllo questi candidati agli uffici pubblici venissero prescelti e infine
eletti: utilizzati dal potere centrale per preservare immutate le proprie
strutture.
Negli Stati di tipo dispotico orientale i mai risolti conflitti dinastici o
le tendenze verso il decentramento (per esempio la formazione di baronati
locali che emergono dal cuore stesso del sistema di potere) hanno origine
nella struttura profonda dello Stato di classe [ovvero nella rigida
separazione tra i semplici contadini e i funzionari di Stato, n.d.t.].
Un esempio perfetto di tale tipo di processo ce lo forniscono i conflitti
dinastici sviluppatisi all'interno dei grandi imperi asiatici (come Cina,
Iran e Impero Ottomano).
Tali conflitti, come spiegò Marx, sono tipici degli stati dispotici, nei
quali la struttura organizzativa si sviluppa indipendentemente dalle
comunità rurali, che pure sono il fondamento ultimo del sistema.
Poiché i produttori reali - le comunità o i villaggi - si trovano in una
posizione di assoluta dipendenza [dalle strutture statali] e in una
condizione di profondo ristagno strutturale, rimangono semplicemente al di
fuori dei conflitti politici.
Le lotte per il potere che avvengono nelle sfere politiche (lo Stato) sono
lontane da essi quanto il cielo dalla terra.
Per concludere, dobbiamo sottolineare come il dispotismo orientale e il modo
asiatico di produzione, basati sulla proprietà collettiva della terra,
abbiano dato prova di essere la forma di struttura sociale più 'resistente
al cambiamento'.
Nelle zone in cui questi tipi di civiltà hanno attecchito, le relazioni
sociali corrispondenti avrebbero anche potuto continuare a esistere immutate
per migliaia d'anni, senza significativi cambiamenti.Nessuna formazione di
tipo orientale è stata mai capace di evolversi 'motu proprio' in un'altra
forma socio-produttiva [come è avvenuto invece in Occidente, n.d.t.].
Fattore fondamentale alla base di questa trasformazione sono state dinamiche
d'origine esterna, essenzialmente l'effetto disgregante del capitalismo.
I sistemi asiatici hanno subito infatti un penoso processo di disgregazione
quando sono entrati in contatto con i rapporti di produzione capitalistici.
Ad esempio, la disgregazione degli imperi ottomano e cinese è iniziata nel
XIX secolo, quando questi sono entrati in contatto con l'Imperialismo
occidentale!
Le relazioni produttive pre-capitalistiche e le forme di proprietà che sono
alla base dello sviluppo della civiltà orientale hanno portato, rispetto
alla linea evolutiva occidentale, a modalità d'organizzazione
socio-politiche molto differenti. E tali differenze esistono da ben prima
del XX secolo!
Ma, a dispetto di tutte le diversità, entrambe le linee evolutive hanno
generato delle società classiste.
Oggi, infine, la storia moderna è caratterizzata essenzialmente dalla
diffusione su scala mondiale del lavoro salariato e del capitale.
Lo Stato moderno d'altronde, è lo strumento alla base dell'espropriazione
del lavoro salariato ad opera del capitale.
Con la trasformazione del capitalismo europeo in un sistema di tipo globale,
le diverse identità storiche, e le loro differenti strade, sono confluite in
un'unica storia comune.
Il modo di produzione capitalista tuttavia, nel trasformare la maggior parte
della popolazione mondiale in proletariato, tanto nelle regioni asiatiche
quanto in quelle occidentali, e costringendo quindi la schiacciante
maggioranza degli uomini a vivere in condizioni di servaggio salariale,
prepara anche la via a una rivoluzione sociale che sradicherà tali
condizioni.
I rapporti di produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del
processo di produzione sociale - antagonistica non nel senso di un
antagonismo individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di
vita sociali degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel
seno della società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per
la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude
dunque la preistoria della società umana.
Quando il proletariato - l'unica classe capace di mettere in atto una tale
rivoluzione - conquisterà il potere politico determinerà, col porre i mezzi
di produzione sotto il dominio del proprio ''semi-stato'', la fine stessa
della società classista.
Nel fare ciò esso eliminerà le stesse strutture classiste, le differenze e
gli antagonismi sociali (includendo tra essi anche il proprio).
In questo giorno dunque risuonerà la campana a morte dello Stato: ovvero di
quella struttura affermatasi storicamente sulla base della divisione [della
società] in classi.
Nel momento stesso in cui non esisterà più alcuna classe da tenere in
soggezione, nel momento in cui non vi saranno più né la lotta tra le classi
né quella per la sopravvivenza individuale (l'origine delle quali si trova
nell'odierna anarchia produttiva), assieme agli eccessi e alle
contraddizioni che ne derivano, allora, visto che non resterà più nulla da
reprimere, non saranno più ulteriormente necessari gli apparati repressivi
dello Stato.
Il primo atto in virtù del quale quest'ultimo si costituirà come
rappresentativo dell'intera popolazione - ovvero la presa di possesso dei
mezzi di produzione in nome della società - sarà, contemporaneamente, anche
la sua ultima deliberazione in quanto Stato.
La sua interferenza all'interno delle relazioni sociali diviene ora, in
tutti i diversi settori, superflua: quindi esso decade a partire da un
processo interno. Il governo delle persone viene rimpiazzato dalla semplice
amministrazione delle cose, ossia da quella dei processi di produzione.
Lo Stato non è 'abolito'. Esso semplicemente decade.
Al di sotto della divisione della società in classi troviamo l'inevitabile
lotta per la sopravvivenza individuale, lotta la cui ragion d'essere sta, in
realtà, nell'incapacità produttiva [a garantire un livello di esistenza
accettabile per tutti, n.d.t.].
Proprio per questo l'abolizione delle classi sociali diviene una possibilità
reale soltanto qualora si riesca a creare un'abbondanza materiale che renda
possibile porre fine a tale lotta.
Già nel 1878 Engels sottolineava come il capitalismo moderno [cioè quello
industriale, n.d.t.] stesse preparando i presupposti per questa abbondanza:
La forza espansiva dei mezzi di produzione [industriali] brucia i confini
stessi che il sistema capitalistico di produzione ha loro imposto. Una
simile liberazione è una delle precondizioni per uno sviluppo duraturo e in
costante accelerazione delle forze produttive, nonché quindi per una
crescita praticamente illimitata della produzione stessa. E questo non è
tutto. L'appropriazione a livello sociale dei mezzi di produzione pone
termine non soltanto alle attuali restrizioni, artificiali, di carattere
produttivo, ma anche allo spreco e alla devastazione delle forze produttive
e dei prodotti, oggi compagni inevitabili del lavoro, e che raggiungono i
propri picchi nei periodi di crisi. Di più, essa rende disponibile per
l'intera comunità gran parte dei mezzi produttivi e dei beni che ne
conseguono, ponendo fine alle colpevoli stravaganze delle odierne classi
dominanti e delle loro rappresentanze politiche. La facoltà di assicurare a
tutti i membri della società, attraverso gli strumenti di una produzione
ormai socializzata, non solo un'esistenza del tutto soddisfacente dal punto
di vista materiale, ma anche un completo sviluppo delle proprie facoltà
fisiche e mentali - soltanto oggi un simile possibilità è alla nostra
portata, e tuttavia oggi lo è davvero.
Il livello di sviluppo che le moderne forze di produzione hanno raggiunto
col capitalismo, sin dal tempo in cui sono state scritte le frasi
precedenti, ci mostra quella che è oggi la questione fondamentale: se
infatti il proletariato di tutto il mondo non porrà fine al sistema del
capitalismo internazionale, destino inevitabile dell'umanità sarà quello di
essere soffocata da una decadenza che diverrà sempre più profonda e sempre
più diffusa.
Sotto il dominio del capitalismo le contraddizioni costantemente
aggravantesi tra tecnologia, natura e umanità non portano [come è avvenuto
invece in periodi precedenti, n.d.t.] ad un ulteriore progresso delle forze
di produzione, progresso atto a garantire la soddisfazione dei bisogni
dell'umanità a un più ampio livello, bensì - al contrario - alla loro
distruzione.
C'è un'unica possibilità per salvare l'umanità e sradicare tutti gli attuali
mali sociali, ed è che il potere politico passi su scala mondiale nelle mani
del proletariato.
Se ciò avvenisse, gli sprechi e le distruzioni causati dal capitalismo
potrebbero avere fine. Tutti i privilegi di classe, e con essi gli stati,
scomparirebbero e si porrebbero i presupposti per un'abbondanza materiale
nella quale l'utilizzo dei mezzi di produzione sarebbe finalizzato allo
sviluppo armonioso dell'umanità.
Se vi è dunque una base razionale e obiettiva per l'emergere
dell'espropriazione e dell'oppressione dell'uomo sull'uomo, e con esse dello
Stato; vi è, nello stesso modo, anche una base razionale e obiettivamente
realizzabile per un livello di sviluppo sociale che renda una tale
espropriazione e una tale oppressione, e quindi lo Stato stesso, non più
necessari.
La futura società, in cui i produttori organizzeranno la produzione sulla
base di un'unione libera ed egualitaria (cioè la società senza classi), si
fonderà su un livello di abbondanza tale da rendere affatto inutile la lotta
degli individui per la propria sopravvivenza.
E ciò che permetterà agli uomini di raggiungere questo traguardo sarà la
rivoluzione su scala internazionale della classe proletaria.
Engels esprimeva così tali concetti:
Lo Stato quindi non è sempre esistito. Vi sono state in passato società che
hanno fatto a meno di esso, che non hanno neanche concepito l'idea dello
stato e dell'oppressione statale. Ad un certo stadio dello sviluppo
economico, che implicò necessariamente la divisione della comunità in
classi, lo Stato divenne una necessità proprio per causa di una tale
divisione. Oggi però ci stiamo avvicinando rapidamente a uno stadio nel
quale l'esistenza delle classi non solo cesserà di essere necessaria, ma
diverrà addirittura un consistente ostacolo per lo sviluppo stesso delle
forze produttive. [Le classi] cesseranno di esistere esattamente come, tempo
fa, avevano iniziato a farlo. E, assieme ad esse, anche l'apparato statale
inevitabilmente scomparirà. La società, che riorganizzerà la produzione
sulla base di un'associazione libera e egualitaria dei produttori, relegherà
l'intera macchina statale in un luogo dove essa, da lì in avanti, rimarrà:
nel museo delle età antiche, al fianco del filatoio e dell'età del bronzo.
IL PROBLEMA DELLA RIVOLUZIONE SOCIALISTA NEL PENSIERO DI MARX
Dalla Introduzione alla "Critica dell'Economia politica" di Karl Marx (1859)
Il primo lavoro intrapreso per sciogliere i dubbi che mi assalivano fu una
revisione critica della filosofia del diritto di Hegel, lavoro di cui
apparve l'introduzione nei Deutsch-französische Jahrbücher pubblicati a
Parigi nel 1844. La mia ricerca arrivò alla conclusione che tanto i rapporti
giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per sé
stessi, né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano, ma
hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza il
cui complesso viene abbracciato da Hegel, seguendo l'esempio degli inglesi e
dei francesi del secolo XVIII, sotto il termine di "società civile"; e che
l'anatomia della società civile è da cercare nell'economia politica. Avevo
incominciato lo studio di questa scienza a Parigi, e lo continuai a
Bruxelles, dove ero emigrato in seguito a un decreto di espulsione del sig.
Guizot. Il risultato generale al quale arrivai e che, una volta acquisito,
mi servì da filo conduttore nei miei studi, può essere brevemente formulato
così: nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in
rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in
rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo
delle loro forze produttive materiali. L'insieme di questi rapporti di
produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base
reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla
quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale.
Il modo di produzione della vita materiale condiziona, in generale, il
processo sociale, politico e spirituale della vita. Non è la coscienza degli
uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere
sociale che determina la loro coscienza. A un dato punto del loro sviluppo,
le forze produttive materiali della società entrano in contraddizione con i
rapporti di produzione esistenti, cioè con i rapporti di proprietà (che ne
sono soltanto l'espressione giuridica) dentro i quali tali forze per
l'innanzi s'erano mosse. Questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze
produttive, si convertono in loro catene. E allora subentra un'epoca di
rivoluzione sociale. Con il cambiamento della base economica si sconvolge
più o meno rapidamente tutta la gigantesca sovrastruttura.
Quando si studiano simili sconvolgimenti, è indispensabile distinguere
sempre fra lo sconvolgimento materiale delle condizioni economiche della
produzione, che può essere constatato con la precisione delle scienze
naturali, e le forme giuridiche, politiche, religiose, artistiche o
filosofiche, ossia le forme ideologiche che permettono agli uomini di
concepire questo conflitto e di combatterlo. Come non si può giudicare un
uomo dall'idea che egli ha di se stesso, così non si può giudicare una
simile epoca di sconvolgimento dalla coscienza che essa ha di se stessa;
occorre invece spiegare questa coscienza con le contraddizioni della vita
materiale, con il conflitto esistente fra le forze produttive della società
e i rapporti di produzione. Una formazione sociale non perisce finché non si
siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e
superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano
maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro
esistenza.
Ecco perchè l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere,
perchè, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema
sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o
almeno sono in formazione. A grandi linee, i modi di produzione asiatico,
antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che
marcano il progresso della formazione economica della società. I rapporti di
produzione borghese sono l'ultima forma antagonistica del processo di
produzione sociale; antagonistica non nel senso di un antagonismo
individuale, ma di un antagonismo che sorga dalle condizioni di vita sociali
degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della
società borghese creano in pari tempo le condizioni materiali per la
soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude
dunque la preistoria della società umana.
Commento e critica
Marx individua nella necessità storica la base della trasformazione del
regime capitalistico in regime socialista.
La sua concezione storicistica si basa sull'idea che il livello di sviluppo
delle forme produttive e sociali sia la causa dello sviluppo delle forme
politiche e dei rapporti di proprietà. Se le prime sono il modo in cui in un
dato contesto sociale la produzione è organizzata, le seconde sono invece
l'espressione sui piani sovra economici delle prime. Servono a consolidarle
dando loro un fondamento politico, costituzionale e ideologico.
Poiché le prime (le forme produttive, e le gerarchie sociali che esse
implicano) sono strutturali all'interno di un contesto dato, cioè sono alla
base della sua stessa esistenza, le seconde (le forme organizzative:
istituzionali e politiche) sono sovra strutturali perché loro funzione è
contribuire a consolidare le prime.
Per sopravvivere l'uomo deve procurarsi quel che gli necessita; per farlo -
al di fuori dello stadio animale e naturale - deve (almeno a partire dalle
forme sociali più evolute) organizzarsi in modo non naturale, ossia basando
l'organizzazione della società in cui vive sulla divisione del lavoro.
Tale divisione comporta una gerarchia sociale, che a sua volta comporta
l'esistenza di una classe (ovvero di una parte della popolazione)
privilegiata poiché posta su un piano di comando, e di un'altra parte che
vive in una condizione di subalternità.
Questo vale in tutte le forme produttive passate (se si escludono le forme
più primitive come il clan e la tribù in cui, data la loro semplicità
strutturale, non esiste ancora divisione del lavoro e quindi nessuna
gerarchia sociale):
1. nelle società asiatiche, dove vi è contrapposizione tra casta dei
funzionari e contadini;
2. nelle società schiavili, dove vi è contrapposizione tra schiavi e liberi
cittadini;
3. nelle società feudali, dove vi è contrapposizione tra feudatari e servi;
4. nelle società capitalistiche, dove vi è contrapposizione tra proletari e
capitalisti.
Il logoramento di ogni forma produttiva (causato dalle sue contraddizioni
interne, irrisolte) porta come conseguenza la nascita di una nuova forma
produttiva, come forma alternativa a quella precedente.
Tuttavia non è mai l'una o l'altra classe che si trova all'interno della
precedente forma a far nascere un nuovo stadio dell'organizzazione economica
e produttiva, tutt'al più essa dà un apporto o un contributo positivo alla
sua affermazione (verosimilmente sarà la classe sfavorita a trarre dei
vantaggi dalle nuove forme di organizzazione, e quindi facilmente anche ad
alimentarne lo sviluppo).
Gli schiavi non hanno decretato la fine del sistema schiavile, che è stato
piuttosto minato dalle sue contraddizioni interne (tra le quali il problema
della carenza di schiavi.); ne hanno piuttosto beneficiato migliorando la
propria condizione, ossia diventando coloni (in ogni caso sono stati
convertiti in un'altra classe, in cui per altro sono confluiti anche altri
strati sociali, ad esempio il proletariato cittadino e in generale le classi
depauperate.)
Nello stesso modo, i servi della gleba non hanno creato la società borghese,
ossia il modo di produzione borghese; al più lo hanno alimentato, poiché in
molti per sfuggire alla condizione servile si sono riversati nelle città.
Ogni forma produttiva nasce dalle contraddizioni che minano l'esistenza di
quella precedente, indebolendola e infine facendola cadere (oppure
rendendola fortemente instabile); ma la forma produttiva successiva,
destinata a rimpiazzarla, è qualcosa di diverso che non nasce dal seno della
prima: la borghesia non ha nessuna relazione genetica con i servi e con i
feudatari, nasce spontaneamente, anche se certo è favorita dalla loro
debolezza.
La società feudale sorge come nuova forma produttiva che rimpiazza
l'economia schiavile antica, ma certo non ne è 'figlia' (avendo difatti
presupposti molto diversi rispetto a essa); a meno che con ciò non si
intenda dire che nasce e si afferma per riempire un vuoto: quello lasciato
dalla precedente.
Lo stesso vale per ogni macro- trasformazione storica.
Il nuovo nasce dalle ceneri del vecchio ma non come un suo prodotto, bensì
come un qualcosa che lo sostituisce (che certo tiene conto delle scoperte e
delle strutture del periodo precedente, anche perchè sorge dal suo medesimo
terreno).
Se quindi gli schiavi non producono l'economia feudale o servile, se i servi
non producono la borghesia e l'economia capitalistica moderna, se le caste
non producono l'economia commerciale basata sulla proprietà privata, perché
i proletari dovrebbero produrre una nuova forma di organizzazione economica?
Ogni nuova forma è come un nuovo e autonomo seme di civiltà, che niente ha
da spartire con il precedente! E' un nuovo discorso, influenzato magari dal
precedente, ma in ultima analisi originale e quindi indipendente rispetto a
esso.
Allora, su tali basi, come si può postulare che il proletariato possa porre
i presupposti atti a sviluppare il socialismo?
Al più potrà essere un fattore alla base del fenomeno della decadenza
capitalistica, ovvero determinarne l'indebolimento a livello strutturale.
Tuttavia, secondo tale logica, non potrà essere il motore del nuovo: così
come la classe schiavile non ha prodotto l'economia servile, né quella
servile ha prodotto quella borghese, e le caste orientali non hanno prodotto
la società classista occidentale.
Marx invece postula che debba essere proprio il proletariato a creare e a
instaurare il nuovo regime socialista. Mentre, in base a quella dialettica
storica che lui stesso ha delineato, la classe oppressa potrà essere - con
la sua ipertrofia - il sintomo della decadenza di un sistema economico
sociale (ovvero del suo essere impotente a risolvere le proprie
contraddizioni interne) ed esserne quindi, ma solo in senso passivo (ovvero
in quanto 'fattore-zavorra'), causa fondamentale o parziale del suo
collasso. Tuttavia mai potrà, in quanto è già parte di un sistema, creare
una nuova struttura sociale.
In questo senso condivido l'analisi storica di Marx solo fin dove egli
afferma che il proletariato, crescendo come classe in modo esponenziale (e
con esso anche il divario tra ricchi e poveri) sarà - o potrà essere, dico
io - la causa del declino del sistema capitalista; ma non mi trovo d'accordo
quando egli sostiene che tale classe debba essere la sorgente stessa da cui
scaturirà una nuova forma di organizzazione sociale: e per di più
socialista.
In questi due passaggi Marx dimostra di non saper sostenere un'analisi
rigorosa del futuro.
Parlando in termini khuniani, ogni nuovo sistema appare come un nuovo
'paradigma', che nasce a causa del (o viene comunque favorito nella sua
affermazione dal) declino e dalla morte di quello precedente (il quale
infatti lascia morendo un 'vuoto organizzativo' da colmare); che sorge sulle
sue ceneri (spesso anche riprendendone e sviluppandone alcuni motivi interni
e strutturali); che lo sostituisce e in un certo grado può per i posteri
avere con esso delle affinità (poiché non sempre tra vecchio e nuovo avviene
un brusco distacco); che infine spesso ne raccoglie l'eredità storica e ne
conserva la memoria!
Ma non è possibile che il nuovo venga generato passivamente dal vecchio.
Esso è infatti un'altra cosa, del tutto nuova e autonoma.
Quindi come farebbe il proletariato, classe interna al sistema capitalista a
fare sorgere dal proprio seno il nuovo, nella fattispecie il socialismo?
E poi perché ciò (o qualcosa di simile) non è stato realizzato dalle
precedenti classi oppresse, che si trovavano in una condizione
strutturalmente simile alla sua, seppure in una differente compagine
sociale?
Mi sembra che già queste osservazioni mettano in crisi la linearità della
deduzione marxiana della società senza classi.
Ve ne sono poi altre, non legate alla componente evolutiva, ma a quella
interna.
Ma voglio chiarire ulteriormente in che senso, secondo me, un paradigma
sociale nasce autonomamente, sebbene non indipendentemente da quello che lo
precede e che va lentamente a rimpiazzare.
Non si può parlare di sviluppo indipendente, in quanto i due sistemi
sopravvivono l'uno a fianco dell'altro, almeno per un certo periodo: fino a
quando cioè il vecchio sistema non è per così dire 'evaporato'
definitivamente, lasciando del tutto il campo al nuovo.
Inoltre, cosa forse ancora più importante, non vi è mai indipendenza totale
tra i due perché l'uno nasce da quelle stesse condizioni che fanno morire
l'altro! In questo senso, essi 'c'entrano' l'uno con l'altro - e per questa
ragione inoltre si sovrappongono temporalmente e fisicamente.
Ma sono comunque due fenomeni ben distinti tra di loro: si basano infatti su
assunti differenti (ad esempio, la società schiavile si basa sull'utilizzo
degli schiavi come manodopera soprattutto per la produzione, e quindi come
base per il commercio e la ridistribuzione dei prodotti nei confini
dell'Impero; viceversa l'economia feudale e servile chiusa, si basa sul
fatto che una classe di coloni legati alla propria terra d'affitto produca
il necessario per la sopravvivenza di se stessa e dei suoi superiori, siano
essi valvassori, vassalli o gli stessi feudatari). Diciamo che il secondo
sistema produttivo nasce e si afferma sempre per una maggiore capacità di
rispondere alle esigenze determinate da una nuova situazione di fatto,
creatasi proprio nel corso dell'evoluzione del sistema precedente.
Ma, si badi bene, non sono le classi oppresse interne ad un sistema - ad
esempio quello schiavile - a creare il nuovo orizzonte sociale economico e
produttivo.
Esse difatti, pure se sono classi oppresse e quindi interessate a un
cambiamento, non possono che ruotare - magari in modo 'autolesionistico',
per così dire - attorno ai principi di tale sistema e obbedire a essi, un
po' come le mosche (mi si passi il paragone) girano attorno alla luce di una
lampadina, che infallibilmente le attrae, prima di esserne bruciate.
Le trasformazioni che saranno alla base del successivo sistema si trovano
solo in quest'ultimo!
* * *
Ma anche questa affermazione ha bisogno di essere spiegata ulteriormente.
Non è la classe dei servi a fare nascere la società borghese, né quella
degli schiavi a fare nascere il mondo servile.
E' piuttosto proprio la nuova e sorgente realtà a riqualificare i vecchi
soggetti sociali, trasformandoli ad esempio da schiavi (o da proletari
depauperati, in cerca di un rifugio più sicuro della antica città) in servi;
oppure da servi in fuga dai propri feudatari e dal loro dominio in cittadini
borghesi, che alimenteranno quindi l'economia delle città.
Il che dimostra come i due sistemi economici si sovrappongano
inevitabilmente nel tempo e nello spazio - ovvero anche nelle persone,
poiché la stessa persona può diventare da schiavo servo e passare così da un
paradigma all'altro - ma (questo è fondamentale) senza per questo avere egli
creato la condizione servile. E' piuttosto quest'ultima ad averlo preso in
carico, accogliendolo per così dire nel suo grembo e mutando i connotati
della sua identità sociale.
Chi l'ha creata dunque quella nuova dimensione sociale? Si può forse dire
che essa si è creata da sé, come soluzione che gradualmente si è affermata
in sostituzione del precedente paradigma sociale, senza tuttavia (quantomeno
di solito) il consenso volontario e consapevole degli individui che entrano
a farvi parte.
Ovviamente, col tempo le nuove classi sociali arrivano a maturare una vera e
propria autocoscienza e quindi anche a decidere di scalzare le ultime
vestigia (essenzialmente politico culturali) del vecchio sistema.
E' questo meccanismo a dare l'avvio per esempio alla Rivoluzione francese,
evento attraverso cui la classe borghese si libera degli ultimi residui
(politico culturali, più che economici) della società aristocratica e
feudale.
Così come Carlo Magno, nel fondare il Sacro Romano Impero nel Natale
dell'800 segna il trionfo politico definitivo della logica feudale, già da
molto tempo comunque prevalente a livello sia economico sia politico su
quella urbana commerciale dell'antico mondo.
E' chiaro, da quanto si è detto, come il declino di un 'mondo' (chiamiamo
così un sistema complessivo di organizzazione della società e delle sue
forme produttive) sia effettivamente concomitante allo sviluppo di un nuovo
mondo, ma sia anche profondamente diverso da esso.
Mi sembra che l'errore di valutazione di Marx si collochi proprio in questa
mancata distinzione.
Egli sostiene difatti che sarà proprio il proletariato, ovvero la classe il
cui accrescimento quantitativo è dovuto a un meccanismo interno all'economia
capitalistica, a dare l'avvio a un nuovo sistema produttivo: quello
socialista.
Tuttavia tale classe, essendo interna al sistema (seppure come ceto
oppresso), non può costitutivamente uscire da esso. Infatti è al suo interno
che essa riceve la sua stessa identità e il suo destino - che consiste in
una vasta gamma di possibili comportamenti, tanto a favore quanto a sfavore
del sistema stesso.
Insomma il proletariato può essere espressione dello squilibrio insito nel
sistema, la manifestazione di una contraddizione che lo indebolisce e che lo
logora, ma non può essere capace per se stesso di proporre un'alternativa a
tale logica: ovvero non può creare un 'mondo' diverso.
Non può farlo, non più di quanto potessero le altre classi oppresse.
L'unica emancipazione possibile per il singolo proletario sta nell'uscire
dalla condizione di proletario, non nell'eliminazione del proletariato come
classe oppure nell'inserimento di esso (il che è poi lo stesso) in una nuova
logica produttiva in cui non sia più classe oppressa ma classe dominante e
unica.
Nello stesso modo gli schiavi, molti secoli fa, non hanno potuto eliminare
lo schiavismo ma - al massimo - emanciparsi singolarmente dalla propria
condizione, diventando dei liberti; oppure partecipare a rivolte schiavili.
E ciò con esiti sempre (presto o tardi) tragici, poiché tali rivolte sono
sempre rimaste per forza di cose mere ribellioni senza poter mai diventare
rivoluzioni, non sono cioè mai riuscite a creare nuovi contesti sociali e
economici: nuovi sistemi.
Quel che voglio dire è che la rivoluzione è sempre il suggello finale del
graduale sviluppo di un nuovo paradigma sociale, e delle classi (soprattutto
di quelle dominanti) al suo interno. Essa non può essere quindi il prodotto
della ribellione di un ceto (sia pure oppresso) situato all'interno di un
determinato sistema economico e produttivo.
Quest'ultimo infatti, al massimo potrà ribellarsi alla propria condizione ma
non riuscirà a instaurare un nuovo sistema (se riuscirà a concepirne uno,
questo resterà comunque semplice utopia o sogno).
Facciamo ora un paragone: secondo Marx come la borghesia ha cancellato (con
le sue rivoluzioni politico sociali) il predominio politico della classe
aristocratica, il proletariato dovrà fare prima o poi qualcosa di simile nei
confronti del sistema capitalista borghese.
Si dimentica - a mio avviso - che la borghesia al momento della rivoluzione
è padrona dei mezzi economici di produzione, se non a livello giuridico
quantomeno in senso sostanziale, poiché detiene le vere leve del potere
produttivo all'interno della società (che non a caso è già da tempo una
società borghese); il proletariato invece non è padrone dell'economia
capitalistica, ne è invece il mezzo attuativo, lo strumento pratico, senza
per questo essere minimamente in possesso delle leve decisionali di
quest'ultima.
Egli quindi è succube della stessa logica in cui il suo sistema lo pone, ed
è proprio tale logica a rendere impossibile da parte sua l'esproprio della
proprietà borghese (se non come sogno o ideale).
In altri termini Marx confonde la classe emergente interna a un nuovo
paradigma, con una che di un vecchio e oramai stabilizzato paradigma è
semplicemente parte. O meglio, la sua teoria vive sull'illusione che la
classe oppressa di un paradigma, quello capitalista, possa essere anche la
classe propositiva che ne afferma uno nuovo.
E tale contraddizione, sebbene non sia forse del tutto evidente, è tanto più
reale poiché interna alla stessa dialettica materialista che dovrebbe
sostenerla.
Ho cercato quindi di mettere in chiaro per quali ragioni secondo me la
dialettica marxista se da un lato è uno strumento di interpretazione
validissimo per il passato, non supporta tuttavia (nel suo corretto
utilizzo) le previsioni storiche fatte da Marx sulla rivoluzione del
proletariato, attraverso la ribellione all'oppressione del sistema
capitalista e la creazione da parte di quest'ultimo di un mondo nuovo,
quello socialista.
Sistema vecchio o consolidato:
si basa sull'organizzazione gerarchica di alcune classi
sociali ------------------àLe classi dominanti ne traggono beneficio a spese
di quelle dominate.
Ma in tal modo molti sistemi produttivi accumulano squilibri produttivi, ai
quali col tempo non riescono a dare una vera risposta: ciò determina il loro
crollo finale
Sistema nuovo:
si basa su una organizzazione del lavoro nuova, più rispondente alla nuova
condizione sociale e alle reali possibilità organizzative e produttive che
si sono venute a creare ---------------------------àAnche in esso vi sono
classe dominanti: ma nuove; esso è emergente nel suo complesso, ma prima di
tutto è un mezzo di affermazione per le classi dominanti al proprio interno,
le quali - giunte a un certo grado di sviluppo - guideranno una rivoluzione
volta ad affermare totalmente il proprio sistema e a scalzare quel che
ancora sopravvive del vecchio
La nascita di un nuovo sistema economico e sociale non può partire quindi
dall'iniziativa della classe proletaria, ma dall'iniziativa di una classe
costitutiva di un nuovo sistema produttivo, che sia alternativo a quello
capitalistico.
La rivoluzione a mio avviso avverrebbe, secondo un corretto impiego della
dialettica marxiana, dopo che tale nuovo sistema si fosse emancipato dai
vincoli di quello vecchio e lo avesse ormai definitivamente superato. Ma il
proletariato è come tale classe del e nel sistema capitalista.
Ovviamente a rigor di logica anche questa nuova forma produttiva sarebbe
limitata, al pari delle altre. Cioè avrebbe una fine, che molto
probabilmente sarebbe il prodotto delle proprie stesse contraddizioni
interne.
Un'altra prova: il feudalesimo non ha usato la borghesia per i propri fini
intrinseci, ma ha convissuto con essa sin dall'inizio. Poi, col tempo, ne è
stata estromessa dal potere politico oltre che da quello economico.
Il sistema schiavile antico è stato soppiantato da quello servile e feudale,
ma non ha mai utilizzato i servi: casomai nel momento in cui gli schiavi
sono divenuti servi non hanno più fatto parte di un sistema schiavile.
Nel momento infine in cui le caste si sono piegate alla logica del commercio
e della proprietà privata, hanno automaticamente smesso per questo di essere
caste.
In altri termini tutti i paradigmi 'uscenti' sono prima affiancati e
successivamente spodestati dai paradigmi 'entranti'.
Se ciò è vero, perché il proletariato dovrebbe, pur facendo parte - come
mezzo produttivo - di un sistema, generarne un altro? Perché dalla logica
capitalistica dovrebbe nascere una nuova logica, mentre la stessa dialettica
materialista dimostra come questa possa sorgere soltanto al di fuori del
sistema vigente?
Marx sostiene che il proletariato è il 'becchino' del capitalismo borghese,
come se il sistema borghese si distruggesse e ricreasse dal suo interno,
mentre ogni sistema si indebolisce da solo ma viene sostituito da un altro
sistema!
L'errore di Marx - a mio avviso - sta nel porre il proletariato sia come
classe interna al sistema borghese, sia come classe esterna ad esso e quindi
potenzialmente rivoluzionaria.
Egli formula la sua teoria partendo dal presupposto, non supportato dalla
sua stessa dialettica, che tale classe sia destinata al tempo stesso a
obbedire alle regole del proprio sistema e nondimeno a trovare in se stessa
anche il modo per riformarlo, ponendosi cioè al di fuori di esso e della sua
logica, e ciò perché essa riveste al suo interno una posizione marginale.
Se questo fosse vero, dovrebbero avere fatto una rivoluzione (o qualcosa di
simile) anche le classi oppresse dei precedenti sistemi!
Tali classi invece sono rimaste per forza di cose passive e non hanno creato
alcun nuovo mondo, anche se hanno contribuito (di solito inconsapevolmente)
al crollo di quello in cui si trovavano, ormai logorato dalle contraddizioni
che lo minavano dall'interno.
Non voglio dire con questo che il proletario o che alcuni proletari, o
qualsiasi classe interna al sistema capitalista, non possa contribuire
attivamente alla sua fine e allo sviluppo nuove di forme di convivenza.
Voglio dire che ciò non può avvenire in quanto egli o essi sono proletari (o
qualsiasi altra appartenenza di classe abbiano in questo sistema), ma in
quanto uomo/uomini radicalmente nuovo/i rispetto agli schemi dell'antico
sistema.
Marx invece sostiene che nel proletariato debba risiedere - proprio in
quanto proletariato - la molla, il motore di un nuovo sistema produttivo,
l'inizio della rivoluzione socialista.
Certo egli ribatterebbe alla mia critica affermando che esso, prima di fare
la rivoluzione, si sarebbe trasformato in una classe nuova, sotto lo sguardo
miope dei capitalisti. E che - avvenuta una tale trasformazione - troverebbe
in sé la forza per ribellarsi all'oppressione dei padroni.
Ma come è possibile che esso sostenga il proprio ruolo sociale di
proletariato (ovvero di ceto interno al capitalismo) e maturi
contemporaneamente una coscienza di classe che lo pone al di fuori del
paradigma in cui si trova e che gli dà (in senso anche morale) un'esistenza?
Se ciò fosse possibile, penso che una rivoluzione l'avrebbero già fatta le
precedenti classi oppresse, avrebbero cioè maturato una coscienza della
propria condizione e vi si sarebbero ribellate.
Io invece penso - come ho già detto - che ciò non possa avvenire, poiché il
muoversi e il vivere (bene o male) in un sistema e di un sistema, ancori
inevitabilmente un gruppo sociale a quel sistema e gli impedisca di pensare
e di mettere in atto alternative che siano attuabili o possibili per lui,
cioè all'interno di quel sistema.
Solo una classe nuova, che si muova sin dal suo inizio al di fuori degli
assunti di fondo di tale paradigma, può affermarne uno nuovo! E ciò perché
essa è vergine da quei condizionamenti a cui invece l'altra classe (che vi è
ancorata sin dal suo inizio) non può sfuggire che astrattamente, ovvero con
la fantasia.
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