LENIN E LENINISMO
1900: NASCE L'ISKRA
A cavallo tra il XIX e il XX secolo il capitalismo entrò nella sua fase
estrema e conclusiva, quella imperialistica. I monopoli divennero il fattore
decisivo nella vita economica delle maggiori potenze capitalistiche e nella
politica mondiale. Appena portata a termine la suddivisione del mondo in
sfere d'influenza tra le nazioni colonialistiche, cominciarono a scoppiare
le guerre imperialistiche (ispano-americana, anglo-boera e russo-giapponese)
per la redistribuzione delle colonie e la modificazione delle sfere
d'influenza.
Nel corso del primo decennio del Novecento si formarono i blocchi
imperialistici che in seguito avrebbero scatenato la I guerra mondiale.
In Russia il capitalismo, utilizzando l'esperienza tecnica e le ultime forme
organizzative del progresso industriale degli altri paesi capitalistici, si
sviluppava impetuosamente. Anzi, per i ritmi e la concentrazione della
produzione la Russia già superava i paesi occidentali più avanzati, dei
quali comunque continuava a restare l'anello più debole, poiché, accanto
alle grandi fabbriche e officine, sopravvivevano imprese di dimensioni
piccole e medie, dove i rapporti di lavoro erano caratterizzati da forme di
sfruttamento pre- o paleo-capitalistiche. Inoltre nelle campagne
predominavano le grandi aziende a conduzione di tipo semifeudale, che
impoverivano enormemente i contadini (rappresentanti i 5/6 della popolazione
attiva); e nell'eterogenea struttura economica russa conservava ancora una
notevole importanza la produzione artigianale.
Allo sviluppo industriale degli anni '90 fece seguito la grave crisi europea
del triennio 1900-1903, che coinvolse in breve tempo anche la Russia, dove
si verificarono la rovina di un gran numero di piccoli e medi imprenditori,
la conseguente formazione di grandi monopoli, una forte disoccupazione di
massa, la carestia e la fame per milioni di persone. Questa situazione
determinò la nascita del movimento rivoluzionario di emancipazione, di cui
il proletariato urbano e industriale, di orientamento marxista, divenne
l'elemento
portante. La forza di quest'ultimo stava soprattutto nell'elevato livello
della sua coscienza di classe, derivante dall'asprezza delle contraddizioni
esistenti nel paese; e anche dai suoi stretti legami con gli strati
proletari e semiproletari delle campagne.
"Liquidare il terzo periodo!"
Lenin cominciò a svolgere la propria attività propagandistica nella cintura
industriale di Pietroburgo, dove già operavano una ventina di circoli
marxisti, che nel 1895 si unificheranno nell'Unione di lotta per
l'emancipazione
della classe operaia, da lui stesso fondata.
L'Unione non si limitava a continuare l'indirizzo ideologico del gruppo
plechanoviano Emancipazione del lavoro, del 1893, ma mirava anche a fondere
il socialismo scientifico col movimento operaio, passando dalla propaganda
del marxismo fra pochi operai d'avanguardia, all'agitazione politica sulle
questioni di attualità fra le grandi masse della classe operaia.
In tal modo l'Unione preparava la formazione di un partito operaio
rivoluzionario marxista. Sennonché, quand'essa riuscì a estendersi in tutti
i principali centri industriali, organizzando gli operai che volevano
scioperare, Lenin venne immediatamente arrestato e deportato in Siberia,
dove resterà dal 1897 al 1900.
Nel 1898 si cercò ugualmente di costituire a Minsk il Partito operaio
socialdemocratico russo (Posdr)1, raccogliendo l'eredità dell'Unione, ma il
Manifesto, lanciato a nome del congresso, non parlava di rivoluzione
socialista guidata dall'alleanza operaio-contadina. Inoltre mancavano il
programma e lo statuto, e i membri del comitato centrale furono ben presto
arrestati.
Lenin, intanto, nel suo esilio proseguiva l'opera demolitrice delle idee
populiste, dimostrando con lo studio scientifico, Lo sviluppo del
capitalismo in Russia, che il capitalismo andava sviluppandosi non solo
nell'industria
ma anche nell'agricoltura.
Purtroppo una serie di fattori e circostanze di tipo sociale, politico e
ideologico provocarono in quegli anni un arretramento della socialdemocrazia
russa verso posizioni opportunistiche. Probabilmente ciò dipese anche dal
fatto che nella polemica con i populisti i marxisti fecero valere
soprattutto le ragioni ideologiche, tralasciando di considerare le possibili
alleanze politiche in funzione anticapitalistica e antifeudale.
Anche in questo senso si può affermare che tra i fattori, diretti e
indiretti, che generarono l'opportunismo, si possono segnalare: 1) lo
sfascio dell'Unione di lotta e la mancata realizzazione di un partito
operaio rivoluzionario, unitamente alla disorganizzazione dei vari comitati
marxisti, circoli e gruppi locali, slegati tra loro e persino divergenti a
livello ideologico; 2) la definitiva vittoria ideologica sul populismo e il
successo di certi scioperi, tumulti e manifestazioni del movimento operaio,
che resero il marxismo un fenomeno di "moda" fra la gioventù rivoluzionaria,
spesso caratterizzata da idee confuse e inesperienza nelle questioni
pratiche; 3) l'influenza negativa che sul piano teorico esercitava ancora la
cosiddetta corrente del "marxismo legale" (cioè il marxismo di quegli
intellettuali marxisti solo a parole che, scrivendo i loro articoli sulla
stampa permessa dal regime, evitavano di riferirsi alla rivoluzione
socialista); 4) l'imperversare delle feroci persecuzioni della zarismo, il
quale sosteneva la moderna organizzazione della borghesia e la grande
proprietà fondiaria.
Tutto ciò produsse tra le file della socialdemocrazia, disordine ideologico,
oscillazioni politiche e confusione organizzativa, al punto che si decise di
abbandonare l'agitazione politica a favore di una pura e semplice lotta per
le rivendicazioni economiche (aumenti salariali, riduzione dell'orario di
lavoro ecc.). Proprio mentre l'ascesa sempre più vigorosa del movimento
operaio e l'evidente approssimarsi della rivoluzione esigevano,
oggettivamente, la fondazione di un partito unico e centralizzato, capace di
dirigere il movimento, s'imponeva invece, sul piano soggettivo, una tendenza
radicalmente opposta, che dava al frazionamento organizzativo e allo
sbandamento ideologico una giustificazione teorica.
La corrente che meglio incarnò questo atteggiamento opportunista -simile al
revisionismo di Bernstein- fu quella del cosiddetto "economicismo"
(l'economia
agli operai e la politica alla borghesia liberale). Il suo "manifesto" venne
scritto dalla Kuskova e da Prokopovic, e le due riviste che meglio la
rappresentavano erano in Russia "Rabociaia Mysl" (Il pensiero operaio) e
all'estero
"Raboceie Dielo" (La causa operaia).
Il primo documento contro l'opportunismo economicista, cioè la Protesta dei
socialdemocratici russi, Lenin, con altri 17 deportati marxisti, lo scrisse
in Siberia nel 1899. Qui appare netta l'esigenza di creare un partito
operaio indipendente che agisca nella più rigorosa clandestinità e che -come
Lenin dirà qualche anno dopo nel Che fare?- si ponga come compito la
liquidazione del "terzo periodo" della storia della socialdemocrazia russa,
quello che, iniziato nel 1898, procedeva contemporaneamente alla prigionia
siberiana di Lenin.
"Bisogna sognare!"
Scontata la pena, Lenin cercò di riprendere i contatti con i circoli
marxisti di Pietrogrado, ma le intenzioni "omicide" della polizia zarista lo
costrinsero nuovamente all'esilio. Convinto che "nell'Europa moderna, senza
un organo di stampa politico, è inconcepibile un movimento che meriti
d'essere
chiamato politico", cioè che è "assolutamente impossibile concentrare tutti
gli elementi di malcontento e di protesta politica", egli pensò di
realizzare questa idea2 a fianco di Plechanov, che allora viveva in
Svizzera.
Il problema, in effetti, non era solo quello di ricostruire il disciolto
Posdr, ma anche e soprattutto quello di ripristinare l'unità ideologica che
gli economicisti avevano spezzato. E per poter fare questo occorreva un
giornale che contribuisse a evidenziare i contrasti presenti all'interno
della socialdemocrazia russa e a sviluppare, mediante l'attività politica,
la linea che si riteneva più aderente all'ortodossia marxista. Esso insomma
avrebbe dovuto svolgere un compito di propaganda ideologica, di agitazione
politica e di coordinamento delle forze del partito.
Consapevole che senza "teoria rivoluzionaria" non avrebbe potuto esserci
alcun "movimento rivoluzionario" e che questa teoria andava fatta acquisire
agli operai "dall'esterno", attraverso i "rivoluzionari di professione",
portando la protesta spontanea degli operai a un livello di chiara
consapevolezza politica e scientifica - Lenin era giunto ad affermare che
anzitutto ci si doveva "delimitare" risolutamente e con precisione dagli
opportunisti.
Non intendendo fare del giornale "un semplice ricettacolo di concezioni
diverse", ma, al contrario, lo strumento direttivo di una "tendenza
rigorosamente definita", Lenin pensava di non precludere affatto le colonne
del giornale alla polemica fra compagni, anzi, sperava che proprio in virtù
di questa polemica si sarebbe potuto mettere in chiaro "la portata delle
divergenze esistenti", permettendo in tal modo alle organizzazioni locali di
scegliere con cognizione di causa fra le due correnti dominanti: marxismo
(o, se si vuole, leninismo) ed economicismo.
E così, dopo aver contattato numerose organizzazioni socialdemocratiche
della Russia ed essersi accordato per un loro appoggio al giornale e aver
designato i futuri collaboratori e corrispondenti, Lenin, con l'appoggio di
Plechanov -il quale comunque si assicurò la maggioranza della propria linea
nella redazione3- e con l'assistenza della sua infaticabile moglie, fece
dell'Iskra (la scintilla) il centro illegale di unificazione delle forze del
partito, di reclutamento e di formazione dei quadri.
Sperando di passare inosservati, essi scelsero come sede della redazione una
città brulicante di studenti, Monaco, ma la corrispondenza passava per
Praga, affinché le spie zariste non scoprissero il luogo dove veniva edito
il giornale. Il primo numero apparve a Lipsia nel dicembre 1900; quelli
successivi vennero pubblicati a Stoccarda, Monaco, Londra e Ginevra.
Dopo che Lenin e gli altri della redazione furono costretti a trasferirsi a
Londra perché, riconosciuti dagli studenti che simpatizzavano per loro,
tenevano di essere espulsi dal paese, Plechanov4 e Axelrod, tornati in
Svizzera, si limitarono a collaborare in modo discontinuo, non avvertendo
con l'urgenza dovuta il compito di legare il socialismo scientifico al
movimento operaio. Un compito che l'Iskra bene assolveva pubblicando
cronache, corrispondenze inviate da tutta la Russia, resoconti di scioperi,
tumulti, dimostrazioni, battaglie polemiche sulle questioni teorico-pratiche
più importanti.
Proprio in quegli anni infatti iniziarono le prime manifestazioni veramente
di massa degli operai. Dal 1 maggio del 1900 fino allo sciopero politico
generale dell'ottobre 1905, che bloccò la produzione industriale di tutta la
Russia, inaugurando l'insurrezione armata degli operai di Mosca contro
l'autocrazia,
fu tutto un susseguirsi di manifestazioni operaie sempre più combattive e
politicamente consapevoli.
A Rostov sul Don (1902) gli scioperi partirono direttamente dalla lotta
rivendicativa degli operai, invece di svilupparsi per adesione
all'iniziativa
politica degli intellettuali e degli studenti, come quasi sempre era
avvenuto in precedenza. Lo sciopera nella Russia meridionale del 1903 fu
caratterizzato da un'intera catena di agitazioni operaie -come mai prima era
accaduto- all'interno delle quali svolsero un ruolo organizzativo di primo
piano le associazioni socialdemocratiche collegate all'Iskra. La redazione
infatti non si limitava a chiedere un'ampia diffusione del giornale in tutta
la Russia, ovvero una collaborazione semplicemente "letteraria", ma
pretendeva anche una collaborazione più propriamente "rivoluzionaria" (p.es.
attuando il trasferimento da un punto all'altro del paese, nei momenti
critici, delle forze aggregate mediante il giornale, onde costituire un
legame effettivo fra tutte le città della Russia).
I corrispondenti dell'Iskra -o, come venivano chiamati, i suoi "agenti"-
svolgevano in Russia un lavoro molto difficile e pericoloso. Soggetti a
costanti repressioni poliziesche, i vari Babushkin, Bauman, Sverdlov,
Kalinin, Zelikson, Petrovskij, Stasova e molti altri ancora diffondevano le
copie del giornale, le ristampavano con tipografie in loco, inviavano alla
redazione lettere, articoli, materiali, organizzavano le raccolte dei fondi.
Lenin non si stancava di ripetere che "la forza di un'organizzazione
rivoluzionaria sta nel numero dei suoi collegamenti". E' proprio in virtù di
questi collegamenti che l'Iskra potrà percorrere clandestinamente le
maggiori arterie europee: da Londra a Kiev per Vienna e Leopoli, da Londra a
Varna (porto bulgaro sul Mar Nero) da dove raggiungeva Odessa, e poi ancora
da Londra al Mar Nero via Alessandria d'Egitto, da Tabriz (estremo nord
della Norvegia) ad Arcangelo, da Stoccolma a Riga e Pietroburgo e così via.
Nella primavera del 1903 Lenin è costretto a lasciare Londra per Ginevra,
dove comincerà a elaborare, insieme alla redazione, un progetto di programma
del partito. Resosi conto che la linea dell'Iskra aveva già conquistato la
maggioranza fra i comitati marxisti russi, pensò fosse giunto il momento per
preparare la convocazione del II congresso del Posdr. Il compito più
importante dell'Iskra era stato infatti questo: porsi come strumento capace
di educare alla lotta politica cosciente le masse e soprattutto i dirigenti
socialdemocratici (operai colti e intellettuali), attraverso i
quali -coinvolti in forti organizzazioni politiche di base- si sarebbe poi
dovuto costituire un partito di tipo nuovo. Ecco perché gli articoli del
giornale erano scritti da quegli stessi militanti che, a livello locale e
nazionale, stavano preparando concretamente la rivoluzione.
Il sogno di Lenin, espresso nel libro Che fare?, era appunto quello di far
nascere un partito forte, omogeneo, centralizzato, marxista, rivoluzionario,
prevalentemente operaio, reparto avanzato della classe operaia (al cui
interno dovevano maturare i rivoluzionari di professione), dotato di una
vasta rete di organismi locali, che lottasse per realizzare un programma
minimo (l'instaurazione di una repubblica democratico-borghese) e un
programma massimo (la rivoluzione socialista).
Il congresso, che aprì i suoi lavori nell'estate del 1903 a Bruxelles e che
li concluse a Londra, fu teatro di una grande lotta sulle questioni
tattiche, programmatiche e soprattutto organizzative. Gli appartenenti al
gruppo dell'Iskra si batterono efficacemente contro gli economicisti, i
bundisti5 e altri elementi opportunisti spalleggiati da Trotski.
Si approvò un programma coerentemente marxista, quale non possedeva a
quell'epoca
nessun altro partito operaio al mondo, un programma che i militanti dovevano
accettare integralmente, impegnandosi di persona in una delle organizzazioni
del partito. "Bisogna preparare uomini che consacrino alla rivoluzione non
solo le sere libere, ma tutta la loro vita", aveva scritto Lenin nel n 1
dell'Iskra.
Purtroppo però la vittoria del giornale -divenuto organo centrale del "nuovo
partito"- fu di breve durata. I profondi dissensi venuti alla luce nel corso
del congresso fra la maggioranza iskrista (bolscevichi) e la minoranza
economicista (menscevichi) determinarono ben presto gravi conseguenze.
Approfittando della posizione conciliante assunta da Plechanov, i
menscevichi s'impadronirono dell'Iskra e, successivamente, anche del
comitato centrale del partito. A capo di questa campagna antibolscevica si
posero Martov, Axelrod e Trotski. Ciò poté avvenire anche perché il
congresso non era riuscito a smascherare sino in fondo l'opportunismo dei
menscevichi nelle questioni organizzative.
Il riflusso venne documentato da Lenin nello scritto Un passo avanti e due
indietro (1904), nel quale sono delineati i principi fondamentali
dell'organizzazione
del partito, validi ancora oggi: stretta osservanza dello statuto; salda,
unica e cosciente disciplina di partito; elettività di tutti gli organi
dirigenti dal basso in alto; resoconto periodico di tali organi a quelli
superiori; subordinazione della minoranza alla maggioranza; sviluppo della
critica e dell'autocritica.
A partire dal n. 52 l'Iskra, divenuta organo dei menscevichi, prese il nome
di Nuova Iskra: era il 1o novembre 1903. La svolta non colse alla sprovvista
Lenin e i suoi seguaci. Da tempo essi avevano compreso che un'organizzazione
combattiva può essere creata anche in una situazione di declino dello
spirito rivoluzionario. Ed è con questa organizzazione ch'essi potevano
affrontare, sicuri di vincere, la linea scissionista dei menscevichi.
Nell'agosto del 1904 già erano impegnati per la convocazione del III
congresso del partito; e il 4 gennaio 1905 uscì il primo numero del loro
nuovo giornale: Vperiod (Avanti).
NOTE
(1) La parola "socialdemocratico" va ovviamente considerata in un'accezione
diversa da quella odierna.
(2) Già il I congresso del Posdr l'aveva nominato caporedattore del futuro
organo centrale del partito.
(3) Al suo fianco erano Martov, Axelrod, Zasulic e Potresov. Plechanov
tendeva a sopravvalutare il ruolo della borghesia liberale e a sottovalutare
quelle delle masse contadine rivoluzionarie. Questi errori furono il germe
delle sue future concezioni mensceviche.
(4) Plechanov dirigeva anche la rivista scientifico-politica Zarià (Aurora),
con la quale appoggiava il lavoro dell'Iskra.
(5) L'Unione operaio-ebraica generale raggruppava in prevalenza gli elementi
semiproletari degli artigiani ebraici della Russia occidentale. Essi erano
di mentalità piccolo-borghese e politicamente nazionalisti.
LENIN, DALLA "PROTESTA" A "CHE FARE?"
Alla fine del secolo scorso Lenin dovette sostenere, prima in Russia e poi
all'estero, una dura lotta contro i "marxisti legali" e gli "economisti".
In quegli anni particolarmente difficili, carichi di contraddizioni sociali
ed economiche, privi di una vera prospettiva rivoluzionaria, in quanto il
movimento socialdemocratico era ancora troppo debole, soprattutto nei
livelli direttivi, il marxismo legale era riuscito a emergere nella
letteratura sottoposta a censura solo perché il governo zarista, vendendolo
impegnato a combattere le idee populiste, pensava che fosse una corrente
meno pericolosa. In realtà i marxisti legali contribuivano alla diffusione
del marxismo rivoluzionario, benché tale teoria -osserva Lenin- venisse
esposta in un "linguaggio esopico", cioè indiretto, mediato, non
trasgressivo.
Il progressivo declino del populismo fece diventare il marxismo molto
popolare in Russia. Lenin e la sua "Unione di lotta" non disdegnavano
l'intesa
con i marxisti legali in funzione antipopulistica, pur essendo consapevoli
che tali pseudo-marxisti erano nati dalla fusione di "elementi estremisti
con elementi molto moderati". Quando infatti -dopo che il governo s'accorse
della loro pericolosità- ci si trovò di fronte all'alternativa di
radicalizzare il taglio rivoluzionario degli interventi o di rinunciarvi
definitivamente, la maggioranza dei marxisti legali non ebbe dubbi: scelse
il revisionismo di Bernstein. A questo punto la rottura, fra marxismo
rivoluzionario e legale, divenne inevitabile.
Gli "ex-marxisti" continuarono a scrivere su giornali e riviste autorizzati
dal governo, rivendicando una piena "libertà di critica" nei confronti dello
stesso marxismo, ma questa volta con lo scopo principale di subordinare il
movimento operaio agli interessi della borghesia. Affermavano, da un lato,
che lo sviluppo capitalistico in Russia era una necessità storica, ma,
dall'altro,
non ne chiedevano il superamento immediato. Il loro marxismo era "senza
socialismo". Molti di questi "compagni di strada" -come li chiamava Lenin-
diventeranno dei "cadetti" (il partito principale della borghesia russa) e
persino delle "guardie bianche" durante la guerra civile.
Nel tentativo di superare gli evidenti limiti del marxismo legale, si
sviluppò all'interno del movimento socialdemocratico una corrente più
pratica e concreta, ma unicamente interessata a risolvere i problemi di
natura sindacale: era la corrente che Lenin chiamava col nome di
"economicismo". Non si trattava di una vera alternativa al marxismo legale
ma di un suo complemento. Sul piano "legale" infatti si continuava a
predicare, anche da parte degli economicisti, la fusione degli intellettuali
marxisti coi liberali, mentre su quello "illegale" si chiedeva agli operai
di lottare sindacalmente contro i padroni.
Gli economicisti -che, come dice Lenin, rifuggivano da qualsiasi
"discussione teorica, dissenso di frazione, ogni vasta questione politica,
ogni progetto di organizzare i rivoluzionari ecc."- avevano un loro
manifesto: il Credo (redatto dalla Kuskova), che Lenin e altri 17 compagni
sottoposero a dura critica scrivendo dalla prigione siberiana la Protesta
dei socialdemocratici russi (1899).
Con la Protesta, pubblicata sul Raboceie Dielo, Lenin rivendicava l'unità
della lotta economica della classe operaia con quella politica e condannava
il revisionismo di Bernstein, che voleva trasformare il partito operaio da
rivoluzionario a riformista. Lenin e gli altri autori della Protesta
volevano integrare la battaglia contrattuale della classe operaia con una
lotta politico-rivoluzionaria organizzata in un partito indipendente, che
portasse, anche attraverso il consenso e l'appoggio degli elementi
democratico-borghesi del Paese, all'emancipazione di tutti i lavoratori
oppressi.
Nello stesso tempo Lenin scrisse, fra le altre cose, Il nostro programma,
che però rimase inedito fino al 1925. In esso si costatava che l'opinione
dominante in seno alla socialdemocrazia russa considerava il marxismo
rivoluzionario "invecchiato e inadeguato". L'influenza del revisionismo si
faceva sempre più sentire. Alla stregua di Bernstein ci si limitava -dice
Lenin- ad elaborare "piani per riorganizzare la società", a proporre "ai
capitalisti e ai loro reggicoda il modo di migliorare la situazione degli
operai", a predicare agli operai "la teoria dell'arrendevolezza".
Lenin si rendeva conto che un'interpretazione dogmatica del marxismo poteva
trasformare questa scienza in una fraseologia senza senso; però teneva a
precisare che qualsiasi critica del marxismo non poteva andare oltre le
"pietre angolari" da esso poste, "i principi direttivi generali". La teoria
di Marx -diceva Lenin nel Programma- non è qualcosa di "definitivo e di
intangibile"; i socialisti devono anzi farla progredire "se non vogliono
lasciarsi distanziare dalla vita"; ma con ciò -prosegue Lenin- resta vero
che mai potrà esistere "un forte partito socialista se manca una teoria
rivoluzionaria che unisca tutti i socialisti".
Queste idee Lenin, a causa delle persecuzioni zariste, dovette portarle
avanti all'estero. Con l'aiuto di molti compagni pubblicò per tre anni il
giornale Iskra. Nell'importante articolo di fondo scritto nel primo numero:
I compiti urgenti del nostro movimento, Lenin, rifiutando le teorie
opportuniste dell'economicismo, rivendicava l'unità del socialismo col
movimento operaio. Solo mediante questa unità si poteva -a suo giudizio-
superare la mera attività propagandistica esercitata, a livello di circolo,
dai socialdemocratici russi negli ultimi decenni e, nel contempo, evitare
che il movimento operaio e il socialismo cadessero nell'ideologia borghese o
degenerassero nello sterile terrorismo individuale (come quello
dell'organizzazione
clandestina "Volontà del popolo", che, dopo aver assassinato nel 1881 lo zar
Alessandro II, venne immediatamente liquidata dal governo). L'unità, in
sostanza, era indispensabile non solo per l'"ortodossia" del socialismo, ma
anche per la "ortoprassi" del movimento operaio. "Nessuna classe della
storia -dice Lenin nell'articolo suddetto- ha conquistato il potere senza
esprimere dei propri capi politici, dei propri rappresentanti d'avanguardia
capaci di organizzare e dirigere il movimento".
A contatto con le organizzazioni socialdemocratiche all'estero, Lenin poteva
facilmente rendersi conto di come la tendenza economicistica avesse
acquistato sempre più seguaci. Infatti, dopo il giornale Rabociaia Mysl,
stampato in Russia, anche la rivista Raboceie Dielo, stampata a Ginevra,
decideva, a partire dal no 10, di compiere la svolta revisionista verso
l'economicismo.
Alle giustificazioni ch'essa ne dava, e cioè: 1) l'inesistenza delle
condizioni "oggettive" per compiere una rivoluzione (donde l'inutilità di
organizzare un partito politico); 2) il timore di vedere la propria attività
equiparata a quella dei terroristi - Lenin ribatteva dicendo: 1) "si deve
lavorare per creare un'organizzazione combattiva e condurre un'agitazione
politica in qualsiasi situazione", anzi, proprio nei momenti di declino
dello "spirito rivoluzionario" è particolarmente necessario tale lavoro,
"poiché nei momenti degli scoppi e delle esplosioni non si farebbe in tempo
a creare un'organizzazione"; 2) "oggi il terrorismo non viene affatto
proposto come un'operazione dell'esercito operante, strettamente legata e
adeguata a tutto il sistema di lotta, ma come mezzo di attacco singolo,
autonomo e indipendente da ogni esercito" (così in due articoli pubblicati
nei numeri 23 e 24 dell'Iskra).
In altre parole, la situazione di quel momento storico non era "oggettiva"
per la rivoluzione solo in questo senso, che non si doveva compiere un
"assalto frontale" alle postazioni nemiche prima di aver organizzato
debitamente un "regolare assedio". E, allo scopo -pensava Lenin-, nulla era
più indispensabile di un giornale politico panrusso: ecco perché era nata
l'Iskra.
"La maggiore o minore frequenza e regolarità dell'uscita (e diffusione) del
giornale -diceva Lenin, con grande senso della concretezza- potrà essere
l'indice
più esatto della solidità con la quale saremo riusciti a organizzare [il
settore della] propaganda e dell'agitazione multiformi e conseguenti".
La scelta di un giornale politico, comune a tutto il marxismo
rivoluzionario, era stata imposta dalla situazione di frazionamento
localistico del movimento operaio. Essendo "l'enorme maggioranza dei
socialdemocratici quasi completamente assorbita dal lavoro puramente
locale",
l'instabilità e l'incertezza del movimento e dei suoi dirigenti diventavano
un fatto inevitabile.
Ciò spiega il motivo per cui il giornale non era nato solo per svolgere un
ruolo di propagandista e agitatore collettivo, penetrando, attraverso il
proletariato, "nelle file della piccola borghesia urbana, degli artigiani
rurali e dei contadini", che avrebbe conquistato alla rivoluzione: esso
doveva pure svolgere la funzione di "organizzatore collettivo". Nel senso
cioè che la rete di "fiduciari" del partito preposta alla redazione e
diffusione del giornale, doveva mantenere strettissimi legami "con i
comitati locali (gruppi, circoli) del partito", o almeno con quelli che
desideravano la loro unificazione in un partito. Attraverso questo lavoro
tutti i militanti avrebbero avuto la possibilità non solo di osservare gli
avvenimenti da un punto di vista nazionale, ma, in virtù dell'organizzazione
capillare, anche l'opportunità d'intervenire direttamente su tali
avvenimenti. Gli stessi militanti insomma dovevano diventare i protagonisti
dell'Iskra.
Un altro importante articolo pubblicato sul no 12 del giornale è il
Colloquio con i sostenitori dell'economicismo. Qui Lenin risponde,
approfondendo gli argomenti soprattutto nel capitolo II di Che fare?, a una
lunga lettera che "un gruppo di compagni" aveva fatto pervenire alla
redazione del giornale. In particolare, Lenin rilevava il fatto che "i
dirigenti coscienti sono in ritardo sullo sviluppo del movimento spontaneo
della massa operaia e degli altri strati sociali". Ai dirigenti, di cui il
movimento dispone, mancano le cose più necessarie: solida teoria, vasti
orizzonti politici, energia rivoluzionaria, capacità organizzativa. Il grave
però è che "dalla fine del 1897 e specialmente dall'autunno del 1898" -dice
Lenin-, cioè proprio quando si è voluto costituire il partito operaio
socialdemocratico, essi hanno fatto di questi difetti una "virtù", portando
il "ritardo" della coscienza rivoluzionaria al livello di una
"giustificazione teorica".
Tutte le questioni che in quel periodo più urgevano nel dibattito interno
alla socialdemocrazia russa, saranno efficacemente sintetizzate e
magistralmente risolte in Che fare? (1902), il libro più importante che
Lenin scrisse prima della rivoluzione del 1905. Dopo la svolta del Raboceie
Dielo verso l'economicismo, con la quale, fra l'altro, s'impedì d'unificare
le organizzazioni socialdemocratiche all'estero in nome del marxismo
rivoluzionario, Lenin fu costretto a radicalizzare, anche nello stile
letterario, i termini dello scontro. Rendendosi d'altra parte conto che
l'economicismo
aveva molto più seguito di quel che non si credesse, egli non poteva agire
diversamente. L'opposizione fra le due correnti di pensiero era per lui così
netta da imporre una "chiarificazione sistematica" su tutti gli aspetti
fondamentali del dissenso. Proprio nella drammaticità del confronto con il
marxismo "ufficiale", "dominante", venivano alla luce le indicazioni più
sicure da seguire.
LA CRITICA ALLA "LIBERTA' DI CRITICA"
La "libertà di critica" è il primo aspetto che Lenin esamina nella sua
importante opera anti-opportunista Che fare? Trattasi di quella libertà che
i marxisti legali e soprattutto gli economicisti, in Russia, si erano presi
per indurre il neonato Posdr a trasformarsi da rivoluzionario a riformista.
Emulando i colleghi revisionisti di Germania e Francia, essi chiedevano di
rinunciare alla pretesa di dare un fondamento scientifico al socialismo e di
limitarsi ad accettarlo solo sul piano utopistico, in quanto l'opposizione
di principio fra socialismo e liberalismo era per loro inesistente.
Essi inoltre negavano il fatto della crescente miseria sociale, cioè della
proletarizzazione di ampi strati sociali e dell'inasprimento delle
contraddizioni capitalistiche. Respingevano, in sostanza, la teoria della
lotta di classe e l'idea della dittatura del proletariato. In un contesto
del genere, la "libertà di critica" -pensava Lenin- altro non significava
che "critica borghese di tutte le idee fondamentali del marxismo".
Naturalmente la novità non era piovuta dal cielo. "Già da tempo -scrive
Lenin- si muoveva contro il marxismo questa critica dall'alto della tribuna
e della cattedra universitaria, in innumerevoli opuscoli e in una serie di
dotti trattati; da decine di anni tutta la nuova gioventù delle classi colte
è stata educata a questa critica". In pratica, la linea opportunistica del
marxismo era stato il risultato di un trasferimento di concezioni borghesi
dalla letteratura liberale a quella socialista.
A livello europeo i migliori rappresentanti di questa nuova tendenza erano
Bernstein, sul piano teorico, e Millerand su quello pratico. Avvalendosi
della "libertà di critica" come di una rivendicazione politica, essi e gli
economicisti in genere evitavano di confrontarsi con le tesi del marxismo
rivoluzionario, tacciato preventivamente di "dogmatismo". Ma in tal
modo -spiega bene Lenin- la tanto declamata parola d'ordine: libertà di
critica anche nei confronti del marxismo, "si riduceva all'assenza di ogni
critica", anzi, "all'assenza di ogni giudizio indipendente". Di nuovo, in
realtà, c'era solo questo, che "l'urto delle diverse tendenze in seno al
socialismo si era per la prima volta trasformato da nazionale in
internazionale".
Storicamente parlando, gli economicisti rappresentarono una reazione
all'intellettualismo
parolaio dei marxisti legali. Là dove, nell'ultimo decennio dell'800, si
lottò con successo contro il populismo, paventando però l'idea della
rivoluzione proletaria, qui invece si pretendeva una maggiore concretezza,
una più sollecita attenzione ai problemi di natura sindacale dei lavoratori,
benché i tempi -a giudizio di Lenin- fossero maturi per ben altro che non
per una semplice politica tradunionista.
Di fronte alle posizioni rinunciatarie e rigorosamente circoscritte, a
livello sia teorico che pratico, degli economicisti, Lenin raccomandava
anzitutto di "riprendere [sottoponendolo a critica] quel lavoro teorico
appena cominciato all'epoca del marxismo legale"; dopodiché occorreva
rimediare alla confusione e all'esitazione prodotte dagli economicisti nel
movimento "pratico".
"Libertà di critica [per gli opportunisti] non significa -scriveva Lenin- la
sostituzione di una teoria con un'altra, ma la libertà da ogni teoria
coerente e ponderata, eclettismo e mancanza di principi". Quando una
tendenza del genere diventa dominante nel movimento operaio o addirittura
nel partito, non resta che separarsene - e Lenin operò appunto in questa
direzione. "Ci hanno biasimato -disse- per aver costituito un gruppo a parte
e preferito la vita della lotta alla via della conciliazione". Ma non si
trattava di settarismo o di frazionismo fine a se stesso. Il fine era quello
di realizzare l'unità della classe operaia con un'avanguardia
rivoluzionaria. E perché questo potesse avvenire "occorreva anzitutto -dice
Lenin- definirsi risolutamente e nettamente" (un'altra traduzione italiana
usa il termine delimitarsi).
Quando l'unità di un partito o di un movimento è palesemente,
irrimediabilmente nociva agli interessi della verità delle masse che
aspirano a liberarsi dallo sfruttamento capitalistico, non resta che
denunciarla, che rompere il suo formalismo e la sua ipocrisia,
ricostituendola su fondamenta più solide, soprattutto più autentiche. Certo,
sarà il consenso delle masse popolari a decidere dell'efficacia di una
iniziativa del genere.
D'altra parte "senza teoria rivoluzionaria -ha detto Lenin- non ci può
essere movimento rivoluzionario": "la predicazione opportunistica venuta di
moda, viene accompagnata dall'esaltazione delle forme più anguste di azione
pratica". Non deve dunque spaventare l'idea d'essere una piccola minoranza
(cosa peraltro inevitabile agli inizi); è invece indispensabile avere le
idee chiare, saper dove andare, lottare contemporaneamente sul fronte
teorico, politico ed economico - questo l'insegnamento che si trae dalle
prime pagine di Che fare?
SPONTANEITA' DELLE MASSE E COSCIENZA RIVOLUZIONARIA
Nell'esordio dell'importante libro Che fare?, in particolare nel capitolo
dedicato alla "libertà di critica" degli opportunisti, Lenin imposta e
conduce la sua battaglia sul fronte "teorico", un fronte che nel cap. II
viene approfondito a livello "filosofico" e "ideologico", per poi
esplicitarsi compiutamente in modo "politico" nel capitolo successivo e
"organizzativo" negli ultimi due (il primo dei quali di carattere generale,
mentre l'altro -delineante il piano di un giornale politico panrusso- a
titolo esemplificativo).
Il capitolo II porta come titolo significativo: La spontaneità delle masse e
la coscienza della socialdemocrazia. Lo scopo che lo muove è quello di
dimostrare la validità di una precisa tesi posta nella premessa: "La forza
del movimento contemporaneo consiste nel risveglio delle masse (e
principalmente del proletariato industriale) e la sua debolezza nella
mancanza di coscienza e d'iniziativa dei dirigenti rivoluzionari".
Per "risveglio spontaneo delle masse" Lenin intende quelle manifestazioni
popolari di protesta, tipo scioperi, tumulti, distruzioni di macchine ecc.,
che in Russia, a partire dal 1890, avvennero non con una coscienza esatta
della natura dello sfruttamento, ma con l'istinto, giunto a maturazione, di
ribellarvisi senza indugio. Il sentire la necessità di una resistenza
collettiva, ovvero il bisogno di rompere risolutamente "con la sottomissione
servile all'autorità", faceva parte appunto di quegli atteggiamenti "di
disperazione e di vendetta" che, se solo fosse esistita una direzione
cosciente e attiva degli intellettuali, avrebbero potuto aprire le porte
alla lotta rivoluzionaria vera e propria. "L'elemento spontaneo infatti non
è che una forma embrionale della coscienza".
Lenin non sta qui a discutere, in astratto, su quale debba essere il
rapporto ideale tra spontaneità delle masse e coscienza dei dirigenti. Il
problema, per lui, non stava neppure nel criticare quei dirigenti che non
avevano saputo prevedere l'evolversi dei tempi. Certo, questo era un difetto
che andava corretto. Ma il problema più grave da risolvere restava un altro,
e precisamente quello di come valorizzare la spontaneità delle masse
portandola a un livello di consapevolezza politica, tale per cui l'istintiva
protesta fosse indotta a rifiutare una semplice opposizione "legale" o
"settoriale" al sistema.
Per Lenin ciò che più contava era che il dirigente sapesse convincere le
masse ad avvertire i loro interessi generali e quelli del sistema di
sfruttamento come direttamente antitetici. In effetti, per cambiare
qualitativamente la situazione non basta la coscienza di sentirsi sfruttati,
né quella di voler reagire in qualche modo: occorre piuttosto -dice Lenin-
avere coscienza che l'antagonismo fra gli interessi degli operai e di tutto
l'ordinamento politico-sociale capitalistico è irrimediabilmente
inconciliabile. Cioè l'antagonismo tra capitale e lavoro non è relativo ma
assoluto.
Questo significa che se le masse si limitano a una protesta spontanea e
locale, al massimo riusciranno ad ottenere una parziale vittoria sul terreno
economico, potranno cioè sentirsi soddisfatte d'aver conseguito
nell'immediato
determinati obiettivi contrattuali, ma in nessun modo esse saranno riuscite
ad eliminare i motivi di fondo che le obbligano, con maggiore o minore
frequenza e intensità, ad avanzare queste ed altre rivendicazioni.
Ora, perché le masse si rendano conto della realtà di questo irriducibile
antagonismo non basta -dice Lenin- che la loro situazione economica peggiori
drammaticamente: occorre anche che vi siano dei dirigenti capaci
d'iniziativa
rivoluzionaria sulla base d'una teoria scientifica, oggettiva. Le masse
cioè, in virtù dell'apporto di questi dirigenti, devono arrivare a
trasformare la loro lotta sindacale in una lotta generale, rivoluzionaria,
per la conquista del potere politico. E perché questo accada occorre ch'esse
abbiano la coscienza esatta dei termini dell'antagonismo.
Una coscienza del genere può essere il frutto solo di uno studio
approfondito, scientifico, uno studio che l'operaio normalmente non fa, sia
perché non ne ha il tempo materiale, sia perché non rientra nei suoi
immediati interessi. "La classe operaia, con le sole sue forze -dice Lenin-,
è in grado di elaborare soltanto una coscienza tradunionistica, cioè la
convinzione della necessità di unirsi in sindacati, di condurre la lotta
contro i padroni ecc.". Ma in tal modo essa non giunge mai a considerarsi in
"alternativa" a tutto il sistema: lotta sì contro il capitale ma
sentendovisi legata. Il fatto stesso di dover lavorare alle sue totali
dipendenze, subendone i ritmi e le condizioni di lavoro, le impedisce di
assumere una posizione radicale, capace di trasformare la rivendicazione
economica in una lotta politica di carattere generale.
Ecco perché la coscienza rivoluzionaria "può essere apportata alla classe
operaia solo dall'esterno". Da chi precisamente? Da quell'intellettuale (od
operaio colto) che dopo aver compreso il carattere inconciliabile delle
contraddizioni capitalistiche, si dedica a tempo pieno, sostenuto dal
partito, alla lotta politico-rivoluzionaria, organizzando le forze di quelle
classi sociali i cui interessi sono antagonistici agli interessi del
capitale. Un operaio "cosciente", cioè un operaio che sa quanto
l'emancipazione
della sua classe corrisponda all'emancipazione di tutti i lavoratori, è un
operaio che deve essere valorizzato più come "militante" del partito che non
come "lavoratore" della fabbrica.
L'ideologia politica che aiuta meglio a comprendere la necessità di un
rivolgimento totale della società è -come noto- il socialismo scientifico.
"La dottrina del socialismo è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche,
economiche che furono elaborate -dice Lenin- dai rappresentanti colti delle
classi possidenti, gli intellettuali". Anche in Russia il socialismo
scientifico è sorto "come risultato naturale ed inevitabile dello sviluppo
del pensiero fra gli intellettuali socialisti rivoluzionari". Lo sviluppo
della teoria, pur basandosi sulla prassi storico-sociale, procede
indipendente da questa e può giungere a intravedere delle soluzioni finali
ai problemi fondamentali delle classi sociali, mentre la coscienza di tali
classi è ancora ferma a un tipo di lotta parziale, riduttiva, contro il
capitale.
Ciò che il leader rivoluzionario deve assolutamente evitare è che lo
sviluppo spontaneo delle masse arrivi a soffocare -seppure in modo
spontaneo- lo sviluppo della loro propria coscienza. Quando si è consapevoli
dell'irriducibile antagonismo fra capitale e lavoro non si può mai
giustificare lo spontaneismo delle masse adducendo, come pretesto, la
mancanza di condizioni oggettive per la rivoluzione. Se queste condizioni
mancassero non vi sarebbe neppure la loro coscienza riflessa. "Se certi
elementi spontanei dello sviluppo -dice Lenin- sono accessibili in generale
alla coscienza umana, l'errata valutazione di essi equivarrà a una
sottovalutazione dell'elemento cosciente. E se sono inaccessibili, noi non
li conosciamo e non ne possiamo parlare". Il che vuol dire, in altre parole:
se il dirigente non prende coscienza dello sviluppo spontaneo della rivolta,
quando questa c'è, non sottovaluta l'elemento spontaneo, ma la sua stessa
coscienza.
Ora, sottovalutare la coscienza rivoluzionaria significa subordinare il
movimento alla spontaneità e questo, nelle condizioni del capitalismo,
significa, inevitabilmente -come dice Lenin- determinare "un rafforzamento
dell'influenza dell'ideologia borghese sugli operai". Ciò in quanto: 1) "in
una società dilaniata dagli antagonismi di classe non potrebbe mai esistere
un'ideologia al di fuori o al di sopra delle classi"; 2) "l'ideologia
borghese è ben più antica di quella socialista, è meglio elaborata in tutti
i suoi aspetti e possiede una quantità incomparabilmente maggiore di mezzi
di diffusione". Ecco perché "quanto più giovane è il movimento socialista di
un determinato Paese, tanto più energica dev'essere la lotta contro tutti i
tentativi di consolidare l'ideologia non socialista".
Né si deve pensare che il pericolo dell'"imborghesimento" degli operai sia
infondato solo perché essi vanno "spontaneamente" verso il socialismo. Che
essi ci vadano è dovuto al fatto che la teoria socialista sa meglio
interpretare le cause di tutti i loro mali; cionondimeno, se l'adesione
immediata, istintiva, non viene approfondita in sede scientifica e non trova
nella prassi un adeguato impegno rivoluzionario, l'ideologia borghese, che è "la più diffusa e che resuscita costantemente nelle più svariate forme", non
tarderà a imporsi nuovamente, spontaneamente, alla coscienza dell'operaio.
Paradossalmente è proprio il movimento meramente spontaneo delle masse che
conduce al rifiuto (inconsapevole) del socialismo.
In sintesi, la teoria riflette sempre una realtà che la precede, ma essa la
riflette adeguatamente solo se sa portare la realtà stessa a un livello di
autoconsapevolezza critica. Traendo insegnamento dagli errori interpretativi
compiuti nel passato, il socialismo scientifico deve saper portare la
spontaneità del movimento operaio ad un livello cosciente e rivoluzionario.
La spontaneità è la forma istintiva, immediata di lotta: "I primi mezzi di
lotta che cadono sottomano saranno sempre nella società contemporanea
[capitalistica] i mezzi tradunionistici".
Lenin tuttavia non ha alcuna intenzione di accusare lo spontaneismo in sé:
la sua critica è rivolta a quegli intellettuali che lo giustificano per
impedire agli operai di sviluppare una coscienza veramente rivoluzionaria.
Egli infatti afferma che "quanto più è grande la spinta spontanea delle
masse, quanto più il movimento si estende, tanto più aumenta, in modo
incomparabilmente più rapido, il bisogno di coscienza nell'attività teorica,
politica e organizzativa". L'intellettuale che non comprende questo fa,
anche senza volerlo, gli interessi del capitale.
"Dal fatto che gli interessi economici esercitano una funzione decisiva non
consegue affatto che la lotta economica (professionale) sia di sommo
interesse, poiché gli interessi essenziali, "decisivi", delle classi possono
essere soddisfatti solamente con trasformazioni politiche radicali". E' da
questa e da altre analoghe affermazioni di Lenin, contenute in Che fare?,
che si è compreso come nell'imperialismo si sia attuato, nell'ambito del
marxismo, il passaggio dal primato dell'economia a quello della politica.
LENIN E CHE FARE?
E' impressionante la sicurezza con cui Lenin afferma, in Che fare?, che la
coscienza politica di classe può essere portata all'operaio solo
dall'esterno, cioè dall'esterno della lotta economica o della sfera dei
rapporti contrattuali tra operai e imprenditori.
Perché questa necessità? Perché l'operaio che lotta sindacalmente contro
l'imprenditore capitalistico non ha per questo la consapevolezza che la sua
stessa lotta economica, se non si traduce in lotta politica, non serve che a
perpetuare il suo sfruttamento. "La politica tradunionistica della classe
operaia -dice Lenin- è precisamente la politica borghese della classe
operaia".
Ora, un operaio che ha consapevolezza di questo non può continuare a fare
l'operaio: deve lottare per un fine superiore, organizzando la propria
attività in modo politico. "Le masse non impareranno mai a condurre la lotta
politica fino a quando non contribuiremo a educare dei dirigenti per tale
lotta, sia fra gli operai colti che fra gli intellettuali".
Ma come può un operaio passare dalla lotta economica a quella politica? Egli
deve acquisire la consapevolezza che tutta la società borghese va superata e
non solo il suo rapporto contingente coll'imprenditore. Se non ha
consapevolezza di questa necessità di ordine generale, se non ha rinunciato
a tutte le illusioni sulla possibilità di "riformare" la società borghese,
egli continuerà per tutta la vita a chiedere aumenti salariali o migliori
condizioni di lavoro, senza mai riuscire a superare l'idea in sé dello
sfruttamento. Noi invece -dice Lenin- "dobbiamo occuparci di spingere coloro
che sono insoddisfatti [di singoli aspetti sociali] a convincersi che quel
che non va è l'intero regime politico".
Ma, di nuovo, come può l'operaio acquisire tale consapevolezza politica? E'
forse l'intellettuale che deve dargliela? Un intellettuale staccato dalle
classi sociali non è in grado di fare alcunché. Lenin dice chiaramente che
"per dare agli operai cognizioni politiche, i socialdemocratici devono
andare fra tutte le classi della popolazione". Ciò in pratica significa che
la coscienza politica della necessità di superare in maniera globale la
società, può essere solo il frutto di una sensibilizzazione di tutte le
classi popolari. Ovvero, quando la stragrande maggioranza è convinta che la
società nel suo complesso va superata, ecco che allora si realizza il
socialismo.
La consapevolezza politica deve maturare nelle masse in modo progressivo, ma
chi già la possiede non deve aspettare ch'essa maturi da sola. Egli anzi
deve "reagire -dice ancora Lenin- contro ogni manifestazione di arbitrio e
di oppressione, ovunque essa si manifesti e qualunque sia la classe o la
categoria sociale che ne soffre". L'operaio cioè di per sé, solo perché "operaio", non ha maggiore consapevolezza politica di chi non lo è.
LA COSCIENZA DALL'ESTERNO
Perché, secondo Lenin, gli operai non possono avere "la coscienza
dell'irriducibile
antagonismo fra i loro interessi e tutto l'ordinamento politico e sociale
contemporaneo"? Risposta: perché tale coscienza non riesce a sorgere in loro
spontaneamente, naturalmente, ma deve essere data "dall'esterno",
dall'intellettuale
consapevole.
Lenin arriva a porsi questa domanda guardando la storia del movimento
operaio russo, euroccidentale e mondiale. Questa storia dimostra che "la
classe operaia con le sole sue forze è in grado di elaborare soltanto una
coscienza tradunionista", cioè sindacale.
Perché questo limite? Per due ragioni: 1) all'operaio manca il tempo di
farsi una consapevolezza teorica dell'irriducibile antagonismo tra lavoro e
capitale (non dispone cioè delle condizioni materiali favorevoli); 2) il
capitalismo, stando al potere, è in grado di disporre d'ingenti mezzi per
propagandare l'ideologia borghese, che è molto più antica di quella
socialista.
Dunque al massimo l'operaio arriva a "sentire", a "percepire" il suddetto
antagonismo, ma non arriva -proprio perché il lavoro da schiavo e il
condizionamento dell'ideologia borghese glielo impediscono- a maturare la
consapevolezza della necessità di un'alternativa organica, globale, al
sistema dominante.
Questo è un compito che spetta ai rivoluzionari di professione. "La dottrina
del socialismo -dice Lenin- è sorta da quelle teorie filosofiche, storiche,
economiche che furono elaborate dai rappresentanti colti delle classi
possidenti, gli intellettuali". Ciò significa ch'esiste un processo autonomo
del pensiero, indipendente "dallo sviluppo spontaneo del movimento operaio",
che porta alla consapevolezza della necessità del socialismo. Gli
intellettuali progressisti arrivano a "comprendere" sul piano teoretico ciò
che gli operai arrivano a "sentire" su quello pratico.
Cosa proponeva Lenin? Due cose: 1) permettere anzitutto agli operai dotati
di capacità intellettuali, di dedicarsi esclusivamente all'attività politica
del partito (le capacità ovviamente vanno dimostrate, cioè possono essere
riconosciute solo a-posteriori); 2) far convergere la teoria rivoluzionaria
degli intellettuali verso la protesta sindacale degli operai, al fine di
creare un movimento di massa capace di prassi rivoluzionaria. Altrimenti la
teoria resterà utopica e la prassi velleitaria.
Lo sviluppo coerente di queste due condizioni è in grado di evitare due
pericoli: 1) quello di credere che la coscienza dell'irriducibile
antagonismo sia un processo che possa maturare solo "dall'esterno" e non
anche "dall'interno"; 2) quello di credere che senza "teoria rivoluzionaria"
possa esserci una "prassi rivoluzionaria", ovvero che una "teoria
rivoluzionaria", per funzionare praticamente, possa essere formulata una
volta per tutte, e non continuamente riformulata.
L'elemento spontaneo e quello consapevole devono quindi integrarsi in
un'unica
esperienza. Lenin aveva così chiarito il motivo fondamentale per cui, a suo
parere, erano falliti tutti i tentativi rivoluzionari condotti in Europa
occidentale e in Russia. Ma mentre in Russia si arrivò ad accettare questo
suo nuovo modo d'impostare la lotta politica, in Europa invece, in un modo o
nell'altro, lo si è sempre rifiutato: sia perché l'individualismo non
permetteva di accettare, da parte degli operai, l'idea di una consapevolezza
trasmessa dall'esterno; sia perché l'intellettualismo non permetteva di
accettare, da parte degli intellettuali, la responsabilità di dover
organizzare lo sviluppo di tale consapevolezza in un'esperienza politico-
rivoluzionaria.
L'INCONSCIO VISTO DA LENIN
Qualunque attività (persino quella onirica) ha un significato per il
soggetto solo se gli è consapevole. La psicanalisi ha sì scoperto
l'inconscio, ma nella misura in cui ha preteso di conoscerlo lo ha reso
"conscio", intelligibile. L'inconscio era sicuramente più oscuro e
misterioso in quei filosofi romantici tedeschi che ne parlarono prima della
psicanalisi (Herbart, Hartmann, Brentano e altri ancora). L'analogia tra
questi filosofi e Freud sta nell'aver delineato, dopo aver costatato le
contraddizioni della civiltà borghese, un'identità irrazionale
dell'inconscio, senza però riuscire a comprendere l'origine
economico-sociale di tali contraddizioni; la differenza sta nell'aver
cercato di dimostrarlo con esempi concreti: sotto tale aspetto, l'importanza
di Freud è decisamente superiore, anche se le sue interpretazioni dei
sintomi nevrotici sono spesso arbitrarie.
In particolare, Freud ha dimostrato (e qui la differenza da quei filosofi
tedeschi è molto netta), che se l'inconscio fosse assolutamente "inconscio",
nessuno ne potrebbe parlare, essendo del tutto incomprensibile. In seguito
però, Freud è arrivato a sostenere che gli effetti dell'inconscio possono
essere rilevanti anche su un soggetto che non ha consapevolezza della
propria malattia, in quanto l'Es (fonte di tutti gli istinti) è una forza
cieca e irrazionale. Cioè, in pratica, Freud non ha mai abbandonato l'idea
tradizionale che l'inconscio fosse una realtà, in ultima istanza,
incomprensibile. Questo non gli ha mai permesso di approfondire
adeguatamente l'idea secondo cui le nevrosi più significative sono quelle
per le quali il soggetto è cosciente della propria alienazione: maggiore è
la coscienza e maggiore è la nevrosi, se con una diversa esperienza
disalienante non la si risolve. Il che apre le porte alla comprensione del
campo delle psicosi, il cui profondo significato sfugge ancora all'indagine
analitica.
La psicanalisi pretende di conoscere l'inconscio attraverso i sogni, i
lapsus, gli errori di lettura, le dimenticanze dei nomi, i tic, le manie...,
ma in realtà l'inconscio può essere conosciuto solo in rapporto alla
coscienza. Un lapsus ci indica che esiste un inconscio, ma finché non
parliamo col soggetto, a partire dal lapsus, interrogandolo sul perché e sul
come, noi non faremo un passo avanti. La stessa follia è il frutto di una
coscienza distorta delle cose, anche se il soggetto non vuole ammetterlo e
ha rimosso nell'inconscio le cause della sua malattia. Non è possibile
risalire a queste cause se non passando attraverso la coscienza del malato.
Se vogliamo, l'inconscio non ha realtà propria: è come la tasca in cui la
mano si nasconde dopo aver gettato il sasso. Nascondiamo la mano perché ci
sentiamo giudicati, da noi stessi e soprattutto dagli altri. Naturalmente è
anche possibile che un'azione negativa sia compiuta da un'intera
collettività, più o meno grande: in tal caso dovrà essere una coscienza
sociale alternativa (che può anche essere minoritaria) a porre il giudizio.
L'inconscio, in ogni caso, resta subordinato alla coscienza.
Ciò che inoltre si deve accettare è l'idea che non è l'inconscio che può
avere la forza di opporsi all'alienazione di una determinata coscienza
sociale, ma è la stessa coscienza, la quale può essere superficiale,
istintiva, o riflessiva, matura. Parlare di "opposizione inconscia" (p.es. a
una ingiustizia, a un'etica formalizzata) altro non vuol dire che parlare
dell'opposizione più superficiale della coscienza, destinata a durare poco e
a non essere molto efficace.
Questo viene in mente leggendo il Che fare? di Lenin (cap. II). "L'elemento
spontaneo -dice Lenin- [cioè poco consapevole, istintivo, di cui non si ha
ancora piena coscienza e che non permette di acquisirla] non è che la forma
embrionale della coscienza". E ancora: "La coscienza dei propri errori
[fatti coll'istinto e quindi solo parzialmente consapevoli] equivale già ad
una mezza correzione [cioè ad un aumento del lato conscio], ma il mezzo male
[cioè la scarsa consapevolezza] diventa un male effettivo quando questa
coscienza comincia ad oscurarsi, cioè quando si tenta di giustificare
teoricamente la propria sottomissione servile alla spontaneità [o
all'inconscio]".
Lenin voleva dire che il "mezzo male" (o la mancanza di forte
consapevolezza), viene utilizzato dagli intellettuali borghesi, regressivi,
come pretesto per non prendere consapevolezza dei propri errori (il che
porta a un "male intero"). Il "vero male", quello "totale", nasce quando si
vuole imporre la logica dell'inconscio alla coscienza, cioè quando si vuole
opporre all'esigenza di un'alternativa, di una transizione, la logica della
rassegnazione, dell'opportunismo, del relativismo, sino all'irrazionalismo.
Tuttavia, il male peggiore di tutti -dice Lenin- è quello per cui "il
soffocamento della coscienza da parte della spontaneità avviene in modo
spontaneo, cioè senza lotta dichiarata fra due concezioni diametralmente
opposte", ma attraverso una "lotta occulta", invisibile, difficilissima da
combattere. Vi sono degli intellettuali, infatti, che, in piena coscienza,
cercano di far passare alle masse, in un modo che dia l'impressione della
naturalezza, l'esigenza di conservare inalterato il sistema.
Questa tattica porta gli individui a credere che il prevalere dell'inconscio
sulla coscienza delle cose, sia un fatto normale, inevitabile, e non un
fatto opinabile, su cui si può e si deve discutere. Lasciare che l'inconscio
predomini significa affidarsi alla spontaneità degli eventi, alla casualità
del vivere quotidiano, non avere un progetto di vita su di sé, credere
ciecamente nel destino o nel potere di un "duce", ovvero lasciarsi dominare
dai rapporti di forza.
In realtà è la discussione ad essere inevitabile: potrà essere poca o tanta,
in rapporto alla coscienza che abbiamo dei nostri problemi, ma è impossibile
che non ci sia. Una vita affidata alla spontaneità delle cose può far
contento qualcuno, non la maggioranza delle persone o comunque non per un
periodo illimitato. Finché queste persone istintive sono ignoranti e
sottomesse, non vi sarà dibattito democratico, ma appena inizia ad aumentare
la consapevolezza e la cultura, grazie alle quali possiamo capire gli
inganni, i meccanismi dello sfruttamento, la protesta s'impone da sé, anche
di fronte alla reazione più dura del sistema.
"Se certi elementi spontanei dello sviluppo [sociale] sono accessibili in
generale alla coscienza umana -dice Lenin-, l'errata valutazione di essi
equivarrà a una sottovalutazione dell'elemento cosciente. E se sono
inaccessibili, noi non li conosciamo e non ne possiamo parlare". Dunque, ciò
che condiziona negativamente non è tanto l'inconscio, quanto piuttosto il
suo prevalere (specie quello teorizzato dagli intellettuali) sulla
coscienza. Ecco perché la spontaneità delle masse esige da parte degli
intellettuali progressisti un alto grado di coscienza politica.
LENIN E LA DIALETTICA
Della dialettica hegeliana Lenin ha colto più l'aspetto della lotta degli
opposti che non quello della loro unità.
Dice: "Lo sdoppiamento dell'uno e la conoscenza delle sue parti
contraddittorie è l'essenza della dialettica".
In realtà l'essenza della dialettica non sta solo in questo processo ma
anche in quello opposto, della ricomposizione delle parti divise nell'uno,
poiché ogni cosa ritorna sempre da dove era partita.
L'unità di opposti differenti implica che tali opposti non solo divergono
tra loro, perché appunto differenti, ma anche che convergono verso una
inscindibile unità, proprio perché complementari.
Gli opposti non sono irriducibilmente opposti, ma uniti nella diversità. E'
ciò che va oltre questa legge che risulta autodistruttivo.
Lenin traspose in filosofia la sua concezione della politica, che era
prevalentemente basata sul conflitto di classe.
Non che tale antagonismo non sia legittimo, poiché è proprio il capitalismo
(o comunque un sistema basato sull'antagonismo) a renderlo tale, ma è che se
l'esistenza viene vissuta in maniera prevalentemente politica, la
concessione del primato all'opposizione rispetto all'unificazione diventa
inevitabile.
Lenin non seppe dare sufficientemente risalto alla "questione umana", quella
che deve sempre accompagnare l'affronto politico delle contraddizioni
sociali.
Bisogna ovviamente stare molto attenti a non fare, in nome di un astratto
umanitarismo, concessioni alla logica del capitale, poiché in tal modo si
verrebbe meno al compito fondamentale dell'umanità, quello di realizzare una
transizione al socialismo.
A tale proposito si può forse dire che l'illusione fondamentale del
gramscismo (quello dei Quaderni) è stata proprio questa, di voler arrivare
al socialismo passando non attraverso la lotta politica ma attraverso la
battaglia culturale, che avrebbe dovuto basarsi sui valori dell'umanesimo
laico.
Nei regimi antagonistici se si punta di più sul culturale che non sul
politico si rischia di non fare mai alcuna rivoluzione, ovvero di cercare
sempre nuove forme di compromesso; ma se si punta più sul politico che sul
culturale si finisce col distruggere i risultati della rivoluzione subito
dopo averla compiuta (come nelle rivoluzioni francese e russa).
Bisogna trovare una via di mezzo che salvaguardi le esigenze della lotta
politica e della pacificazione sociale. Umano e politico dono due binari che
devono marciare paralleli.
L'umanesimo del gramscismo non poteva essere messo in crisi della
rivoluzione bolscevica più di quanto questa non poteva esserlo da parte del
gramscismo. Entrambe le strade erano sbagliate perché unilaterali.
LENIN E LA RELIGIONE
Nel primo articolo pubblicato da Lenin, su Novaia Gizn, riguardo
all'interpretazione marxista della religione, intitolato Socialismo e
religione (1905), sono presenti, in nuce, non solo tutte le tesi
fondamentali del marxismo, ma anche tutti gli argomenti sui quali Lenin, in
seguito, tornerà per approfondirli ulteriormente.
L'articolo si può dividere in cinque punti:
1) "La religione è una delle forme dell'oppressione spirituale" che nella
società borghese è realizzata in virtù dell'oppressione materiale dei
capitalisti e proprietari fondiari su operai e contadini. Lenin, come si può
notare, si riferisce qui a una religione storicamente individuabile, quella
sotto il regime capitalistico, ma i suoi giudizi, in realtà, presumono di
avere un valore anche in retrospettiva.
2) Come si realizza questa oppressione è presto detto:
a) "La religione predica l'umiltà e la rassegnazione nella vita terrena a
coloro che trascorrono tutta l'esistenza nel lavoro e nella miseria,
consolandoli con la speranza di una ricompensa celeste". A Lenin qui non
interessa dimostrare che la religione non ha sempre avuto una funzione del
genere: interessa solo far capire che la funzione "reazionaria" è sempre
stata prevalente nella storia della religione.
b) "Invece, a coloro che vivono del lavoro altrui la religione insegna la
carità in questo mondo, offrendo così una facile giustificazione alla loro
esistenza di sfruttatori". Un giudizio del genere, ovviamente, può essere
applicato anche alla religione di ogni regime antagonistico.
3) Il proletariato, cosciente di questo, deve anzitutto rivendicare una
precisa libertà politica: "La religione dev'essere dichiarata un affare
privato" (della coscienza). Di qui la separazione completa della chiesa
dallo Stato. "Ognuno dev'essere libero di professare qualsiasi religione o
di non riconoscerne alcuna, cioè di essere ateo". "E' inammissibile
tollerare una sola differenza nei diritti dei cittadini che sia motivata da
credenze religiose". Qui Lenin, nel tentativo di garantire una vera
giustizia a tutti i cittadini, atei o credenti che fossero, commette
l'errore di voler azzerare giuridicamente le differenze quando, nei fatti
concreti, esse sussistono e da esse non si può assolutamente prescindere.
Lenin cioè pensò di dover ritenere la giustezza della propria consapevolezza
ateistica così evidente da poterla far valere alla consapevolezza religiosa
del credente. E non si accorse che una rigorosa uguaglianza sul terreno
giuridico non può che causare delle discriminazioni su quello sociale,
poiché qui si ha a che fare con due atteggiamenti verso la religione del
tutto opposti, che non possono essere resi equivalenti per decreto,
soprattutto in considerazione del fatto che la storia della religione ha
radici molto più profonde nella coscienza sociale dei cittadini.
Negli atti ufficiali non va riportata l'eventuale confessione religiosa cui
si appartiene -prosegue Lenin. Nessuna sovvenzione statale va data alle
chiese. Questo va inteso nel senso che le chiese non possono godere di alcun
privilegio. Tuttavia qui Lenin non aggiunge che le chiese possono continuare
a svolgere i loro servizi grazie al sostegno materiale dei loro fedeli, i
quali sono anche cittadini che pagano le tasse, per cui nei loro confronti
una qualunque discriminazione sociale, dovuta a motivi ideologici, non è
legittima. Questo significa che non si può pretendere che la religione resti
un fenomeno privato della coscienza, senza alcuna manifestazione pubblica o
sociale.
4) Questa privatezza della religione è valida solo di fronte allo Stato, non
di fronte al partito. "La nostra propaganda comprende necessariamente anche
quella dell'ateismo", in forma materialistica e scientifica, non volgare e
anticlericale. La quale comunque non è sufficiente, di per sé, a vincere i
pregiudizi religiosi, in quanto è necessaria la trasformazione socialista
dei rapporti produttivi. Lenin qui raccomanda la diffusione delle opere dei
filosofi materialisti francesi (Diderot, Holbach, Helvetius ecc.) che in
Russia non erano ancora state tradotte.
In pratica Lenin voleva un partito non solo politico (capace di combattere
la religione sul terreno giuridico, mediante la separazione di Stato e
chiesa), ma anche ideologico (capace di combattere la religione sul terreno
culturale, mediante la propaganda scientifica dell'ateismo). Lenin però
doveva prevedere che un partito del genere, una volta giunto al potere,
avrebbe avuto molte più difficoltà a comportarsi in maniera democratica nei
confronti della religione. In nome infatti di una superiorità ideologica il
partito avrebbe potuto impedire alla religione di manifestarsi non solo sul
terreno politico (cosa che qui solo i cittadini possono decidere), ma anche
su quello culturale, il che avrebbe comportato un abuso di tipo giacobino.
5) Il fatto che l'oppressione economica sia più importante di quella
spirituale obbliga il partito a "non dichiarare l'ateismo nel suo
programma".
Ciò significa che il partito accetta la militanza di proletari che
conservano "residui di vecchi pregiudizi", La professione di ateismo non è
quindi una condizione per diventare comunisti; e tuttavia il militante deve
sapere che l'ateismo è parte integrante della filosofia marxista. Lenin
distingue chiaramente, senza però separarle, le questioni ideologiche da
quelle politiche.
E' chiaro però che, stando le cose in questi termini, difficilmente un
credente avrebbe potuto militare in un partito del genere. Avrebbe potuto
farlo solo se motivato da cause oggettive di ordine sociale, ma a
rivoluzione compiuta, se fosse rimasto credente, avrebbe inevitabilmente
lasciato il partito. Un partito politico non può esprimersi così nettamente
nei confronti dell'atteggiamento da tenere verso la religione: gli è
sufficiente appoggiare il libero dibattito culturale sul problema, lasciando
che sia il tempo, oltre che la coscienza dei cittadini, a decidere quale
atteggiamento sia migliore.
L'altro articolo metodologico è quello intitolato: L'atteggiamento del
partito operaio verso la religione (1909). La prima parte non aggiunge nulla
a quanto già detto nell'articolo precedente. Lenin precisa e conferma:
1) che il materialismo dialettico, sul piano filosofico, si riallaccia alle
"tradizioni storiche del materialismo del XVIII sec. in Francia e di
Feuerbach (prima metà del sec. XIX) in Germania", portandole alle loro
ultime conseguenze;
2) che "tutte le religioni e chiese moderne, tutte le organizzazioni
religiose d'ogni tipo sono sempre considerate dal marxismo quali organi
della reazione borghese";
3) che l'ateismo -come vuole Engels- non va inserito nel programma del
partito (cfr. invece i blanquisti e Dühring);
4) che il programma di Erfurt (1891) della socialdemocrazia tedesca non va
interpretato nel senso che la religione va considerata come un affare
privato per i marxisti (cioè di fronte anche al partito).
Per Lenin l'indifferenza nei confronti della religione equivaleva a una
posizione opportunistica, che avrebbe sicuramente avuto un riflesso sul
terreno politico. Questo perché Lenin tendeva a subordinare la politica
all'ideologia, anche se si rendeva conto che non si poteva in nome
dell'ideologia rischiare di non conseguire determinati obiettivi politici.
Infatti, la novità più rilevante di questo secondo articolo sta in alcune
precisazioni fatte riguardo all'atteggiamento del partito verso la
religione.
1) Lenin cominciò a considerare un grave errore credere che "l'apparente
'moderazione' del marxismo verso la religione si spieghi con le cosiddette
considerazioni 'tattiche', come il desiderio di 'non spaventare', ecc.". La
realtà è che se il marxismo rifiuta d'inserire l'ateismo nel programma
politico del partito non è per ragioni di tipo strumentale, ma perché è
convinto:
a) che la propaganda atea deve restare "subordinata" allo sviluppo della
lotta di classe (subordinata non vuol dire "esclusa");
b) che la presenza della religione nelle masse va spiegata
"materialisticamente", cioè in rapporto ai problemi di natura
economico-sociale, problemi che devono essere affrontati e risolti anzitutto
in modo politico. La religione va superata non tanto o non solo in una
contrapposizione frontale coll'ateismo (ciò che, in sostanza, si ridurrebbe
a un'astratta, illuministica, predicazione ideologica), quanto piuttosto in
collegamento con la lotta di classe che elimina le radici sociali della
religione ("la forza cieca del capitale"). Di volta in volta, quindi, va
deciso quale rapporto tattico tenere con la religione. Mentre infatti sul
piano ideologico il contrasto è irriducibile, sul piano politico invece sono
possibili alleanze fra credenti e atei sulla base di piattaforme
programmatiche che nulla hanno a che vedere né con l'ateismo né con la
religione.
Tuttavia, Lenin non è ancora arrivato a formulare l'idea che la religione va
rispettata anche nel caso in cui, dopo aver affrontato i problemi
socioeconomici attraverso la lotta di classe (e l'aiuto dei credenti), la
coscienza dei credenti coinvolti in tale lotta voglia restare religiosa. Un
partito operaio così caratterizzato ideologicamente avrebbe mai permesso ai
credenti di poter acquisire delle posizioni di potere nei propri ranghi?
2) Un'altra questione da considerare, per Lenin, è appunto questa: visto che
nel programma del partito non è richiesta un'esplicita professione di
ateismo, fino a che punto è legittimo accettare la militanza di un credente?
La risposta a questa domanda viene posta da Lenin a un duplice livello:
a) "la contraddizione fra lo spirito o i principi del nostro programma e i
convincimenti religiosi del credente può restare una contraddizione
puramente personale, che riguarda esclusivamente questo credente; e il
partito non può sottoporre i suoi iscritti a un esame sull'assenza di
contrasti tra le loro opinioni e il programma del partito". Ciò in pratica
significa che se un credente accetta la linea politica del partito, deve poi
preoccuparsi da solo di risolvere le sue incoerenze sul piano ideologico.
Dal partito avrà l'assicurazione che non sarà discriminato per la sua
diversa ideologia.
b) E tuttavia -aggiunge Lenin- "noi ammettiamo all'interno del partito la
libertà di opinione, ma entro i limiti precisi fissati dalla libertà di
associazione: non siamo tenuti ad andare d'accordo con i predicatori attivi
di concezioni respinte dalla maggioranza del partito". Il partito quindi
garantisce al credente la libertà di restare credente, ma a condizione che
il credente rinunci alla propaganda religiosa all'interno del partito, o
comunque a una propaganda ostile al socialismo (cfr. Gorki e Lunaciarskij).
Si tratta, come si può notare, di una soluzione di compromesso: il partito
operaio non può rinunciare alla propria ideologia, però farà in modo di non
far pesare questa ideologia sulla coscienza del credente, a condizione
naturalmente che il credente faccia altrettanto. Lenin comunque mostra
d'essersi reso conto con questo articolo che le questioni politiche possono
avere un'importanza equivalente a quelle ideologiche, per cui non si può in
nome dell'ideologia sacrificare gli interessi della politica. Naturalmente
questo modo di impostare il problema deve fare molto affidamento
sull'atteggiamento soggettivo di tutti i militanti del partito.
3) L'ultima questione che Lenin affronta in questo articolo è quella della
privatezza della religione. Lo fa non tanto per ribadire la differenza,
ormai acquisita, fra la posizione dello Stato e quella del partito, quanto
per sottolineare che il principio della privatezza della religione ha subìto
in Occidente un'interpretazione di tipo opportunistico.
L'ossessiva indifferenza dei comunisti occidentali per la questione
religiosa la si può spiegare:
a) col fatto che la lotta contro la religione è stata un compito in gran
parte assolto dalla democrazia borghese nell'epoca delle sue rivoluzioni
contro il feudalesimo e il medioevo. In Russia invece questo compito è stato
affrontato direttamente dalla classe operaia;
b) col fatto che la lotta borghese contro la religione ha preso in Occidente
la forma dell'anarchismo anticlericale (blanquisti, Dühring, ecc.), ovvero
della contrapposizione frontale, inducendo così i comunisti (che allora si
chiamavano socialdemocratici) ad assumere posizioni più moderate;
c) col fatto che i governi borghesi, esaurita la loro spinta propulsiva
progressista, si sono coscientemente serviti anche dell'anticlericalismo pur
di poter distrarre le masse dal socialismo, cioè hanno fatto
dell'anticlericalismo un terreno comune di lotta fra operai e padroni.
Questo in Russia non era mai accaduto.
In pratica, Lenin contesta la mancanza di coerenza ideologica del marxismo
occidentale, e quindi la sua subordinazione culturale, nelle questioni
religiose, alla scienza borghese, infine lascia intravedere il rischio di
assumere posizioni strumentali nei confronti della religione. L'indifferenza
infatti è "ambiguità" non "chiarezza", per cui il marxismo occidentale
potrebbe arrivare all'opportunismo in materia di atteggiamento verso la
religione appunto per avere dalla sua parte, per un obiettivo politico, il
maggior numero possibile di credenti.
Nel Progetto di programma del PC bolscevico (1919) Lenin precisa che nella
propaganda scientifica antireligiosa "bisogna evitare con cura di offendere
i sentimenti dei credenti, il che condurrebbe soltanto al rafforzamento del
fanatismo religioso". Fanatismo che non nuoce solo alla politica di classe
del partito (il quale cerca di far convergere in un medesimo programma
politico forze sociali diverse e ugualmente ostili al capitale), ma nuoce
anche ai rapporti etico-sociali di queste stesse classi.
Lenin in pratica s'era accorto che, nel rapporto dei militanti comunisti coi
credenti all'interno o all'esterno del partito, non esistevano dei criteri
oggettivi che salvaguardassero il rispetto delle opinioni religiose. Ora
pone quello etico della tutela della dignità umana, che non può certo essere
violata per motivi di opinione. Lenin tuttavia, cercando di stabilire una
ragione primaria di questa tutela, fa leva sul fatto che la violazione dei
sentimenti religiosi comporterebbe un danno politico nei confronti dello
stesso ateismo, e cioè il rafforzamento del fanatismo religioso. Non vi sono
ragioni di carattere ontologico. Cioè Lenin non avrebbe mai accettato l'idea
che una religione può essere vissuta praticamente meglio dell'ateismo, se il
credente manifesta una coscienza umanistica superiore a quella dell'ateo.
Lenin guardava le cose da un punto di vista prevalentemente politico.
Un altro documento molto importante è la seconda lettera spedita a Gorki nel
1913 da Cracovia. Essa contiene alcune affermazioni che ancor meglio
chiariscono l'atteggiamento politico che deve tenere il militante iscritto
al partito.
Lenin rimproverò Gorki per aver espresso considerazioni "piccolo-borghesi"
nell'analisi del rapporto fra socialismo e religione. Lo scrittore russo,
infatti, aveva lasciato intendere, in uno dei suoi articoli, che il
socialismo era stato capace di depurare o di purificare l'"idea di Dio" da
tutte quelle sovrastrutture ideologiche del clericalismo cristiano.
Lenin lo ammonì scrivendo: "Questa vostra buona intenzione rimane vostro
patrimonio personale, un 'pio desiderio' soggettivo. Una volta che l'avete
scritto, è bell'e passato fra le masse, e il suo significato viene
determinato non dalla vostra buona intenzione, ma dal rapporto tra le forze
sociali, dal rapporto oggettivo tra le classi. In virtù di questo rapporto
ne consegue (malgrado la vostra intenzione e indipendentemente dalla vostra
coscienza), che voi avete imbellettato, inzuccherato l'idea dei clericali".
In pratica cosa significano queste parole?
1) Che il socialismo è un fenomeno integralmente laico, cioè assolutamente
umanistico, e che quindi, come tale, esso non ha nulla da spartire con la
religione (il "socialismo cristiano" -aveva precisato Lenin poche righe più
sopra- è "la peggior specie di 'socialismo' e la sua peggiore
deformazione");
2) che qualsiasi opinione religiosa sul socialismo, cioè sull'utilità laica
del socialismo nei confronti della "purificazione" della religione, deve
necessariamente restare privata, altrimenti (cioè divenendo pubblica e
trasformandosi quindi in giudizio politico) essa farà immediatamente il
gioco dei clericali.
Lenin vedeva le cose solo in maniera conflittuale e, per questa ragione, non
voleva concedere al "nemico" (in questo caso i "clericali") alcuna
opportunità. I "clericali", per Lenin, in pratica, coincidevano con tutti
coloro che avevano delle opinioni religiose, o che comunque le usavano in
funzione antisocialista.
Lenin fa capire a Gorki che il giudizio politico del socialismo sul fenomeno
religioso è esplicitamente e irreversibilmente negativo, senza soluzione di
continuità. Nei tempi passati -dice Lenin- "la lotta della democrazia e del
proletariato assumeva la forma di lotta di un'idea religiosa contro
un'altra. Ma anche questo tempo è passato da un pezzo. Oggi, tanto in Europa
che in Russia, ogni difesa o giustificazione dell'idea di Dio, persino la
più raffinata, la meglio intenzionata, è una giustificazione della
reazione".
Una giustificazione per l'appunto "oggettiva" della reazione, a prescindere
cioè dalle intenzioni soggettive di chi si fa carico di tali apologie. Lenin
giustamente non faceva alcuna differenza tra idea "nuova" e "vecchia" di
dio: su "dio" tutte le idee, per lui, erano "vecchie", incredibilmente
superate. Tuttavia, Lenin non s'è mai posto il problema se possa esistere un
diverso modo, più laico ed umanistico, d'interpretare la figura del "Cristo"
così com'essa appare nei vangeli canonici.
In sostanza "l'idea di Dio -aggiunge Lenin- non ha mai legato l'individuo
alla società, ma, al contrario, essa ha sempre legato le classi oppresse con
la fede nella divinità degli oppressori". Ciò, in altri termini, vuol dire
che qualsiasi giustificazione pubblica dell'idea di dio fa sempre gli
interessi dell'oppressione padronale. Se c'è dunque la possibilità che un
credente lotti per l'emancipazione degli oppressi, ciò è dovuto non tanto
alla sua religione, quanto alle cause oggettive e concrete dello
sfruttamento economico. E' su questo che i marxisti devono organizzare il
consenso col mondo dei credenti.
Le religioni tradizionali, in specie il cristianesimo (e soprattutto il
cristianesimo politico, quale s'è venuto configurando da Costantino in poi),
di fatto e di diritto, hanno sempre legittimato -a volte contro le loro
stesse intenzioni- l'oppressione materiale dei popoli; sicché, la dove
esiste l'ideologia religiosa, ovvero una religione "ideologizzata", esiste
pure l'oppressione materiale ed economica. Nel senso che la religione è un
indice, un sintomo, di un'oppressione esistente sul piano socioeconomico.
A questa tesi di Lenin si può forse aggiungere che là dove manca
l'oppressione materiale, manca anche la pretesa della religione a volersi
porre in modo politico nella società. Il che però non significa che alla
mancanza di oppressione materiale segua o debba necessariamente seguire la
fine della religione. La religione avrà una fine quando saranno le coscienze
degli uomini a deciderlo.
Nel Discorso pronunciato al III Congresso dell'Unione della gioventù
comunista di Russia (1920) Lenin afferma che i comunisti, pur essendo
generalmente atei, non sono amorali. "Per noi la moralità dipende dagli
interessi della lotta di classe del proletariato". Non quindi una morale
astratta, dogmatica, da applicare alle diverse situazioni, ma piuttosto una
morale che emerga dalle diverse situazioni in cui il proletariato è soggetto
protagonista.
Naturalmente un discorso del genere dà per scontato che i motivi della lotta
politica del proletariato siano giusti e che lo stesso proletariato,
combattendo per degli ideali giusti, si comporti in maniera adeguata.
Difficilmente Lenin avrebbe accettato l'idea che pur perseguendo ideali
politicamente giusti, il proletariato può commettere delle azioni moralmente
riprovevoli.
Nell'ultimo scritto di Lenin sulla questione religiosa, e cioè Sul
significato del materialismo militante (1922), Lenin mette in guardia i
comunisti dall'illusione di poter edificare il socialismo senza l'aiuto dei
credenti, riconosce chiaramente che esistono dei materialisti anche nel
campo dei "non comunisti" e ammette la totale inutilità della mera
propaganda ateistica ai fini del superamento dell'ideologia religiosa: senza
un rapporto sociale di attiva collaborazione coi contadini e gli artigiani
per un miglioramento delle loro condizioni di vita, i marxisti non potranno
mai sperare di vincere le idee del passato.
Lenin arrivò a mitigare il duro approccio ideologico nei confronti della
religione solo dopo che il partito bolscevico conquistò il potere politico.
Egli infatti si rese subito conto che "conquistare il potere in un'epoca
rivoluzionaria è molto più facile che sapersene servire correttamente".
LENIN SULLA COOPERAZIONE
Lenin cominciò a studiare il problema della cooperazione nel 1918. Fino alla
svolta della NEP, egli ha sempre considerato "utopico" il socialismo
cooperativistico. Il limite dell'"utopia" risiedeva -a suo giudizio- nella
pretesa di poter realizzare la transizione dal capitalismo al socialismo
senza "lotta politica della classe operaia per l'abbattimento del dominio
degli sfruttatori" (così nell'art. Sulla cooperazione, scritto per la
"Pravda" nel 1923). Lenin non ha mai accettato l'idea di poter utilizzare
questa forma di socialismo per spingere le contraddizioni del capitalismo
verso una soluzione socialista (che implicasse ovviamente anche la
rivoluzione politica). Le energie impiegate per sviluppare la cooperazione
in ambito capitalistico sarebbero state inevitabilmente tolte -secondo
Lenin- alla causa rivoluzionaria vera e propria. La cooperazione poteva
diventare utilissima dopo la rivoluzione, non prima. In caso contrario essa
avrebbe finito coll'imborghesirsi, diventando una forma "socializzata" di
produzione o di consumo capitalistici.
Negli anni del "comunismo di guerra" Lenin era prevalentemente interessato
alle cooperative dei consumatori, che svolgevano la funzione di assicurare
la distribuzione dei prodotti alimentari. Peraltro, in quegli anni, il
termine "cooperazione" designava, il più delle volte, il sistema
territoriale di razionamento (relativamente alla cooperazione massiccia e
forzata tipica del "comunismo di guerra"). Mentre la vera cooperazione
risiede -come noto- sul principio della partecipazione volontaria.
Lenin, tuttavia, fu sempre contrario all'idea di una cooperazione di
produzione forzata nelle campagne. Lo attesta la risoluzione redatta per
l'VIII
congresso del partito, relativa all'atteggiamento da tenere verso i
contadini medi: "Nell'incoraggiare le cooperative d'ogni tipo, così come le
comuni agricole dei contadini medi, i rappresentanti del potere sovietico
non devono esercitare alcuna costrizione durante la loro creazione. Soltanto
le associazioni dovute alla libera iniziativa dei contadini, hanno un
qualche valore".
Negli anni immediatamente seguenti alla rivoluzione, la cooperazione non
veniva identificata col socialismo. Questo era anche il frutto di un
condizionamento ideologico. Molti bolscevichi infatti credevano che il
comunismo si dovesse costruire velocemente, rifiutando le forme sociali
ereditate dal passato. In pratica essi identificavano la statizzazione dei
mezzi produttivi e della terra con la loro diretta, immediata,
socializzazione.
Fu però la NEP a mettere in discussione questo schematismo. Lenin rivalutò
la cooperazione quando s'accorse del fallimento del "comunismo di guerra",
cioè quando costatò che il socialismo non poteva essere imposto in alcun
modo, neanche avvalendosi delle situazioni più critiche e drammatiche. Nel
suo articolo Sulla cooperazione, Lenin affermò che "ogni nostro punto di
vista sul socialismo è radicalmente mutato". La cosa -a suo stesso giudizio-
dipendeva dal fatto che si era spostato il "centro di gravità" dalla lotta
politica per la conquista del potere, alla costruzione pacifica, culturale,
del socialismo. Le cooperative, che nella fase politica non erano state
considerate utili dal partito, ora, nella fase culturale, diventavano uno
strumento fondamentale per la costruzione del socialismo. Per cui -diceva
Lenin- "nelle nostre condizioni, la cooperazione coincide interamente col
socialismo": il socialismo cioè non è che "un regime di cooperatori colti",
ovvero la sua realizzazione in URSS doveva per forza passare per la tappa
della cooperazione. Questa tesi non venne capita a sufficienza dai leaders
del partito.
Nella cooperazione -diceva Lenin- "abbiamo trovato il modo di combinare
l'interesse
commerciale privato, da una parte, con il suo controllo statale, dall'altra,
cioè il modo di subordinare l'interesse privato a quello generale". Già
nello scritto del 1918, Sull'infantilismo di sinistra e lo spirito
piccolo-borghese, Lenin aveva sottolineato che l'economia reale del periodo
di transizione doveva necessariamente contenere elementi di socialismo e di
capitalismo di stato. Questi elementi potevano anche avere degli aspetti in
"comune", in quanto il socialismo non è che "l'assimilazione e
l'applicazione,
mediante l'avanguardia del proletariato al potere, di ciò che è stato creato
dai trusts". Anzi, secondo Lenin, certi processi manageriali e organizzativi
della produzione capitalistica avrebbero potuto dimostrare veramente il loro
potenziale soltanto sotto il socialismo. In questo stesso scritto,
polemizzando coi comunisti di "sinistra", Lenin era arrivato alla
formidabile intuizione - rimasta però quasi suo patrimonio esclusivo- che
nessuna "nazionalizzazione" avrebbe potuto portare di per sé alla
"socializzazione" dei mezzi produttivi.
Le forme collettive di realizzazione della proprietà presuppongono
necessariamente una diversità d'interessi e metodi adeguati per la loro
organizzazione, ovvero un sistema sociale ampiamente democratico e
pluralistico. Le forze sociali devono cooperare tra loro. Di questo Lenin
era perfettamente consapevole. Non a caso nei suoi ultimi interventi
(soprattutto nel "testamento politico") egli mise l'accento sulle questioni
della democrazia. Di fatto Lenin rivalutò la democrazia politica dopo averla
vista realizzare sul piano economico, dopo essersi accorto che il
centralismo del partito-stato rischiava, concedendo troppo
all'autoritarismo,
di minare le basi della NEP.
Anzi, la cooperazione, per l'ultimo Lenin, doveva essere una forma di
positivo superamento della stessa NEP, poiché questa era stata concepita
soltanto come una "concessione al contadino in quanto mercante, al principio
del commercio privato". Attraverso la cooperazione -diceva Lenin- si poteva
realizzare "quel grado di coordinazione dell'interesse commerciale privato
con la verifica e il controllo da parte dello Stato, quel grado di
subordinazione dell'interesse privato all'interesse generale". Ciò, in
sostanza, significava che mentre con la NEP il partito era stato costretto a
fare delle "concessioni" al contadino privato, con la cooperazione invece si
sarebbe potuti arrivare "automaticamente" al socialismo.
Dov'era il limite di questo ragionamento, che pur in quel periodo superava
di gran lunga quelli dei suoi compagni di partito? Nel fatto che si
considerava la cooperazione un modo per realizzare al meglio il socialismo
di stato e non un modo per superarlo. Per Lenin e per gli altri dirigenti di
partito, non era lo Stato a doversi porre al servizio della cooperazione ma
il contrario. La cooperazione cioè veniva considerata come un mezzo non come
un fine: il fine era lo Stato socialista. L'interesse "generale" per Lenin
poteva essere soltanto quello deciso dallo Stato. L'interesse generale della
collettività locale era considerato alla stregua di un interesse
"particolare", che andava appunto mediato dalla cooperazione per poter
diventare "generale".
La cooperazione, per Lenin, non era ancora, e giustamente, "la vera
costruzione della società socialista", poiché questa presuppone la fine
della legge del valore, del denaro, del mercato, ecc., mentre la
cooperazione continua ad avvalersi di queste cose. Sennonché, il rapporto
Stato/cooperazione -nell'ottica di Lenin, doveva avvenire unicamente
dall'alto
al basso, per ritornare poi in alto. Lo Stato finanziava ciò che poteva
incrementare i suoi poteri e solo il partito-stato avrebbe potuto stabilire
quando la costruzione del socialismo sarebbe stata compiuta.
Nella seconda parte dell'art. Sulla cooperazione, Lenin specifica che
esistevano in URSS diverse forme d'imprese produttive: 1) quelle
capitalistiche private (sotto controllo statale e senza proprietà terriera),
2) quelle di tipo socialista conseguente (dove tutto è statalizzato), 3)
quelle cooperativistiche (che erano collettive e non private come le prime,
ma socialiste come le seconde, perché terra e mezzi produttivi erano
statali). Per Lenin dunque le cooperative erano tanto più socialiste quanto
più assomigliavano alle aziende statali. Il carattere del "socialismo" era
dato anzitutto dal monopolio statale della terra e dei mezzi produttivi,
nonché dalla gestione collettiva dell'economia. Lo Stato non lasciava alla
società il compito di decidere quale fisionomia dare al futuro socialismo.
Non solo, ma come lo Stato andava considerato superiore alla società civile,
così la classe operaia andava considerata superiore a quella contadina,
poiché i partiti operai rivoluzionari avevano conquistato il potere, mentre
quelli tradizionalmente contadini non vi erano riusciti. Era dunque il
partito-stato che, in nome del proletariato industriale, deteneva il
monopolio dei mezzi produttivi, mediante il quale esso avrebbe consolidato
l'alleanza
operaio-contadina. In questa visione delle cose non c'è mai stato un
rapporto paritetico tra operai e contadini. La superiorità
politico-organizzativa dimostrata dal proletariato industriale nel corso
della rivoluzione (la quale pur ottenne vasti appoggi dal mondo contadino)
rischiava, in ogni momento, d'essere ipostatizzata nel periodo
post-rivoluzionario.
Probabilmente la scoperta più sensazionale che fece Lenin all'inizio degli
anni '20 (testimoniata non solo dall'art. Sulla cooperazione, ma anche da
quello contro il menscevico N. Sukhanov, Sulla nostra rivoluzione), è
l'importanza
fondamentale della "cultura", una volta compiuta la rivoluzione politica.
Contro Sukhanov, Lenin difende la legittimità dell'Ottobre, dicendo che non
si può aspettare che le masse abbiano un'elevata cultura prima di decidersi
per la rivoluzione. Le rivoluzioni, infatti, scoppiano quando ve n'è la
necessità, con o senza cultura di massa. Peraltro, afferma con acume Lenin:
1) non si può stabilire a priori il grado esatto di cultura, necessario a
giustificare una rivoluzione (esso peraltro varia da nazione e nazione), e
2) è certamente indice di cultura volersi liberare con decisione degli
sfruttatori, permettendo così a tutti di accedere alla cultura e al
benessere.
In sostanza, Lenin sosteneva che né Sukhanov né alcun altro aveva il diritto
di contestare la legittimità dell'Ottobre, facendo leva sul basso livello
culturale dei rivoluzionari russi. La legittimità dell'Ottobre stava
unicamente nel fatto che la rivoluzione fu un movimento di vaste masse
popolari e non un colpo di stato di pochi estremisti. Che poi i bolscevichi
abbiano dato più peso alla politica che alla cultura, ciò andava
considerato -diceva Lenin- come una mera contingenza storica, non come una
legge del marxismo.
Lenin era disposto ad accettare delle contestazioni sul piano del merito,
non su quello della legittimità. In effetti, nel tentativo di dare un
risvolto democratico al processo post-rivoluzionario, egli riconosceva che
il partito aveva commesso molti errori dovuti all'ingenuità,
all'infantilismo
di sinistra, alla fretta del "tutto e subito". D'altra parte se l'URSS stava
diventando totalitaria, ciò non dipendeva solo da cause interne, ma anche
dall'ostilità dell'Occidente capitalistico, che cercò immediatamente di
rovesciare il nuovo potere in modo economico e militare. Lo sviluppo
privilegiato dell'industria pesante fu determinato anche dalla paura di
dover soccombere a un nuovo attacco dell'imperialismo. Lenin si rendeva
perfettamente conto che il socialismo avrebbe potuto sopravvivere, sul piano
economico, solo a tre condizioni: 1) sostenere l'azienda agricola
individuale-familiare, 2) sviluppare la cooperazione a tutti i livelli, 3)
risparmiare le risorse per sviluppare la grande industria, parallelamente a
quella leggera (al fine di poter offrire delle merci ai contadini in cambio
del grano).
Sempre relativamente al tema della cultura, Lenin era dell'avviso che per
formare e sviluppare la cooperazione occorreva istruire i contadini circa i
suoi vantaggi, creando un "commerciante intelligente e colto" (alla maniera
europea, non asiatica). "Nelle nostre condizioni" -diceva Lenin- il sistema
del socialismo è quello dei "cooperatori colti". La cultura era l'unico
mezzo a disposizione, poiché la cooperazione aveva senso solo in quanto
fenomeno volontario. Dato il basso livello di cultura del suo Paese, Lenin
prevedeva di poter realizzare gli obiettivi nell'arco di "uno o due decenni,
se tutto andava per il meglio". In realtà, egli sapeva che sarebbe occorsa
un'intera epoca storica, però aveva fiducia che il socialismo avrebbe potuto
accelerare i tempi.
Lenin non considerava anomalo il fatto che in Russia "il rivolgimento
politico e sociale avesse preceduto quello culturale". Anzi, forse con
eccessiva sicurezza, sosteneva che il contrario era "teoria da pedanti", in
quanto con tutti i suoi rivolgimenti "culturali", l'Europa occidentale, di
fatto, non era mai giunta a porre le premesse politiche per l'edificazione
del socialismo. Su questo era impossibile dargli torto. Lenin concentrò
tutta la sua attenzione e tutte le sue energie verso un unico obiettivo:
portare al potere un partito e una classe rivoluzionari. La scienza ch'egli
doveva necessariamente privilegiare era quella della politica. Solo dopo la
rivoluzione si poteva pensare al "pacifico lavoro organizzativo culturale".
In questo senso il gramscismo può validamente rappresentare una variante
significativa del leninismo, poiché esso ha la pretesa di partire proprio
dall'esperienza socioculturale per rovesciare politicamente il sistema
borghese. L'importante, naturalmente, è che a questo obiettivo ci si arrivi,
altrimenti la ricerca delle mediazioni e dei compromessi rischierà di
vanificare la qualità dell'opposizione. Lenin, in fondo, non ha mai avuto
torto nel ritenere impossibile costruire il socialismo senza conquista
politica del potere da parte delle classi oppresse.
Bisogna dunque riprendere le sue idee economiche sulla cooperazione e
politiche sulla democrazia, ma a un livello superiore, tenendo conto degli
sviluppi storici. Infatti, anche se per molti aspetti tragica, la storia non
può essere trascorsa invano, come se nulla fosse. L'aggancio al passato non
può mai avvenire sic et simpliciter. Ad es. l'idea che le cooperative
diventano "socialiste" solo perché edificate su un terreno nazionalizzato,
usando mezzi produttivi statali, è decisamente superata. D'altro canto Lenin
aveva già superato l'idea che le cooperative potevano essere utilizzate dal
punto di vista meramente tattico, ai fini della costruzione del socialismo.
A causa del fatto che nella sua concezione politica del "centralismo
democratico", la democrazia si trovava spesso sacrificata al centralismo,
Lenin non arrivò a comprendere adeguatamente l'idea che doveva essere lo
Stato socialista a porsi al servizio della cooperazione socializzata e non
il contrario. Per Lenin doveva piuttosto essere lo Stato, che, guidato dal
partito politico, avrebbe dovuto gestire dall'alto il processo di
socializzazione progressiva della produzione e della distribuzione. Esso
avrebbe cominciato a estinguersi soltanto quando tutto sarebbe stato
socializzato per iniziativa del vertice.
Questa tesi in sé non sarebbe stata del tutto sbagliata, se Lenin avesse
accettato l'idea che il modo di socializzare la società doveva essere un
compito da svolgersi liberamente, lasciando cioè libera la società di capire
i vantaggi del socialismo. Senza questa fondamentale libertà (ovviamente
possibile quando la stragrande maggioranza dei cittadini rivendica la fine
della proprietà privata dei mezzi produttivi), è destino che, nella
dialettica tra centralismo e democrazia, il centralismo, in ultima istanza,
abbia sempre la meglio, proprio perché non emerge mai con nettezza la
convinzione che il centralismo ha senso solo in quanto è funzione della
democrazia.
Lenin di fatto pensava che il centralismo fosse di per sé capace di
democrazia o che la democrazia fosse un'esperienza che il centralismo del
partito-Stato avrebbe dovuto consegnare alla società. Quand'egli s'accorgeva
che il centralismo tendeva a prevaricare, perdendo il contatto con le masse,
abusando dei mezzi coercitivi ed amministrativi, l'accortezza di promuovere
subito le esigenze della democrazia gli impediva di peggiorare la
situazione. Ma questa era una sua caratteristica personale, non una
strategia costante del partito. Ecco perché morto Lenin, il centralismo
prese subito il sopravvento. Anche Stalin e Trotski tendevano al
centralismo, ma quanto più forti erano le contrapposizioni della democrazia
tanto più tendevano ad accentuare le pretese autoritarie.
Lenin aveva posto le basi della futura democrazia socialista, soprattutto
negli ultimi anni della sua vita. Si poteva andare avanti anche senza di
lui: lo dimostra il fatto che è nata la perestrojka anche nell'ambito del
Pcus e che diversi tentativi in direzione della democrazia economica e
quindi politica sono stati fatti in URSS prima del 1985. Il passaggio
tuttavia dal socialismo centralizzato a quello democratico non è cosa che si
possa compiere facilmente: lo hanno dimostrato i fatti dell'agosto 1991
accaduti in URSS.
Oggi più nessun politico democratico mette in dubbio il principio che vede
il partito al servizio del popolo e non viceversa. Il partito "guida" il
popolo finché il popolo non è in grado di "autoguidarsi", e tanto prima il
popolo vi riuscirà quanto più saprà tenere sotto controllo il potere
delegato e rappresentativo del partito. Il centralismo dev'essere al
servizio della democrazia in qualunque momento, anche in quelli più critici,
che minacciano la riuscita di una rivoluzione, la realtà del socialismo,
quelli che per questa ragione esigono l'unità delle forze politiche e
sociali. Il centralismo, senza la democrazia, è da subito una forma di
autoritarismo, e nulla può giustificare la sospensione della democrazia per
poter salvare la stessa democrazia. Una democrazia può essere salvata solo
da se stessa, e il centralismo che pretende di farlo al suo posto, eo ipso
la nega. Il primato politico spetta sempre e comunque alla democrazia. Il
valore del centralismo è organizzativo. Peraltro le funzioni del centralismo
devono diminuire (in quantità e qualità) in maniera inversamente
proporzionale alla distanza degli organi centrali dagli ambiti delle realtà
locali, da gestirsi con la pienezza dei poteri e non sulla base d'un mandato
ricevuto dall'alto. Quanto più il "centralismo" è lontano dalle masse tanto
meno potere deve disporre, semplicemente perché sarebbe molto difficile
controllarlo. Centralismo, partito, Stato e istituzioni devono tutti essere
al servizio della società, nel comune destino di estinguersi
progressivamente in virtù del socialismo democratico.
Oggi, nell'URSS della perestrojka, si sta affermando, in sede economica, che
le cooperative non devono essere in funzione dello Stato, ma deve essere il
contrario; che proprio lo sviluppo della cooperazione (su basi volontarie)
può comportare l'estinzione graduale dello Stato e la piena autonomia
locale; che una cooperativa oggi è "socialista" se applica metodi socialisti
e persegue finalità socialiste, volontariamente e consapevolmente, non tanto
se la terra e i mezzi produttivi sono di proprietà statale. La statizzazione
dev'essere in funzione della socializzazione, altrimenti il socialismo
diventa autoritario e burocratico.
Non solo, ma la perestrojka è stata anche in grado di scoprire che un piano
dall'alto non può mai essere realizzato e se lo è (quando le cifre non sono
truccate), i suoi indici sono sempre inferiori a quelli che si sarebbero
potuti realizzare con una serie di piani locali. Il piano infatti ha senso
solo a livello locale. Esso può essere impostato solo dalle persone che
conoscono adeguatamente un determinato territorio e le sue risorse, nonché
le potenzialità intrinseche a una determinata attività produttiva. Esso può
essere rispettato solo dalle stesse persone che lo hanno impostato e che
sanno in anticipo di quali vantaggi potranno beneficiare. Gli abusi non
possono essere limitati ope legis. La possibilità dell'abuso (speculazione,
furto, aggiotaggio, ecc.) non può mai essere evitata a priori. Allorquando
l'abuso
si manifesta, i cittadini, se resi responsabili a livello locale, sapranno
presto individuarlo e superarlo.
LENIN E TOLSTOI
Lenin capì i grandi limiti della non violenza tolstoiana soprattutto
l'indomani del fallimento della rivoluzione del 1905-06. Egli aveva già
superato i limiti del populismo, analizzando in vari testi la natura del
capitalismo in Russia, ma con gli articoli su Tolstoi si allontanò dal
populismo a tutti i livelli, incluso quello etico.
Forse sino ad un certo punto Lenin aveva sperato che il populismo, pur non
comprendendo la natura economica dello sfruttamento capitalistico, la sua
inevitabile e progressiva diffusione in tutta la Russia, quindi anche nelle
campagne, avesse forza sufficiente per indignarsi di fronte alle conseguenze
di tale "marcia trionfale" verso la devastazione dell'ambiente e soprattutto
dei rapporti sociali, al punto di accettare l'idea della necessità di una
rivoluzione politica generale.
Ma quando questa risolutezza politica non c'è, ha ancora senso sperare?
Lenin naturalmente non predicava la violenza a tutti i costi, né la violenza
terroristica o quella fine a se stessa. Per capire i suoi articoli su
Tolstoi bisogna collocarli nel tempo. La rivoluzione del 1905 era fallita
proprio a causa dell'ideologia della non resistenza al male predicata da
Tolstoi, dalla chiesa cristiana, dai riformisti - ideologia, questa, che in
sostanza coinvolgeva la maggioranza della popolazione, di origine contadina.
Questo ovviamente non significa che lo sfruttamento di massa autorizzi di
per sé ad adottare una qualsivoglia forma di violenza. Non bisogna infatti
dimenticare che l'obiettivo è quello di costruire una società di giustizia e
libertà per tutti, caratterizzata quindi dalla fine di ogni violenza.
L'oppresso deve semplicemente rendersi conto che l'idea che l'oppressore,
posto di fronte al principio della assoluta non violenza, decida di abdicare
al proprio ruolo egemonico e spontaneamente rinunci a quella proprietà che
gli assicura posizioni di assoluto privilegio, è pura utopia.
La non violenza può avere un valore come principio, ma non può essere
assunta come metodo sistematico, proprio perché essa trova la sua ragion
d'essere solo in relazione a determinate circostanze.
Se l'oppresso crede all'idea che l'uso della violenza contraddice gli scopi
per cui si lotta, di questo l'oppressore non può che rallegrarsi. E' vero
che la democrazia non può esistere con la violenza, ma è anche vero che una
democrazia incapace di difendersi non vale nulla. Su questo è difficile dar
torto a Lenin.
Se e quando alla violenza si è costretti, al fine di tutelare i diritti
fondamentali dell'uomo, l'unico principio democratico che in quel momento
occorre far valere è il seguente: una reazione violenta non può mai essere
sproporzionata rispetto al torto subìto. Cioè non si può, in nome di pur
legittima difesa, tollerare un uso arbitrario della violenza.
Inoltre bisogna che divenga patrimonio della cultura dominante l'idea che
l'uso della violenza dovrebbe sempre e comunque essere sottoposto al vaglio
di decisioni collettive, ovvero che tale uso venga tenuto sotto controllo da
istanze collettive.
In ogni caso, rispetto all'uso terroristico della violenza, frutto di
posizioni estremistiche e settarie, è sempre da preferire l'uso della non
violenza.
Violenza e non violenza sono concetti relativi, il cui significato si
chiarisce solo in rapporto a circostanze concrete. E' sbagliato delineare
una filosofia dell'assoluta non violenza, poiché la non violenza non può
rischiare di essere accusata di complicità o collusione con la violenza
usata dalle classi egemoni.
Non ha senso (se non per gli sfruttatori) che gli sfruttati predichino la
non violenza, perpetuando così il loro stato di soggezione. Ingiustizia e
non violenza al massimo possono coesistere nelle menti di chi tiene le
chiavi del potere. Non a caso sono i despoti che di tanto in tanto predicano
la violenza contro i nemici "fasulli", tatticamente inventati per
distogliere le organizzazioni più critiche e le stesse masse dal problema di
come risolvere gli interni conflitti di classe. S'inventano dei nemici
"esterni" perché ci si rende conto che la predicazione della non violenza
(delegata a organi religiosi o da questi culturalmente influenzati) ad un
certo punto non convince più nessuno.
Uno può anche essere assolutamente non violento per motivi personali, ma una
scelta del genere non ha nulla a che vedere coi meccanismi oggettivi dello
sfruttamento sociale, che è tutto meno che "non violento".
IL TESTAMENTO POLITICO DI LENIN
Le note che Lenin dettò tra la fine del 1922 e l'inizio del 1923, un anno
prima di morire, sono conosciute sotto il nome di "Lettera al congresso"
(del partito bolscevico-russo). La famiglia di Lenin e i suoi più intimi
collaboratori diedero ad esse il nome di "Testamento". Come noto, ancora
oggi l'interpretazione di questo documento da parte della storiografia
sovietica e occidentale è piuttosto controversa. Avvolto da ogni sorta di
miti e di leggende, esso venne rivelato solo al XX Congresso del Pcus, da
Krusciov, e pubblicato integralmente nel 1956. Questa è la breve cronistoria
della formazione di tale documento: ad essa faranno seguito alcune
riflessioni di merito.
Agli inizi del 1921 cominciarono ad apparire i primi sintomi
dell'arteriosclerosi di Lenin, che i medici attribuivano all'eccessivo
lavoro e alle conseguenze dell'attentato della socialista-rivoluzionaria
Fanni Kaplan, di cui era stato vittima nell'agosto 1918. Verso la fine
dell'anno egli era già gravemente debilitato e costretto a lasciare
l'attività pubblica per molte settimane. Nell'aprile 1922 gli venne estratta
una delle due pallottole con cui era stato colpito dalla Kaplan. Il 25
maggio la mano e la gamba destre si erano paralizzate ed aveva difficoltà a
parlare. Cedendo malvolentieri alle sollecitazioni dei medici, si era
trasferito a Gorki. Nel giugno il suo stato di salute era migliorato, sicché
all'inizio di ottobre poté tornare a Mosca per riprendere il lavoro. Ma il
13 dicembre fu colpito da nuovi attacchi cerebrali.
Decide finalmente di curarsi. Nei tre giorni seguenti, pur immobilizzato nel
letto, ha diverse conversazioni telefoniche, riceve i suoi più stretti
collaboratori, prepara l'intervento per il X congresso dei soviet, scrive
diverse lettere e alcune note relative al monopolio del commercio estero,
alla distribuzione dei compiti fra i sostituti del presidente del consiglio
dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della difesa, chiede
d'indagare sul modo come s'effettuava lo stoccaggio della raccolta del grano
nel 1922, s'informa di ciò che viene fatto in materia di sicurezza sociale,
del censimento della popolazione e di altre questioni.
Sulla questione del commercio estero, Lenin, che pur aveva contribuito alla
nomina di Stalin alla carica di segretario generale del partito, si scontra
duramente, in quanto Stalin patrocinava le tesi di Bucharin, Sokolnikov,
Frumkin e altri relative alla attenuazione se non abolizione del regime di
monopolio. Trotski invece parteggiava per Lenin.
Nella notte dal 15 al 16 dicembre il suo stato di salute s'aggrava
seriamente. Il mattino del 16, Lenin detta una lettera alla moglie, Nadejda
Krupskaia. I medici gli propongono di trasferirsi di nuovo a Gorki, ma lui
decide di restare a Mosca. Chiede a Nadejda di far sapere a Stalin che la
malattia gli impediva d'intervenire al X congresso.
Il 18 dicembre si riunisce il plenum del C.C. Viene deciso di comunicare a
Lenin, con l'assenso dei medici, il testo delle risoluzioni adottate al
plenum. Per decisione speciale dello stesso, Stalin viene investito della
responsabilità personale relativa al controllo della terapia prescritta dai
medici. A partire da questo momento le visite gli vengono vietate. Alle
persone che assistono: la moglie, la sorella, alcune segretarie e il
personale medico, viene proibito di trasmettergli qualsiasi lettera o di
informarlo dei correnti affari di Stato, al fine -questa la giustificazione-
di "non preoccuparlo"
Il 21 dicembre Lenin detta a Nadejda una lettera indirizzata a Trotski, in
cui si dichiara soddisfatto della decisione del plenum circa la conferma
dell'intangibilità del monopolio del commercio estero e suggerisce che venga
posta al congresso del partito la questione del consolidamento di tale
commercio e delle misure da prendere per migliorarne l'efficienza.
Avendo saputo di questa lettera, Stalin, al telefono, rimprovera duramente
Nadejda d'aver trasgredito l'ordine di riposo assoluto impartito dai medici.
Nadejda reagisce inviando il 23 dicembre una lettera a Kamenev, allora
vice-presidente del consiglio dei ministri: "Stalin s'è permesso ieri un
attacco assai rozzo nei miei riguardi, sotto il pretesto che avevo
autorizzato Ilich a dettarmi una breve lettera -ciò che io ho fatto col
consenso dei medici. Non è da oggi che sono membra del partito, ma in 30
anni non avevo mai sentito nulla di simile. Gli interessi del partito e
dello stesso Ilich mi stanno a cuore tanto quanto a Stalin. So bene ciò di
cui si può o non si può parlare con Ilich, poiché so che cosa lo preoccupa,
lo so meglio di qualunque medico, in tutti i casi meglio di Stalin... Non
sono di marmo e i miei nervi sono al limite".
La Krupskaia non disse niente a Lenin dell'incidente, per cui è da escludere
ch'essa l'abbia influenzato nel ritratto che di Stalin egli fece in una nota
del 4 gennaio 1923. Solo il 5 marzo egli viene a conoscenza dell'incidente,
per il quale dettò subito una lettera indirizzata a Stalin: "Compagno
Stalin, voi avete avuto l'impudenza di chiamare mia moglie al telefono per
insultarla. Benché essa vi abbia promesso di dimenticare l'incidente, il
fatto tuttavia, per mezzo di lei, è venuto a conoscenza di Zinoviev e
Kamenev. Io non ho intenzione di dimenticare così facilmente ciò che è stato
fatto contro di me: va da sé infatti che quanto viene fatto contro mia
moglie è come se fosse fatto contro di me. Ecco perché vi chiedo di farmi
sapere se siete disposto a ritirare ciò che avete detto e a scusarvi, o se
invece preferite interrompere le relazioni tra noi. Con i miei rispetti,
Lenin". Stando a una lettera della sorella di Lenin, Maria Ulianova, Stalin
presentò le sue scuse.
Nella notte del 22 dicembre il braccio e la gamba destri erano paralizzati.
Lenin non poteva più scrivere. Il giorno dopo chiede ai medici il permesso
di dettare alla stenografa per cinque minuti, poiché una questione assai
importante gli impediva di dormire. Fu così che Lenin cominciò a dettare la
prima parte della sua cosiddetta "Lettera al congresso". In questa parte
egli avanzava la necessità di aumentare l'effettivo del CC facendovi entrare
degli operai e dei contadini.
Il 24 dicembre, davanti alle insistenze dei medici che imponevano di cessare
ogni incontro con la stenografa, Lenin pone un ultimatum: o lo si autorizza
a dettare il suo "diario" per qualche minuto al giorno, oppure rifiuterà
categoricamente ogni cura. Lenin in pratica supponeva che la parola
innocente "diario" gli avrebbe permesso più facilmente d'ottenere l'assenso
dei medici.
Lo stesso giorno, dopo essersi consigliati coi medici, Stalin, Kamenev e
Bucharin, prendono la seguente decisione: "1) Lenin è autorizzato a dettare
per 5-10 minuti al giorno, ma non deve dettare delle lettere e non deve
aspettarsi una replica alle sue note. Le visite sono proibite. 2) Né i suoi
amici, né le persone del suo più vicino entourage debbono dargli
informazioni sulla vita politica, per non dargli modo di inquietarsi".
Lenin può comunque dettare la seconda parte della "Lettera" in cui delinea i
ritratti dei maggiori leaders del partito. La stenografa, Maria Volodicheva,
annota nel suo diario che Lenin le ha più volte ribadito il carattere
assolutamente confidenziale di quanto le aveva dettato i giorni 23 e 24
dicembre e che le note dovevano essere preparate in cinque esemplari: uno
per gli archivi segreti, uno per lui e tre per la Krupskaja, e poste in
buste sigillate. La stenografa racconterà, nel 1929, d'aver bruciato la
minuta e che sulla busta sigillata con la cera avrebbe dovuto scrivere che
solo Lenin poteva aprirla e, dopo la sua morte, solo N. Krupskaia, ma che le
parole "dopo la sua morte" le aveva tralasciate.
Il segreto dunque verteva esclusivamente sulla seconda parte della
"Lettera",
poiché la prima (riguardante l'ampliamento del CC) era già stata consegnata
il 23 dicembre al CC. Nel maggio 1924 la Krupskaia consegnò alla commissione
del CC tutte le carte di Lenin, ma non se ne fece niente. I membri
dell'ufficio politico e una parte dei membri del CC erano già al corrente
dei giudizi che Lenin aveva di taluni responsabili di partito, per cui
ritennero opportuno non rendere pubblico il documento. La volontà di Lenin
non venne rispettata.
La malattia aveva colto Lenin in un momento cruciale della storia del
partito comunista e dello Stato sovietico. La guerra civile (1918-20) non si
era ancora conclusa, le truppe d'intervento straniere continuavano ad
occupare l'Estremo Oriente della nazione, la controrivoluzione interna non
s'era ancora rassegnata a deporre le armi, i kulaki manifestavano nella
Russia centrale, in Ucraina e in Siberia, il movimento dei Basmaci
manifestava in Asia centrale, vi erano sollevazioni in diverse città. La
fame e il disastro dell'economia venivano a peggiorare la situazione. E,
ciononostante, le norme e le regole del "comunismo di guerra" (tutte le
forze e le risorse messe al servizio della difesa, grazie alla
nazionalizzazione della grossa e media industria, alla centralizzazione
della produzione e della distribuzione, al divieto del commercio privato, al
lavoro obbligatorio, all'uguaglianza dei salari, ecc.) facevano sempre più
posto alla Nuova Politica Economica, elaborata da Lenin, cioè al fatto che
un certo sviluppo del capitalismo veniva tollerato e che la requisizione dei
prodotti agricoli era stata sostituita da un'imposta in natura. Misure,
queste della NEP, che neppure alcuni membri dell'ufficio politico e del CC
riuscivano ad accettare. Ecco perché Lenin, nella sua prima parte della
"Lettera", raccomandava di procedere a una serie di importanti cambiamenti
politici e organizzativi.
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