Lenin prevedeva che se il CC del partito non fosse stato ben saldo e
compatto, l'accerchiamento della Russia sovietica da parte degli Stati
imperialisti avrebbe potuto determinare il fallimento della rivoluzione.
Temeva infatti che i conflitti interni al partito, fino a quel momento
insignificanti, avrebbero potuto, di fronte alle pressioni del nemico
esterno, diventare molto gravi. Di qui la richiesta di aumentare il CC fino
a 50-100 unità, reclutando "operai e contadini medi" che non avessero un
"lungo funzionariato sovietico" e che non appartenessero, né direttamente né
indirettamente, alla casta degli sfruttatori. Probabilmente Lenin s'era
accorto che in sua assenza, a causa della malattia, lo stato maggiore del
partito non riusciva a superare le divergenze di opinioni per organizzare un
lavoro intelligente, proficuo. Egli temeva soprattutto la minaccia d'una
scissione nel momento più critico del Paese.
Lenin, in sostanza, auspicava la creazione di uno staff in grado di
garantire il partito contro l'influenza dei tratti negativi di certi suoi
dirigenti, in grado cioè di diminuire l'impatto sia dei fattori puramente
soggettivi, che delle circostanze accidentali nella soluzione delle
questioni più importanti, ma anche in grado di creare le condizioni in cui
il contenuto del lavoro di gruppo, rigorosamente centralizzato, del CC, non
superasse il quadro, non meno rigorosamente definito, delle sue competenze.
Sintomatico è il fatto che la frase di Lenin: "né il segretario generale, né
alcun altro membro del CC" dovevano essere in grado d'impedire un controllo
sulla loro attività, su soppressa dalla "Pravda" del 25 gennaio 1923 e mai
pubblicata in nessuna delle successive raccolte di scritti di Lenin, fino a
quando è stata ripristinata, secondo il manoscritto originale, nel 45°
volume della V edizione delle sue opere, apparso a Mosca nel 1970.
Relativamente ai tratti soggettivi dei leaders del partito, Lenin,
nell'ultima nota del 4 gennaio, rilevava che il difetto principale di
Stalin: la "grossolanità", "tollerabile" nei rapporti fra comunisti, era
"inammissibile" per un segretario generale, per cui proponeva la sua
sostituzione, anche per evitare che il dissidio fra Stalin e Trotski
rischiasse di danneggiare l'intero partito.
Quanto, su questa decisione, avesse influito il pericoloso atteggiamento
assunto da Stalin (ma anche da Ordzonikidze e Dzerzinskij) nella questione
delle nazionalità, era facile intuirlo. Le note del 30-31 dicembre su tale
questione e sul progetto di autonomizzazione sono tra le più importanti del
Testamento. Lenin temeva che il regime sovietico si sarebbe comportato in
maniera imperialistica nei confronti delle nazioni più piccole o più
arretrate. Stalin, in tal senso, s'era mostrato "fatalmente precipitoso",
"nefastamente collerico" verso il preteso "social-nazionalismo"; Dzerzinskij
aveva dato prova di preconcetti imperdonabili; per Ordzonikidze, che aveva
addirittura malmenato pubblicamente un compagno di partito, Lenin chiedeva
una "punizione esemplare".
Stalin, come noto, era stato eletto segretario generale del CC del partito
nella primavera del 1922. Prima d'accedere a questo posto, egli dirigeva,
quale membro dell'ufficio politico a partire dal marzo 1919, il
commissariato per gli affari delle nazionalità e l'Ispezione operaia e
contadina. Durante la guerra civile e fino a qualche anno dopo, Stalin si
era mostrato un leader energico, volitivo, un grande organizzatore. A motivo
di queste qualità, l'ufficio politico, nella seconda metà del 1921, gli
aveva affidato il lavoro organizzativo in seno al CC. Lo si era incaricato
di preparare i plenum del CC, le sessioni del comitato esecutivo centrale e
di fare altre cose ancora: sicché, in pratica, egli veniva ad assumere le
funzioni del segretario del CC.
Lenin, dal canto suo, era il capo del governo sovietico. Non occupava
ufficialmente alcun ruolo nel partito, nel CC, ma dirigeva le sedute dei
plenum del CC e dell'ufficio politico. Di fatto egli era a capo non soltanto
del consiglio dei commissari del popolo, ma anche del CC del partito. In
queste attività egli aveva come assistente il segretario del CC. Questa
funzione non era ufficiale (non esisteva prima di Stalin un segretario
"generale" del partito), ma, in pratica, uno dei segretari era stato scelto
per dirigere il lavoro della segreteria.
Quando la salute di Lenin peggiorò in modo irreversibile, si prese la
decisione di rafforzare la segreteria del partito. Il plenum del CC nominò
Stalin, perché sembrava fosse il più idoneo a proseguire i lavori del
partito in assenza di Lenin. Fu allora che si decise di dare il nome di
"segretario generale" al titolare del nuovo posto, per accrescerne il
prestigio e per distinguerlo dagli altri segretari. Col passare del tempo
Lenin s'accorse che Stalin aveva concentrato nelle sue mani "un potere
illimitato", sia nell'ambito del partito che dello Stato. Per questo
propose, senza fare nomi, di sostituirlo.
Difficilmente però avrebbero potuto sostituirlo Zinoviev o Kamenev, che nel
Testamento vengono ricordati da Lenin per il loro comportamento tenuto nel
1917, allorché si opposero alla sollevazione armata, divulgando presso un
giornale non comunista la decisione segreta del partito. Tuttavia,
nonostante questa defezione, sia l'uno che l'altro erano rimasti membri del
CC e dell'ufficio politico. Kamenev era addirittura vicepresidente del
consiglio dei commissari del popolo, del consiglio del lavoro e della
difesa, mentre Zinoviev era presidente del comitato esecutivo del Komintern.
Era stato proprio Lenin ad appoggiare la candidatura di Kamenev, in seno al
CC, nell'aprile del 1917, a motivo dell'ascendente su certi strati sociali
popolari che unanimemente si riconosceva a Kamenev. Lenin non ha mai
accettato di considerare il tradimento dei due come un "crimine personale".
Peraltro nel Testamento egli dice a chiare lettere che non si poteva
rimproverare loro tale comportamento "più di quanto si possa rimproverare a
Trotski il suo non-bolscevismo" (Zinoviev e Kamenev furono fatti fucilare da
Stalin nel 1936).
Quanto a Trotski, Lenin conosceva bene la lunga, complessa e tortuosa lotta
ch'egli aveva condotto contro il bolscevismo, ma sapeva anche che ciò non
dipendeva tanto dai tratti negativi della personalità egocentrica di
Trotski, quanto dal fatto ch'egli rifletteva l'umore di certi militanti del
partito e di vasti strati sociali. Grazie al suo talento d'oratore, egli
conosceva i modi di galvanizzare quelle masse (specie i più giovani)
sensibili alla fraseologia di sinistra. Trotski era senza dubbio una
personalità di rilievo: era stato, nel 1922, membro dell'ufficio politico,
commissario del popolo alla difesa e alla marina militare, presidente del
consiglio militare rivoluzionario della Repubblica. Il partito lo aveva
anche incaricato di svolgere diverse funzioni nell'ambito dell'economia
nazionale, anche se -come dice Lenin nel Testamento- "la sua eccessiva
sicurezza e infatuazione per l'aspetto puramente amministrativo degli
affari" rischiava di condurre "troppo lontano". Lenin sapeva bene che a
Trotski mancavano alcune qualità politiche fondamentali, quali p.es. la
duttilità con gli uomini, il gusto della tattica, la capacità di manovra
ecc. (Trotski morirà assassinato in Messico nel 1940, da un sicario di
Stalin, Ramon Mercader).
Probabilmente Lenin si rendeva conto che nessun leader, da solo, era in
grado di sostituirlo e, forse proprio per questo, sperava che, allargando la
partecipazione agli organi di direzione politica, l'esigenza di avere un
leader con altissime capacità sarebbe venuta meno. Sottoponendo tutti i
leaders a un maggiore controllo e facendo ruotare le cariche, il problema
della successione sarebbe stato meno gravoso.
Non a caso nelle note del 27-28-29 dicembre, riferendosi alla lettera del 28
dicembre sul carattere legislativo delle decisioni del Gosplan, Lenin disse
ch'era difficile trovare in una sola persona la combinazione di queste
qualità: solida preparazione scientifica in uno dei rami dell'economia e
della tecnologia, visione d'insieme della realtà, forte ascendente sulle
persone, capacità organizzative e amministrative. Ma forse -diceva ancora
Lenin- se si fossero rispettate le sue condizioni, non ci sarebbe stato
bisogno di cercare una persona del genere. D'altra parte egli si rifiutò di
designare un proprio successore alla guida del partito.
Nel Testamento Lenin cita altri due leaders: Bucharin e Piatakov. Del primo
esprime due giudizi apparentemente contraddittori. Da un lato infatti
afferma che "non è soltanto il maggiore e il più prezioso teorico del
partito, è anche, a ragione, il compagno più benvoluto"; dall'altro però
sostiene ch'egli non ha mai ben compreso la "dialettica" e che le sue
concezioni del marxismo sono un po' "scolastiche". In effetti, la posizione
assunta da Bucharin durante la conclusione della pace di Brest-Litovsk con
la Germania (egli, insistendo sul rifiuto delle condizioni di pace tedesche,
rischiò di portare la repubblica allo sfascio), era una testimonianza
esplicita della sua carente dialettica: ciò che riconobbe, d'altra parte, lo
stesso Bucharin. Non solo, ma Lenin aveva giudicato "scolastica ed
eclettica" l'analisi dei fenomeni sociali che Bucharin aveva condotto in
alcuni capitoli del suo libero L'economia del periodo di transizione
(Bucharin morirà nelle purghe staliniane nel 1938).
Quanto a Piatakov, Lenin gli riconosceva "volontà e capacità notevoli", ma
anche la stessa tendenza di Trotski ad accentuare l'aspetto amministrativo
(autoritario) delle cose, per cui non si poteva "contare su di lui su una
seria questione politica". Tuttavia, sia per questo caso che per quello
precedente, Lenin sperava che i difetti avrebbero potuto, col tempo, essere
superati: in fondo Bucharin aveva solo 34 anni e Piatakov 32; si può quindi
pensare i due, col tempo, avrebbero potuto costituire un tandem vincente,
benché al momento i leader più importanti fossero Trotski e Stalin (Piatakov
sarà fucilato nel 1936).
La sorte del testamento
Che cosa accadde dopo che la Krupskaia presentò alla commissione del CC il
Testamento di Lenin? La commissione era composta da Stalin, Kamenev,
Zinoviev e altri ancora. Il plenum del CC del 21 maggio 1924 adottò la
risoluzione, dopo aver ascoltato il rapporto di Kamenev, di divulgare il
contenuto della "Lettera" non alla seduta dello stesso congresso, ma
separatamente, alle riunioni delle varie delegazioni. Si precisò anche che i
documenti di Lenin non sarebbero stati riprodotti, e per questa ragione non
vennero pubblicati.
I rapporti sulla "Lettera" vennero fatti alle delegazioni da Kamenev,
Zinoviev e Stalin. Stando alla loro interpretazione, Lenin, riferendosi alla
rimozione di Stalin dalla funzione di segretario generale, la considerava
come un'ipotesi di cui tener conto, non come una necessità. In fondo Lenin
non aveva trovato niente di preciso, di oggettivo, da rimproverare a Stalin:
la sua riserva verteva su questioni di carattere soggettivo (anche se, ma
questo non fu mai sottolineato, egli le riteneva particolarmente gravi,
avendo intuito che si stavano trasformando in un problema politico).
Kamenev comunque espose il contenuto della "Lettera" in modo da far credere
che soltanto i tratti personali del carattere di Stalin erano stati messi in
discussione e non anche il fatto ch'egli aveva concentrato su di sé un
enorme potere. Dal canto suo, Stalin giurò di tener conto delle osservazioni
critiche mossegli da Lenin.
Alcuni storici hanno sostenuto che non si provvide a sostituire Stalin
perché si temeva che il suo posto l'avrebbe preso Trotski, il quale, non
meno di Stalin, aspirava a una leadership maggiore in seno al partito e in
più era di tendenza "menscevica". Ma questa versione dei fatti contrasta
proprio con l'affermazione di Lenin secondo cui Trotski era caratterizzato
dal suo "non-bolscevismo": il che doveva escludere a priori la proposta di
una sua candidatura a un posto così importante.
Questo Testamento avrebbe sicuramente meritato una più attenta discussione,
ma non essendo stato riprodotto, nessun delegato ebbe mai modo di leggerlo
personalmente. In sostanza, il dibattito venne indirizzato unicamente sulle
proposte di Lenin riguardanti la struttura organizzativa degli organi
dirigenti del partito. Trotski s'era allora risolutamente opposto all'idea
di ampliare il CC agli operai. Formalmente però, la proposta di Lenin venne
accettata. Il XII congresso del partito (1923) fece passare il numero dei
membri del CC da 27 a 40; il XIII congresso (1924) li portò a 53. Tuttavia,
il progetto di Lenin di associare gli operai e i contadini alla direzione
del partito non si realizzò.
Nel 1927, il XV congresso adottò la risoluzione di pubblicare la "Lettera"
di Lenin in una Raccolta delle sue opere, ma poi il testo venne pubblicato
solo in un "bollettino segreto". Nell'ottobre dello stesso anno, al plenum
del CC, Stalin parzialmente citò e commentò nel suo discorso la "Lettera" di
Lenin. Il discorso venne poi inserito nelle Opere di Stalin in maniera
sintetica: totalmente esclusi furono i passaggi relativi alla proposta della
sua rimozione. Durante il periodo della dittatura staliniana il Testamento
fu addirittura considerato inesistente, benché nel 1927 fosse apparso
all'estero per opera di alcuni simpatizzanti trotzchisti. Sarà solo nel 1956
che la rivista Kommunist pubblicherà integralmente questo testamento
politico, che ora si trova anche nella Va edizione delle Opere complete di
Lenin (in lingua russa).Nel 1957 e nel 1963 apparvero altre due importanti
testimonianze a favore dell'autenticità del documento, di una delle
segretarie di Lenin, L.A. Fotieva: Dai ricordi su Lenin e Diario delle
segretarie di turno di Lenin.
Bibliografia
I due testi fondamentali sono:
M. Lewin, L'ultima battaglia di Lenin, ed. Laterza 1969
E.H. Carr, La morte di Lenin. L'interregno 1923-24. ed. Einaudi 1965.
L'ULTIMO LENIN
Alla fine della sua vita, Lenin fece chiaramente intendere di avere serie
preoccupazioni riguardo sia allo stalinismo emergente (inteso come
atteggiamento autoritario che i vertici del partito andavano assumendo), sia
alla progressiva burocratizzazione dello Stato.
In particolare si rammaricava della scarsa attenzione che si prestava nei
confronti della cooperazione agricola e, più in generale, nei confronti del
rapporto con le masse contadine.
Chiedeva inoltre di approfondire sul piano culturale la rivoluzione
d'Ottobre, per farla uscire dagli angusti limiti della politica.
Per quali ragioni queste sue preoccupazioni passarono inosservate e finirono
ben presto coll'essere addirittura rimosse dalla coscienza politica del
partito? Solo perché lo stalinismo finì coll'imporsi su ogni altra corrente
ideologica?
Probabilmente la ragione fondamentale dipese dal fatto che Lenin, nel corso
della sua vita, aveva concesso al "centralismo" un primato ingiustificato
rispetto alle esigenze della "democrazia". Spesso la democraticità delle sue
azioni politiche dipendeva più da motivazioni di ordine soggettivo (il
carattere benevolo e tollerante di Lenin), che non dall'obiettività dei
fatti.
Non a caso nell'ultimo periodo della sua vita i nodi rimasti a lungo tempo
irrisolti vennero tutti al pettine: Lenin prese chiaramente coscienza che i
fattori che maggiormente avrebbero dovuto garantire il valore democratico
della rivoluzione, si erano rivelati non sufficientemente sviluppati.
Privilegiando nettamente il rapporto coll'industrializzazione, col
proletariato, con lo sviluppo urbano, coi rivoluzionari di professione, con
gli apparati e le istituzioni statali e partitiche, il leninismo aveva
finito inevitabilmente col trascurare altri aspetti non meno significativi,
più sociali e meno politici, più culturali e meno ideologici.
Probabilmente se il leninismo non avesse trascurato la cooperazione, la
questione contadina, la rivoluzione culturale - il socialismo non si sarebbe
trasformato in maniera "amministrata", né sarebbe sorto lo stalinismo...
Sono drammatici gli ultimi scritti di Lenin, anche perché sembrano
preannunciare la catastrofe in cui il socialismo autoritario sarebbe
precipitato...
Naturalmente si ha tale impressione leggendoli col senno del poi. In realtà
Lenin, dominato com'era dal suo forte senso dell'ottimismo storico, non
avrebbe certo potuto immaginare un crollo così rovinoso.
Egli in sostanza era convinto che il fatto di non aver tenuto in debito
conto la cooperazione, l'appoggio delle masse contadine, lo sviluppo
culturale della rivoluzione e la democrazia in seno al partito, non avrebbe
comportato (ai fini della riuscita della rivoluzione) un blocco definitivo
del processo verso l'edificazione del socialismo democratico. Quando Lenin
parla di conseguenze "nocive", "dannose" e anche "nefaste" per il
socialismo, non pensa mai che siano "irrimediabili".
Invece la storia l'ha smentito. L'indebolimento della democrazia è diventato
così tanto progressivo da rendere del tutto impossibile la realizzazione del
socialismo.
Lenin in sostanza si era illuso che la pratica costante del "centralismo"
non avrebbe potuto impedire, al momento cruciale, la realizzazione della
"democrazia popolare".
Egli non riusciva ad accettare l'idea che la democrazia potesse essere
costruita solo con le armi della democrazia e che, in tale processo, il
centralismo poteva al massimo essere considerato come un mezzo ausiliario,
temporaneo, finalizzato a compiti specifici.
Lenin temeva che, in assenza di democrazia popolare, l'unico modo di
promuoverla fosse quello di assicurare il centralismo dei soggetti più
consapevolmente orientati verso la rivoluzione.
* * *
Nella Paginette di Diario Lenin parla "dell'atteggiamento della città nei
confronti della campagna" come di una "questione politica fondamentale".
Egli cioè si rendeva conto che in un Paese sostanzialmente agricolo il
socialismo, senza l'appoggio dei contadini, avrebbe avuto vita breve.
Tuttavia, il suo atteggiamento restava paternalistico, se non addirittura
viziato da un pregiudizio di fondo: quello di credere che i contadini non
avessero nulla da "dare", culturalmente parlando, alla coscienza operaia.
Solo la città poteva dare qualcosa alla campagna (in termini di istruzione,
coscienza politica, ecc.).
Nelle campagne -egli afferma- non si può parlare esplicitamente di
comunismo, in quanto i contadini non sono in grado di capirlo. E' cioè
prematuro introdurre il comunismo nelle campagne se prima non si è formata
una "base materiale".
Lenin, in altre parole, non riusciva a intravedere nella comune agricola la
possibilità di una trasformazione collettiva dell'organizzazione della vita
rurale (da feudale a socialista). Anzi egli pensava che la comune fosse un
ostacolo insormontabile alla realizzazione del socialismo nelle campagne.
Questo perché la sua idea di socialismo era strettamente legata allo
sviluppo dell'industria, della città e dello Stato.
"Socializzazione della terra" per Lenin significava anzitutto progressiva
abolizione non solo della proprietà privata feudale, ma anche di qualunque
forma di proprietà, inclusa quella che permetteva la sussistenza di singole
famiglie contadine, inclusa persino quella collettiva della comune.
Lenin in sostanza intendeva per "socializzazione della terra" nient'altro
che la sua "statalizzazione": la gestione della terra doveva dipendere da
istanze amministrative e statali centralizzate. Questo suo errore avrà
conseguenze di portata incalcolabile.
Bisogna tuttavia riconoscergli ch'egli chiedeva di realizzare tale progetto
senza forzature amministrative, cioè in maniera "spontanea", secondo tempi e
modi rispettosi dell'arretratezza culturale e politica delle masse rurali.
Scrupoli, questi, che lo stalinismo non avrà, non tanto perché Stalin, come
persona, era meno tollerante di Lenin, quanto perché, oggettivamente, una
volta impostato in tali termini il rapporto con le campagne, la conseguenza
inevitabile, ad un certo punto, non può essere che quella stalinista. Non a
caso sulle modalità di sfruttamento delle campagne non esistevano grandi
dissidi fra Stalin, Trotski, Bucharin e gli altri leaders del partito.
* * *
Lo stesso atteggiamento paternalistico Lenin lo rivela nei confronti della
cooperazione, ch'egli considerava non come un obiettivo finale del
socialismo, ma come un pilastro fondamentale dello Stato.
Lenin era convinto che la cooperazione avrebbe potuto funzionare
democraticamente proprio perché lo Stato deteneva la proprietà di tutti i
mezzi produttivi. In altre parole, la possibilità che la cooperazione
finisse col diventare un'occasione di pratica capitalistica, poteva essere
scongiurata -secondo Lenin- solo dalla statalizzazione di tutta la proprietà
dei principali mezzi produttivi.
In realtà bisognava fare esattamente il contrario: una volta espropriati i
grandi feudatari e i grandi capitalisti, la proprietà dei mezzi produttivi
andava progressivamente distribuita ai cittadini, associati in cooperative
(di produzione, di consumo, agricole ecc.), le quali si sarebbero assunte
l'intera responsabilità della gestione di ogni risorsa.
Lo Stato avrebbe dovuto essere progressivamente smantellato, al fine di
sviluppare la società civile. I rischi di un ritorno al capitalismo
sarebbero stati direttamente affrontati dagli stessi contadini e artigiani,
dagli stessi cittadini e lavoratori, e non dallo Stato o dal partito.
* * *
Anche la questione dell'arretratezza culturale della Russia è mal posta da
Lenin, che pur dimostrava di avere più ragioni di N. Sukhanov, fortemente
scettico sulla possibilità di realizzare il socialismo in un Paese
culturalmente arretrato. La risposta di Lenin era scontata: "se per creare
il socialismo occorre la civiltà, non si vede la ragione per cui, con una
rivoluzione politica, non si debbano creare le premesse di questa civiltà".
Lenin insomma era consapevole di aver realizzato una rivoluzione politica
senza una parallela rivoluzione culturale fra le masse; ed era altresì
convinto che quest'ultima fosse uno dei compiti prioritari che il socialismo
statale si doveva prefiggere - tuttavia, era proprio su questo aspetto che
la sua proposta era limitata. Egli infatti pensava, col termine di
"rivoluzione culturale", a una progressiva alfabetizzazione delle masse
contadine, che costituivano il 90% della popolazione, sulla base dei
princìpi del marxismo (e ovviamente del "leninismo").
Cioè per "rivoluzione culturale" egli non intendeva la valorizzazione degli
elementi di democrazia e di socialismo già presenti nella cultura
pre-marxista, mettendo così i contadini in una situazione paritetica nei
confronti degli operai.
La sua "rivoluzione culturale" era una sorta di progressivo indottrinamento
degli strati sociali più arretrati del Paese. Lenin in sostanza non riuscì
mai a scorgere nella vita e nelle tradizioni dei contadini, e neppure nella
religione ortodossa, degli elementi culturali autentici.
Il grande sforzo politico e intellettuale di Lenin fu quello di adattare il
marxismo occidentale alle esigenze di liberazione del suo Paese. Nel fare
questo egli cercò di rendere il marxismo il più creativo e innovativo
possibile, facendolo uscire dalle secche deterministiche, evoluzionistiche
ed economicistiche in cui s'era cacciato in Europa occidentale, dopo la fase
spontaneistica degli inizi.
Lenin seppe dare al marxismo una forte organizzazione partitica,
valorizzando al massimo il momento politico della necessità rivoluzionaria,
ma il socialismo veramente democratico resta ancora da costruire.
LENINISMO E NEOLENINISMO
Il difetto maggiore di Lenin è stato quello di aver concesso alla politica
un primato ingiustificato rispetto a quello che deve avere l'essere umano.
Lenin superò il primato che Marx concesse all'economia, ma non riuscì a
porre l'essere umano al di sopra della politica, anche se di questo problema
egli era consapevole (e in maniera drammatica nell'ultimo periodo della sua
vita).
Se l'avesse fatto in maniera organica, coerente, non avrebbe avuto paura di
evidenziare i pregiudizi di Marx nei confronti della classe contadina o le
sue ingenuità nei confronti della prassi rivoluzionaria (che considerava
come esito inevitabile dello scoppio delle contraddizioni economiche).
L'essere umano non può essere sottomesso ad alcuna legge né ad alcuna
scienza. E quando si parla di "essere umano" bisogna intendere l'uomo in
generale e non soltanto l'appartenente a una classe particolare.
I conflitti di classe che si sperimentano nella vita borghese non possono
essere affrontati solo in maniera politica.
* * *
Il più grande torto che si possa fare al leninismo, che fu essenzialmente
un'esperienza politico-rivoluzionaria, è quello di servirsi delle sue
acquisizioni teorico-politiche per interpretare schematicamente il presente:
il che porterebbe a una scelta non meno riduttiva della strategia d'azione.
Come non rendersi conto che il leninismo fu un'applicazione assolutamente
creativa e originale del tradizionale marxismo? Il leninismo non era
implicito nel marxismo, o comunque, se lo era, occorreva una cultura non
occidentale per farlo emergere in maniera così esaltante.
E come non rendersi conto che se veramente si desidera una società
democratica e socialista bisogna applicare le acquisizioni del leninismo in
una maniera non meno creativa? Cioè in una maniera che difficilmente potrà
nascere nell'ambito della cultura occidentale e che molto probabilmente
nascerà da quella stessa cultura euro-orientale che ha generato il
leninismo.
Al marxismo occidentale, infatti, manca la fondamentale determinazione della
prassi rivoluzionaria. Il marxismo occidentale oscilla continuamente fra la
teoria astratta di Scilla e l'estremismo settario di Cariddi. Tutto
l'opportunismo della socialdemocrazia riformista appartiene al primo gruppo.
Il resto appartiene sostanzialmente ai terroristi oppure a formazioni
numericamente esigue.
Ciò che i gruppi, che si rifanno al marx-leninismo, non riescono
assolutamente a capire, è che l'originalità di un "neoleninismo" non può
scaturire che da un costante rapporto con la realtà concreta: un rapporto
"pratico", di affronto sistematico del bisogno e di denuncia delle
ingiustizie sociali.
Cercare di applicare alla realtà propri schemi precostituiti è quanto di più
assurdo si possa compiere in nome del leninismo.
Fare la fatica di misurarsi con le contraddizioni del presente e proporre
nuovi criteri risolutivi - questo è il compito del moderno leninismo.
A tutt'oggi solo la perestrojka di Gorbaciov è riuscita nell'impresa, ma
perché ciò venga considerato fattibile per tutta la società, occorre che
diventi patrimonio comune della mentalità collettiva.
Per realizzarsi, la perestrojka ha bisogno della maturità collettiva di una
forte democrazia, che è la cosa più difficile di questo mondo.
LENINISMO E PERESTROJKA
Per la perestrojka eurorientale sono soprattutto le ultime opere di Lenin
che bisogna rileggere, al fine di capire il senso del socialismo
democratico. All'occidente progressista invece dovrebbero interessare di più
le opere del giovane Lenin, quello dell'Iskra, l'organizzatore di un nuovo
partito rivoluzionario, il Lenin di Che fare?.
Ciò anche in considerazione del fatto che in occidente è impossibile
realizzare la perestrojka senza rivoluzione politica. Da noi non ha alcun
senso parlare di autogestione sociale o di autofinanziamento, poiché tutto
il mondo produttivo trainante è nelle mani di pochi imprenditori. Sono loro
(e i loro managers) che si autogestiscono e finanziano le loro imprese coi
soldi dei lavoratori.
La perestrojka non può portare l'occidente al socialismo, in modo pacifico,
progressivo, senza che avvenga una rivoluzione politica. E' impossibile che
gli imprenditori rinuncino spontaneamente ai loro monopoli. Anzi, la
perestrojka, indirettamente, promuove la conservazione dello status quo in
occidente, in quanto, dal punto di vista economico-commerciale, essa tende a
favorire una cooperazione reciprocamente vantaggiosa anche al capitalismo.
Al massimo la perestrojka potrà servire a dimostrare che le crisi del
capitalismo dipendono dal capitalismo stesso (e non p.es. dalla "guerra
fredda"), oppure che il socialismo, volendo, può anche diventare una società
democratica. Più di questo la perestrojka non può fare per l'occidente.
Se essa ha rinunciato a riaffermare il valore della lotta di classe, l'ha
fatto nella convinzione che tale prassi non può essere teorizzata secondo i
crismi della ineluttabilità, della indispensabilità. Alla lotta di classe il
socialismo si piega per necessità, dopo aver maturato la certezza che tutti
gli altri mezzi per sanare le contraddizioni si sono rivelati inefficaci.
Anzi la perestrojka sta facendo di tutto perché i conflitti ideologici non
impediscano la collaborazione sul terreno socioeconomico (in politica
interna, fra le diverse categorie sociali, ed estera, fra i diversi Stati).
Questo modo "umanistico" di fare politica non è in contraddizione con quello
leninista: gli è però necessario come complemento, poiché una politica
leninista che non tenga conto della perestrojka si trasforma facilmente,
almeno in occidente, in una politica estremista, settaria, neo-stalinista.
La perestrojka potrà anche aiutare il capitalismo a superare temporaneamente
certe sue difficoltà economiche, ma la contraddizione tra capitale e lavoro
tenderà inevitabilmente a riprodursi, specie se il Terzo mondo si opporrà
con efficacia al rapporto neocoloniale. Ecco, in questo senso la perestrojka
vuol togliere al capitalismo l'occasione di affermare che il socialismo è
causa ultima delle crisi del capitalismo stesso.
* * *
Lenin, per poter superare Marx, dovette assimilare il netto disincanto nei
confronti del capitalismo. Ancor prima di Che fare? (che segna l'inizio di
tale superamento), Lenin aveva capito che il capitalismo era la formazione
sociale più forte, cioè ch'esso si sarebbe inevitabilmente imposto sulla
società agricola in via di dissoluzione, contro le teorie dei populisti. E
aveva capito che il capitalismo non era assolutamente riformabile in senso
democratico, essendo una formazione sociale fortemente divisa in classi
(contro l'opinione dei marxisti legali, degli economisti ecc.). Lenin non
riconobbe mai alla borghesia alcuna funzione positiva, neppure quella d'aver
accelerato la fine del servaggio, poiché in Russia l'introduzione del
capitalismo comportò un netto peggioramento delle condizioni di vita dei
lavoratori.
Quando Lenin pensò a cercare la strada per superare Marx, non la trovò tanto
sul campo della teoria economica del capitalismo (sebbene il testo
dell'Imperialismo sia un necessario complemento del Capitale), quanto
piuttosto su quello del metodo politico per rovesciare il regime
capitalistico.
Lenin comprese una cosa d'importanza fondamentale (che Marx aveva
trascurato): il primato della politica sull'economia, ovvero l'esigenza di
darsi una forte organizzazione partitica, in grado di mobilitare un vasto
movimento popolare, col quale abbattere il potere costituito. Fu così che
Lenin riuscì a conseguire sul terreno pratico ciò che Marx aveva acquisito
solo sul terreno teorico.
Tuttavia, il leninismo venne ben presto tradito dallo stalinismo, come il
marxismo era già stato tradito dai revisionisti della IIa Internazionale. In
tal senso la perestrojka va interpretata come un tentativo di recuperare il
leninismo all'interno di una nuova consapevolezza politica (che è anche
sociale e culturale): quella del primato dell'uomo sulla politica.
Perché la perestrojka tarda così tanto a realizzarsi?
Perché, per poterla capire adeguatamente, occorre assimilare tutto Lenin,
non solo a livello intellettuale (come un manuale da studiare), ma anche e
soprattutto a livello operativo, mediante un impegno politico personale
(cosa che sotto lo stalinismo e la stagnazione era impossibile);
perché la scoperta del primato dell'uomo implica uno sforzo maggiore di
comprensione, di adeguamento personale delle proprie convinzioni e della
propria vita alla nuova scoperta: uno sforzo assai superiore a quello che
fece Marx di scoprire la vera natura del capitalismo, o a quello che fece
Lenin di scoprire il valore della politica rivoluzionaria.
Finché gli uomini, dal basso, a partire dalla vita quotidiana, non vivono
l'esperienza dell'umanesimo integrale, la perestrojka, dall'alto, non potrà
mai realizzarsi.
Lenin aveva perfettamente ragione quando diceva che la politica è la sintesi
dell'economia. Senza la politica rivoluzionaria, le cose non si trasformano
a vantaggio delle masse se il sistema in cui vivono è dominato
dall'antagonismo. La vera politica -diceva Lenin- è quella fatta dalle masse
guidate da un partito: se la politica si limita alla mera competenza di
pochi professionisti, fatalmente essa si trasforma in uno strumento per la
dittatura di qualche ceto o classe.
Marx, in un primo tempo, rifiutò la politica perché non aveva saputo
scorgere un'alternativa reale al modello para-feudale del sistema prussiano;
poi capì che tale alternativa andava cercata nelle masse, soprattutto nel
proletariato. Sarà però Lenin a intuire che tale politica spontanea delle
masse va guidata da un partito di intellettuali consapevoli, disciplinati e
organizzati.
Le masse devono quindi riappropriarsi della politica, e gli intellettuali
devono mettere al servizio delle masse la loro competenza. Se manca questa
responsabilità, si tenderà sempre a scaricare sul governo o sul sistema le
cause di tutti i mali sociali, si arriverà a pretendere cose impossibili, si
assumeranno atteggiamenti irrazionali... Ma così la politica inevitabilmente
si trasforma in un gioco competitivo (spesso dagli esiti drammatici) tra
opposte fazioni che ambiscono solo a spartirsi il potere.
Il leninismo e l'odierna perestrojka hanno questo di utile da insegnarci:
che senza una politica consapevole delle masse, non avviene alcuna
significativa trasformazione della società;
che nessun'altra "scienza" è in grado di compiere tale trasformazione;
che la trasformazione è veramente significativa solo se la politica si
unisce alle esigenze più democratiche delle masse, espresse a tutti i
livelli;
che nessuna democratizzazione della vita sociale è possibile, in profondità,
se le masse non vi si sentono attivamente coinvolte;
che l'importanza della politica non si esaurisce con la trasformazione
rivoluzionaria del sistema, poiché questa non può avvenire una volta per
tutte;
che il vero scopo della politica è quello di umanizzare la società, poiché
solo così l'esigenza di ricorrere a una politica rivoluzionaria perderà il
suo senso.
* * *
Una qualunque rivoluzione politica, senza una parallela rivoluzione sociale
e culturale, porta inevitabilmente a realizzare gli ideali opposti a quelli
originari. Questo perché mentre all'inizio della lotta politica occorre
essere democratici per ottenere un certo consenso, in seguito, conseguito
l'obiettivo politico-rivoluzionario, l'ideale rischia sempre d'essere
tradito se si vuole conservare il potere a tutti i costi.
Tale processo avviene anche involontariamente, inconsapevolmente (almeno
fino a un certo punto), in quanto il tradimento è proprio una conseguenza
della mancata rivoluzione sociale. Lenin si accorse di questo pericolo alla
fine della sua vita e cercò con tutti i mezzi di porvi rimedio, ma il
partito, dopo la sua morte, preferì accentuare l'autoritarismo della
politica.
Ogni decisione di non voler riporre nel popolo piena fiducia, rischiando
anche che lo stesso popolo si serva di questa fiducia in maniera
irrazionale, porta inevitabilmente all'affermarsi di quelle correnti
autoritarie che non credono nelle capacità democratiche delle masse e che
sanno però sfruttare molto abilmente le debolezze di chi vuole la democrazia
ma non è capace di volerla sino in fondo.
Le migliori idee non sono quelle più democratiche di altre, ma quelle che
intendono il concetto di democrazia in maniera pratica, In tal senso, a un
filosofo progressista ma isolato, è sempre preferibile un filosofo che
rinuncia, in parte, a esprimere tutte le sue concezioni progressiste, al
fine di poter avvicinare meglio le masse ad alcune sue concezioni
progressiste, pensando di elevarle, con pazienza, al suo livello di
consapevolezza.
Un filosofo che non conosce la pedagogia o la psicologia sociale (ovvero che
in politica non conosce la tattica), è un cattivo filosofo, poiché il valore
delle sue teorie non riscatterà il disvalore della sua pratica.
La pratica -si è sempre detto- è in ultima istanza il criterio della verità:
in realtà lo è anche in prima istanza, nel senso che lo scontro fra verità
opposte si decide sempre sul terreno della prassi. Dire "in ultima istanza"
significa presumere che dal momento in cui inizia lo scontro al momento in
cui si conclude, sia passato un certo tempo. Dire invece "in prima istanza"
significa che già in questo tempo ci si deve misurare sul terreno della
prassi.
Se proprio si vuole continuare ad usare la definizione engelsiana di "in
ultima istanza", la s'intenda solo in questo senso, che, dovendo scegliere
fra una verità teorica e una pratica, è preferibile scegliere, "in ultima
istanza", quella pratica. Cioè è sempre meglio garantire una verità
operativa, anche se non piena, piuttosto che una piena verità senza i mezzi
per sostenerne gli effetti.
La rivoluzione politica, senza rivoluzione sociale, non fa che rinviare nel
tempo la liberazione dell'uomo. E siccome ad ogni rivoluzione politica le
masse s'illudono ch'essa sia l'ultima, spesso accade che proprio a causa del
fallimento degli ideali rivoluzionari, le condizioni sociali delle masse
invece di migliorare peggiorino.
In Europa, a partire dalla civiltà greca, ma anche prima, da quella etrusca
o da quella fenicia, è sempre accaduto che ogni volta che le classi meno
abbienti di un determinato territorio (città, regione, ecc.), hanno
rivendicato e ottenuto taluni diritti, soltanto dei diritti, senza cioè
mettere in discussione, alla radice, il problema dello sfruttamento
dell'uomo da parte dell'uomo, è sempre accaduto che le classi più agiate
hanno cercato di recuperare i privilegi perduti, cominciando a sfruttare
quelle stesse classi lavoratrici con mezzi e metodi più sofisticati, oppure
sfruttando altre popolazioni di altri territori.
Questa legge della storia delle società antagonistiche la si può vedere
applicata non solo nell'Europa occidentale ma anche in quella orientale del
socialismo amministrato, ove l'antagonismo aveva assunto la forma di una
lotta tra Stato e società civile, tra partito e cittadini.
Il fatto che il socialismo scientifico non abbia saputo fare in occidente
neppure la rivoluzione politica ha comportato, come conseguenza, che il
capitalismo acquisisse, desumendoli proprio dal marxismo, quegli
accorgimenti tecnici e organizzativi che gli hanno permesso di riprodursi
come tale.
E così, il capitalismo monopolistico è stato il tentativo di risolvere, con
mezzi para-socialisti, una crisi interna al capitalismo concorrenziale, e
quello monopolistico di Stato ha svolto lo stesso ruolo nei confronti del
precedente capitalismo. In entrambi i casi il capitalismo ha saputo adattare
delle idee socialiste ai propri interessi, rafforzandosi ulteriormente.
Con questo naturalmente non si vuole sostenere che le rivoluzioni politiche
non devono essere fatte, né che non devono essere fatte senza rivoluzione
sociale: semplicemente che, facendole, bisogna portarle alle loro
conseguenze più logiche sul piano sociale, altrimenti esse si
trasformeranno, inevitabilmente, in una situazione di privilegio per pochi e
di condanna per molti.
Ciò inoltre comporta che oggi, per abbattere il capitalismo o il socialismo
di stato, gli sforzi della democrazia dovranno essere molto più grandi di
quelli che si dovevano sostenere nel passato. Anche perché le reazioni del
capitale o della burocrazia saranno sicuramente più forti. Le contraddizioni
irrisolte tendono col tempo ad acutizzarsi, ad approfondirsi e anche a
estendersi. La loro soluzione richiede praticamente l'impegno di tutti i
singoli cittadini.
La rivendicazione del "benessere" (socioeconomico) dovrebbe essere fatta
sulla base della convinzione che un benessere "assoluto", "totale",
garantito al 100%, è profondamente nocivo: non solo perché esso viene
"pagato", di regola, dalle innumerevoli sofferenze della maggioranza di una
determinata popolazione, ma anche perché esso porta con sé, inevitabilmente,
la decadenza dei costumi, la corruzione morale, il degrado ambientale, il
disfacimento della civiltà.
Più che di "benessere", gli uomini dovrebbero occuparsi di "giustizia", di
"uguaglianza" (nella diversità e nella libertà), di "equità sociale". Non
dovrebbe però trattarsi di una "giustizia verso il privilegio" (cioè verso
l'alto), bensì di una "giustizia verso l'uguaglianza" (cioè verso il basso).
Bisogna rifiutare l'idea di dover rivendicare gli stessi privilegi di chi
sta al potere (politico ed economico): questa forma di "giustizia" comporta
sempre un'ingiustizia nei confronti di chi non è in grado di fare le stesse
rivendicazioni. E non si dica che anche costui trarrebbe un vantaggio
personale dalle richieste di "giustizia verso l'alto" fatte dai gruppi
sociali di medio benessere. I fatti hanno sempre dimostrato che nella realtà
del privilegio allargato, gli egoismi corporativi, se soddisfatti, difendono
ancor più tenacemente i loro interessi, proprio perché sanno quanto fatica
costi farli valere nell'ambito della competizione antagonistica.
Viceversa, la democrazia verso il basso significa obbligare chi dispone di
potere politico e/o economico, ad accontentarsi del minimo indispensabile.
Il problema che a questo punto si pone è però il seguente: chi può obbligare
a questa sobrietà senza rischiare di trasformarsi, egli stesso, in un
dittatore? La risposta a tale domanda contiene anche la spiegazione del
motivo per cui sono crollati i regimi est-europei.
Una democrazia verso il basso non può essere imposta con la forza dello
Stato o di un partito, altrimenti si trasforma in una dittatura. Qui è il
popolo che deve agire in maniera sovrana. E nessun popolo, ovviamente, può
essere disposto ad accettare un tenore di vita essenziale, sobrio, moderato,
senza avere in cambio la piena libertà di pensare e di agire, nel rispetto
dell'altrui pensiero e azione. Ci si può sacrificare sul piano materiale in
nome di un ideale, non ci si può sacrificare quando i primi a tradire
l'ideale sono proprio coloro che dovrebbero meglio rispettarlo.
Il politico dovrebbe unicamente avere come scopo della sua vita quello di
realizzare, con l'aiuto delle masse, determinate idee di giustizia e di
equità sociale. Soldi e potere dovrebbero essere finalizzati a questo
obiettivo, e per essere sicuri che il loro uso sia equo, bisognerebbe
ridurli al minimo. Ciò significa che un politico, dotato di pieni poteri,
non dovrebbe governare che su un territorio molto ristretto. Quanto più il
territorio s'allarga, tanto più "simbolico" (non reale) dovrebbe essere il
potere del politico.
Il politico "nazionale" o addirittura "sovranazionale" dovrebbe avere un
potere esclusivamente morale, che è quello basato sul suo esempio personale.
L'unico vantaggio che un politico merita di godere è, in pratica, il
consenso delle masse. Un politico nazionale potrebbe dirsi "nazionale" solo
nella misura in cui vaste masse popolari (attraverso i mass-media, che però
dovrebbero gestire direttamente) si riconoscono nella sua personale
posizione (etica e politica). Chi non ha un grande ideale non può diventare
un grande politico. Nessun politico legato al potere o al denaro ha mai
avuto idee veramente originali sul piano della democrazia e del socialismo.
La cosa che desta maggiore interesse nella storia dell'Europa occidentale è
che i protagonisti principali nella formazione della realtà
dell'imperialismo (romano, feudale, borghese), sono stati non i partiti
conservatori o aristocratici, bensì quelli democratici, che pretendevano
d'essere progressisti.
Il fatto è semplice da spiegare. Lottando contro i ceti privilegiati, le
masse democratiche non hanno mai saputo condurre la loro battaglia sino alle
conseguenze più radicali sul piano sociale, ma si sono fermate sulla soglia
della rivendicazione gius-politica.
Una volta giunto al potere, il partito che le rappresentava ha avvertito
subito l'esigenza -restando inalterato il conflitto fondamentale delle
classi- di risolvere tale conflitto allargando i confini geografici dello
sfruttamento (colonialismo), mentre, in politica interna, il partito
(democratico) avvertiva l'esigenza di affermare una durissima dittatura, in
virtù della quale s'impedissero nuove sommosse.
Ciò sta a significare che il fallimento dell'idea di democrazia (o di
socialismo), va imputata anche alla scarsa determinazione delle masse, che
spesso preferiscono accontentarsi di ottenere qualche diritto, senza
preoccuparsi di risolvere alla radice il problema della disuguaglianza,
dell'alienazione sociale, dello sfruttamento economico ecc.
Ogniqualvolta le masse di un Paese avanzato rivendicano maggiori diritti,
senza riuscire a realizzare un'effettiva uguaglianza sociale, si ha, presto
o tardi, come minimo, un peggioramento (dovuto al colonialismo) delle
condizioni di vita di qualche Paese più arretrato.
Nell'Europa occidentale la politica è sempre stata concepita in modo
separato dall'etica. Tale separazione probabilmente è dipesa dal fatto che,
vivendo in una società divisa in classi, l'uomo occidentale non può servirsi
della politica per realizzare determinati ideali. Non è che "non voglia", è
che proprio "non può": è il sistema stesso che glielo impedisce. Un politico
che persegue un fine ideale è, per il popolo, un uomo da mettere alla prova,
mentre per il potere conservatore è un cattivo politico, un ingenuo
destinato ad essere sconfitto dal politico opportunista, cioè dal politico
che divide la politica dalla morale e che lotta esclusivamente per il
potere, per la salvaguardia di quel sistema che si preoccuperà di definire
la strategia di tale politico con termini come "realistica", "concreta",
"fondata" ecc.
Gli "ideali" che può perseguire il politico occidentale sono quanto di più
astratto e generico si possa pensare, e il popolo che s'illude di vederlo
agire con coerenza nella prassi, non s'accorge che con questo attendismo
favorisce la progressiva corruzione del politico, che sa di poter agire
senza essere veramente controllato. La politica, in questo senso, smetterà
di essere divisa dalla morale quando il politico smetterà di essere diviso
dalle masse.
Questo discorso vale per tutti i politici di professione, siano essi di
opposizione o di governo. Le astrattezze e le incoerenze si riscontrano
infatti in tutti i partiti, parlamentari e non: spesso anzi quelli che
agiscono fuori delle istituzioni, invece di essere più vicini alle masse,
sono ancora più settari e vittime delle loro ideologie.
Non che i discorsi dei parlamentari siano più comprensibili o più efficaci
dei discorsi estremisti, ma essi per lo meno garantiscono ai ceti più
benestanti una relativa partecipazione al potere, mentre certi partiti o
movimenti extraparlamentari non riescono a garantire neppure un minimo di
coinvolgimento alla lotta per il potere. Oggi è l'istituzione stessa del
partito, a prescindere dal ruolo che ricopre, ad essere alienata e
alienante, proprio perché privo di un movimento di base cui fare
riferimento. Ma molti partiti (o movimenti) extraparlamentari, facendo un
discorso meramente ideologico, non costituiscono alcuna alternativa (si
vedano soprattutto quelli trotschisti, maoisti, bordighiani ecc.).
In Occidente ciò che più conta non sono le idee ma il profitto economico: è
questo che, in ultima istanza, determina ogni scelta politica. Se una forza
politica rifiutasse questo principio, dovrebbe anche rifiutare di fare una
politica meramente parlamentare, poiché il parlamento è un'istituzione
borghese che permette un elevato tenore di vita; mentre se rifiutasse il
profitto svolgendo una politica settaria, resterebbe un'esperienza isolata,
per pochi "eletti".
C'è dunque solo un modo per cercare di anteporre al profitto il valore della
persona, cioè l'interesse dei cittadini a vivere nella giustizia: quello di
fare la politica in stretto contatto con le masse, misurandosi di continuo
con le loro necessità, con i bisogni locali, prima di tutto. Se manca questo
rapporto, qualunque partito, anche il più idealistico, è inesorabilmente
destinato a corrompersi, anche dal punto di vista finanziario.
In tal senso, quanto più i partiti parlano di "questione morale", senza però
voler mettere in discussione i meccanismi che portano la politica a
separarsi dalla morale e il politico dai cittadini, tanto più si deve
pensare ch'essi vivano nella corruzione e che facciano di tale "questione"
un'arma meramente propagandistica.
Il dilemma quindi non è quello se stare dalla parte di Guicciardini o di
Machiavelli, ma quello di come superare il falso principio secondo cui per
fare una buona politica non bisogna tener conto della morale.
Si può affermare un valore in politica e un disvalore in morale e viceversa?
Normalmente lo si fa, da parte sia delle forze regressive che di quelle
progressive. Le prime nascondono la loro politica corrotta temendo d'essere
giudicate negativamente, ed ostentando una coerenza morale che in realtà non
hanno, oppure affermando che la corruzione è di carattere generale, del
"sistema" che va riformato ecc. Le seconde invece subordinano la morale alla
politica, nella convinzione che così sia possibile realizzare meglio anche
la morale.
Come mai le forze conservatrici vincono sempre in questo duello? Come mai le
forse democratiche rischiano di trasformarsi nel loro contrario?
Il fatto è che le forze progressiste difficilmente riescono ad accettare
l'idea che un valore affermato in sede politica possa trasformarsi in un
disvalore in sede morale. La convinzione d'essere nel giusto in sede
politica le porta a credere, in modo quasi automatico, d'esserlo anche in
sede morale. Questo modo di vedere è tipicamente "ideologico", ed è proprio
anche di quei partiti che non professano esplicitamente alcuna ideologia.
Quando l'establishment s'accorge che l'opposizione "progressista" assume
posizioni "anti-morali" (ad es. è favorevole alla violenza di classe, oppure
copre un militante, colpevole di qualche reato, solo per non ledere gli
interessi del partito), diventa relativamente facile, al governo in carica,
dimostrare che anche la posizione politica di quel partito all'opposizione è
antidemocratica.
Le forze progressiste devono dunque arrivare ad adottare il seguente
ragionamento, per essere vincenti: politica e morale si condizionano a
vicenda; ciò che è vero (o legittimo) per l'una lo è anche per l'altra; le
ragioni dell'una sono in relazione a quelle dell'altra. Un qualunque
dualismo porta a danneggiare gli interessi sia della morale che della
politica, poiché trasforma l'uomo in uno strumento da utilizzare per
l'acquisizione (o la conservazione) di un potere.
Paradossalmente oggi siamo arrivati alla conclusione che non è il
perseguimento di un fine politicamente giusto, che può di per sé garantire
la legittimità di quel fine. Occorre la conformità del fine politico ai
valori umani universali, ed una conformità non solo teorica ma anche
pratica. E' sempre preferibile una "piccola" pratica a una "grande" teoria.
Non c'è insomma alcuna tesi politica giusta che non possa essere condivisa
moralmente, e nessuna posizione morale che non possa trovare una
giustificazione politica. Senza questa unità di morale e politica, nessuna
vera rivoluzione sarà veramente efficace, cioè destinata a durare nel tempo.
Gli illusi giudicano politicamente pessimista colui che non crede che il
carisma democratico di singoli uomini politici possa trasformare
qualitativamente il sistema parlamentare borghese, mentre il vero
pessimista, in realtà, è colui che non crede nelle capacità organizzative
delle masse, nella volontà politica della gente comune.
Il vero pessimista è colui che non vuole impegnarsi in una politica che non
sia quella tradizionale, cioè quella dei partiti di sempre, o quella delle
obsolete istituzioni politiche. Questo individuo maschera il proprio
pessimismo nei confronti delle masse con l'illusione nei confronti di
qualche partito che si proclama anti-sistema (ad es. le Leghe). Nel senso
cioè che questo individuo s'illude che un partito, solo perché sta
all'opposizione, possa essere migliore di un partito di governo, o possa
comunque, una volta giunto al potere, governare meglio.
L'illusione sta appunto nel fatto che non si comprende la natura borghese di
questo sistema, che tutto fagocita, strumentalizza e impoverisce. Questa
democrazia è fatta su misura per gli ingenui.
TESTI DI LENIN:
1
I
DOGMATISMO E « LIBERTÀ DI CRITICA »
a) Che cosa significa « libertà di critica »
« Libertà di critica » : questa, incontestabilmente, è la parola d'ordine
più di moda in questo periodo, quella che più frequentemente ricorre nelle
discussioni fra socialisti e democratici di tutti i paesi. A prima vista,
non ci
si può rappresentare niente di più strano di questi solenni richiami di una
delle parti in contesa alla libertà di critica. Possibile che dalle file dei
partiti
avanzati si siano levate delle voci contro quella legge costituzionale che,
nella maggior parte dei paesi europei, garantisce la libertà della scienza e
dell'investigazione scientifica? « Qui gatta ci cova! », si dirà chi,
essendo
estraneo alla discussione e sentendo ripetere ad ogni piè sospinto questa
parola d'ordine di moda, non abbia ancora penetrato l'essenza del dissenso.
« Questa parola d'ordine è evidentemente una di quelle parole convenzionali
che, al pari dei nomignoli, sono legittimate dall'uso e diventano quasi dei
nomi comuni ».
In realtà non è un mistero per nessuno che nella moderna
socialdemocrazia internazionale * si sono formate due tendenze e che la
lotta fra di esse ora si riaccende e arde di fiamma vivissima, ora si calma
e
cova sotto la cenere di imponenti « risoluzioni di tregua». In che cosa
consista la « nuova » tendenza che « critica » il marxismo « vecchio,
dogmatico », Bernstein lo ha detto, e Millerand lo ha dimostrato con
sufficiente precisione.
*A proposito. Nella storia del socialismo moderno è forse un fenomeno unico
e, nel
suo genere, molto consolante, che l'urto delle diverse tendenze in seno al
socialismo si
sia per la prima volta trasformato da nazionale in internazionale. Nei tempi
passati le
dispute tra i lassalliani e gli eisenachiani59, tra i guesdisti e i
possibilisti60, tra i fabiani61
e i socialdemocratici, tra i seguaci della a Libertà del popolo » e i
socialdemocratici
rimanevano dispute puramente nazionali, riflettevano particolarità puramente
nazionali,
si svolgevano, per così dire, su piani diversi. Ai nostri giorni (questo è
già evidente) i
fabiani inglesi, i ministeriali francesi, i bernsteiniani tedeschi, i
critici russi sono tutti
una sola famiglia, si lodano reciprocamente, imparano gli uni dagli altri e
si armano
insieme contro il marxismo « dogmatico ». In questa prima battaglia,
veramente
internazionale, contro l'opportunismo socialista riuscirà la
socialdemocrazia
rivoluzionaria internazionale a rafforzarsi al punto da mettere fine alla
reazione politica
che scià da molto tempo impera in Europa?
La socialdemocrazia deve trasformarsi da partito di rivoluzione sociale
in partito democratico di riforme sociali. Bernstein ha appoggiato questa
rivendicazione politica con tutta una batteria di « nuovi » argomenti e
2
considerazioni abbastanza ben concatenati. Si nega la possibilità di dare un
fondamento scientifico al socialismo e di provare che, dal punto di vista
della concezione materialistica della storia, esso é necessario e
inevitabile; si
nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione,
dell'inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiara
inconsistente il concetto stesso di « scopo finale » e si respinge
categoricamente l'idea della dittatura del proletariato; si nega
l'opposizione
di principio tra liberalismo e socialismo; si nega la teoria della lotta di
classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica,
amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.
L'invocata svolta decisiva dalla socialdemocrazia rivoluzionaria al
socialriformismo borghese é quindi accompagnata da una svolta non meno
decisiva verso la critica borghese di tutte le idee fondamentali del
marxismo.
Ma poiché già da tempo si muoveva contro il marxismo questa critica
dall'alto della tribuna politica e della cattedra universitaria, in
innumerevoli
opuscoli e in una serie di dotti trattati, poiché, da decine di anni, tutta
la
nuova gioventù delle classi colte é stata educata a questa critica, non é
sorprendente che la « nuova » tendenza « critica » nella socialdemocrazia
sia
sorta di colpo in una forma definitiva, come Minerva dal cervello di Giove.
Quanto al contenuto, questa tendenza non ha dovuto né prender forma, né
svilupparsi; essa é stata direttamente trasferita dalla letteratura borghese
nella letteratura socialista.
Inoltre, se la critica teorica di Bernstein e le sue aspirazioni politiche
fossero ancora per taluni poco chiare, i francesi si sono incaricati di dare
una dimostrazione palmare del « nuovo metodo ». La Francia ha confermato
ancora una volta la vecchia reputazione di essere il « paese in cui le lotte
di
classe della storia vennero combattute, più che in qualsiasi altro luogo,
sino
alla soluzione decisiva » (Engels, dalla prefazione all'opera di Marx : Der
18
Brumaire 62). Invece di fare della teoria, i socialisti francesi hanno
agito; la
situazione politica della Francia, più evoluta in senso democratico, ha
permesso loro di passare immediatamente al « bernsteinismo pratico » con
tutte le sue conseguenze. Millerand ha dato un esempio brillante di questo
bernsteinismo pratico. E non per nulla Bernstein e Vollmar si sono
affrettati
a difenderlo e a lodarlo con tanto zelo! Infatti, se la socialdemocrazia in
sostanza non é che il partito delle riforme - e deve avere il coraggio di
riconoscerlo francamente -, un socialista non soltanto ha il diritto di
entrare
in un ministero borghese, ma deve sempre sforzarsi di entrarvi. Se
democrazia significa essenzialmente soppressione del dominio di classe,
perché un ministro socialista non dovrebbe affascinare tutto il mondo
borghese con discorsi sulla collaborazione di classe? Perché non dovrebbe
restare nel ministero anche quando gli eccidi di operai compiuti dai
gendarmi hanno dimostrato, per la centesima e per l'ennesima volta, il veto
carattere della collaborazione democratica delle classi? Perché non dovrebbe
prendere parte personalmente al ricevimento di uno zar che i socialisti
3
francesi oggi non chiamano altrimenti che eroe del knut, della forca e della
deportazione (knouteur, pendeur et déportateur)? E in compenso di questo
abisso di ignominia e di autodenigrazione del socialismo davanti al mondo,
di questo pervertimento della coscienza socialista delle masse operaie -
unica base che possa garantirci la vittoria ci si presentano a suon di
tromba
progetti di riforme miserabili, così miserabili che si é potuto ottenere di
più
dai governi borghesi!
Chi non chiude intenzionalmente gli occhi non può non vedere che la
nuova tendenza « critica » del socialismo non é altro che una nuova varietà
di opportunismo. E se sl giudica la gente non dalla brillante uniforme che
ha
indossato o dal nome di parata che si é data, ma dal modo di agire e dalle
idee che effettivamente propaga, si vedrà chiaramente che la « libertà di
critica » é la libertà della corrente opportunistica nella socialdemocrazia,
la
libertà di trasformare la socialdemocrazia in un partito democratico di
riforme, la libertà di introdurre nel socialismo le idee borghesi e gli
uomini
della borghesia.
La libertà é una grande parola, ma sotto la bandiera della libertà
dell'industria si sono fatte le guerre più brigantesche, sotto la bandiera
della
libertà del lavoro i lavoratori sono stati costantemente derubati. L'impiego
che oggi si fa dell'espressione « libertà di critica » implica lo stesso
falso
sostanziale. Chi fosse effettivamente convinto di aver fatto progredire la
scienza non rivendicherebbe per le nuove concezioni la libertà di coesistere
accanto alle vecchie, ma esigerebbe la sostituzione di queste con quelle.
L'odierno strillare: « Viva la libertà di critica! » ricorda da vicino la
favola
della botte vuota.
Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e
difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da
nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in
virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri
nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal
primo
momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e
preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che
taluni dei
nostri si mettono a gridare: « Andiamo nel pantano! ». E, se si incomincia a
confonderli, ribattono: « Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di
negarci la libertà d'invitarvi a seguire una via migliore? ». Oh, si,
signori, voi
siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete,
anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto é proprio nel
pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri
penati. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate
la grande parola della libertà, perché anche noi siamo « liberi » di andare
dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche
contro coloro che si incamminano verso di esso.
b) I nuovi difensori della « libertà di critica »
4
Ed é questa parola d'ordine (« libertà di critica ») che il Raboceie Dielo
(n. 10), organo estero dell'« Unione dei socialdemocratici russi », ha
lanciato
solennemente in questi ultimi tempi, non come postulato teorico, ma come
rivendicazione politica, come risposta alla domanda
« È possibile l'unione delle organizzazioni socialdemocratiche che
lavorano all'estero? ». « Per una solida unione é necessaria la libertà di
critica » (p. 36).
Da questa dichiarazione sgorgano due conclusioni molto ben definite:
1) il Raboceie Dielo prende sotto la sua protezione la tendenza
opportunistica della socialdemocrazia internazionale nel suo complesso; 2)
il Raboceie Dielo esige la libertà dell'opportunismo nella socialdemocrazia
russa. Esaminiamo queste conclusioni.
La « propensione dell'Iskra e della Zarià a pronosticare la rottura fra la
Montagna e la Gironda della socialdemocrazia internazionale » dispiace «
particolarmente » al Raboceie Dielo *.
*Un confronto fra le due correnti del proletariato rivoluzionario
(rivoluzionaria e
opportunistica) e le due correnti della borghesia rivoluzionaria del secolo
XVIII (giacobina
- « Montagna » - e girondina) venne fatto nell'articolo di fondo del n. 2
dell'Iskra (febbraio
1901). L'autore dell'articolo è Plekhanov. I cadetti, i « biezsaglavzi »63 e
i menscevichi si
compiacciono molto di parlare tuttora di « giacobinismo » all'interno della
socialdemocrazia russa. Però oggi preferiscono tacere... o dimenticare che
Plekhanov
adoperò per la prima volta questo concetto contro l'ala destra della
socialdemocrazia.
[Nota dell'autore all'edizione del 1907 (N. d. R.)].
« Per noi in generale - scrive B. Kricevski, redattore del Raboceie Dielo -
il parlare di
Montagna e di Gironda nelle file della socialdemocrazia rappresenta
un'analogia storica
superficiale, ben singolare quando è dovuta alla penna di un marxista: la
Montagna e la
Gironda non rappresentavano, come può sembrare agli storici ideologici,
temperamenti o
correnti intellettuali diversi, ma differenti classi o strati sociali: media
borghesia da una
parte e piccola borghesia col proletariato dall'altra. Orbene, nel movimento
socialista
contemporaneo non vi é collisione di interessi di classe; in tutte [il
corsivo é di B. K.) le
sue varietà - compresi i bernsteiniani più incalliti - esso è tutto intero
sul terreno degli
interessi di classe del proletariato, della sua lotta di classe per
l'emancipazione politica
ed economica » (PP. 32-33).
Temeraria affermazione! Ignora forse B. Kricevski il fatto, già notato da
molto tempo, che precisamente la larga partecipazione dei ceti « accademici
» al movimento socialista di questi ultimi anni ha causato una così rapida
diffusione del bernsteinismo? E soprattutto, su che cosa si basa il nostro
autore per affermare che anche i « bernsteiniani più incalliti » sono sul
terreno della lotta di classe per l'emancipazione politica ed economica del
proletariato? Lo ignoriamo. Questa difesa decisa dei bernsteiniani più
incalliti non è sostenuta assolutamente da nessun argomento, da nessuna
ragione. L'autore pensa indubbiamente che, avendo egli ripetuto ciò che
questi bernsteiniani più incalliti dicono di se stessi, le sue affermazioni
non
abbiano più bisogno di prove. Ma si può immaginare cosa più « superficiale
5
» di un giudizio su tutta una tendenza basato su ciò che dicono di se stessi
coloro che la rappresentano? Si può immaginare cosa più superficiale della
successiva « morale » sulle due vie o sui due tipi diversi e anche
diametralmente opposti di sviluppo del partito (pp.. 34-35 del Raboceie
Dielo)? Vedete, i socialdemocratici tedeschi riconoscono la completa libertà
di critica, i francesi non la riconoscono affatto, e il loro esempio mostra
precisamente tutto il « male dell'intolleranza ».
È precisamente l'esempio di Kricevski - rispondiamo noi - che
dimostra come talora voglia chiamarsi marxista della gente che considera la
storia letteralmente « alla maniera di Ilovaiski » 64. Per spiegare l'unità
del
partito tedesco e lo spezzettamento del partito socialista francese é del
tutto
inutile rovistare nelle particolarità della storia dei due paesi, mettere a
confronto il semiassolutismo militare dell'uno col parlamentarismo
repubblicano dell'altro; è inutile esaminare le conseguenze della Comune in
un paese e delle leggi eccezionali contro i socialisti nell'altro; è inutile
confrontare la vita economica e lo sviluppo economico, ricordare il fatto
che
« lo sviluppo senza esempi della socialdemocrazia tedesca » è stato
accompagnato da una lotta che per energia non ha esempi nella storia del
socialismo, non solo contro gli errori teorici (Mülberger, Dühring *,
socialisti
della cattedra65), ma anche contro gli errori tattici (Lassalle), ecc. ecc.
Tutto
questo è superfluo! I francesi si accapigliano perché sono intolleranti; i
tedeschi sono uniti perché sono dei bravi ragazzi.
* Quando Engels attaccò Dühring, molti rappresentanti della socialdemocrazia
tedesca accettavano le opinioni di quest'ultimo ed Engels fu ripetutamente
accusato di
violenza, di intolleranza, di polemica non da compagni, ecc., persino
pubblicamente al
congresso del partito. Most e consorti proposero (al congresso del 1877) di
non
pubblicare sul Vorwärts gli articoli di Engels perché «non offrivano
interesse per l'enorme
maggioranza dei lettori», e Vahlteich dichiarò che la pubblicazione di
questi articoli aveva
recato gran danno al partito, che anche Dühring aveva reso dei servizi alla
socialdemocrazia: «Dobbiamo utilizzare tutti nell'interesse del partito, e
se i professori
discutono fra di loro, il Vorwärts non deve essere l'arena di queste
dispute» (Vorwärts, n.
65, 6 giugno 1877). Come vedete, anche questo è un esempio della difesa
della « libertà
di critica», e i nostri critici legali, nonché gli opportunisti illegali che
si richiamano così
volentieri all'esempio dei tedeschi, non farebbero male a meditare su questo
esempio.
E osservate che, con l'aiuto di questa incomparabile, profonda
filosofia, si « respinge » un fatto che smentisce completamente tutta la
difesa
dei bernsteiniani. Costoro sono, si o no, sul terreno della lotta di classe
del
proletariato? La questione può essere risolta definitivamente e
inappellabilmente solo dall'esperienza storica. Per conseguenza, ciò che ha
maggior importanza nel caso specifico é proprio (esempio della Francia, del
solo paese dove i bernsteiniani hanno tentato di reggersi sulle gambe per
conto loro, fra gli applausi calorosi dei loro colleghi tedeschi (e, in
parte,
degli opportunisti russi: vedi Raboceie Dielo, n. 2-3, pp. 83-84). Il
richiamo
all'intransigenza dei francesi,- indipendentemente dal suo valore «
storico »
(nel senso di Nozdrev) - é solo un tentativo di distogliere, con parole
astiose,
l'attenzione da fatti molto sgradevoli.
6
D'altra parte, noi non abbiamo affatto l'intenzione di abbandonare i
tedeschi a Kricevski e agli altri innumerevoli difensori della « libertà di
critica ». Se i « bernsteiniani più incalliti » possono essere ancora
tollerati
nel partito tedesco, ciò avviene soltanto nella misura in cui essi si
sottomettono e alla risoluzione di Hannover66, che respinge categoricamente
gli « emendamenti » di Bernstein, e a quella di Lubecca, che (nonostante
tutta la sua diplomazia) contiene un avvertimento formale a Bernstein. Si
può discutere, dal punto di vista degli interessi del partito tedesco,
quanto
fosse opportuna la diplomazia; se, in questo caso, un cattivo
accomodamento fosse cosa migliore di una buona rissa; si può, in una
parola, essere di diverso parere nel giudicare dell'opportunità di questo o
quel mezzo per respingere il bernsteinismo, ma é innegabile il fatto che il
partito tedesco ha per ben due volte respinto il bernsteinismo. Credere
dunque che l'esempio dei tedeschi confermi la tesi che « i bernsteiniani più
incalliti restano sul terreno della lotta di classe del proletariato per la
sua
emancipazione economica e politica », significa non comprendere niente di
quanto avviene sotto gli occhi di tutti *.
*Bisogna notare che sul problema dei bernsteiniani nel partito tedesco, il
Raboceie
Dielo si é sempre limitato alla nuda esposizione dei fatti « astenendosi »
completamente
dal dare su di essi un giudizio proprio. Cfr., ad esempio il n. 2-3, p. 66,
sul Congresso di
Stoccarda67; tutte le divergenze si riducono alla « tattica », e si costata
solamente che
l'enorme maggioranza é fedele alla tattica rivoluzionaria precedente. Oppure
il n. 4-5, p.
25 e sgg.: una semplice esposizione dei discorsi pronunciati al Congresso di
Hannover
con la citazione della risoluzione di Bebel; l'esposizione e la critica
delle idee di Bernstein
sono nuovamente rinviate (come nel n. 2-3) a un «articolo apposito». Fatto
curioso é che
a p. 33 del n. 4-5 leggiamo: « ... le tendenze esposte da Bebel sono seguite
dall'enorme
maggioranza del congresso » e un po' più avanti: « ... David ha difeso le
idee di
Bernstein... Prima di tutto ha tentato di dimostrare che... Bernstein e i
suoi amici
restano tuttavia [sic!] sul terreno della lotta di classe »... Ciò é stato
scritto nel dicembre
1899, e nel settembre 1901 il Raboceie Dielo probabilmente non crede più che
Bebel
abbia ragione e ripete l'opinione di David come fosse sua!
Peggio ancora. Come abbiamo già segnalato, il Raboceie Dielo scende in
campo davanti alla socialdemocrazia russa per reclamare la «libertà di
critica» e difendere il bernsteinismo. A quanto pare, si è convinto che i
nostri e critici » ed i nostri bernsteiniani sono stati ingiustamente
offesi. Ma
quali precisamente? Da chi, dove e quando? E in che cosa è consistita
l'ingiustizia? Su questo il Raboceie Dielo tace e non cita neppure una volta
un critico o un bernsteiniano russo. Non ci resta che scegliere fra le due
ipotesi possibili. O la parte ingiustamente offesa non è altro che lo stesso
Raboceie Dielo (il che è confermato dal fatto che nei due articoli del n. 10
si
parla unicamente delle offese recate dalla Zarià e dall'Iskra al Raboceie
Dielo), e allora come spiegare questa stranezza che il Raboceie Dielo, il
quale
ha sempre ostinatamente respinto ogni solidarietà con il bernsteinismo, non
abbia potuto difendersi se non prendendo la parola in difesa dei « più
incalliti bernsteiniani » è della libertà di critica? Oppure sono stati
7
ingiustamente offesi dei terzi, e allora quali possono essere i motivi per
cui
essi non vengono nominati?
Noi vediamo, dunque, che il Raboceie Dielo continua il giuoco a
rimpiattino che gli è abituale (come dimostreremo più avanti) da quando
esiste. Notate inoltre questa prima applicazione pratica della famosa «
libertà di critica ». Praticamente, questa libertà si riduce non soltanto
all'assenza di ogni critica, ma all'assenza di ogni giudizio indipendente.
Lo
stesso Raboceie Dielo che tace, come di una malattia segreta (secondo la
giusta espressione di Starover), del bernsteinismo russo, propone di guarire
questa malattia ricopiando puramente e semplicemente l'ultima ricetta
tedesca contro la varietà tedesca di questa malattia! Invece della libertà
di
critica, l'imitazione servile... peggio ancora, l'imitazione scimmiesca!
L'unitario contenuto politico-sociale dell'odierno opportunismo
internazionale si manifesta in un modo o nell'altro, a seconda delle
particolarità nazionali. In un paese, il gruppo degli opportunisti si è
raccolto
da molto tempo intorno ad una sua bandiera particolare; nell'altro, gli
opportunisti, sdegnosi della teoria, fanno praticamente la politica dei
radicalsocialisti; in un terzo, alcuni membri del partito rivoluzionario
sono
passati nel campo dell'opportunismo e si I sforzano di raggiungere i loro
fini
non già attraverso una lotta aperta per i principi e la nuova tattica, ma
attraverso una corruzione graduale, impercettibile e, per tosi dire,
impunibile, del loro partito; in un quarto, transfughi dello stesso genere
adoperano gli stessi metodi nelle tenebre della schiavitù politica e quando
esistono rapporti reciproci assolutamente originali fra l'azione « legale »
e
l'azione « illegale », ecc. Parlare della « libertà di critica » e della
libertà del
bernsteinismo come della condizione per l'unione dei socialdemocratici
russi, senza esaminare come precisamente si é manifestato e quali frutti
particolari ha dato il bernsteinismo russo, significa parlare per non dir
niente.
Cercheremo noi stessi di dire brevemente ciò che il Raboceie Dielo non
ha voluto dire (o forse non ha saputo nemmeno comprendere).
c) La critica. in Russia
La particolarità fondamentale della Russia, quanto al problema che ci
interessa, sta nel fatto che l'inizio stesso del movimento operaio spontaneo
da un lato e della svolta del pensiero sociale d'avanguardia verso il
marxismo dall'altro lato sono stati contrassegnati dall'anione di elementi
manifestamente eterogenei sotto una bandiera comune e per la lotta contro
un comune nemico (concezioni politiche e sociali superate). Vogliamo
parlare della luna di miele del « marxismo legale ». Fu questo un fenomeno
assolutamente originale, alla possibilità stessa del quale nessuno avrebbe
potuto credere negli anni ottanta o all'inizio degli anni novanta. In un
paese
autocratico, dove la stampa é completamente asservita, in un'epoca di
8
reazione politica spietata, la quale reprime anche le minime manifestazioni
di malcontento e di protesta politica, improvvisamente si fa strada, in una
letteratura sottoposta a censura, la teoria del marxismo rivoluzionario,
esposta in linguaggio esopico, ma comprensibile a tutti gli « interessati ».
II
governo si era abituato a considerare come pericolosa soltanto la teoria dei
seguaci della « Volontà del popolo » (rivoluzionari), senza osservarne, come
abitualmente avviene, l'evoluzione interna e rallegrandosi di ogni critica
diretta contro di essa. Prima che il governo se ne fosse accorto, prima che
il
pesante esercito dei censori e dei gendarmi avesse scoperto il nuovo nemico
e gli si fosse precipitato addosso, passò non poco tempo (non poco per noi
russi). E durante questo tempo si pubblicarono, una dopo l'altra, opere
marxiste, si fondarono riviste e i giornali marxisti, contagiosamente tutti
diventavano marxisti, i marxisti venivano adulati, ai marxisti si faceva la
corte, gli editori erano entusiasti dello smercio straordinariamente rapido
dei libri marxisti. E' ben comprensibile che fra i neofiti marxisti,
circonfusi
da questa aureola, si trovasse più di uno « scrittore montato in
superbia »68
...
Oggi si può parlare di questo periodo con serenità, come di una cosa
passata. Nessuno ignora che l'effimera fioritura' del marxismo alla
superficie della nostra letteratura provenne dall'alleanza di elementi
estremisti con elementi molto moderati. Questi ultimi erano, in fondo, dei
democratici borghesi, e a questa conclusione (che fu confermata all'evidenza
dalla loro ulteriore evoluzione « critica ») qualcuno era giunto fin da
quando
l'« alleanza » era ancora intatta *.
*Alludo qui all'articolo di Tulin contro Struve [cfr., nella presente
edizione, voi- I,
PP. 341-529. - N. d. R.], scritto sulla traccia di una conferenza intitolata
Riflessi del
marxismo nella letteratura borghese. [Nota dell'autore all'edizione del 1907
(N. d. R.)].
Ma se é così , su chi ricade la responsabilità principale dell'ulteriore «
confusione », se non precisamente sui socialdemocratici rivoluzionari che
hanno concluso quest'alleanza coi futuri « critici »? Questa domanda,
seguita da una risposta affermativa, si sente talora formulare da gente che
considera le cose in modo eccessivamente rigido. Questa gente ha
assolutamente torto. Soltanto chi non ha fiducia in se stesso può aver
paura di stringere alleanze temporanee anche con elementi incerti. Nessun
partito politico potrebbe esistere senza tali alleanze. Orbene, l'alleanza
coi
marxisti legali fu in certo qual modo la prima alleanza veramente politica
della socialdemocrazia russa. Grazie a quell'alleanza si ottenne una
vittoria
straordinariamente rapida sul populismo e una diffusione prodigiosa delle
idee marxiste (per quanto in forma volgarizzata). Inoltre, quell'alleanza
non
fu affatto conclusa senza « condizioni ». Prova ne sia la raccolta marxista
Documenti sullo sviluppo economico della Russia69, data alle fiamme nel
1895 dalla censura. Se l'accordo coi marxisti legali per la letteratura può
essere paragonato a, un'alleanza politica, questa raccolta può essere
paragonata a un contratto politico.
9
La rottura naturalmente non avvenne per il fatto che gli « alleati »
dimostrarono di essere dei democratici borghesi. A1 contrario, i
rappresentanti di questa corrente sono per la socialdemocrazia degli alleati
naturali e desiderabili quando si tratta dei suoi obiettivi democratici, che
vengono messi in primo piano dalla presente situazione della Russia. Ma
condizione necessaria di tale alleanza é per i socialisti la piena
possibilità di
svelare alla classe operaia che i suoi interessi e quelli della borghesia
sono
opposti, ostili. Il bernsteinismo, invece, e la tendenza « critica » a cui
si é
contagiosamente convertita la maggioranza dei marxisti legali eliminavano
questa possibilità e pervertivano la coscienza socialista, svilendo il
marxismo, predicando la teoria dell'attenuazione degli antagonismi sociali,
dichiarando che l'idea della rivoluzione sociale e della dittatura del
proletariato é insensata, riducendo il movimento operaio e la lotta di
classe
a un gretto tradunionismo e alla lotta « realista » per piccole riforme
graduali. Ciò equivaleva, da parte della democrazia borghese, a negare il
diritto all'indipendenza del socialismo e, quindi, il suo diritto
all'esistenza;
ciò significava, in pratica, sforzarsi di trasformare il movimento operaio,
ai
suoi albori, in un'appendice del movimento liberale.
Naturalmente, in queste condizioni la rottura era necessaria. Ma la
particolarità « originale » della Russia si espresse nel fatto che questa
rottura significò l'esclusione pura e semplice dei socialdemocratici dal
campo della letteratura « legale », la più accessibile a tutti e la più
largamente diffusa. Di essa fecero la loro fortezza gli « ex marxisti »,
raggruppati sotto la « bandiera della critica », che avevano quasi ottenuto
il
monopolio della « denigrazione » del marxismo. Le parole d'ordine « contro
l'ortodossia » e « viva la libertà di critica » (ripetute ora dal Raboceie
Dielo)
diventarono subito di moda e s'imposero persino alla censura ed ai
gendarmi, come dimostrano, fra l'altro, le tre edizioni russe del libro del
famoso Bernstein (famoso alla maniera di Erostrato) e il fatto che le opere
di
Bernstein, del signor Prokopovic, ecc. sono raccomandate da Zubatov
(Iskra, n. 10). I socialdemocratici avevano allora il compito di combattere
la
nuova corrente, compito già di per sé difficile e reso incredibilmente più
difficile dagli ostacoli puramente esteriori. Ma questa corrente non si
limitava alla letteratura. La svolta verso la « critica » coincideva con la
propensione dei militanti socialdemocratici per I'« economismo ».
Il modo come sorsero e si rafforzarono i rapporti e l'interdipendenza fra
la critica legale e l'economismo illegale é una questione interessante, che
potrebbe costituire argomento di un articolo apposito. Basterà notare qui la
incontestabile esistenza del legame che li unisce. Il famoso « Credo » non
acquistò tanta e tosi meritata celebrità se non perché esprimeva
apertamente questo legame e metteva in rilievo la tendenza politica
fondamentale dell'« economismo » : gli operai debbono condurre una lotta
economica (o più esattamente tradunionista, che abbraccia anche la politica
specificamente operaia), gli intellettuali marxisti debbono fondersi coi
10
liberali per la « lotta » politica. L'attività tradunionista « fra il
popolo » serviva
ad assolvere la prima metà del compito; la critica legale ne realizzava la
seconda metà. Questa dichiarazione fu un'arma così preziosa contro
l'economismo, che se il « Credo » non fosse esistito, sarebbe valsa la pena
di
inventarlo.
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