La prefazione del 1891 alla "Guerra civile" di Marx
Nella sua prefazione alla terza edizione della Guerra civile in Francia -
prefazione in data del 18 marzo 1891, pubblicata per la prima volta nella
rivista Neue Zeit -, accanto ad alcune interessanti riflessioni incidentali
sui problemi connessi all'atteggiamento nei confronti dello Stato, Engels dà
un riassunto meravigliosamente incisivo degli insegnamenti della Comune.
Questo riassunto, - arricchito di tutta l'esperienza del periodo di
vent'anni che separa il suo autore dalla Comune, e in particolar modo
rivolto contro la "fede superstiziosa nello Stato" tanto diffusa in
Germania, - può a buon diritto essere considerato come l'ultima parola del
marxismo sulla questione in esame.
In Francia, dopo ogni rivoluzione, - osserva Engels, - gli operai erano
armati; "per i borghesi che si trovavano ancora al governo dello Stato il
disarmo degli operai era quindi il primo comandamento. Ecco quindi sorgere
dopo ogni rivoluzione vinta dagli operai una nuova lotta, la quale finisce
con la disfatta degli operai".
Questo bilancio dell'esperienza delle rivoluzioni borghesi è tanto succinto
quanto eloquente. Il fondo del problema - come, fra l'altro, nella questione
dello Stato (la classe oppressa dispone di armi?) - è individuato in modo
ammirevole. Ed è proprio questo fondo che tanto i professori influenzati
dall'ideologia borghese quanto i democratici della piccola borghesia eludono
cosí spesso. Nella rivoluzione russa del 1917 fu al "menscevico" Tsereteli,
"marxista anche lui", che toccò l'onore (l'onore d'un Cavaignac) di svelare
inavvertitamente questo segreto delle rivoluzioni borghesi. Nel suo
"storico" discorso dell'11 giugno, Tsereteli ebbe l'imprudenza di annunziare
che la borghesia era decisa a disarmare gli operai di Pietrogrado, decisione
ch'egli naturalmente presentò anche come propria e, in generale, come una
necessità "di Stato"!
Lo storico discorso di Tsereteli, pronunciato l'11 giugno, sarà certamente
per tutti gli storici della rivoluzione del 1917 una delle migliori
illustrazioni del passaggio del blocco dei socialisti-rivoluzionari e dei
menscevichi, con a capo il signor Tsereteli, dalla parte della borghesia,
contro il proletariato rivoluzionario.
Un'altra riflessione incidentale di Engels, anch'essa legata al problema
dello Stato, riguarda la religione. E' noto che la socialdemocrazia tedesca,
a mano a mano che si incancreniva e diventava sempre più opportunista,
scivolava con sempre maggiore frequenza verso una interpretazione erronea e
filistea della celebre formula: "La religione è un affare privato". Questa
formula infatti era interpretata come se, anche per il partito del
proletariato rivoluzionario, la questione della religione fosse un affare
privato!! Contro questo completo tradimento del programma rivoluzionario del
proletariato si levò Engels, che, non potendo ancora, nel 1891, osservare
nel suo partito se non dei debolissimi germi di opportunismo, si esprimeva
quindi con grande prudenza:
"Come nella Comune vi erano quasi solo operai o rappresentanti riconosciuti
degli operai, così anche le sue deliberazioni avevano una decisa impronta
proletaria. O decretavano riforme che la borghesia repubblicana aveva
trascurato soltanto per viltà, ma che rappresentavano una base necessaria
per la libertà d'azione della classe operaia, come l'attuazione del
principio che di fronte allo Stato la religione non è che un semplice affare
privato; oppure emettevano deliberazioni nell'interesse diretto della classe
operaia, che talvolta incidevano anche profondamente sull'antico ordinamento
sociale...".
E' con intenzione che Engels ha sottolineato le parole "di fronte allo
Stato"; in tal modo egli attaccava in pieno l'opportunismo tedesco che
dichiarava la religione un affare privato di fronte al partito e abbassava
così il partito del proletariato rivoluzionario al livello del più volgare
piccolo-borghese "libero pensatore", che è disposto ad ammettere che si
possa rimanere fuori della religione, ma rinnega il compito del partito di
lottare contro la religione, quest'oppio che inebetisce il popolo.
Il futuro storico della socialdemocrazia tedesca, ricercando le prime fonti
della sua vergognosa bancarotta nel 1914, troverà numerosi documenti
interessanti su questa questione, a cominciare dalle dichiarazioni evasive
fatte nei suoi articoli dal capo ideologico del partito, Kautsky,
dichiarazioni che spalancavano le porte all'opportunismo, per finire con
l'atteggiamento del partito verso il Los-von-Kirche-Bewegung (movimento per
la separazione dalla Chiesa) nel 1913.
Ma vediamo come, vent' anni dopo la Comune, Engels riassumeva gli
insegnamenti ch'essa - aveva dato al proletariato in lotta.
Ecco gli insegnamenti che Engels poneva in primo piano:
"...Proprio l'opprimente potere del precedente governo centralizzato, il
potere dell' esercito della polizia politica, della burocrazia, che
Napoleone aveva creato nel 1798 e che da allora in poi ogni nuovo governo
aveva accettato come uno strumento ben accetto e aveva sfruttato contro i
suoi avversari, proprio quel potere doveva cadere dappertutto, come già era
caduto a Parigi.
"La Comune dovette riconoscere sin dal principio che la classe operaia, una
volta giunta al potere, non può continuare ad amministrare con la vecchia
macchina statale; che la classe operaia, per non perdere di nuovo il potere
appena conquistato, da una parte deve eliminare tutto il vecchio macchinario
repressivo già sfruttato contro di essa, e dall'altra deve assicurarsi
contro i propri deputati e impiegati, dichiarandoli revocabili senza alcuna
eccezione e in ogni momento...".
Engels sottolinea ancora una volta che non solo in una monarchia, ma anche
nella repubblica democratica, lo Stato rimane lo Stato; conserva cioè la sua
caratteristica fondamentale: trasformare i funzionari, da "servitori della
società" e suoi organi, in padroni della società.
"...Contro questa trasformazione, inevitabile finora in tutti gli Stati,
dello Stato e degli organi dello Stato da servitori della società in padroni
della società, la Comune applicò due mezzi infallibili. In primo luogo,
assegnò elettivamente tutti gli impieghi amministrativi, giudiziari,
educativi, per suffragio generale degli interessati e con diritto costante
di revoca da parte di questi. In secondo luogo, per tutti i servizi, alti e
bassi, pagò solo lo stipendio che ricevevano gli altri lavoratori. Il più
alto assegno che essa pagava era di 6.000 franchi. In questo modo era posto
un freno sicuro alla caccia agli impieghi e al carrierismo, anche senza i
mandati imperativi per i delegati ai Corpi rappresentativi, che furono
aggiunti per soprappiù..."
Engels affronta qui l'interessante limite, passato il quale la democrazia
conseguente da un lato si trasforma in socialismo, e dall'altro richiede il
socialismo. Infatti, per sopprimere lo Stato è necessario trasformare le
funzioni del servizio statale in operazioni di controllo e di registrazione,
talmente semplici da essere alla portata dell'immensa maggioranza della
popolazione e, in seguito, di tutta la popolazione. Ma per sopprimere
completamente il carrierismo, bisogna che un impiego statale "onorifico",
anche se non retribuito, non possa servire di passerella per raggiungere
impieghi molto lucrativi nelle banche e nelle società anonime, come
sistematicamente avviene in tutti i paesi capitalistici, anche i più liberi.
Engels non cade però nell'errore che commettono, ad esempio, certi marxisti
a proposito del diritto delle nazioni all'autodecisione: in regime
capitalistico, essi dicono, questo diritto è irrealizzabile, e in regime
socialista diventa superfluo. Questo ragionamento, che vorrebbe essere
spiritoso, ma è soltanto sbagliato, potrebbe essere applicato a qualsiasi
istituzione democratica, compreso il modesto stipendio assegnato ai
funzionari, poichè un sistema democratico rigorosamente conseguente non è
possibile in regime capitalistico, e in regime socialista ogni democrazia
finirà per estinguersi.
E' un sofisma del genere della vecchia barzelletta: in quel momento l'uomo
che perde ad uno ad uno i suoi capelli può essere considerato calvo?.
Sviluppare la democrazia fino in fondo, ricercare le forme di questo
sviluppo, metterle alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno
dei problemi fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale. Preso a
sé, nessun sistema democratico, qualunque esso sia, darà il socialismo; ma
nella vita il sistema democratico non sarà mai "preso a sé", sarà "preso
nell'insieme" ed eserciterà la sua influenza anche sull'economia di cui
stimolerà la trasformazione, mentre esso stesso subirà l'influenza dello
sviluppo economico, ecc. E' questa la dialettica della storia viva.
Engels continua:
"...Questa distruzione violenta [Sprengung] del potere dello Stato esistente
e la sostituzione ad esso di un nuovo potere veramente democratico, è
descritta esaurientemente nel terzo capitolo della Guerra civile. Era però
necessario ritornar qui brevemente sopra alcuni tratti di essa, perchè
proprio in Germania la fede superstiziosa nello Stato si è trasportata dalla
filosofia nella coscienza generale della borghesia e perfino di molti
operai. Secondo la concezione filosofica, lo Stato è "la realizzazione
dell'Idea" ovvero il regno di Dio in terra tradotto in linguaggio
filosofico, il campo nel quale la verità e la giustizia eterne si realizzano
o si devono realizzare. Di qui una superstiziosa venerazione dello Stato e
di tutto ciò che ha relazione con lo Stato, che subentra tanto più
facilmente in quanto si è assuefatti fin da bambini a immaginare che gli
affari comuni a tutta la società non possono venir curati altrimenti che
come sono stati curati fino a quel momento cioè per mezzo dello Stato e dei
suoi ben pagati funzionari. E si crede è liberati dalla fede nella monarchia
ereditata e si giura nella repubblica democratica. Però lo Stato non è in
realtà che una macchina per l'oppressione di una classe da parte di un'
altra, nella repubblica democratica non meno che nella monarchia; e nel
migliore dei casi è un male che viene lasciato in eredità al proletariato
riuscito vittorioso nella lotta per il dominio di classe i cui lati peggiori
il proletariato non potrà fare a meno di amputare subito, nella misura del
possibile come fece la Comune, finchè una generazione, cresciuta in
condizioni sociali nuove, libere, non sia in grado di scrollarsi dalle
spalle tutto il ciarpame statale".
Engels metteva in guardia i tedeschi perchè non dimenticassero,
nell'eventualità della sostituzione della monarchia con la repubblica, i
princípi del socialismo sul problema dello Stato in generale. Questi suoi
avvertimenti appaiono oggi come una lezione impartita direttamente ai
signori Tsereteli e Cernov, che hanno manifestato, nella loro pratica di
"coalizione", la loro fede superstiziosa nello Stato e la loro superstiziosa
venerazione verso di esso!
Ancora due osservazioni: 1) Quando Engels dice che nella repubblica
democratica "non meno" che nella monarchia, lo Stato rimane "una macchina
per l'oppressione di una classe da parte di un'altra", ciò non significa
affatto che la forma d'oppressione sia indifferente per il proletariato,
come "insegnano" certi anarchici. Una forma più larga, più libera, più
aperta, di lotta di classe e di oppressione di classe facilita immensamente
al proletariato la sua lotta per la soppressione delle classi in generale.
2) Perchè soltanto una nuova generazione sarà in grado di scrollarsi dalle
spalle tutto il ciarpame statale? Questo problema è connesso a quello del
superamento della democrazia, del quale parleremo ora.
6. Engels sul superamento della democrazia
Engels ha avuto modo di pronunciarsi su questo punto trattando della
inesattezza scientifica della denominazione "socialdemocratico".
Nella prefazione alla raccolta dei suoi articoli degli anni 1870 su diversi
temi, dedicati in prevalenza ad argomenti "internazionali" (Internatiolanes
aus dem Volkstaat), - prefazione in data 3 gennaio 1894, cioè scritta un
anno e mezzo prima della sua morte, - Engels scrive che in tutti i suoi
articoli egli ha impiegato la parola "comunista" e non "socialdemocratico",
perchè a quell'epoca si chiamavano socialdemocratici i proudhoniani in
Francia e i lassalliani in Germania.
"...Per Marx come per me, continua Engels, - era dunque assolutamente
impossibile adoperare un'espressione così elastica per definire la nostra
posizione. Oggi la cosa è diversa, e questa parola" ("socialdemocratico")
"può forse andare [mag passieren] per quanto rimanga imprecisa [unpassend,
impropria] per un partito il cui programma economico non è semplicemente
socialista in generale, ma veramente comunista; per un partito il cui scopo
politico finale è la soppressione di ogni Stato e, quindi, di ogni
democrazia. Del resto, i veri (il corsivo è di Engels) partiti politici non
hanno mai una denominazione che loro convenga perfettamente; il partito si
sviluppa, la denominazione rimane."
Il dialettico Engels nel declino dei suoi giorni rimane fedele alla
dialettica. Marx ed io, egli dice, avevamo per il partito un nome
eccellente, scientificamente esatto, ma allora non c'era un vero partito,
cioè un partito proletario di massa. Ora (fine del secolo decimonono) esiste
un vero partito, ma la sua denominazione è scientificamente inesatta. Non
importa, essa "può andare" purchè il partito si sviluppi, purchè
l'inesattezza scientifica del suo nome non gli sfugga e non gli impedisca di
svilupparsi in una giusta direzione!
Qualche burlone potrebbe forse venirci a consolare, noi bolscevichi, alla
maniera di Engels: noi abbiamo un vero partito; esso si sviluppa nel
migliore dei modi: dunque il nome assurdo e barbaro di "bolscevico", che non
esprime assolutamente nulla se non il fatto puramente accidentale che al
congresso di Bruxelles-Londra del 1903 avemmo la maggioranza, può anch'esso
"andare"... Forse, ora che le persecuzioni del nostro partito da parte dei
repubblicani e della democrazia piccolo-borghese "rivoluzionaria" nel
luglio-agosto 1917, hanno reso così popolare, così onorevole il titolo di
bolscevico e hanno inoltre confermato l'immenso progresso storico del nostro
partito nel corso del suo sviluppo reale, io stesso esiterei forse a
proporre, come in aprile, di cambiare il nome del nostro partito. Proporrei
forse ai compagni un "compromesso": chiamarci Partito comunista,
conservando, fra parentesi, la parola "bolscevico"...
Ma la questione del nome del partito è infinitamente meno importante di
quella dell'atteggiamento del proletariato rivoluzionario verso lo Stato.
Discutendo sullo Stato si cade abitualmente nell'errore contro il quale
Engels mette qui in guardia e che noi abbiamo già prima segnalato di
sfuggita: si dimentica cioè che la soppressione dello Stato è anche la
soppressione della democrazia, e che l'estinzione dello Stato è l'estinzione
della democrazia.
A prima vista questa affermazione pare del tutto strana e incomprensibile:
alcuni potrebbero forse persino temere che noi auspichiamo l'avvento di un
ordinamento sociale in cui non verrebbe osservato il principio della
sottomissione della minoranza alla maggioranza; perché in definitiva che
cos'è la democrazia se non il riconoscimento di questo principio?
No! La democrazia non si identifica con la sottomissione della minoranza
alla maggioranza. La democrazia è uno Stato che riconosce la sottomissione
della minoranza alla maggioranza, cioè l'organizzazione della violenza
sistematicamente esercitata da una classe contro un'altra, da una parte
della popolazione contro l'altra.
Noi ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di
ogni violenza organizzata e sistematica, di ogni violenza esercitata contro
gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l'avvento di un ordinamento
sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della
minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al socialismo, noi abbiamo la
convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi
ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini,
alla sottomissione di un uomo a un altro, di una parte della popolazione a
un'altra, perchè gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni
elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione.
Per mettere in risalto questo elemento di consuetudine, Engels parla della
nuova generazione, "cresciuta in condizioni sociali nuove, libere" e che
sarà "in grado di scrollarsi dalle spalle tutto il ciarpame statale", ogni
forma di Stato, compresa la repubblica democratica.
Per chiarire questo punto dobbiamo analizzare le basi economiche
dell'estinzione dello Stato.
V. Le basi economiche dell'estinzione dello Stato
Lo studio più approfondito di questo problema lo troviamo in Marx, nella sua
Critica del programma di Gotha (lettera a Bracke del 5 maggio 1875,
pubblicata soltanto nel 1891 nella Neue Zeit, IX, l, e di cui apparve una
edizione separata in russo). La parte polemica di questa importante opera,
che contiene la critica del lassallismo, ha lasciato per così dire
nell'ombra la parte positiva, cioè l'analisi della connessione tra lo
sviluppo del comunismo e l'estinzione dello Stato.
l. L'impostazione della questione in Marx
Se si sottopongono a un superficiale confronto la lettera di Marx a Bracke
del 5 maggio 1875 e la lettera del 28 marzo 1875 di Engels a Bebel,
esaminata più sopra, può sembrare che Marx sia molto più "statalista" di
Engels e che la differenza fra le concezioni dei due scrittori sullo Stato
sia molto notevole.
Engels invita Bebel a smetterla con le chiacchiere sullo Stato, a bandire
completamente dal programma la parola "Stato" e a sostituirla con la parola
"Comune"; Engels dichiara persino che la Comune non era più uno Stato nel
senso proprio della parola. Marx invece parla del "futuro Stato della
società comunista", cioè sembra ammettere la necessità dello Stato anche in
regime comunista.
Ma una tale interpretazione sarebbe profondamente errata. Un più attento
esame mostra che le idee di Marx e di Engels sullo Stato e sull'estinzione
dello Stato coincidono perfettamente e che l'espressione di Marx citata si
riferisce appunto all'organizzazione statale in via di estinzione.
Non è possibile evidentemente determinare il momento in cui avverrà questa
futura "estinzione", soprattutto perchè essa sarà inevitabilmente un
processo di lunga durata. L'apparente differenza tra Marx ed Engels si
spiega con la differenza degli argomenti trattati e degli scopi da essi
perseguiti. Engels si propone di dimostrare a Bebel, in modo clamoroso,
incisivo, a grandi linee, tutta l'assurdità dei pregiudizi correnti
(condivisi in gran parte da Lassalle) sullo Stato. Marx sfiora soltanto
questo problema; un altro argomento l'interessa: lo sviluppo della società
comunista.
Tutta la teoria di Marx è l'applicazione al capitalismo contemporaneo della
teoria dell'evoluzione, nella sua forma più conseguente e completa, meditata
e ricca di contenuto. Si comprende quindi che Marx abbia visto il problema
dell'applicazione di questa teoria all'imminente fallimento del capitalismo
e al futuro sviluppo del futuro comunismo.
Su quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro
sviluppo del futuro comunismo?
Sul fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, si sviluppa
storicamente dal capitalismo, è il risultato dell'azione di una forza
sociale prodotta dal capitalismo. In Marx non vi è traccia del tentativo di
inventare delle utopie, di fare vane congetture su quel che non si può
sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe,
per esempio, la questione dell'evoluzione di una nuova specie biologica, una
volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione.
Marx respinge innanzitutto la confusione in cui cade il programma di Gotha
nella questione dei rapporti tra lo Stato e la società.
"...La "società odierna" - egli scrive, - è la società capitalistica, che
esiste in tutti i paesi civili, più o meno libera di aggiunte medioevali,
più o meno modificata dallo speciale svolgimento storico di ogni paese, più
o meno evoluta. Lo "Stato odierno", invece, muta con il confine di ogni
paese. Nel Reich tedesco-prussiano esso è diverso che in Svizzera; in
Inghilterra è diverso che negli Stati Uniti. Lo "Stato odierno " è dunque
una finzione. "
Tuttavia i diversi Stati dei diversi paesi civili, malgrado le loro
variopinte differenze di forma, hanno tutti in comune il fatto che stanno
sul terreno della moderna società borghese, che è soltanto più o meno
evoluta dal punto di vista capitalistico. Essi hanno perciò in comune anche
alcuni caratteri essenziali. In questo senso si può parlare di uno "Stato
odierno", in contrapposto al futuro, in cui la presente radice dello Stato,
la società borghese, sarà perita.
"Si domanda quindi: quale trasformazione subirà lo Stato in una società
comunista? In altri termini: quali funzioni sociali persisteranno ivi
ancora. che siano analoghe alle odierne funzioni statali? A questa questione
si può rispondere solo scientificamente, e componendo migliaia di volte la
parola popolo con la parola Stato non ci si avvicina alla soluzione del
problema neppure di una spanna..."
Avendo così ridicolizzato tutte le chiacchiere sullo "Stato popolare", Marx
mostra come si deve impostare la questione, e avverte che non le si può dare
in qualche modo una risposta scientifica se non basandosi su dati
scientifici solidamente stabiliti.
Il primo punto, stabilito con la massima precisione da tutta la teoria
dell'evoluzione e, in generale, da tutta la scienza - punto che gli utopisti
dimenticavano e che dimenticano gli opportunisti odierni, i quali temono la
rivoluzione sociale - è il seguente: è storicamente certo che fra il
capitalismo e il comunismo dovrà necessariamente esserci uno stadio
particolare o una tappa particolare di transizione.
2. La transizione dal capitalismo al comunismo
"...Tra la società capitalistica e la società comunista, - prosegue Marx, -
vi è il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell'una nell'altra. Ad
esso corrisponde anche un periodo politico di transizione, il cui Stato non
può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato..."
Questa conclusione si basa, in Marx, sull'analisi della funzione che il
proletariato ha nella società capitalistica odierna, sui dati dello sviluppo
di questa società e sulla inconciliabilità degli opposti interessi del
proletariato e della borghesia.
Prima la questione veniva posta in tal modo: per ottenere la sua
emancipazione il proletariato deve rovesciare la borghesia, conquistare il
potere politico, stabilire la sua dittatura rivoluzionaria.
Ora la questione si pone in modo un po' diverso: il passaggio dalla società
capitalistica, che si sviluppa in direzione del comunismo, alla società
comunista è impossibile senza un "periodo politico di transizione", e lo
Stato di questo periodo non può esser altro che la dittatura rivoluzionaria
del proletariato.
Ma qual è l'atteggiamento di questa dittatura verso la democrazia?
Abbiamo visto che il Manifesto del Partito comunista pone semplicemente uno
accanto all'altro i due concetti: "trasformazione del proletariato in classe
dominante" e "conquista della democrazia". Tutto ciò che precede permette di
determinare nel modo più preciso le modificazioni che subirà la democrazia
nella transizione dal capitalismo al comunismo.
La società capitalistica, considerata nelle sue condizioni di sviluppo più
favorevoli, ci offre nella repubblica democratica una democrazia più o meno
completa. Ma questa democrazia è sempre limitata nel ristretto quadro dello
sfruttamento capitalistico, e rimane sempre, in fondo, una democrazia per la
minoranza, per le sole classi possidenti, per i soli ricchi. La libertà,
nella società capitalistica, rimane sempre più o meno quella che fu nelle
repubbliche dell'antica Grecia: la libertà per i proprietari di schiavi. Gli
odierni schiavi salariati. in conseguenza dello sfruttamento capitalistico,
sono talmente soffocati dal bisogno e dalla miseria, che "hanno altro pel
capo che la democrazia", "che la politica", sicchè, nel corso ordinario e
pacifico degli avvenimenti, la maggioranza della popolazione si trova
tagliata fuori dalla vita politica e sociale.
L'esattezza di questa affermazione è confermata. forse con la maggiore
evidenza, dall'esempio della Germania, perchè è proprio in questo paese che
la legalità costituzionale si mantenne, per quasi mezzo secolo (1871-1914),
con una costanza e una durata sorprendenti. e durante questo periodo la
socialdemocrazia seppe, molto più che negli altri paesi, "usufruire della
legalità" e organizzare in un partito politico una parte di operai molto più
grande che in qualsiasi altro paese del mondo.
Quale è dunque questa parte - la più elevata fra quelle che si osservano
nella società capitalistica - degli schiavi salariati politicamente
coscienti e attivi? Un milione di membri del partito socialdemocratico su 15
milioni di operai salariati! Tre milioni di operai organizzati nei sindacati
su 15 milioni di operai!
Democrazia per un'infima minoranza, democrazia per i ricchi: questo è il
sistema democratico della società capitalistica. Se osserviamo più da vicino
il meccanismo della democrazia capitalistica, si vedranno sempre dovunque -
sia nei "piccoli" (i pretesi piccoli) particolari della legislazione
elettorale (durata della residenza, esclusione delle donne, ecc.), sia nel
funzionamento delle istituzioni rappresentative, sia negli ostacoli di fatto
al diritto di riunione (gli edifici pubblici non sono per i "poveri"!), sia
nell' organizzazione puramente capitalistica della stampa quotidiana, ecc. -
si vedranno restrizioni su restrizioni al sistema democratico. Queste
restrizioni, eliminazioni, esclusioni, intralci per i poveri sembrano
piccoli soprattutto a coloro che non hanno mai conosciuto il bisogno e non
hanno mai avvicinato le classi oppresse né la vita delle masse che le
costituiscono (e sono i nove decimi, se non i novantanove centesimi dei
pubblicisti e degli uomini politici borghesi), ma, sommate, queste
restrizioni escludono i poveri dalla politica e dalla partecipazione attiva
alla democrazia.
Marx afferrò perfettamente questa caratteristica essenziale della democrazia
capitalistica, quando, nella sua analisi dell'esperienza della Comune,
disse: agli oppressi è permesso di decidere, una volta ogni qualche anno,
quale fra i rappresentanti della classe dominante li rappresenterà e li
opprimerà in Parlamento!
Ma l'evoluzione da questa democrazia capitalistica - inevitabilmente
ristretta, che respinge in modo dissimulato i poveri, e quindi profondamente
ipocrita e bugiarda - "a una democrazia sempre più perfetta", non avviene
così semplicemente, direttamente e senza scosse come immaginano i professori
liberali e gli opportunisti piccolo-borghesi. No. Lo sviluppo progressivo,
cioè l'evoluzione verso il comunismo, avviene passando per la dittatura del
proletariato e non può avvenire altrimenti, poichè non v'è nessun'altra
classe e nessun altro mezzo che possa spezzare la resistenza dei capitalisti
sfruttatori.
Ora, la dittatura del proletariato, vale a dire l'organizzazione
dell'avanguardia degli oppressi in classe dominante per reprimere gli
oppressori, non può limitarsi a un puro e semplice allargamento della
democrazia. Insieme a un grandissimo allargamento della democrazia, divenuta
per la prima volta una democrazia per i poveri, per il popolo, e non una
democrazia per i ricchi, la dittatura del proletariato apporta una serie di
restrizioni alla libertà degli oppressori, degli sfruttatori, dei
capitalisti. Costoro noi li dobbiamo reprimere, per liberare l'umanità dalla
schiavitù salariata; si deve spezzare con la forza la loro resistenza; ed è
chiaro che dove c'è repressione, dove c'è violenza, non c'è libertà, non c'è
democrazia.
Engels lo ha espresso in modo mirabile nella sua lettera a Bebel scrivendo,
come il lettore ricorda, che "finchè il proletariato ha ancora bisogno dello
Stato, ne ha bisogno non nell'interesse della libertà, ma nell'interesse
dell'assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare
di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere".
Democrazia per l'immensa maggioranza del popolo e repressione con la forza,
vale a dire esclusione dalla democrazia, per gli sfruttatori, gli oppressori
del popolo: tale è la trasformazione che subisce la democrazia nella
transizione dal capitalismo al comunismo.
Soltanto nella società comunista, quando la resistenza dei capitalisti è
definitivamente spezzata, quando i capitalisti sono scomparsi e non esistono
più classi (non v'è cioè più distinzione fra i membri della società secondo
i loro rapporti coi mezzi sociali di produzione), soltanto allora "lo Stato
cessa di esistere e diventa possibile parlare di libertà". Soltanto allora
diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente
senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia a
estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù
capitalistica, dagli innumerevoli orrori, barbarie, assurdità, ignominie
dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a
osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute
da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza
violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale
apparato di costrizione che si chiama Stato.
L'espressione: "lo Stato si estingue" è molto felice in quanto esprime al
tempo stesso la gradualità del processo e la sua spontaneità. Soltanto
l'abitudine può produrre un tale effetto, e senza dubbio lo produrrà, poichè
noi osserviamo attorno a noi milioni di volte con quale facilità gli uomini
si abituano a osservare le regole per loro indispensabili della convivenza
sociale, quando non vi è sfruttamento e quando nulla provoca l'indignazione,
la protesta, la rivolta e rende necessaria la repressione.
La società capitalistica non ci offre dunque che una democrazia tronca,
miserabile, falsificata, una democrazia per i soli ricchi, per la sola
minoranza. La dittatura del proletariato, periodo di transizione verso il
comunismo, istituirà per la prima volta una democrazia per il popolo, per la
maggioranza, accanto alla repressione necessaria della minoranza, degli
sfruttatori. Solo il comunismo è in grado di dare una democrazia realmente
completa; e quanto più sarà completa, tanto più rapidamente diventerà
superflua e si estinguerà da sé.
In altri termini: noi abbiamo, nel regime capitalistico, lo Stato nel vero
senso della parola, una macchina speciale per la repressione di una classe
da parte di un'altra e per di più della maggioranza da parte della
minoranza. Si comprende come per realizzare un simile compito - la
sistematica repressione della maggioranza degli sfruttati da parte di una
minoranza di sfruttatori - siano necessarie una crudeltà e una ferocia di
repressione estreme: fiumi di sangue attraverso cui l'umanità prosegue il
suo cammino, sotto il regime della schiavitù, della servitù della gleba e
del lavoro salariato.
In seguito, nel periodo di transizione dal capitalismo al comunismo, la
repressione è ancora necessaria, ma è già esercitata da una maggioranza di
sfruttati contro una minoranza di sfruttatori. Lo speciale apparato, la
macchina speciale di repressione, lo "Stato", è ancora necessario, ma è già
uno Stato transitorio, non più lo Stato propriamente detto, perchè la
repressione di una minoranza di sfruttatori da parte della maggioranza degli
schiavi salariati di ieri è cosa relativamente così facile, semplice e
naturale, che costerà molto meno sangue di quello che è costata la
repressione delle rivolte di schiavi, di servi e di operai salariati,
costerà molto meno caro all'umanità. Ed essa è compatibile con una
democrazia che abbraccia una maggioranza della popolazione così grande che
comincia a scomparire il bisogno di una macchina speciale di repressione.
Gli sfruttatori non sono naturalmente in grado di reprimere il popolo senza
una macchina molto complicata destinata a questo compito; il popolo, invece,
può reprimere gli sfruttatori anche con una "macchina" molto semplice, quasi
senza "macchina", senza apparato speciale, mediante la semplice
organizzazione delle masse in armi (come - diremo anticipando - i Soviet dei
deputati operai e soldati).
Infine, solo il comunismo rende lo Stato completamente superfluo, perchè non
c'è da reprimere nessuno, "nessuno" nel senso di classe, nel senso di lotta
sistematica contro una parte determinata della popolazione. Noi non siamo
utopisti e non escludiamo affatto che siano possibili e inevitabili eccessi
individuali, come non escludiamo la necessità di reprimere tali eccessi. Ma
anzitutto, per questo non c'è bisogno d'una macchina speciale, di uno
speciale apparato di repressione; lo stesso popolo armato si incaricherà di
questa faccenda con la stessa semplicità, con la stessa facilità con cui una
qualsiasi folla di persone civili, anche nella società attuale, separa delle
persone in rissa o non permette che venga usata la violenza contro una
donna. Sappiamo inoltre che la principale causa sociale degli eccessi che
costituiscono infrazioni alle regole della convivenza sociale è lo
sfruttamento delle masse, la loro povertà, la loro miseria. Eliminata questa
causa principale, gli eccessi cominceranno infallibilmente a "estinguersi".
Non sappiamo con quale ritmo e quale gradualità, ma sappiamo che si
estingueranno. E con essi si estinguerà anche lo Stato.
Marx, senza abbandonarsi all'utopia, definì più in particolare ciò che è ora
possibile definire di questo avvenire, e precisamente ciò che distingue la
fase (gradino, tappa) inferiore dalla fase superiore della società
comunista.
3. La prima fase della società comunista
Nella Critica del programma di Gotha Marx confuta minuziosamente l'idea di
Lassalle che l'operaio debba ricevere in regime socialista il reddito "non
ridotto" o il "reddito integrale del suo lavoro". Marx dimostra che dal
prodotto sociale complessivo di tutta la società bisogna detrarre: un fondo
di riserva, un fondo per l'allargamento della produzione, un fondo destinato
a reintegrare il macchinario "consumato", ecc.; inoltre bisogna detrarre
dagli oggetti di consumo un fondo per le spese di amministrazione, per le
scuole, per gli ospedali, gli ospizi per i vecchi, ecc.
Invece della formula nebulosa, oscura e generica di Lassalle ("all'operaio
il frutto integrale del suo lavoro"), Marx stabilisce lucidamente come deve
essere la gestione di una società socialista. Egli affronta l'analisi
concreta delle condizioni di vita di una società in cui non esisterà il
capitalismo, e aggiunge:
"Quella con cui abbiamo da far qui" (analizzando il programma del partito
operaio) "è una società comunista. non come si è sviluppata sulla sua
propria base, ma, viceversa, come emerge dalla società capitalistica; che
porta quindi ancora sotto ogni rapporto. economico, morale, spirituale, le
"macchie" della vecchia società dal cui seno essa è uscita".
E' questa società comunista appena uscita dal seno del capitalismo, e che
porta ancora sotto ogni rapporto le impronte della vecchia società, che Marx
chiama "la prima fase" o fase inferiore della società comunista.
I mezzi di produzione non sono già più proprietà privata individuale. Essi
appartengono a tutta la società. Ogni membro della società, eseguendo una
certa parte del lavoro socialmente necessario, riceve dalla società uno
scontrino da cui risulta ch'egli ha prestato tanto lavoro. Con questo
scontrino egli ritira dai magazzini pubblici di oggetti di consumo una
corrispondente quantità di prodotti. Detratta la quantità di lavoro versata
ai fondi sociali, ogni operaio riceve quindi dalla società tanto quanto le
ha dato.
Si direbbe il regno dell'"uguaglianza".
Ma quando, a proposito di quest'ordinamento sociale (abitualmente chiamato
socialismo, e che Marx chiama prima fase del comunismo), Lassalle dice che
c'è in esso "giusta ripartizione", "uguale diritto di ciascuno all'uguale
prodotto del lavoro", egli si sbaglia e Marx spiega perchè.
Un "uguale diritto", - dice Marx, - qui effettivamente l'abbiamo, ma è
ancora il "diritto borghese", che, come ogni diritto, presuppone la
disuguaglianza. Ogni diritto consiste nell' applicazione di un'unica norma a
persone diverse, a persone che non sono, in realtà, né identiche, né uguali.
L'"uguale diritto" equivale quindi a una violazione dell'uguaglianza e della
giustizia. Infatti, per una parte uguale di lavoro sociale fornito, ognuno
riceve un'uguale parte della produzione sociale (con le detrazioni indicate
più sopra).
Gli individui però non sono uguali: uno è più forte, l'altro è più debole,
uno è ammogliato, l'altro no, uno ha più figli, l'altro meno, ecc.
"...Supposti uguali il rendimento e quindi la partecipazione al fondo di
consumo sociale, - conclude Marx, - l'uno riceve dunque più dell'altro,
l'uno è più ricco dell'altro e così via. Per evitare tutti questi
inconvenienti, il diritto, invece di essere uguale, dovrebbe essere
disuguale.."
La prima fase del comunismo non può dunque ancora realizzare la giustizia e
l'uguaglianza; rimarranno differenze di ricchezze e differenze ingiuste; ma
non sarà più possibile lo sfruttamento dell'uomo da parte dell'uomo, poichè
non sarà più possibile impadronirsi, a titolo di proprietà privata, dei
mezzi di produzione, fabbriche, macchine, terreni, ecc. Demolendo la formula
confusa e piccolo-borghese di Lassalle sulla "uguaglianza" e la "giustizia"
in generale, Marx indica il corso dello sviluppo della società comunista,
costretta da principio a distruggere solo l'"ingiustizia" costituita
dall'accaparramento dei mezzi di produzione da parte di singoli individui,
ma incapace di distruggere di punto in bianco l'altra ingiustizia: la
ripartizione dei beni di consumo "secondo il lavoro" (e non secondo i
bisogni).
Gli economisti volgari, e fra essi i professori borghesi, compreso il
"nostro" Tugan, rimproverano continuamente ai socialisti di dimenticare la
disuguaglianza degli individui e di "sognare" la soppressione di questa
disuguaglianza. Questi rimproveri, come si vede, dimostrano soltanto
l'estrema ignoranza dei signori ideologi borghesi.
Non solo Marx tiene conto con molta precisione di questa inevitabile
disuguaglianza delle persone, ma non trascura nemmeno il fatto che, da sola,
la socializzazione dei mezzi ai produzione ("socialismo" nel senso abituale
della parola) non elimina gli inconvenienti della distribuzione e la
disuguaglianza del "diritto borghese" che continua a dominare fino a quando
i prodotti sono divisi "secondo il lavoro".
"...Ma questi inconvenienti - continua Marx - sono inevitabili nella prima
fase della società comunista, quale è uscita, dopo i lunghi travagli del
parto, dalla società capitalistica. Il diritto non può essere mai più
elevato della configurazione economica e dello sviluppo culturale, da essa
condizionato, della società..."
Così, nella prima fase della società comunista (comunemente chiamata
socialismo), il "diritto borghese" non è completamente abolito, ma solo in
parte, soltanto nella misura in cui la rivoluzione economica è compiuta,
cioè unicamente per quanto riguarda i mezzi di produzione. Il "diritto
borghese" riconosce la proprietà privata su questi ultimi a individui
singoli. Il socialismo ne fa una proprietà comune. In questa misura - e
soltanto in questa misura - il "diritto borghese" è abolito.
Ma esso sussiste nell'altra sua parte, sussiste quale regolatore (fattore
determinante) della distribuzione dei prodotti e del lavoro fra i membri
della società. "Chi non lavora non mangia": questo principio socialista è
già realizzato; "a uguale quantità di lavoro, uguale quantità di prodotti":
quest'altro principio socialista è anche esso già realizzato. Tuttavia ciò
non è ancora il comunismo, non abolisce ancora il "diritto borghese" che
attribuisce a persone disuguali e per una quantità di lavoro disuguale (di
fatto disuguale) una quantità uguale di prodotti.
E' un "inconveniente", dice Marx, ma esso è inevitabile nella prima fase del
comunismo, in quanto non si può pensare, senza cadere nell'utopia, che
appena rovesciato il capitalismo gli uomini imparino, dall'oggi al domani, a
lavorare per la società senza alcuna norma giuridica; d'altra parte,
l'abolizione del capitalismo non dà subito le premesse economiche per un
tale cambiamento.
E non vi sono altre norme, all'infuori di quelle del "diritto borghese".
Rimane perciò la necessità di uno Stato che, mantenendo comune la proprietà
dei mezzi di produzione, mantenga l'uguaglianza del lavoro e l'uguaglianza
della distribuzione dei prodotti.
Lo Stato si estingue nella misura in cui non ci sono più capitalisti, non ci
sono più e quindi non è più possibile reprimere alcuna classe.
Ma lo Stato non si è ancora estinto completamente, poichè rimane la
salvaguardia del "diritto borghese" che consacra la disuguaglianza di fatto.
Perchè lo Stato si estingua completamente occorre il comunismo integrale.
4. La fase superiore della società comunista
Marx continua:
"...In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la
subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e
quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico; dopo che il
lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno
della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono
cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza
collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l'angusto
orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere
sulle sue bandiere: Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi
bisogni!".
Ora soltanto possiamo apprezzare tutta la giustezza delle osservazioni di
Engels, che colpisce implacabilmente con i suoi sarcasmi l'assurdo
accoppiamento delle parole "libertà" e "Stato". Finchè esiste lo Stato non
vi è libertà; quando si avrà la libertà non vi sarà più Stato.
La condizione economica della completa estinzione dello Stato è che il
comunismo giunga a un grado così elevato di sviluppo che ogni contrasto di
lavoro intellettuale e fisico scompaia, e che scompaia quindi una delle
principali fonti della disuguaglianza sociale contemporanea, fonte che la
sola socializzazione dei mezzi di produzione, la sola espropriazione dei
capitalisti non può inaridire di colpo.
Questa espropriazione renderà possibile uno sviluppo gigantesco delle forze
produttive. E vedendo come, già ora, il capitalismo intralci in modo assurdo
questo sviluppo, e quali progressi potrebbero essere realizzati grazie alla
tecnica moderna già acquisita, abbiamo il diritto di affermare con assoluta
certezza che l'espropriazione dei capitalisti darà necessariamente un
gigantesco impulso alle forze produttive della società umana. Ma non
sappiamo e non possiamo sapere quale sarà la rapidità di questo sviluppo,
quando esso giungerà a una rottura con la divisione del lavoro, alla
soppressione del contrasto fra il lavoro intellettuale e fisico, alla
trasformazione del lavoro nel "primo bisogno della vita".
Abbiamo perciò diritto di parlare unicamente dell'inevitabile estinzione
dello Stato, sottolineando la durata di questo processo, la sua dipendenza
dalla rapidità di sviluppo della fase più elevata del comunismo, lasciando
assolutamente in sospeso la questione del momento in cui avverrà e delle
forme concrete che questa estinzione assumerà, poichè non abbiamo dati che
ci permettano di risolvere simili questioni.
Lo Stato potrà estinguersi completamente quando la società avrà realizzato
il principio. "Ognuno secondo le sue capacità; a ognuno secondo i suoi
bisogni", cioè quando gli uomini si saranno talmente abituati a osservare le
regole fondamentali della convivenza sociale e il lavoro sarà diventato
talmente produttivo ch'essi lavoreranno volontariamente secondo le loro
capacità. "L'angusto orizzonte giuridico borghese", che costringe a
calcolare con la durezza di uno Shylock: - non avrò per caso lavorato
mezz'ora più di un altro, non avrò guadagnato un salario inferiore a un
altro? -, questo ristretto orizzonte sarà allora sorpassato. La
distribuzione dei prodotti non renderà più necessario che la società razioni
i prodotti a ciascuno: ciascuno sarà libero di attingere "secondo i suoi
bisogni".
Dal punto di vista borghese è facile dichiarare che un tale regime sociale è
"pura utopia" e coprire di sarcasmi i socialisti che promettono a ogni
cittadino di ricevere dalla società, senza alcun controllo del suo lavoro,
tutti i tartufi, tutte le automobili, tutti i pianoforti che desidera. Ancor
oggi la maggior parte degli "scienziati" borghesi se la cavano con sarcasmi
del genere rivelando in tal modo sia la loro ignoranza che la loro
interessata difesa del capitalismo.
Ignoranza, perchè non a un solo socialista è mai venuto in mente di
"promettere" l'avvento della fase superiore del comunismo; in quanto alla
previsione dei grandi socialisti sul suo avvento, essa presuppone una
produttività del lavoro diversa da quella attuale e non l'attuale borghese,
capace, come i seminaristi di Pomialovski, di sperperare "a destra e a
sinistra" le ricchezze pubbliche e di pretendere l'impossibile.
Fino all'avvento della fase "più elevata" del comunismo, i socialisti
reclamano dalla società e dallo Stato che sia esercitato il più rigoroso
controllo della misura del lavoro, e della misura del consumo; ma questo
controllo deve cominciare con l'espropriazione dei capitalisti, con il
controllo degli operai sui capitalisti, e deve essere esercitato non dallo
Stato dei funzionari, ma dallo Stato degli operai armati.
La difesa interessata del capitalismo da parte degli ideologi borghesi (e
dei loro reggicoda del tipo di Tsereteli, Cernov e consorti) consiste
precisamente nell'eludere con discussioni e frasi su un lontano avvenire, la
questione urgente e di scottante attualità della politica d'oggi:
l'espropriazione dei capitalisti, la trasformazione di tutti i cittadini in
lavoratori e impiegati di un unico e grande "cartello", vale a dire lo Stato
intero, e la completa subordinazione di tutto il lavoro di tutto questo
cartello a uno Stato veramente democratico, allo Stato dei Soviet dei
deputati operai e soldati.
In fondo quando un dotto professore, e dopo di lui il filisteo, e dopo di
lui i signori Tsereteli e i signori Cernov parlano delle utopie insensate,
delle promesse demagogiche dei bolscevichi, della impossibilità di
"introdurre" il socialismo essi alludono appunto a questo stadio o a questa
fase superiore del comunismo, che non solo nessuno ha mai promesso, ma non
ha neppure mai pensato di "introdurre", per la sola ragione che è
impossibile "introdurla".
Ci troviamo qui di fronte al problema della distinzione scientifica tra
socialismo e comunismo, problema toccato da Engels nel brano precedentemente
citato sulla denominazione non esatta di "socialdemocratico". Dal punto di
vista politico, la differenza fra la prima fase o fase inferiore e la fase
superiore del comunismo probabilmente diventerà col tempo molto notevole, ma
oggi, in regime capitalistico, sarebbe ridicolo farne caso, e forse solo
certi anarchici potrebbero metterla in primo piano (se ci sono ancora fra
gli anarchici uomini a cui la metamorfosi "plekhanoviana" dei Kropotkin, dei
Grave, dei Cornelissen e di altre "stelle" dell'anarchismo in
socialsciovinisti o anarchici delle trincee - per usare l'espressione di
Gay, uno dei pochi anarchici che abbiano conservato l'onore e la coscienza -
non ha insegnato nulla).
Ma la differenza scientifica fra socialismo e comunismo è chiara. Marx
chiama "prima" fase o fase inferiore della società comunista ciò che
comunemente viene chiamato socialismo. La parola "comunismo" può essere
anche qui usata nella misura in cui i mezzi di produzione divengono
proprietà comune, purchè non si dimentichi che non è un comunismo completo.
Ciò che conferisce un grande pregio all'esposizione di Marx è ch'egli
applica conseguentemente anche qui la dialettica materialistica, la teoria
dell'evoluzione, e considera il comunismo come un qualcosa che si sviluppa
dal capitalismo. Anziché attenersi a definizioni "escogitate", scolastiche e
artificiali, a sterili dispute su parole (che cos'è il socialismo? che cos'è
il comunismo?), Marx analizza quelli che si potrebbero chiamare i gradi
della maturità economica del comunismo.
Nella sua prima fase, nel suo primo grado, il comunismo non può essere, dal
punto di vista economico, completamente maturo, completamente libero dalle
tradizioni e dalle vestigia del capitalismo. Di qui il fenomeno interessante
qual è il mantenimento dell'"augusto orizzonte giuridico borghese" nella
prima fase del regime comunista. Certo, il diritto borghese, per quel che
concerne la distribuzione dei beni di consumo, suppone pure necessariamente
uno Stato borghese, poichè il diritto è nulla senza un apparato capace di
costringere all'osservanza delle sue norme.
Ne consegue che in regime comunista sussistono, per un certo tempo, non solo
il diritto borghese ma anche lo Stato borghese, senza borghesia!
Ciò può sembrare un paradosso o un giuoco dialettico del pensiero e questo
rimprovero è stato spesso mosso al marxismo da gente che non si è mai data
la minima pena di studiarne la sostanza estremamente profonda.
Ma in realtà la vita ci mostra a ogni passo, nella natura e nella società,
che vestigia del passato sopravvivono nel presente. Marx non introdusse
arbitrariamente nel comunismo una particella del diritto "borghese"; egli si
rese conto soltanto di ciò che, economicamente e politicamente, è
inevitabile nella società uscita dal seno del capitalismo.
La democrazia ha una grandissima importanza nella lotta della classe operaia
contro i capitalisti per la sua emancipazione. Ma la democrazia non è
affatto un limite, un limite insuperabile; è semplicemente una tappa sulla
strada che va dal feudalesimo al capitalismo e dal capitalismo al comunismo.
Democrazia vuol dire uguaglianza. Si arriva a concepire quale grande
importanza hanno la lotta del proletariato per l'uguaglianza e la parola
d'ordine dell'uguaglianza se si comprende quest'ultima in modo giusto, nel
senso della soppressione delle classi. Ma democrazia significa soltanto
uguaglianza formale. E appena realizzata l'uguaglianza di tutti i membri
della società per ciò che concerne il possesso dei mezzi di produzione, vale
a dire l'uguaglianza del lavoro, l'uguaglianza del salario, sorgerà
inevitabilmente davanti all'umanità la questione di compiere un successivo
passo in avanti, di passare dall'uguaglianza formale all'uguaglianza reale,
cioè alla realizzazione del principio: "Ognuno secondo le sue capacità; a
ognuno secondo i suoi bisogni". Noi non sappiamo né possiamo sapere per
quali tappe, attraverso quali provvedimenti pratici l'umanità andrà verso
questo fine supremo. Ma quel che importa è vedere quanto sia falsa l'idea
borghese corrente che il socialismo sia qualche cosa di morto, di fisso, di
dato una volta per sempre, mentre in realtà soltanto col socialismo
incomincerà, in tutti i campi della vita sociale e privata, un rapido, vero,
movimento progressivo, effettivamente di massa, a cui parteciperà la
maggioranza della popolazione prima, e tutta la popolazione poi.
La democrazia è una forma dello Stato, una delle sue varietà. Essa è quindi.
come ogni Stato, l'applicazione organizzata, sistematica, della costrizione
agli uomini. Questo, da un lato. Ma dall'altro lato, la democrazia è il
riconoscimento formale dell'uguaglianza fra i cittadini, del diritto uguale
per tutti di determinare la forma dello Stato e di amministrarlo. Ne deriva
che, a un certo grado del suo sviluppo, la democrazia in primo luogo unisce
contro il capitalismo la classe rivoluzionaria, il proletariato, e gli dà la
possibilità di spezzare, di ridurre in frantumi, di far sparire dalla faccia
della terra la macchina dello Stato borghese, anche se borghese
repubblicano, l'esercito permanente, la polizia, la burocrazia. e di
sostituirli con una macchina più democratica, ma che rimane tuttavia una
macchina statale, costituita dalle masse operaie armate, e poi da tutto il
popolo che partecipa alla milizia.
Qui la "quantità si trasforma in qualità"; arrivata a questo grado, il
sistema democratico esce dal quadro della società borghese e comincia a
svilupparsi verso il socialismo. Se tutti gli uomini partecipano realmente
alla gestione dello Stato, il capitalismo non può più mantenersi. E lo
sviluppo del capitalismo crea a sua volta le premesse necessarie a che
"tutti" effettivamente possano partecipare alla gestione dello Stato. Queste
premesse sono, tra l'altro, l'istruzione generale, già realizzata in molti
paesi capitalistici più avanzati, poi l'"educazione e l'abitudine alla
disciplina" di milioni di operai per opera dell'enorme e complesso apparato
socializzato delle poste, delle ferrovie, delle grandi officine, del grande
commercio, delle banche, ecc.
Con tali premesse economiche, è perfettamente possibile, dopo aver
rovesciato i capitalisti e i funzionari, sostituirli immediatamente
dall'oggi al domani, - per il controllo della produzione e della
distribuzione, per la registrazione del lavoro e dei prodotti, - con gli
operai armati, con tutto il popolo in armi. (Non bisogna confondere la
questione del controllo e della registrazione con quella del personale
tecnico scientificamente preparato, ingegneri, agronomi, ecc.; questi
signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti, lavoreranno ancor meglio
domani agli ordini degli operai armati.)
Registrazione e controllo: ecco l'essenziale, ciò che è necessario per
l'"avviamento" e il funzionamento regolare della società comunista nella sua
prima fase. Tutti i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati
dello Stato, costituito dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli
impiegati e gli operai d'un solo "cartello" di tutto il popolo, dello Stato.
Tutto sta nell'ottenere che essi lavorino nella stessa misura, osservino la
stessa misura di lavoro e ricevano nella stessa misura. La registrazione e
il controllo in tutti questi campi sono stati semplificati all'estremo dal
capitalismo che li ha ridotti a operazioni straordinariamente semplici di
sorveglianza e di conteggio, e al rilascio di ricevute, cose tutte
accessibili a chiunque sappia leggere e scrivere e fare le quattro
operazioni.
Quando la maggioranza del popolo procederà ovunque essa stessa a questa
registrazione e a questo controllo dei capitalisti (trasformati allora in
impiegati) e dei signori intellettuali che avranno conservato ancora delle
abitudini capitaliste, questo controllo diventerà veramente universale,
generale, nazionale, e nessuno potrà in alcun modo sottrarvisi, "non saprà
dove cacciarsi" per sfuggirvi.
L'intera società sarà un grande ufficio e una grande fabbrica con
uguaglianza di lavoro e uguaglianza di salario.
Ma questa disciplina "di fabbrica" che il proletariato, vinti i capitalisti
e rovesciati gli sfruttatori, estenderà a tutta la società, non è affatto il
nostro ideale né la nostra meta finale: essa è soltanto la tappa necessaria
per ripulire radicalmente la società dalle brutture e dalle ignominie dello
sfruttamento capitalistico e assicurare l'ulteriore marcia in avanti.
Dal momento in cui tutti i membri della società, o almeno l'immensa
maggioranza di essi, hanno appreso a gestire essi stessi lo Stato, si sono
messi essi stessi all'opera, hanno "organizzato" il loro controllo
sull'infima minoranza dei capitalisti, sui signori desiderosi di conservare
le loro abitudini capitaliste e sugli operai profondamente corrotti del
capitalismo, - da quel momento la necessità di qualsiasi amministrazione
comincia a scomparire. Quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino
è il momento in cui essa diventa superflua. Quanto più democratico è lo
"Stato" composto dagli operai armati, che "non è più uno Stato nel senso
proprio della parola", tanto più rapidamente incomincia ad estinguersi ogni
Stato.
Infatti quando tutti avranno imparato ad amministrare ed amministreranno
realmente essi stessi la produzione sociale, quando tutti procederanno essi
stessi alla registrazione e al controllo dei parassiti, dei figli di papà,
dei furfanti e simili "guardiani delle tradizioni del capitalismo", ogni
tentativo di sfuggire a questa registrazione e a questo controllo esercitato
da tutto il popolo diventerà una cosa talmente difficile, un'eccezione così
rara, provocherà verosimilmente un castigo così pronto e così esemplare
(poichè gli operai armati sono gente che hanno il senso pratico della vita e
non dei piccoli intellettuali sentimentali; non permetteranno che si scherzi
con loro), che la necessità di osservare le regole semplici e fondamentali
di ogni società umana diventerà ben presto un costume.
Si spalancheranno allora le porte che permetteranno di passare dalla prima
fase alla fase superiore della società comunista e, quindi, alla completa
estinzione dello Stato.
VI. La degradazione del marxismo negli opportunisti
Il problema dell'atteggiamento dello Stato nei confronti della rivoluzione
sociale e della rivoluzione sociale nei confronti dello Stato, come del
resto il problema della rivoluzione generale, ha preoccupato assai poco i
teorici e i pubblicisti più in vista della Seconda Internazionale
(1889-1914). Ma ciò che è più caratteristico nel processo dello sviluppo
graduale dell'opportunismo, processo che è sboccato nel fallimento della
Seconda Internazionale nel 1914, è che, persino nei momenti in cui il
problema si imponeva con maggior acutezza, ci si sforzava di evitarlo o di
non vederlo.
Si può dire in generale che la tendenza a eludere il problema
dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria verso lo Stato, tendenza
vantaggiosa per l'opportunismo ch'essa alimentava, ha portato al
travisamento del marxismo e alla sua completa degradazione.
Per caratterizzare, sia pure brevemente, questo deplorevole processo,
consideriamo i teorici più in vista del marxismo: Plekhanov e Kautsky.
1. La polemica di Plekhanov con gli anarchici
Plekhanov dedicò al problema dell'atteggiamento dell'anarchismo verso il
socialismo un opuscolo speciale: Anarchismo e socialismo, uscito in tedesco
nel 1894.
Plekhanov si ingegnò a trattar questo tema eludendo completamente la
questione più attuale, più scottante e, politicamente, più essenziale nella
lotta contro l'anarchismo, e precisamente l'atteggiamento della rivoluzione
nei confronti dello Stato e la questione dello Stato in generale! lI suo
opuscolo comprende due parti: una storico-letteraria, ricca di preziosi
documenti sulla storia delle idee di Stirner, di Proudhon, ecc.; l'altra
filistea, con grossolane considerazioni su temi come quello che un anarchico
non si distingue da un bandito.
Questa combinazione di temi è molto spassosa e caratterizza perfettamente
tutta l'attività di Plekhanov alla vigilia della rivoluzione e nel corso di
tutto il periodo rivoluzionario in Russia: semi-dottrinario, semi-filisteo,
a rimorchio della borghesia in politica, tale si mostrò Plekhanov nel
periodo 1905- l 917.
Abbiamo visto come, nelle loro polemiche con gli anarchici, Marx ed Engels
avessero chiarito con la massima cura i loro punti di vista
sull'atteggiamento della rivoluzione nei confronti dello Stato. Pubblicando
nel 1891 la Critica del programma di Gotha di Marx, Engels scriveva: "Noi
[cioè Engels e Marx] eravamo impegnati allora, appena due anni dopo il
Congresso dell'Aja della [Prima] Internazionale, in una violentissima lotta
contro Bakunin e i suoi anarchici".
Gli anarchici tentarono appunto di presentare la Comune di Parigi come una
cosa per così dire "loro", che confermava la loro dottrina, ma non capirono
niente degli insegnamenti della Comune e dell'analisi che Marx ne fece.
Sulle questioni politiche concrete: bisogna spezzare la vecchia macchina
dello Stato? e con che cosa sostituirla? l'anarchia non ha dato nulla che si
avvicini, sia pur approssimativamente, alla verità.
Ma parlare di "anarchismo e socialismo" eludendo totalmente la questione
dello Stato, senza vedere tutto lo sviluppo del marxismo prima e dopo la
Comune, voleva dire cadere inevitabilmente nell'opportunismo. Ciò che
infatti occorre all'opportunismo è che le due questioni che noi abbiamo qui
indicate non siano affatto poste. Ciò costituisce di per sé una vittoria
dell'opportunismo.
2. La polemica di Kautsky con gli opportunisti
La letteratura russa possiede certamente assai più traduzioni di Kautsky che
non qualsiasi altra. Non è senza ragione che alcuni socialdemocratici
tedeschi dicono scherzando che Kautsky è molto più letto in Russia che in
Germania. (C'è in questa battuta, sia detto tra parentesi, un fondamento
storico molto più profondo di quanto non sospettino quelli che l'hanno
lanciata; cioè gli operai russi. avendo presentato nel 1905 una richiesta
straordinariamente elevata, mai vista, delle migliori opere della migliore
letteratura socialdemocratica del mondo e avendo ricevuto traduzioni e
edizioni di queste opere in quantità non conosciuta negli altri paesi,
hanno, per così dire, trapiantato a un ritmo accelerato, nella giovane terra
del nostro movimento proletario, la notevole esperienza di un paese vicino
più avanzato.)
Oltre che per la sua esposizione popolare del marxismo, Kautsky è conosciuto
da noi soprattutto per la sua polemica con gli opportunisti, capeggiati da
Bernstein. Ma c'è un fatto quasi ignorato e che non si può passare sotto
silenzio se si vuole studiare come Kautsky abbia potuto perdere così
vergognosamente la testa e cadere, durante la grande crisi del 1914-1915,
nella difesa del social-sciovinismo. Questo fatto è che prima della sua
campagna contro i rappresentanti più in vista dell'opportunismo in Francia
(Millerand e Jaurès) e in Germania (Bernstein), Kautsky aveva manifestato
grandi esitazioni. La rivista marxista Zarià, che usciva a Stoccarda nel
1901-l902 e difendeva le idee proletarie rivoluzionarie, aveva dovuto
polemizzare con Kautsky e qualificare come risoluzione "di caucciù" la
risoluzione mitigata, evasiva, conciliante verso gli opportunisti, da lui
proposta al Congresso socialista internazionale di Parigi del 1900. Nella
stampa tedesca furono pubblicate lettere di Kautsky che rivelano esitazioni
non meno rilevanti prima della sua campagna contro Bernstein.
Una importanza molto maggiore ha tuttavia il fatto che nella stessa polemica
di Kautsky con gli opportunisti, nel suo modo di porre e di trattare la
questione, noi costatiamo ora, studiando la storia del suo recente
tradimento verso il marxismo, una deviazione sistematica verso
l'opportunismo proprio sul problema dello Stato.
Prendiamo la prima opera importante di Kautsky contro l'opportunismo, il suo
libro Bernstein e il programma socialdemocratico. Qui egli confuta
minutamente Bernstein, ma ecco ciò che vi è di caratteristico.
Nelle sue Premesse del socialismo, che gli hanno fruttato una fama alla
maniera di Erostrato, Bernstein accusa il marxismo di "blanquismo" (accusa
in seguito mille volte ripetuta dagli opportunisti e dai borghesi liberali
in Russia contro i bolscevichi, rappresentanti del marxismo rivoluzionario).
Bernstein si sofferma qui specialmente sulla Guerra civile in Francia di
Marx e tenta molto infelicemente, come abbiamo visto, di identificare il
modo di vedere di Marx sugli insegnamenti della Comune con quello di
Proudhon. Ciò che attrae soprattutto l'attenzione di Bernstein è la
conclusione che Marx sottolineò nella prefazione del 1872 al Manifesto del
Partito comunista, dove è detto: "La classe operaia non può impossessarsi
puramente e semplicemente di una macchina statale già pronta e metterla in
moto per i suoi propri fini".
Questa espressione è talmente "piaciuta" a Bernstein ch'egli la ripete non
meno di tre volte nel suo libro, interpretandola nel senso, più deformato,
più opportunistico.
Come abbiamo visto, Marx vuol dire che la classe operaia deve spezzare,
demolire, far saltare (Sprengung, esplosione. Il termine è di Engels) tutta
la macchina dello Stato. Ora, secondo Bernstein, Marx avrebbe con ciò messo
in guardia la classe operaia contro un ardore troppo rivoluzionario nel
momento della presa del potere.
Non si può immaginare una falsificazione più grossolana e più mostruosa del
pensiero di Marx.
Come ha proceduto dunque Kautsky nella sua minuziosissima confutazione del
bernsteinismo?
Egli si è ben guardato dall'analizzare in tutta la sua profondità la
falsificazione del marxismo da parte degli opportunisti su questo punto.
Egli ha riprodotto il brano già citato nella prefazione di Engels alla
Guerra civile di Marx dicendo che, secondo Marx, la classe operaia non può
impadronirsi puramente e semplicemente della macchina statale già pronta, ma
che, in generale, essa può impadronirsene, e nient'altro. Che Bernstein
attribuisse a Marx esattamente il contrario del suo vero pensiero e che, fin
dal 1852, Marx avesse assegnato alla rivoluzione proletaria il compito di
"spezzare" la macchina statale, di tutto ciò in Kautsky non vi è nemmeno una
parola.
Ne risulta che ciò che distingue in modo radicale il marxismo
dall'opportunismo nella questione dei compiti della rivoluzione proletaria è
da Kautsky fatto sparire!
"Possiamo in tutta tranquillità, - scrive Kautsky "contro" Bernstein, -
lasciare all'avvenire la cura di risolvere il problema della dittatura del
proletariato" (p. 172, ed. tedesca).
Questa non è una polemica contro Bernstein, ma, in sostanza, una concessione
a Bernstein, una capitolazione di fronte all'opportunismo, perchè gli
opportunisti non domandano di meglio che di "lasciare in tutta tranquillità
all'avvenire" tutte le questioni capitali relative ai compiti della
rivoluzione proletaria.
Per quarant'anni, dal 1852 al 1891, Marx ed Engels insegnarono al
proletariato che esso deve spezzare la macchina dello Stato. E Kautsky nel
1899, di fronte al completo tradimento del marxismo da parte degli
opportunisti su questo punto, sostituisce con un giochetto il problema se si
debba spezzare questa macchina, con il problema delle forme concrete di
questa demolizione e si trincera dietro questa "incontestabile" (e sterile)
verità filistea: non possiamo conoscere in anticipo queste forme concrete!
Fra Marx e Kautsky c'è un abisso nell'atteggiamento verso il compito del
partito del proletariato, che è di preparare la classe operaia alla
rivoluzione.
Prendiamo l'opera successiva, più matura, di Kautsky, dedicata essa pure in
notevole misura alla confutazione degli errori dell'opportunismo. E'
l'opuscolo sulla Rivoluzione sociale. Qui l'autore ha scelto come tema
specifico il problema della "rivoluzione proletaria" e del "regime
proletario". Egli enuncia molte idee estremamente preziose ma tralascia
proprio il problema dello Stato. Nell'opuscolo si parla sempre della
conquista del potere statale, e basta; viene scelta cioè una formula che è
una concessione agli opportunisti, poiché essa ammette la conquista del
potere senza la distruzione della macchina dello Stato. Nel 1902 Kautsky
risuscita appunto ciò che Marx nel 1872 dichiarava "sorpassato" nel
programma del Manifesto del Partito comunista.
L'opuscolo dedica un particolare paragrafo "alle forme e alle armi della
rivoluzione sociale". Vi si parla e dello sciopero politico di massa, e
della guerra civile, e di quegli "strumenti di dominio di un grande Stato
moderno quali sono la burocrazia e l'esercito"; ma degli insegnamenti che la
Comune ha già fornito ai lavoratori non una parola. Evidentemente Engels
aveva ragione di mettere in guardia soprattutto i socialisti tedeschi contro
la "venerazione superstiziosa" dello Stato.
Kautsky presenta la cosa in questi termini: il proletariato vittorioso
"realizzerà il programma democratico", e ne espone i paragrafi. Di ciò che
l'anno 1871 ha fornito di nuovo circa la sostituzione della democrazia
proletaria alla democrazia borghese, non un cenno! Kautsky se la cava con
alcune banalità dall'apparenza "seria", come questa:
"E' ovvio che non arriveremo al potere nell'attuale regime. La rivoluzione
stessa presuppone una lotta prolungata, che vada in profondità e avrà quindi
il tempo di modificare la nostra attuale struttura politica e sociale".
Certo, ciò è "ovvio", come è sicuro che i cavalli mangiano l'avena e che il
Volga si getta nel Caspio. C'è solo da rimpiangere il fatto che con una
frase vuota e reboante sulla lotta "che va in profondità" si eluda la
questione capitale per il proletariato rivoluzionario, quella di sapere in
che cosa consista la "profondità" della sua rivoluzione nei confronti dello
Stato, nei confronti della democrazia, a differenza delle precedenti
rivoluzioni non proletarie.
Eludendo questa questione, Kautsky fa in realtà, su questo punto capitale,
una concessione all'opportunismo, al quale dichiara a parole una guerra
minacciosa sottolineando l'importanza dell'"idea di rivoluzione" (ma che
cosa può valere quest'"idea" quando si ha paura di diffondere fra gli operai
gli insegnamenti concreti della rivoluzione?) o dicendo: "l'idealismo
rivoluzionario innanzi tutto", o dichiarando che gli operai inglesi non sono
oggi "gran che meglio dei piccoli borghesi".
"Nella società socialista, - scrive Kautsky, - possono esistere l'una
accanto all'altra... le più svariate forme di imprese: burocratiche [??],
sindacali, cooperative, individuali..." "Ci sono, per esempio, imprese che
non possono fare a meno di un'organizzazione burocratica [??], come le
ferrovie. L'organizzazione democratica può qui assumere la seguente forma:
gli operai eleggono dei delegati che formano una specie di parlamento, e
questo parlamento stabilisce il regime del lavoro e sorveglia la direzione
dell'apparato burocratico. Altre imprese possono essere affidate ai
sindacati; altre infine possono essere organizzate secondo i princípi della
cooperazione" (pp. 148 e 115 della traduzione russa, pubblicata a Ginevra
nel 1903).
Questo ragionamento è sbagliato, è un passo indietro rispetto ai chiarimenti
che Marx ed Engels davano negli anni '70 sulla base dell'esperienza della
comune.
Per quanto riguarda la presunta necessità di una organizzazione
"burocratica", le ferrovie non si distinguono in nulla da qualsiasi altra
azienda della grande industria meccanizzata, da qualsiasi officina, grande
magazzino o grande azienda agricola capitalista. In tutte queste aziende, la
tecnica impone la più rigorosa disciplina, la più grande puntualità
nell'adempimento della parte di lavoro assegnata a ciascuno, pena l'arresto
di tutta l'impresa o il deterioramento del meccanismo o delle merci. In
tutte queste aziende naturalmente gli operai "eleggeranno delegati che
formeranno una specie di parlamento".
Ma il punto centrale è qui che questa "specie di parlamento" non sarà un
parlamento nel senso delle istituzioni parlamentari borhesi. Il punto
centrale è che questa "specie di parlamento" non si accontenterà di
"stabilire il regime del lavoro e di sorvegliare la direzione dell'apparato
burocratico" come immagina Kautsky, il cui pensiero non esce dal quadro del
parlamentarismo borghese. Nella società socialista "una specie di
parlamento" di deputati operai, naturalmente "stabilirà il regime del lavoro
e sorveglierà il funzionamento" dell'"apparato", ma quest'apparato non sarà
"burocratico". Gli operai, dopo aver conquistato il potere politico,
spezzeranno il vecchio apparato burocratico, lo demoliranno dalle
fondamenta, non ne lasceranno pietra su pietra e lo sostituiranno con un
nuovo apparato, che sarà composto dagli stessi operai e dagli stessi
impiegati; e contro il pericolo che anch'essi diventino dei burocrati,
saranno immediatamente prese le misure minuziosamente studiate da Marx e da
Engels: 1) non soltanto eleggibilità ma anche revocabilità ad ogni istante;
2) stipendio non superiore al salario di un operaio; 3) passaggio immediato
a una situazione in cui tutti assumano le funzioni di controllo e di
sorveglianza, in cui tutti diventino temporaneamente dei "burocrati", e
quindi nessuno possa diventare un "burocrate".
Kautsky non ha affatto riflettuto sul senso delle parole di Marx: "La Comune
doveva essere non un organismo parlamentare, ma di lavoro, esecutivo e
legislativo allo stesso tempo".
Kautsky non ha affatto capito la differenza fra il parlamentarismo borghese,
che unisce la democrazia (non per il popolo) alla burocrazia (contro il
popolo) e il sistema democratico proletario che prenderà immediatamente le
misure necessarie per tagliare alle radici il burocratismo e sarà in grado
di applicarle sino in fondo, sino alla completa distruzione della
burocrazia, sino all'instaurazione di una completa democrazia per il popolo.
Kautsky ha qui dato prova della solita "venerazione superstiziosa" dello
Stato, della solita "fede superstiziosa" nel burocratismo.
Passiamo all'ultima e migliore opera di Kautsky contro gli opportunisti, il
suo opuscolo La via del potere (non tradotto, mi sembra, in russo, perchè
apparso nel 1909, quando da noi la reazione era al culmine). Questo opuscolo
segna un grande passo avanti in quanto non tratta né del programma
rivoluzionario in generale, come l'opera del 1899 contro Bernstein, né dei
compiti della rivoluzione sociale indipendentemente dall'epoca del suo
avvento, come l'opuscolo La rivoluzione sociale del 1902, ma delle
condizioni concrete che ci costringono a riconoscere che "l'èra delle
rivoluzioni" comincia.
L'autore parla chiaramente dell'acuirsi degli antagonismi di classe in
generale, e dell'imperialismo che ha, sotto questo rapporto, una funzione
particolarmente importante. Dopo il "periodo rivoluzionario del 1789-1871"
per l'Europa occidentale, l'anno 1905 ha inaugurato un periodo analogo per
l'Oriente. La guerra mondiale si avvicina con una paurosa rapidità. "Il
proletariato non può più parlare di rivoluzione prematura", "Siamo entrati
nel periodo rivoluzionario", "L'èra rivoluzionaria comincia".
Queste dichiarazioni sono chiarissime. Quest'opuscolo di Kautsky può servire
come utile termine di confronto per vedere ciò che la socialdemocrazia
tedesca prometteva di essere prima della guerra imperialistica e quanto in
basso essa (e Kautsky con essa) sia caduta allo scoppio della guerra. "La
situazione attuale - scriverà Kautsky nell'opuscolo citato - comporta il
pericolo che ci si possa facilmente prendere [noi, socialdemocratici
tedeschi] per più moderati di quel che in realtà siamo." E' risultato che il
partito socialdemocratico tedesco in realtà era incomparabilmente più
moderato e più opportunista di quanto non sembrasse!
Tanto più caratteristico è il fatto che dopo aver proclamato in modo così
categorico che l'èra delle rivoluzioni incominciava, Kautsky, in un opuscolo
dedicato, secondo le sue stesse parole, proprio all'analisi del problema
della "rivoluzione politica", abbia ancora una volta completamente
trascurato la questione dello Stato.
Dalla somma di queste omissioni, silenzi, reticenze, non poteva alla fin
fine risultare che quel completo passaggio all'opportunismo, di cui
parleremo subito.
La socialdemocrazia tedesca aveva l'aria di proclamare, per bocca di
Kautsky: Io conservo le mie idee rivoluzionarie (1899). Riconosco in
particolar modo l'ineluttabilità della rivoluzione sociale del proletariato
(1902). Riconosco che una nuova èra di rivoluzioni comincia (1909). Ma
tuttavia, nel momento in cui si pone la questione dei compiti della
rivoluzione proletaria verso lo Stato (1912), vado indietro in confronto a
ciò che Marx disse già nel 1852.
Così appunto fu posta la questione nella polemica di Kautsky con Pannekoek.
3. La polemica di Kautsky con Pannekoek
Pannekoek, quando entrò in polemica con Kautsky, era uno dei rappresentanti
della tendenza "radicale di sinistra", che contava nelle sue file Rosa
Luxemburg, Karl Radek e altri, i quali, difendendo la tattica
rivoluzionaria, concordavano nel riconoscere che Kautsky stava passando a
una posizione di "centro", priva di princípi, oscillante tra il marxismo e
l'opportunismo. L'esattezza di questa valutazione è stata pienamente
dimostrata dalla guerra, nel corso della quale la tendenza detta di "centro"
(falsamente chiamata marxista) o "kautskiana" si è rivelata in tutta la sua
rivoltante meschinità.
In un articolo, in cui si occupa del problema dello Stato, L'azione di massa
e la rivoluzione (Neue Zeit, 1912, XXX, 2), Pannekoek definiva la posizione
di Kautsky come un "radicalismo passivo", un "teoria dell'attesa inerte".
"Kautsky non vuol vedere il processo della rivoluzione" (p. 616). Ponendo in
tal modo la questione Pannekoek affronta l'argomento che ci interessa sui
compiti della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato.
"La lotta del proletariato - egli scriveva - non è soltanto una lotta contro
la borghesia per il potere dello Stato; è anche una lotta contro il potere
dello Stato... La rivoluzione proletaria consiste nell'annientare gli
strumenti di forza dello Stato e nell'eliminarli [letteralmente:
dissolverli, Auflösung] mediante gli strumenti di forza del proletariato...
La lotta cessa soltanto quando, raggiunto il risultato finale,
l'organizzazione dello Stato è completamente distrutta. L'organizzazione
della maggioranza prova la sua superiorità annientando l'organizzazione
della minoranza dominante" (p. 548).
Le formule con cui Pannekoek riveste le sue idee sono piene di gravi
difetti. Ma l'idea è tuttavia chiara ed è interessante vedere in che modo
Kautsky ha cercato di confutarla.
"Finora, egli dice, l'opposizione tra i socialdemocratici e gli anarchici
consisteva nel fatto che i primi volevano conquistare il potere dello Stato,
i secondi distruggerlo. Pannekoek vuole l'uno e l'altro" (p. 724).
Se l'esposizione di Pannekoek difetta di chiarezza e di concretezza (per non
parlare degli altri difetti del suo articolo che non si riferiscono al tema
qui discusso), Kautsky da parte sua affronta proprio il principio essenziale
del problema accennato da Pannekoek e in questa questione essenziale di
principio egli abbandona completamente le posizioni del marxismo per passare
del tutto all'opportunismo. La distinzione che egli stabilisce tra
socialdemocratici e anarchici è totalmente sbagliata; il marxismo è qui
assolutamente snaturato e degradato.
I marxisti si distinguono dagli anarchici in questo: 1) i primi, pur
ponendosi l'obiettivo della soppressione completa dello Stato, non lo
ritengono realizzabile se non dopo la soppressione delle classi per opera
della rivoluzione socialista, come risultato dell'instaurazione del
socialismo che porta all'estinzione dello Stato; i secondi vogliono la
completa soppressione dello Stato dall'oggi al domani, senza comprendere
quali condizioni la rendano possibile; 2) i primi proclamano la necessità
per il proletariato, dopo ch'esso avrà conquistato il potere politico, di
distruggere completamente la vecchia macchina statale e di sostituirla con
una nuova, che consiste nell'organizzazione degli operai armati, sul tipo
della Comune; i secondi, pur reclamando la distruzione della macchina
statale, si rappresentano in modo molto confuso con che cosa il proletariato
la sostituirà e come utilizzerà il potere rivoluzionario; gli anarchici
rinnegano persino qualsiasi utilizzazione del potere dello Stato da parte
del proletariato rivoluzionario, la sua dittatura rivoluzionaria; 3) i primi
vogliono che il proletariato si prepari alla rivoluzione utilizzando lo
Stato moderno; gli anarchici sono di parere contrario.
In questa discussione è Pannekoek che rappresenta il marxismo, contro
Kautsky, proprio Marx infatti ha insegnato che il proletariato non può
conquistare puramente e semplicemente il potere statale, - nel senso che il
vecchio apparato dello Stato passi in nuove mani, - ma deve spezzare,
demolire questo apparato e sostituirlo con uno nuovo.
Kautsky abbandona il marxismo per l'opportunismo; nei suoi scritti infatti
scompare appunto questa distruzione della macchina statale, cosa
assolutamente inammissibile per gli opportunisti; egli lascia a questi
ultimi una scappatoia che permette loro di interpretare la "conquista" del
potere come un semplice conseguimento della maggioranza.
Per nascondere questa sua deformazione del marxismo, Kautsky si comporta da
scolastico e ricorre a una "citazione" dello stesso Marx. Nel 1850 Marx
parlava della necessità di una "decisissima centralizzazione del potere
nelle mani dello Stato". E Kautsky trionfante domanda: vuole forse Pannekoek
distruggere il "centralismo"?
E' un semplice giuoco di prestigio che ricorda quello di Bernstein, con la
sua identificazione di marxismo e proudhonismo a proposito dell'idea della
federazione da opporre al centralismo.
La "citazione" di Kautsky cade a proposito come i cavoli a merenda. Il
centralismo è possibile sia con la vecchia macchina dello Stato, che con la
nuova. Se gli operai uniscono volontariamente le loro forze armate, si avrà
del centralismo, ma questo centralismo sarà fondato sulla "completa
distruzione" dell'apparato statale centralista, dell'esercito permanente,
della polizia, della burocrazia. Kautsky si comporta in modo assolutamente
disonesto eludendo le osservazioni ben note di Marx e di Engels sulla Comune
per andare a cercare una citazione che non ha niente a che fare con la
questione.
"...Vuol forse Pannekoek sopprimere le funzioni statali dei funzionari? -
continua Kautsky. - Ma noi non possiamo fare a meno dei funzionari né nel
partito né nei sindacati, senza parlare delle amministrazioni dello Stato.
Il nostro programma richiede non l'eliminazione dei funzionari dello Stato,
ma la loro elezione da parte del popolo... Non si tratta ora per noi di
sapere quale forma assumerà l'apparato amministrativo nello "Stato futuro",
ma di sapere se la nostra lotta politica distruggerà [letteralmente:
dissolverà, auflöst] il potere statale prima che noi l'abbiamo
conquistato... [il corsivo è di Kautsky]. Quale ministro coi suoi funzionari
potrebbe essere distrutto?" Ed enumera i ministri dell'Istruzione pubblica,
della Giustizia, delle Finanze, della Guerra. "No, nessuno dei ministeri
attuali sarà soppresso dalla nostra lotta politica contro il governo... Lo
ripeto, per evitare malintesi: non si tratta di sapere quale forma la
socialdemocrazia vittoriosa darà allo "Stato futuro", ma come la nostra
opposizione trasforma lo Stato attuale" (p. 725).
E' un vero giuoco dei bussolotti. Pannekoek poneva precisamente il problema
della rivoluzione. Il titolo del suo articolo e i brani citati lo dicevano
chiaramente. Saltando alla questione dell'"opposizione" Kautsky non fa che
sostituire al punto di vista rivoluzionario il punto di vista opportunista.
Ne risulta quindi: adesso, opposizione; in quanto a ciò che bisognerà fare
dopo la conquista del potere, si vedrà poi. La rivoluzione scompare... E'
proprio quello che occorre agli opportunisti.
Non è dell'opposizione né della lotta politica in generale che si tratta: si
tratta della rivoluzione. La rivoluzione consiste nel fatto che il
proletariato distrugge l'"apparato amministrativo" e tutto l'apparato dello
Stato per sostituirlo con uno nuovo, costituito dagli operai armati. Kautsky
rivela una "venerazione superstiziosa" per i "ministeri"; ma perché questi
non potrebbero essere sostituiti, per esempio, da commissioni di specialisti
presso i Soviet, sovrani e con pieni poteri, dei deputati operai e soldati?
L'essenziale non è affatto di sapere se rimarranno i "ministeri" o se
saranno sostituiti da "commissioni di specialisti" o da altre istituzioni:
questo non ha assolutamente nessuna importanza. La questione essenziale è di
sapere se la vecchia macchina statale (legata con mille fili alla borghesia
e impregnata di spirito burocratico e conservatore) sarà mantenuta oppure
distrutta e sostituita con una nuova. La rivoluzione non deve consistere nel
fatto che la nuova classe comandi o governi per mezzo della vecchia macchina
statale, ma che, dopo averla spezzata, comandi e governi per mezzo di una
macchina nuova: è questa l'idea fondamentale del marxismo che Kautsky fa
sparire o non ha assolutamente capito.
La sua domanda a proposito dei funzionari mostra in modo evidente ch'egli
non ha capito né gli insegnamenti della Comune né la dottrina di Marx. "Noi
non possiamo fare a meno dei funzionari né nel partito né nei sindacati"...
Non possiamo fare a meno dei funzionari in regime capitalistico, sotto il
dominio della borghesia. Il proletariato è oppresso e le masse lavoratrici
sono asservite dal capitalismo. In regime capitalistico, la democrazia è
ristretta, compressa, monca, mutilata, da tutto l'ambiente creato dalla
schiavitù del salario, dal bisogno e dalla miseria delle masse. Per questo,
e solo per questo, nelle nostre organizzazioni politiche e sindacali i
funzionari sono corrotti (o, più esattamente, hanno tendenza a esserlo)
dall'ambiente capitalistico e manifestano l'inclinazione a trasformarsi in
burocrati, cioè in persone privilegiate, staccate dalle masse e poste al di
sopra di esse.
Qui è l'essenza del burocratismo; e fino a quando i capitalisti non saranno
stati espropriati, fino a quando la borghesia non sarà stata rovesciata, una
certa "burocratizzazione" degli stessi funzionari del proletariato è
inevitabile.
Secondo Kautsky risulta dunque che, poichè vi saranno impiegati eletti, vuol
dire che anche in regime socialista ci saranno dei funzionari, ci sarà la
burocrazia! Ma è proprio questo che è falso. Attraverso appunto l'esempio
della Comune, Marx dimostrò che i detentori di funzioni pubbliche cessano,
in regime socialista, di essere dei "burocrati" dei "funzionari" nella
misura in cui viene introdotta, oltre all'eleggibilità, anche la loro
revocabilità in ogni momento, e ancora, si riduce il loro stipendio al
salario medio di un operaio e ancora si sostituiscono gl'istituti
parlamentari con istituti "di lavoro, cioè esecutivi e legislativi allo
stesso tempo".
In fondo tutta l'argomentazione di Kautsky contro Pannekoek, e
particolarmente il suo magnifico argomento sulla necessità dei funzionari
nelle organizzazioni sindacali e di partito, provano che Kautsky ripete i
vecchi "argomenti" di Bernstein contro il marxismo in generale. Nel suo
libro Le premesse del socialismo, il rinnegato Bernstein si scaglia contro
l'idea della democrazia "primitiva", contro quello ch'egli chiama
"democratismo dottrinario": mandati imperativi, funzionari non rimunerati,
rappresentanza centrale senza poteri, ecc.
Per provare l'inconsistenza di questo sistema democratico "primitivo",
Bernstein invoca l'esperienza delle trade-unions inglesi, quale è
interpretata dai coniugi Webb. Nei settant'anni del loro sviluppo, le
trade-unions, che si sarebbero sviluppate "in piena libertà" (p. 137 ed.
tedesca), si sarebbero convinte appunto della inefficacia del sistema
democratico primitivo e l'avrebbero sostituito con quello abituale: il
parlamentarismo unito al burocratismo.
In realtà le trade-unions non si sono sviluppate "in piena libertà", ma in
piena schiavitù capitalistica, nella quale, certo, "non si può fare a meno"
di una serie di concessioni al male imperante, alla violenza, alla menzogna,
all'esclusione dei poveri dagli affari di amministrazione "superiore". In
regime socialista rivivranno necessariamente molti aspetti della democrazia
"primitiva", perchè per la prima volta nella storia delle società civili la
massa della popolazione si eleverà a una partecipazione indipendente, non
solo nelle votazioni e nelle elezioni, ma nell'amministrazione quotidiana.
In regime socialista tutti governeranno, a turno, e tutti si abitueranno ben
presto a far sí che nessuno governi.
Col suo geniale spirito critico e analitico Marx vide nei provvedimenti
pratici della Comune quella svolta che gli opportunisti temono tanto e, per
viltà, si rifiutano di riconoscere perchè rifuggono dal rompere
definitivamente con la borghesia, e che anche gli anarchici si rifiutano di
vedere, o perchè sono troppo imprudenti, o in generale perchè non
comprendono le condizioni delle trasformazioni sociali di massa. "Non
bisogna nemmeno pensare a distruggere la vecchia macchina statale; che cosa
diverremmo senza ministeri e senza funzionari": così ragiona l'opportunista
imbevuto di spirito filisteo e che, in fondo, non solo non crede alla
rivoluzione e alla sua potenza creatrice, ma ha di essa una paura mortale
(come i nostri menscevichi e i nostri socialisti-rivoluzionari).
"Bisogna pensare unicamente alla distruzione della vecchia macchina statale;
è inutile approfondire gli insegnamenti concreti delle rivoluzioni
proletarie passate e analizzare con che cosa e come sostituire ciò che si
distrugge": così ragiona l'anarchico (il migliore degli anarchici,
naturalmente, e non quello che, al seguito dei signori Kropotkin e compagni,
si trascina dietro la borghesia); e l'anarchico arriva in tal modo alla
tattica della disperazione, e non al lavoro rivoluzionario risoluto,
inesorabile, che però al tempo stesso si pone dei compiti concreti e tiene
conto delle condizioni pratiche del movimento delle masse.
Marx ci insegna ad evitare questi due errori; ci insegna a dar prova di
illimitato coraggio nel distruggere tutta la vecchia macchina statale e ci
insegna al tempo stesso a porre il problema in modo concreto: in poche
settimane, la Comune potè incominciare a costruire una nuova macchina
statale proletaria; ed ecco i provvedimenti da essa presi per realizzare una
democrazia più perfetta e sradicare la burocrazia. Impariamo dunque dai
comunardi l'audacia rivoluzionaria, cerchiamo di vedere nei loro
provvedimenti pratici un abbozzo dei provvedimenti praticamente urgenti e
immediatamente realizzabili e arriveremo allora, seguendo questa strada,
alla completa distruzione della burocrazia.
La possibilità di questa distruzione ci è garantita dal fatto che il
socialismo ridurrà la giornata di lavoro, eleverà le masse a una vita nuova
e metterà la maggioranza della popolazione in condizioni tali da permettere
a tutti, senza eccezione, di adempiere le "funzioni statali", ciò che porta
in ultima analisi alla completa estinzione di qualsiasi Stato in generale.
"...Il compito dello sciopero di massa continua Kautsky non può essere di
distruggere il potere statale, ma soltanto di indurre il governo a fare
delle concessioni su una determinata questione o di sostituire un governo
ostile al proletariato con un governo che gli vada incontro
[entgegenkommende] ...Ma mai, in nessun caso, ciò" (cioè la vittoria del
proletariato su un governo ostile) "può portare alla distruzione del potere
statale, il risultato non può essere che un certo spostamento [Verschiebung]
nel rapporto delle forze all'interno del potere statale... L'obiettivo della
nostra lotta politica rimane dunque, come per il passato, la conquista del
potere statale mediante il conseguimento della maggioranza in Parlamento e
della trasformazione del Parlamento in padrone del governo" (pp. 726, 727,
732).
Questo è già purissimo e banalissimo opportunismo, la rinuncia di fatto alla
rivoluzione, pur riconoscendola a parole. Il pensiero di Kautsky non va
oltre un "governo che vada incontro al proletariato", ed è un passo indietro
verso il filisteismo in rapporto al 1847, anno in cui il Manifesto del
Partito comunista proclamava "l'organizzazione del proletariato in classe
dominante".
Kautsky sarà costretto a realizzare l'" unità", che gli sta tanto a
cuore, con gli Scheidemann, i Plekhanov, i Vandervelde, tutti unanimi nel
lottare per un governo "che vada incontro al proletariato".
Quanto a noi, noi romperemo con questi rinnegati del socialismo e lotteremo
per la distruzione di tutta la vecchia macchina dello Stato affinchè il
proletariato armato diventi esso stesso il governo. Sono due cose del tutto
diverse. Kautsky sarà costretto a rimanere nella piacevole compagnia dei
Legien e dei David, dei Plekhanov, dei Potresov, degli Tsereteli e dei
Cernov, che sono pienamente d'accordo nel lottare per uno "spostamento nel
rapporto delle forze all'interno del potere dello Stato", per il
"conseguimento della maggioranza in Parlamento e della trasformazione del
Parlamento in padrone del governo", nobilissimo obiettivo che può essere
completamente accettato dagli opportunisti e che non esce per nulla dal
quadro della repubblica borghese parlamentare.
Quanto a noi, noi romperemo con gli opportunisti; e il proletariato
cosciente sarà tutto con noi nella lotta, non per uno "spostamento nel
rapporto delle forze", ma per il rovesciamento della borghesia, per la
distruzione del parlamentarismo borghese, per una repubblica democratica sul
tipo della Comune o della repubblica dei Soviet dei deputati operai e
soldati, per la dittatura rivoluzionaria del proletariato.
Nel socialismo internazionale vi sono tendenze ancora più a destra di quella
di Kautsky: la Rivista mensile socialista in Germania (Legien, David, Kolb e
molti altri, compresi gli scandinavi Stauning e Branting); i jauressisti e
Vandervelde in Francia e nel Belgio; Turati, Treves e gli altri
rappresentanti della destra nel Partito socialista italiano; i fabiani e gli
"indipendenti" (il "partito operaio indipendente" è sempre stato, in realtà,
dipendente dai liberali) in Inghilterra e tutti gli altri. Tutti questi
signori, che hanno una parte assai notevole e molto spesso preponderante
nell'attività parlamentare e nella stampa del partito, respingono
apertamente la dittatura del proletariato e rivelano un evidente
opportunismo. Per essi la "dittatura" del proletariato è "in contraddizione"
con la democrazia! In fondo niente di serio li distingue dai democratici
piccolo-borghesi.
Abbiamo quindi diritto di concludere che la Seconda Internazionale,
nell'immensa maggioranza dei suoi rappresentanti ufficiali, è completamente
caduta nell'opportunismo. L'esperienza della Comune è stata non soltanto
dimenticata ma travisata. Invece di infondere nelle masse operaie la
convinzione che si avvicina il momento in cui esse dovranno agire e spezzare
la vecchia macchina statale, sostituirla con una nuova e fare del loro
dominio politico la base della trasformazione socialista della società, si è
inculcato in esse la convinzione contraria, e la "conquista del potere" è
stata presentata in modo tale che mille brecce rimanevano aperte
all'opportunismo.
La deformazione e la congiura del silenzio intorno al problema
dell'atteggiamento della rivoluzione proletaria nei confronti dello Stato
non potevano mancare di esercitare un'immensa influenza, in un momento in
cui gli Stati, muniti di un apparato militare rafforzato dalle competizioni
imperialiste, sono diventati dei mostri militari che mandano allo sterminio
milioni di uomini per decidere chi, tra l'Inghilterra e la Germania, tra
questo o quel capitale finanziario, dominerà il mondo.
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