STALIN E LO STALINISMO
Oggi più nessuno crede nel mito di Stalin, se non qualche irriducibile
vetero-comunista. Ma la critica dello stalinismo non è mai stata facile,
come invece in Occidente si è sempre voluto far credere. Da noi lo
stalinismo è stato liquidato senza un'analisi politica e ideologica seria:
da un lato perché gli intellettuali di sinistra, fino a ieri, non volevano
rinnegare l'esperienza del "socialismo reale", dall'altra perché gli
intellettuali borghesi non volevano confrontarsi seriamente col marxismo. E
così ci si è limitati a evidenziare dello stalinismo gli aspetti che più
suscitano riprovazione e sdegno, come ad es. i gulag, la collettivizzazione
forzata dei contadini, la burocratizzazione del sistema, ecc.
In realtà, nelle opere e negli slogans di Stalin è difficile, di primo
acchito, trovare una discordanza con i concetti abituali del marxismo. Lo è
soprattutto se ci si limita a considerare in maniera isolata certe sue
affermazioni, evitando di collocarle in un quadro d'insieme ove risultino
interdipendenti. La verità non è mai la somma di affermazioni giuste e
separate. Ancora oggi, purtroppo, molti sono dell'avviso che le deviazioni
staliniane dal marxismo riguarderebbero tre soli elementi, considerati
peraltro di secondaria importanza:
la riduzione dell'uomo comune a mero ingranaggio del sistema,
l'idea del partito come casta di privilegiati,
la concezione secondo cui l'edificazione del socialismo comporta l'acuirsi
della lotta di classe (di qui l'uso della violenza come metodo di
regolazione dei problemi socio-politici).
L'economia del nostro discorso però ha un'unica finalità: quella d'indicare
alcuni fondamentali aspetti dello stalinismo che la coscienza politica del
periodo in cui esso s'è formato, non è stata capace di cogliere nella loro
pericolosità. Vediamo anzitutto la pretesa concordanza che si vuole vedere
in Marx, Lenin e Stalin circa il rifiuto del valore mercantile e del mercato
nel contesto del socialismo, che è l'affermazione dell'idea di uno scambio
diretto dei prodotti in virtù di una pianificazione autoritaria dall'alto.
Ora, nessuno è in grado di dimostrare in quali opere Marx raccomanda di
misconoscere i meccanismi del mercato e della formazione dei prezzi, nonché
d'introdurre lo scambio diretto dei prodotti e la pianificazione statale in
condizioni analoghe a quelle che si verificarono in Russia dopo il 1917. Non
è forse vero che Marx, Engels e Lenin riferivano la possibilità di superare
i rapporti merce-valore a un regime sociale in grado di sorgere sulla base
del capitalismo altamente evoluto? Il socialismo non doveva forse costituire
un'alternativa a quel capitalismo capace di socializzare il processo
produttivo, di creare un lavoratore altamente qualificato, ecc.? Solo in
questa tappa lo scambio diretto dei prodotti e la realizzazione di piani
orientati verso i bisogni degli uomini diventano possibili e cominciano a
giocare un ruolo progressista.
Nella situazione successiva all'Ottobre 1917, il problema principale era
quello di trovare un'alternativa a un'economia caratterizzata da una
pluralità enorme di strutture economiche, soprattutto quelle di tipo
piccolo-borghese (senza dimenticare la presenza dei rapporti semi-feudali).
Lenin non aveva dubbi nell'affermare che in quelle condizioni il socialismo
non poteva essere costruito in modo "immediato". Al massimo si poteva
parlare di "transizione" verso il socialismo. Lenin anzi si rendeva conto
che il capitalismo privato della piccola borghesia era ostile non solo al
socialismo ma anche al capitalismo di stato. Ecco perché pensava che i
socialisti russi dovessero prendere lezioni dai tedeschi su come costruire
il capitalismo statale.
Viceversa, per Stalin e il suo entourage il primato spettava alla volontà
politica, alla violenza politica (di qui l'uso di metodi terroristici), con
cui essi cercavano di regolare tutti i problemi dello sviluppo economico e
culturale, senza pensare se le condizioni per la realizzazione di questi o
quegli obiettivi fossero effettivamente mature.
Ovviamente ciò non va imputato a una presunta "perfidia politica" o ad una
"malattia mentale" di Stalin. La questione è molto più complessa e riguarda,
se vogliamo, le tendenze storiche oggettive, le quali non possono essere
interpretate ricorrendo alle concezioni filosofiche tradizionali. La storia
della filosofia non ci è di nessun aiuto per comprendere a fondo l'ideologia
stalinista. Che senso avrebbe, infatti, applicare -come alcuni fanno- il
concetto di "idealismo soggettivo estremo" a una figura come Stalin, quando
lo stesso concetto lo si applica a filosofi come Fichte, Berkeley, Bogdanov?
Lo stalinismo, in realtà, non ha precedenti storici. Esso è l'ideologia e la
dittatura dell'élite burocratica, capeggiata da un despota ritenuto
onnipotente: un'ideologia volontarista e antiumanista, che usa la violenza
in tutte le sue forme. Ancora oggi gli stalinisti si considerano come veri
demiurghi della storia: "I quadri decidono tutto", diceva Stalin. Ai loro
occhi, la realtà sociale non è un sistema organico di rapporti interumani,
che si sviluppa in virtù di leggi proprie, attraverso gradi successivi di
maturità, ma è una materia prima come l'argilla, che si può manipolare a
proprio piacimento, usando la volontà politica, una buona organizzazione,
una disciplina di ferro e potenti mezzi di violenza. In questo senso lo
stalinismo è un sistema fondato sulla menzogna più sfacciata, sul cinismo
ideologico e sulla doppia morale.
Quali radici poteva avere un fenomeno così mostruoso? La formazione delle
premesse dello stalinismo vanno ricercate negli anni 1924-29. Le sue fonti
ideologiche risiedono in un marxismo semplificato, mentre quelle
socio-politiche in una strumentalizzazione della Rivoluzione d'Ottobre. A
dir il vero la volgarizzazione del marxismo era peculiare a tutto la
direzione bolscevica: Zinoviev, Trotski, Kamenev, Bucharin, Piatakov...,
salvo Lenin. L'atmosfera di lotta, prima durante e dopo l'Ottobre, li aveva
portati ad attribuire un grande ruolo all'iniziativa storica, all'attività
umana, all'esigenza di "trasformare" il mondo più che di "interpretarlo". I
fatti sembravano dar loro ragione: la rivoluzione procedeva sconfiggendo,
uno dopo l'altro, i suoi nemici, superando, uno dopo l'altro, i suoi
problemi.
Le radici dello stalinismo stanno proprio in questo orientamento gauchiste,
soggettivistico sul piano ideologico e volontaristico su quello politico:
atteggiamento che trovò subito appoggi molti vasti nella mentalità primitiva
di una parte assai considerevole di masse rivoluzionarie.
Naturalmente esiste una certa differenza fra gli errori in buona fede di
Bucharin, che tendeva a esagerare le possibilità del popolo rivoluzionario
(e dei suoi capi) nella storia, e la politica deliberatamente impopolare
degli stalinisti, almeno così come essa appare alla fine degli anni '20. A
dir il vero, la differenza principale, all'interno del bolscevismo, tra
stalinisti e antistalinisti, non stava tanto negli obiettivi da perseguire:
nessuno era favorevole allo zarismo, né alla dittatura militare di Kornilov,
né alla guerra, al parassitismo e all'arbitrio del capitale. I problemi
tuttavia sorgevano quando si doveva stabilire il modo di liquidare la
vecchia società e di edificare quella nuova.
Nella storia del movimento rivoluzionario russo si erano già viste all'opera
due diversi approcci della realtà: quello autoritario dei gruppi
cospirativi, che avrebbe poi portato al comunismo da caserma, di
Zainchevsky, Nechaev e Tkachov; e quello democratico di Radishev, Herzen,
Lavrov, Dobroljubov e Chernyshevsky, che valorizzava l'attività creativa e
storica del popolo.
L'orientamento autoritario dello stalinismo è stato appoggiato dagli strati
sociali meno evoluti, più marginali, il cui odio per il regime sociale
oppressivo, antecedente alla rivoluzione, aveva assunto un carattere
totalmente distruttivo. Questi strati sociali possono combattere
l'oppressore con grande eroismo, sono capaci di enormi sacrifici, ma possono
anche trasformare in una legge generale della nuova società le loro istanze
non sviluppate, la loro inferiorità culturale, i loro rozzi principi morali,
frutto di un'esistenza subumana, condotta nel passato regime. I successi
straordinari dell'Ottobre e il basso livello culturale d'una parte
considerevole della popolazione provocarono l'euforia generale
dell'onnipotenza.
Lenin fu uno dei pochi ad andare contro corrente. Sono noti i suoi appelli
ad apprendere le tecniche del commercio presso gli specialisti, a servirsi
di tutta la cultura del passato, a sviluppare l'industria in modo
scientifico, a promuovere i principi cooperativistici nelle campagne, sulla
base del libero consenso, della persuasione, usando esempi concreti di
successo: in una parola, a unire in modo dialettico la direzione
centralizzata con la democrazia operaia. L'entusiasmo andava combinato -a
suo avviso- con l'interesse materiale dei lavoratori, altrimenti si sarebbe
caduti nella retorica e nella demagogia.
Stalin la pensava diversamente. A suo parere, era necessario creare in
pochissimi anni e con una terapia d'urto i necessari rapporti socialisti
nelle campagne, trasformando i contadini in colcosiani (ed eliminando i
recalcitranti). Nell'arco di due-tre piani quinquennali l'URSS avrebbe
dovuto superare i paesi più progrediti del mondo, altrimenti sarebbe stata
la fine della rivoluzione. La religione doveva essere estirpata con la
forza. Questi e altri principi furono appoggiati da quella parte di popolo
meno evoluta, meno istruita, e, almeno in un primo momento, la loro
applicazione conseguì notevoli risultati, anche se a prezzo di enormi
sacrifici e soprattutto di spaventosi soprusi.
Il meccanismo generale che permette ai regimi "bonapartisti" (ivi incluso lo
staliniano) di formarsi una propria base sociale, è descritto perfettamente
da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Il bonapartismo -come noto-
trova la sua linfa vitale negli strati sociali più oppressi: negli anni '40
del secolo scorso si trattava soprattutto dei contadini. Una volta poi
realizzati i principi della burocrazia, del militarismo e dell'apparato
repressivo statale, il bonapartismo non ebbe bisogno neppure dell'appoggio
dei contadini, i quali anzi furono soggetti a feroci persecuzioni. Questo
perché la base sociale più adeguata dei regimi bonapartisti maturi (incluso
quindi lo stalinismo) è la burocrazia, non la classe contadina.
Lo stalinismo s'è trasformato da sistema volontarista, legato a una certa
base popolare, il cui entusiasmo post-rivoluzionario era ancora molto vivo,
a sistema burocratico e impopolare verso la metà degli anni '30, cioè nel
momento in cui lo sviluppo dell'economia nazionale, alzando il livello
culturale del Paese, aveva portato i lavoratori ad un'opposizione sempre più
consapevole ai metodi dittatoriali del regime. Ciò tuttavia non impedì il
rafforzamento della burocrazia. Le ragioni sono più di una.
Anzitutto bisogna ricordare che all'inizio degli anni '20 il sistema
economico era caratterizzato da "isole produttive" poco legate tra loro. I
funzionari statali realizzavano sul piano politico-amministrativo quei
collegamenti che mancavano sul piano economico.
In secondo luogo va considerato il fatto che l'ignoranza dei lavoratori
ostacolava fortemente una partecipazione reale alla gestione economica,
ovvero un controllo effettivo degli organi statali e amministrativi.
In terzo luogo va detto che il sistema burocratico non ha mai smesso di
servirsi, coscientemente, del volontarismo e del soggettivismo per
autolegittimarsi (lo attesta p.es. l'ideologia del culto della personalità).
Queste ragioni però, se fanno pensare che la burocrazia era inevitabile, non
devono far pensare che il rafforzamento della burocrazia doveva
necessariamente portare allo stalinismo, cioè al dominio totale e
incondizionato della burocrazia. Le alternative allo stalinismo sono state
ben visibili sin dall'inizio degli anni '20, alla vigilia della NEP, nonché
nel 1927, durante il XV Congresso del partito, ed anche nel 1956, col XX
Congresso. Lo stesso Lenin aveva chiaramente detto che la burocrazia era il
pericolo maggiore della rivoluzione, la fonte di una possibile "reazione
termidoriana". Se le sue indicazioni fossero state seguite con coerenza e
decisione, probabilmente i destini dell'URSS sarebbero stati diversi.
Il programma di Lenin per indebolire la burocrazia era basato sulla Nuova
Politica Economica, sull'estensione delle cooperative, sulle forme di
produzione capitalistico-statali, sulle concessioni al capitale estero
d'investire in URSS, sugli incentivi economici per i lavoratori (onde
eliminare la costrizione extra-economica), sulla partecipazione degli operai
e dei contadini all'attività degli organi superiori del potere statale, sul
controllo dell'attività dei quadri dirigenti del partito, sullo sviluppo
della cultura generale del popolo.
Morto Lenin, i tentativi di Trotski e Preobrazhensky di creare un sistema
burocratico sulla base dell'accumulazione socialista primitiva fallirono
grazie soprattutto al ruolo teorico giocato da Bucharin nel corso del XV
Congresso del partito bolscevico (1927). Giustamente venne rifiutata l'idea
di sviluppare l'economia nazionale contro gli interessi dei contadini,
drenando risorse e mezzi dalla campagna alla città, trasformando officine e
fabbriche in caserme di operai, stimolando l'intensificazione del lavoro con
la violenza gius-politica. Tuttavia, già verso la fine degli anni '20 le
forze della "guardia leninista" avevano perso la loro influenza. Le Note di
un economista (1928) di Bucharin e la piattaforma di Ryutin (1932) furono
forse gli ultimi importanti tentativi di proseguire sulla via leninista.
Il leninismo uscì sconfitto dallo scontro con lo stalinismo semplicemente
perché esso cercò di frenare l'evoluzione verso il comunismo da caserma con
dei metodi non meno burocratici e autoritari. Si pensava cioè di poter
conseguire un obiettivo diverso usando gli stessi mezzi.
In seguito, il XX e XXII Congresso del Pcus, nonché gli sviluppi seguenti
all'aprile 1985, hanno dimostrato che un'alternativa allo stalinismo è
sempre possibile. Il corso della storia non presenta mai degli avvenimenti
inevitabili o irreversibili, ma sempre delle alternative soggette a
determinate scelte e destinate a ricomparire ogniqualvolta le decisioni
prese si rivelano fallimentari. Ovviamente resta falsa la tesi secondo cui
nella storia "tutto è possibile" o che "tutto dipende dall'uomo". Qui si
vuole soltanto affermare che non esiste mai un'unica via da seguire, né si
può sapere in anticipo quale soluzione avrà la meglio. I risultati,
generalmente, dipendono da numerosi fatti concreti.
Nell'epoca di Brezhnev la tendenza antiburocratica si esprimeva nelle forme
dello stalinismo "popolare", quello della fine degli anni '20. Il sogno era
di veder improvvisamente apparire all'orizzonte un uomo forte come Stalin,
capace di difendere il popolo dal potere totalizzante della burocrazia.
Questa forma di stalinismo non è così pericolosa come quella burocratica, in
quanto può essere superata da un'opera di paziente istruzione,
dall'estensione della glasnost e dei principi democratici, in virtù dei
quali gli uomini si rendono conto di quanto la loro forza sia sufficiente
per liquidare non solo la burocrazia, ma anche l'esigenza di contare sulla
potenza mitica di una personalità carismatica.
Trent'anni fa anche Kruschev cercò di finirla con lo stalinismo e la
burocrazia usando metodi burocratici. Ben lungi dal promuovere lo sviluppo
dei meccanismi sociali della democrazia, egli considerò la sua personalità
come garanzia ultima contro il ritorno dello stalinismo. In tal modo non
comprese che né il XX Congresso né la crescita della democrazia tra il 1956
e il 1961 potevano essere il risultato della sua azione personale (anche se
bisogna riconoscergli un certo coraggio politico). Sopravvalutando se
stesso, Kruschev non fece che ostacolare, in definitiva, il processo di
smantellamento dello stalinismo. Basta qui ricordare il modo con cui egli
trattava gli intellettuali (scrittori, artisti, giornalisti) o con cui
distribuiva i posti di presidente, di segretario del C.C. ecc. Non a caso,
sotto il suo potere, Lysenko e soci tornarono in auge, mentre i
neo-stalinisti Suslov e Brezhnev iniziarono la loro carriera politica.
Senza saperlo, fu proprio il krusciovismo a porre le basi del sistema
amministrativo di comando neo-stalinista. In sostanza si può parlare di
"socialismo democratico sovietico" solo per alcuni momenti storici veramente
significativi: gli anni 1917-29, il periodo bellico 1941-45 (qui, in
effetti, lo slancio patriottico e il sentimento di responsabilità personale
per i destini della Nazione diedero luogo ad alcuni processi di
destalinizzazione), relativamente gli anni 1953-65 e infine dal 1985 ad
oggi.
MITI E REALTA' DELLO STALINISMO
Dopo la rivoluzione d'Ottobre si era convinti che in Russia l'edificazione
di una nuova società sarebbe dipesa, sic et simpliciter, dalla
socializzazione dei mezzi produttivi. A tale scopo furono subito confiscate
e nazionalizzate quasi tutte le imprese industriali e commerciali, la quasi
totalità delle banche e dei trasporti. Dal censimento del 1920 risulta che
fra le imprese nazionalizzate si trovavano, oltre alle grandi unità
produttive, più di 1/7 di imprese aventi un solo operaio!
In fondo l'Antidühring di Engels, per i bolscevichi, parlava chiaro: "Con la
presa di possesso, da parte della società, dei mezzi produttivi, la
produzione mercantile è eliminata e, di conseguenza, il dominio del prodotto
sul produttore". E qualunque lavoro -prosegue Engels- diventa immediatamente
"lavoro sociale". Non pochi rivoluzionari e teorici del partito bolscevico
credettero che le condizioni venutesi a creare con la rivoluzione d'Ottobre
corrispondevano perfettamente a quelle descritte nei lavori teorici di Marx
ed Engels, e che, pertanto, la realizzazione pratica andava considerata come
un compito inderogabile.
Ben presto il commercio si trasformò -in questa concezione bolscevica- in
uno scambio "volgare" di merci, e non solo il commercio, ma anche il valore
del denaro, dell'oro, dei prezzi, delle banche...: tutto quanto aveva sapore
di "capitalismo" o di "commercio" perse ogni credibilità. L'uso della forza,
per realizzare questi mutamenti di mentalità, fu inevitabile.
A dir il vero Lenin ha sempre nutrito seri dubbi sulla automaticità di
questi processi. Egli si rifaceva a quei passi di Marx ed Engels in cui si
affermava che la socializzazione dei mezzi produttivi poteva avvenire in due
modi: giuridico (cioè amministrativo, volontarista) ed economico.
Quest'ultimo dai classici era considerato il migliore, poiché si riteneva
che l'altro causasse dei conflitti tra le forze e i rapporti produttivi. In
particolare, Engels sosteneva -sempre nell'Antidühring- che la
socializzazione economica diventa inevitabile quando la società si accorge
di non poter più gestire in maniera privata i grandi complessi produttivi.
Dunque non ogni statizzazione dell'economia è un segno della presenza del
socialismo. Se così fosse -diceva Engels- Bismarck, Napoleone e Metternich
andrebbero annoverati tra i fondatori del socialismo.
Il fatto è purtroppo che queste sottili ma importanti differenze non
venivano colte dalla maggioranza dei bolscevichi rivoluzionari.
Socializzazione "forzata" o "economica" venivano continuamente confuse,
identificate. E su questo equivoco si costruì il socialismo nel periodo del
"comunismo di guerra". Negli anni 1918-21 l'impresa statale perse ogni
autonomia socio-economica; ogni altra forma di proprietà venne ridotta al
minimo; lo scopo della produzione era diventato quello di produrre dei
valori tout-court e non dei valori d'uso, per cui ci si orientava verso gli
indici lordi; il denaro si era trasformato in una unità di conto del tutto
formale, assolutamente incapace di svolgere la funzione di equivalente
universale; il mercato era stato totalmente escluso dal sistema
dell'economia nazionale e considerato come l'antitesi principale del
socialismo. Ecco in che modo si era convinti di realizzare le idee del
socialismo scientifico.
Lenin si accorse subito delle difficoltà insorte nel campo economico e
commerciale, cioè in pratica s'accorse che nessuna risoluzione
politico-amministrativa avrebbe mai potuto assicurare il passaggio dalla
nazionalizzazione, cioè dalla mera espropriazione dei produttori privati,
alla socializzazione, poiché quest'ultima, nei fatti, era un processo molto
più lento, complesso e difficile (anche se più sicuro). Ecco perché, ad un
certo punto, gli sembrò del tutto naturale lasciar coesistere nella società
molteplici strutture eterogenee, esprimenti un grado diverso di maturità
economica e sociale.
A tale scopo Lenin propose di socializzare la produzione già "socializzata":
il che appariva un'assurdità a coloro che si erano limitati a leggere in
modo schematico le opere dei classici. Di qui la dura lotta contro la
"malattia infantile del comunismo": il gauchisme, che accusava Lenin di
revisionismo, di voler rimandare alle calende greche la realizzazione del
vero socialismo.
Tuttavia Lenin ebbe la meglio e si poté così dar vita all'esperimento della
NEP. Di questa nuova politica economica ancora oggi si ha un giudizio
limitato, in quanto si pretende di ridurla al solo settore agricolo. In
realtà essa costituì una revisione radicale di tutte le idee relative alla
costruzione del socialismo. Si pensi ad es. alla trasformazione dell'impresa
statale da oggetto passivo di una direzione dall'alto a soggetto attivo
della politica economica, o alla comparsa delle cooperative, delle società
per azioni, delle attività professionali individuali. La ripartizione
centralizzata dei mezzi materiali e tecnici nell'economia nazionale venne
sostituita, in virtù della NEP, dal commercio all'ingrosso. La riforma
monetaria del 1922-24, resasi necessaria dal fatto che l'eccesso di moneta
svalutata invadeva il mercato, rimpiazzò gli "assegnati" sovietici con una
moneta classica: il cervontsy d'oro, cioè in pratica la Banca di Stato,
creata nel 1921, aveva il diritto di emissione di banconote convertibili in
oro.
Il criterio dell'efficienza di un'impresa divenne il profitto e non la
percentuale con cui essa realizzava i piani previsti dallo Stato. La legge
del valore e del mercato vennero riconosciuti quali maggiori
regolatori-guida dello sviluppo dell'economia socialista. Queste modifiche
non vennero considerate da Lenin in maniera antitetica alla teoria marxista,
in quanto che egli riteneva "specifiche" le condizioni della Russia.
I risultati non si fecero attendere. Dopo la fame che aveva ucciso migliaia
di persone, l'agricoltura si riprese rapidamente, le aree coltivate
raggiunsero i livelli pre-bellici, mentre i bovini, gli ovini, i caprini e i
suini li superarono. Nel 1923 l'URSS divenne per la prima volta dall'Ottobre
esportatrice di grano (come già lo era al tempo degli zar). Dopo quattro
anni di NEP il reddito nazionale (diminuito di tre volte durante la guerra
civile) raggiunse il suo valore anteriore al 1914. Fra il 1921 e il '24 il
prodotto lordo della grande industria statale aumentò più di due volte.
Lenin, finché rimase in vita, seppe ostacolare la tendenza dogmatica, sempre
latente nel partito, che andava imponendosi, ma con la sua morte la
situazione peggiorò bruscamente. Lo stalinismo rappresentò appunto una
variante di questa tendenza, forse la più coerente o la meglio organizzata.
Tanto che quando Krusciov, al XX congresso del Pcus, denunciò le repressioni
di massa e le enormi violazioni della legalità socialista, condannando
altresì il culto della personalità, non mise in dubbio l'appartenenza
ideologica di Stalin al marxismo. Ancora oggi, d'altra parte, per molti è
così. Stalin -questo vuole il mito- preservò la purezza del marxismo,
minacciato da destra e da sinistra, poi per eccesso di zelo versò sangue più
o meno innocente. Non va tuttavia dimenticato che lo stalinismo, come forma
di pensiero e di azione, va ben al di là del personaggio individuale che lo
incarnò.
In realtà Stalin snaturò Marx in una serie di questioni di fondamentale
importanza. Anzitutto nell'interpretazione dei problemi della proprietà,
secondariamente in quella del ruolo della violenza nell'edificazione del
socialismo, infine in quella della valutazione del ruolo della legge del
valore per la società socialista. Vediamo ora questi punti nel dettaglio.
Da tempo l'umanità è convinta che la proprietà privata dei mezzi produttivi
è fonte di molte ingiustizie. È in effetti su questa forma di proprietà che
nascono le contraddizioni fra miseria e opulenza, fra sovralimentazione e
fame, con l'oppressione politica, giuridica e militare che ne consegue.
Molti filosofi e rivoluzionari del passato ne chiesero l'abolizione.
Come noto, il marxismo riconosce l'iniquità morale della proprietà privata.
Tuttavia la via verso l'eliminazione dell'ingiustizia sociale passa, secondo
questa ideologia, non attraverso la sua soppressione politica ma attraverso
il suo superamento economico. Una formazione economica -diceva Marx- deve
prima esaurire tutte le sue potenzialità.
Può dunque il socialismo svilupparsi in presenza della proprietà privata?
No, non può, ma questo non significa -ed è l'esperienza che lo ha
dimostrato- che la costruzione del socialismo debba necessariamente
coincidere con la fine immediata della proprietà privata. Il superamento di
questa forma di proprietà deve avvenire gradualmente e il socialismo, in
questo senso, dovrebbe offrire la garanzia che la transizione avvenga in
maniera indolore. Di per sé la proprietà privata non è una maledizione:
anzi, storicamente, rispetto al latifondo feudale, essa costituì un
progresso notevole.
L'abolizione radicale della proprietà privata in URSS, subito dopo la
rivoluzione, avvenne a dispetto delle idee di Lenin, in maniera del tutto
spontanea e istintiva. Nel primo abbozzo delle Tesi d'aprile Lenin aveva
intenzione di confiscare soltanto le terre dei grossi proprietari fondiari.
Egli non voleva la realizzazione immediata del socialismo, ma piuttosto un
passaggio sistematico, graduale, progressivo del controllo della produzione
sociale e della divisione dei prodotti dalle mani dei privati a quelle dei
soviet dei deputati operai e contadini. In pratica egli si rendeva conto
della inadeguatezza della struttura economica russa per l'introduzione del
socialismo. Al massimo prevedeva la confisca di quelle proprietà private la
cui grandezza rendeva indispensabile un controllo e una gestione collettiva,
sociale (ad es. le banche, le ferrovie, i zuccherifici, ecc.).
Questo approccio flessibile di Lenin subì una prima battuta d'arresto con lo
scatenarsi della guerra civile, coll'interventismo straniero, col sabotaggio
della borghesia (che, politicamente immatura, non seppe collaborare col
nuovo regime). Per punire il sabotaggio si usarono appunto gli strumenti
della confisca e della nazionalizzazione (queste disposizioni repressive
durarono almeno sino al 1921). Peraltro, molte imprese vennero abbandonate
dagli stessi capitalisti. Ancora lo Stato non aveva intenzione di estendere
il settore pubblico, poiché non era in grado di gestirlo. "Noi abbiamo la
ridicola pretesa di voler istruire i managers dei trusts borghesi del nostro
Paese" -diceva Lenin, il quale cercava, frenando la fretta di espropriarle,
di costruire un rapporto di fiducia con le forze economiche disposte a
collaborare. In particolar modo egli escludeva l'uso della coercizione nei
confronti del mondo contadino. L'unica "forza" da usare -diceva- doveva
essere quella dell'"esempio", cioè della persuasione ragionata basata sulla
prassi.
Anche nei confronti della piccola borghesia l'atteggiamento di Lenin era
favorevole alle concessioni: non per "limitare" i compiti della
rivoluzione -come credevano gli estremisti-, ma "come forma di transizione
al socialismo per i diversi settori della piccola borghesia". Già nella
primavera del 1918 Lenin aveva elaborato una nuova posizione verso la
borghesia, considerata complessivamente. Egli infatti aveva chiesto e
ottenuto che alla borghesia s'imponessero soltanto delle tasse periodiche e
regolari sul reddito e sugli immobili, senza costringerla a esazioni
supplementari.
Appena ristabilita la pace, Lenin volle tornare a cooperare con la borghesia
proponendo la svolta della NEP. Egli affermò chiaramente che tale politica
economica era in realtà la vecchia politica che i bolscevichi avevano
cercato di realizzare subito dopo la rivoluzione e che venne impedita da
cause di forza maggiore. Con ciò Lenin non voleva idealizzare l'importanza
della proprietà privata, ma solo impedire che la si abolisse con metodi
amministrativi, cioè con la forza. Essa piuttosto andava integrata nel
processo naturale di transizione al socialismo.
Nel maggio 1918 Lenin arrivò persino a dire che il capitalismo di stato, dal
punto di vista economico, era superiore all'economia sovietica di quel
tempo. Più tardi egli sostenne che lo sviluppo delle cooperative avrebbe
potuto accelerare la socializzazione economica della proprietà privata. Da
questo alla parziale denazionalizzazione e alla richiesta di prestiti
stranieri il passo fu breve. L'idea di Lenin in sostanza era quella di
permettere alle due forme di proprietà di coesistere e di competere
pacificamente, lasciando alla storia il compito di decidere quale delle due
avrebbe meritato di sopravvivere e quale forma avrebbe assunto il futuro
socialismo.
La differenza fra Lenin e gli altri bolscevichi, in questo senso, era
considerevole e la ragione, probabilmente, è ancora lungi dall'essere
compresa. Infatti la stragrande maggioranza dei leaders di punta del partito
era convinta che la rivoluzione avrebbe permesso di edificare il socialismo
senza perdere tempo. Viceversa, per Lenin la rivoluzione aveva soltanto
inaugurato il lungo e graduale cammino verso il socialismo, nel senso cioè
che la socializzazione dei mezzi produttivi non coincideva, stricto sensu,
con la loro nazionalizzazione o statalizzazione, sebbene Lenin sia sempre
stato convinto che il "vero socialismo" sarebbe nato passando soprattutto
attraverso le organizzazioni statali.
Stalin non fece che portare alle estreme conseguenze le convinzioni di
questi bolscevichi. A suo giudizio, infatti, la proprietà privata andava
eliminata completamente, e non solo nell'industria, nel commercio e
nell'edilizia, ma anche nell'agricoltura, ove la maturità socialista delle
forze produttive era praticamente inesistente. Qualunque forma di proprietà
pubblica veniva considerata, di per sé, migliore di qualunque forma di
proprietà privata. Sulla base di questo assioma egli era convinto di poter
fare dell'URSS uno dei principali granai del mondo.
Questa svalutazione unilaterale della proprietà privata, Stalin la desunse
non dal marxismo, ma da quell'ideologia pseudo-socialista alla Dühring, il
cui assoluto disprezzo della proprietà privata dipendeva dalla convinzione
ch'essa di per sé fosse il frutto di una violenza dell'uomo sull'uomo, cioè
una sorta di "peccato d'origine" che aveva contaminato l'intera umanità.
Dühring era convinto che l'abolizione tout-court di questa ingiustizia
avrebbe portato la felicità agli uomini.
Le obiezioni di Engels non vennero neppure prese in considerazione da
Stalin. Come noto, Engels aveva sottolineato che le ingiustizie della
proprietà privata risaltano soprattutto quando il sistema produttivo è in
fase discendente, e che le masse sfruttate si sentono tanto più decise a
realizzare la transizione al socialismo, non quanto più avvertono il senso
di queste ingiustizie, ma piuttosto quanto più le collegano alla fine
irreversibile del capitalismo, cioè alla fine delle illusioni sulla
riformabilità di questo sistema. Le ingiustizie inerenti alla proprietà
privata, in altre parole, non portano di per sé a concludere che sia
necessario abolire quest'ultima, in quanto resta sempre da dimostrare
ch'essa abbia smesso d'essere un fenomeno "socialmente normale" o che la
produzione organizzata sulla base della proprietà sociale sia capace
d'assicurare un rendimento superiore.
Viceversa, Stalin fece di tutto per eliminare anche la proprietà privata
frutto del lavoro umano, la quale -a suo giudizio- avrebbe potuto generare
il capitalismo quotidiano, in modo spontaneo e su vasta scala. La sola
supposizione del pericolo era considerata sufficiente per impedire il
formarsi di tale proprietà. Stalin, in sostanza, aveva una specie di
concezione "a-temporale" della proprietà privata, in quanto applicava le
conclusioni giuste di Lenin a condizioni del tutto diverse da quelle cui
Lenin si riferiva.
Il realismo di Lenin era così maturo che prevedeva la transizione al
socialismo anche attraverso ciò che in apparenza sembrava negarlo, per
quanto -è bene sottolinearlo- egli intendesse soprattutto riferirsi a quella
proprietà privata organizzata in forma cooperativistica. Il dogmatismo di
Stalin invece era così forte ch'egli non solo eliminò ogni forma di
cooperazione, ma guardò anche con sospetto gli stessi colcos, pur creati in
conformità alle sue concezioni collettivistiche: egli infatti riteneva che i
colcos fossero una forma di proprietà non "sociale" ma di "gruppo", e quindi
una forma assai transitoria di produzione. Nell'opera Problemi economici del
socialismo in URSS, l'esistenza dei colcos viene addirittura vista come un
ostacolo al passaggio del Paese verso il comunismo.
La storia s'è poi fatta carico di dimostrare che è impossibile creare una
proprietà sociale in forza di un atto amministrativo di socializzazione.
Stalin quindi non solo abolì la proprietà "privata" ma anche quella
"sociale", che può essere solo il frutto di un'organizzazione
consapevolmente accettata dai lavoratori. Egli piuttosto aveva permesso la
creazione della proprietà burocratica e statale, facendo così regredire
notevolmente sia lo sviluppo economico del Paese, sia lo sviluppo teorico
del marxismo.
La crisi (speriamo irreversibile) delle idee e della prassi staliniana è
dipesa anche da questa regressione, cioè dalla forte crisi economica che ha
colpito tutto il cosiddetto "socialismo reale", a partire dai primi anni
'80, inoltre dalla generale insofferenza per i metodi dirigisti e
amministrativi, per l'insensatezza di una proprietà statale che è insieme di
"tutti" e di "nessuno", per il rigido dogmatismo ideologico, infine dalla
costatazione che il capitalismo è un sistema capace di evolversi, di
svilupparsi sotto la spinta delle pressioni esterne, grazie soprattutto alla
rivoluzione tecnologica e a nuove modalità di sfruttamento neo-coloniale.
Non solo quindi i fautori del socialismo devono abituarsi all'idea di dover
convivere col capitalismo per un tempo indefinito, ma possono anche
interiorizzare l'idea che una cooperazione economica e commerciale col
capitalismo può tornare a vantaggio dello stesso socialismo.
Vediamo ora l'interpretazione del ruolo della violenza. Senza dubbio Lenin
si appellò alla violenza nella sua politica. Dopo aver confiscato le terre
ai grossi proprietari fondiari e ai monasteri, le diede ai contadini. I
comitati dei contadini poveri, organizzatisi nell'estate del 1918, usarono
la coercizione per espropriare ai kulaki 50 milioni di ettari (su 75-80
milioni di cui disponevano), ivi compresa l'attrezzatura tecnica e il
bestiame. Moltissimi kulaki vennero addirittura eliminati nel corso della
guerra civile. Ma in tutti questi casi si trattò di una violenza necessaria,
inevitabile, una violenza "minore" per impedirne una "maggiore": i kulaki
non avrebbero mai rinunciato spontaneamente allo sfruttamento di milioni di
contadini.
Stalin invece, ispirandosi all'idea che una qualunque socializzazione è una
forma di socialismo, iniziò verso la fine degli anni '20 una campagna senza
precedenti di concentrazione dei contadini nei colcos, non esitando a
sterminare fisicamente, civilmente e moralmente quanti si mostravano poco
entusiasti verso questi provvedimenti. Naturalmente egli giustificava
l'inasprimento della lotta di classe asserendo che nella società vi erano
ancora degli elementi borghesi ostili al socialismo. Stalin fece suo il
principio trotskista secondo cui quanto più si sviluppa il socialismo, tanto
più aumenta la lotta di classe.
Come un rullo compressore egli distrusse almeno 3 milioni di nuclei
familiari contadini (l'11-12% del totale), determinando un crollo
incredibile della produzione: ad es. nel 1933 i bovini erano passati dai
58,9 milioni del 1916 ai 38,6 milioni; gli equini erano passati da 35,1
milioni a 16,6 milioni; gli ovini e i caprini da 115,2 milioni a 50,6
milioni; i suini da 20,3 milioni a 12,2 milioni. Una terribile fame cominciò
immediatamente a decimare milioni di persone. Ufficialmente si disse che
questo fu un prezzo necessario al progresso della società (dati e
statistiche erano ovviamente manipolati).
Non che, in effetti, mancassero dei successi qualitativi e quantitativi nel
campo industriale, ma, molto probabilmente, essi si sarebbero verificati
anche senza lo stalinismo: anzi c'è da credere che lo sarebbero stati in
misura assai maggiore e comunque senza un prezzo così alto da pagare.
Peraltro è da poco che si sono cominciati a confrontare i risultati
dell'industrializzazione sovietica sotto Stalin con quelli dei Paesi che in
quegli stessi anni registravano importanti successi economici: prima ci si
limitava a confrontare i risultati sotto lo stalinismo con il livello di
sviluppo della Russia del 1913. Ebbene, se si guardano anche soltanto i
valori della produzione pro-capite del ferro, dell'acciaio e
dell'elettricità di Paesi come USA, Gran Bretagna e Germania, nell'arco di
tempo che va dal 1913 al 1937, si noterà che gli indici corrispettivi
dell'URSS registravano un incremento del tutto irrisorio.
In tutti i Paesi del mondo, l'acciaio, il ferro, il petrolio, il cemento non
vengono prodotti, normalmente, per un fine in sé, ma per incrementare la
ricchezza generale del Paese, fissata dal valore del reddito nazionale (il
che ovviamente non impedisce la speculazione capitalistica). Stalin invece
non amava questo indice sintetico dell'attività economica. Di "crescita del
reddito nazionale" o non ne parlava affatto, oppure ne parlava usando
formule assai vaghe, in virtù delle quali era impossibile mettere in
discussione gli incredibili incrementi sostenuti in sede ufficiale. Facciamo
un esempio: secondo calcoli scientifici, il reddito nazionale in URSS è
aumentato di 6-7 volte dal 1928 al 1985; secondo i calcoli staliniani il
reddito era incrementato del 50% dal 1929 al 1941! I dati ufficiali,
peraltro, non prevedevano alcun indice per verificare l'effettiva qualità
dei progressi.
Guardato più da vicino, il modello staliniano non solo era poco efficiente
ma anche molto dispendioso. Esso si è retto in piedi sia con l'uso smisurato
della violenza, sia con la grande quantità di risorse naturali dell'URSS.
Praticamente la miseria veniva giustificata con le enormi spese per la
difesa e l'industrializzazione. Quest'ultima, in definitiva, non aveva altro
scopo che se stessa, non la ricchezza del Paese. In che modo infatti può
arricchire una nazione se ad es. la produzione di legumi non marcia di pari
passo con la loro trasformazione agro-industriale? L'assillo fondamentale
dello stalinismo era lo stoccaggio, cioè le riserve alimentari degli
ammassi, ove metà circa della produzione finiva col deteriorarsi, e una
parte dell'altra metà veniva esportata per ottenere valuta pregiata con cui
finanziare l'industrializzazione. Questo era il modo di vincere la fame!
Nell'interpretazione del ruolo della violenza -per tornare all'argomento in
oggetto- Stalin era debitore di Dühring, per il quale "le condizioni
politiche sono la causa decisiva della situazione economica", mentre
l'opposto ha un valore secondario. L'elemento primario sta nella "forza
politica immediata", diretta, e non tanto nel "potere economico indiretto".
Non a caso per Stalin la coerenza di un'idea politica meritava d'essere
applicata anche con la forza, se necessario. Egli non riuscì mai a
comprendere i diversi gradi di maturità della proprietà privata e ne
distrusse tutte le forme senza preoccuparsi di sapere se esse avevano fatto
il loro tempo. Proprio come Dühring, Stalin aveva una visione feticistica
del socialismo, utile per realizzare una giustizia astratta, extratemporale.
Engels era sicuramente più realista. Per dimostrare che lo stato economico
di una nazione non può dipendere anzitutto dalla violenza politica, scelse
come esempi quello di Federico Guglielmo IV, il quale, dopo il 1848, non
riuscì, malgrado il suo potente esercito, a eliminare le corporazioni
medievali nel suo Paese e altre sopravvivenze romantiche a vantaggio delle
ferrovie, delle macchine a vapore e della grande industria; nonché quello
dello zar di Russia, coevo dell'imperatore tedesco, che, pur essendo ancora
più potente, non era capace di pagare i debiti del suo Paese, ed anzi aveva
bisogno dell'appoggio finanziario dell'Europa occidentale per poter
continuare a usare la propria violenza. A giudizio di Engels, questi esempi
dovevano essere sufficienti per dimostrare che la politica economica fondata
sulla violenza conduce solo al fallimento.
Stalin era così ignorante in materia economica che, a suo giudizio, l'indice
principale dello sviluppo del socialismo non era la produttività del lavoro,
il benessere sociale o il grado di democrazia raggiunto dalla società, bensì
il livello di socializzazione amministrativa della produzione, per la quale
contavano assai poco le qualità professionali. Nel 1936 egli dichiarò
apertamente al congresso straordinario dei soviet, che era stata realizzata
la prima fase (quella inferiore) del comunismo, ovvero il socialismo, nei
suoi aspetti essenziali. In pratica egli aveva decretato il "socialismo"
giuridicamente, consacrandone la sua riuscita nella Costituzione dello
stesso anno. La proprietà socialista (statale, colcosiana e
cooperativistica) costituiva il 98-99% di tutta l'economia nazionale. Non
era neppure il caso di parlare -come faceva Lenin- di transizione al
socialismo con il concorso indispensabile del proletariato internazionale.
Un socialismo come quello staliniano, rozzo e primitivo, poteva benissimo
essere edificato in un solo Paese.
Il mercato e la legge del valore smisero immediatamente d'essere i
regolatori della produzione. Il passaggio dal regno della necessità a quello
della libertà in pratica si era già realizzato contro la tesi di Marx,
secondo cui "il regno della libertà comincia soltanto là dove si smette di
lavorare per necessità e condizioni imposte dall'esterno; e, come tale, esso
si pone, per natura, al di là della sfera di produzione materiale
propriamente detta".
L'atteggiamento negativo di Stalin verso la legge del valore e il mercato è
chiaramente riscontrabile nella sua opera, già citata, Problemi economici
del socialismo in URSS, apparsa nel 1952, ma anche nel Manuale d'economia
politica, edito nel 1954, da lui ispirato, al pari del Breve corso di storia
del Pc (b) del 1939. Nel testo sui Problemi economici, Stalin attaccò gli
economisti Venger e Sanina, accusandoli di non comprendere il significato
della circolazione delle merci sotto il socialismo, che va considerata
incompatibile con la transizione al comunismo.
Quanto al manuale d'economia, esso afferma categoricamente che il lavoro già
riveste nel socialismo un carattere immediatamente sociale, per cui la legge
del valore non si applica all'economia socialista allo stesso modo
dell'economia capitalista. La nozione di "valore" -secondo tale manuale- è
troppo "immateriale" per essere utilizzabile. Infatti il calcolo del valore
d'una merce socialista è una semplice operazione tecnica. È sufficiente
calcolare -dice il manuale- le spese materiali di un determinato prodotto,
dividere poi la somma ottenuta per il numero dei prodotti e il gioco è
fatto. Il problema dell'equilibrio dell'offerta e della domanda non
sussiste, poiché nel socialismo si ha una certezza a-priori che tutto quanto
viene prodotto viene anche consumato nei tempi previsti, a prescindere dalle
esigenze del consumatore.
Il risultato fu -come ben noto- una situazione d'impasse quanto alla
formazione dei prezzi (troppo bassi, ad es., per quelli alimentari, per cui
il mercato ufficiale era caratterizzato da cronica penuria e da file
interminabili davanti ai negozi, mentre naturalmente prosperava quello in
nero, a prezzi altissimi); enormi quantitativi di merci non acquistate
perché ritenute di scarso valore qualitativo; ridottissime possibilità di
scelta dei prodotti per il consumatore, ecc.
Oggi la perestrojka ha dimostrato che nel determinare il valore di una
merce, il principio di sommare l'insieme delle spese individuali non ha
senso laddove esiste un mercato. I prezzi non possono riflettere solo le
singole spese, ma anche quelle "socialmente necessarie", altrimenti i prezzi
finiranno col coprire spese superflue e coll'incoraggiare l'incuria,
divenendo parte organica del meccanismo dello spreco. In fondo il socialismo
amministrato è servito anche a dimostrare sul piano pratico l'impossibilità
teorica verificata da Marx di dedurre il prezzo di una merce dal suo costo
di produzione.
Le contraddizioni inerenti alla merce: tra valore d'uso e valore di scambio,
tra lavoro astratto e lavoro concreto, tra lavoro individuale e sociale...
non possono essere risolte semplicemente perché vengono ufficialmente
abolite. Certo è che, perché il prezzo sia equilibrato al valore, cioè non
troppo alto (altrimenti si rischia la sovrapproduzione), né troppo basso
(altrimenti si rischia la recessione), occorre un rapporto paritetico tra
fornitore e acquirente, un rapporto che non può essere gestito per via
amministrativa o imposto dall'alto (non a caso fino ad oggi nel socialismo
di stato il produttore ha sempre dominato il consumatore, anche se nei
limiti stabiliti dal partito-Stato). Occorre in sostanza che i "collettivi",
cui produttore e consumatore fanno parte, perseguano finalità analoghe e non
contrapposte, come ad es. nel capitalismo, ove l'interesse del produttore è
quello di indurre falsi bisogni nell'utenza per realizzare superprofitti con
prezzi da monopolio.
Non solo, ma l'errata visione stalinista del carattere del lavoro condusse
anche a un generale livellamento dei salari e degli stipendi. La valutazione
del lavoro non era assolutamente legata al volume del prodotto finito, alla
sua qualità e fruibilità. Si preferiva invece affermare che la settimana
lavorativa di ogni rappresentante di una qualunque professione andava
considerata più o meno uguale quanto al "valore", mentre ai mestieri più
difficili si applicavano dei coefficienti particolari.
In sostanza, come la negazione della contraddizione esistente tra valore
d'uso e valore tout-court della merce, rendeva teoricamente inutile la sua
commercializzazione, così l'identificazione di lavoro concreto e astratto
rendeva inutile la moneta, o comunque la sua caratteristica di equivalente
universale. L'intero management dell'economia veniva basato su questa
concezione non-mercantile. Stalin era categoricamente avverso a quell'uso
dei rapporti mercantili-monetari che andasse al di là di una mera funzione
di contabilità (salvo poi contraddirsi, in teoria, come quando al XVII
congresso del partito criticò coloro che profetizzavano la fine graduale del
commercio e la trasformazione del denaro a semplice unità di conto).
È sintomatico, in questo senso, il fatto che le sezioni del Capitale
dedicati alla merce caddero subito in discredito. La tesi marxiana del
doppio carattere del lavoro fu appunto sostituita da quella del carattere
immediatamente sociale del lavoro nell'ambito del socialismo. Idea, questa,
che ancora una volta trovava in Dühring la sua paternità. Fu lui infatti che
per primo pensò di combinare la produzione immediatamente sociale con l'uso
della legge del valore e delle relazioni merce-moneta, stabilendo il valore
"giusto" o "reale". Una tesi che poi Engels giudicherà assurda.
Dühring in sostanza chiedeva di fissare un prezzo unico per ogni tipo di
merce che corrispondesse alle spese medie di produzione, e prevedeva che,
per la determinazione del valore e del prezzo, i cosiddetti "costi di
produzione" avrebbero giocato il ruolo di stima della quantità necessaria di
lavoro.
Stalin ereditò sia queste idee, formulate intorno agli anni '70 del secolo
scorso, sia quelle egualitaristiche che Dühring elaborò relativamente alla
distribuzione secondo il lavoro. Dühring diceva che in un contesto di
socializzazione i salari dovevano essere più o meno equivalenti, a
prescindere dall'effettiva produttività del lavoratore.
Al massimo Dühring prevedeva una "moderata dotazione supplementare" per il
consumo a quei lavoratori che si distinguevano particolarmente per le loro
capacità. Anche le sue idee riguardanti il denaro -quale mezzo di mera
contabilizzazione di uno scambio naturale- vennero bene assimilate da
Stalin. Persino l'idea di poter costruire il socialismo in un unico Paese
era già stata formulata da Dühring.
Relativamente al denaro, già Engels avevano messo in guardia dai tentativi
di realizzare l'idea folle di Dühring secondo cui il denaro si poteva
trasformare in un mezzo per assicurare unicamente un consumo più o meno
uguale, dopo aver abolito la sua funzione di equivalente universale. Engels
aveva previsto che il denaro, considerato soltanto come un certificato per
confermare il numero di ore che un individuo ha lavorato e che gli assicura
il diritto di acquistare quella quantità di prodotti in cui s'è
materializzata una quantità uguale di lavoro, non sarebbe stato un denaro
destinato a durare nel tempo. "Il celibe che vive come un lord -dice Engels
con un esempio nell'Antidühring-, felice e contento con i suoi 8 o 12
scellini al giorno, mentre il vedono, con 8 figli a carico, trova molto
difficile campare con quella stessa somma... Ecco dunque l'occasione e il
motivo di risparmiare da una parte e d'indebitarsi dall'altra... E siccome
colui che risparmia è nella posizione di estorcere ai bisognosi un
interesse, ecco... l'usura è ripristinata proprio con la moneta metallica
funzionante come denaro". Engels spiegò inoltre che il risparmiatore
"socialista" pretenderebbe, prima o poi, di veder trasformato il proprio
denaro in una moneta convertibile.
Engels diceva che leggendo Dühring aveva l'impressione che del capitalismo
andasse cambiato solo il modo di distribuzione e non anche quello di
produzione. I criteri di "distribuzione", infatti -diceva Engels- si
prestano di più alla fantasia dei teorici, danno di più l'impressione che la
volontà politica possa fare qualunque cosa.
Per concludere, lo stalinismo ha insegnato, senza volerlo, all'umanità che,
anche in presenza di una proprietà "sociale" vi possono essere diversi tipi
di socialismo. Non è assolutamente sufficiente, per garantire la presenza
del socialismo democratico, limitarsi alla nazionalizzazione dei beni di
produzione e di distribuzione. Proprietà "statale" non vuole affatto dire
proprietà "sociale", cioè di tutti e di ciascuno in particolare. Vi era la
proprietà "statale" dei mezzi produttivi anche nei regimi di Pol Pot e di
Ieng Sary, eppure chi si sentirebbe di dire che in Cambogia si cercò di
realizzare il socialismo democratico? Si può forse imporre la "verità" del
socialismo negando agli uomini ogni forma di libertà? E di quale "verità" si
può parlare se proprio mentre la si applica la si nega?
TRIONFO E TRAGEDIA DI STALIN
Nel 1988 le edizioni sovietiche dell'APN pubblicarono il libro su Stalin del
filosofo e direttore dell'Istituto di storia militare, D. Volkogonov,
Trionfo e tragedia (Ritratto politico di Stalin). L'opera suscitò subito un
grande interesse in Occidente, prima ancora che apparisse in URSS. Grandi
case editrici hanno deciso di pubblicarla: Mondadori in Italia, Weidenfeld e
Nicolson in Inghilterra, Flammarion in Francia, Econ in Germania ecc.
Presentando la sua opera in un'intervista concessa a un settimanale del suo
Paese, Volkogonov ha affermato che gli storici devono imparare a ragionare
con i "se" e non soltanto su ciò che è veramente accaduto. Ovverosia devono
chiedersi sempre quali alternative ci possono essere nei confronti di
determinati fenomeni (in questo caso lo stalinismo). Per evitare
d'identificare la storia con la fatalità, lo storico ha non solo il diritto
ma anche il dovere di avanzare delle "ipotesi" su come i fatti avrebbero
potuto svolgersi se si fosse scelta un'altra strada. Nella vita infatti vi
sono sempre delle scelte fra due o più alternative. La logica del fatalismo
serve soltanto a giustificare che la decisione presa era la migliore: il che
però impedisce di analizzare la storia in maniera scientifica. (Da notare
che questa problematica delle "alternative storiche" sta interessando
notevolmente, in questi ultimi tempi, a partire dalla perestrojka, gli
storici sovietici).
Volkogonov crede di ravvisare in tre cause fondamentali l'emergere dello
stalinismo (la figura di Stalin gli interessa relativamente):
i tre secoli delle tradizioni monarchiche della dinastia dei Romanov, che
hanno indotto nel popolo una grande passività;
la povertà delle tradizioni democratiche (di cui s'è dovuta far carico la
stessa rivoluzione socialista);
la sottovalutazione, da parte dell'entourage di Lenin, del pericolo di una
dittatura personale nell'ambito del partito.
L'autore si sente d'affermare che i maggiori leaders del Pc (b) tradirono
praticamente subito gli ideali di Lenin, poiché si lasciarono dominare dalle
logiche degli schieramenti e dalle lotte accanite per il potere politico
dopo la sua morte. Particolarmente duro, in tal senso, è il giudizio di
Volkogonov su Trotski, "preoccupato più di se stesso che della rivoluzione.
Trotski era imbevuto della propria personalità, si credeva un genio e
considerava tutti i suoi oppositori (soprattutto Stalin) come dei
"mediocri". Era un partigiano convinto del socialismo da caserma. Proponeva
di dividere il Paese in circoscrizioni militari. Parlava d'instaurare la
disciplina militare nell'ambito del lavoro e amava le forme di gestione
dirigista. Dopo la guerra civile trasformò diverse unità militari in
"brigate del lavoro". Tutta la popolazione -secondo lui- andava organizzata
militarmente". Viste tali premesse, Trotski -secondo Volkogonov-, nonostante
le capacità che tutti gli riconoscevano, non aveva alcuna possibilità di
sostituire Lenin.
Né d'altro canto l'avevano gli altri leaders citati dallo stesso Lenin nella
sua "Lettera al congresso" (il "testamento politico"). Stalin, Trotski,
Zinoviev, Kamenev, Bucharin e Piatakov vennero ricordati da Lenin -secondo
Volkogonov- in un modo tale che ognuno di loro, singolarmente preso, non
sarebbe stato in grado di sostituirlo. L'unico che avrebbe potuto farlo,
sarebbe stato -dice Volkogonov- un "leader collettivo", cioè una gestione
collegiale dell'intero partito.
Disgraziatamente questa idea di Lenin non venne capita: sia perché spesso il
suo pensiero superava a tal punto quello dei suoi contemporanei da risultare
addirittura incomprensibile (il "testamento" cominciò ad essere apprezzato
solo al XX congresso!); sia perché il suo entourage non sapeva valorizzare
adeguatamente le sue capacità: Lenin infatti era costretto ad occupare il
40% del suo tempo nel cercare di risolvere gli affari correnti, prosaici,
fin nei minimi dettagli, dall'organizzazione del rifornimento alimentare
all'elettrificazione di un villaggio, ecc.
Relativamente al fenomeno dello stalinismo, Volkogonov afferma ch'esso è
"l'alternativa negativa al socialismo scientifico", basata prevalentemente
sull'uso della forza e sul culto della personalità. In tal senso lo
stalinismo è esistito, p.es., anche in Cina durante "il grande balzo" degli
anni 1958-60 e durante la "rivoluzione culturale" del decennio 1966-76,
oppure in Cambogia sotto il regime di Pol Pot (1975-79). Di questo fenomeno
non può essere colpevolizzato solo Stalin e il suo staff, altrimenti si
ricade nel "culto della personalità" che pur a parole si biasima. La
responsabilità invece è sempre di tutta la società che, almeno in URSS, non
fece abbastanza per contrastare un fenomeno così negativo. "Gli interventi
isolati -dice Volkogonov- fanno onore a chi li mette in pratica, ma essi
sono votati al fallimento, anzi, a quel tempo furono utilizzati da Stalin
per rafforzare le proprie posizioni. Egli infatti negli anni '20, '30 e '40
entrò nella storia come il trionfatore principale nella lotta per gli ideali
di Lenin. Tutti coloro che si opponevano a Stalin erano accusati d'essere
antileninisti". Non si può dunque vincere un fenomeno come questo partendo
da posizioni isolate.
Un'altra acuta osservazione di Volkogonov riguarda il fatto che non si
devono considerare le purghe staliniane degli anni '37-'39 come più gravi di
quelle degli anni '29-'33, solo perché erano in gioco i migliori
intellettuali comunisti del Paese. Volkogonov ci tiene a sottolineare che la
tragedia più grande è stata quella dei primi anni '30, non solo perché senza
di essa non vi sarebbe stata l'altra (gli intellettuali senza "base sociale"
sono debolissimi), ma anche perché in essa morirono milioni di contadini
anonimi, sacrificati sull'altare della collettivizzazione forzata e
dell'industrializzazione pesante.
L'ultimo aspetto di cui parla Volkogonov, nell'intervista, è non meno
tragico: la logica di Stalin, secondo cui è bene sbarazzarsi fisicamente non
solo dei nemici reali ma anche di quelli potenziali, si radicò così bene
nell'URSS che molti delitti vennero compiuti senza che nemmeno Stalin lo
sapesse o l'avesse voluto. L'inerzia della violenza era tale che le sue onde
si propagavano automaticamente per tutto il Paese. I "figli legittimi" dello
stalinismo sono stati coloro che presero i posti lasciati vacanti dalla
"vecchia guardia" leninista, sterminata da Stalin: i vari Suslov, Breznev,
ecc.
I COLCOS E GLI SVILUPPI DELLO STALINISMO
Il problema della ristrutturazione del modo di vita agricolo dei 120 milioni
di contadini russi (i 4/5 dell'intera popolazione), fu quello più
importante, sul piano economico, dopo la rivoluzione d'Ottobre. Il nuovo
regime socialista non era affatto in rottura con la mentalità, i fondamenti
economici e il modo di vita contadino, tant'è vero che le prime aziende
agricole -le "comuni", in cui venivano socializzati il lavoro, i mezzi
produttivi e i lotti di terra individuali, mentre la ripartizione dei
redditi si basava sul principio livellatore; gli "artel", in cui venivano
socializzati i mezzi produttivi e il lavoro, mentre la casa con il lotto, i
beni personali restavano in godimento individuale; le società per la
lavorazione collettiva della terra, oppure associazioni cooperativistiche
analoghe, in cui venivano socializzati soltanto il lavoro e alcuni mezzi
produttivi durante i lavori stagionali- sorsero subito dopo la rivoluzione,
e la maggior parte spontaneamente. Il carattere democratico di gestione
dell'economia agricola era conforme agli interessi del contadinato
(dall'elezione dei dirigenti sino all'adozione delle decisioni mediante
assemblee generali).
Perché dunque la collettivizzazione agricola si effettuò in maniera così
assurda a cavallo degli anni '20 e '30? Le cause sono numerose. La
principale è ben nota: la violazione dei princìpi dell'organizzazione dei
colcos, come il libero consenso e l'iniziazione graduale dei contadini
all'economia collettiva. Ma ve n'era un'altra, di ordine ideologico, non
meno importante. Appena scoppiata la rivoluzione d'Ottobre, il governo
sovietico, con Lenin in testa, aveva la ferma intenzione di finirla il più
presto possibile con i rapporti mercantili-monetari. Già all'inizio del
1919, nel progetto del nuovo programma del partito, Lenin chiedeva di
"continuare fermamente a sostituire il commercio con una distribuzione dei
prodotti pianificata e organizzata a livello statale". L'intenzione era
anche quella di sopprimere la moneta. Quando s'accorse dell'errore di voler
passare immediatamente alla produzione e divisione comunista, Lenin affermò:
"abbiamo subìto nella primavera del 1921 una sconfitta più grave di tutte
quelle che ci inflissero i vari Kolciak, Denikin o Pilsudski". Fu questa
crisi che determinò la svolta verso la NEP (1921-29).
Con la Nuova Politica economica fu imposta una tassa sui beni alimentari
(prima in natura, poi in denaro), pagata la quale il contadino aveva il
diritto di vendere i suoi prodotti ai prezzi formati dalla domanda e
dall'offerta. Quanto più il contadino produceva tanto più vendeva (una volta
pagata l'imposta). Da solo copriva le spese e si autofinanziava orientandosi
sul futuro incremento del prodotto vendibile e quindi sulla crescita della
redditività. Nell'arco di pochi anni le campagne sovietiche ricostruirono il
loro potenziale produttivo distrutto dalla I guerra mondiale e dalla guerra
civile (dal 1914 al 1920) e l'agricoltura garantì al Paese i prodotti
alimentari. La NEP trasse il Paese fuori dal dissesto economico, vinse
l'inflazione, allontanò il pericolo della carestia, ristabilì la normale
formazione dei prezzi e un sistema monetario stabile, creò infine una
consistente riserva finanziaria e materiale per la successiva
industrializzazione e il riequipaggiamento tecnico di tutti i settori
dell'economia.
Nel "comunismo di guerra" (causato dalla guerra civile e dall'intervento
straniero: 1919-21), i contadini, dopo essersi trattenuti, per le proprie
esigenze personali, una quantità rigidamente limitata di grano, dovevano
consegnare allo Stato tutte le eccedenze (non solo di grano ma anche di
altri prodotti) pagate a prezzi fissi, mentre lo Stato, a sua volta,
distribuiva questi prodotti alle città, non in base ai risultati del lavoro,
ma col metodo del razionamento fra chi era incluso in apposite liste o
poteva esibire la tessera di socio di una cooperativa di consumo. Il partito
allora era convinto che con un graduale aumento delle razioni si sarebbe
potuto raggiungere il benessere collettivo. Ecco perché si pensò che il
sistema dei prelevamenti avrebbe potuto continuare anche in tempo di pace.
La flessibilità di Lenin, tuttavia, è sempre stata molto spiccata. Egli in
pratica, rendendosi subito conto dell'errore commesso, aveva capito:
che nei confronti del mondo agricolo ogni precipitazione non avrebbe fatto
che allontanare i contadini dalle idee del socialismo e dalle innovazioni
tecnico-scientifiche;
che le cooperative disponevano di un meccanismo che avrebbe potuto colmare
la lacuna fra il contenuto politico della rivoluzione d'Ottobre e le sue
premesse socio-economiche e culturali;
che la cooperazione poteva offrire a quei lavoratori psicologicamente non
preparati al lavoro collettivo (in primo luogo ai contadini patriarcali) la
possibilità di accedere ai metodi razionali di produzione (ovvero alle
conoscenza agrotecniche e alle forme superiori di cooperazione). Il suo
piano di cooperazione prevedeva la realizzazione d'una base materiale e
tecnica per una cooperazione produttiva, per il miglioramento del livello
culturale del contadino, senza il quale egli non avrebbe compreso i vantaggi
di una partecipazione di massa alla cooperazione.
La NEP infatti sembrava offrire le migliori garanzie. Grazie ad essa i
contadini medi (non ricchi come i kulaki ma neppure così poveri d'essere
costretti al bracciantato) erano diventati i principali protagonisti della
vita agricola. Nel 1927 le aziende medie erano triplicate (61% contro il 20%
del periodo pre-rivoluzionario). I contadini poveri erano di molto
diminuiti. Larghe masse di agricoltori, proprio in virtù della NEP, avevano
preso gusto a un lavoro libero e creativo. In quello stesso anno i colcos e
i sovcos fornivano, insieme, solo il 2% delle derrate alimentari e il 7% dei
prodotti da mercato. Non pochi di essi operavano in perdita. La quota
complessiva delle aziende collettivizzate era allora inferiore all'1%.
Anche il XV congresso (dicembre 1927) prevedeva che la transizione verso
un'economia collettiva avvenisse in accordo con la volontà dei contadini.
Ancora non si era prospettata la forzata costruzione di massa dei colcos e
dei sovcos. E tuttavia, un'altra tendenza si fece strada. Se nella primavera
del 1928 ci si propose di collettivizzare 1,1 milioni di aziende contadine
familiari (4% circa del totale), nell'estate dello stesso anno si arrivò a 3
milioni (circa il 12%) e nel piano quinquennale approvato definitivamente
nella primavera del '29, la cifra era già passata a 4-4,5 milioni (16-18%).
Nello spazio di un solo anno il progetto del piano era cambiato diverse
volte e nella sua variante definitiva gli indici erano quadruplicati. Nella
primavera del '29 il numero delle aziende agricole che si erano associate
per formare dei colcos aveva raggiunto la cifra prevista per la fine del
quinquennio. Questo soprattutto nelle regioni cerealicole. Stalin cercò di
giustificare il fatto dicendo alla conferenza degli agricoltori marxisti,
nel dicembre 1929, che la prudenza con cui Engels si era espresso circa la
possibilità d'instradare le piccole aziende contadine verso la
collettivizzazione, non aveva ragione d'esistere in URSS, dove la terra non
era più di proprietà privata. Stalin in pratica, che -come Trotski e
Zinoviev prima di lui- utilizzava in funzione anti-NEP alcune espressioni di
Lenin formulate nel periodo del "comunismo di guerra", faceva coincidere la
nazionalizzazione della terra con la realizzazione del socialismo.
Rinunciando alla proprietà privata, i contadini -a suo giudizio- dovevano
acquisire automaticamente il senso della proprietà collettiva. Non solo, ma
egli faceva coincidere "proprietà collettiva" con "proprietà statale",
sottoponendo il regime dei colcos a regole non molto diverse da quelle del
regime dei sovcos (le aziende statali vere e proprie).
Al plenum del CC del partito (novembre 1929) si levarono le prime voci di
protesta: la fretta e il dirigismo dei bolscevichi, nell'organizzare i
colcos, non piacevano; meno che mai la parola d'ordine: "Chi non entra nei
colcos è nemico del potere dei soviet". Si segnalava non solo che il
principio del libero consenso era sistematicamente violato, ma anche che
nessuna misura decisiva veniva presa contro gli abusi. Per tutta risposta,
Stalin propose, all'inizio del 1930, di fissare dei tempi ancora più corti
per la collettivizzazione, soprattutto nelle principali regioni cerealicole:
autunno 1930-primavera 1931 per il Caucaso del Nord e il Basso e Medio
Volga; autunno 1931-primavera 1932 per le altre regioni. Verso il 20 gennaio
1930 il 21,6% delle aziende contadine erano state collettivizzate, e il
52,7% verso il 20 febbraio. Quanto più lo strato essenziale del
contadinato -cioè quello "medio", soprattutto nelle regioni non cerealicole
e non russe- si opponeva a entrare nei colcos, tanto più si faceva ricorso a
misure coercitive. Erano pochi i colcos organizzati sulla base del libero
consenso.
Perché dunque non si riuscì a materializzare la dottrina leniniana secondo
cui il socialismo doveva anzitutto essere una società di "cooperatori
civilizzati"? Si può dire che da una parte, a causa del suo debole livello
di civilizzazione e di sviluppo industriale, nonché del suo isolamento
internazionale, la Russia non poteva accedere al socialismo che imboccando
una via lunga e difficile (invece di lasciare interagire democraticamente la
grande produzione statale con le cooperative e le aziende private si preferì
puntare -soprattutto con lo stalinismo- sul controllo statale diretto della
produzione e della distribuzione); dall'altra le oggettive condizioni del
Paese (come ad es. la mancanza di cultura, di coscienza professionale, di
manodopera qualificata) hanno potuto facilmente indurre i comunisti
massimalisti (l'ala gauchiste del bolscevismo) ad accelerare il progresso in
Russia, mirando all'egualitarismo totale, alla distribuzione delle ricchezze
altrui, alla crudeltà nei confronti dei proprietari... Masse ignoranti
aspiravano a soluzioni semplicistiche e unilaterali, a prescindere dalla
loro riuscita economica. Difficilmente si sarebbe potuta sopportare l'idea
di un'autonomia economica dell'azienda privata, in una Russia appena uscita
dalla zarismo e ancora sconvolta dall'interventismo straniero e dalla guerra
civile.
Per tenere sotto controllo un Paese del genere (le cui enormi dimensioni
peraltro non vanno sottovalutate) si preferì scegliere la strada del
burocratismo. Già nel 1920 il numero dei funzionari a Mosca e a Pietroburgo
superava, rispettivamente, del 46% e del 50% quello del 1917. Nel '26
l'apparato statale contava 832.000 funzionari (contro i 432.000 del
pre-Ottobre). Nel '27 erano aumentati ancora di 49.000 unità. Alcuni
dipartimenti spendevano per mantenere l'apparato amministrativo fino al 40%
del fondo salariale destinato agli operai. A partire dalla seconda metà
degli anni '20, partito e Stato si erano posti di fronte a questa
alternativa: o ridurre l'apparato amministrativo comprimendone le spese,
oppure sfruttare la campagna a beneficio della città. Felix Dzerjinski, ad
es., era favorevole alla prima alternativa e contestava la posizione di
Trotski, favorevole alla seconda. Dzerjinski era convinto che a spese
dell'agricoltura non ci sarebbe potuta essere un'efficiente
industrializzazione.
Da notare, peraltro, che la strada della burocratizzazione era già stata
ampiamente battuta nella Russia zarista. Nelle grandi imprese industriali
dello Stato, a differenza di quelle private, non si conoscevano affatto i
metodi di gestione capitalistici. Qui si ricevevano gli ordini di costruire
un certo quantitativo di merci e si eseguiva senza discutere. I costi di
produzione non interessavano a nessuno. Il prezzo veniva determinato a
posteriori, alla fine dell'intero ciclo produttivo. Quanto più alti erano i
costi, tanto maggiore era l'utile dell'impresa. In genere si aggiungeva ai
costi di produzione un 15% circa, di cui il 10% finiva nelle tasche dei
dirigenti sotto forma di premi.
Questo sistema ovviamente non produceva alcun incentivo economico alla
crescita dell'efficienza del settore statale. Le cause di ciò non erano
economiche ma politiche: l'autocrazia zarista, che esprimeva gli interessi
della nobiltà semifeudale, era timorosa del rafforzamento politico ed
economico della borghesia. I membri più oscurantisti della Duma (Parlamento)
e i ministri reazionari insistevano per lo sviluppo delle aziende statali
come contrappeso all'economia capitalistica. Inoltre, pensavano così di
contenere i prezzi e regolare i profitti delle imprese private, le quali
però fabbricavano i loro prodotti più rapidamente, meglio e a minor prezzo.
Nelle fabbriche dello Stato, che potevano contare su commesse garantite,
nessuno rispondeva della puntualità delle consegne, né della qualità dei
prodotti. Vigeva insomma il principio: "non importa se le aziende pubbliche
sono scadenti, in compenso garantiscono l'esecuzione degli ordini".
Lenin, nello scritto Riusciranno i bolscevichi a mantenere il potere,
affermava che questo apparato statale doveva essere distrutto, mentre quello
monopolistico privato andava sottratto ai capitalisti e affidato ai soviet.
Stalin invece preferì tornare al sistema semifeudale pre-rivoluzionario
perché capì che era più consono ai suoi metodi autoritari e amministrativi.
Non fu neppure necessario nazionalizzare le imprese statali zariste, bastò
affidarle ai nuovi direttori, mentre alle imprese private s'impose una
gestione extra-economica.
La gioventù ebbe un ruolo assai attivo nell'organizzare il regime
colcosiano. Più di 5 milioni di giovani contadini entrarono nei colcos verso
il 1930. Si trattava dello strato sociale rurale più istruito e più
disponibile a creare nuove forme di gestione della produzione agricola. Ma,
nonostante questo, nell'insieme del Paese la violenza, nei confronti dei
contadini medi, era lo strumento principale per accelerare la
collettivizzazione. La conseguenza di ciò fu drammatica: in numerose
regioni, già a partire dal gennaio 1930, i contadini cominciarono a
ritirarsi dai colcos (Medio Volga, Regione centrale delle Terre nere,
Siberia), rompendo l'alleanza con gli operai. Dal gennaio fino alla metà di
marzo vi furono circa 1700 rivolte anticolcosiane di massa (senza contare
l'Ucraina), che avevano coinvolto più di 550.000 contadini. Circa 50.000
lettere di protesta, nell'inverno e nella primavera del 1930, vennero
indirizzate a Stalin; altre 85.000 a M. Kalinin, presidente del Soviet
supremo. L'articolo pubblicato da Stalin, Vertigine da successo, scaricava
tutte le responsabilità degli abusi sulle amministrazioni locali, le quali,
in verità, non facevano che applicare direttive venute dall'alto. Peraltro,
le difficoltà erano anche oggettive: troppo basso era il livello della base
materiale e tecnica dell'agricoltura, prima della collettivizzazione totale.
Solo 1/4 dei colcos disponeva di trattori. Nel '29 essi non avevano lavorato
che l'1% dei campi. Anche le altre forme di cooperazione agricola erano
assai deboli.
Lo stalinismo cominciò ad accusare l'ala buchariniana di "disfattismo" e
"sabotaggio". Bucharin, in un primo momento, fu dell'avviso che la
principale forma di socializzazione nelle campagne fosse la cooperazione del
commercio. Egli riteneva che il sistema delle organizzazioni
cooperative -quelle dei contadini poveri (colcos), dei contadini medi
(cooperative di rifornimento, smercio e credito) e dei kulaki (contadini
ricchi che disponevano di bracciantato agricolo)- avrebbe finito per
integrarsi nelle relazioni economiche socialiste. Tuttavia, quando prese
piede il movimento di massa della collettivizzazione agricola, Bucharin, con
i suoi sostenitori (A. Rykov e M. Tomski), rinunciò a insistere sulle sue
originarie convinzioni. Non rinunciò però Stalin ad accusarlo di
"deviazionismo di destra", tanto che Bucharin venne escluso dall'ufficio
politico.
Intanto la resistenza accanita dei kulaki si trasformò in un movimento
insurrezionale e degenerò in un sanguinoso terrore. Essi avvertirono con
estrema chiarezza che se non avessero reagito, la loro fine sarebbe stata
segnata. Già nel 1918 si erano visti confiscare 50 su 80 milioni di ettari:
il peso di questo strato di contadini ricchi era diminuito da due a tre
volte.
Eppure Lenin avrebbe preferito una strada meno traumatica: "l'espropriazione
dei kulaki -diceva- non può in alcun modo costituire il compito immediato
del proletariato vittorioso, poiché le condizioni materiali, in particolari
tecniche, e quelle sociali della collettivizzazione di queste aziende sono
ancora separate". Prima dell'inizio della collettivizzazione totale, lo
Stato sovietico praticava una politica mirante a limitare la propensione dei
kulaki allo sfruttamento della manodopera, senza però chiudere loro
l'accesso alla cooperazione e ai colcos. Verso il 1927 questo strato di
possidenti formava circa il 4% del totale delle aziende (circa un milione).
Tuttavia essi disponevano del 15% di tutte le terre da semina, l'11,2% del
bestiame e offrivano, in media, una produzione superiore di 10 volte a
quella dei contadini poveri. In queste condizioni, il potere stalinista non
poteva vedere di buon occhio la concentrazione dei mezzi produttivi nelle
mani dei kulaki, o il loro sfruttamento del lavoro salariato agricolo, o
anche solo un aumento numerico delle loro file.
L'energica eliminazione economica e l'isolamento politico dei kulaki
esasperò la lotta di classe nelle campagne e rafforzò la resistenza degli
elementi capitalistici. Soltanto nel 1929 ebbero luogo più di 1300 rivolte
di massa. Circa 10.000 comunisti, militanti rurali e colcosiani -quasi 10
volte di più che dal 1o gennaio 1926 al 1o settembre 1927- caddero vittime
della lotta kulaka.
La cosiddetta "dekulakizzazione" fu talmente violenta che vennero
espropriati persino i contadini medi: circa 600.000 famiglie nel solo
biennio '30-'31. Di queste più di 240.000 vennero deportate nel Nord, negli
Urali, in Siberia e nel Kazakhstan, dove cominciarono a lavorare su terre
incolte, nelle foreste, oppure nell'industria. Da 200.000 a 250.000 kulaki
preferirono vendere o abbandonare i loro beni, andando a vivere nelle città,
per lavorare nei grandi cantieri edili o nei centri industriali.
La sottocommissione diretta dal segretario regionale del partito di Mosca,
K. Bauman, aveva proposto di ammettere nei colcos la categoria più numerosa
dei kulaki, quella disponibile a sottomettersi e a far prova di lealtà verso
il potere dei soviet, concedendo ad essa un periodo di tempo dai 3 ai 5
anni, e utilizzando i membri delle loro famiglie (circa 5 milioni di
persone) per svolgere lavori socialmente utili. Ma questa proposta non venne
neppure presa in considerazione dalla commissione del CC, presieduta da V.
Molotov. In quanto classe sociale, i kulaki cessarono di esistere verso la
fine del 1932.
Tuttavia, benché il tasso di collettivizzazione si fosse elevato al 61,5%
nel 1932, contro il 23,6% del 1o giugno 1930, i colcos si mostravano assai
deboli sul piano economico-organizzativo. La raccolta cerealicola globale
diminuì di quasi 140 milioni di quintali in rapporto al 1930 (100 milioni in
meno di quintali rispetto al 1913). Mentre il patrimonio zootecnico, verso
il 1933, diminuì più di due volte rispetto al 1929. Stalin spiegò questa
caduta della produttività con la riorganizzazione dell'agricoltura,
facendola passare per una legge oggettiva dello sviluppo. In realtà le
ragioni andavano cercate nella violazione del principio dell'incentivazione
materiale dei colcos e dei sovcos, nonché nella carente organizzazione del
lavoro e della produzione (si pensi ad es. alla forzata socializzazione dei
bovini e degli ovini).
Alcuni dirigenti in vista del partito e del governo, soprattutto S.
Orgionikidze e Y. Rudzutak, si pronunciarono contro gli abusi. Il noto
scrittore, M. Sholokov, fece sapere a Stalin che per realizzare il piano, il
distretto di Vechenski (in cui egli viveva) doveva consegnare allo Stato
circa 5000 vacche, dopodiché non gliene restava che una per ogni 5-6
aziende. Nessuno naturalmente voleva vendere la sua ultima vacca. "Sin dai
primi giorni -scriveva Sholokov- i colcosiani opposero in tutti i colcos
un'accanita resistenza: essi cominciarono col rinchiudere le loro vacche
nelle stalle, a tenerle costantemente sotto chiave, ad armarsi di bastoni
per resistere ai soprusi di chi veniva a requisirle...".
La situazione fu particolarmente critica nel 1932-prima metà del '33:
l'Ucraina, il Caucaso del Nord, la regione del Volga, il Kazakhstan, le
regioni meridionali delle Terre nere, gli Urali e parzialmente la Siberia
occidentale erano alla fame. Ciò dipendeva tanto dalla siccità quanto
dall'abbandono dei contadini di migliaia di ettari di terra, prima ancora
che si facessero i raccolti. L'organizzazione dello stoccaggio del grano era
pessima. Mentre il volume della raccolta cerealicola globale diminuiva, i
piani degli ammassi aumentavano le pretese. Nel 1932 lo stoccaggio del grano
fu, in totale, superiore del 32,8% a quello del 1930. La fame era
praticamente assicurata, nell'immediato, anche perché si stoccava sia il
grano commerciale che le sementi e il foraggio.
Benché una fame senza precedenti avesse coinvolto -a detta dello stesso
Stalin- circa 25-30 milioni di persone, ben 18 milioni di quintali di
cereali furono destinati all'export, nel 1932, per poter finanziare lo
sviluppo industriale. Un sacrificio così grande ai contadini non era stato
chiesto neppure ai tempi dello zarismo. Le responsabilità dello stalinismo
nei confronti dell'agricoltura sono state enormi. Gli abusi, le violazioni
della legalità socialista, le repressioni di massa furono innumerevoli.
Estremamente severa fu la legge sulla tutela della proprietà socialista,
redatta dallo stesso Stalin e ratificata il 7.VIII.1932 dal governo. Essa
faceva obbligo "di applicare, onde punire gli autori di furto di beni
colcosiani e cooperativi, l'estrema misura di difesa sociale: la pena di
morte per fucilazione, con confisca di tutti i beni, ovvero la commutazione
della pena, in caso di circostanze attenuanti, con la privazione della
libertà per un periodo di almeno 10 anni, con confisca di tutti i beni".
Dopo neanche 5 mesi dall'applicazione di tale legge, furono condannate circa
55.000 persone.
La situazione economica non migliorò che durante il secondo piano
quinquennale (1933-37), in quanto si modificarono taluni aspetti
organizzativi ed economici dei colcos e dei sovcos, incluse le norme di
stoccaggio del grano. Determinate forniture obbligatorie di grano,
equivalenti, in sostanza, a una tassa, vennero introdotte nel 1933. Ma
questa misura non creò gli stimoli materiali necessari allo sviluppo
produttivo, poiché vennero conservate le quote elevate delle precedenti
forniture per ettaro e il basso prezzo di vendita del grano.
La collettivizzazione agricola fu terminata nel 1937: 243.000 colcos
raggruppavano il 93% delle aziende contadine e il 99% delle superfici
seminate. La produzione cerealicola globale, per anno, fu in media di 72,9
milioni di tonnellate (contro i 69,3 milioni nel 1924-28). Particolarmente
buono fu il raccolto del 1937: 97,4 milioni di tonnellate. Aumentò pure di
due volte la produzione della barbabietola da zucchero e di tre volte quella
del cotone grezzo. Gli allevamenti bovini, suini, ovini e caprini crebbero,
rispettivamente, di 1,5, 2,6, e 1,8 volte. I colcos e i sovcos offrivano il
72,2% di tutta la produzione agricola: le aziende ausiliarie dei colcosiani
(operai e impiegati) fornivano il 26,3%, mentre quelle individuali solo
l'1,5%. Durante la II guerra mondiale furono appunto i colcos che sostennero
il peso maggiore dell'approvvigionamento alimentare dell'esercito, della
popolazione delle città e degli operai dei centri industriali.
Tuttavia, proprio a partire dagli anni '40, nuovi tentativi furono
intrapresi per rafforzare ulteriormente il centralismo statale, al fine di
realizzare una progressiva trasformazione dei colcos in sovcos. I difetti
del sistema amministrativo nei riguardi delle campagne si fecero
particolarmente sentire nel dopoguerra. Nel 1953 il plenum del CC del Pcus
decise di aumentare di alcune volte i prezzi all'ingrosso dei principali
prodotti agricoli, cancellò gli enormi debiti dei colcos e dei sovcos,
ridusse le imposte e aumentò la retribuzione del lavoro. Questa nuova linea
fu seguita dal 1954 al 1956, conseguendo certi miglioramenti. Poi però nel
1957 venne bloccata la crescita della remunerazione del lavoro, così la
redditività degli investimenti e i ritmi di crescita della produzione
agricola globale si ridussero di due volte.
I metodi amministrativi tornarono in auge sino al 1965, allorché il Pcus
emanò la direttiva sulle "Misure urgenti per l'ulteriore sviluppo
dell'agricoltura". Di nuovo vennero annullati i debiti dei colcos e sovcos,
aumentati bruscamente i prezzi all'ingrosso dei principali prodotti,
ampliati i diritti delle aziende nella programmazione della loro attività,
fu promesso che il piano quinquennale sarebbe stato stabile e ridotto. Il
governo sperava così che tale piano sarebbe stato superato notevolmente,
dato che per pagare il grano eccedente, che il colcos vendeva allo Stato, fu
stabilito un prezzo maggiorato del 50%. L'economista allora più favorevole
al "calcolo commerciale" fu Victor Novozilov (1892-1970), che capì
perfettamente come la strategia dei pianificatori non fosse in grado di
sostituire quella dei consumatori, senza rischiare di produrre beni inutili.
Tuttavia, anche questo esperimento fallì. Per la semplice ragione che le
aziende non rispettarono le consegne. Esse infatti preferirono consumare i
loro prodotti piuttosto che ricevere dallo Stato una moneta con la quale non
avevano nulla da comprare. Di qui il ritorno alla pratica dei prelevamenti,
mentre gli obblighi imposti ai contadini venivano aggiornati quasi ogni
settimana. Le consegne libere furono abolite e l'aumento dei prezzi
all'ingrosso fu ridotto gradualmente a zero con la crescita di quelli delle
macchine agricole, dei concimi, dei materiali da costruzione e dei
combustibili.
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