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STALIN - STALINISMO

IOSIF STALIN E LO STALINISMO
 
Stalin, i gulag, campi di prigionia
 

STALIN E LO STALINISMO Oggi più nessuno crede nel mito di Stalin, se non qualche irriducibile vetero-comunista. Ma la critica dello stalinismo non è mai stata facile, come invece in Occidente si è sempre voluto far credere. Da noi lo stalinismo è stato liquidato senza un'analisi politica e ideologica seria: da un lato perché gli intellettuali di sinistra, fino a ieri, non volevano rinnegare l'esperienza del "socialismo reale", dall'altra perché gli intellettuali borghesi non volevano confrontarsi seriamente col marxismo. E così ci si è limitati a evidenziare dello stalinismo gli aspetti che più suscitano riprovazione e sdegno, come ad es. i gulag, la collettivizzazione forzata dei contadini, la burocratizzazione del sistema, ecc. In realtà, nelle opere e negli slogans di Stalin è difficile, di primo acchito, trovare una discordanza con i concetti abituali del marxismo. Lo è soprattutto se ci si limita a considerare in maniera isolata certe sue affermazioni, evitando di collocarle in un quadro d'insieme ove risultino interdipendenti. La verità non è mai la somma di affermazioni giuste e separate. Ancora oggi, purtroppo, molti sono dell'avviso che le deviazioni staliniane dal marxismo riguarderebbero tre soli elementi, considerati peraltro di secondaria importanza: la riduzione dell'uomo comune a mero ingranaggio del sistema, l'idea del partito come casta di privilegiati, la concezione secondo cui l'edificazione del socialismo comporta l'acuirsi della lotta di classe (di qui l'uso della violenza come metodo di regolazione dei problemi socio-politici). L'economia del nostro discorso però ha un'unica finalità: quella d'indicare alcuni fondamentali aspetti dello stalinismo che la coscienza politica del periodo in cui esso s'è formato, non è stata capace di cogliere nella loro pericolosità. Vediamo anzitutto la pretesa concordanza che si vuole vedere in Marx, Lenin e Stalin circa il rifiuto del valore mercantile e del mercato nel contesto del socialismo, che è l'affermazione dell'idea di uno scambio diretto dei prodotti in virtù di una pianificazione autoritaria dall'alto. Ora, nessuno è in grado di dimostrare in quali opere Marx raccomanda di misconoscere i meccanismi del mercato e della formazione dei prezzi, nonché d'introdurre lo scambio diretto dei prodotti e la pianificazione statale in condizioni analoghe a quelle che si verificarono in Russia dopo il 1917. Non è forse vero che Marx, Engels e Lenin riferivano la possibilità di superare i rapporti merce-valore a un regime sociale in grado di sorgere sulla base del capitalismo altamente evoluto? Il socialismo non doveva forse costituire un'alternativa a quel capitalismo capace di socializzare il processo produttivo, di creare un lavoratore altamente qualificato, ecc.? Solo in questa tappa lo scambio diretto dei prodotti e la realizzazione di piani orientati verso i bisogni degli uomini diventano possibili e cominciano a giocare un ruolo progressista. Nella situazione successiva all'Ottobre 1917, il problema principale era quello di trovare un'alternativa a un'economia caratterizzata da una pluralità enorme di strutture economiche, soprattutto quelle di tipo piccolo-borghese (senza dimenticare la presenza dei rapporti semi-feudali). Lenin non aveva dubbi nell'affermare che in quelle condizioni il socialismo non poteva essere costruito in modo "immediato". Al massimo si poteva parlare di "transizione" verso il socialismo. Lenin anzi si rendeva conto che il capitalismo privato della piccola borghesia era ostile non solo al socialismo ma anche al capitalismo di stato. Ecco perché pensava che i socialisti russi dovessero prendere lezioni dai tedeschi su come costruire il capitalismo statale. Viceversa, per Stalin e il suo entourage il primato spettava alla volontà politica, alla violenza politica (di qui l'uso di metodi terroristici), con cui essi cercavano di regolare tutti i problemi dello sviluppo economico e culturale, senza pensare se le condizioni per la realizzazione di questi o quegli obiettivi fossero effettivamente mature. Ovviamente ciò non va imputato a una presunta "perfidia politica" o ad una "malattia mentale" di Stalin. La questione è molto più complessa e riguarda, se vogliamo, le tendenze storiche oggettive, le quali non possono essere interpretate ricorrendo alle concezioni filosofiche tradizionali. La storia della filosofia non ci è di nessun aiuto per comprendere a fondo l'ideologia stalinista. Che senso avrebbe, infatti, applicare -come alcuni fanno- il concetto di "idealismo soggettivo estremo" a una figura come Stalin, quando lo stesso concetto lo si applica a filosofi come Fichte, Berkeley, Bogdanov? Lo stalinismo, in realtà, non ha precedenti storici. Esso è l'ideologia e la dittatura dell'élite burocratica, capeggiata da un despota ritenuto onnipotente: un'ideologia volontarista e antiumanista, che usa la violenza in tutte le sue forme. Ancora oggi gli stalinisti si considerano come veri demiurghi della storia: "I quadri decidono tutto", diceva Stalin. Ai loro occhi, la realtà sociale non è un sistema organico di rapporti interumani, che si sviluppa in virtù di leggi proprie, attraverso gradi successivi di maturità, ma è una materia prima come l'argilla, che si può manipolare a proprio piacimento, usando la volontà politica, una buona organizzazione, una disciplina di ferro e potenti mezzi di violenza. In questo senso lo stalinismo è un sistema fondato sulla menzogna più sfacciata, sul cinismo ideologico e sulla doppia morale. Quali radici poteva avere un fenomeno così mostruoso? La formazione delle premesse dello stalinismo vanno ricercate negli anni 1924-29. Le sue fonti ideologiche risiedono in un marxismo semplificato, mentre quelle socio-politiche in una strumentalizzazione della Rivoluzione d'Ottobre. A dir il vero la volgarizzazione del marxismo era peculiare a tutto la direzione bolscevica: Zinoviev, Trotski, Kamenev, Bucharin, Piatakov..., salvo Lenin. L'atmosfera di lotta, prima durante e dopo l'Ottobre, li aveva portati ad attribuire un grande ruolo all'iniziativa storica, all'attività umana, all'esigenza di "trasformare" il mondo più che di "interpretarlo". I fatti sembravano dar loro ragione: la rivoluzione procedeva sconfiggendo, uno dopo l'altro, i suoi nemici, superando, uno dopo l'altro, i suoi problemi. Le radici dello stalinismo stanno proprio in questo orientamento gauchiste, soggettivistico sul piano ideologico e volontaristico su quello politico: atteggiamento che trovò subito appoggi molti vasti nella mentalità primitiva di una parte assai considerevole di masse rivoluzionarie. Naturalmente esiste una certa differenza fra gli errori in buona fede di Bucharin, che tendeva a esagerare le possibilità del popolo rivoluzionario (e dei suoi capi) nella storia, e la politica deliberatamente impopolare degli stalinisti, almeno così come essa appare alla fine degli anni '20. A dir il vero, la differenza principale, all'interno del bolscevismo, tra stalinisti e antistalinisti, non stava tanto negli obiettivi da perseguire: nessuno era favorevole allo zarismo, né alla dittatura militare di Kornilov, né alla guerra, al parassitismo e all'arbitrio del capitale. I problemi tuttavia sorgevano quando si doveva stabilire il modo di liquidare la vecchia società e di edificare quella nuova. Nella storia del movimento rivoluzionario russo si erano già viste all'opera due diversi approcci della realtà: quello autoritario dei gruppi cospirativi, che avrebbe poi portato al comunismo da caserma, di Zainchevsky, Nechaev e Tkachov; e quello democratico di Radishev, Herzen, Lavrov, Dobroljubov e Chernyshevsky, che valorizzava l'attività creativa e storica del popolo. L'orientamento autoritario dello stalinismo è stato appoggiato dagli strati sociali meno evoluti, più marginali, il cui odio per il regime sociale oppressivo, antecedente alla rivoluzione, aveva assunto un carattere totalmente distruttivo. Questi strati sociali possono combattere l'oppressore con grande eroismo, sono capaci di enormi sacrifici, ma possono anche trasformare in una legge generale della nuova società le loro istanze non sviluppate, la loro inferiorità culturale, i loro rozzi principi morali, frutto di un'esistenza subumana, condotta nel passato regime. I successi straordinari dell'Ottobre e il basso livello culturale d'una parte considerevole della popolazione provocarono l'euforia generale dell'onnipotenza. Lenin fu uno dei pochi ad andare contro corrente. Sono noti i suoi appelli ad apprendere le tecniche del commercio presso gli specialisti, a servirsi di tutta la cultura del passato, a sviluppare l'industria in modo scientifico, a promuovere i principi cooperativistici nelle campagne, sulla base del libero consenso, della persuasione, usando esempi concreti di successo: in una parola, a unire in modo dialettico la direzione centralizzata con la democrazia operaia. L'entusiasmo andava combinato -a suo avviso- con l'interesse materiale dei lavoratori, altrimenti si sarebbe caduti nella retorica e nella demagogia. Stalin la pensava diversamente. A suo parere, era necessario creare in pochissimi anni e con una terapia d'urto i necessari rapporti socialisti nelle campagne, trasformando i contadini in colcosiani (ed eliminando i recalcitranti). Nell'arco di due-tre piani quinquennali l'URSS avrebbe dovuto superare i paesi più progrediti del mondo, altrimenti sarebbe stata la fine della rivoluzione. La religione doveva essere estirpata con la forza. Questi e altri principi furono appoggiati da quella parte di popolo meno evoluta, meno istruita, e, almeno in un primo momento, la loro applicazione conseguì notevoli risultati, anche se a prezzo di enormi sacrifici e soprattutto di spaventosi soprusi. Il meccanismo generale che permette ai regimi "bonapartisti" (ivi incluso lo staliniano) di formarsi una propria base sociale, è descritto perfettamente da Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte. Il bonapartismo -come noto- trova la sua linfa vitale negli strati sociali più oppressi: negli anni '40 del secolo scorso si trattava soprattutto dei contadini. Una volta poi realizzati i principi della burocrazia, del militarismo e dell'apparato repressivo statale, il bonapartismo non ebbe bisogno neppure dell'appoggio dei contadini, i quali anzi furono soggetti a feroci persecuzioni. Questo perché la base sociale più adeguata dei regimi bonapartisti maturi (incluso quindi lo stalinismo) è la burocrazia, non la classe contadina. Lo stalinismo s'è trasformato da sistema volontarista, legato a una certa base popolare, il cui entusiasmo post-rivoluzionario era ancora molto vivo, a sistema burocratico e impopolare verso la metà degli anni '30, cioè nel momento in cui lo sviluppo dell'economia nazionale, alzando il livello culturale del Paese, aveva portato i lavoratori ad un'opposizione sempre più consapevole ai metodi dittatoriali del regime. Ciò tuttavia non impedì il rafforzamento della burocrazia. Le ragioni sono più di una. Anzitutto bisogna ricordare che all'inizio degli anni '20 il sistema economico era caratterizzato da "isole produttive" poco legate tra loro. I funzionari statali realizzavano sul piano politico-amministrativo quei collegamenti che mancavano sul piano economico. In secondo luogo va considerato il fatto che l'ignoranza dei lavoratori ostacolava fortemente una partecipazione reale alla gestione economica, ovvero un controllo effettivo degli organi statali e amministrativi. In terzo luogo va detto che il sistema burocratico non ha mai smesso di servirsi, coscientemente, del volontarismo e del soggettivismo per autolegittimarsi (lo attesta p.es. l'ideologia del culto della personalità). Queste ragioni però, se fanno pensare che la burocrazia era inevitabile, non devono far pensare che il rafforzamento della burocrazia doveva necessariamente portare allo stalinismo, cioè al dominio totale e incondizionato della burocrazia. Le alternative allo stalinismo sono state ben visibili sin dall'inizio degli anni '20, alla vigilia della NEP, nonché nel 1927, durante il XV Congresso del partito, ed anche nel 1956, col XX Congresso. Lo stesso Lenin aveva chiaramente detto che la burocrazia era il pericolo maggiore della rivoluzione, la fonte di una possibile "reazione termidoriana". Se le sue indicazioni fossero state seguite con coerenza e decisione, probabilmente i destini dell'URSS sarebbero stati diversi. Il programma di Lenin per indebolire la burocrazia era basato sulla Nuova Politica Economica, sull'estensione delle cooperative, sulle forme di produzione capitalistico-statali, sulle concessioni al capitale estero d'investire in URSS, sugli incentivi economici per i lavoratori (onde eliminare la costrizione extra-economica), sulla partecipazione degli operai e dei contadini all'attività degli organi superiori del potere statale, sul controllo dell'attività dei quadri dirigenti del partito, sullo sviluppo della cultura generale del popolo. Morto Lenin, i tentativi di Trotski e Preobrazhensky di creare un sistema burocratico sulla base dell'accumulazione socialista primitiva fallirono grazie soprattutto al ruolo teorico giocato da Bucharin nel corso del XV Congresso del partito bolscevico (1927). Giustamente venne rifiutata l'idea di sviluppare l'economia nazionale contro gli interessi dei contadini, drenando risorse e mezzi dalla campagna alla città, trasformando officine e fabbriche in caserme di operai, stimolando l'intensificazione del lavoro con la violenza gius-politica. Tuttavia, già verso la fine degli anni '20 le forze della "guardia leninista" avevano perso la loro influenza. Le Note di un economista (1928) di Bucharin e la piattaforma di Ryutin (1932) furono forse gli ultimi importanti tentativi di proseguire sulla via leninista. Il leninismo uscì sconfitto dallo scontro con lo stalinismo semplicemente perché esso cercò di frenare l'evoluzione verso il comunismo da caserma con dei metodi non meno burocratici e autoritari. Si pensava cioè di poter conseguire un obiettivo diverso usando gli stessi mezzi. In seguito, il XX e XXII Congresso del Pcus, nonché gli sviluppi seguenti all'aprile 1985, hanno dimostrato che un'alternativa allo stalinismo è sempre possibile. Il corso della storia non presenta mai degli avvenimenti inevitabili o irreversibili, ma sempre delle alternative soggette a determinate scelte e destinate a ricomparire ogniqualvolta le decisioni prese si rivelano fallimentari. Ovviamente resta falsa la tesi secondo cui nella storia "tutto è possibile" o che "tutto dipende dall'uomo". Qui si vuole soltanto affermare che non esiste mai un'unica via da seguire, né si può sapere in anticipo quale soluzione avrà la meglio. I risultati, generalmente, dipendono da numerosi fatti concreti. Nell'epoca di Brezhnev la tendenza antiburocratica si esprimeva nelle forme dello stalinismo "popolare", quello della fine degli anni '20. Il sogno era di veder improvvisamente apparire all'orizzonte un uomo forte come Stalin, capace di difendere il popolo dal potere totalizzante della burocrazia. Questa forma di stalinismo non è così pericolosa come quella burocratica, in quanto può essere superata da un'opera di paziente istruzione, dall'estensione della glasnost e dei principi democratici, in virtù dei quali gli uomini si rendono conto di quanto la loro forza sia sufficiente per liquidare non solo la burocrazia, ma anche l'esigenza di contare sulla potenza mitica di una personalità carismatica. Trent'anni fa anche Kruschev cercò di finirla con lo stalinismo e la burocrazia usando metodi burocratici. Ben lungi dal promuovere lo sviluppo dei meccanismi sociali della democrazia, egli considerò la sua personalità come garanzia ultima contro il ritorno dello stalinismo. In tal modo non comprese che né il XX Congresso né la crescita della democrazia tra il 1956 e il 1961 potevano essere il risultato della sua azione personale (anche se bisogna riconoscergli un certo coraggio politico). Sopravvalutando se stesso, Kruschev non fece che ostacolare, in definitiva, il processo di smantellamento dello stalinismo. Basta qui ricordare il modo con cui egli trattava gli intellettuali (scrittori, artisti, giornalisti) o con cui distribuiva i posti di presidente, di segretario del C.C. ecc. Non a caso, sotto il suo potere, Lysenko e soci tornarono in auge, mentre i neo-stalinisti Suslov e Brezhnev iniziarono la loro carriera politica. Senza saperlo, fu proprio il krusciovismo a porre le basi del sistema amministrativo di comando neo-stalinista. In sostanza si può parlare di "socialismo democratico sovietico" solo per alcuni momenti storici veramente significativi: gli anni 1917-29, il periodo bellico 1941-45 (qui, in effetti, lo slancio patriottico e il sentimento di responsabilità personale per i destini della Nazione diedero luogo ad alcuni processi di destalinizzazione), relativamente gli anni 1953-65 e infine dal 1985 ad oggi. MITI E REALTA' DELLO STALINISMO Dopo la rivoluzione d'Ottobre si era convinti che in Russia l'edificazione di una nuova società sarebbe dipesa, sic et simpliciter, dalla socializzazione dei mezzi produttivi. A tale scopo furono subito confiscate e nazionalizzate quasi tutte le imprese industriali e commerciali, la quasi totalità delle banche e dei trasporti. Dal censimento del 1920 risulta che fra le imprese nazionalizzate si trovavano, oltre alle grandi unità produttive, più di 1/7 di imprese aventi un solo operaio! In fondo l'Antidühring di Engels, per i bolscevichi, parlava chiaro: "Con la presa di possesso, da parte della società, dei mezzi produttivi, la produzione mercantile è eliminata e, di conseguenza, il dominio del prodotto sul produttore". E qualunque lavoro -prosegue Engels- diventa immediatamente "lavoro sociale". Non pochi rivoluzionari e teorici del partito bolscevico credettero che le condizioni venutesi a creare con la rivoluzione d'Ottobre corrispondevano perfettamente a quelle descritte nei lavori teorici di Marx ed Engels, e che, pertanto, la realizzazione pratica andava considerata come un compito inderogabile. Ben presto il commercio si trasformò -in questa concezione bolscevica- in uno scambio "volgare" di merci, e non solo il commercio, ma anche il valore del denaro, dell'oro, dei prezzi, delle banche...: tutto quanto aveva sapore di "capitalismo" o di "commercio" perse ogni credibilità. L'uso della forza, per realizzare questi mutamenti di mentalità, fu inevitabile. A dir il vero Lenin ha sempre nutrito seri dubbi sulla automaticità di questi processi. Egli si rifaceva a quei passi di Marx ed Engels in cui si affermava che la socializzazione dei mezzi produttivi poteva avvenire in due modi: giuridico (cioè amministrativo, volontarista) ed economico. Quest'ultimo dai classici era considerato il migliore, poiché si riteneva che l'altro causasse dei conflitti tra le forze e i rapporti produttivi. In particolare, Engels sosteneva -sempre nell'Antidühring- che la socializzazione economica diventa inevitabile quando la società si accorge di non poter più gestire in maniera privata i grandi complessi produttivi. Dunque non ogni statizzazione dell'economia è un segno della presenza del socialismo. Se così fosse -diceva Engels- Bismarck, Napoleone e Metternich andrebbero annoverati tra i fondatori del socialismo. Il fatto è purtroppo che queste sottili ma importanti differenze non venivano colte dalla maggioranza dei bolscevichi rivoluzionari. Socializzazione "forzata" o "economica" venivano continuamente confuse, identificate. E su questo equivoco si costruì il socialismo nel periodo del "comunismo di guerra". Negli anni 1918-21 l'impresa statale perse ogni autonomia socio-economica; ogni altra forma di proprietà venne ridotta al minimo; lo scopo della produzione era diventato quello di produrre dei valori tout-court e non dei valori d'uso, per cui ci si orientava verso gli indici lordi; il denaro si era trasformato in una unità di conto del tutto formale, assolutamente incapace di svolgere la funzione di equivalente universale; il mercato era stato totalmente escluso dal sistema dell'economia nazionale e considerato come l'antitesi principale del socialismo. Ecco in che modo si era convinti di realizzare le idee del socialismo scientifico. Lenin si accorse subito delle difficoltà insorte nel campo economico e commerciale, cioè in pratica s'accorse che nessuna risoluzione politico-amministrativa avrebbe mai potuto assicurare il passaggio dalla nazionalizzazione, cioè dalla mera espropriazione dei produttori privati, alla socializzazione, poiché quest'ultima, nei fatti, era un processo molto più lento, complesso e difficile (anche se più sicuro). Ecco perché, ad un certo punto, gli sembrò del tutto naturale lasciar coesistere nella società molteplici strutture eterogenee, esprimenti un grado diverso di maturità economica e sociale. A tale scopo Lenin propose di socializzare la produzione già "socializzata": il che appariva un'assurdità a coloro che si erano limitati a leggere in modo schematico le opere dei classici. Di qui la dura lotta contro la "malattia infantile del comunismo": il gauchisme, che accusava Lenin di revisionismo, di voler rimandare alle calende greche la realizzazione del vero socialismo. Tuttavia Lenin ebbe la meglio e si poté così dar vita all'esperimento della NEP. Di questa nuova politica economica ancora oggi si ha un giudizio limitato, in quanto si pretende di ridurla al solo settore agricolo. In realtà essa costituì una revisione radicale di tutte le idee relative alla costruzione del socialismo. Si pensi ad es. alla trasformazione dell'impresa statale da oggetto passivo di una direzione dall'alto a soggetto attivo della politica economica, o alla comparsa delle cooperative, delle società per azioni, delle attività professionali individuali. La ripartizione centralizzata dei mezzi materiali e tecnici nell'economia nazionale venne sostituita, in virtù della NEP, dal commercio all'ingrosso. La riforma monetaria del 1922-24, resasi necessaria dal fatto che l'eccesso di moneta svalutata invadeva il mercato, rimpiazzò gli "assegnati" sovietici con una moneta classica: il cervontsy d'oro, cioè in pratica la Banca di Stato, creata nel 1921, aveva il diritto di emissione di banconote convertibili in oro. Il criterio dell'efficienza di un'impresa divenne il profitto e non la percentuale con cui essa realizzava i piani previsti dallo Stato. La legge del valore e del mercato vennero riconosciuti quali maggiori regolatori-guida dello sviluppo dell'economia socialista. Queste modifiche non vennero considerate da Lenin in maniera antitetica alla teoria marxista, in quanto che egli riteneva "specifiche" le condizioni della Russia. I risultati non si fecero attendere. Dopo la fame che aveva ucciso migliaia di persone, l'agricoltura si riprese rapidamente, le aree coltivate raggiunsero i livelli pre-bellici, mentre i bovini, gli ovini, i caprini e i suini li superarono. Nel 1923 l'URSS divenne per la prima volta dall'Ottobre esportatrice di grano (come già lo era al tempo degli zar). Dopo quattro anni di NEP il reddito nazionale (diminuito di tre volte durante la guerra civile) raggiunse il suo valore anteriore al 1914. Fra il 1921 e il '24 il prodotto lordo della grande industria statale aumentò più di due volte. Lenin, finché rimase in vita, seppe ostacolare la tendenza dogmatica, sempre latente nel partito, che andava imponendosi, ma con la sua morte la situazione peggiorò bruscamente. Lo stalinismo rappresentò appunto una variante di questa tendenza, forse la più coerente o la meglio organizzata. Tanto che quando Krusciov, al XX congresso del Pcus, denunciò le repressioni di massa e le enormi violazioni della legalità socialista, condannando altresì il culto della personalità, non mise in dubbio l'appartenenza ideologica di Stalin al marxismo. Ancora oggi, d'altra parte, per molti è così. Stalin -questo vuole il mito- preservò la purezza del marxismo, minacciato da destra e da sinistra, poi per eccesso di zelo versò sangue più o meno innocente. Non va tuttavia dimenticato che lo stalinismo, come forma di pensiero e di azione, va ben al di là del personaggio individuale che lo incarnò. In realtà Stalin snaturò Marx in una serie di questioni di fondamentale importanza. Anzitutto nell'interpretazione dei problemi della proprietà, secondariamente in quella del ruolo della violenza nell'edificazione del socialismo, infine in quella della valutazione del ruolo della legge del valore per la società socialista. Vediamo ora questi punti nel dettaglio. Da tempo l'umanità è convinta che la proprietà privata dei mezzi produttivi è fonte di molte ingiustizie. È in effetti su questa forma di proprietà che nascono le contraddizioni fra miseria e opulenza, fra sovralimentazione e fame, con l'oppressione politica, giuridica e militare che ne consegue. Molti filosofi e rivoluzionari del passato ne chiesero l'abolizione. Come noto, il marxismo riconosce l'iniquità morale della proprietà privata. Tuttavia la via verso l'eliminazione dell'ingiustizia sociale passa, secondo questa ideologia, non attraverso la sua soppressione politica ma attraverso il suo superamento economico. Una formazione economica -diceva Marx- deve prima esaurire tutte le sue potenzialità. Può dunque il socialismo svilupparsi in presenza della proprietà privata? No, non può, ma questo non significa -ed è l'esperienza che lo ha dimostrato- che la costruzione del socialismo debba necessariamente coincidere con la fine immediata della proprietà privata. Il superamento di questa forma di proprietà deve avvenire gradualmente e il socialismo, in questo senso, dovrebbe offrire la garanzia che la transizione avvenga in maniera indolore. Di per sé la proprietà privata non è una maledizione: anzi, storicamente, rispetto al latifondo feudale, essa costituì un progresso notevole. L'abolizione radicale della proprietà privata in URSS, subito dopo la rivoluzione, avvenne a dispetto delle idee di Lenin, in maniera del tutto spontanea e istintiva. Nel primo abbozzo delle Tesi d'aprile Lenin aveva intenzione di confiscare soltanto le terre dei grossi proprietari fondiari. Egli non voleva la realizzazione immediata del socialismo, ma piuttosto un passaggio sistematico, graduale, progressivo del controllo della produzione sociale e della divisione dei prodotti dalle mani dei privati a quelle dei soviet dei deputati operai e contadini. In pratica egli si rendeva conto della inadeguatezza della struttura economica russa per l'introduzione del socialismo. Al massimo prevedeva la confisca di quelle proprietà private la cui grandezza rendeva indispensabile un controllo e una gestione collettiva, sociale (ad es. le banche, le ferrovie, i zuccherifici, ecc.). Questo approccio flessibile di Lenin subì una prima battuta d'arresto con lo scatenarsi della guerra civile, coll'interventismo straniero, col sabotaggio della borghesia (che, politicamente immatura, non seppe collaborare col nuovo regime). Per punire il sabotaggio si usarono appunto gli strumenti della confisca e della nazionalizzazione (queste disposizioni repressive durarono almeno sino al 1921). Peraltro, molte imprese vennero abbandonate dagli stessi capitalisti. Ancora lo Stato non aveva intenzione di estendere il settore pubblico, poiché non era in grado di gestirlo. "Noi abbiamo la ridicola pretesa di voler istruire i managers dei trusts borghesi del nostro Paese" -diceva Lenin, il quale cercava, frenando la fretta di espropriarle, di costruire un rapporto di fiducia con le forze economiche disposte a collaborare. In particolar modo egli escludeva l'uso della coercizione nei confronti del mondo contadino. L'unica "forza" da usare -diceva- doveva essere quella dell'"esempio", cioè della persuasione ragionata basata sulla prassi. Anche nei confronti della piccola borghesia l'atteggiamento di Lenin era favorevole alle concessioni: non per "limitare" i compiti della rivoluzione -come credevano gli estremisti-, ma "come forma di transizione al socialismo per i diversi settori della piccola borghesia". Già nella primavera del 1918 Lenin aveva elaborato una nuova posizione verso la borghesia, considerata complessivamente. Egli infatti aveva chiesto e ottenuto che alla borghesia s'imponessero soltanto delle tasse periodiche e regolari sul reddito e sugli immobili, senza costringerla a esazioni supplementari. Appena ristabilita la pace, Lenin volle tornare a cooperare con la borghesia proponendo la svolta della NEP. Egli affermò chiaramente che tale politica economica era in realtà la vecchia politica che i bolscevichi avevano cercato di realizzare subito dopo la rivoluzione e che venne impedita da cause di forza maggiore. Con ciò Lenin non voleva idealizzare l'importanza della proprietà privata, ma solo impedire che la si abolisse con metodi amministrativi, cioè con la forza. Essa piuttosto andava integrata nel processo naturale di transizione al socialismo. Nel maggio 1918 Lenin arrivò persino a dire che il capitalismo di stato, dal punto di vista economico, era superiore all'economia sovietica di quel tempo. Più tardi egli sostenne che lo sviluppo delle cooperative avrebbe potuto accelerare la socializzazione economica della proprietà privata. Da questo alla parziale denazionalizzazione e alla richiesta di prestiti stranieri il passo fu breve. L'idea di Lenin in sostanza era quella di permettere alle due forme di proprietà di coesistere e di competere pacificamente, lasciando alla storia il compito di decidere quale delle due avrebbe meritato di sopravvivere e quale forma avrebbe assunto il futuro socialismo. La differenza fra Lenin e gli altri bolscevichi, in questo senso, era considerevole e la ragione, probabilmente, è ancora lungi dall'essere compresa. Infatti la stragrande maggioranza dei leaders di punta del partito era convinta che la rivoluzione avrebbe permesso di edificare il socialismo senza perdere tempo. Viceversa, per Lenin la rivoluzione aveva soltanto inaugurato il lungo e graduale cammino verso il socialismo, nel senso cioè che la socializzazione dei mezzi produttivi non coincideva, stricto sensu, con la loro nazionalizzazione o statalizzazione, sebbene Lenin sia sempre stato convinto che il "vero socialismo" sarebbe nato passando soprattutto attraverso le organizzazioni statali. Stalin non fece che portare alle estreme conseguenze le convinzioni di questi bolscevichi. A suo giudizio, infatti, la proprietà privata andava eliminata completamente, e non solo nell'industria, nel commercio e nell'edilizia, ma anche nell'agricoltura, ove la maturità socialista delle forze produttive era praticamente inesistente. Qualunque forma di proprietà pubblica veniva considerata, di per sé, migliore di qualunque forma di proprietà privata. Sulla base di questo assioma egli era convinto di poter fare dell'URSS uno dei principali granai del mondo. Questa svalutazione unilaterale della proprietà privata, Stalin la desunse non dal marxismo, ma da quell'ideologia pseudo-socialista alla Dühring, il cui assoluto disprezzo della proprietà privata dipendeva dalla convinzione ch'essa di per sé fosse il frutto di una violenza dell'uomo sull'uomo, cioè una sorta di "peccato d'origine" che aveva contaminato l'intera umanità. Dühring era convinto che l'abolizione tout-court di questa ingiustizia avrebbe portato la felicità agli uomini. Le obiezioni di Engels non vennero neppure prese in considerazione da Stalin. Come noto, Engels aveva sottolineato che le ingiustizie della proprietà privata risaltano soprattutto quando il sistema produttivo è in fase discendente, e che le masse sfruttate si sentono tanto più decise a realizzare la transizione al socialismo, non quanto più avvertono il senso di queste ingiustizie, ma piuttosto quanto più le collegano alla fine irreversibile del capitalismo, cioè alla fine delle illusioni sulla riformabilità di questo sistema. Le ingiustizie inerenti alla proprietà privata, in altre parole, non portano di per sé a concludere che sia necessario abolire quest'ultima, in quanto resta sempre da dimostrare ch'essa abbia smesso d'essere un fenomeno "socialmente normale" o che la produzione organizzata sulla base della proprietà sociale sia capace d'assicurare un rendimento superiore. Viceversa, Stalin fece di tutto per eliminare anche la proprietà privata frutto del lavoro umano, la quale -a suo giudizio- avrebbe potuto generare il capitalismo quotidiano, in modo spontaneo e su vasta scala. La sola supposizione del pericolo era considerata sufficiente per impedire il formarsi di tale proprietà. Stalin, in sostanza, aveva una specie di concezione "a-temporale" della proprietà privata, in quanto applicava le conclusioni giuste di Lenin a condizioni del tutto diverse da quelle cui Lenin si riferiva. Il realismo di Lenin era così maturo che prevedeva la transizione al socialismo anche attraverso ciò che in apparenza sembrava negarlo, per quanto -è bene sottolinearlo- egli intendesse soprattutto riferirsi a quella proprietà privata organizzata in forma cooperativistica. Il dogmatismo di Stalin invece era così forte ch'egli non solo eliminò ogni forma di cooperazione, ma guardò anche con sospetto gli stessi colcos, pur creati in conformità alle sue concezioni collettivistiche: egli infatti riteneva che i colcos fossero una forma di proprietà non "sociale" ma di "gruppo", e quindi una forma assai transitoria di produzione. Nell'opera Problemi economici del socialismo in URSS, l'esistenza dei colcos viene addirittura vista come un ostacolo al passaggio del Paese verso il comunismo. La storia s'è poi fatta carico di dimostrare che è impossibile creare una proprietà sociale in forza di un atto amministrativo di socializzazione. Stalin quindi non solo abolì la proprietà "privata" ma anche quella "sociale", che può essere solo il frutto di un'organizzazione consapevolmente accettata dai lavoratori. Egli piuttosto aveva permesso la creazione della proprietà burocratica e statale, facendo così regredire notevolmente sia lo sviluppo economico del Paese, sia lo sviluppo teorico del marxismo. La crisi (speriamo irreversibile) delle idee e della prassi staliniana è dipesa anche da questa regressione, cioè dalla forte crisi economica che ha colpito tutto il cosiddetto "socialismo reale", a partire dai primi anni '80, inoltre dalla generale insofferenza per i metodi dirigisti e amministrativi, per l'insensatezza di una proprietà statale che è insieme di "tutti" e di "nessuno", per il rigido dogmatismo ideologico, infine dalla costatazione che il capitalismo è un sistema capace di evolversi, di svilupparsi sotto la spinta delle pressioni esterne, grazie soprattutto alla rivoluzione tecnologica e a nuove modalità di sfruttamento neo-coloniale. Non solo quindi i fautori del socialismo devono abituarsi all'idea di dover convivere col capitalismo per un tempo indefinito, ma possono anche interiorizzare l'idea che una cooperazione economica e commerciale col capitalismo può tornare a vantaggio dello stesso socialismo. Vediamo ora l'interpretazione del ruolo della violenza. Senza dubbio Lenin si appellò alla violenza nella sua politica. Dopo aver confiscato le terre ai grossi proprietari fondiari e ai monasteri, le diede ai contadini. I comitati dei contadini poveri, organizzatisi nell'estate del 1918, usarono la coercizione per espropriare ai kulaki 50 milioni di ettari (su 75-80 milioni di cui disponevano), ivi compresa l'attrezzatura tecnica e il bestiame. Moltissimi kulaki vennero addirittura eliminati nel corso della guerra civile. Ma in tutti questi casi si trattò di una violenza necessaria, inevitabile, una violenza "minore" per impedirne una "maggiore": i kulaki non avrebbero mai rinunciato spontaneamente allo sfruttamento di milioni di contadini. Stalin invece, ispirandosi all'idea che una qualunque socializzazione è una forma di socialismo, iniziò verso la fine degli anni '20 una campagna senza precedenti di concentrazione dei contadini nei colcos, non esitando a sterminare fisicamente, civilmente e moralmente quanti si mostravano poco entusiasti verso questi provvedimenti. Naturalmente egli giustificava l'inasprimento della lotta di classe asserendo che nella società vi erano ancora degli elementi borghesi ostili al socialismo. Stalin fece suo il principio trotskista secondo cui quanto più si sviluppa il socialismo, tanto più aumenta la lotta di classe. Come un rullo compressore egli distrusse almeno 3 milioni di nuclei familiari contadini (l'11-12% del totale), determinando un crollo incredibile della produzione: ad es. nel 1933 i bovini erano passati dai 58,9 milioni del 1916 ai 38,6 milioni; gli equini erano passati da 35,1 milioni a 16,6 milioni; gli ovini e i caprini da 115,2 milioni a 50,6 milioni; i suini da 20,3 milioni a 12,2 milioni. Una terribile fame cominciò immediatamente a decimare milioni di persone. Ufficialmente si disse che questo fu un prezzo necessario al progresso della società (dati e statistiche erano ovviamente manipolati). Non che, in effetti, mancassero dei successi qualitativi e quantitativi nel campo industriale, ma, molto probabilmente, essi si sarebbero verificati anche senza lo stalinismo: anzi c'è da credere che lo sarebbero stati in misura assai maggiore e comunque senza un prezzo così alto da pagare. Peraltro è da poco che si sono cominciati a confrontare i risultati dell'industrializzazione sovietica sotto Stalin con quelli dei Paesi che in quegli stessi anni registravano importanti successi economici: prima ci si limitava a confrontare i risultati sotto lo stalinismo con il livello di sviluppo della Russia del 1913. Ebbene, se si guardano anche soltanto i valori della produzione pro-capite del ferro, dell'acciaio e dell'elettricità di Paesi come USA, Gran Bretagna e Germania, nell'arco di tempo che va dal 1913 al 1937, si noterà che gli indici corrispettivi dell'URSS registravano un incremento del tutto irrisorio. In tutti i Paesi del mondo, l'acciaio, il ferro, il petrolio, il cemento non vengono prodotti, normalmente, per un fine in sé, ma per incrementare la ricchezza generale del Paese, fissata dal valore del reddito nazionale (il che ovviamente non impedisce la speculazione capitalistica). Stalin invece non amava questo indice sintetico dell'attività economica. Di "crescita del reddito nazionale" o non ne parlava affatto, oppure ne parlava usando formule assai vaghe, in virtù delle quali era impossibile mettere in discussione gli incredibili incrementi sostenuti in sede ufficiale. Facciamo un esempio: secondo calcoli scientifici, il reddito nazionale in URSS è aumentato di 6-7 volte dal 1928 al 1985; secondo i calcoli staliniani il reddito era incrementato del 50% dal 1929 al 1941! I dati ufficiali, peraltro, non prevedevano alcun indice per verificare l'effettiva qualità dei progressi. Guardato più da vicino, il modello staliniano non solo era poco efficiente ma anche molto dispendioso. Esso si è retto in piedi sia con l'uso smisurato della violenza, sia con la grande quantità di risorse naturali dell'URSS. Praticamente la miseria veniva giustificata con le enormi spese per la difesa e l'industrializzazione. Quest'ultima, in definitiva, non aveva altro scopo che se stessa, non la ricchezza del Paese. In che modo infatti può arricchire una nazione se ad es. la produzione di legumi non marcia di pari passo con la loro trasformazione agro-industriale? L'assillo fondamentale dello stalinismo era lo stoccaggio, cioè le riserve alimentari degli ammassi, ove metà circa della produzione finiva col deteriorarsi, e una parte dell'altra metà veniva esportata per ottenere valuta pregiata con cui finanziare l'industrializzazione. Questo era il modo di vincere la fame! Nell'interpretazione del ruolo della violenza -per tornare all'argomento in oggetto- Stalin era debitore di Dühring, per il quale "le condizioni politiche sono la causa decisiva della situazione economica", mentre l'opposto ha un valore secondario. L'elemento primario sta nella "forza politica immediata", diretta, e non tanto nel "potere economico indiretto". Non a caso per Stalin la coerenza di un'idea politica meritava d'essere applicata anche con la forza, se necessario. Egli non riuscì mai a comprendere i diversi gradi di maturità della proprietà privata e ne distrusse tutte le forme senza preoccuparsi di sapere se esse avevano fatto il loro tempo. Proprio come Dühring, Stalin aveva una visione feticistica del socialismo, utile per realizzare una giustizia astratta, extratemporale. Engels era sicuramente più realista. Per dimostrare che lo stato economico di una nazione non può dipendere anzitutto dalla violenza politica, scelse come esempi quello di Federico Guglielmo IV, il quale, dopo il 1848, non riuscì, malgrado il suo potente esercito, a eliminare le corporazioni medievali nel suo Paese e altre sopravvivenze romantiche a vantaggio delle ferrovie, delle macchine a vapore e della grande industria; nonché quello dello zar di Russia, coevo dell'imperatore tedesco, che, pur essendo ancora più potente, non era capace di pagare i debiti del suo Paese, ed anzi aveva bisogno dell'appoggio finanziario dell'Europa occidentale per poter continuare a usare la propria violenza. A giudizio di Engels, questi esempi dovevano essere sufficienti per dimostrare che la politica economica fondata sulla violenza conduce solo al fallimento. Stalin era così ignorante in materia economica che, a suo giudizio, l'indice principale dello sviluppo del socialismo non era la produttività del lavoro, il benessere sociale o il grado di democrazia raggiunto dalla società, bensì il livello di socializzazione amministrativa della produzione, per la quale contavano assai poco le qualità professionali. Nel 1936 egli dichiarò apertamente al congresso straordinario dei soviet, che era stata realizzata la prima fase (quella inferiore) del comunismo, ovvero il socialismo, nei suoi aspetti essenziali. In pratica egli aveva decretato il "socialismo" giuridicamente, consacrandone la sua riuscita nella Costituzione dello stesso anno. La proprietà socialista (statale, colcosiana e cooperativistica) costituiva il 98-99% di tutta l'economia nazionale. Non era neppure il caso di parlare -come faceva Lenin- di transizione al socialismo con il concorso indispensabile del proletariato internazionale. Un socialismo come quello staliniano, rozzo e primitivo, poteva benissimo essere edificato in un solo Paese. Il mercato e la legge del valore smisero immediatamente d'essere i regolatori della produzione. Il passaggio dal regno della necessità a quello della libertà in pratica si era già realizzato contro la tesi di Marx, secondo cui "il regno della libertà comincia soltanto là dove si smette di lavorare per necessità e condizioni imposte dall'esterno; e, come tale, esso si pone, per natura, al di là della sfera di produzione materiale propriamente detta". L'atteggiamento negativo di Stalin verso la legge del valore e il mercato è chiaramente riscontrabile nella sua opera, già citata, Problemi economici del socialismo in URSS, apparsa nel 1952, ma anche nel Manuale d'economia politica, edito nel 1954, da lui ispirato, al pari del Breve corso di storia del Pc (b) del 1939. Nel testo sui Problemi economici, Stalin attaccò gli economisti Venger e Sanina, accusandoli di non comprendere il significato della circolazione delle merci sotto il socialismo, che va considerata incompatibile con la transizione al comunismo. Quanto al manuale d'economia, esso afferma categoricamente che il lavoro già riveste nel socialismo un carattere immediatamente sociale, per cui la legge del valore non si applica all'economia socialista allo stesso modo dell'economia capitalista. La nozione di "valore" -secondo tale manuale- è troppo "immateriale" per essere utilizzabile. Infatti il calcolo del valore d'una merce socialista è una semplice operazione tecnica. È sufficiente calcolare -dice il manuale- le spese materiali di un determinato prodotto, dividere poi la somma ottenuta per il numero dei prodotti e il gioco è fatto. Il problema dell'equilibrio dell'offerta e della domanda non sussiste, poiché nel socialismo si ha una certezza a-priori che tutto quanto viene prodotto viene anche consumato nei tempi previsti, a prescindere dalle esigenze del consumatore. Il risultato fu -come ben noto- una situazione d'impasse quanto alla formazione dei prezzi (troppo bassi, ad es., per quelli alimentari, per cui il mercato ufficiale era caratterizzato da cronica penuria e da file interminabili davanti ai negozi, mentre naturalmente prosperava quello in nero, a prezzi altissimi); enormi quantitativi di merci non acquistate perché ritenute di scarso valore qualitativo; ridottissime possibilità di scelta dei prodotti per il consumatore, ecc. Oggi la perestrojka ha dimostrato che nel determinare il valore di una merce, il principio di sommare l'insieme delle spese individuali non ha senso laddove esiste un mercato. I prezzi non possono riflettere solo le singole spese, ma anche quelle "socialmente necessarie", altrimenti i prezzi finiranno col coprire spese superflue e coll'incoraggiare l'incuria, divenendo parte organica del meccanismo dello spreco. In fondo il socialismo amministrato è servito anche a dimostrare sul piano pratico l'impossibilità teorica verificata da Marx di dedurre il prezzo di una merce dal suo costo di produzione. Le contraddizioni inerenti alla merce: tra valore d'uso e valore di scambio, tra lavoro astratto e lavoro concreto, tra lavoro individuale e sociale... non possono essere risolte semplicemente perché vengono ufficialmente abolite. Certo è che, perché il prezzo sia equilibrato al valore, cioè non troppo alto (altrimenti si rischia la sovrapproduzione), né troppo basso (altrimenti si rischia la recessione), occorre un rapporto paritetico tra fornitore e acquirente, un rapporto che non può essere gestito per via amministrativa o imposto dall'alto (non a caso fino ad oggi nel socialismo di stato il produttore ha sempre dominato il consumatore, anche se nei limiti stabiliti dal partito-Stato). Occorre in sostanza che i "collettivi", cui produttore e consumatore fanno parte, perseguano finalità analoghe e non contrapposte, come ad es. nel capitalismo, ove l'interesse del produttore è quello di indurre falsi bisogni nell'utenza per realizzare superprofitti con prezzi da monopolio. Non solo, ma l'errata visione stalinista del carattere del lavoro condusse anche a un generale livellamento dei salari e degli stipendi. La valutazione del lavoro non era assolutamente legata al volume del prodotto finito, alla sua qualità e fruibilità. Si preferiva invece affermare che la settimana lavorativa di ogni rappresentante di una qualunque professione andava considerata più o meno uguale quanto al "valore", mentre ai mestieri più difficili si applicavano dei coefficienti particolari. In sostanza, come la negazione della contraddizione esistente tra valore d'uso e valore tout-court della merce, rendeva teoricamente inutile la sua commercializzazione, così l'identificazione di lavoro concreto e astratto rendeva inutile la moneta, o comunque la sua caratteristica di equivalente universale. L'intero management dell'economia veniva basato su questa concezione non-mercantile. Stalin era categoricamente avverso a quell'uso dei rapporti mercantili-monetari che andasse al di là di una mera funzione di contabilità (salvo poi contraddirsi, in teoria, come quando al XVII congresso del partito criticò coloro che profetizzavano la fine graduale del commercio e la trasformazione del denaro a semplice unità di conto). È sintomatico, in questo senso, il fatto che le sezioni del Capitale dedicati alla merce caddero subito in discredito. La tesi marxiana del doppio carattere del lavoro fu appunto sostituita da quella del carattere immediatamente sociale del lavoro nell'ambito del socialismo. Idea, questa, che ancora una volta trovava in Dühring la sua paternità. Fu lui infatti che per primo pensò di combinare la produzione immediatamente sociale con l'uso della legge del valore e delle relazioni merce-moneta, stabilendo il valore "giusto" o "reale". Una tesi che poi Engels giudicherà assurda. Dühring in sostanza chiedeva di fissare un prezzo unico per ogni tipo di merce che corrispondesse alle spese medie di produzione, e prevedeva che, per la determinazione del valore e del prezzo, i cosiddetti "costi di produzione" avrebbero giocato il ruolo di stima della quantità necessaria di lavoro. Stalin ereditò sia queste idee, formulate intorno agli anni '70 del secolo scorso, sia quelle egualitaristiche che Dühring elaborò relativamente alla distribuzione secondo il lavoro. Dühring diceva che in un contesto di socializzazione i salari dovevano essere più o meno equivalenti, a prescindere dall'effettiva produttività del lavoratore. Al massimo Dühring prevedeva una "moderata dotazione supplementare" per il consumo a quei lavoratori che si distinguevano particolarmente per le loro capacità. Anche le sue idee riguardanti il denaro -quale mezzo di mera contabilizzazione di uno scambio naturale- vennero bene assimilate da Stalin. Persino l'idea di poter costruire il socialismo in un unico Paese era già stata formulata da Dühring. Relativamente al denaro, già Engels avevano messo in guardia dai tentativi di realizzare l'idea folle di Dühring secondo cui il denaro si poteva trasformare in un mezzo per assicurare unicamente un consumo più o meno uguale, dopo aver abolito la sua funzione di equivalente universale. Engels aveva previsto che il denaro, considerato soltanto come un certificato per confermare il numero di ore che un individuo ha lavorato e che gli assicura il diritto di acquistare quella quantità di prodotti in cui s'è materializzata una quantità uguale di lavoro, non sarebbe stato un denaro destinato a durare nel tempo. "Il celibe che vive come un lord -dice Engels con un esempio nell'Antidühring-, felice e contento con i suoi 8 o 12 scellini al giorno, mentre il vedono, con 8 figli a carico, trova molto difficile campare con quella stessa somma... Ecco dunque l'occasione e il motivo di risparmiare da una parte e d'indebitarsi dall'altra... E siccome colui che risparmia è nella posizione di estorcere ai bisognosi un interesse, ecco... l'usura è ripristinata proprio con la moneta metallica funzionante come denaro". Engels spiegò inoltre che il risparmiatore "socialista" pretenderebbe, prima o poi, di veder trasformato il proprio denaro in una moneta convertibile. Engels diceva che leggendo Dühring aveva l'impressione che del capitalismo andasse cambiato solo il modo di distribuzione e non anche quello di produzione. I criteri di "distribuzione", infatti -diceva Engels- si prestano di più alla fantasia dei teorici, danno di più l'impressione che la volontà politica possa fare qualunque cosa. Per concludere, lo stalinismo ha insegnato, senza volerlo, all'umanità che, anche in presenza di una proprietà "sociale" vi possono essere diversi tipi di socialismo. Non è assolutamente sufficiente, per garantire la presenza del socialismo democratico, limitarsi alla nazionalizzazione dei beni di produzione e di distribuzione. Proprietà "statale" non vuole affatto dire proprietà "sociale", cioè di tutti e di ciascuno in particolare. Vi era la proprietà "statale" dei mezzi produttivi anche nei regimi di Pol Pot e di Ieng Sary, eppure chi si sentirebbe di dire che in Cambogia si cercò di realizzare il socialismo democratico? Si può forse imporre la "verità" del socialismo negando agli uomini ogni forma di libertà? E di quale "verità" si può parlare se proprio mentre la si applica la si nega? TRIONFO E TRAGEDIA DI STALIN Nel 1988 le edizioni sovietiche dell'APN pubblicarono il libro su Stalin del filosofo e direttore dell'Istituto di storia militare, D. Volkogonov, Trionfo e tragedia (Ritratto politico di Stalin). L'opera suscitò subito un grande interesse in Occidente, prima ancora che apparisse in URSS. Grandi case editrici hanno deciso di pubblicarla: Mondadori in Italia, Weidenfeld e Nicolson in Inghilterra, Flammarion in Francia, Econ in Germania ecc. Presentando la sua opera in un'intervista concessa a un settimanale del suo Paese, Volkogonov ha affermato che gli storici devono imparare a ragionare con i "se" e non soltanto su ciò che è veramente accaduto. Ovverosia devono chiedersi sempre quali alternative ci possono essere nei confronti di determinati fenomeni (in questo caso lo stalinismo). Per evitare d'identificare la storia con la fatalità, lo storico ha non solo il diritto ma anche il dovere di avanzare delle "ipotesi" su come i fatti avrebbero potuto svolgersi se si fosse scelta un'altra strada. Nella vita infatti vi sono sempre delle scelte fra due o più alternative. La logica del fatalismo serve soltanto a giustificare che la decisione presa era la migliore: il che però impedisce di analizzare la storia in maniera scientifica. (Da notare che questa problematica delle "alternative storiche" sta interessando notevolmente, in questi ultimi tempi, a partire dalla perestrojka, gli storici sovietici). Volkogonov crede di ravvisare in tre cause fondamentali l'emergere dello stalinismo (la figura di Stalin gli interessa relativamente): i tre secoli delle tradizioni monarchiche della dinastia dei Romanov, che hanno indotto nel popolo una grande passività; la povertà delle tradizioni democratiche (di cui s'è dovuta far carico la stessa rivoluzione socialista); la sottovalutazione, da parte dell'entourage di Lenin, del pericolo di una dittatura personale nell'ambito del partito. L'autore si sente d'affermare che i maggiori leaders del Pc (b) tradirono praticamente subito gli ideali di Lenin, poiché si lasciarono dominare dalle logiche degli schieramenti e dalle lotte accanite per il potere politico dopo la sua morte. Particolarmente duro, in tal senso, è il giudizio di Volkogonov su Trotski, "preoccupato più di se stesso che della rivoluzione. Trotski era imbevuto della propria personalità, si credeva un genio e considerava tutti i suoi oppositori (soprattutto Stalin) come dei "mediocri". Era un partigiano convinto del socialismo da caserma. Proponeva di dividere il Paese in circoscrizioni militari. Parlava d'instaurare la disciplina militare nell'ambito del lavoro e amava le forme di gestione dirigista. Dopo la guerra civile trasformò diverse unità militari in "brigate del lavoro". Tutta la popolazione -secondo lui- andava organizzata militarmente". Viste tali premesse, Trotski -secondo Volkogonov-, nonostante le capacità che tutti gli riconoscevano, non aveva alcuna possibilità di sostituire Lenin. Né d'altro canto l'avevano gli altri leaders citati dallo stesso Lenin nella sua "Lettera al congresso" (il "testamento politico"). Stalin, Trotski, Zinoviev, Kamenev, Bucharin e Piatakov vennero ricordati da Lenin -secondo Volkogonov- in un modo tale che ognuno di loro, singolarmente preso, non sarebbe stato in grado di sostituirlo. L'unico che avrebbe potuto farlo, sarebbe stato -dice Volkogonov- un "leader collettivo", cioè una gestione collegiale dell'intero partito. Disgraziatamente questa idea di Lenin non venne capita: sia perché spesso il suo pensiero superava a tal punto quello dei suoi contemporanei da risultare addirittura incomprensibile (il "testamento" cominciò ad essere apprezzato solo al XX congresso!); sia perché il suo entourage non sapeva valorizzare adeguatamente le sue capacità: Lenin infatti era costretto ad occupare il 40% del suo tempo nel cercare di risolvere gli affari correnti, prosaici, fin nei minimi dettagli, dall'organizzazione del rifornimento alimentare all'elettrificazione di un villaggio, ecc. Relativamente al fenomeno dello stalinismo, Volkogonov afferma ch'esso è "l'alternativa negativa al socialismo scientifico", basata prevalentemente sull'uso della forza e sul culto della personalità. In tal senso lo stalinismo è esistito, p.es., anche in Cina durante "il grande balzo" degli anni 1958-60 e durante la "rivoluzione culturale" del decennio 1966-76, oppure in Cambogia sotto il regime di Pol Pot (1975-79). Di questo fenomeno non può essere colpevolizzato solo Stalin e il suo staff, altrimenti si ricade nel "culto della personalità" che pur a parole si biasima. La responsabilità invece è sempre di tutta la società che, almeno in URSS, non fece abbastanza per contrastare un fenomeno così negativo. "Gli interventi isolati -dice Volkogonov- fanno onore a chi li mette in pratica, ma essi sono votati al fallimento, anzi, a quel tempo furono utilizzati da Stalin per rafforzare le proprie posizioni. Egli infatti negli anni '20, '30 e '40 entrò nella storia come il trionfatore principale nella lotta per gli ideali di Lenin. Tutti coloro che si opponevano a Stalin erano accusati d'essere antileninisti". Non si può dunque vincere un fenomeno come questo partendo da posizioni isolate. Un'altra acuta osservazione di Volkogonov riguarda il fatto che non si devono considerare le purghe staliniane degli anni '37-'39 come più gravi di quelle degli anni '29-'33, solo perché erano in gioco i migliori intellettuali comunisti del Paese. Volkogonov ci tiene a sottolineare che la tragedia più grande è stata quella dei primi anni '30, non solo perché senza di essa non vi sarebbe stata l'altra (gli intellettuali senza "base sociale" sono debolissimi), ma anche perché in essa morirono milioni di contadini anonimi, sacrificati sull'altare della collettivizzazione forzata e dell'industrializzazione pesante. L'ultimo aspetto di cui parla Volkogonov, nell'intervista, è non meno tragico: la logica di Stalin, secondo cui è bene sbarazzarsi fisicamente non solo dei nemici reali ma anche di quelli potenziali, si radicò così bene nell'URSS che molti delitti vennero compiuti senza che nemmeno Stalin lo sapesse o l'avesse voluto. L'inerzia della violenza era tale che le sue onde si propagavano automaticamente per tutto il Paese. I "figli legittimi" dello stalinismo sono stati coloro che presero i posti lasciati vacanti dalla "vecchia guardia" leninista, sterminata da Stalin: i vari Suslov, Breznev, ecc. I COLCOS E GLI SVILUPPI DELLO STALINISMO Il problema della ristrutturazione del modo di vita agricolo dei 120 milioni di contadini russi (i 4/5 dell'intera popolazione), fu quello più importante, sul piano economico, dopo la rivoluzione d'Ottobre. Il nuovo regime socialista non era affatto in rottura con la mentalità, i fondamenti economici e il modo di vita contadino, tant'è vero che le prime aziende agricole -le "comuni", in cui venivano socializzati il lavoro, i mezzi produttivi e i lotti di terra individuali, mentre la ripartizione dei redditi si basava sul principio livellatore; gli "artel", in cui venivano socializzati i mezzi produttivi e il lavoro, mentre la casa con il lotto, i beni personali restavano in godimento individuale; le società per la lavorazione collettiva della terra, oppure associazioni cooperativistiche analoghe, in cui venivano socializzati soltanto il lavoro e alcuni mezzi produttivi durante i lavori stagionali- sorsero subito dopo la rivoluzione, e la maggior parte spontaneamente. Il carattere democratico di gestione dell'economia agricola era conforme agli interessi del contadinato (dall'elezione dei dirigenti sino all'adozione delle decisioni mediante assemblee generali). Perché dunque la collettivizzazione agricola si effettuò in maniera così assurda a cavallo degli anni '20 e '30? Le cause sono numerose. La principale è ben nota: la violazione dei princìpi dell'organizzazione dei colcos, come il libero consenso e l'iniziazione graduale dei contadini all'economia collettiva. Ma ve n'era un'altra, di ordine ideologico, non meno importante. Appena scoppiata la rivoluzione d'Ottobre, il governo sovietico, con Lenin in testa, aveva la ferma intenzione di finirla il più presto possibile con i rapporti mercantili-monetari. Già all'inizio del 1919, nel progetto del nuovo programma del partito, Lenin chiedeva di "continuare fermamente a sostituire il commercio con una distribuzione dei prodotti pianificata e organizzata a livello statale". L'intenzione era anche quella di sopprimere la moneta. Quando s'accorse dell'errore di voler passare immediatamente alla produzione e divisione comunista, Lenin affermò: "abbiamo subìto nella primavera del 1921 una sconfitta più grave di tutte quelle che ci inflissero i vari Kolciak, Denikin o Pilsudski". Fu questa crisi che determinò la svolta verso la NEP (1921-29). Con la Nuova Politica economica fu imposta una tassa sui beni alimentari (prima in natura, poi in denaro), pagata la quale il contadino aveva il diritto di vendere i suoi prodotti ai prezzi formati dalla domanda e dall'offerta. Quanto più il contadino produceva tanto più vendeva (una volta pagata l'imposta). Da solo copriva le spese e si autofinanziava orientandosi sul futuro incremento del prodotto vendibile e quindi sulla crescita della redditività. Nell'arco di pochi anni le campagne sovietiche ricostruirono il loro potenziale produttivo distrutto dalla I guerra mondiale e dalla guerra civile (dal 1914 al 1920) e l'agricoltura garantì al Paese i prodotti alimentari. La NEP trasse il Paese fuori dal dissesto economico, vinse l'inflazione, allontanò il pericolo della carestia, ristabilì la normale formazione dei prezzi e un sistema monetario stabile, creò infine una consistente riserva finanziaria e materiale per la successiva industrializzazione e il riequipaggiamento tecnico di tutti i settori dell'economia. Nel "comunismo di guerra" (causato dalla guerra civile e dall'intervento straniero: 1919-21), i contadini, dopo essersi trattenuti, per le proprie esigenze personali, una quantità rigidamente limitata di grano, dovevano consegnare allo Stato tutte le eccedenze (non solo di grano ma anche di altri prodotti) pagate a prezzi fissi, mentre lo Stato, a sua volta, distribuiva questi prodotti alle città, non in base ai risultati del lavoro, ma col metodo del razionamento fra chi era incluso in apposite liste o poteva esibire la tessera di socio di una cooperativa di consumo. Il partito allora era convinto che con un graduale aumento delle razioni si sarebbe potuto raggiungere il benessere collettivo. Ecco perché si pensò che il sistema dei prelevamenti avrebbe potuto continuare anche in tempo di pace. La flessibilità di Lenin, tuttavia, è sempre stata molto spiccata. Egli in pratica, rendendosi subito conto dell'errore commesso, aveva capito: che nei confronti del mondo agricolo ogni precipitazione non avrebbe fatto che allontanare i contadini dalle idee del socialismo e dalle innovazioni tecnico-scientifiche; che le cooperative disponevano di un meccanismo che avrebbe potuto colmare la lacuna fra il contenuto politico della rivoluzione d'Ottobre e le sue premesse socio-economiche e culturali; che la cooperazione poteva offrire a quei lavoratori psicologicamente non preparati al lavoro collettivo (in primo luogo ai contadini patriarcali) la possibilità di accedere ai metodi razionali di produzione (ovvero alle conoscenza agrotecniche e alle forme superiori di cooperazione). Il suo piano di cooperazione prevedeva la realizzazione d'una base materiale e tecnica per una cooperazione produttiva, per il miglioramento del livello culturale del contadino, senza il quale egli non avrebbe compreso i vantaggi di una partecipazione di massa alla cooperazione. La NEP infatti sembrava offrire le migliori garanzie. Grazie ad essa i contadini medi (non ricchi come i kulaki ma neppure così poveri d'essere costretti al bracciantato) erano diventati i principali protagonisti della vita agricola. Nel 1927 le aziende medie erano triplicate (61% contro il 20% del periodo pre-rivoluzionario). I contadini poveri erano di molto diminuiti. Larghe masse di agricoltori, proprio in virtù della NEP, avevano preso gusto a un lavoro libero e creativo. In quello stesso anno i colcos e i sovcos fornivano, insieme, solo il 2% delle derrate alimentari e il 7% dei prodotti da mercato. Non pochi di essi operavano in perdita. La quota complessiva delle aziende collettivizzate era allora inferiore all'1%. Anche il XV congresso (dicembre 1927) prevedeva che la transizione verso un'economia collettiva avvenisse in accordo con la volontà dei contadini. Ancora non si era prospettata la forzata costruzione di massa dei colcos e dei sovcos. E tuttavia, un'altra tendenza si fece strada. Se nella primavera del 1928 ci si propose di collettivizzare 1,1 milioni di aziende contadine familiari (4% circa del totale), nell'estate dello stesso anno si arrivò a 3 milioni (circa il 12%) e nel piano quinquennale approvato definitivamente nella primavera del '29, la cifra era già passata a 4-4,5 milioni (16-18%). Nello spazio di un solo anno il progetto del piano era cambiato diverse volte e nella sua variante definitiva gli indici erano quadruplicati. Nella primavera del '29 il numero delle aziende agricole che si erano associate per formare dei colcos aveva raggiunto la cifra prevista per la fine del quinquennio. Questo soprattutto nelle regioni cerealicole. Stalin cercò di giustificare il fatto dicendo alla conferenza degli agricoltori marxisti, nel dicembre 1929, che la prudenza con cui Engels si era espresso circa la possibilità d'instradare le piccole aziende contadine verso la collettivizzazione, non aveva ragione d'esistere in URSS, dove la terra non era più di proprietà privata. Stalin in pratica, che -come Trotski e Zinoviev prima di lui- utilizzava in funzione anti-NEP alcune espressioni di Lenin formulate nel periodo del "comunismo di guerra", faceva coincidere la nazionalizzazione della terra con la realizzazione del socialismo. Rinunciando alla proprietà privata, i contadini -a suo giudizio- dovevano acquisire automaticamente il senso della proprietà collettiva. Non solo, ma egli faceva coincidere "proprietà collettiva" con "proprietà statale", sottoponendo il regime dei colcos a regole non molto diverse da quelle del regime dei sovcos (le aziende statali vere e proprie). Al plenum del CC del partito (novembre 1929) si levarono le prime voci di protesta: la fretta e il dirigismo dei bolscevichi, nell'organizzare i colcos, non piacevano; meno che mai la parola d'ordine: "Chi non entra nei colcos è nemico del potere dei soviet". Si segnalava non solo che il principio del libero consenso era sistematicamente violato, ma anche che nessuna misura decisiva veniva presa contro gli abusi. Per tutta risposta, Stalin propose, all'inizio del 1930, di fissare dei tempi ancora più corti per la collettivizzazione, soprattutto nelle principali regioni cerealicole: autunno 1930-primavera 1931 per il Caucaso del Nord e il Basso e Medio Volga; autunno 1931-primavera 1932 per le altre regioni. Verso il 20 gennaio 1930 il 21,6% delle aziende contadine erano state collettivizzate, e il 52,7% verso il 20 febbraio. Quanto più lo strato essenziale del contadinato -cioè quello "medio", soprattutto nelle regioni non cerealicole e non russe- si opponeva a entrare nei colcos, tanto più si faceva ricorso a misure coercitive. Erano pochi i colcos organizzati sulla base del libero consenso. Perché dunque non si riuscì a materializzare la dottrina leniniana secondo cui il socialismo doveva anzitutto essere una società di "cooperatori civilizzati"? Si può dire che da una parte, a causa del suo debole livello di civilizzazione e di sviluppo industriale, nonché del suo isolamento internazionale, la Russia non poteva accedere al socialismo che imboccando una via lunga e difficile (invece di lasciare interagire democraticamente la grande produzione statale con le cooperative e le aziende private si preferì puntare -soprattutto con lo stalinismo- sul controllo statale diretto della produzione e della distribuzione); dall'altra le oggettive condizioni del Paese (come ad es. la mancanza di cultura, di coscienza professionale, di manodopera qualificata) hanno potuto facilmente indurre i comunisti massimalisti (l'ala gauchiste del bolscevismo) ad accelerare il progresso in Russia, mirando all'egualitarismo totale, alla distribuzione delle ricchezze altrui, alla crudeltà nei confronti dei proprietari... Masse ignoranti aspiravano a soluzioni semplicistiche e unilaterali, a prescindere dalla loro riuscita economica. Difficilmente si sarebbe potuta sopportare l'idea di un'autonomia economica dell'azienda privata, in una Russia appena uscita dalla zarismo e ancora sconvolta dall'interventismo straniero e dalla guerra civile. Per tenere sotto controllo un Paese del genere (le cui enormi dimensioni peraltro non vanno sottovalutate) si preferì scegliere la strada del burocratismo. Già nel 1920 il numero dei funzionari a Mosca e a Pietroburgo superava, rispettivamente, del 46% e del 50% quello del 1917. Nel '26 l'apparato statale contava 832.000 funzionari (contro i 432.000 del pre-Ottobre). Nel '27 erano aumentati ancora di 49.000 unità. Alcuni dipartimenti spendevano per mantenere l'apparato amministrativo fino al 40% del fondo salariale destinato agli operai. A partire dalla seconda metà degli anni '20, partito e Stato si erano posti di fronte a questa alternativa: o ridurre l'apparato amministrativo comprimendone le spese, oppure sfruttare la campagna a beneficio della città. Felix Dzerjinski, ad es., era favorevole alla prima alternativa e contestava la posizione di Trotski, favorevole alla seconda. Dzerjinski era convinto che a spese dell'agricoltura non ci sarebbe potuta essere un'efficiente industrializzazione. Da notare, peraltro, che la strada della burocratizzazione era già stata ampiamente battuta nella Russia zarista. Nelle grandi imprese industriali dello Stato, a differenza di quelle private, non si conoscevano affatto i metodi di gestione capitalistici. Qui si ricevevano gli ordini di costruire un certo quantitativo di merci e si eseguiva senza discutere. I costi di produzione non interessavano a nessuno. Il prezzo veniva determinato a posteriori, alla fine dell'intero ciclo produttivo. Quanto più alti erano i costi, tanto maggiore era l'utile dell'impresa. In genere si aggiungeva ai costi di produzione un 15% circa, di cui il 10% finiva nelle tasche dei dirigenti sotto forma di premi. Questo sistema ovviamente non produceva alcun incentivo economico alla crescita dell'efficienza del settore statale. Le cause di ciò non erano economiche ma politiche: l'autocrazia zarista, che esprimeva gli interessi della nobiltà semifeudale, era timorosa del rafforzamento politico ed economico della borghesia. I membri più oscurantisti della Duma (Parlamento) e i ministri reazionari insistevano per lo sviluppo delle aziende statali come contrappeso all'economia capitalistica. Inoltre, pensavano così di contenere i prezzi e regolare i profitti delle imprese private, le quali però fabbricavano i loro prodotti più rapidamente, meglio e a minor prezzo. Nelle fabbriche dello Stato, che potevano contare su commesse garantite, nessuno rispondeva della puntualità delle consegne, né della qualità dei prodotti. Vigeva insomma il principio: "non importa se le aziende pubbliche sono scadenti, in compenso garantiscono l'esecuzione degli ordini". Lenin, nello scritto Riusciranno i bolscevichi a mantenere il potere, affermava che questo apparato statale doveva essere distrutto, mentre quello monopolistico privato andava sottratto ai capitalisti e affidato ai soviet. Stalin invece preferì tornare al sistema semifeudale pre-rivoluzionario perché capì che era più consono ai suoi metodi autoritari e amministrativi. Non fu neppure necessario nazionalizzare le imprese statali zariste, bastò affidarle ai nuovi direttori, mentre alle imprese private s'impose una gestione extra-economica. La gioventù ebbe un ruolo assai attivo nell'organizzare il regime colcosiano. Più di 5 milioni di giovani contadini entrarono nei colcos verso il 1930. Si trattava dello strato sociale rurale più istruito e più disponibile a creare nuove forme di gestione della produzione agricola. Ma, nonostante questo, nell'insieme del Paese la violenza, nei confronti dei contadini medi, era lo strumento principale per accelerare la collettivizzazione. La conseguenza di ciò fu drammatica: in numerose regioni, già a partire dal gennaio 1930, i contadini cominciarono a ritirarsi dai colcos (Medio Volga, Regione centrale delle Terre nere, Siberia), rompendo l'alleanza con gli operai. Dal gennaio fino alla metà di marzo vi furono circa 1700 rivolte anticolcosiane di massa (senza contare l'Ucraina), che avevano coinvolto più di 550.000 contadini. Circa 50.000 lettere di protesta, nell'inverno e nella primavera del 1930, vennero indirizzate a Stalin; altre 85.000 a M. Kalinin, presidente del Soviet supremo. L'articolo pubblicato da Stalin, Vertigine da successo, scaricava tutte le responsabilità degli abusi sulle amministrazioni locali, le quali, in verità, non facevano che applicare direttive venute dall'alto. Peraltro, le difficoltà erano anche oggettive: troppo basso era il livello della base materiale e tecnica dell'agricoltura, prima della collettivizzazione totale. Solo 1/4 dei colcos disponeva di trattori. Nel '29 essi non avevano lavorato che l'1% dei campi. Anche le altre forme di cooperazione agricola erano assai deboli. Lo stalinismo cominciò ad accusare l'ala buchariniana di "disfattismo" e "sabotaggio". Bucharin, in un primo momento, fu dell'avviso che la principale forma di socializzazione nelle campagne fosse la cooperazione del commercio. Egli riteneva che il sistema delle organizzazioni cooperative -quelle dei contadini poveri (colcos), dei contadini medi (cooperative di rifornimento, smercio e credito) e dei kulaki (contadini ricchi che disponevano di bracciantato agricolo)- avrebbe finito per integrarsi nelle relazioni economiche socialiste. Tuttavia, quando prese piede il movimento di massa della collettivizzazione agricola, Bucharin, con i suoi sostenitori (A. Rykov e M. Tomski), rinunciò a insistere sulle sue originarie convinzioni. Non rinunciò però Stalin ad accusarlo di "deviazionismo di destra", tanto che Bucharin venne escluso dall'ufficio politico. Intanto la resistenza accanita dei kulaki si trasformò in un movimento insurrezionale e degenerò in un sanguinoso terrore. Essi avvertirono con estrema chiarezza che se non avessero reagito, la loro fine sarebbe stata segnata. Già nel 1918 si erano visti confiscare 50 su 80 milioni di ettari: il peso di questo strato di contadini ricchi era diminuito da due a tre volte. Eppure Lenin avrebbe preferito una strada meno traumatica: "l'espropriazione dei kulaki -diceva- non può in alcun modo costituire il compito immediato del proletariato vittorioso, poiché le condizioni materiali, in particolari tecniche, e quelle sociali della collettivizzazione di queste aziende sono ancora separate". Prima dell'inizio della collettivizzazione totale, lo Stato sovietico praticava una politica mirante a limitare la propensione dei kulaki allo sfruttamento della manodopera, senza però chiudere loro l'accesso alla cooperazione e ai colcos. Verso il 1927 questo strato di possidenti formava circa il 4% del totale delle aziende (circa un milione). Tuttavia essi disponevano del 15% di tutte le terre da semina, l'11,2% del bestiame e offrivano, in media, una produzione superiore di 10 volte a quella dei contadini poveri. In queste condizioni, il potere stalinista non poteva vedere di buon occhio la concentrazione dei mezzi produttivi nelle mani dei kulaki, o il loro sfruttamento del lavoro salariato agricolo, o anche solo un aumento numerico delle loro file. L'energica eliminazione economica e l'isolamento politico dei kulaki esasperò la lotta di classe nelle campagne e rafforzò la resistenza degli elementi capitalistici. Soltanto nel 1929 ebbero luogo più di 1300 rivolte di massa. Circa 10.000 comunisti, militanti rurali e colcosiani -quasi 10 volte di più che dal 1o gennaio 1926 al 1o settembre 1927- caddero vittime della lotta kulaka. La cosiddetta "dekulakizzazione" fu talmente violenta che vennero espropriati persino i contadini medi: circa 600.000 famiglie nel solo biennio '30-'31. Di queste più di 240.000 vennero deportate nel Nord, negli Urali, in Siberia e nel Kazakhstan, dove cominciarono a lavorare su terre incolte, nelle foreste, oppure nell'industria. Da 200.000 a 250.000 kulaki preferirono vendere o abbandonare i loro beni, andando a vivere nelle città, per lavorare nei grandi cantieri edili o nei centri industriali. La sottocommissione diretta dal segretario regionale del partito di Mosca, K. Bauman, aveva proposto di ammettere nei colcos la categoria più numerosa dei kulaki, quella disponibile a sottomettersi e a far prova di lealtà verso il potere dei soviet, concedendo ad essa un periodo di tempo dai 3 ai 5 anni, e utilizzando i membri delle loro famiglie (circa 5 milioni di persone) per svolgere lavori socialmente utili. Ma questa proposta non venne neppure presa in considerazione dalla commissione del CC, presieduta da V. Molotov. In quanto classe sociale, i kulaki cessarono di esistere verso la fine del 1932. Tuttavia, benché il tasso di collettivizzazione si fosse elevato al 61,5% nel 1932, contro il 23,6% del 1o giugno 1930, i colcos si mostravano assai deboli sul piano economico-organizzativo. La raccolta cerealicola globale diminuì di quasi 140 milioni di quintali in rapporto al 1930 (100 milioni in meno di quintali rispetto al 1913). Mentre il patrimonio zootecnico, verso il 1933, diminuì più di due volte rispetto al 1929. Stalin spiegò questa caduta della produttività con la riorganizzazione dell'agricoltura, facendola passare per una legge oggettiva dello sviluppo. In realtà le ragioni andavano cercate nella violazione del principio dell'incentivazione materiale dei colcos e dei sovcos, nonché nella carente organizzazione del lavoro e della produzione (si pensi ad es. alla forzata socializzazione dei bovini e degli ovini). Alcuni dirigenti in vista del partito e del governo, soprattutto S. Orgionikidze e Y. Rudzutak, si pronunciarono contro gli abusi. Il noto scrittore, M. Sholokov, fece sapere a Stalin che per realizzare il piano, il distretto di Vechenski (in cui egli viveva) doveva consegnare allo Stato circa 5000 vacche, dopodiché non gliene restava che una per ogni 5-6 aziende. Nessuno naturalmente voleva vendere la sua ultima vacca. "Sin dai primi giorni -scriveva Sholokov- i colcosiani opposero in tutti i colcos un'accanita resistenza: essi cominciarono col rinchiudere le loro vacche nelle stalle, a tenerle costantemente sotto chiave, ad armarsi di bastoni per resistere ai soprusi di chi veniva a requisirle...". La situazione fu particolarmente critica nel 1932-prima metà del '33: l'Ucraina, il Caucaso del Nord, la regione del Volga, il Kazakhstan, le regioni meridionali delle Terre nere, gli Urali e parzialmente la Siberia occidentale erano alla fame. Ciò dipendeva tanto dalla siccità quanto dall'abbandono dei contadini di migliaia di ettari di terra, prima ancora che si facessero i raccolti. L'organizzazione dello stoccaggio del grano era pessima. Mentre il volume della raccolta cerealicola globale diminuiva, i piani degli ammassi aumentavano le pretese. Nel 1932 lo stoccaggio del grano fu, in totale, superiore del 32,8% a quello del 1930. La fame era praticamente assicurata, nell'immediato, anche perché si stoccava sia il grano commerciale che le sementi e il foraggio. Benché una fame senza precedenti avesse coinvolto -a detta dello stesso Stalin- circa 25-30 milioni di persone, ben 18 milioni di quintali di cereali furono destinati all'export, nel 1932, per poter finanziare lo sviluppo industriale. Un sacrificio così grande ai contadini non era stato chiesto neppure ai tempi dello zarismo. Le responsabilità dello stalinismo nei confronti dell'agricoltura sono state enormi. Gli abusi, le violazioni della legalità socialista, le repressioni di massa furono innumerevoli. Estremamente severa fu la legge sulla tutela della proprietà socialista, redatta dallo stesso Stalin e ratificata il 7.VIII.1932 dal governo. Essa faceva obbligo "di applicare, onde punire gli autori di furto di beni colcosiani e cooperativi, l'estrema misura di difesa sociale: la pena di morte per fucilazione, con confisca di tutti i beni, ovvero la commutazione della pena, in caso di circostanze attenuanti, con la privazione della libertà per un periodo di almeno 10 anni, con confisca di tutti i beni". Dopo neanche 5 mesi dall'applicazione di tale legge, furono condannate circa 55.000 persone. La situazione economica non migliorò che durante il secondo piano quinquennale (1933-37), in quanto si modificarono taluni aspetti organizzativi ed economici dei colcos e dei sovcos, incluse le norme di stoccaggio del grano. Determinate forniture obbligatorie di grano, equivalenti, in sostanza, a una tassa, vennero introdotte nel 1933. Ma questa misura non creò gli stimoli materiali necessari allo sviluppo produttivo, poiché vennero conservate le quote elevate delle precedenti forniture per ettaro e il basso prezzo di vendita del grano. La collettivizzazione agricola fu terminata nel 1937: 243.000 colcos raggruppavano il 93% delle aziende contadine e il 99% delle superfici seminate. La produzione cerealicola globale, per anno, fu in media di 72,9 milioni di tonnellate (contro i 69,3 milioni nel 1924-28). Particolarmente buono fu il raccolto del 1937: 97,4 milioni di tonnellate. Aumentò pure di due volte la produzione della barbabietola da zucchero e di tre volte quella del cotone grezzo. Gli allevamenti bovini, suini, ovini e caprini crebbero, rispettivamente, di 1,5, 2,6, e 1,8 volte. I colcos e i sovcos offrivano il 72,2% di tutta la produzione agricola: le aziende ausiliarie dei colcosiani (operai e impiegati) fornivano il 26,3%, mentre quelle individuali solo l'1,5%. Durante la II guerra mondiale furono appunto i colcos che sostennero il peso maggiore dell'approvvigionamento alimentare dell'esercito, della popolazione delle città e degli operai dei centri industriali. Tuttavia, proprio a partire dagli anni '40, nuovi tentativi furono intrapresi per rafforzare ulteriormente il centralismo statale, al fine di realizzare una progressiva trasformazione dei colcos in sovcos. I difetti del sistema amministrativo nei riguardi delle campagne si fecero particolarmente sentire nel dopoguerra. Nel 1953 il plenum del CC del Pcus decise di aumentare di alcune volte i prezzi all'ingrosso dei principali prodotti agricoli, cancellò gli enormi debiti dei colcos e dei sovcos, ridusse le imposte e aumentò la retribuzione del lavoro. Questa nuova linea fu seguita dal 1954 al 1956, conseguendo certi miglioramenti. Poi però nel 1957 venne bloccata la crescita della remunerazione del lavoro, così la redditività degli investimenti e i ritmi di crescita della produzione agricola globale si ridussero di due volte. I metodi amministrativi tornarono in auge sino al 1965, allorché il Pcus emanò la direttiva sulle "Misure urgenti per l'ulteriore sviluppo dell'agricoltura". Di nuovo vennero annullati i debiti dei colcos e sovcos, aumentati bruscamente i prezzi all'ingrosso dei principali prodotti, ampliati i diritti delle aziende nella programmazione della loro attività, fu promesso che il piano quinquennale sarebbe stato stabile e ridotto. Il governo sperava così che tale piano sarebbe stato superato notevolmente, dato che per pagare il grano eccedente, che il colcos vendeva allo Stato, fu stabilito un prezzo maggiorato del 50%. L'economista allora più favorevole al "calcolo commerciale" fu Victor Novozilov (1892-1970), che capì perfettamente come la strategia dei pianificatori non fosse in grado di sostituire quella dei consumatori, senza rischiare di produrre beni inutili. Tuttavia, anche questo esperimento fallì. Per la semplice ragione che le aziende non rispettarono le consegne. Esse infatti preferirono consumare i loro prodotti piuttosto che ricevere dallo Stato una moneta con la quale non avevano nulla da comprare. Di qui il ritorno alla pratica dei prelevamenti, mentre gli obblighi imposti ai contadini venivano aggiornati quasi ogni settimana. Le consegne libere furono abolite e l'aumento dei prezzi all'ingrosso fu ridotto gradualmente a zero con la crescita di quelli delle macchine agricole, dei concimi, dei materiali da costruzione e dei combustibili.

 
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